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Tra idoli e altri “mostri sacri” tutte le emozioni della danza

PROJECT POLUNIN. FIRST SOLO, coreografia di Andrey Kaydanovskiy. Poesie di Alexander Galich. Costumi di Martin Leuthold. Luci di Christian Kass. Musiche di Alèmu Aga e Agustin Lara. Con Sergei Polunin.

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SCRIABINIANA, coreografia di Kasyan Goleizovsky. Regia e luci di Roman Mikheenkov. Costumi di Sofia Filatova. Musiche di Alexander Scrjabin. Con Sergei Polunin e primi ballerini e solisti del Teatro Bolshoi, del Teatro Stanislavskij di Mosca e del Balletto del Cremlino.

SATORI, coreografia di Sergei Polunin. Regia di Gabriel Marcel Del Vecchio. Scene di David LaChapelle. Costumi di Angelina Atlagic. Luci di Christian Kass. Musiche di Lorenz Dangel. Con Sergei Polunin e solisti del Teatro Bolshoi, del Teatro Stanislavskij di Mosca, del Teatro Nazionale di Belgrado, Fondazione nazionale della Danza di Belgrado.

Prod. Project Polunin-David Banks, Gabrielle Tana, Sergei Polunin, LONDRA. Quando si supera l’essere “interprete” o étoile e la presenza marchia a fuoco il palcoscenico, non ci sono dubbi e il risultato convince. Stiamo parlando dell’ucraino Sergei Polunin, ex-principal dancer del Royal Ballet di Londra messo sotto i riflettori del grande pubblico prima dal videoclip Take me to the Church, diretto da David LaChapelle sulle omonime musiche di Hozier, e poi dal recente documentario di Steven Cantor Dancer, in cui viene indagato tra persona e personaggio. A poca distanza dal debutto al London Coliseum, il suo Project Polunin è arrivato in Italia - da noi visto al Teatro Comunale di Modena - offrendo in un’unica serata il gioiello del repertorio sovietico Scriabiniana di Kasyan Goleizovsky, il dirompente First Solo, creato per il divo da Andrey Kaydanovskiy sulle sonorità dell’arpa etiope Begenna, e la sua prima impresa coreografi ca Satori. Con un titolo in giapponese che richiama volutamente una “nuova consapevolezza” con agganci al buddismo Zen, Polunin segna con questo lavoro il suo ritorno alla danza attraversando in maniera catartica la propria biografia. Con le scene firmate da David LaChapelle in cui appaiono elementi multimediali, come gli alberi della saggezza e la costellazione dello Scorpione, Polunin, insieme a ballerini dei moscoviti Bolshoi e Stanislavskij e del Teatro Nazionale di Belgrado, plasma una coreografia semplice nell’ordito ma ricca di sincerità e intensità. Il dialogo del protagonista con il suo iofanciullo, tra flashback indotti dal contatto, la separazione dei genitori e i relativi demoni che infestano i suoi sogni si stemperano con l’arrivo di una figura in rosso. Forse l’infiammata Passione o Tersicore, il misterioso personaggio femminile rincuora il nostro indicandogli il palcoscenico quale luogo da abitare e in cui esprimersi. Ancora acerbo sul piano coreografico The Graceful Beast, così è stato definito Polunin per la capacità di unire forza e grazia, vive di contrasti e forze propulsive che, se ben canalizzate, porterebbero a risultati notevoli. Carmelo A. Zapparrata

SERATA BACH. Views of The Fleeting World,

City, Polymorphous, Celestial Tides, coreografie di Pascal Rioult. Scene di Herry Feiner. Costumi di Karen Young. Luci di David Finley. Musiche di J.S. Bach. Con Rioult Dance. Prod. Rioult Dance, NEW YORK.

Gli impulsi della musica si incarnano nelle emozioni di corpi fluidi, cangianti come le dolci pieghe del velluto. Serata da veri intenditori sulle musiche di Bach con la Rioult Dance New York, alla prima edizione del Danza in Rete Festival di Vicenza e Schio, erede di Vicenza Danza. Allievo e solista con Martha Graham, il francese Pascal Rioult fonda nel 1994 la propria compagnia con sede a New York. Nelle sue coreografie, spirali, torsioni, contrazioni e distensioni si inanellano con dolcezza e senso dell’armonia senza pari, sposando la musica sino in fondo. È questa l’impressione avuta dai quattro titoli, creati dal coreografo tra il 2008 e il 2016. Amatissimo da molti autori della danza moderna per la tensione che riesce a sprigionare e le coloriture che dona al corpo, Bach in Pascal Rioult si fa cassa di risonanza di piacevoli languori impressionisti sulla natura, come per il raffinato pezzo d’insieme su L’arte della fuga intitolato Views of the Fleeting World, e specchio di altalenanti stati d’animo metropolitani. City è giocato tra figurazioni in quartetto e doppia coppia sulla Sonata per violino e pianoforte n.6 in Sol Maggiare, dove si alternano i gesti meccanici e stranianti delle ore diurne a quelli briosi e festivi della notte. Il tutto si arricchisce con la parte multimediale di Harry Feiner e Brian Clifford Beasley raggiungendo l’apice in Polymorphous, combinazione di vari assembramenti su una selezione di Preludi e Fughe da Il Clavicembalo ben temperato. Un vero e proprio simposio di diverse forme tra la fisicità dei danzatori, i loro avatar e le loro ombre proiettate sul fondale. È, infine, il soffice moto cesellato nel rapporto tra ensemble e solisti sul Concerto Brandeburghese n.6 in Sib Maggiore per Celestial Tides a chiudere la serata. Maree celestiali in cui, nella dimensione sospesa, riverberano schermaglie tra il maschile e il femminile per poi stemperarsi in un tessuto coreografico che procede a canone dal duetto sino all’ottetto d’insieme. Carmelo A. Zapparrata

CHUKRUM/PETRUŠKA, coreografie e scene di Virgilio Sieni. Costumi di Elena Bianchini. Luci di Mattia Bagnoli. Musiche di Giacinto Scelsi/ Igor Stravinskij. Con Jari Boldrini, Ramona Caia, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu, Andrea Palumbo. Prod. Teatro Comunale di BOLOGNA.

Dopo Le Sacre du Printemps del 2015, Virgilio Sieni con la sua compagnia è tornato sul palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna per confrontarsi nuovamente con il repertorio dei Ballets Russes di Diaghilev e le musiche di Stravinskij. Titolo scelto è Petruška, capolavoro coreografico concepito da Michel Fokine e interpretato da Nijinsky nel 1911 con scene e costumi di Alexandre Benois. Commissionato in prima assolu-

ta a Sieni dal Comunale con l’esecuzione dal vivo dell’Orchestra diretta da Fabrizio Ventura, lo spettacolo è stato aperto da Chukrum, raffinata partitura per archi di Giacinto Scelsi del 1963 e qui voluta dal coreografo come vero e proprio prologo alla sua versione del titolo. Dietro un pannello opaco diversi corpi vengono rivelati attraverso un gioco di luci e ombre che, sposandosi con le musiche, espongono l’atto creativo degli elementi, sbozzati oppure definiti e ancora umani o forse burattini, di Petruška. Qui, invece, nel fluire continuo della partitura di Stravinskij nell’edizione del 1947, sei interpreti della compagnia, vestiti da costumi trasparenti con calze opache sul viso suggestive di un “non-finito”, percorrono il perimetro della scena per poi coagularsi in pose plastiche a simboleggiare, secondo le intenzioni dell’autore, una comunità in continuo transito con echi al mondo dei Pulcinella e al rapporto umano/marionetta. Totalmente liquefatta la triade di personaggi della pièce (Petruška, la Ballerina, il Moro e priva del Ciarlatano demiurgo) riappare attraverso alcuni det tagli dei costumi, senza creare quell’unione tra corpi e scene su cui il titolo è innestato sin dalla sua genesi. Dal punto di vista estetico i movimenti risultano qui slegati dalle musiche di Stravinskij, già definite secondo una drammaturgia da saldare alla coreografia tramite dettagli importanti e caratterizzazioni che non è possibile trascurare. Sul versante del contenuto sia la tematica della comunità sia i collegamenti al mediterraneo e festaiolo Pulcinella appaiono improbabili e poco calzanti. Il russo Petruška, umano o burattino che sia, infatti, vive la solitudine e la prigionia attraverso cui esprime il suo lirico dolore, usando l’intero suo corpo come cassa di risonanza. Carmelo A. Zapparrata

BIT, coreografia e scene di Maguy Marin. Costumi di Nelly Geyres e Raphaël Lo Bello. Luci di Alexandre Béneteaud. Musiche di Charlie Aubry. Con Ulises Alvarez, Kaïs Chouibi, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, Cathy Polo, Ennio Sammarco e altri 3 interpreti. Prod. Théâtre Garonne-scène européenne, TOLOSA (Fr) - Théâtre de la Ville/Festival d’Automne, PARIGI e altri 11 partner internazionali.

Se è vero che «uno spettacolo non può certamente cambiare il mondo, ma può forse cambiare coloro che lo guardano», per Maguy Marin, Leone d’Oro alla Biennale Danza 2016, guardare non è mai un atto innocente. In BiT (2014), spettacolo con cui fa ritorno in Italia per l’Equilibrio Festival romano, sette pedane rettangolari metalliche, sostenute da impalcature sul lato posteriore, diventano praticabili vette su cui arrampicarsi, precipitare, sprofondare nel buio con impressionante effetto drammatico. Tre donne e tre uomini entrano tenendosi per mano, indossano costumi colorati che ne evidenziano il genere: vestito o gonna fino al ginocchio; camicia, pantaloni e borsalino. Schierati su un’unica flessibile riga, passando sempre uniti nelle fessure tra le pedane, accennano a una sequenza di passi eseguiti all’unisono, una danza folkloristica che ricorda il sirtaki greco. E proprio come in questo ballo caratterizzato dall’accelerazione, gli stessi movimenti, all’inizio formalmente rigorosi, si trasformano per effetto di un crescendo ritmico in una danza tribale e dalle linee più morbide, sopra il beat della musica techno. Sciogliendo le mani e separandosi per brevi istanti, ma ancora mantenendosi in una relazione di reciproco ascolto, i danzatori soggiacciono a nuove forme di aggregazione: un ballo simmetrico, un gioco in cerchio di mani che battono. Ciò che sembrava destinato allo sterile moto perpetuo dettato dal condizionamento di cui la danza è storico riflesso - quello sociale - muta poi la sua sostanza: i corpi umani, avvolti in ampie stoffe che lasciano seni, braccia o gambe scoperti, scorrono lentamente come lava dalla cima di una delle pedane. La compagine che rappresentava un’entità coesa diventa un mucchio di amplessi e di orge simulati, un controcanto di scontri irruenti, di avvicinamenti minacciosi tra due esseri dalle sembianze anfibie. Un senso di spaesamento ci assale, come se ci trovassimo improvvisamente nudi, con l’imbarazzo di chi è abituato a negare la compresenza nell’uomo di una natura animale e la sua necessità di istituire delle norme di convivenza. Renata Savo

ROSSINI OUVERTURES, coreografia e regia di Mauro Astolfi. Scene di Mauro Astolfi e Marco Policastro. Costumi di Verdiana Angelucci. Luci di Marco Policastro. Musiche di Gioachino Rossini. Con Martiniana Antonie, Francesco Auriemma, Fabio Cavallo, Alice Colombo, Maria Cossu, Mario Laterza, Giovanni La Rocca, Giuliana Mele, Caterina Politi, Giacomo Todeschi, Serena Zaccagnini. Prod. Spellbound Contemporary Ballet, ROMA.

Un’ombra e una valigia. Una figura nera s’insinua, minacciosa, sotto il sipario, spettro inquietante venuto a turbare viaggi e avventure di Gioachino Rossini, musicista tanto prolifico quanto enigmatico. Quando si alza il sipario su Rossini Ouvertures i nove danzatori dello Spellbound Contemporary Ballet di Mauro Astolfi ci danno le spalle, sondano il buio, percorrono l’oscurità con lo sguardo. Ma subito respirano, si muovono seguendo una delle più celebri sinfonie dei melodrammi rossiniani, quella del Barbiere di Siviglia, da cui si sprigionano i due elementi attraverso i quali questa coreografia rilegge non solo l’intera drammaturgia, ma la parabola umana del Pesarese: l’inarrestabile, trascinante energia cinetica e un’ironia sottile, insinuante, rivoluzionaria. Lo sfondo del palcoscenico è interamente occupato da un monumentale armadio, immaginifico mosaico di ante, porte e finestre della Wunderkammer creativa rossiniana. Ne scaturisce un dialogo tra l’autore e le sue creature, tra il compositore e le passioni, le emozioni dei suoi personaggi, in un confronto serrato, acrobatico, avvincente, che opportunamente elude il cammeo ma colpisce con l’immagine: folgorante nella tenerezza con cui Angelina, la trepida Cenerentola, emerge da un libro di fiabe, come nella dolente deposizione che suggella una preghiera dallo Stabat mater, sofferta, ma umanissima accettazione della morte. Ferito da stilettate di luce, illuminato nell’oscurità delle pagine più contrastate, il mondo rossiniano si misura con il lato oscuro di un immaginario che riscopre il chiaroscuro, si affaccia sulla vertigine degli abissi, quasi lo reclama - mozartiano convitato di pietra - per l’ultima cena, pantagruelica e fatale. Il 150° anniversario della morte di Rossini rivela così prospettive inedite in una scrittura musicale che sublima i sensi e cristallizza gli affetti, per declinarli in gesti, movimenti, vita. Giuseppe Montemagno

In apertura, Sergei Polunin in Project Polunin (foto: Rolando Paolo Guerzoni); in questa pagina, Serata Bach, coreografia di Pascal Rioult (foto: Giorgio Viali) e Petruška, coreografia di Virgilio Sieni (foto: Rocco Casaluci).

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