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Morning Star Alliance

CODE 2-18: SURREAL - STEP TWO -

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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti, persone o organizzazioni realmente esistiti o esistenti è puramente casuale. Nonostante la storia sia ambientata in luoghi reali, questi sono stati spesso modificati e riadattati per esigenze narrative.

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Il meteorite era caduto sull’isola Tiberina nell’inverno del 2005, quando erano ormai trascorsi più di due anni dall’inizio dell’occupazione sovietica di Roma. I primi soldati accorsi sul sito dello schianto avevano visto il vecchio ospedale crollare su se stesso, avvolto dalle fiamme generate dall’impatto della roccia aliena sul suolo terrestre, ed erano poi stati testimoni del ritrovamento all’interno del cratere, dopo che l’incendio era stato domato. In profondità, nelle fondamenta dell’edificio devastato e incenerito, i rilevatori ambientali della squadra esplorativa di decontaminazione avevano fatto una scoperta sconvolgente: un ammasso di tessuti viventi estranei a qualunque animale o vegetale si fosse mai visto e catalogato. Si trattava di una vera e propria forma di vita aliena, un organismo primitivo e dalle modeste capacità cognitive, che in un certo senso aveva usato quel meteorite di roccia extraterrestre per viaggiare attraverso lo spazio. Aveva le dimensioni di una grossa lucertola, e come la lucertola possedeva un incredibile potere rigenerativo, anche se vastamente superiore a quello del piccolo rettile: se un arto o una qualsiasi altra parte del corpo venivano recisi, questi ricrescevano nel giro di pochi istanti. Era stato grazie a quella sua capacità di estrema resistenza ambientale che la forma di vita era sopravvissuta prima al viaggio attraverso il profondo vuoto siderale, poi all’ingresso nell’atmosfera terrestre, e infine allo schianto al suolo. Informato della scoperta, il Cremlino aveva contattato i più illustri astrofisici e genetisti di tutto il Paese, affidando loro la creatura delle stelle affinché trovassero un sistema per sfruttare il suo straordinario potere, a vantaggio della causa sovietica. Era stato scelto un sito adeguato all’allestimento di un laboratorio consono a quel tipo di avanzate, sebbene rischiose, ricerche: un complesso scavato nel profondo di una solida montagna e abbandonato da tempo. In passato era stato il fiore all’occhiello della ricerca scientifica italiana ed europea, ma in quel momento non era altro che una caverna buia, tetra e polverosa.


I ricercatori sovietici avevano potuto contare sul totale supporto di Mosca per rimettere in sesto i locali, e perfino per ampliarli. Le aspettative riguardanti i risultati di quel progetto erano state altissime fin dal primo istante, la creatura delle stelle era stata accolta come la chiave di volta nella risoluzione del sanguinoso conflitto contro l’odiato nemico occidentale. Rinchiusi nelle viscere di quella montagna, i luminari russi avevano avuto la libertà di condurre sull'organismo alieno tutti gli esperimenti che la loro fantasia poteva concepire. Mantenuta in regime di animazione vitale sospesa, la creatura era stata studiata, fatta crescere, potenziata fino all’inverosimile e incrociata con il DNA di creature terrestri, in special modo quello dell’uomo. Gli scienziati avevano tentato con ogni mezzo di dare vita a un’arma invincibile, ma dopo cinque anni di esperimenti estensivi ancora non erano riusciti a consegnare a Mosca ciò che avevano promesso quando si era trattato di richiedere il finanziamento del progetto. E le alte cariche del Partito si erano stancate di attendere. Quella era stata l’occasione buona per Ivan Grošcev di farsi avanti. Ufficialmente non era mai stato riconosciuto come alleato dell’Unione Sovietica; il danaroso commerciante d’armi ceceno noto come Harlequin era sempre stato considerato troppo individualista e inaffidabile per essere trattato da vero tovarish. Ma quando si era messo in contatto con il Cremlino per annunciare che, dietro un lauto compenso, sarebbe stato in grado di offrire la spinta finale nella realizzazione di quel progetto, gli alti funzionari del partito e delle Forze Armate nemmeno si erano preoccupati di come fosse riuscito a ottenere informazioni su ciò che stava accadendo nel laboratorio segreto. Si erano accordati con il contrabbandiere d’armi quel giorno stesso.


SURREAL - STEP TWO -



Prologo

28 marzo 2010, ore 17:21 locali - L’Aquila, Italia Il piccolo convoglio composto da tre fuoristrada UAZ Patriot neri avanzava a velocità ridotta per le vie della città semideserta. Attraversò un checkpoint dell’Esercito russo senza perdere troppo tempo: bastò che l’uomo al volante del primo veicolo mostrasse al soldato le sue credenziali di ufficiale dell’agenzia d’intelligence militare GRU, e questi gli diede il via libera scattando sull’attenti come una molla. I soldati impegnati a sorvegliare i punti di controllo erano l’unico segno di vita in tutta la città, assieme a quelli, fuori servizio, che gironzolavano per le strade fumando sigarette e chiacchierando fra di loro. Più i fuoristrada neri si avvicinavano al centro dell’Aquila, più il numero di militari sovietici aumentava. Quando il convoglio giunse di fronte a una palazzina a tre piani usata come quartier generale del distaccamento, trovò parecchi uomini di guardia intorno all’edificio, e dall’altra parte della strada alcuni soldati in pantaloni mimetici e magliette telnyashka a righe, intenti a caricare casse di munizioni su alcuni camion. Dal primo e dall’ultimo Patriot della carovana smontarono un totale di otto agenti del GRU, tutti in ottima forma fisica. Vestivano abiti casual, scarponcini da montagna e giacche leggere o di pelle. Sarebbero quasi potuti passare per dei civili, non fosse stato per le fondine da pistola alla cintura e le mitragliette SR-2M Veresk che alcuni di loro portavano a tracolla. A bordo del veicolo di mezzo, l’uomo seduto sul sedile anteriore del passeggero scambiò con loro brevi messaggi via radio.

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Il comandante del distaccamento operativo del GRU dimostrava almeno quarantacinque anni, aveva occhi glaciali e la testa rasata. Si era presentato con il nome Ulanovsky, ma poteva anche trattarsi di uno pseudonimo. «Il perimetro è sicuro, potete scendere.» Disse, rivolgendosi ai due occupanti del divanetto posteriore con un inglese del tutto privo di accento russo, tale e quale a quello di un madrelingua. I passeggeri scesero dal fuoristrada: un occidentale alto e atletico, e un piccoletto asiatico che stringeva in grembo una valigetta metallica. Capelli molto corti e ingrigiti dall’età, fronte spaziosa, occhialetti da vista dalla montatura spessa. In mezzo a tutti quei soldati in uniforme e ai super-addestrati agenti operativi d’intelligence, appariva del tutto fuori posto. «Da questa parte.» Proseguì Ulanovsky, incamminandosi verso l’ingresso del palazzo. I due stranieri lo seguirono, come anche un paio di agenti. Gli altri rimasero fuori a tenere sotto controllo il perimetro attorno ai veicoli. «Dov’è?» Domandò Ulanovsky in lingua russa al giovane tenente in uniforme che era venuto ad accoglierlo. «Vi sta aspettando, compagno colonnello.» Rispose l’ufficiale inferiore, scattando sull’attenti. «Prego, da questa parte.» Il colonnello fece segno a i suoi agenti di restare lì all’ingresso, poi assieme ai due stranieri seguì il tenente lungo il corridoio. Giunti di fronte a una doppia porta in legno, l’ufficiale l’aprì e si fece da parte per far passare i tre visitatori. Quando ebbero varcato l’ingresso dell’ampia sala adibita a ufficio, il giovane tenente uscì e richiuse le porte alle sue spalle. Ad attenderli all’interno del locale c’era un ufficiale superiore russo in uniforme, senza dubbio il comandante dell’installazione militare. Era in compagnia di un civile vestito con abiti eleganti e piuttosto vistosi, occhi chiari e capelli castani pettinati all’indietro, e anche lui a prima vista sembrava fuori posto in quell’ambiente così marziale. Sarebbe stato molto più sensato imbattersi in un tipo del genere presso qualche locale notturno alla moda, ma in

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realtà rappresentava proprio il motivo per cui quegli uomini dalle storie personali così diverse l’una dall’altra avevano finito per ritrovarsi tutti quanti nella stessa stanza. «Ecco i miei ospiti giunti da lontano, puntuali come un orologio svizzero.» Esordì, accogliendo i nuovi arrivati con un sorriso malizioso e controllando l’ora per mettere in mostra il suo pacchiano Roger Dubuis da polso. Il civile e il comandante della base erano seduti attorno al tavolo del salottino dell’ufficio, in compagnia di una bottiglia di vodka pregiata e di alcuni bicchierini di cristallo. L’ufficiale in uniforme salutò gli ospiti alzando un bicchiere in loro onore e vuotandolo del contenuto in un sorso. «È stato un lungo viaggio, vero?» Domandò il civile ai due stranieri. Fu l’occidentale a rispondergli, un americano dai capelli e dagli occhi scuri, con la mascella larga coperta da una barba di tre o quattro giorni. «Già, e spero che ne sia valsa la pena. Così tu saresti Harlequin?» La sua, più che una domanda, era una constatazione. «Per servirti. E tu devi essere Snow. È un piacere incontrarti di persona.» L’ormai ex capitano di corvetta Alex Hunt non rispose, si limitò a fissare l’interlocutore con uno sguardo diffidente. Tra i due non ci fu nessuna stretta di mano. «Ah, ma che ospite tremendo che sono!» Riprese Harlequin, divertito dall’atteggiamento da duro sfoggiato dall’americano. «Non vi ho nemmeno chiesto se gradite un bicchiere di benvenuto.» «No.» Rispose secco il colonnello del GRU. «Preferisco il bourbon.» Anche Snow declinò l’offerta. Il sudcoreano si limitò a scuotere il capo in senso di diniego. «Neanche lei, dottor Choi? Per evitare di bruciare qualcuna delle sue preziosissime cellule cerebrali, immagino... E mi dica, i risultati delle ricerche sul progetto americano Genoma sono tutti lì dentro?» Gli domandò, lanciando un’occhiata bramosa alla

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valigetta metallica a combinazione che il dottor Sung-Hyo Choi stringeva a sé con apprensione. «Sì... Sono memorizzati su uno speciale disco di memoria criptato. Saranno suoi non appena avrò preso possesso dei miei nuovi laboratori.» «E non appena quei preziosi dati saranno miei, diverranno automaticamente anche vostri, come da accordi.» Replicò Harlequin, rivolto all’impassibile colonnello Ulanovsky. «Si tratterà di un bel balzo in avanti per i vostri studi sul potenziamento umano, vero?» Il militare non commentò, ma fissò infastidito il trafficante d’armi. Non immaginava che Harlequin avesse accesso a informazioni protette da un tale livello di riservatezza. «Tranquillo colonnello, so tutto quello che c’è da sapere riguardo ciò che state combinando sotto quella montagna... Snow, ci hai davvero fatto un grosso favore, portando fin qui il dottor Choi. Muoio dalla curiosità, in che modo ci sei riuscito?» «Agendo in fretta.» Rispose l’ex SEAL. «Dopo aver appreso i dettagli dalle due ragazze che mi hai mandato, sono andato quella notte stessa a prelevare Sung-Hyo dal suo laboratorio. E ora, dopo un mezzo giro del mondo, eccoci qua.» «Ma che razza di storia deludente è mai questa, non ci hai raccontato quasi nulla.» Protestò il trafficante. «Devo spiegarti tutto per filo e per segno?» «A parte il fatto che adoro le storie avventurose, devo capire come ti sei mosso. Devo rendermi conto di quanto vali come agente, se sei riuscito ad arrivare fin qui grazie alla fortuna o alla tua abilità. Consideralo un test d’ingresso, un colloquio di lavoro.» Concluse Halequin. Sbuffando, Snow riprese la narrazione. «Siccome all’inizio non eravamo ancora ricercati, siamo saltati sul primo aereo per la Florida, e da lì abbiamo raggiunto le isole Bahamas, una tappa intermedia neutrale. A questo punto mi sono adoperato per coprire le nostre tracce. Ho fatto in modo di lasciare intendere che avremmo proseguito verso il Sudamerica, in Brasile per la precisione, mentre invece con un idrovolante

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preso in prestito, abbiamo raggiunto L’Avana, dove ho potuto mettermi in contatto con i vostri servizi segreti. Lì ci hanno messo a disposizione un grosso Ilyushin della Cubana per affrontare l’interminabile trasvolata atlantica che ci ha portato fino in Algeria, dove abbiamo incontrato Ulanovsky e i suoi uomini. Che infine ci hanno portati qui in Italia. Come ho detto... è stato un fottuto mezzo giro del cazzo intorno al mondo.» «Davvero sbalorditivo! Allora direi che è giunto il momento di concludere questo viaggio, ormai mancano soltanto pochi chilometri alla meta finale.» Il contrabbandiere ceceno si versò un ultimo drink, lo bevve tutto d’un fiato e scagliò contro un muro il bicchierino di cristallo, mandandolo in frantumi. «Comandante, la ringrazio per la sua disponibilità, è stato un piacere fare affari con lei.» Disse poi, rivolto all’ufficiale in uniforme seduto al tavolino. «Può tenersi la bottiglia, assieme alla cassa che le farò presto recapitare come omaggio per la sua gentile ospitalità.» «Lei è un uomo molto generoso, compagno Harlequin...» Rispose l’ufficiale, alzando al cielo per l’ennesima volta il suo bicchierino di vodka. Più che alticcio, il russo sembrava proprio ubriaco fradicio. All’esterno della palazzina un mastodontico blindato leggero Kombat T-98 bianco, il trasporto personale di Harlequin, si era accodato ai tre fuoristrada del GRU. Il contrabbandiere amava viaggiare con stile, per i suoi spostamenti su strada si era procurato una piccola flotta di quei solidi SUV blindati prodotti per il mercato civile, da impiegare secondo l’occorrenza. Vicini a quel Kombat antiproiettile, antimina e antisfondamento, i Patriot del GRU sembravano quasi dei giocattolini. «Per caso qualcuno gradisce un passaggio?» Domandò il ceceno, spalancando uno sportello per ostentare gli interni del suo mezzo: pelle pregiata, radica e monitor LCD.

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«Nessun cambiamento di strategia.» Replicò secco Ulanovsky. «Noi procederemo con la stessa disposizione precedente, tu se vuoi puoi venirci dietro.» «Certo che vi seguirò, sono solito tenere sotto stretta sorveglianza tutti i miei investimenti più importanti.» Harlequin cominciava ad averne abbastanza del tono freddo e sgarbato del colonnello del GRU, il ceceno era abituato a essere temuto e riverito tanto dai suoi leccapiedi quanto dai suoi soci in affari. Si accomodò sul confortevole sedile posteriore del suo salotto blindato viaggiante e ordinò all’autista di seguire gli altri fuoristrada. La loro destinazione non era lontana, distava soltanto una quindicina di chilometri in direzione nord-est. Si lasciarono alle spalle la città in rovina e i suoi checkpoint militarizzati, per immettersi nel viadotto di un’autostrada logorata dagli anni di mancata manutenzione. Giunsero in vista di un paesino chiamato Assergi, ma proseguirono oltre. Il viadotto non faceva parte delle strade del paese, costeggiava Assergi da lontano, fino a imboccare una larga galleria autostradale, buia e priva di illuminazione fissa. In realtà c’erano due gallerie, una per ciascun senso di marcia, ma loro entrarono lo stesso nel tunnel di sinistra. La rete autostradale non era più utilizzata con regolarità, difatti, a parte i loro SUV, in quel momento era deserta. Col passare del tempo l’altro tunnel era stato abbandonato, mentre quello di sinistra era diventato una strada a doppio senso di marcia. Dopo quattro o cinque minuti di galleria, alla loro sinistra comparve una biforcazione. Si trattava del tunnel di uscita dal complesso sotterraneo di laboratori che costituiva la loro destinazione, il suo ingresso era un tunnel gemello situato più avanti. Dopo averlo raggiunto, i fuoristrada effettuarono una curva a gomito verso la loro sinistra per immettersi nel passaggio. Quella era l’unica strada percorribile, dato che alcune centinaia di metri più in là il tunnel principale che continuava verso Teramo era

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ingombro da numerose automobili, abbandonate da tempo, e da altri detriti. «Ma che razza di posto è mai questo?» Domandò Snow, meravigliato. «È il complesso dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso. Un luogo unico nel suo genere.» Gli rispose Sung-Hyo Choi, non senza una certa emozione nel suo tono di voce. «Un tempo sì, il nome era quello.» Lo corresse Ulanovsky. «Adesso è l’Opytnoe Konstructorskoe Bjuro 427 dell’Istituto di Biologia Molecolare Engelhardt, Accademia Sovietica delle Scienze.» «Qualcuno dei vecchi esperimenti di fisica particellare è ancora in corso?» Domandò lo scienziato. «Nessuno. I laboratori sono tutti per lei e per il suo staff, compagno professore.» Un soldato uscì dalla guardiola per controllare l’identità dei visitatori, mentre i fuoristrada si fermavano incolonnati di fronte a una sbarra abbassata. Più avanti, il cunicolo era sigillato da una spessa porta di metallo lucido che occupava il tunnel quasi per intero; la dicitura “OKB427” era impressa a caratteri cubitali rossi sulla superficie del portale. Quando la sentinella segnalò il via libera al commilitone rimasto nel cubicolo della sicurezza, la sbarra cominciò ad alzarsi e il portale metallico ad aprirsi. Si divise in più segmenti che presero a ripiegarsi a fisarmonica, accompagnati da stridii metallici e dal ronzare del motore elettrico del meccanismo di apertura. I veicoli avanzarono lungo il ben illuminato tunnel logistico che fungeva da anticamera ai laboratori veri e propri, seguendo le indicazioni di alcune guardie vestite con mimetiche, giubbetti tattici ed elmetti rossi da cantiere. La colonna arrestò il suo lento incedere poco più avanti, in mezzo a enormi casse da imballaggio, bombole di gas alte quanto una persona e altri materiali di approvvigionamento stoccati nel magazzino. Proseguendo lungo la galleria logistica ci si sarebbe ricongiunti al tunnel autostradale, tramite il primo raccordo che

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Snow e Choi avevano individuato poco prima di raggiungere l’ingresso. Gli occupanti dei veicoli smontarono, e come al solito gli agenti del GRU rimasero attorno ai loro Patriot per tenere sotto controllo la situazione; stessa cosa fece il fidato autista di Harlequin con il suo Kombat. Quello che i quattro “VIP” avrebbero visto all’interno delle stanze sotterranee non era per i loro occhi. Da un secondo portone metallico fece il suo ingresso un uomo piuttosto in là con gli anni, barba ingrigita, elmetto da cantiere sottobraccio e con indosso un camice bianco. Al suo fianco camminava un tarchiato ufficiale russo in mimetica ed elmetto rosso, il comandante della sicurezza interna. Il primo dei due prese la parola per dare una sorta di benvenuto ai nuovi arrivati. «L’Accademia ci ha avvertiti del vostro arrivo, anche se con un margine di preavviso praticamente nullo.» «Questioni di sicurezza, compagno professore.» Gli rispose Ulanovsky, come d’abitudine in tono rude e distaccato. L’uomo con il camice, che fino a poche ore prima era stato il responsabile del progetto, rivolse al colonnello del GRU un’occhiata altrettanto fredda. Stesso trattamento che riservò a Choi. Era evidente che non gli andasse a genio di essere stato scalzato da quella posizione di grande prestigio proprio dall’ultimo arrivato, che oltretutto non era nemmeno un russo. «E questi individui chi sarebbero?» Domandò lo scienziato, accennando a Snow e Harlequin. «Altissimi profili di sicurezza, poi conduce nel mi... nel nostro laboratorio dei perfetti estranei?» Anche se non aveva idea di chi fossero l’americano e il ceceno, sarebbe stato evidente anche per un cieco che non si trattava di una coppia di luminari di genetica e xenobiologia. «La mia Agenzia ha autorizzato la loro presenza.» Confermò Ulanovsky, come se bastasse a spiegare tutta la faccenda. Lo scienziato rinunciò a ogni tentativo di comunicazione con il colonnello e si decise infine a rivolgere la parola al dottor Choi. Più di tutti era della sua presenza che avrebbe fatto volentieri a meno, non aveva nessuna intenzione di rendere al coreano la vita facile.

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«Io devo tornare a occuparmi del mio lavoro, ma lei può farsi accompagnare nei suoi alloggi e restarci quanto desidera. Quaggiù abbiamo ampi moduli abitativi e locali attrezzati per condurre una vita quantomeno confortevole, ma in ogni momento potrà richiedere una scorta militare per uscire all’aria aperta.» Proprio su questo contava lo scienziato russo: che sentendosi intrappolato da quella gabbia di roccia, Choi finisse per uscire dai laboratori il più possibile, lasciandogli campo libero sugli esperimenti e sulle ricerche. Ma il russo aveva del tutto sottovalutato la dedizione alla scienza del coreano, e soprattutto il suo desiderio di sperimentare su qualcosa di così “esotico”. «No, io... vorrei vederla. Subito.» Dietro le spesse lenti degli occhiali da vista, le iridi scure di Sung-Hyo Choi brillavano come non mai. Non si cominciava bene. Lo scienziato sovietico si rassegnò. «Da questa parte, seguitemi.» Varcò il portale e si infilò in un altro corridoio, lungo e dall’alto soffitto rivestito di lastre schermanti in tecnopolimero di ultima generazione. «Vieni anche tu, Snow?» Chiese Harlequin con un ghigno. Il ceceno e l’americano erano rimasti alcuni passi indietro rispetto agli altri. «Ho fatto trenta, tanto vale fare trentuno... Sono curioso di capire come mai avete così tanto bisogno di questo cervellone quattrocchi.» «Loro hanno bisogno di Sung-Hyo, non io.» Precisò il trafficante. «Per noi due non rappresenta altro che un mezzo, non uno scopo. Devi tenere bene a mente questo genere di distinzioni, se intendi sopravvivere nel mondo a cui ti introdurrò. I miei affari possono essere anche cento volte più pericolosi di qualunque campo di battaglia.» «Se lo dici tu...» Snow non si era fatto impressionare da quelle parole. «L’amico Sung-Hyo è soltanto un oggetto di scambio, un pacco da consegnare. Lo scopo di questa trattativa è fare soldi, non

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salvare la vita di poveri intelligentoni dagli occhi a mandorla, e nel contempo guadagnare influenza a Mosca per poter avere accesso ai risultati delle ricerche sul progetto Genoma e sul progetto Kasdeya.» «E perché ci servono?» «Lo scoprirai quando mi fiderò di te a sufficienza, caro mio.» Varcarono l’ennesima porta di sicurezza rinforzata, che sull’architrave recava proprio la scritta “КАЦДЕЯ”, “KASDEYA” in alfabeto cirillico. Attorno a loro, scienziati e assistenti in tuta sterile bianca erano indaffarati nei loro compiti giornalieri. «Quindi tutta questa roba sarebbe un’altra specie di programma per il potenziamento dei soldati?» Harlequin non riusciva a togliersi quel ghigno divertito dalla faccia. «Credo che resterai piacevolmente sorpreso da ciò che stanno per mostrarci.» «Ci siamo, è qui dentro.» Annunciò lo scienziato russo, dopo aver raggiunto l’ultima paratia metallica in fondo al corridoio. Si avvicinò a un tastierino numerico incassato alla parete e digitò il codice di accesso, fatto questo sporse il capo in avanti per sottoporsi alla lettura dei dati biometrici. Lo scanner retinico esaminò il suo occhio per una manciata di secondi, prima di sbloccare la serratura. La porta metallica scivolò all’interno della parete, liberando il passaggio. L’interno del laboratorio vero e proprio era scarsamente illuminato e molto tranquillo. Si poteva udire il debole ronzio dei macchinari, nient’altro. Un paio di assistenti erano al lavoro sui loro terminali di controllo e, quando si accorsero dei nuovi arrivati, uno di loro si voltò di scatto, allarmato. «È tutto a posto, Yuri.» Lo tranquillizzò l’ormai ex direttore del progetto. «Sono autorizzati.» Un’ampia lastra di cristallo ultraresistente separava il laboratorio in due ambienti: da una parte c’erano le consolle di controllo, gli strumenti di misurazione, le banche dati; mentre dall’altra parte c’era il soggetto degli esperimenti, sigillato all’interno di un grosso cilindro trasparente.

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«Mi venisse un colpo secco...» Snow ora capiva la portata delle ricerche che i sovietici stavano conducendo al disotto di quella montagna. «Te l’avevo detto che era roba forte.» Sghignazzò Harlequin. L’interno del cilindro di grafene super-resistente era pieno di soluzione nutritiva, un denso liquido vitale che conferiva a tutto il laboratorio un alone fluorescente rossastro, e immersa nella soluzione c’era proprio lei: Kasdeya. L’aliena aveva quasi raggiunto la fase terminale del suo ciclo di sviluppo fisico ed era sicuramente da considerare una "lei", dato che la sua struttura corporale rispecchiava quella di una femmina adolescente umana. Se ne stava immobile e ignara del trascorrere del tempo, sospesa nel liquido scarlatto con gli occhi chiusi e i capelli candidi che fluttuavano statici, come un’istantanea in un giorno di vento. Una maschera respiratoria applicatale sul volto forniva l’ossigeno necessario alle sue funzioni vitali, a loro volta tenute sotto controllo da una serie di elettrodi e sensori applicati sulla sua cute. Il dottor Choi era rimasto esterrefatto. Sempre stringendo inconsciamente a sé la sua valigetta metallica, avanzò fino a raggiungere lo spesso pannello trasparente che lo separava dalla stanza del cilindro. «È sbalorditiva.» D’un tratto il corpo dell’aliena ebbe un sussulto, come se fosse stato percorso da una scarica elettrica. Per poco il coreano non saltò fin sul soffitto dalla sorpresa. «Sono solo spasmi muscolari.» Lo tranquillizzò il russo, divertito. «Di tanto in tanto capita, quand’è così sembra quasi che abbia fatto un brutto sogno.» Sung-Hyo fece in fretta a riprendersi dallo spavento. «Come mai questi colori?» Si riferiva alla pelle della creatura, nera come la notte e percorsa da striature color rosso fuoco. «Non lo sappiamo con certezza.» Gli rispose il genetista russo. «La pigmentazione è venuta fuori... sbagliata. È come il negativo di una foto: capelli bianchi e pelle iperpigmentata. Crediamo che la

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porzione del suo codice genetico responsabile di questi tratti somatici non sia riscrivibile.» «Da dove diavolo l’avete tirata fuori una cosa del genere?» Lo stupore di Snow era di un tipo differente da quello del sudcoreano: lui ancora non sapeva se credere o meno ai propri occhi. «È stata lei a caderci fra le braccia.» Rispose lo scienziato sovietico. «È originaria dello spazio profondo, il destino ha voluto che finisse nelle nostre mani.» «Di sicuro le avete scelto un bel nome.» Intervenne Harlequin. «Kasdeya, come l’angelo caduto che si era unito a Lucifero nella sua folle e ambiziosa ribellione. Molto azzeccato.» «Da quanto tempo è... addormentata?» Domandò Choi. «Da sempre. Siamo riusciti a progettarle un corpo adatto al combattimento sul nostro pianeta, ma non siamo ancora stati in grado di attivare le sue funzioni cerebrali. È solo questione di tempo comunque, contiamo d-» «Due mesi.» Lo interruppe il coreano. «Come dice?» «Datemi due mesi e riuscirò a destare Kasdeya dal suo sonno.» Replicò il dottor Choi in tono sicuro. *** 7 aprile 2010, ore 02:41 locali - OKB 427, Italia Alcuni giorni in anticipo sulla sua stessa tabella di marcia, Sung-Hyo Choi ebbe davvero successo laddove gli scienziati russi avevano fino a qual momento fallito. Il talento del sudcoreano nel suo campo di specializzazione era senza pari. Grazie alla conoscenza maturata nel corso di trent’anni di studi ed esperimenti, era riuscito a comprendere fino in fondo l’essenza genetica di Kasdeya per poter azionare “l’interruttore” della sua coscienza.

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A distanza di cinque anni dal suo arrivo sul pianeta Terra, l’aliena venne estratta dalla sua prigione di vetro, e per la prima volta dal momento della sua creazione poté aprire gli occhi per osservare il mondo che la circondava. Il brusco risveglio la investì con un fascio di luce abbagliante, così intensa da farle dolere gli occhi. Dopotutto quella era la prima volta da quando era nata che li utilizzava. Si ritrovò distesa sulla schiena, a contatto con una superficie rigida e fredda. Non poteva sapere di che cosa di trattasse, ma era un bancone d’acciaio da laboratorio, simile a quello usato dai medici legali per le autopsie. Attorno a lei si muovevano indistinte figure bianche, fantasmi che la sua vista appannata non era ancora in grado di mettere a fuoco. Erano Choi e il resto dell’equipe scientifica, bardati con indumenti protettivi completi: tute sterili, mascherine, cuffie, guanti di gomma e protezioni oculari trasparenti. «Ci siamo, ci siamo... Sta aprendo gli occhi.» Gioì il genetista coreano. «Ce l’ha fatta davvero, compagno professore!» Commentò una voce femminile in inglese, la lingua usata dai membri dello staff per comunicare con Choi. Nonostante i mesi passati sotto il Gran Sasso, ancora non aveva imparato una sola parola di russo, concentrato com’era sui suoi esperimenti. «Yuri, presto! Avvicinati con quella telecamera, non voglio perdere nemmeno un fotogramma di questo momento storico.» Una delle tute bianche si fece avanti con in pugno lo strumento di registrazione, mentre Choi e gli altri armeggiavano attorno al corpo di Kasdeya per assicurarle i polsi e le caviglie con cinghie e anelli d’acciaio rinforzato. La prudenza innanzitutto: nessuno dei presenti aveva idea di come l’aliena avrebbe reagito al suo risveglio. «L’encefalogramma registra attività neurale crescente.» Annunciò a quel punto un membro dell’equipe, seduto di fronte al monitor del suo terminale. «Funzioni vitali?» Domandò invece il professore.

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«Il battito cardiaco del soggetto è lento, al limite della soglia di pericolo.» Rispose un altro assistente. «Però il rilevatore di pressione dell’erogatore di ossigeno registra un debole flusso respiratorio autonomo.» «Rimuoviamo la maschera. Delicatamente.» Le mani guantate di un paio di scienziati azionarono le chiusure regolabili della mezza maschera a ossigeno di Kasdeya, e con mille attenzioni la staccarono dal suo viso. Il respiro della creatura era un debole sibilo affaticato, a malapena udibile al disopra del ronzio della strumentazione elettronica. «Forse dovremo preparare una fiala di cardiostimolanti?» Azzardò l’assistente di nome Yuri. «Non vorrei usare l’epinefrina, a meno che non sia costretto dalle circostanze... Lena, prepara comunque una dose da zero-tre milligrammi.» «Subito, professore.» Kasdeya non aveva ancora mosso un muscolo, a parte l’aver socchiuso un paio di volte le palpebre. Il suo cervello aveva bisogno di più tempo per “attivarsi”, ma il suo corpo era indebolito, non avrebbe resistito ancora a lungo. D’un tratto il segnale acustico dell’elettrocardiogramma prese a scandire i suoi rintocchi ad alto volume, segnale che qualcosa stava andando per il verso sbagliato. «Oh no... Battito cardiaco del soggetto in diminuzione!» Esclamò l’addetto al monitor, allarmato. «Ventisei al minuto, pressione settantadue su cinquanta... Bozhe moy, un normale essere umano sarebbe già cadavere.» «Pare che dopotutto avremo davvero bisogno di quegli stimolanti. Lena?» La giovane assistente passò la siringa al dottor Choi, che con mille attenzioni infilò l’ago nel braccio dell’aliena. Al tatto la sua pelle era innaturalmente fredda, non sembrava proprio quella di un essere vivente in salute. Una manciata di secondi più tardi, il fastidioso bip che segnalava l’insufficienza cardiaca della creatura ancora non taceva.

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«Nessun miglioramento nei segni vitali del soggetto. Se ne sta andando...» Choi si prese un istante per fare mente locale, ripensare a tutto ciò che aveva scoperto su quel corpo dall’anatomia così simile a quella umana, ma dai meccanismi di funzionamento così differenti. Guardò dietro di sé, fino a incrociare lo sguardo del suo vice, lo scienziato russo di cui aveva preso il posto quando era arrivato all’OKB 427. Era in piedi al di là della spessa lastra trasparente che divideva la camera sterile di Kasdeya dal resto del laboratorio, dove era possibile muoversi senza indossare gli scomodi indumenti protettivi. Il russo lo fissava a sua volta, sogghignando e con le braccia conserte. Choi poteva quasi sentire i suoi pensieri, in quel momento non avrebbero potuto essere più ovvi. Hai visto, Sung-Hyo? Alla fine hai fallito nel tuo compito: lei sta morendo. «Compagno professore, cosa dobbiamo fare?» Il tono di voce di Lena tradiva tutto il suo nervosismo. Hai voluto scavalcarmi, ma alla fine non sei neanche stato capace di tenerla in vita per un misero minuto. «Dobbiamo inventarci qualcosa, Lena.» Disse Yuri. Ben presto si renderanno conto di aver fatto un errore ad affidarti la direzione del progetto. «Io... preparo un’altra dose di epinefrina...» Sei stato una delusione, Sung-Hyo. Lo sei sempre stato. Nella mente dello scienziato, la voce del suo defunto padre si era per un attimo sovrapposta a quella del russo, un istante che era bastato a scuoterlo da quel blackout mentale dettato dall’ansia e dalla tensione. Il coreano non era mai stato un uomo abile nel gestire le crisi improvvise, ma in quel frangente non poteva permettersi di deludere le aspettative. Con mano tremante, Lena stava per praticare una seconda iniezione intramuscolo alla creatura. La ricercatrice sovietica tentennava, impaurita, consapevole che l’unico gesto possibile per

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risollevare le sorti di Kasdeya avrebbe anche potuto generare spiacevoli conseguenze. Proprio quando la punta dell’ago sfiorò l’opaca pelle scura dell’aliena, il suo corpo ebbe un marcato sussulto. Lena cacciò un urlo e si ritrasse impaurita, mentre il segnale acustico intermittente dell’elettrocardiogramma mutava in un laconico tono uniforme. «L’abbiamo persa!» Gridò l’assistente ai monitor. Kasdeya era in preda a violente convulsioni, spasmi muscolari involontari che la facevano muovere come una marionetta impazzita. «Aiutatemi a tenerla ferma!» Ordinò il dottor Choi, finalmente ripresosi del tutto. In cinque fra scienziati e assistenti scattarono per aiutarlo a immobilizzare l’aliena, per impedirle di dibattersi troppo. «La siringa.» Disse Lena, felice di poter passare lo strumento medico a Choi, affinché fosse lui a prendersi la responsabilità di come procedere. Il coreano afferrò la siringa di vetro e si mosse in prima persona fino al bancone dei medicinali, prese un altro flacone di cardiostimolante e tirò una generosa dose di farmaco con lo stantuffo. «Compagno professore, quelli sono quasi due milligrammi!» «Esatto.» «Anche in caso di shock anafilattico, si tratterebbe di una quantità impossibile da metabolizzare per qualunque individuo, perfino un atleta olimpionico...» «Lei non è umana. I grandi poteri di cui è dotata richiedono grandi energie, o finiranno per prosciugare il suo corpo di ogni essenza vitale.» Choi piantò con forza l’ago in mezzo al petto dell’aliena, spinse lo stantuffo e di colpo le convulsioni cessarono. Kasdeya si immobilizzò con la schiena inarcata verso l’alto, lanciando una specie di urlo soffocato, mentre gli anelli metallici le tenevano gli arti inchiodati al tavolo.

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Il suo cuore riprese a battere, interrompendo il segnale di allarme continuo e facendolo ritornare un tono a intermittenza. Un silenzio irreale, rotto soltanto da quel suono elettronico, calò sul laboratorio. «Allora? Segni vitali?» Domandò il coreano, ritraendo la punta metallica della siringa dal cuore di Kasdeya. «È... È stabile. Pressione sanguigna in crescita, battito regolare. Trentacinque in progressivo aumento.» L’aliena tornò a rilassarsi sul bancone, volgendo la testa da un lato. Il suo respiro era sempre affannato, ma più regolare e profondo di prima. Pochi attimi più tardi, l’elettrocardiogramma cessò di far risuonare per tutta la stanza il segnale intermittente di allarme. «Il soggetto è fuori pericolo.» Confermò l’assistente, tirando un sospiro di sollievo. «Settantuno battiti al minuto, e continua a salire.» Choi affidò la siringa vuota a Lena e andò a interrogare il monitor dell’encefalogramma, in cerca di sviluppi positivi. Kasdeya era sopravvissuta all’uscita dal cilindro di contenimento vitale, ma poteva considerarsi davvero operativa? Ben presto l’avrebbero scoperto. Il coreano studiò l’andamento dei grafici, che rivelavano ben poco di utile. Finché il tracciato che monitorava in tempo reale l’attività encefalica di Kasdeya ebbe un mutamento. Il professor Choi cominciò a scarabocchiare appunti su una cartelletta rigida, quando la voce di Yuri richiamò la sua attenzione. «Gente, credo che ci siamo!» Sempre manovrando la sua telecamera, Yuri si era avvicinato al volto dell’aliena per registrare il momento preciso in cui avrebbe riaperto gli occhi. «Sta prendendo conoscenza.» Annunciò il giovane, entusiasta. Kasdeya aveva ancora la testa voltata da un lato. Quando i suoi occhi si dischiusero, la prima cosa che videro fu il cilindro cristallino che era stata la prigione di tutta la sua esistenza. Non conservava una vera e propria memoria degli anni passati rinchiusa lì dentro, ma inconsciamente quella visione le scatenò

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una forte reazione emotiva, un pericoloso mix di disprezzo e terrore. Attraverso le lenti della sua telecamera, Yuri vide gli occhi totalmente neri di Kasdeya rabbuiarsi ancora di più, mentre lei fissava con astio il cilindro ormai vuoto. L’assistente cominciò a preoccuparsi davvero, quello sguardo non prometteva nulla di buono; indietreggiò di qualche passo, ma si fermò di colpo quando udì uno schiocco dietro di sé. Si voltò di scatto e, sempre puntando la telecamera, vide che sull’impenetrabile cilindro di contenimento di Kasdeya era comparsa una crepa. Subito dopo se ne aprì un’altra, che prese ad allargarsi assieme alla prima in una sequenza di squarci, fino a disegnare una sorta di ragnatela sulla liscia superficie del cilindro. Kasdeya era sempre più focalizzata sulla prigione di vetro, iniziò a produrre un verso a metà fra un ringhio e un respiro affannoso. Com’era possibile che fosse in grado di aprire squarci in un materiale così resistente, per di più immobilizzata sul suo letto metallico, distante una decina di metri dall’oggetto? La mente del giovane scienziato non riuscì a formulare in tempo una risposta sensata; dopo pochi attimi il cilindro esplose in una miriade di frammenti affilati, disintegrato dall’aliena senza che nemmeno avesse dovuto toccarlo. Quando Yuri riaprì gli occhi, Kasdeya si era messa a fissare lui, stavolta. Il sangue gli si gelò nelle vene, mentre il terrore si impossessava del suo animo a tal punto da non essere più in grado di muovere nemmeno un muscolo. «Yuri, allontanati da lei!» Gli urlò Lena, ma l’avvertimento non sortì alcun effetto. Kasdeya digrignò i denti in una specie di macabro sorriso, poi anche la lente frontale della telecamera di Yuri si spaccò in due sotto il peso dell’energia psichica dell’aliena. Mezzo secondo più tardi, l’intero strumento elettronico andò in pezzi fra le mani del tecnico, che finì per essere sbalzato a terra dallo scoppio ravvicinato.

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Choi l’aveva osservato sul monitor dell’encefalogramma: Kasdeya era fin troppo “attiva” adesso, i valori registrati erano tutti fuori scala. Quando vide Yuri a terra, gravemente ferito dal potere distruttivo dell’aliena, ormai risvegliatosi del tutto, il sudcoreano si rese conto che rimaneva soltanto una cosa da fare. «Tutti quanti fuori!» Ordinò, fiondandosi lui stesso verso una delle due porte stagne che davano accesso all’altra sezione del laboratorio. I suoi colleghi non se lo fecero ripetere due volte, eccezion fatta per Lena, che al contrario degli altri si era messa a correre in direzione di Yuri. Lui giaceva immobile a faccia in giù, immerso in una pozza di sangue che si stava allargando sul pavimento metallico del laboratorio. Era palese che non ci fosse più nulla da fare per salvarlo, ma il legame che correva fra i due giovani assistenti era di quel tipo che ignora qualunque evidenza e qualunque legge matematica. Capace di spingere una persona che aveva dedicato la sua intera vita alla logica della scienza a compiere un atto del tutto irrazionale. Lena si lasciò cadere in ginocchio e tentò di smuovere Yuri. Si strappò di dosso mascherina e occhiali protettivi perché le mancava l’aria per respirare, anche se in realtà erano le lacrime e l’ansia che stava provando in quel momento di puro terrore a impedirle di vedere con chiarezza e respirare a fondo. Chiamò più e più volte il nome dell’amato, scuotendolo per farlo riprendere, ma senza alcun successo. Choi e gli altri avevano raggiunto sani e salvi la prima stanza del laboratorio, dopo essere transitati sotto i decontaminatori chimici che separavano i due ambienti. Lo spesso cristallo trasparente permetteva di osservare tutto quello che stava accadendo dall’altra parte. «Oh no, Lena!» Esclamò, il coreano quando la vide ancora in compagnia dell’aliena. «Dobbiamo andare a riprenderla!»

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«Ormai è spacciata, compagno professore.» Era stata una voce familiare a rispondergli, anche se era da parecchio tempo che Choi non la udiva. Una voce sempre fredda e distaccata da tutto. «Colonnello Ulanovsky?» Questa volta l’ufficiale del GRU si era presentato con l’uniforme ordinaria dell’Esercito, completa di cinturone in pelle marrone lucidata, spallaccio e fondina. Si era sistemato in fondo alla stanza buia, prima di quel momento Choi non l’aveva nemmeno visto. «Il direttore in persona mi ha incaricato di tornare quaggiù per essere testimone del risveglio di quel mostro.» Si giustificò. «Anche se non pensavo che la faccenda si sarebbe evoluta in questo modo.» Choi notò che sulla tempia dell’impassibile colonnello era comparsa una goccia di sudore. Si voltò e subito si rese conto di come mai un pezzo di ghiaccio privo di ogni sensibilità come lui stesse cominciando a mostrare un seppur minimo accenno di umanità. Kasdeya si era messa a sedere sul tavolo metallico. Gli scienziati avevano correttamente calcolato che le cinghie e gli anelli di acciaio impiegati sarebbero stati sufficienti per immobilizzarla e impedirle di liberarsi. Ma la creatura aveva risolto il problema in un modo a cui un normale essere umano non avrebbe mai pensato. Si era strappata via le braccia. Dal gomito in giù i suoi arti superiori erano mozzati, grondanti sangue nero simile a pece bollente. Doveva essersi sforzata di rizzare la schiena con una tale veemenza che i muscoli e i tendini delle braccia avevano finito per lacerarsi. La perdita non sembrava affatto preoccuparla, dato che il suo corpo stava già provvedendo a rimpiazzare i pezzi mancanti. Lentamente, ossa e tessuti muscolari presero a generarsi dai moncherini, fino a plasmarsi in perfetti arti superiori nuovi di zecca. «Oh mio Dio...» Nemmeno Choi aveva previsto un’eventualità del genere.

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Con le sue nuove braccia, Kasdeya si aggrappò ai margini del tavolo metallico e fece forza con il bacino fino strapparsi anche entrambe le gambe dal ginocchio in giù. I lamenti che le sfuggirono quando la sua carne nera si aprì in due e le ossa si spezzarono, più che di dolore, sembrarono essere di collera. La creatura delle stelle ormai non conservava più nulla della sua aura celestiale; senza più un paio di gambe funzionanti, si mise a strisciare a forza di braccia verso Lena, ancora alle prese con la sua follia di salvare Yuri. Kasdeya raggiunse i due scienziati, ignorò il cadavere del ragazzo e avviluppò le sue dita nere attorno alla gamba destra di Lena, che parve accorgersi del demonio strisciante solo in quel momento, decisamente troppo tardi per lei. Cominciò a gridare, prolungate e atroci grida di dolore, la cui causa divenne evidente agli impotenti spettatori quando prestarono attenzione agli indicatori dei livelli della temperatura dell’altra stanza: Lena stava bruciando in un inferno di aria riscaldata a centinaia gradi, in progressivo aumento. Pochi attimi più tardi, i suoi vestiti, i suoi capelli, la sua pelle, ogni cosa si illuminò, avviluppata da voraci fiamme arancioni, scaturite dal calore radioattivo che Kasdeya era in grado di emettere a piacimento. Stava ancora sperimentando cosa fossero in grado di fare i suoi poteri, dopotutto rappresentavano anche per lei una novità. «Attivate i sistemi antincendio.» Disse a quel punto il vicedirettore del progetto, che finora si era limitato a osservare in silenzio. «E qualcuno vuole anche degnarsi di chiudere la barriera metallica? Prima che quella bestia ci spedisca tutti all’altro mondo.» Gli ordini dello scienziato russo vennero prontamente eseguiti, un pesante portello in lega di piombo calò lungo il vetro fino a coprirlo del tutto, sigillando l’altra metà del laboratorio. «E ora sedate il soggetto. Prima o poi dovremmo ritornare laggiù a sistemare tutto quel casino.» «Com’è possibile contenerla, adesso che è libera di usare i suoi poteri?» Domandò Ulanovsky, perplesso.

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«Abbiamo installato un sistema per l’erogazione di gas, proprio per far fronte a queste evenienze.» «E sperate che un po’ di gas soporifero possa riuscire a calmare quell’essere?» «In realtà si tratta di qualcosa di un po’ più tosto del gas soporifero: nervino Novichok A-232, dieci volte più letale del VX... Per quanto riguarda l’essere umano, ovviamente. Non è nulla che il soggetto non sia in grado di metabolizzare, che però dovrebbe renderla inoffensiva per qualche decina di minuti.» Ulanovsky annuì. «Quella creatura è decisamente una guerriera. O meglio, un’assassina.» Disse l’ufficiale dei servizi d’intelligence. «Mi dispiace...» Si scusò il dottor Choi, visibilmente scosso per l’accaduto. «E perché? È proprio di un’assassina priva di alcuna moralità e di alcuno scrupolo che noi abbiamo bisogno per vincere questa guerra. Compagno professore, le suggerisco di procedere il prima possibile con il programma di addestramento, e ovviamente non trascuri neanche il programma di clonazione.» «Intendevo dire che mi dispiace per Lena e Yuri... Cioè gli assistenti che sono deceduti, io...» «Non si preoccupi, gli incidenti capitano. Pensi soltanto a portare a termine il suo lavoro, noi le forniremo tutti gli Yuri e tutte le Lena di cui potrà aver bisogno.»

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Capitolo 1

21 aprile 2012, ore 22:37 locali - OKB 427, Italia Choi non commise mai più l’errore di sovraccaricare le funzioni vitali dell’aliena e mandarla quindi fuori controllo. I due anni che seguirono il suo risveglio, Kasdeya li trascorse permanentemente sedata. Mai fino al punto di farle perdere conoscenza, in effetti lei non dormiva quasi per niente, ma le sue capacità energetiche erano sempre state mantenute al disotto di una certa soglia, grazie alla somministrazione periodica di potenti farmaci. In un certo senso era come se avesse trascorso gli ultimi due anni con il freno a mano tirato. Qualcuno degli scienziati paragonò la sua situazione a quella di un’ospite violenta rinchiusa all’interno di un ospedale psichiatrico, tenuta sotto controllo tramite costante terapia farmacologica. A Choi e agli altri andava bene così: nessuno voleva rischiare un secondo incidente come quello accaduto durante il suo risveglio, e nel complesso l’aliena era in grado di mantenere una sorta di stato di coscienza, sufficiente a permettere loro di effettuare tutti gli esperimenti previsti dalla tabella di marcia. Negli anni, le capacità offensive e difensive di Kasdeya erano state analizzate in dettaglio e potenziate in accordo con le sue propensioni naturali, fino a farle raggiungere un adeguato equilibrio. L’educazione comportamentale invece procedeva a rilento. Kasdeya era un animale dalla natura selvaggia, per nulla incline all’obbedienza e sempre pronta a ribellarsi quando non veniva controllata con mano ferma. Di norma trascorreva il suo tempo incatenata a un tavolo metallico da laboratorio, con gli arti e il corpo immobilizzati da anelli d’acciaio molto più resistenti dei primi a cui era stata legata,

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il giorno dell’incidente. Solo di rado lasciava il suo angolo personale, sempre e soltanto per prendere parte a qualche esperimento. Non necessitava né di acqua né di cibo, il suo unico sostentamento derivava dalle rocce meteoritiche con le quali era impattata sulla superficie terrestre cinque anni prima. Si “ricaricava” tramite una sorta di scambio energetico, e il suo nutrimento era sempre centellinato al minimo indispensabile, così da non farle recuperare mai troppo le forze. Tutti gli scienziati della base sapevano che il suo astio nei loro riguardi era ben meritato. Si trattava di una sorta di circolo vizioso: lei si rifiutava di obbedire, loro dovevano andarci giù pesanti per farle fare ciò che le era richiesto, e ciò generava altro risentimento da parte dell’aliena, penalizzando ancora il suo già inesistente spirito collaborativo. Il dottor Choi da qualche tempo si era convinto di essere giunto a un punto morto. Non per quanto riguardava lo sviluppo dei poteri di Kasdeya, ma piuttosto per i suoi progressi comportamentali. Lo scienziato sapeva che sarebbe stato possibile migliorare ulteriormente quell’arma vivente, ma finché l’aliena avesse considerato lui e la sua équipe come nemici, compiere ulteriori progressi sarebbe stato impossibile. Lo scienziato coreano aveva cominciato a trascorrere sempre più tempo lontano dai laboratori, con sommo gaudio del suo vice russo. Se ne stava chiuso nel suo modulo abitativo o addirittura si faceva scortare all’esterno del Gran Sasso per passare un po’ di tempo all’aria aperta. Anche quella sera Choi aveva intenzione di uscire. Terminò di aggiornare i suoi database e mandò un paio di email alla sede centrale dell’Accademia Sovietica delle Scienze, poi recuperò la giacca, una borsa a tracolla e chiamò all’interfono il sottufficiale di guardia per farsi affidare una scorta. Pochi minuti più tardi, Choi saliva sul fuoristrada mimetico Tigr che lo attendeva all’imbocco del tunnel logistico. «Buonasera, Andrej. Tocca a voi stanotte?»

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«Sì, buonasera compagno professore. Andiamo a fare un giretto anche oggi?» Gli domandò il sergente nel suo inglese stentato. «Ultimamente non ho mai molto lavoro da sbrigare, mi resta sempre del tempo libero. E poi, detto tra noi, di questi tempi più che del mio talento ci sarebbe bisogno di quello di uno psicoterapeuta... Io mi occupo di DNA, non di scienze comportamentali.» Il sottufficiale annuì sorridente e segnalò all’autista di procedere. Il suo inglese era troppo scarso, non aveva capito una sola parola del discorso espresso da Choi. Lo scienziato si lasciò sprofondare nel sedile, sbuffando annoiato e lasciando che i soldati lo portassero fuori dalle profondità dell’imponente montagna. C’era un posto in particolare dove a Sung-Hyo Choi piaceva andare per rilassarsi: un punto panoramico distante appena qualche chilometro dall’uscita della galleria. Di giorno era possibile godere di una vista mozzafiato del versante ovest del Gran Sasso e delle alture circostanti, mentre nelle notti in cui il cielo era limpido si poteva osservare un ampio scorcio della volta stellata. Quella notte Choi era stato fortunato, non c’era una sola nuvola in cielo. Lo scienziato camminava a passo lento, con le mani unite dietro la schiena e il naso all’insù, immerso nei suoi pensieri. Era seguito a breve distanza da due soldati russi con i loro Kalashnikov a canna corta AKS-74U in spalla, il sergente aveva preferito restare in macchina. La quiete notturna era interrotta soltanto dall’incedere degli scarponi dei militari sulla ghiaia e dal frinire dei grilli, una colonna sonora che giungeva lontana e rilassante. Nella serenità solo apparente di quella serata, i tre uomini avvertirono un rumore proveniente dagli arbusti alla loro sinistra. Si voltarono per controllare, pensando d’istinto a qualche animale selvatico, e in un certo senso era proprio di quello che si trattava, di un pericoloso animale selvatico.

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Una figura umana, alta e dalle spalle larghe, emerse dal sottobosco con un braccio rivolto in avanti, qualcosa di metallico scintillava nella sua mano. Uno dei militari sovietici fece a malapena in tempo a imbracciare la sua carabina automatica, prima che l’ombra esplodesse contro di loro otto o nove colpi in rapida successione. Choi e i soldati andarono tutti e tre giù all’unisono, con la faccia nella polvere senza nemmeno aver avuto il tempo o la forza di emettere un grido. I bossoli espulsi dalla pistola dell’aggressore tintinnarono sulle rocce vicine ai suoi piedi. L’uomo si avvicinò ai corpi e premette ancora il grilletto, così da avere la certezza che i suoi bersagli fossero davvero morti. L’eco di quegli ultimi due spari si perse oltre l’orizzonte. «Puoi alzarti.» Recitò calma e sicura la voce dell’aggressore. Choi tremava, era evidente che fosse parecchio scosso, ma riuscì lo stesso a rimettersi in piedi. Si prese un istante per ispezionare il suo corpo, le sua braccia: ancora non riusciva a credere di non essere stato colpito da nessuna pallottola, la mira dell’aggressore era stata perfetta. «Ce... Ce n’è ancora uno... All’interno del fuoristrada... Giù...» Farfugliò, riferendosi al sergente caposquadra. «No, non c’è più.» Rispose l’altro uomo. Solo in quel momento, Choi notò il coltello insanguinato che l’aggressore stringeva nella mano sinistra. «Da quanto tempo, Sung-Hyo... Che fai, non mi saluti nemmeno? Non ti ricordi più di me?» Lo scienziato scrutò attraverso l’oscurità il volto dell’altro individuo, finché non lo riconobbe. «Sei... Snow? Hanno mandato te?» «Esatto. Ivan ha pensato che non ci fosse scelta migliore del sottoscritto per venirti a prelevare, dato che ti ho già fatto fuggire una volta dai tuoi precedenti datori di lavoro.» Quando nei giorni passati Choi si era messo d’accordo in segreto con il contrabbandiere ceceno, non aveva pensato all’eventualità che il suo contatto sarebbe stato proprio Snow, il

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disertore americano che un paio di anni prima l’aveva fatto fuggire dagli Stati Uniti. «Lo conosci, il suo soprannome non l’ha avuto per caso. Ad Harlequin piace fare dell’ironia su qualunque cosa.» Snow cominciò a ridiscendere lungo il sentiero di montagna seguito a ruota da Choi, pulendo e rinfoderando il coltello da combattimento. Si mise anche a ispezionare la sua arma da fuoco, una alquanto rara Beretta M9 Dolphin. Quando le Forze Armate statunitensi avevano deciso di adottare la M9 come arma da cintura standard, i Navy SEAL avevano ben presto scoperto che la nuova pistola non era in grado di soddisfare i loro requisiti, ben più severi di quelli dei normali militari di truppa. Si erano messi d’accordo con la Beretta USA per produrre un lotto di pistole dotate di una serie di miglioramenti, tra cui il peculiare carrello ridisegnato, e il risultato finale era stata la Dolphin. Per alcuni anni gli incursori di Marina avevano portato in battaglia quel modello di M9, facendolo così diventare uno dei loro simboli caratteristici. Snow aveva chiesto a Harlequin di procurargliene una, richiesta che il trafficante non aveva avuto difficoltà a soddisfare. Una volta ottenuta, l’ex SEAL l’aveva dotata di meccanismi interni nuovi, più affidabili degli originali, e addirittura di un paio di guancette in avorio al posto di quelle originali di gomma nera. Pensava che quell’arma rappresentasse il perfetto connubio fra la sua vita passata di militare e quella presente di “uomo d’affari”. Tolse il caricatore per controllare quante cartucce avesse scaricato sui russi: vedendo che ne mancavano parecchie all’appello decise di infilare il caricatore mezzo vuoto in una tasca del bomber scuro che indossava, e inserirne uno pieno nell’impugnatura dell’arma. Terminò l’operazione rimettendo la sicura e infilando la Dolphin nella fondina Vega che portava alla cintura. «Comunque mi pare di capire che ci hai proprio preso gusto.» Osservò l’americano, dopo parecchi minuti di cammino in cui Choi non aveva spiccicato parola. «Io sono l’ultimo che dovrebbe parlare, però tu... Prima tradisci l’America, ora tradisci la Russia,

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meno male che hai intenzione di metterti in proprio, così non corri più il rischio di tradire ancora qualcuno.» Il coreano parve genuinamente offeso da quelle constatazioni. «Io sono un uomo di scienza, non ho altri ideali a parte il progresso tecnologico e con esso il miglioramento delle condizioni di vita del genere umano. Sia questa notte che la notte della mia fuga dagli Stati Uniti, non ho fatto altro che seguire la mia vocazione di scienziato!» Snow si stupì, non si aspettava una risposta così piccata da quel mingherlino quattrocchi. Doveva aver toccato un nervo scoperto. «Non potevo e non posso permettermi di vedere i progressi dei miei studi rallentati per colpa di restrizioni dei governi nazionali o per incapacità di alcuni miei colleghi nel loro campo specifico. Se ho deciso di abbandonare i progetti Genoma e Kasdeya è solo perché avevano entrambi raggiunto il loro apice di sviluppo, non certo per i soldi.» «Come vuoi tu, doc. Non è mia intenzione contraddirti. A proposito, i campioni e i dati ce li hai tutti?» «Sì, proprio come l’altra volta. Sono tutti qui.» Rispose Choi, sollevando con un braccio la sua borsa a tracolla. «Molto bene.» «E adesso che facciamo?» «Ti ho organizzato un altro bel viaggetto dei miei, simile all’altro, ma a ritroso. Certo, non ritorneremo fin negli Stati Uniti!» Ridacchiò Snow. «Per ora limitiamoci a raggiungere il mio pickup, non è lontano. Quanto tempo manca al tuo diversivo?» «Ho dimezzato la quantità di sedativi ed enzimi soppressori oggi pomeriggio, ovviamente ho fatto in modo che nessuno si accorgesse di nulla.» Il coreano controllò il suo orologio da polso. «Tra pochi minuti Kasdeya dovrebbe cominciare a pensare con lucidità, poi anche la sua forza fisica dovrebbe aumentare.» «Più danni riuscirà a fare quel mostriciattolo e più tempo avremo a disposizione per svignarcela senza che qualcuno si domandi che fine hai fatto.» «In base alla mia simulazione, il personale del Gran Sasso resterà impegnato con il contenimento di Kasdeya per almeno

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mezz’ora. Poi altre due ore per la messa in sicurezza dei laboratori.» «Sanno che sei fuori dal complesso: non appena inizierà il casino chiameranno la tua scorta per farti rientrare. All’inizio saranno troppo impegnati con l’aliena per fare ipotesi sul perché non sia rimasto più nessuno a rispondere alla radio, ma una volta sistemato il mostriciattolo, la loro priorità numero uno diventerà rintracciare te... Significa che abbiamo al massimo due ore e mezza per scomparire senza lasciare traccia.»

*** Kasdeya aveva spezzato le sue catene soltanto da pochi istanti, ma la sua sete di sangue e vendetta già aveva mietuto la sua prima vittima. Il basso e tarchiato capo della sicurezza dell’OKB 427 si era avvicinato all’aliena dopo aver notato che lei si stava agitando più del solito, e adesso il corpo del russo pendeva senza vita dal braccio di Kasdeya, con il collo spezzato e i piedi ciondolanti a una spanna da terra. L’aliena era cresciuta ancora rispetto al giorno in cui era uscita per la prima volta dal cilindro di vetro, il suo corpo di adolescente si era trasformato in quello di un’adulta, e i suoi capelli candidi le scendevano ormai fino all’altezza del bacino. Scaraventò con noncuranza in un angolo il cadavere ancora caldo dell’ufficiale e si avventò sulla sua seconda vittima, un assistente in tuta sterile bianca. Ringhiando, piantò un braccio nello sterno dell’umano trapassandolo come se fosse burro. Un secondo assistente riuscì ad azionare l’allarme generale, prima di essere fatto a pezzi anche lui. Una sirena intermittente prese a diffondersi per tutti i laboratori, accompagnata da una melliflua voce di donna

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preregistrata che in lingua russa informava il personale scientifico della situazione di emergenza. Dall’altro lato della lastra trasparente, il vicedirettore del complesso corse a premere il pulsante che attivava il pannello metallico di contenimento: appena in tempo, dato che sul largo cristallo di fronte a lui stavano già comparendo le prime crepe. Quando il pannello discese fino a un metro da terra, una deflagrazione risuonò nella stanza, segnando la rottura in mille pezzi della lastra di vetro al di là di quella metallica. Rispetto al primo incidente, Kasdeya era molto migliorata. Una delle sue mani nere riuscì a infilarsi fra il pavimento e il pannello, bloccando la discesa di quest’ultimo; le dita esili ma straordinariamente forti dell’aliena si strinsero attorno al bordo della lastra e cominciarono a sollevarla. I meccanismi di chiusura automatica non furono in grado di contrastare la forza di Kasdeya, fra stridii e scintille smisero del tutto di funzionare. Un altro allarme prese a risuonare nel laboratorio. La creatura sollevò la lastra metallica di sicurezza fino al disopra della testa, poi la oltrepassò e lasciò che si abbattesse rumorosamente alle sue spalle. Trovò schierati di fronte a lei una decina di soldati sovietici, carabine AKS-74U imbracciate e pronte al fuoco. Alle loro spalle, il vicedirettore se la stava svignando dalla porta di accesso. «Sparatele!» Ordinò a quel punto un sottufficiale. Lunghe raffiche di pallottole 5.45mm vennero riversate su Kasdeya da ogni direzione, traforandone le carni e facendo schizzare ovunque il suo rovente sangue nero. Lei parve quasi sorpresa della sensazione sgradevole che quelle ferite le stavano facendo provare, nulla che il suo sistema di rigenerazione non fosse in grado di curare in pochi istanti. I soldati russi svuotarono tutti un caricatore sull’aliena, tranne uno a cui si era inceppata l’arma dopo aver esploso appena un paio di colpi, e subito prelevarono un nuovo caricatore dal giubbetto tattico.

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L’invisibile onda di forza cinetica scaturita da Kasdeya si abbatté su di loro mentre stavano ancora ricaricando i loro AK, nemmeno il più svelto del gruppo riuscì ad aprire di nuovo il fuoco, prima di essere colpito. I loro sventurati corpi vennero piegati e spezzati da quell’incontrastabile fascio energetico, scaraventati verso il fondo dello stanzone le cui pareti metalliche finirono per incrinarsi verso l’esterno. L’aliena compì uno scatto in avanti talmente rapido che parve quasi istantaneo, giungendo di fronte alla porta rinforzata che si stava per chiudere e bloccando anche questa con una mano. La fece scivolare a forza nel suo alloggiamento a muro, poi varcò l’uscita del laboratorio per la prima volta nella sua intera esistenza. Lo scienziato russo vicedirettore dell’OKB 427 era lì vicino, gli attacchi distruttivi della creatura avevano impedito la sua fuga facendolo cadere sul pavimento a griglia del corridoio. Fissava Kasdeya con occhi imploranti, pietrificato dal terrore. Altri scienziati se la stavano dando a gambe, mentre soldati in mimetica accorrevano da ogni parte del complesso con le armi spianate. E le sirene d’allarme non cessavano di rimbombare per tutta la caverna artificiale. Il frastuono continuo e le grida degli umani infastidirono ancora di più Kasdeya, che dentro di sé aveva già la rabbia e il risentimento sufficienti a uccidere tutto quanto il personale della base almeno dieci volte. Strinse i pugni e digrignò i denti, mentre radunava a sé tutto il suo potere offensivo. Per poi scatenarlo contro di loro. Choi, nell’ideare la sua fuga, aveva commesso un grosso errore di valutazione. Pensava che i russi sarebbero stati in grado di contenere l’aliena subendo al massimo qualche lieve perdita, ma nella realtà dei fatti si stavano dimostrando incapaci di porre freno alla sua furia. In meno di un minuto, l’intero complesso sotterraneo venne devastato in ogni sua parte, passando da polo di eccellenza dell’Istituto di Biologia Molecolare Engelhardt e

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laboratorio segreto del GRU, a catacomba sotterranea ricolma di cadaveri maciullati e inceneriti. Estinta la sua sete di vendetta, Kasdeya raggiunse l’esterno della galleria. Non aveva mai percorso il tunnel autostradale, ma i suoi sensi e il suo istinto animale la guidarono a colpo sicuro verso l'uscita più vicina. L’aliena era stanca, provata da quella dimostrazione di forza, ma un nuovo richiamo si era fatto strada nel suo inconscio. La percezione di un’energia pulsante l’attirava, un’energia che sentiva parte di lei... Si allontanò correndo verso ovest, alla ricerca del luogo in cui per la prima volta aveva toccato la superficie terrestre, ovvero alla ricerca delle sostanze energetiche contenute nel suo meteorite. Ben presto Roma avrebbe conosciuto la sua furia. *** 3 maggio 2012, ore 08:15 locali - Roma, Italia Una decina di giorni dopo il passaggio di Kasdeya, ciò che restava di Piazza San Pietro non era altro che un cumulo di detriti da cui emergeva la struttura sventrata dell’antica Basilica. Alcuni blindati distrutti, ribaltati o semplicemente abbandonati, crateri bruciati, statue divelte, colonne crollate, fontane spaccate e asciutte, i residui della resistenza italiana spazzati via per sempre. I soldati dell’Esercito Sovietico erano all’opera per sgomberare la piazza dai mezzi ancora in grado di muoversi, per rimetterli in condizione di combattere, o smantellarli e ricavare così utili pezzi di ricambio. I cadaveri dei loro commilitoni caduti in battaglia erano già stati imbustati e rispediti in patria, mentre quelli dei nemici erano stati spostati e scaricati in una fossa comune fuori città, dove il loro ultimo saluto sarebbe stato una spolverata di calce viva. Eppure nell’aria ristagnava ancora l’odore acre della morte.

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Un uomo stava in piedi al centro della piazza, a osservare lo svolgersi delle operazioni. Alto e slanciato, i capelli grigi, il viso severo e riflessivo. Indossava la spartana e funzionale mimetica da campo dell’Esercito, completa di cinturone e pistola d’ordinanza PYa Yarygin al fianco. Sulle controspalline dell’uniforme erano distinguibili le quattro stellette da generale d’armata. Attorno a lui c’erano i soldati scelti che componevano la sua scorta personale: angeli custodi silenziosi, guardinghi e armati fino ai denti. Il generale d'armata Nicolaj Sergeevič Petrosian era il comandante del contingente militare sovietico dislocato in quella parte del globo. Prima di venire assegnato a quell’incarico, aveva già dato prova della sua abilità di stratega più di una volta: sia la lista delle sue vittorie che quella delle decorazioni guadagnate sul campo erano piuttosto lunghe e variegate. Anche in quell’ultima occasione la sua manovra di conquista era stata un successo: i resistenti erano stati sconfitti e Roma era passata sotto il controllo sovietico, ma il prezzo da pagare era stato alto. Nessuno, nemmeno Petrosian lo stratega, aveva potuto prevedere che in mezzo agli scontri sarebbe comparsa quella letale arma organica, sfuggita al controllo dei suoi stessi creatori. Un’arma che in teoria avrebbe dovuto rappresentare la chiave di volta nella sconfitta del nemico americano, ma che in pratica si era scatenata contro qualunque cosa intralciasse il suo cammino, compresi gli stessi uomini del generale d'armata. Osservando l’imponente basilica profanata, i relitti delle macchine da guerra, la scia di morte e distruzione che Kasdeya si era lasciata dietro, pareva quasi che la città “eterna” fosse stata contaminata e svuotata di ogni respiro. «Nulla è davvero eterno. Prima o poi tutto finisce in pezzi.» Mormorò il russo con voce priva di qualsiasi emozione. «Nicolaj Sergeevič!» Si sentì chiamare in lontananza. Il generale d'armata si voltò e individuò un gruppetto di ufficiali di etnia araba che avanzavano verso di lui: i comandanti del contingente della Fratellanza della Mezzaluna, il grande e prezioso alleato dell’Unione Sovietica in quegli anni di guerra

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totale, un’unione politica e militare dei principali stati arabi compresi nei territori della Mezzaluna Fertile. A chiamare il nome di Petrosian era stato il generale egiziano a tre stelle Nader Fathy, che nel corso delle campagne militari era entrato in confidenza con il superiore russo. Pelle olivastra, capelli crespi e corti, occhi neri che si guardavano attorno instancabili, non brillava né per prestanza fisica né per spirito combattivo. «Amico mio, perché hai costretto me e i miei colleghi a seguirti fin quassù? Questo posto non è sicuro.» Esordì, masticando le parole in un russo non proprio brillante. «Nessun luogo è sicuro, quando si è in guerra, Nader.» Ribatté Petrosian, senza che la sua espressione seria e indecifrabile mutasse di un millimetro. «Può darsi, ma qui siamo troppo vicini alla linea del fronte. Sarebbe stato meglio fissare il meeting nelle retrovie, questo non è il posto giusto per degli ufficiali importanti quanto lo siamo noi.» Osservò l’egiziano, impettito. Il generale russo ignorò le rimostranze e volse lo sguardo al resto della piazza. «San Pietro, il cuore stesso dell’Europa occidentale. Questo è stato forse il passo più importante nella riconquista della penisola, e lo sai perché? Prova a immaginare una bandiera con la falce e il martello che sventola proprio in un luogo simbolico come quello in cui ci troviamo adesso. Pensa al messaggio che potrebbe consegnare al mondo.» «Anche una bandiera verde con una mezzaluna sarebbe di parecchio effetto, Nicolaj Sergeevič.» Fathy aveva centrato il punto. «Abbiamo compiuto un bel passo in avanti, certo, ma per giungere fin qui abbiamo dovuto sacrificare molto. Avevo preparato quest’ultimo piano d’attacco con la massima cura, i resistenti italiani non sarebbero stati un problema. Ma ciò che è successo dopo non potevo immaginarlo, abbiamo subito troppe perdite, sia in termini di uomini che di mezzi. Stamane ho consultato i miei comandanti di divisione, e ho avuto conferma che la mia Armata non è in grado di proseguire con l'offensiva.»

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«No, questo è un errore. Dobbiamo continuare a pressare gli americani, non dobbiamo dar loro il tempo di organizzare altre linee di difesa.» «Sono d’accordo, Nader... Il momento è propizio. Ho bisogno del tuo aiuto per ricacciare gli invasori americani al di là dell’Atlantico.» Fathy annuì, ringalluzzito. «I reparti sotto il mio comando sono pronti a rilevare l’offensiva e muovere verso nord.» «Molto bene. Vieni, parliamone di là.» Con un cenno, Petrosian invitò il generale egiziano a seguirlo. Quest’ultimo fece lo stesso con un altro degli ufficiali al suo seguito. Si trattava di un tenente colonnello vestito con una mimetica differente da quelle egiziane e un basco amaranto, portava la barba curata, e i suoi occhi neri e l’espressione corrucciata gli conferivano un che di minaccioso. Il generale d'armata sovietico guidò i due mediorientali all’interno del suo posto di comando mobile: un blindato BTR-80 per trasporto truppe dotato di antenne per comunicazioni, sistemi computerizzati e sistemi di difesa avanzati, denominato R149MA3. Era parcheggiato al limitare della piazza, accanto a un cumulo di macerie che un tempo era stato un elegante colonnato. L’interno del mezzo era tutt’altro che spazioso, ma non dava quel senso di claustrofobia tipico degli interni dei normali BTR di trasporto truppe. Il veicolo era stato modificato appositamente per le esigenze di un ufficiale generale: la torretta per le armi era stata rimossa, il vano principale era stato separato dal compartimento di pilotaggio e allestito con una serie di computer e sistemi di comunicazione all’avanguardia, sia radio che satellitari. C’era spazio per i due piloti, postazioni multimediali per il generale e tre o quattro assistenti, e anche posti a sedere per qualcuno dei soldati scelti della scorta. I tre uomini procedettero curvi all’interno e si accomodarono di fronte al largo monitor principale, mentre Petrosian richiamava a video una mappa digitale raffigurante il centro Italia. Le scritte che comparivano a fianco di città, o unità militari dislocate, erano indicate sia in cirillico che in arabo.

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«Per la successiva fase delle operazioni, intendo servirmi delle tue unità della Guardia Repubblicana. Di quanti uomini disponi al momento?» Fathy non si sorprese della richiesta del superiore: negli eserciti mediorientali che la possedevano, la Guardia Repubblicana era composta da uomini con un livello di addestramento superiore a quello delle formazioni regolari, ed erano anche equipaggiati con sistemi d’arma più moderni e prestazionali. «Ho sempre mantenuto la divisione corazzata e un paio di divisioni meccanizzate pronte a muovere con un preavviso ridotto, ma in caso di necessità posso schierare anche una terza divisione meccanizzata.» «È proprio la potenza di fuoco che avevo in mente, Nader. Per favore, considera anche la terza divisione meccanizzata inclusa nell’operazione.» Fathy stirò un sorrisetto, già pregustando il dispiegamento di forze. Al contrario, il generale russo continuava a mostrarsi serio e concentrato. «Per quanto riguarda il supporto logistico alle unità da combattimento, potrebbero insorgere rallentamenti durante la vostra avanzata? L’Esercito Sovietico è ancora in grado di offrirvi una riserva di carburante, ma purtroppo niente munizioni o ordigni.» «Un po’ di carburante in più fa sempre comodo, ci consentirà di attingere solo in parte alle nostre scorte. Ma non preoccuparti Nicolaj Sergeevič, possiamo mantenere un flusso costante di approvvigionamenti semplicemente grazie alle nostre unità di supporto... Certo, questo dipende da quanti chilometri verso nord intendi farci avanzare.» Concluse il Generale Fathy. Petrosian indicò un punto sulla mappa. «L’obiettivo finale di questa manovra è la distruzione della base aerea americana a Grosseto. Intendo impadronirmi della supremazia aerea sui cieli italiani, quindi le squadriglie nemiche schierate lassù devono sparire dal quadro bellico.» «Sì, sono d’accordo.»

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«Si tratterà di un'operazione divisa in due fasi principali: prima di tutto dovrai far avanzare le tue divisioni della Guardia lungo questa linea di comunicazione.» Petrosian fece scorrere il dito sulla mappa, sovrapponendolo alla linea contorta che corrispondeva alla vecchia autostrada A1, fino a fermarsi presso l’area attorno a Viterbo. «Ho già mandato in avanscoperta alcune squadre di ricognitori, che mi hanno confermato che la strada è ancora praticabile e priva di nemici; ma voi cercate lo stesso di non abbassare la guardia.» «Tranquillo, Nicolaj Sergeevič.» Ridacchiò Fathy. «Una volta che avrete raggiunto quella zona, dovrete semplicemente attestarvi e tenere la posizione fino a nuovi ordini. Quando giungerà il momento, vi segnalerò l’inizio della seconda fase della manovra, ovvero l’assalto vero e proprio della base aerea nemica. Abbiamo dati freschi riguardanti l’entità delle linee di difesa che dovrete spezzare o aggirare, vi consiglio di studiare bene quei documenti e distribuirli ai comandanti sul campo.» «Certamente, sarà fatto.» «Questo è quanto, Nader. Cosa ne pensi?» «Mi piace.» Commentò Fathy, lisciandosi i folti baffi. «Mi sembra un piano ragionevole, anche se forse è poco macchinoso rispetto ai tuoi standard.» Scherzò ancora il Generale Fathy, come se non avesse pienamente recepito l’importanza di quel meeting. «Domande? Dubbi?» «No, è tutto chiaro. Vorrei solo aggiungere un particolare. Di recente i nostri alleati siriani hanno trasferito sotto il mio comando alcune unità per operazioni speciali, penso che questa potrebbe essere l’occasione giusta per mandare i ragazzi del tenente colonnello Al-Malik sul campo.» Disse l’egiziano, portando l’attenzione di Petrosian sull’altro ufficiale lì presente. Il siriano dal basco amaranto non aveva ancora aperto bocca, si era limitato ad ascoltare i piani dei superiori con uno sguardo truce stampato in volto. «Generale Petrosian, gli uomini del reggimento sotto il mio comando sono tutti pronti all’azione.» Confermò il tenente colonnello Walid Al-Malik con voce ferma.

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«Mi sembra di capire che lei sia perfettamente d’accordo nel prendere parte a questa manovra d’attacco, colonnello.» «Sì, generale. Da quando siamo arrivati in Europa io e i miei soldati ci siamo occupati soltanto di repressione delle insurrezioni civili, è dai tempi delle battaglie in nord Africa che non ci scontriamo con le truppe degli Alleati. Francamente gli insorti non rappresentano un nemico abbastanza impegnativo da uccidere... Considerato il nostro livello di addestramento e di esperienza, saremmo di sicuro più utili in prima linea.» Concluse Al-Malik. Il generale Fathy annuì. «Ben detto, tenente colonnello. I suoi soldati potrebbero fare da avanguardia alle mie divisioni, saggiando le difese americane e travolgendole con azioni rapide, inaspettate e violente. E nel caso che lei o i suoi uomini doveste incappare in forti resistenze, non dovrete fare altro che chiamare il supporto delle mie unità pesanti, vi apriremo la strada con missili, artiglieria e carri armati.» Ottenuto il consenso di entrambi gli ufficiali mediorientali, anche il viso di Petrosian si rilassò, in un’espressione di compiacimento che sarebbe potuta molto lontanamente somigliare a un sorriso a labbra strette. «Una combinazione di piccole unità per operazioni speciali e ampie formazioni militari pesanti, l’ideale per adattarsi a ogni situazione. Se tutto andrà secondo i miei piani, entro domani ci troveremo sulle piste di Grosseto a festeggiare la caduta della base americana.» Fathy rispose mostrando i denti gialli di nicotina, mentre AlMalik non mutò espressione, anche se i suoi occhi sembravano più animati, quasi si fosse accesa in loro una luce sinistra.

*** 3 maggio 2012, ore 20:03 locali - AFB Grosseto, Italia

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L’Air Force Base di Grosseto era stata edificata sulle macerie del vecchio aeroporto e della vecchia installazione militare del 4° Stormo dell’AMI, entrambi distrutti dalle bombe russe durante le prime fasi dell’invasione della penisola. Dopo che le forze Alleate erano riuscite a liberare il nord e parte del centro Italia, l’operatività della base di Grosseto era stata ripristinata, e pezzo dopo pezzo era cresciuta fino a diventare il principale snodo logistico e strategico del fronte italiano. Oltre a una ridotta componente terrestre dell’US Army, il grosso della AFB serviva ad accogliere le squadriglie dell’USAF e dell’US Navy schierate per contribuire alla liberazione dell’Italia, ognuna con i suoi baraccamenti e i suoi hangar. La base ospitava ogni tipo di aeromobile militare: caccia F-22A per la superiorità aerea, aerei d’attacco F-15E e F-35A, F-35C della Marina, aerocisterne KC-10A, cargo MC-130 per operazioni speciali; e innumerevoli altri. Però, fra tutte le tipologie di velivolo lì presenti, quello che aveva destato maggiore curiosità nel personale assegnato alla base era un esemplare unico custodito in un hangar anti-bomba appositamente realizzato e sorvegliato a vista da personale dello Squadrone Forze di Sicurezza. L’aereo era giunto a Grosseto un paio di settimane prima, parzialmente smontato e trasportato all’interno di un mastodontico cargo C-5M Super Galaxy, assieme a vari pezzi di ricambio e ai tecnici assegnati alla manutenzione del velivolo. Il C-5M era stato svuotato del suo prezioso carico mentre si trovava ancora all’interno dell’hangar, così nessun militare non autorizzato e soprattutto nessun satellite spia nemico erano stati in grado anche solo di osservarlo da lontano. L’esistenza di quell’aereo finora era stata mantenuta segreta, anche se mancava poco al suo debutto ufficiale. Nei cieli degli Stati Uniti aveva superato con successo la fase di prototipo e in quel momento era pronto per il suo primo volo operativo, che avrebbe effettuato molto vicino ai campi di battaglia italiani.

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Il capitano Vincent “Becks” Somerville era uno dei tanti piloti dell’USAF assegnati a quella base, in particolare lui faceva parte di uno Squadrone di F-22A Raptor. Stava camminando a passo svelto lungo una delle piste di atterraggio dell’aeroporto con indosso la tuta di volo verde oliva dei piloti, completa di stemmi e il logo del 44° Stormo, un copricapo a bustina con le insegne di grado e un paio di occhiali Ray-Ban scuri. Becks aveva partecipato a numerose missioni combattute nei cieli di mezzo mondo, l’ultima delle quali risaliva ad appena una settimana prima. Assieme al suo gregario Charlie “Rowdy” Rodriguez, aveva fatto parte di una formazione d’attacco mista Aeronautica/Marina spedita a distruggere un importante nodo di comunicazioni nemico: lui e Rowdy si erano dovuti occupare della supremazia aerea, mentre gli altri aerei sganciavano le loro bombe e i loro missili antiradar sugli obiettivi a terra. Quello in teoria, ma nella pratica il package si era trovato di fronte talmente tanti velivoli nemici che tutti quanti i piloti americani si erano dovuti mettere d’impegno per riuscire a riportare a casa la pelle. Si trattava della missione in cui il capitano di corvetta Ghost “Desert” Freightner era stato abbattuto, per poi essere soccorso dal ritrovato amico d’infanzia Luke Andrews, divenuto ufficiale delle Forze Speciali. Dopo ben tre richieste formali, il capitano Vincent Somerville era finalmente riuscito a ottenere l’autorizzazione per visionare di persona il misterioso aereo sperimentale dato che, come tutti gli altri alla base, neanche i piloti sapevano molto di quella faccenda. Per tutto il giorno era stato impegnato con le scartoffie, ma adesso era fuori servizio e ansioso di poter dare un’occhiata a quell’aereo, per farsi un’idea della sua reale qualità ed efficacia in azione. Lui volava sul Raptor, il più avanzato caccia occidentale attualmente in servizio, doveva sapere se ben presto nell’arsenale statunitense avrebbe fatto la sua comparsa un modello migliore. Era una questione di orgoglio, qualcosa che chiunque non fosse un pilota di caccia non era in grado di comprendere.

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Lungo la pista di atterraggio sfilò in quel momento proprio una coppia di F-22A Raptor di ritorno da una missione di CAP, pattugliamento aereo. Procedevano a bassa velocità, con le turbine al minimo e i cupolini a goccia aperti. Becks riconobbe il primo dei due Raptor, era proprio quello assegnato al suo gregario Rowdy, che infatti lo stava salutando alla loro maniera: con un braccio fuori dall’abitacolo e mostrandogli con enfasi il dito medio. Becks ricambiò il gesto dell’amico, trattenendo a stento una risata; questa volta era stato colto alla sprovvista, doveva ammetterlo. Quando il Raptor gli fu abbastanza vicino, poté vedere che anche Rowdy gli stava rivolgendo un luminoso sorriso a trentadue denti, seminascosto dal casco di volo e dalla maschera a ossigeno slacciata. Ma all’ultimo momento i due ufficiali dell’USAF ritornarono seri, mutando all’unisono i loro gestacci in rispettosi saluti militari. Vincent seguì con lo sguardo l’aereo dell’amico che si allontanava, mentre all’orizzonte il sole stava tramontando. La luce scarlatta del crepuscolo si mescolava al cielo color blu cobalto che andava scurendosi, e si rifletteva anche sulle armoniose superfici raccordate dell’aereo. Era una vista mozzafiato, degna di essere immortalata e finire sulla copertina di qualche rivista specializzata. Becks era un fotografo dilettante e in passato gli era già capitato di vendere qualcuno dei suoi scatti migliori ad alcune riviste, ma quella sera aveva lasciato la reflex chiusa nella custodia, nel cassetto del comodino del suo alloggio. Non l’avrebbero mai fatto entrare nell’hangar del prototipo con una macchina fotografica al collo. Difatti all’ingresso venne subito fermato da un aviere delle Forze di Sicurezza, in piedi di fronte alla porta laterale, mentre un secondo guardiano se ne stava seduto a una scrivania dentro un gabbiotto aperto. A fianco del portone metallico verniciato di rosso c’era una targa indicante l’unità che in quel momento occupava quegli spazi: “AFOTEC DET. 6”, il sesto distaccamento del centro di ricerca e

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sviluppo tecnologico dell’USAF, quello che si occupava dei caccia di ultima generazione. «Somerville.» Si presentò Becks. «Dovrei essere nella lista degli invitati alla festicciola.» L’aviere seduto alla scrivania controllò il suo computer e dopo pochi attimi fece un cenno d’assenso al piantone, che si fece da parte per far passare l’ospite. «Può procedere, signore.» Il capitano varcò la soglia dell’ampio edificio togliendosi gli occhiali scuri e infilandoli nella tasca sinistra della tuta di volo. L’interno dell’hangar era illuminato a giorno da potenti fari alogeni, ma non gli sembrava proprio il caso di fare un ingresso da rockstar. Il solitario aereo sperimentale, parzialmente coperto da un telo grigiastro, occupava il centro dell’aerorimessa. La porzione anteriore della fusoliera era scoperta, mentre le semiali, i propulsori e la doppia deriva di coda erano nascosti dal telone. Sotto la copertura si poteva distinguere una sezione alare a delta da cui si protendeva il tronco anteriore della fusoliera, come nel Mirage francese o anche nei vecchi Delta Dagger e Delta Dart statunitensi. Le semiali erano piuttosto corte, tipiche di quel design, e armoniosamente fuse con i due statoreattori e il resto della fusoliera. Due alette canard spuntavano ai lati dell’abitacolo monoposto e due derive verticali di coda inclinate verso l’interno del velivolo mantenevano tesa la parte superiore del telone. In generale il suo design poteva ricordare quello di uno storico SR-71 da ricognizione, soltanto in scala ridotta. «Sexy...» Giudicò Vincent, osservando le porzioni visibili dell’aereo e la linea distinguibile sotto la copertura bianca. Gli si avvicinò, facendo lo slalom fra carrelli pieni di attrezzi e pezzi di ricambio di vario tipo, poggiò una mano sul gelido metallo dell’aereo e abbassò la testa per scrutarne la parte inferiore. Il carrello triciclo sembrava proprio quello di un F-22A: molto probabilmente per risparmiare tempo e fondi pubblici i progettisti della Lockheed si erano serviti di alcune componenti di minore importanza già in produzione. Sotto la “pancia” del velivolo si

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aprivano ben quattro stive armi, per conservare gli ordigni all’interno della fusoliera e limitarne quindi la segnatura radar. Alla pari del Raptor di Vincent e del Lightning II di Ghost, anche quel caccia era stato progettato per essere uno stealth. A parte i soliti stemmi di squadrone, i loghi delle ditte produttrici e un paio di lunghe strisce blu che correvano lungo la fusoliera, il prototipo era stato dipinto completamente di bianco. «Bisogno di qualcosa?» Becks si voltò verso l’origine di quella voce. Alle sue spalle era sopraggiunto un altro pilota, un ragazzo di circa venticinque anni che vestiva una tuta di volo arancione da collaudatore, invece dei più comuni colori verde oliva o sabbia. Si era svestito della parte superiore, legandosi le maniche all’altezza della cintura e rimanendo così in maglietta nera a maniche lunghe. Il nuovo arrivato superava in altezza il metro e ottanta di Becks di almeno cinque centimetri, aveva gli occhi verdi, i capelli castano scuro pettinati da un lato e sfoggiava un’espressione incuriosita ma allo stesso tempo amichevole, non pareva essersela presa per aver scoperto un estraneo a ficcare il naso attorno al suo aereo. «Roba tua?» Domandò Becks. «Esatto. Primo pilota collaudatore.» «Mi chiamo Somerville, Vincent Somerville, piacere.» Visto che era venuto a curiosare nel giardino di qualcun altro, tanto valeva usare la cortesia di presentarsi. «Michele Redes... Capitano.» Specificò il ragazzo, stringendo la mano di Vincent. Siccome non indossava nessun copricapo e la parte superiore della sua tuta era abbassata, il suo interlocutore non aveva modo di intuire il suo grado militare. «Michele, ho capito bene? Non Michael?» Gli domandò Vincent, per essere sicuro di non sbagliare. «Esatto. Ho origini italiane, anche se sono cresciuto negli Stati Uniti... Cioè, i primi anni della mia vita li ho trascorsi in Germania, mi trovavo a Berlino proprio quando è scoppiata la guerra, allora siamo stati evacuati negli Stati Uniti e ho perso di vista tutti i miei amici...» Michele si rese conto che quel concentrato di informazioni non stava facendo altro che disorientare Vincent. «È

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una storia complicata, penso l’avrai capito.» Concluse, con una risata. «Sì, in effetti dà l’impressione di essere una faccenda piuttosto intricata.» «Sicuro di essere autorizzato a trovarti qui dentro?» Domandò il capitano Redes per sicurezza, anche se occuparsi di questo genere di cose non rientrava nei suoi compiti. «Ovvio, altrimenti quei Rambo all’ingresso non mi avrebbero mai fatto entrare.» «Eh, immagino di no.» Assentì. «E così... Questa bellezza sarebbe?» Sbrigate le formalità, era del prototipo che a Becks interessava discutere. «Per ora Washington l’ha designato YF-28, mentre qui i ragazzi se ne sono usciti con il soprannome di Thunderbird.» «Capisco, è perché la linea assomiglia parecchio a quella del Blackbird.» «Può darsi, sono qui da poco tempo e quando sono arrivato gli altri gli avevano già dato quel soprannome. Di sicuro è una linea fatta per viaggiare veloci.» «Cioè? Di che velocità massima stiamo parlando?» «Una volta sistemati gli ultimi dettagli, ad alta quota dovremmo riuscire a sfondare la barriera del Mach 4.» Vincent si lasciò sfuggire un fischio. «In pratica duemilasettecento nodi? Cinquemila chilometri orari? Direi che si merita tutti i soprannomi veloci che vuole.» «Sei con il 44° Caccia, vedo dallo stemma dell’uniforme. F-22A Raptor.» Vincent annuì. «Esatto. Invece tu su cosa volavi prima di diventare pilota collaudatore?» «Principalmente il Falcon, ma ho esperienza anche con lo Strike Eagle, e perfino il Warthog.» «Non con il Raptor, però.» Osservò Vincent, gonfiando con orgoglio il petto per far risaltare ancora di più lo stemma cucito sulla tuta di volo. Michele non si fece abbattere da quella frecciatina.

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«No, non ho fatto in tempo a prendere l’abilitazione sul Raptor. Sai, ero troppo impegnato a farmi assegnare questo gioiellino.» Rispose, poggiando una mano sul metallo della fusoliera. «Thunderbird... Il caccia intercettore sperimentale di ultima generazione nato per surclassare ogni altro caccia esistente.» Concluse, tamburellando le dita sulla superficie dell’aereo. Vincent ricambiò il sorriso compiaciuto del capitano Redes. Se l’era cavata bene in quel dogfight verbale. «Sì, be’, è un modo di vedere le cose.» Riprese il capitano Somerville, muovendo qualche passo attorno all’aereo. «Ma per adesso surclassa ben poco, dato che è solo un prototipo.» «Ammetto che è vero. A parte i test di volo, in questo squadrone non si fa nulla di interessante. Mi manca parecchio entrare in azione.» «Poter mettere le mani sull’ultimo ritrovato della tecnologia bellica non dev’essere affatto male, ma personalmente non credo che potrei barattare l’occasione di menar le mani con il nemico per qualche volo di routine su questo Thunderbird.» «Eh, ti capisco bene! Spesso qui mi sento un po’ come una specie di ruota di scorta, ma c’è anche da dire che a parte farmi qualche voletto con questo gioiello, esiste anche un’altra motivazione personale che mi ha spinto a venire qui.» «Cioè?» «Ecco...» Michele si prese un paio di secondi per riordinare le idee. «Hai presente quei miei amici di Berlino di cui ti ho parlato prima, i ragazzini con cui sono stato costretto a rompere i rapporti a causa della guerra?» «Certo.» «Di recente ero riuscito a rintracciare uno di loro. Avevo letto per caso il suo nome in un rapporto di missione, quando l’ho visto quasi non riuscivo a credere ai miei occhi. Poi ho fatto qualche ricerca, un controllo incrociato sui suoi dati... Ed è venuto fuori che era proprio lui. A diciotto anni si è arruolato in Marina e adesso è un pilota da caccia, imbarcato sulla portaerei Truman.

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«E alcuni squadroni della Truman al momento sono assegnati quaggiù.» Asserì Vincent, che aveva capito dove Michele stesse andando a parare. «Non solo, appena una settimana fa era stato trasferito a questo stesso distaccamento dell’AFOTEC come collaudatore. Ed ecco come mai anch’io ho chiesto il trasferimento, con l’esperienza maturata in questi anni di guerra potevo chiedere di farmi spostare praticamente ovunque.» «Vi siete già ritrovati?» «Macché!» Il capitano Redes si lasciò andare a un’altra sonora risata. «Quello sciroccato non ha perso la sua abitudine di andarsi sempre a ficcare in qualche guaio... Avrebbe dovuto svolgere ancora un’ultima missione con la sua squadriglia della Marina, prima di essere definitivamente trasferito all’AFOTEC, ma ha finito per farsi abbattere da un Su-37 Terminator proprio sopra una zona di guerra. So che è riuscito a cavarsela, ma non sono riuscito a ottenere notizie riguardo alla sua situazione attuale. Per qualche motivo i suoi ultimi movimenti non sono tracciabili.» «Aspetta, un pilota della Marina abbattuto da un Terminator? Quando dovrebbe essere successo?» «La notte fra il 24 e il 25 aprile, prima che io arrivassi qui.» «Cazzo, c’ero anch’io quella notte sui cieli di Roma!» Esclamò Becks, collegando i vari avvenimenti. «Eravamo io e il mio gregario, assieme a due F-16 del 314° e quattro F-35 della Marina. Come si chiama il tuo amico?» «Capitano di corvetta Götz Freightner, ma siccome nessuno riusciva a pronunciare il suo nome è diventato per tutti Ghost.» «Desert, ma certo. Era proprio il capo missione, codice di chiamata Eldorado Uno. L’ho conosciuto il giorno prima, durante un briefing.» Gli occhi del giovane ufficiale si illuminarono. «Ma non mi dire, come stava?» «In quel momento bene, però il giorno successivo l’ha passato fra pallottole ed esplosioni, quindi non garantisco per le sue condizioni attuali.»

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Il capitano Redes rise di quella battuta. Somerville aveva ragione, l’ultima domanda che gli aveva posto non aveva molto senso. «Credo di sapere come mai hai avuto difficoltà a trovare informazioni su di lui.» Aggiunse Becks. «Nei giorni successivi alla missione di quella notte so che è stato soccorso da un team delle Forze Speciali, ma invece di ritornare alla AFB Grosseto è stato rimpatriato. Poi ha svolto degli incarichi alquanto misteriosi per un certo generale dell’Esercito altrettanto misterioso, la classica tipa losca da black operations.» «Oh cieli, in che cavolo è andato a immischiarsi?» «Non ne ho idea, ma se non altro è ancora vivo.» «Giusto, devo comunque rimanere concentrato sugli aspetti positivi della vicenda. Adesso che so a grandi linee dove andare a cercarlo, non ho intenzione di perdere quest’occasione. Ti ringrazio infinitamente, Vincent.» Michele di colpo si era fatto serio. Il suo sguardo lasciava intendere quanto giudicasse importante riuscire a ricongiungersi con il suo vecchio amico. In quell’istante si attivarono gli altoparlanti dell’intera base, per comunicare le ultime importanti novità. «Attenzione. Messaggio per tutto il personale della base: avviata condizione di preallarme. Ripeto: avviata condizione di preallarme. Equipaggi di volo da combattimento a rapporto presso i comandanti di squadriglia. Questa non è un’esercitazione.» «Questo è inaspettato.» Commentò Somerville. «Non promette nulla di buono.» «Staremo a vedere. Ti saluto Michele, devo scappare.» «Certo, è stato un piacere.» «Piacere mio, in bocca al lupo per la ricerca del tuo amico, e anche per il tuo supercaccia surclassatore.» Aggiunse, inforcando nuovamente i Ray-Ban scuri. Il capitano Redes rispose all’ennesima battuta sarcastica di Vincent con l’ennesimo sorriso. «Surclasserà, fidati. Surclasserà parecchi dei giocattolini russi che adesso scorrazzano per i cieli di mezzo mondo pensando di

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esser loro i padroni.» Replicò Michele fra sé e sé, dato che Vincent era già corso via per raggiungere il suo posto di combattimento. Stavolta toccava al capitano Redes aspettare, restarsene lì con le mani in mano mentre gli altri entravano in azione. Ma il giovane ufficiale sapeva che il suo momento sarebbe giunto molto presto.

Continua...

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