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Zut, il "centro del mondo" dove transita il contemporaneo

Nella Foligno post-sismica, la città risorge anche grazie a Zut, spazio gestito da un quartetto di artisti che ha fatto del legame con il territorio il punto di forza di una programmazione tutta orientata al nuovo.

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di Marco Menini

Zut! è un’espressione colloquiale francese che indica sorpresa e stupore. Ed è forse questa la sensazione che talvolta rimbalza nelle teste di Michele Bandini ed Emiliano Pergolari, visto il rapido cammino che in poco tempo ha portato lo Spazio Zut, da loro gestito, a diventare una delle realtà più interessanti dell’Umbria. Siamo a Foligno. Sono passati quasi tre lustri da quando i due di Zoe Teatro debuttarono a Santarcangelo con il corto teatrale Vi e Ve, imponendosi all’attenzione di critica e pubblico. Da allora ne hanno percorsa di strada, fino a giungere al “centro del mondo”, verrebbe da dire. Lo spazio che si affaccia su Corso Cavour, infatti, trasformato in sala teatrale dopo il sisma del 1997, è situato di fronte a una banca, che ha preso il posto di uno storico bar – sic transit gloria mundi – famoso per un biliardo, il cui punto centrale veniva chiamato dai folignati: «Lu centro de lu monno». Bandini e Pergolari, chiamati inizialmente come consulenti per la sezione teatrale, in poco tempo sono diventati soci a tutti gli ef-

fetti nella gestione dello spazio, insieme ad altri due sodali, Elisabetta Pergolari e David Rinaldini, che si occupano della programmazione musicale. Memori dell’esperienza nel Teatro delle Albe, i due di Zoe, dopo anni di attività sul territorio, hanno sentito che l’idea di comunità, di rapporto col tessuto sociale e urbano «si era sedimentata nella loro poetica». Oltre ai laboratori che tenevano ogni anno, sentivano crescere di pari passo la richiesta di teatro contemporaneo perché, sottolineano, «non c’erano in Umbria stagioni che permettessero di vederne». Così, una volta saliti a bordo, hanno cercato di rispondere a tale esigenza. E il percorso di radicamento e di incontro, fatto portando avanti la loro idea di teatro con il territorio/pubblico, lo hanno articolato secondo tre precise direttrici: la stagione teatrale, un’offerta laboratoriale rivolta a tutte le fasce d’età, con un occhio di riguardo alle giovanissime generazioni, e infine le residenze. Nel corso degli anni sono passati in stagione a Foligno nomi come Lucia Calamaro, Motus, Teatro delle Albe, Teatropersona, Daniele Timpano, Zaches Teatro, Sotterraneo, Livia Ferracchiati, tanto per fare degli esempi. Riguardo all’idea di programmazione, affermano senza esitazioni di aver cercato «sin dall’inizio di avere una prospettiva aperta», scegliendo lavori che fossero «il più possibile esemplificativi di quello che è stata la scena contemporanea italiana di questi ultimi anni», anche ospitando in stagione proposte che avevano debuttato da qualche anno, come (a+b)3 dei Muta Imago, Ella di Nerval Teatro o InvisibilMente dei Menoventi e offrendo al contempo spettacoli spesso distanti dalla loro “estetica produttiva”. «Non è un’offerta teatrale fine a se stessa, fatta in base ai nostri gusti – dice Pergolari –, perché mescola le scelte della direzione artistica con le esigenze dei cittadini e l’identità del progetto Zut nel suo complesso». Sempre guidati da un franco desiderio di confronto con il pubblico, la cui risposta non ha tardato ad arrivare. Con un numero di spettatori che in pochi anni è cresciuto diversificandosi per tipologia e fasce d’età, lo Spazio Zut è diventato in poco tempo un luogo vivo e frequentato, «al servizio delle necessità della città» precisa Bandini, guadagnandosi il sostegno ideale e progettuale delle istituzioni che al momento si impegnano fattivamente anche con un piccolissimo contributo economico. A favorire l’incontro col pubblico c’è anche la conformazione dello spazio. Dove, prima del sisma, era la galleria del cinema Vittoria, si trova adesso un piccolo luogo conviviale, «un luogo dove confrontarsi anche con gli artisti, dove gli spettatori possono ragionare tra loro», fanno notare Bandini e Pergolari. È un luogo, inoltre, dove si possono fare riunioni, incontri, presentazioni di libri o allestire mostre di fotografia. Il vero cuore pulsante dello spazio. E in questo luogo, dove la piccola ristorazione è rigorosamente vegetariana, non disturba affatto poter gustare prodotti del territorio accompagnati da un bicchiere di vino, magari un ottimo Sagrantino di Montefalco della Cantina Scacciadiavoli. ★

Teatro Libero di Palermo, mezzo secolo di audacia

Nel cuore del capoluogo siciliano, un piccolo teatro vive e lavora da cinquant’anni proponendosi come luogo di divulgazione, socializzazione, formazione ai linguaggi del teatro, centro di produzione e di passaggio delle più diverse forme d'arte.

di Filippa Ilardo

«Quei teatri, le cui parole d’ordine sono lavoro, ricerca, audacia, meritano che si dica di loro: non sono stati fondati per prosperare, ma per durare senza asservirsi». Questa frase di Copeau sintetizza l’avventura culturale e umana di una realtà che è difficile racchiudere in poche righe: il Teatro Libero di Palermo che quest’anno festeggia i suoi 50 anni di attività. Una lunga storia che ha sedimentato, nell’immaginario collettivo della città, germi di poetiche, di pratiche, di estetiche e forme che, grazie all’instancabile e coerente attività di Beno Mazzone, si sono per anni incrociate, segnando il pensiero, i linguaggi, l’evoluzione artistica delle nuove generazioni di teatranti. Dai primi passi universitari, alla costituzione della Compagnia (nel 1968), alla creazione (nel 1970) del Festival IncontroAzione, uno dei più importanti di tutto il meridione, capace di dialogare con i maggiori festival europei. Caratteristica del festival, oltre alla forte vocazione internazionale, era l’attenzione ai nuovi linguaggi, alla nuova drammaturgia, alla danza e al teatro-danza, all’interdisciplinarietà (musica, tradizioni popolari, fotografia, cinema). In simbiosi con il festival era anche l’esperienza del laboratorio teatrale universitario. Tantissimi gli ospiti che hanno contribuito ad accrescere, di anno in anno, il prestigio del festival: Bolek Polivka di Brno (1976), Comuna Baires (1973), Andrei Wajda con lo Stary di Cracovia (1982 e 1988), i Sei personaggi diretti da Vasil’ev (1989), Toneelgroep di Amsterdam (1992), Maguy Marin, Micha van Hoecke, Angelin Preliocaj, Susanne Linke, Jean-Claude Gallotta, Vicente Saez, Lucia Latour, Enzo Cosimi, Laura Corradi. Da segnalare è soprattutto la forza dirompente e la coerenza che caratterizzava il festival IncontroAzione, che ha formato tante professionalità, dato casa a tante compagnie, dato vita a produzioni e co-produzioni, collaborazioni e momenti di formazione, difficili da riassumere. Rileggendo le cronache del tempo, colpisce come la caratteristica principale della manifestazione fossero i momenti di riflessione su pratiche e processi, linguaggi e forme di comunicazione, attraverso dibattiti, discussioni, incontri, eventi collaterali. Era il pubblico il fenomeno più interessante di IncontroAzione, una comunità di pensiero che rincorreva gli spettacoli proposti nei vari teatri, che accettava le provocazioni, dibatteva, si interrogava. Una «piccola casta di spettatori affezionati» lo aveva definito Roberto Alajmo, sulle pagine del Giornale di Sicilia del 1990. Per mezzo secolo, il festival, come evento socializzante e di forte aggregazione culturale, ha avuto un ruolo pedagogico primario, iniziando il pubblico siciliano al linguaggio del teatro, formando un pubblico «colto e popolare, esigente e generoso» come scriveva il professore parigino Jean-Pierre Sag. Un pionerismo trasversale e non istituzionale ha caratterizzato questo lavoro dal forte slancio rivoluzionario, unito alle tante difficili battaglie per reperire spazi e risorse, sempre troppo esigui rispetto al valore della manifestazione. Fra le tappe significative ricordiamo i focus su città europee – Londra, Parigi, Bruxelles, Amsterdam – i numerosi convegni, come quello su “Teatro e animazione” (nel 1976 in concomitanza alla sperimentazione dei laboratori nei quartieri difficili della città), sul rapporto tra il teatro e il territorio, sul decentramento, sul pubblico da intendere non come “passivo fruitore” di spettacoli che “colonizzano” la vita culturale, ma destinatario di un lavoro del territorio, nel territorio. Infine, Itinerario/Sicilia, un vero e proprio circuito tra le maggiori città siciliane (Catania, Enna, Messina, Noto, Ragusa), in collaborazione con l’Eti: in ogni città per setteotto giorni consecutivi si alternavano una decina di gruppi. Il 1997 segna invece l’ultima edizione del festival, integrato ora nella Stagione Internazionale del Teatro. Oggi, il Teatro Libero, riconosciuto come Centro di Produzione

Teatrale dal MiBact, è un esempio virtuoso di gestione che propone, nella sua stagione, drammaturgia contemporanea europea, danza, circo contemporaneo, performance, con risorse molto limitate. Così Luca Mazzone, che del fondatore è fi glio, ci illustra il futuro: «Festeggiamo 50 anni fedeli alla nostra identità. Fra i nostri progetti un festival internazionale connesso con altri festival europei (Be Festival di Birmingham, Fit Festival di Lugano, Residenza al Teatro Ascona); la costante promozione della drammaturgia contemporanea, con progetti intergenerazionali; la presenza di Francesco Silvestri, artista residente per il prossimo triennio, che curerà un laboratorio permanente di drammaturgia e tre nuove produzioni; la collaborazione con Pav per il progetto Fabulamundi, per cui ospiteremo due drammaturghi europei in residenza, nell’ottica di una rafforzata produzione e divulgazione della drammaturgia europea. Allo studio c’è, inoltre, un’importante partnership tra realtà siciliane per un progetto di teatro, danza e musica». ★

Progetto Nadia, ovvero le ragioni della radicalizzazione

Giovani apparentemente integrati in Occidente che decidono di arruolarsi nell’Isis. A questo fenomeno, spesso passato nelle cronache, prova a dare senso un progetto della European Theatre Convention, i cui esiti sono andati in scena al Teatro Due di Parma.

di Gherardo Vitali Rosati

Chissà quanti giovani in Europa si trovano nella stessa situazione di Nadia, la ragazzina di quindici anni, tutti spesi in Occidente, che sentendosi sempre più sola si “radicalizza” e finisce nel Califfato. Intorno a questo personaggio, immaginario ma estremamente realistico, ruota un solido progetto internazionale – chiamato appunto Nadia – promosso dalla European Theatre Convention (Etc), la rete che unisce quaranta teatri in oltre venti Paesi. Ideato dal Toneelmakerij di Amsterdam, Nadia ha coinvolto cinque strutture che vanno dalla Norvegia all’Italia, passando per Belgio, Germania e Olanda. L’idea originale era di commissionare un testo – anch’esso chiamato Nadia – al giovane drammaturgo olandese Daniel Van Klaveren, che si era già concentrato sulle stesse tematiche con Jamal, e di allestirlo contemporaneamente in cinque lingue. Ma il Der Norske Teatret di Oslo ha poi deciso di adattare il romanzo Due sorelle di Åsne Seierstad, la storia di due ragazze norvegesi di origine somala che decidono di andare a combattere in Siria. Tutti gli altri teatri hanno seguito il progetto originale, allestendo quattro di-

, regia di Esther Jurkiewicz Nadia

verse versioni del testo di Van Klaveren che sono state presentate a dicembre al Teatro Due di Parma, il partner italiano di Nadia. «Ci siamo incontrati regolarmente per due anni con gli artisti dei vari Paesi – ha detto Giacomo Giuntini, regista dello spettacolo italiano – ci siamo confrontati sul tema e abbiamo riletto le varie bozze di Daniel, anche se poi lui non ha mai seguito i nostri consigli». Intanto, il drammaturgo conduceva le proprie ricerche: «Ho avuto una lunga e interessante conversazione con una poliziotta, in Olanda – ci spiega – che era in stretto contatto con uno dei giovani che avevano lasciato il Califfato. Sono ragazzi che si aprono a nuovi ideali perché si sentono soli, non provano alcun senso di appartenenza per il Paese che li accoglie, e anzi subiscono atti di razzismo». Al centro del suo testo c’è quindi il rapporto fra due ragazze in una scuola occidentale: Nadia, di origini mediorientali, e Anna. Compagne di banco, apparentemente inseparabili, iniziano però ad avere delle difficoltà con l’aumentare degli attentati, che portano sempre di più l’attenzione su Nadia. Quando un raid americano uccide, “per errore”, alcuni civili, fra cui gli zii della ragazza, lei entra in crisi. Non si sente più capita dai suoi compagni, e inizia a cercare amici sul web. È così che incontra Brahim, un ragazzo che parla molto di religione e riuscirà a farla fuggire di casa per raggiungerlo nel Califfato. Un testo perfettamente costruito, che sa creare empatia per la protagonista, rendendo credibile ogni momento della sua trasformazione. Gli allestimenti, principalmente rivolti alle scuole medie superiori ma molto efficaci anche con il pubblico adulto, hanno preso la forma del classroom play, pensati per essere rappresentati in un’aula, senza scenografie. Van Klaveren ha anche firmato la regia della versione olandese, interpretata in inglese nelle tournée internazionali. In scena, soltanto due schermi, dove vediamo il blog che sta scrivendo Anna o le chat di Nadia con Brahim. Tutto è affidato alle due attrici: Stefanie van Leersum, bionda e bellissima, incarna perfettamente la superficialità giovanile di Anna, al suo fianco Jouman Fattal che sa ben restituire il dramma interiore di Nadia. La versione italiana mantiene un impianto simile, anche se Giuntini inserisce alcune modifiche al testo che indeboliscono un po’ la struttura attribuendo ad Anna un monologo di Nadia e tagliando una scena del finale. Anche qui, tutto è affidato alle due interpreti: Eleonora Pace, abbastanza credibile nel ruolo di Nadia, e Maria Laura Palmeri, che sa restituire alcuni dei tratti di Anna. Stessa direzione anche per il Théâtre de Liège – che non abbiamo potuto vedere perché andava in scena in contemporanea con la versione olandese – dove la regista Isabelle Gyselinx ha diretto Loriane Klupsch ed Eva ZingaroMeyer. Si è staccata dal coro la regista tedesca Esther Jurkiewicz, con lo Staatstheater di Braunschweig, che ha scelto un impianto classico da palcoscenico, portando a Parma un breve estratto. Nel finale, la scena, curata da Henriette Hübschmann, è divisa a metà da un velatino, metafora dell’allontanamento fra Nadia e Anna, interpretate da Anja Dreischmeier e Sinem Spielberg. Un allestimento esteticamente vincente, ma più statico e freddo delle altre versioni. ★

Scrivere teatro: arte ed economia sulle due sponde dell'Atlantico

Italian & American Playwrights è il progetto internazionale ideato da Valeria Orani, che si impegna a traghettare autori dei due Paesi, nell’ottica di dare supporto, indipendenza e sostenibilità economica all’arte della scena. Perché bellezza non vuol dire demonizzare il business.

di Roberto Canziani

Due continenti. In realtà due diversi pianeti culturali dove non valgono le stesse coordinate. America ed Europa ma, per scendere più nel concreto, Stati Uniti e Italia. Italian & American Playwrights Project è il titolo dell’iniziativa che si concentra sull’attuale drammaturgia dei due Paesi prendendosi l’impegno di funzionare da traghetto. Non con i sorpassati transatlantici o avventurose imbarcazioni da regata, ma con strumenti contemporanei di analisi di mercato. A New York, all’incrocio tra 422E e 82th, da quattro anni ha sede Umanism NY, società di servizi che coltiva un’ambizione: dare supporto all’arte e alla creatività, in particolare a quella italiana, avviandola a quei principi di indipendenza economica e sostenibilità che definiscono il profilo del mercato culturale, e non solo culturale, statunitense. All’incrocio tra l’Umanesimo italiano e il concetto tutto anglosassone di humanism, Umanism NY è stata fondata da Valeria Orani, sarda d’origine, imprenditrice con un’esperienza consolidata nel settore dell’organizzazione teatrale (in Italia è direttrice artistica di 369gradi). La quale, sulle antiche rotte dell’emigrazione dal nostro Paese, ha deciso di piantare paletti nuovi. Dice Orani che bisogna smetterla di piangersi addosso, lamentando l’insensibilità e i fondi risicati che Stato e Istituzioni concedono a questo settore, e sviluppare invece un concetto imprenditoriale di cultura, che abbia certo a che fare con la “bellezza”, elemento che sta nel dna storico e geografico italiano, ma nel quale la parola business non venga vista come il demonio. Italian American Playwrights (alla seconda edizione) è il progetto che negli scorsi mesi ha assorbito le sue energie, volte in questo momento a dare solidità a una doppia pedana di visibilità drammaturgica. Da una parte ad autori italiani che, grazie alle traduzioni di Umanism NY, vedono presentati i loro lavori agli acquirenti statunitensi. Dall’altra ad autori americani, anch’essi tradotti, che si affacciano alla scena italiana, così poco permeabile a esplorazioni e di scarsa dimestichezza con le lingue. In un doppio gioco internazionale, a cui hanno preso anche parte il Martin E. Segal Theatre Centre con il suo direttore Frank Hentschker, l’Istituto di Cultura Italiana a New York, e Rai Radio3 come media partner, è capitato che i testi recenti di Fabrizio Sinisi (La grande passeggiata), Elisa Casseri (L’orizzonte degli eventi), Armando Pirozzi (Un quaderno per l’inverno), Giuliana Musso (Mio eroe) varcassero l’oceano. E che un campione di nuova drammaturgia Usa approdasse in Italia: una selezione, questa, non per caso improntata su questioni di multiculturalismo, che fa parte del dna americano, e tutta firmata da donne. Mariana Carreño King (autrice di Miss 744890), Amy Herzog (The Great God Pan) e Cori Thomas (con When January Feels Like Summer) sono state le tre drammaturghe d’oltreoceano emerse in questa nuova edizione, dopo che una serie di valutazioni dei due advisory board, uno statunitense uno italiano, ne avevano soppesato specifiche caratteristiche con metodi anche numerici, che non si discostano molto da quelli del marketing più avanzato. Traducibilità, originalità, interculturalità, interesse per il pubblico, potenziale produttivo, oltre al giudizio personale, sono le voci attraverso le quali la rosa delle candidature è stata selezionata. Presentati in una serata a Roma, al Teatro Vascello, in forma di lettura scenica in lingua italiana e con l’intervento delle autrici, i tre testi hanno mostrato una faccia dell’America che non è la stessa disegnata da film e musical d’importazione. Spazi come il carcere, dov’è rinchiusa l’irrequieta protagonista di Miss 744890. Dinamiche di meticciato e riscaldamento globale, iscritte anche nel futuro dell’Europa (il cuore dello scanzonato When January Feels Like Summer). I riflessi attuali di molestie e abusi subiti nell’infanzia (attorno a cui ruota The Great God Pan). A differenza di molta produzione italiana, la drammaturgia americana è votata in maniera decisa allo storytelling del contemporaneo e dell’immediato. E grazie a un mestiere studiato in quel Paese come professione, costruisce plot di forte presa. Caratteristiche – suggerisce Orani, che dell’Italian & American Playwrights Project ha tenuto tutte le fila – capaci di rapportarsi con il mercato, senza snobismi o pregiudizi. Soprattutto senza aspettare che un benevolo contributo statale, quando non è un’elemosina, dia loro vita. ★

Nelle foto, le tre drammaturghe americane: Mariana Carreño King, Amy Herzog e Cori Thomas.

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