Antonio Giuseppe Valenti ~ Sali in macchina a dirmi (venti cose brevi)

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Collana Le scommesse

Edizioni Progetto Cultura 2003 S.r.l.



Antonio Giuseppe Valenti

SALI IN MACCHINA A DIRMI (VENTI COSE BREVI)

Edizioni Progetto Cultura 2003 S.r.l.


ISBN 88-89243-16-3 Edizioni Progetto Cultura 2003 S.r.l. diffonde quest’opera pregevole stampata con carattere GEORGIA 10 nel mese di settembre 2004 da Legoprint S.p.a. www.progettocultura.it In copertina Antonio Giuseppe Valenti: Au revoir reine, 1998 (acrilici su cartone telato)


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Introduzione Uno scrittore, per antonomasia, dovrebbe avvertire la necessità imperante di comunicare, di trascrivere i suoi pensieri, le sue fantasie, i suoi infiniti modi di essere. Antonio Giuseppe Valenti, nella sua Lettera alla Redazione, confessa di aver dato naturale risposta, proprio attraverso questo libro, ad un suo personale bisogno: un’urgenza di dire, palpabile e irruente nella sua vitalità. Non per questo ci si attenda, tuttavia, un condensato di ego sottoforma di verità assolute e discorsi sentenziosi, a cui si è data voce dopo un perdurato silenzio. La sensazione che più trapela da questa antologia è quella di un amore per la parola scritta che, per realizzarsi appieno, necessiti di sopravvivere alle linee definite dei caratteri impressi nero su bianco. Anzi, proprio affinché la comunicazione assuma vita propria e sopraviva alla fine del ciclo di scrittura, l’unica possibilità appare quella di coinvolgere il lettore nel processo di creazione. Il lettore di Sali in macchina a dirmi (venti cose brevi) sembra chiamato a continuare un gioco: nella fattispecie, il gioco in cui l’autore ha sperimentato appieno la possibilità di ridurre a creta nelle proprie mani il mondo delle convenzioni letterarie, siano esse di genere o di lingua. Come sostiene Sartre, «l’oggetto letterario è una strana trottola che esiste solo quando è in movimento. Per farla nascere occorre un atto concreto che si chiama lettura e dura quanto la lettura può durare. Al di fuori di questo rimangono solo i segni neri sulla carta». La narrazione che si dipana in queste pagine prevede ampiamente il dovuto spazio d’autonomia destinato al fruitore. Come fossero dei prismi di cristallo sapientemente sfaccettati, i racconti qui antologizzati consentono a chi li osserva di assaporare la rifrazione di centinaia di diversi colori. Ognuno di noi è quindi libero di cambiare l’inclinazione e far assumere al cristallo una nuova, personale colorazione… Non va tuttavia dimenticato come la stessa libertà di movimento di cui sembra godere il lettore sia pur sempre orchestrata da un regista che ha operato a monte del processo creativo e


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che, qua e là, non ha mancato di lasciare tracce della propria volontà di dire, dell’iniziale intento di comunicazione; indipendentemente dal fatto che la scrittura possa poi tramutarsi in altro da sé. Ecco quindi emergere, di tanto in tanto, alcuni cenni a quella che resta pur sempre l’auctoritas dello scrittore; nel racconto di apertura, Puff! e l’onomatopea. Storia di un uomo che disparve, il nome del personaggio in questione, Giuseppe (Maria Messina), evoca quello dell’autore stesso. Simmetricamente, il terz’ultimo pezzo, Sali in macchina a dirmi, sembra voler ricordare ancora una volta, prima della chiusura, chi ha permesso l’inizio del “gioco”: il canto d’amore incondizionato – questa la natura del brano – è dedicato proprio ad un Antonio. Oltre ai riferimenti sulla propria identità, lo scrittore arriva a suggerire i livelli di senso da lui personalmente riposti nei testi al momento della stesura: è il caso di Rovinosa mente, nel quale è rintracciabile un discreto acrostico, un s i l v i a, che per i tanti lettori assumerà altri nomi e altri volti. Del resto, il surrealismo insegna che il linguaggio non combacia con la realtà. E, infatti, l’autore non rimanda oltre la dichiarazione di affinità con questo movimento artistico, citandolo apertamente: “È surrealismo questo…” (Puff! e l’onomatopea). Ma i legami con questa tradizione ritornano in maniera più o meno marcata anche successivamente. Alcune descrizioni travolgono a tal punto i limiti della verosimiglianza da evocare con forza tele dei grandi pittori surrealisti. “Un’immensa clessidra adagiata sull’Oceano indiano sovrasta il mondo ed innalzandosi fino a graffiare la galassia più distante, governa il tempo”, si legge nell’incipit di A mio padre: subito si sovrappongono davanti agli occhi celebri quadri, come Château des Pyrénées di Magritte, con l’immensa roccia con il castello sulla sommità, che si libra sul mare, contro uno sfondo di cielo azzurro; oppure La persistenza della memoria di Salvador Dalì, l’emblematica rappresentazione di orologi che si dissolvono ad indicare la fluidità del tempo. La minimizzazione - e in taluni casi la ridicolizzazione - del mondo cosiddetto reale è assoluta ed aprioristica e a ribadirlo non può mancare - all’interno di Una scrittrice - una menzione a Kandinskij, il quale aveva scelto l’abbandono delle forme reali a favore di un astrattismo che desse voce al principio di necessità interiore. I dettami del realismo e della verosimiglianza appaiono


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intollerabili nell’arco di tutta la raccolta, al punto da far sorgere quasi un sospetto nella mente del lettore: quello di essere giocattolo nelle mani dell’autore. L’avvicendarsi di racconti come Puff! e l’onomatopea, Dialogo tra la mia mano destra e la mia mano sinistra e Titolo, opera, contenuto attiva in chi legge un campanello d’allarme, dato che tutte le immagini che la nostra mente desume spontaneamente dal testo vanno poi sfracellandosi di fronte a epiloghi improbabili. Parrebbe quasi che l’autore si diverta alle nostre spalle, fornendoci tutti gli elementi necessari per seguire una direzione di lettura, solo per osservarci mentre ci infiliamo in un vicolo cieco. Dopo i primi racconti, l’esperienza di lettura si fa più cauta, memore degli abbagli interpretativi già collezionati. Il testo è vivo e attende il nostro apporto. Eppure, nonostante tanta libertà, si intravedono dei confini che sembriamo tenuti a rispettare: lì dove termina la nostra capacità interpretativa continuano le acrobazie di scrittura di Valenti, alle quali non possiamo far altro che assistere, per una volta spettatori di un’esibizione di certo sorprendente. Dietro ai racconti si cela una sorta di giocoliere, in grado di gestire con uguale maestria sia gli intrecci che la parola in quanto tale. Quest’ultima, poi, riesce a mutarsi in ulteriore strumento d’inganno di quanti si lascino irretire dalla sua musicalità e dal suo ritmo. “Alto altissimo, usuraio il tasso che quotidianamente verso nelle casse dell’incanto. In termini di rapace schizofrenico appollaiato sullo stomaco, intendo. Mi arpiona le budella, ogni nuovo incanto, ed uno più dell’altro in me penetra e s’impasta, nel ventre precipitando come bolo di cemento scientemente realizzato, da me stesso manufatto”, si legge in Costruisci una frase usando il verbo amare e poi fai l’analisi illogica. E mentre ci lasciamo conquistare dall’assonanza e dalla carnosità di un linguaggio tanto simile alla poesia, l’attenzione si fa solo tangente a quel contenuto che difficilmente riusciamo a rapportare al curioso titolo. Ed eccoci a rileggere, alla ricerca di spiegazioni e di risposte, un’altra volta smarriti nel disegno dell’autore. Indubbio il piacere del giocoliere nell’azzardare ardite acrobazie: è il suo mestiere. Ma al contempo emerge l’idea che l’irrealtà che va trapelando, una pagina dopo l’altra, non costituisca un mero artifizio rivolto al lettore; essa appare piuttosto il corrispettivo letterario di un delirio più ampio, che alberga nel


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mondo e di cui lo scrittore si fa portavoce, senza esserne però responsabile. In più punti, infatti, incappiamo in aperte dichiarazioni che quasi sembrano rivelare che ci si sta muovendo nel territorio della “perturbazione mentale” (Alla Castellana). Il giocoliere si svela, non c’è trucco non c’è inganno. Gli avvertimenti sono chiari in più punti e se in Edificazione di un hysteron proteron su un fazzoletto di flora intestinale lo scrittore confessa “Il pensiero che s’inarca, trascendendo la linearità, è il pensier che m’appartiene”, quello che si legge in Appunti sul suicidio di un entomologo algerino residente all’estero suona come un manifesto programmatico: “Erigo lapide all’equilibrio”. E in questo delirio che non conosce sosta - “la battaglia fantasma romba di giorno e di notte” - in Un momento di solitudine l’autore trova pur tempo di guardare a tu per tu quegli occhi che stanno scorrendo le sue parole e di chiedere perdono. Perdono di aver dato voce con parole all’irrazionale e all’irreale, di cui non ha merito o colpa, di aver scritto “cose senza senso tipo, ygdste djjduew hgtrfdu llk hsfret…”, cioè quella “robetta che ti vien fuori scrivendo a macchina” in cui Kerouac riconosceva “il gergo, il linguaggio della corrente del fiume dei suoni, parole, buio, che portano al futuro e testimoniano della pazzia, della vuotaggine, del casino, della mia mente che benedetta o imbenedetta sta dove cantano gli alberi”. Perché, forse, è proprio come credeva Kerouac quando citava, a sua volta, Allen Ginsberg: “Il Dritto è diventato il Folle”.

Genny Biondo


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Lettera alla Redazione Spett.le Redazione, mi chiamo Antonio Giuseppe Valenti. Siciliano, oggi a trentatré anni finalmente posseggo la certezza di volere dire una cosa, anche breve. E ciò devo fare, Ufficio senz’altro spettabile nella realtà quanto ineluttabilmente incorporeo nel mio ideale, tanto per indole, poiché dei miei amori la scrittura è tra i più forti, quanto per urgenza, perché sono anch’io narrazione di poca durata, come i miei racconti. Dunque, questa cosa va sì detta oggi e non oltre; e va sostenuta con un più alto tono di voce rispetto a quello finora adottato, non bastando più il giudizio della madre insegnante, né quello di un’amante. Mi è perciò necessario abbandonare le mie parole nelle mani di codesto Consesso, giustamente a me ignoto, affinché esse siano lette, martoriate col giudizio, eventualmente. Comunque vada, sono certo che quelle parole verranno coinvolte in una prova obiettiva e finalmente ad armi pari, semplicemente perché tra Voi e me, oggi reciprocamente sconosciuti, non c’è amore. Grazie.



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allo zio Virgilio



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Puff! e l’onomatopea. Storia di un uomo che disparve. Giuseppe Maria Messina, 46 anni, è scomparso. «Esattamente, dottor Profundi: svanito. Ora, sebbene le cronache si siano notevolmente interessate al caso Messina, è vero, dedicando qua e là occhielli e cornici e commenti, io credo» (a questo punto l’inflessione di Marzia Amoroso in Messina facendosi sottilmente insinuante), « egregio dottore, credo che la questione esiga un approfondimento, una più attenta analisi, ecco.» «Vale a dire, signora?» trasalì il luminare, scostando dalle labbra la tazza fumante. «Vede, dottore, e mi perdoni se trascuro i preamboli, io sono convinta che... insomma, saprà cos’è successo; cos’è successo realmente, intendo. Dico io: ha seguito mio marito per oltre sei mesi, no? Com’è possibile che proprio lei non sappia?» «In effetti, signora, qualcosa io so.» «E allora, perché ha taciuto?» Da qui, l’anziano oncologo trascinò il tempo nella pausa di silenzio più lunga mai intervenuta nella storia universale dei dialoghi. Durante l’inestimabile lasso, Marzia Amoroso, con le bellissime dita incrociate al bordo d’un tavolino del Caffè Consorti, regredì nei percorsi della propria adolescenza, tutti tappezzati di girasoli torpidi e pennichelle fra le campanule, all’ombra dei gelsi; pensò a Giuseppe Maria e al primo suo profilo, il loro matrimonio, d’autunno. Ecco, ecco ora una bambola senz’occhi posseduta chissà quando, e chissà poi dove, gli occhi; e i colori primari forse, un poco. Ricordi. (Durante quella stessa pausa, donne dalla bellezza disarmante, che a vederle vestite per strada coi cani al guinzaglio t’ispirano distanze


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impercorribili, nude stanno facendo l’amore in camere d’albergo. In Via Margutta un pittore vende il quadro. Parcheggiata da qualche parte, lontano, una vecchia “500” perde olio dalla coppa: plic!). Plic! nuovamente, e Profundi parlò. «Il governo.» «Come?» sobbalzò la donna (altrove, intanto, orgasmi, l’affare, plic!). «Il bene comune, la pace pubblica. Roma fermenta al solo sentir pronunciare “Messina”, signora mia. Pochi, pochissimi sanno che cosa è veramente accaduto a vostro marito il quale – mi consenta – non esito a definire naïf. Un mio sottosegretario ed altri tre fidatissimi collaboratori conoscono la verità: soltanto noi cinque, dunque. Oggi, lei capisce, è fin troppo semplice sparire: la malattia, il suicidio, l’incidente, il sequestro, la fine naturale; in un modo o nell’altro così noi svaniamo, più o meno immediatamente, a causa di un processo decisionale, o attendendo comodamente che il corso si compia.» (Plic! Dissanguate cavità meccaniche. Gli occhi sgranati, un gatto che passa di là si volta di scatto). «Più o meno immediatamente, dico, ma quando il fatto ultimo avviene, perdio, avviene e basta; voglio dire, tutto in unica soluzione, senza dilazioni. E no, troppo comune! Giuseppe Messina ha dovuto per forza sbalordire. Lei sa perfettamente a cosa mi riferisco, vero? Altrimenti non avrebbe insistito tanto per quest’incontro.» «Mi ha tenuto nascosto il primo stadio, fin quando ha potuto. Una mattina, poi, mi accorsi che gli mancava il naso: allora m’ha detto tutto.» «Le ha parlato di come ha avuto inizio? Il medio, le ha raccontato del dito medio, di quando si accorse della prima sparizione?» «Sì. È successo di notte.» «Ecco. A detta di vostro marito, quella notte ha avvertito una sorta di pulsazione solleticante, lieve ma insistente, al medio della mano sinistra. Nulla di strano, avrà


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pensato, ma la mattina il dito non c’era più: assorbito, dissolto, imploso senza sporcare. Io le confesso che ho stentato a crederci, sebbene avessi immediatamente notato la atipicità della cicatrice, sa com’è, noi vecchi si pensa alle nuove tecniche... Va bene. Ora, il dato controverso consiste nella soddisfazione crescente che ha accompagnato le mutilazioni: piacere, l’ha definito lui, un piacere vorticoso, entusiasmante, come se ne valesse veramente la pena, in fin dei conti, assistere alla propria macellazione pezzo dopo pezzo. Lei ben intende quali ripercussioni potrebbe avere la vicenda, se diffusa, sugli equilibri sociali; se la chiave dell’orgasmo di sparire lentamente divenisse di pubblico dominio… destabilizzazione, mia cara, vorrebbe dire solo questo. Destabilizzazione.» «Guardi là» l’interruppe la donna. Sull’opposto marciapiede, proprio davanti la drogheria, Salvatore Violo, Giosuè Temerio e Maurizio Vita scendono da una vecchia Fiat. Tre cari amici dello scomparso, quelli che come lui sapevano quanto ne è passato e quanto ne resta, di tempo, a pochi giorni dal fatto portano in giro tra i palazzi le loro facce sorridenti e vive (durante il tragitto, ai semafori, tre zingari in un traffico di mille moti di gambe nude sforbicianti siamo, e guarda che bella la vita che corre sulle vetrine e noi qua che passiamo a tremila fumandocela tutta, bevendocela tutta, neanche una parola per Giuseppe Maria che manco oggi è venuto, a romper le palle con l’effe-emme, i finestrini, le sigarette, le bestemmie e le censure). «Li vede quelli là? Erano amici di Giuseppe. Li guardi: come se nulla fosse.» «Va bene, signora, ma non per questo…» «No, no… è che anch’io mi sento strana. La prego, non mi fraintenda, è solo che… non so, è come se certe volte, per ricordare, io debba sforzarmi… un dovere, dottore, un dovere.» «Ah, cara mia, lo vede che non è poi così complicato


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far finta di niente? Piano piano…» «Ma non avrà sofferto? Sì, voglio dire, dottore, macellato…» (mamma mia che bell’espressione hanno ora gli occhi di Marzia: le sopracciglia s’inarcano a disegnare la faccia pubescente del vizio. Se non fosse così vecchio… ma quale vecchio! Si potrebbe andare su e giù fischiettando come sta facendo qualcuno là fuori, al sole che squaglia i palazzi. Si potrebbe ancora tanto peccare, caro mio). «Sofferto! Via, non esageriamo. Gliel’ho detto che gli è piaciuto. L’ha voluto, Marzia: l’ha voluto lui. Pensi che strana, la vita, uno che si vede dissolvere giorno dopo giorno, senza neppure sapere a quale brano di sé domani dovrà dire adieu, e non si fa problemi. Gode, pure.» «Dottore…» «No, è che se ci penso… ma dico io, si può essere così egoisti? Non ha pensato a lei suo marito? Che l’avrebbe lasciata sola?» (i tre amici risalgono in macchina, parlando tra loro, e coi finestrini abbassati se ne vanno fischiettando. Al tavolo, sei sette mozziconi nel portacenere, le palpebre di Marzia distesissime, morbide: oltre i peccaminosi lembi, l’invito? La fortuna? L’olocausto?). «Glielo dico io - continuò l’incalzante vecchietto - non ci ha pensato minimamente. Diceva, ma pensi che roba, diceva che aveva perfino imparato a “sentire” l’implosione, il solletico che s’avvicinava s’avvicinava fino a quando puff! via un altro pezzo. E le teorie che s’inventava! Era come se, quando una ulteriore porzione del suo corpo svaniva - mettiamo un piede fino alla caviglia - la percentuale di se stesso che in quel piede risiedeva si trasferisse, su per la gamba, nel corpo residuo. Osmosi misteriosa, e così per tutti gli annullamenti che l’hanno poi ridotto… oh be’, lo sa…» «Sì, un sedere.» «Ma diamine, quale modello per tanta stravaganza? Il sedere, solo il sedere è rimasto, e proprio nel mio studio, poi. Non avremmo certo potuto immaginare che dalla


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vita in su, per quello che ormai ne rimaneva, sì, insomma, il tronco e la testa, sarebbe svanito tutto in un colpo. Mediamente i pezzi erano sempre stati piccoli, e invece puff! solo il culo! Oh, perdoni…» Silenzio. La donna sbadigliò, soltanto. «Quindi vostro marito era alfine tutto là concentrato, nei tessuti del suo stesso sedere tondo tondo seduto per terra. Se è vero ciò che ha detto, che aveva scoperto il meccanismo al punto da prevederne il decorso, allora avrà senz’altro sentito arrivare l’ultima sparizione: non è stato un caso che il sedere abbia defecato sul mio pavimento, prima di assorbirsi definitivamente sotto i miei occhi. E sarà stato forse a causa della suggestione che certi fatti producono negli uomini di scienza, ma le assicuro che quei cento centocinquanta grammi di vostro marito là per terra, è come se anche in quella massa estrema lui si fosse trasferito nella sua interezza, avendo poco prima avvertito che il sedere stava per andarsene. E ho avuto la sensazione pazzesca che non fosse mai stato bene come in quel momento, là, sul pavimento. Lei capisce certamente come tutta questa faccenda sia priva di senso. È surrealismo, questo, non fa per noi. Le dirò di più: sono convinto che non sia nemmeno accaduto. È troppo sconclusionato, via, come una storia che finisce con la virgola, le pare?» Abbassando lentamente le palpebre, Marzia fece segno di sì. «Anzi - scattò in piedi Profundi con le articolazioni d’un ventenne - sa cosa le dico? Andiamocene, usciamo da qui. Guardi che splendido pomeriggio. Una passeggiata, ecco quel che ci vuole: una bella passeggiata»,


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Rovinosa mente «Qui giace Meteora.

Precipitata per errore sulla Terra e schizzata via prematuramente. Zefiro ne ha soffiato via le ceneri, sparse ora nell’obliosfera terrestre.» Vasili

Rovinosamente, Meteora, quella notte io e te precipitammo sul pianeta disabitato, su emisferi opposti. Ora io vivo sulla Terra, sulla tua stessa Terra. E su questa Terra stanotte c’è un solo dominio: il tuo. Stanotte a te, lontana, appartengono i miei neuroni più sani. Ma se non fossimo lontani s’intersecherebbero coordinate a moltitudini, e ci perderemmo inesorabilmente. Inesorabilmente ti perderei. Ti confesso che ho paura di mettermi in cammino per venire a cercarti e magari scoprire che esisti; ma la possibilità che tu ci sia ancora – o già – mi dimensiona a misura d’infante o di cane non del tutto svezzato. Quale orbita stai disegnando adesso? Da quanti istanti non mi sorvoli. Dall’interno mi laceri il giorno, che si sfalda nell’attesa di trovare il coraggio del primo passo. Comunque, se nel frattempo ti capitasse di pensare d’esser pronta, potresti venirmi incontro. Ma non rivelarti subito: alla fine del lungo viaggio sorprendimi invece alle spalle, e quando dal tuo orizzonte m’avrai puntato, brucia la pista d’accelerazione e investimi spietatamente. Intanto mi piace fantasticare sugli effetti della collisione e penso: che inizio farei io? Riderei di te esanime, della tua vita esplosa e delle tue orecchie insanguinate che non potrebbero sentirmi, gridando «dov’è, dov’è il testamento? E non guardarmi così!» e subito dopo ti


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leccherei le ferite. Seppure incapace di dare sollievo ai tuoi sensi, da un solo istante sazi dell’aver banchettato coi miei (già ora il tuo piatto ne sarà pieno), ti leccherei le ferite, sì, perché hai sapore di notte densa. Perché di te faccio provvista. Perché vorrei che mai guarissi. Perché così posso berti la vita. Perché sì. Se addirittura già adesso sei pronta, mostrami il forziere pieno di te. Consegna nelle mie mani la mappa preziosa. Rivelami dove sei nascosta, ricchezza, di modo che io possa spenderti fino all’ultimo centesimo o accumularti e accumularti ancora. Ma se invece già sai che mai sarai pronta, aroma di guerra, rampicante notturno arrestati ora! Oltre il pericardio che sfiori, c’è l’abisso. Io non ti ho mai neppure lambita: i tuoi polsi sono intatti, i miei arati. Se questa è la realtà, liberati dal pensiero di me e restituiscimi il mio baricentro, perché in quel caso io smembratodilaniatosquartatoliquefattocondannatocompressosvisceratoesplosomutilatolobotomizzatoschiacciatodisintegratofolgoratoatomizzatoinceneritosparsovivo avrei assoluta necessità di essere assassinato. Fallo adesso, ora che sono fermo nel mezzo del mio mezzo Mondo, pronto a prenderti tanto quanto a perderti. Fallo subito. Ne ho bisogno, spietata incantatrice, lontana vertigine, immobilizzante allucinazione. Un essere talmente affamato di vita altrui che divorare l’intera Storia non lo sazierebbe, ora è inebriato da un solo calice di vino nero. Ti odio. Come Giuda tradito. Come ragnatela odia la grandine. Come dinosauro l’estinzione. Come trapianto il rigetto. Come tu odi me, dea cannibale che m’hai divorato in una sola notte. Mi hai divorato in quella sola notte. Hai sconfitto un impero muovendo a battaglia il solo pensiero di un unico soldatino che, la notte precedente l’attacco, non dorme ma pensa. Così tu sei l’imboscata notturna, letale. Eppure, senza te sono embrione, aborto, abominio. Dal confine venga


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un segno inequivocabile: “tu sei vivo” vorrei vedere inciso sul fianco del vulcano a chiare lettere di lava e fuoco, oppure saliamo sul Mazinga, e suicidiamoci. Vorrei che tu non fossi mai nata, oppure vorrei essere morto. Perché io so che mai guarirò da te, Malattia. Mai più. Mentre desidero che mi si svuoti la memoria, dall’orizzonte lontanissimo un’ombra che s’allunga a dismisura giunge fino ai miei piedi… Infine ti sei decisa, stai venendo a prendermi. La proiezione facendosi sempre più nitida, i contorni netti e definiti mentre t’approssimi, ho però la sensazione che il tuo corpo stia svanendo, senza ritorno. All’improvviso, dunque, l’inevitabile: interrompo te, cortocircuitandomi, per essere ancora me, solo. Perché la mia vita ha perso la sintassi.


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Dialogo tra la mia Mano Destra e la mia Mano Sinistra Mano Destra: «Psss… sei sveglia?» Mano Sinistra: «Sì, che c’è?» Mano Destra: «Alla seduta di oggi pomeriggio, ha definito il sentimento che lo lega a me come una delle note più complesse della sua vita: un amore incondizionato da sempre vissuto attraverso queste mie strane falangi e – ha detto – certe misteriose particole che accolgono instancabilmente i suoi impulsi più controversi, senza mai tradirne l’interpretazione, incanalandoli verso l’infinità dell’istante della creazione.» Mano Sinistra: «E di me? Stavolta ha parlato di me?» Mano Destra: «Mi sembra di no, però…» Mano Sinistra: «Però?» Mano Destra: «Ha detto che sono un prodigio e che non vivo soltanto di mente riflessa, ma che talvolta autonomamente creo, anticipando il tanto travagliato neurone che l’ha voluto così diverso. Dalle prime esplorazioni dell’uomo che sarebbe divenuto, all’appagamento viscerale che, d’istinto, un giorno lontano trasse sfiorando ebano e avorio, cui avido strappò quella prima nota nonché la chiave del… ah, sì, la chiave dell’arcana trasposizione del triste e gioioso sentire il mondo che passa, così ha detto. E il professore lì a pendere dalle sue labbra, inebriato dalla poesia delle sue parole.» Mano Sinistra: «Ma quella volta il contatto riguardò anche me, ricordi? M’appoggiò sui bassi. Certo, da allora mi ha concesso soltanto l’area cupa, giammai un’evasione verso i trilli e gli squittii degli acuti: oh, no! Quelli li riserva esclusivamente a te. Non sarebbe lecito quantomeno sospettare che tale preclusione potrebbe essere


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attribuibile ad una mediocre disinvoltura nell’esecuzione?» Mano Destra: «Mano retorica, so cosa ti spinge ad essere acida.» Mano Sinistra: «Parla, parla. Non temere.» Mano Destra: «Ci mancherebbe altro. Vedi, io non ho mai provato invidia o pentimento e se…» Mano Sinistra: «Certo! Vorrei vedere! Si lascerebbe invecchiare se non t’avesse più!» Mano Destra: «Insieme a me ha sentito la passione scorrere tra le mie dita e la penna: lui sa che si amano, che non vorrebbero mai perdersi, giammai cederebbero alla debolezza di rinnegarsi. È colpa mia se non è mancino? E poi, se oggi non ti fossi stupidamente rintanata in tasca, avresti notato la commozione nel suo sguardo mentre esprimeva al professore la gioia, la grande gioia d’accarezzare ad occhi chiusi una cartina d’Africa e percepirne i deserti, le foreste, i monili, i sudori delle danze tribali notturne: io gli servo per trasmettere al desiderio la palpazione concreta della felicità.» Mano Sinistra: «Anch’io ho modellato la terra assieme a te, e mentre tu la privavi della sua vera forma io gliene restituivo una altrettanto vera. Anch’io gli ho trasmesso il calore della voluttà. Se non avesse più te, imparerebbe senz’altro ad usarmi.» Mano Destra: «Non hai mai dipinto.» Mano Sinistra: «Come?» Mano Destra: «Mai un tratto, una gradazione, una miscelazione di pigmenti. Mai una pennellata, mai una firma. Tu non hai mai firmato, mai hai scritto il suo nome, capisci? Tu non sai neppure chi sia.» Mano Sinistra: «…Forse hai ragione. Io non so chi siate. Ma voi senz’altro saprete chi sono, io.» Mano Destra: «Ah! Sentiamo! Chi è, chi è Sua Signoria?» Mano Sinistra: «Il vostro equilibrio.»


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Titolo, opera, contenuto Il titolo sintetizza esaustivamente il contenuto dell’opera? Direi di più. Nella fase dell’aspettativa, ossia nell’assenza naturale di ciò che non è stato percepito perché semplicemente ancora non giunto ai nostri sensi, il titolo è una scelta obbligata, seppure nella sua complessa semplicità (assumendo qui la non titolazione come la forma più sublime, universale, di titolazione). D’altro canto, lungo il lasso percettivo della lettura, esso diviene rivelazione retroattivamente spiazzante, l’estremo atto di benevolenza dell’autore: è infatti costui a determinare, ab origine, il grado di parsimonia con cui svelarne il senso. Quale vettore letterario e simbolo narrativo particolare dell’opera finita, il titolo rappresenta dunque la puntualizzazione definitiva e necessaria del contenuto che esso propone. Nella fase di rilettura concludente il titolo trasferisce la nostra emotività al punto di partenza, alla stessa semplice percezione iniziale: quel titolo. Condizione, questa, che acquista maggiore evidenza nei casi non rari di stravolgimento drammatico del contenuto presentato: si tratta di quei titoli, cosiddetti “svianti”, che sebbene forniscano corrispondenze concettuali più o meno esplicite al contenuto, comportano in definitiva un ribaltamento delle informazioni acquisite durante la lettura, rispetto ai quali è quindi fortemente incisiva la funzione retrospettiva (L’educazione sentimentale, Gustave Flaubert, 1843-45). Ma attenzione: non vi è complementarità assoluta fra titolo e opera, semplicemente perché l’uno è anche in assenza dell’altra, ma non viceversa.


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Orbene, il titolo è in quanto tale, possedendo quelle doti estrinseche presentative dell’opera in funzione delle quali è detto “titolo”. A tal proposito va semplicemente detto di come la valenza semantico-tematica del titolo sia il più delle volte ridotta allo spessore di mera finalità definitorio-collocativa (Barnabo delle montagne, Dino Buzzati, 1933), simbolico-evocativa (Giù la testa, Sergio Leone, 1971) o semplicemente riassuntiva (The murders in the Rue Morgue, Edgar Allan Poe, 1841), secondo una più o meno corretta logica del mercato editoriale, costituendo il titolo il primo fondamentale contatto con il lettore. D’altra parte, esso contiene in sé una infungibile connotazione rappresentativa, relativamente scindibile dall’opera presentata: allorquando tale esclusività assurga a dote predominante, il titolo può senz’altro essere definito “opera” a sé (Ed è subito sera, Salvatore Quasimodo, 1942). Ora, sebbene la forza auto-rappresentativa del titolo in quanto opera sia strettamente correlata alla sua finalità extra-presentativa in quanto titolo (nella misura in cui il primo aspetto, per essere, necessita dell’assolvimento della funzione di presentazione del secondo), con la lettura del contenuto si verifica l’ineluttabile separazione: da questo punto, il titolo è opera, univocamente leggibile e senza ulteriore titolazione; l’opera contenuta, senza quel titolo, è niente. Un’opera difettosa. E questa è una lettera d’amore.


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The scent of magnolia «Commediografando gliele strinsi quelle mani. E fu così che compresi il vero senso della nostra dannazione. Che occhi i suoi occhi sperduti. Di là, di là da me guardavano, giusto al mio fianco. Ho sentito profumo di base di lancio, tipo Cape Canaveral. Disastrato rovinoso amore, amore spaziale, scellerato amore. Il precipizio, amata, s’apre buio al mio domani. Gioia mia, scelleratezza of my life, assolvimi. Scrivi la frase che non mi darà pace, offrimi il tuo utero giovine, scorda il prima e il poi. Toglimi dunque il respiro, bonifica questa palude, sparecchiami il cuore. Poi, l’unico giorno in cui ti sfuggirà di controllare l’imbracatura, non s’aprirà il tuo bel paracadute e precipiterai tra le mie mani di contadino e finalmente anche io ti amerò. Ti amerò ininterrottamente.» In una notte insospettabile mi conduci nel giardino ed io, minimo uomo, mi perdo fra sconosciuti vitigni. Mi deponi in questa serra di profumi che dovrebbero confondermi, ma non ne sento uno, perché è forte la memoria del tuo. Di magnolia e vento la tua pelle. Ricordo come il vento portasse, a me bestiola, le radici improvvise delle tue magnolie. Come il vento mi annunciasse l’avanguardia tua, attraverso la mia giovinezza, arrestandomi il vivere. Ma ora? Le pallide foglie mi sfiorano, immobili, come immobili foglie. Come pellicole. Altri profumi non sento se non di ruggine e di rotaia, o di vecchio canestro intrecciato e appassito. E di bel frutto lasciato per sazietà, ho memoria? Che memoria ho della tua bocca? Che parla, forse; che nomina frutti pescati e vertigini; che ruota nell’aria come un nibbio sorridente, giungendo stordito


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all’altissimo nido, chiudendosi sì sulle mie pene. Amore, qua solo mi ormeggi; nel mezzo della rigogliosa pietrosa rovina senza membra mi scopro a scavare nel passato che non è mio soltanto. Amore vergognoso e teterrimo e colorato, coi gradienti del crepuscolo ora ti amalgami, ed eccoci qua noi due all’opposto, chissà dove e chi sa se. Chissà se è il profumo di magnolia, o di rotaia, che scompone l’anima mia.


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Appuntamento Sei pronta per il nostro appuntamento? Mi piace immaginare che non userai alcun particolare accorgimento, nessun artifizio cosmetico un’ora prima dell’incontro. Soltanto acqua corrente e un velo di rossetto sulle labbra ancora gonfie di sonno. Un pettine comune per snodarti i capelli ed una molletta altrettanto proletaria per raccoglierli dietro, se vorrai, in uno chignon perfetto, prodigioso. Come ogni mattina, poi, di certo ti ammirerai allo specchio per assicurarti che le stoffe non scarabocchino il disegno dei fianchi, delle gambe nervose da gazzella; di profilo, dunque, la superbia dei seni, bilanciamento incantevole dell’alterigia del tuo sedere e via, esci ora, che t’aspetto. Ti aspetto qua, come ogni giorno della mia vita, in ogni luogo. E se penso che già tu sei nata, hai già una tua vita fatta di parole, oggetti, abitudini, affetti, interessi, tutta fatta di vita stessa dunque, di vita che io non so dove vivi, con chi, entrando in quali portoni, frequentando quale giardino pubblico, quale ristorante, quale università, ecco che mi è veramente impossibile cercarti. Non saprei neppure da dove cominciare.


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Buona notte, Caos «Solo. Immemore. Cortometraggio di te stesso. Sintassi asfissiata. Perché sei tu?» ( Narcotizzato ) «Perché sei così?» ( Straripante, tentacolare ) «Io sono autentica, cristallina nella mia opacità e tu hai me stessa. Ma se ora non vuoi parlare, almeno destabilizzami, scartami ancora, fammi sentire una stupida. Io ti voglio. Come Vita vuole Morte…» ( Inevitabile? ) «Inevitabile. Il desiderio di te si sta espandendo fino a coagularsi nel ventre; ho respirato il tuo dolore, godendo... e ti puntellerei di parole, ti squarcerei la vita… Perché te ne stai lì fermo, in silenzio? Dammi dolore, più che puoi. La mia voluttà si sta dimenando… scrivimi solo una parola, quale delle possibili erezioni sperimenterai in mia assenza. Hai ragione quando dici che sono una bambina, e ti sento così grande, da potermi nascondere dentro di te. Io ci provo, stanotte, ma tu insegnami a non avere paura di perderti, perché è questa paura che paralizza le mie mani, e quando ti guardo so di non avere scampo… Niente ti può essere rubato. Tutto ciò che hai è in te; ciò che è al di fuori, è senza importanza. In ogni tua cellula, sei Idea. Ho bisogno che tu sia mio. Ti sento come un gatto, come una bestia da accarezzare. Che sarà mai?» ( L’autunno ) «Pensa ai miei fianchi, piuttosto, e pensa che m’hai ipotecato la vita. E poi pensami ancora più che puoi, come ti penso io, oppure indossa il tuo Canali e andiamo


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a morire. Tutto ti voglio dare di me, fino ad essere prosciugata. No, non è letteratura, è l’amore oltre le normali aspettative, molto oltre. Mi manca il vapore della tua bocca muta. E sono metropoli in fiamme, solenne rovina che ispira te, unico superstite.» ( Sinfonia di clacson e di sirene; ubriaco, stordito, cerco che cosa ) «Malgrado tu sia magistralmente costruito ed io così dannatamente autentica, in te la mia demolizione. Di te ho bisogno, che sei il mio fondamento. Ti divorerei per tutta la notte, così domani avrei la bocca più bella del mondo. E ti vorrei dentro sempre, come organo vitale. Dormiamo insieme, nuoterei in un oceano di veleno, e tu mi abbracceresti. Tutta la notte. Quando scrivi riesci a farmi vedere le cose: è come se avessi due memorie. Per questo, è per questo che a volte sto zitta. Quelle lunghe lunghissime pause… in quei momenti, con gli occhi sbarrati, sembro una malata, lo so.» ( Le mie mani ti vogliono toccare la carne ) «Le mie bocche vogliono mangiare organi. Ci sono un paio di statue superstiti sotto il tetto della Triennale, ti vanno? Poi, sotto l’ampio arco, seconda porta a destra, ci sono io, in posa plastica. Ho molta fame. Scrivi una cosa cattiva.» ( Ti amo ) «Ti amo anch’io. E ora voglio che tu mi veda nuda, e voglio essere guardata avidamente mentre parlo, mi muovo e faccio cose. Nuda nudissima… Ma che cosa mi hai fatto… Hai visto? …non ho più neanche un livido.» ( Mi dispiace ) «Dispiacerti? Perché?» ( Perché il viola ti dona ) «Anche ai morti.» ( Giorno e notte, senza tregua ) «Senza misura.» ( Sto pensando alla tua bocca, al suo cavo infame )


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«Lo senti anche tu? In questa stanza imperversa la perdizione. Sono la Vergine Funerea, il picchio senza il tronco, l’arco senza la freccia, cornea senza occhio, ombra senza corpo, merendina al cioccolato senza bimbo, lava senza vulcano, pus senza infezione, fiamma senza candela, campana senza din, mina vagante senza deflagrazione, fuso senza ago, morbidezza fusa senza sottiletta. Puttana senza rimedio.» ( Conta le pecore ) «Sei autenticamente cattivo. Ora te la dico io una cosa brutta: voglio un figlio da te, un bimbo mio e tuo. Avrei bisogno di abbracciarti e di sentire il tuo odore. Mi piace quando scrivi le cose. Per anni me le sono dette io, allo specchio. Mi sento le budella lacerate, chissà cosa mi stai facendo…» ( Ti sto amando ) «Lo senti il tifone, il magma primordiale, i buchi neri allo stomaco, il flutto risucchiante? Anch’io ti sto amando.» ( Sì, ti sento ) «Allora cercami dove non possa nascondermi. La mia bara è accanto al tuo letto: guardami bene. Io sogno l’immortalità del pensiero, dello sforzo che compio, e piango. E mi faccio piccola per essere abbracciata. Incompiuta, fuori dal tempo. Tu lontano. Vienimi vicino, passami accanto ora, sfiorami i capelli.» ( Squilla il telefono: tu rispondi. L’amica ti parla, o l’amico diventa amica per. Telefonata perfetta nel frangente perfetto. Io di qua di là con gli arti lacerati dal dubbio. Muscoli tesi fino allo spasmo. La vita che corre dentro. Io nella galleria del vento. Macchina sterile. Sono nella tua stanza, di nuovo ) «Ciò che non è controllabile è affascinante, non credi bimbo? Sputo sangue, ma ti aspetto: sarò punita per questo, e so bene che la punizione può essere inflitta o con-


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cessa. Scrivimi un’altra cosa, forse prima era un’allucinazione… o vuoi dubbi e incertezze, aleatorietà, silenzi, il verme del tormento, il terrore della perdita? Lo so… se solo riuscissi ad essere più donna, tutto sarebbe più semplice. Mi dispiace, veramente.» (Straripamento. Macerazione. Spasmo. Tenerezza. Un’altra sigaretta ) «Stai lavorando?» ( Sto progettando. Concretezza ) «Io...» ( Inquadramento ) «l’apparecchio con cura, la tavola: sarà un concentrato di fastosità e prelibatezze e luccichii abbaglianti, per te, maschio.» ( Hai il volto esangue, ti si contano le costole. Sono a letto, inerte. Io dormo, tu tanto rimani con me tutta la notte. Borse Asia in lieve progresso. Auto: GM tratta per entrare in Fuji. Sidney: scontro treni, si aggrava bilancio. Euro in picchiata sul dollaro ) «Vado a comprare un paio di calze nere.» ( Disciplina. Rigore, ordine, misura, impegno, dedizione, coscienza, sacrificio. P.I.L. ) «Vorrei essere già vecchia, vicina alla morte. Non mi è concesso di possedere niente nella mia vita. Solo me stessa, quando ci sono. Ho bisogno di odori forti. Di carne calda. Fai finta che io sia una cosa, la tua Kawasaki, per esempio. Tua.» ( Dopo una folle corsa, fermarsi di colpo è immobilizzante, e sarebbe ancora più folle. L’ubiquità sarebbe la soluzione. Essere fermo, in un luogo, muoversi in un altro. Belle le costruzioni mentali, tipo: l’amore, la gelosia, gli inizi, le fini, i declini, il “non dolore”, la “non gioia”, i cambi di stagione, il poker, i picchi, le fatine ) «Fra noi c’è un dissesto molecolare...» ( un difetto neurale ) «che lotta con necessità e caso. Tutto ciò che dico non


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ha consistenza.» ( Non c’è incanto, non c’è un dentro, né un fuori ) «Il mio corpo di femmina è niente.» ( Niente è cambiato. Tutto è cambiato ) «È sempre troppo presto per guarire. È necessario dimenticarsi a vicenda. Dimenticarsi del perché, del dove, del quando. Buona notte, Caos.» ( Buona notte )


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Quattro lettere I Lettera a mio padre Un’immensa clessidra adagiata sull’Oceano Indiano sovrasta il mondo, ed innalzandosi fino a graffiare la galassia più distante, governa il tempo. Io la vedo. Da due giorni e due notti osservo la forma attraverso una finestra del Petit Oasis: come il resto degli uomini del luogo, troppo impaurito per correre all’attracco ed attendere il battello per Mahanoro. Martedì scorso, al risveglio, il cinese dell’hotel-emporio non era più in sé. Così squisitamente orientale la sera del mio arrivo a Nosy Varyka, che dopo cena aveva perfino insistito affinché mi intrattenessi a giocare a fanorona con lui e la figlia: mentre perdevo col padre, vincevo le resistenze negli sguardi della giovane malgascia che, a due passi da noi nella penombra, maliziosamente assumeva di scatto un’espressione annoiata e riverente, quando il suo vecchio le si rivolgeva enfatizzando la propria abilità nel disporre i pezzi sul tavoliere (mi ha battuto tre volte senza muoverne alcuno). Poi, quando finalmente era Vavy la mia avversaria, mi ritrovavo sconfitto su due fronti, perdendo sia la partita che la pazienza: a poco più di un centimetro dal mio timpano più sfortunato, il padre continuava a ripetermi, senza soluzione di continuità, che quello era un bellissimo esemplare di fanorona in palissandro, che finalmente dopo vari tentativi era riuscito a farselo cedere da un anziano rincitrullito che non aveva mai bene inteso il valore di quella rarità (oh, non-avrei-mai-potuto-immaginare quante e quali


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diplomatiche circonlocuzioni per giungere all’accordo), che era stato un vero affare che solo pochi uomini furbi come lui avrebbero saputo fiutare, che così li fanno solo i maestri di Ambositra. Martedì mattina, invece, il cinese m’apparve come impazzito: mi investì con una esplosione confusa d’imprecazioni con troppe divinità e preghiere senza alcuna censura, unitamente ad una disquisizione nozionistica sull’arte d’intagliare la regina degli scacchi e a pesanti apprezzamenti su certi parenti, gestori del Bon Amis di Mananjary. Di lì a poco avrei capito: l’aveva vista, e ne aveva tratto la follia. Sì, la clessidra. Nessun granello di sabbia al suo interno. Attraverso la strozzatura, uomini, vacche, elefanti, intere generazioni di popoli s’immolano alla tremenda scansione. Contestualmente alla grandiosità di quella cosa, colgo la sproporzione del diametro dell’angusto filtro, talmente insignificante nelle dimensioni che agghiacciante m’appare l’espressione di chi l’attraversa. Occhi attoniti e corpi compressi, umiliati nell’atto dello scivolare dal cielo al mare, dal tempo che sarebbe rimasto a quello che fu… e poi, orrende mutilazioni nello scontro di zoccoli, lance, denti ed orologi da polso senza polso, oramai. Da qui vedo membra, la cui pelle lentamente sfibrandosi s’apre, abbandonare i corpi ancora tanto, troppo sensibili al dolore; le bocche spalancate, mute per me, ed una amara visione di decadimento mi rapisce. “Il nostro popolo amava talmente gli antenati da non sopportare l’idea di abbandonarli. Neppure nel momento della morte. Le tombe, allora, non esistevano. La vera tomba era lo stomaco. Ognuno di noi portava l’antenato con sé. Così avveniva da sempre, fino a quando un re potente, vedendo il proprio figlio morire, rifiutò l’idea che il popolo si cibasse di carni regali. Allora ricorse a un trucco. Nascose il corpo del figlio e diede da mangiare a


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tutti carne di zebù. È per questo che, ancora oggi, quando muore un uomo importante si sacrificano zebù. Ed è così che sono nate le tombe, nascondendo i morti in posti ben sigillati, nel buio che li separa dai vivi.” (1)

II Lettera a Sir Joe Stasera mi decido finalmente a scrivervi dopo lunghe titubanze, Sir Joe, poiché sarebbe delittuosa ogni ulteriore finzione. Ai corridori che abbandonano gli affanni della pista per sedere in riva al fiume riconosco certamente un vantaggio: i millisecondi di vita piena a disposizione di chi sosta e si guarda intorno. Un’opzione invidiabile dai nostri fiammeggianti rotori meccanici sempre al limite dei giri, un corredo prezioso di cui, ahimè, sono sfornite le fitte maglie metalliche che giorno e notte ci costringono i corpi, per consegnare poi che cosa all’ambizione delle gallerie, se non aride carcasse? Voi, come me, agognante una nota a pie’ di pagina nella Storia, laggiù, sul traguardo che non è per tutti. Se anche noi ci fermassimo, sarebbe tracotante aspirare anche soltanto al più basso gradino del podio. Stasera comunque ho deciso di rallentare per l’ultima volta, per poi non guardarmi più indietro. Stasera per l’ultima volta io sottraggo un momento alla mia ambizione (voi conoscete il valore di un solo momento, in una gara che ne dura due, fra centinaia di milioni di concorrenti), per avvertirvi che state commettendo un errore. Sì, caro amico mio, sospettando che io sia cambiato, abbia in certo senso perduto la facoltà di riconoscere l’ordine di priorità delle cose, fate torto a me e a voi stesso. (1) ELVIO ANNESE, Madagascar, Milano, CittàStudiEdizioni S.r.l., 1995


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Grave torto al vostro intelletto umiliante gli intelletti, nel momento in cui confonderete una mia seppur bizzarra vacanza, un bivacco un miglio dietro a quella montagna, con un viaggio senza ritorno. Farete torto gravissimo a me, come al mio intelletto che ne sarebbe umiliato, poiché la sola sconfitta che avrò subito in questi ultimi anni sarà l’avere perduto la vostra insostituibile amicizia.

III Per l’ultima volta un cane, un pollo, il caso e la luna. Lettera ad una scrittrice. Magdalena? La complice inconsapevole di soluzioni potenziali. Spirito sottilmente superbo e così elegantemente sincopato rispetto al tempo che respira, che ora io non so se davvero ne ho scorto il perimetro soffuso, una sera, a cavallo d’un raggio vettoriale. Brillante. Ah! Se fossi poeta… se lo fossi, non dovrei temere alcun rimbrotto e sarebbe naturale la mia legittimazione a scrivere, in libertà: «Meteora: con le mie coordinate disegnerò per lei l’orbita più suggestiva, fluttuando sulla quale osserverà stupita pianeti in fiore e galassie in fiamme e me, quaggiù, a guardarla volare altissima sulla mia testa, lontana dagli occhi, attoniti da tanta magnificenza.» Ma poeta io non sono, ed ecco che dalla prigione pseudo-formale ove il mio ego si sfibra, seppur temporaneamente esiliato, detona il desiderio di rivelare a lei, creatura diafana, almeno uno dei miei intimi riflessi: l’interazione tra caso ed impulso volitivo. Ciò fortemente io voglio, perché Magdalena è Letteratura. Ora, la misura in cui la mia esistenza permea di relatività è estrema: «l’assoluto non esiste», dico, e già il


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fatto che sia io a dirlo, rende relative l’asserzione nonché la stessa ipotesi d’assoluto. E allora, nel contesto di un preciso accadimento bene allocato nello spazio e nel tempo, quali le percentuali relative di caso e volontà interagenti nella determinazione d’esso, e quale la formula esplicativa dell’inestricabile quantum? Quali porzioni della causa e del conseguente effetto sono attribuibili alla causalità (magnifica meccanica!) e quali alla tensione della volontà? Ascolta: se intendessimo dimostrare che il pollo è più furbo del cane, non sarebbe sufficiente affermare che per uccidere un cane basta dargli da mangiare degli ossi di pollo, mentre se offriamo ossi di cane ad un pollo, questo le disdegna e pilucca altrove. È appunto il caso, qui il caso dell’evoluzione, a decidere gli incastri mosaici della facoltà e dell’handicap, confrontandoli con sapienza e senza pietà tra le varie specie. La mente pensante elabora le definizioni a incastro stagnanti all’interno di un cruciverba, trovando le formule letterarie coerenti che s’insinueranno poi tra le caselle nere preesistenti, già imposte ordinatamente dal caso. E Kandinskij scriveva “Punto. Linea. Superficie.” Rientra ora in scena l’elemento stocastico, di rottura, rappresentativo di questo mio sistema che si sviluppa su variabili probabilistiche: il cultore dell’abigeato desideroso di variazioni sul tema, stufo della vacca e dell’asina, decide d’istinto di rubare il cane, nonché il pollo che sfilava là dappresso. Ma resosi poi conto della relativa inutilità espressa da un animale che, allontanato dal caro padrone, non renderebbe null’altro che fastidiosi guaiti notturni, e dell’altro essere, il cui collo è stato distrattamente spezzato nella violenza del ratto e le cui carni sono oramai prossime al fetore (a causa del lungo trasporto sul camioncino), resosi appunto conto di ciò, dicevo, il ladro di bestie spara in testa al cane e cede entrambe le carcasse ai vermi. A questo punto della non-verità, sarà lecito indugiare


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sul profilo dinamico dell’interazione di caso e volontà, motore biunivoco della stessa vicenda? Sarà lecito chiedersi, Magdalena, a cosa sia servita al padrone tanta accortezza nel non aver mai dato da mangiare a - mettiamo - Fido i pericolosi ossi di pollo? E quale privilegio ha arrecato al pollo la sua furbizia potenzialmente e relativamente superiore a quella di Fido? Ora entrambi sono morti. Sono morti per mano del caso. Sono stati partoriti dal caso, così come casualmente io ho appena invertito la successione naturale del decesso e della nascita. Ma è per caso che da questa riga io mi perdo nel pensiero d’un contatto notturno tra un raggio di luna e l’ombra da esso dissolta?

IV Alla castellana Alla Signora delle Guglie, Regina reginarum

Nel prosieguo d’una perturbazione mentale, muta la scena con affinità d’intenti. Tu, castellana medievale padrona dell’architettura più misteriosa di tutti i secoli; mediterranea matrona difesa solo da un leggerissimo velo, attraverso la cui trasparenza intravedo le morbidezze maliziose delle carni trasgressive; regina delle mie fibre più forti, signora dei miei più disponibili neuroni… tu, nembo e libeccio, di notte governi il feudo. Il grande letto accoglie la pelle rovente e le lenzuola s’infiammano avvolgendoti i seni e il ventre. Le candele, gradualmente, a mezzanotte scordano la luce: soltanto un tenue reticolo di riflessi lunari penetra nella stanza dei sospiri, diffondendo un candore inquietante sulle poltrone e sui sofà, su determinate superfici dell’antico


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massiccio mobilio, sul tuo corpo. Luce che risparmia solo lo spazio sottostante il dannato talamo: là io sarò, immerso nell’oscurità abissale della tua incoscienza, ad attendere pazientemente il momento più opportuno per emergere e farti mia. So che stasera il castello vomiterà la servitù. Quella fetida e infida appendice di plebe s’allontanerà sbilenca al di là del fossato, alla volta del borgo in festa (me li immagino, i bifolchi, a copularsi negli anfratti dei vicoli ove lo sporco s’amalgama col nero della notte, inebriati dagli effluvi del pattume, grugnendo alla luna inorridita), per non fare ritorno prima della tarda serata di domani. E so che questa notte sarai sola e indifesa, sperduta nei tuoi cento appartamenti. Ma una è la stanza, e stanotte io sarò là, sotto l’alcova dei tuoi peccati, e t’afferrerò. Grida, grida quanto vuoi il tuo spavento. Grida inorridita alla vista di quest’ombra che ti brama… Grida che tanto nessuno accorrerà: tutti lontani, e solo noi due a straziare il silenzio del crepuscolo. Per i caldi fianchi carnosi ti catturerò, e se dovessi riuscire a sottrarti alla presa tentando di fuggire, come avrai appoggiato le dita d’un piede sul pavimento, io aggancerò di scatto l’altro tallone, trascinandoti nuovamente sul letto. Bloccandoti stavolta più saldamente, con una mano ti ghermirò i capelli e con l’altra, più vigorosa, comincerò a torturarti follemente le immense mammelle, di certo già rese sfuggenti dai sudori d’Africa. Ora ti ho ridotta in schiavitù e giaci atterrita sotto la mia nuda presenza. Ho strappato l’ultima lingua di seta che, insinuatasi tra le gambe lucide e sode come il più pregiato marmo, ancora ti concedeva un’illusoria dignità, e sono pronto a violare i tuoi infernali abissi. Ma tu non mi temi più: il nervosismo che serrava le tue labbra si è trasformato in lento sussulto di conchiglia di mare che s’apre, offrendo ai miei denti il roseo mollusco. Le tue gambe rigide ora si placano, dolcemente si muovono


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e circondano il mio furore pulsante ed io, finalmente, trafiggo mellifluo il peccato che ti fa Regina tra le regine, spampanando nei tumulti i tuoi petali d’inferno e lottando, fino all’estremo impeto, per farti più male. Per tutta la notte. E dopo stanotte, per l’eternità.


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Michele della miniera La mattina d’un 13 di marzo, di ritorno da una lunga nottata di scavi, Michele Chillemi vide un angolo di carta bianca sporgere dalla cassetta per la posta. Sebbene nessuno gli scrivesse oramai da qualche mese, senza curiosità manifesta si mise la busta in tasca, liberò la porta da quattro retrive mandate di ferro gracchiante ed entrò in casa. Vi è un riflesso della mano, che con certa licenza potremmo definire incondizionato riferendoci alle mani dei borghesi o anche di taluni proletari sine nobilitate, il quale impone all’indice o al medio o a tutt’e due le dita, secondo le abitudini, il contatto immediato con l’interruttore una volta aperta la porta di casa. Bene, di quel riflesso nelle mani del Chillemi non v’era più traccia: i suoi occhi non avrebbero sopportato l’offesa della più piccola lampada. Del resto, le persiane a ventola tenute costantemente chiuse ed il fatto ch’egli portasse scurissime lenti protettive bastavano a dimostrare che la sua vista non era più adatta a queste nostre luci abbacinanti. Durante il giorno comune a tutti gli uomini di superficie, quindi, a colmar le sue camere oscure soltanto visioni filtrate, offuscamenti innaturali che rimbombando precipitavano nella memoria quarantaquattrenne, col colore della grafite. E col colore della grafite, talvolta, riaffioravano. La pesantezza del turno imponeva al riposo d’iniziare ogni mattina non più tardi delle nove, eccezionalmente alle nove e mezza, dopo un pranzo-colazione che la signora Giulietta, vedova del cavaliere Faranda nonché solerte padrona di casa, era adusa a preparare la sera prima con le sue minuscole mani di sarta. “Santa cri-


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stiana” pensava il Chillemi svolgendo il fagottello. «Santa e scaltrissima» borbottava poi, scoprendo tra due piatti fondi le castagne e la fetta di torta, lussi cui avrebbe senza difficoltà rinunciato e che di certo ulteriormente rimpolpavano la rendita dell’anziana locatrice. È però da dire che simili gentili attenzioni, nonostante ricevessero il puntuale corrispettivo del Chillemi a fine mese in cumulo con la pigione, in verità erano a questi riservate in via esclusiva, dato che mai la signora le aveva elargite ad alcuno dei numerosi affittuari ch’ella vantava tra via Pitrè e Largo Malerba. Neppure al maestro Guarino, venerando violoncellista da anni stagnante nell’ascesi tra drappeggiati paramenti cremisini alla Farinara (quartiere che accoglieva il più bell’appartamento posseduto dai Faranda in città) era stato mai concesso il beneficio di quei piacevolissimi riguardi che tanto bene fanno alla salute. Neanche a costui, quindi, che pure sborsava alla “paffuta speculatrice” “una costola al mese”, come lo si sentiva spesso sbuffare sotto i baffi bianchi. Se poi quel privilegio fosse da intendere quale compenso per una malinconia sottile che i lunghi silenzi del Chillemi ispiravano alla signora e dalla quale questa traeva orgastica palpitazione, o piuttosto per il temperamento gentile e dimesso di lui, o ancora per il fatto che l’uomo vivesse in solitudine proprio come la Faranda, è dato privo d’importanza. Inutili digressioni fuorvianti, come dire cosucce di periferia. Certo è che la vita di Michele Chillemi rivelava le sue prime vibrazioni alle nove in punto di ogni sera, quando il sole subacqueo era già d’altri ed egli prendeva posto sul furgone, tra i compagni; vita che si esauriva unicamente venti chilometri più lontano e centoventi metri più sotto, nella miniera. Nell’intestino tenue della montagna, Chillemi di notte viveva con altri ventisette esperti scavatori. È pur vero che, negli ultimi anni, soltanto i minatori con cui si ritrovava al cunicolo ventiquattro alla mezzanotte per la prima pausa, avevano avuto modo d’incontrare il taci-


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turno compagno di scavi senza le lenti, poiché soltanto durante il lavoro egli rinunciava al filtro, riponendo gli occhiali nel loro astuccio, nella tasca della tuta. «Don Miche’!» (e la “e” ondulò a effetto fino agli anditi del primo livello, dilatandosi spaventosamente nei passaggi cavernosi); «allura, ‘un si mancia stasira?» cantilenò sorridente Manlio Arduini-Rivetti detto “’u picciriddu” visto che, appena diciannovenne, era il più giovane tra i minatori del terzo livello. «Ora vengo» rispose il Chillemi, che frattanto si era fermato all’ingresso dell’atra galleria, con una busta in mano. Ce l’aveva nella tasca a toppa da quel mattino e solo adesso, mettendo via le lenti, la sua mano ne aveva incontrato la forma tra le pieghe impolverate; «cominciate.» «Ah?» si levò dal gruppo. «’Ncuminciati. ’Ncuminciati chi staju vinennu.» Intanto gli altri, sedutisi in cerchio, avevano preso a mangiare, raccogliendo le rispettive razioni dall’incrocio centrale di pane e scarponi. Chi gli aveva scritto era la piccola Mariolina, figlia di Salvatore La Spina. Il Chillemi, in dicembre si era recato allo Studio Fotografico La Spina di via Mazzini, per lo sviluppo di certe fotografie che ritraevano le grotte, poiché alla miniera era venuta un’equipe di mineralogisti francesi e s’era voluto documentare l’evento. Quel giorno aveva conosciuto la figlioletta del fotografo, una creaturina delicata che giocava coi treppiedi del papà: seduta in terra, trasognata, nel mezzo di una sbadigliarella Mariolina impennava i cavallucci, cercando di farli stare in equilibrio su due delle tre stecche. Già dal primo incontro, il savoir-faire del Chillemi ben s’era coniugato con la bonarietà del La Spina; per di più, le fotografie erano venute bene (le aveva scattate Ciro Marengo, attempato minatore appassionatissimo di foto e pittura che spesso immortalava i progressi degli scavi alla miniera: questi aveva pregato il Chillemi di portare i rollini allo studio


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del La Spina, perché in quei giorni la nuora pativa il travaglio e lui non avrebbe potuto badarci). Esse erano dunque piaciute al fotografo, che si era pure complimentato. «Qui la mano non m’è nuova» aveva commentato il tecnico col mento fra le dita, osservando i risultati degli scatti; ma Chillemi non si era scomposto, poiché capiva che tacendo non avrebbe dovuto rinunciare al sottinteso merito. L’ammirazione dei chiaroscuri era dunque valsa da spunto ulteriore affinché la cordialità del primo «Buonasera» «Buonasera a voi» risultasse cosa da non disperdere. Poi, sappiamo come vanno queste cose, sono le solite alchimie: casualmente ci s’incontra, si scoprono due tre gusti comuni, si litiga per pagare un caffè e in mezz’ora se ne bevono due ed ecco che di là parte una frequentazione. Allora vengono le gentilezze reciproche, l’interesse discreto per la varicella di Mariolina, un altro caffè magari in casa dei La Spina, nel tardo pomeriggio, preparato dalla signora Maria e servito coi savoiardi. Ed ecco qua alfine l’amicizia, una saporita cortesia che nel futuro potrà sopportare pure qualche indelicatezza. Mariolina aveva subito preso in grande simpatia il Chillemi, come di frequente avviene che i bambini si affezionino particolarmente ad un conoscente piuttosto che a un altro, a causa di certi misteriosi processi mentali propri dell’età infantile. Arrossiscono e scappano via, i primi tempi, e fanno moine quando ci si interessa di loro, per avvicinarsi poi gradualmente, sempre più da presso, come per studiare. Tra l’altro, la bambina era rimasta profondamente affascinata dalle foto delle grotte, sebbene certamente ne avesse già viste delle altre nello studio del padre. Ma queste erano di Michele che la conosceva tutta, la miniera, fino ai budelli che penetravano addentro l’ignoto. Era, tra gli uomini che scavavano sottoterra, il più bravo; chissà quanti scrigni preziosi aveva portato alla luce in tanti anni di scavi, dissotterrando quali favolosi segreti. Ed ora che lui era divenuto amico del papà,


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durante le brevi visite della sera certamente avrebbe approfondito i suoi racconti. Le peripezie sotterranee, il salvataggio del Meneghini, la faccenda degli occhiali e i misteri delle caverne; ma soprattutto i tesori sepolti, gioie infinite, argomento tanto occulto che bisognava parlarne sottovoce. Sulla busta, priva di francobollo, era scritto “per Michele della miniera”, con una grafia a lettere grandi e tonde, infantile ma non per questo priva di grazie, che già precedeva contenuti affettuosi. Nel suo interno, un bigliettino lo ringraziava per “la bellissima cartolina”: il 27 di febbraio, infatti, Mariolina aveva compiuto sei anni ed il Chillemi le aveva spedito una cartolina a forma di locomotiva, tutta colorata di blu, pilotata da un topolino che faceva gli auguri, “Buon compleanno”, diceva. La bambina aveva poi aggiunto sul retro del biglietto, superficie dedicata a maggiore riserbo, “Un bacio”. Il Chillemi infilò il biglietto nella busta e senza piegarla, la ripose in tasca. Più in là, i minatori avevano quasi finito di rifocillarsi ed oziavano un poco. A quest’ora Mariolina certamente dormiva, sognando forse lo splendore dei tesori che laggiù, in realtà, non c’erano mai stati. Solo polvere che il suo amico Michele levava, arida nebula che s’alzava dal fosso, si depositava in parte nelle tasche e scompariva mulinando negli abissi notturni. Non c’erano forzieri meravigliosi nell’abbandono dei giacimenti e non c’erano favole. «Don Miche’!» chiamò qualcuno, sentendo rumore di scavo.


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Altrove III Altrove, assorto a sceneggiare il gusto di sorprenderti, che ripresa! in fondo al corridoio mentre rincasi ti colpisco nel profondo, cinicamente; ma senza poi doversene pentire, senza dolore né rimorso, appunto amabilmente altrove, le lacrime. Altrove, ma proprio dove né io né altri conosciamo il tradimento, altrove dove neppure me ne rammento, dove non so di che si tratta, ecco che là intavolerei la tua disfatta, sul tuo letto nuziale, mentre l’uomo è studente, lavorante invece, da me diverso, assente, altrove appunto. Altrove, quando sarai bambina, ipocondriaca, abile a mettere e levare, mi macchierò del più terribile degli incesti: da telegiornale. E altrove, gioia mia, non adesso, perniciosamente per te scrivo elegie e un requiem solenne, deformi figli amati che attaccati al mio petto succhiano un decennio della mia vita (il migliore) altrimenti blando in assenza di quelle parole; ed infine compiute le opere, alla fine pasciuti i miei pargoli, al tuo cospetto io le brucerò, gorgogliante nel sangue la mia discendenza, senza fartene scorgere una pagina, udire un lamento. È altrove il mio disagio? Dove i flicorni della sera squittiscono marce funeste? Nelle chiuse spelonche, quelle che tutti sanno al di là delle montagne, a ridosso delle risaie, o invece proprio accanto a me sussurrano, in un angolo di questa camerata, dentro il frigorifero, sotto quella piastrella? E il tuo silenzio miserabile sai di che sa? Sa di gioia altrove (a levare), di clausura sporca, di amplesso fatato, rupestre, paesano (altrove, saporitamente). Io sono nella stanza. Tu?


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Costruisci una frase usando il verbo amare e poi fai l’analisi illogica Alto altissimo, usurario il tasso che quotidianamente verso nelle casse dell’incanto. In termini di rapace schizofrenico appollaiato sullo stomaco, intendo. Mi arpiona le budella, ogni nuovo incanto, ed uno più dell’altro in me penetra e s’impasta, nel ventre precipitando come bolo di cemento scientemente realizzato, da me stesso manufatto. E allora prepariamo il tremendo impasto, che tanto non c’è scampo. Per cominciare s’aggiunga alla propria vita, nella quantità meno opportuna, tutta materia grave (come due sofisticati strumenti periscopici sì ben piazzati sul mercato ma col difetto, per errore di progetto, di una altissima pressione interna, e perciò incapaci di soffrir compressi nelle orbite inadeguate allora maledetti esplodono, una sera, mille sguardi per mille traiettorie, e contro una, qui in fondo all’anonimo locale, seduto al tavolo con un bicchiere di quelli forti, io). Compiuto il primo passo, è meccanico il prosieguo. Con il bolo semilavorato in questa fase insistente nella bocca dello stomaco, si percorra qualsiasi strada in qualsiasi direzione, tanto fa lo stesso. Tutte le destinazioni possibili, attraverso tutti i possibili tragitti, convergono infatti in una campana di vetro blindato infrangibile antigraffio antiriflesso, all’interno della quale andremo a trascorrere una pausa di silenzioso isolamento ermetico. Assumiamo che il periodo d’incubazione nella trasparente cassa iperbarica, imprevedibilmente variabile da «non resterò chiuso qua dentro ancora per molto!» a «quanto tempo è passato da quando sono entrato?» sia infine trascorso. Si esca quindi da essa inevitabilmente provati, invecchiati forse, fatto il pieno a ciò che doveva


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essere vuoto, svuotato ciò che sarebbe stato meglio fosse pieno, per scoprire che dentro o fuori è la stessa cosa. Lo stesso silenzio, l’isolamento alienante, il telefono vibra non squilla, non strilla la mamma sculaccia sculaccia, il cane apre chiude la bocca non fa bau (probabilmente sbadiglia), le pareti della casa di Barbie sono percorse da un fremito sinistro le pareti di casa vibrano oscillano le mura della città una ad una crollano le mura del mondo rovinando sbuffano mute mutissime colonne di polvere mi cementano gli occhi m’inondano gli interni canali agglomerandosi con l’impasto che intanto inarrestabile punta allo stomaco indisposto già ossidato dall’impossibilità di fuggire, dal disagio che tutti sentiamo allorquando si avverte che oramai è troppo tardi, impossibile sottrarci alla rovina e ancora più sotto, addentro le budella, sempre più in fondo a graffiare le molli mucose doloranti, via il primo strato di carne (si sente proprio lo squarcio che brucia di dentro), via la fetta successiva ecco ecco ecco la fitta, un fico d’India in bilico dentro al rene per lo spasmo rotola giù veloce fino all’imbocco dell’uretere e a forza nel budellino s’infila. Se ora oziamo sdraiati, e la dolce risacca del sollievo ci lambisce i piedi nudi, temiamo. Temiamo l’onda anomala; auguriamoci di non scorgere là lontano, alzati gli occhi all’orizzonte, il puntino nero che s’avvicina s’avvicina, che cos’è? Il mostro marino ci risucchia trascinandoci al largo per le gambe, nell’abisso. Temiamo il naufrago che approda moribondo dietro quegli scogli: con l’inganno ci chiede ristoro e di notte ci assassina. Attenti al gorgo marino, allo squalo tremendo, al fondale sabbioso alle pietre scivolose. Attenti alle alghe carnivore, attenti alle meduse urticanti alle torpedini elettriche al buio del mare profondo. Non trascuriamo le sirene, gli anemoni, il sale il sole l’effetto del sale al sole, i compagni d’ombrellone. Trovare la morte dietro un cespuglio, quando il sole è allo zenit, è triste. Fa caldo.


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Grandi manovre (Campus) Era appena cominciata la primavera quando ebbero inizio le grandi manovre. Mi aveva incuriosito il continuo viavai dei gatti del quartiere, che da qualche giorno venivano a bivaccare attorno alla mia pianta di rose rampicanti, e stavano lì fermi per delle ore, mugolando e sonnecchiando. Arrivarono pure due cani randagi. In un paio di giorni, quando ebbi il giardino brulicante di quadrupedi, mi fu evidente che la meta era ben precisa: l’osservazione di un bocciolo insignificante che sbucava timidamente dall’intrico di spine. Uscii una mattina presto a guardare quella cosa approfittando dell’assenza delle bestie (anche cani e gatti hanno relazioni sociali da curare e, in qualche modo, certi orari da rispettare). Era un’escrescenza verde moribonda, genuflessa tra gli arbusti del bel rampicante, niente più che un gambo sottile e macero piegato dal peso del proprio rattrappito bocciolo. Nel complesso, aveva un’aria miserabile. Il gambo, che si contorceva attraverso il vigoroso reticolo dei fusti delle rose, spuntava da una zolletta di terra tumescente, immersa nell’ombra, attorno alla quale un nugolo di moscerini (di quelli minuscoli che si vedono sempre vicino all’immondizia) si esibiva in voli da pattuglia acrobatica. Decollavano, facevano qualche giro attorno alla piantina, quindi si lanciavano in picchiata tutti galvanizzati come le mosche in astinenza da sterco, per atterrare di nuovo sulla zolla marcia. Qui si muovevano a scatti sorprendentemente sincronizzati, organizzandosi nuovamente in ordinata pattuglia e dopo qualche secondo ripartivano. Provai a scacciarli, così, agitando una mano per spezzarne la traiettoria; si disperdevano e allargandosi volavano


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disordinatamente tra gli arbusti. Ma poi riuscivano, si compattavano e riprendevano tranquillamente il lavoro. Decollavano, facevano qualche giro e così via, fino a quando decisi che ero stanco di guardarli e rientrai in casa. Mi risulta che il moscerino, per sua intima natura, non possieda una intelligenza notevole, come dire, una capacità progredita di organizzarsi in virtù di qualche cosa che vada oltre il puro e semplice istinto animale. Ma i moscerini del mio giardino – ora non perché sono i miei, sia ben chiaro – i miei moscerini sono diversi dagli altri che m’è capitato di vedere finora. Innanzi tutto questi hanno un modo del tutto singolare di ordinarsi in vista del decollo. Procedono a scatti ad un ammassamento convergente che muove prima dalle due ali laterali del contingente, e poi via via a seguire le file più esterne, due alla volta ed in sincronismo impeccabile, fino a completare una squadriglia perfettamente allineata e coperta. A questo punto, quando l’operazione di adunata è conclusa, si alzano in volo tutti insieme, senza rincorsa bensì in verticale come gli elicotteri e raggiunta una determinata altezza dal suolo (più o meno venti centimetri), prendono a girare intorno alla pianta. Inoltre, durante il volo, non è capitato mai che qualcuno di essi abbia perduto la posizione all’interno dello schieramento (per la verità, soltanto una volta è successo che uno dei moscerini della penultima riga, precisamente il quarto da destra, abbia avuto un attimo d’esitazione in fase di ammassamento, perdendo il passo ed intralciando di conseguenza il collega retrostante; ma dev’essere stato subito trasferito altrove o addirittura congedato, perché l’incidente è avvenuto la settimana scorsa ed io non l’ho più visto qui intorno). Le ricognizioni della pattuglia rispettano una precisa logica esecutiva, mulinando attorno al gambo una volta in senso orario e nel senso opposto nel corso della missione seguente. Quanto ai tempi, ho calcolato che ogni


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operazione completa (dall’adunata all’atterraggio) ha una durata media di quindici secondi. Perciò, al netto dei tempi morti dipendenti da imprevisti o sostituzioni di singole unità – eventualità, queste, peraltro molto sporadiche – gli aviatori compiono all’incirca 230-240 missioni in un’ora. In considerazione dell’enorme impiego di energie e dei relativi ingenti costi (certamente, ho considerato, i moscerini non lavoreranno senza un tornaconto), è di facile intuizione la delicatezza dell’oggetto del loro servizio. Ma la meticolosità nell’esecuzione ed il superumano senso del dovere dimostrati dagli insetti, appaiono in forte contrasto con l’aspetto miserevole della piantaccia. Con il trascorrere dei giorni, lo stato generale del vegetale non è assolutamente migliorato. In compenso l’orda di animali inquilini ha cominciato a tollerare la mia presenza; sempre più frequenti si sono quindi fatte le mie visite al parassita delle rose rampicanti. Un pomeriggio mi trovavo accovacciato ad osservare la pattuglia all’opera, quando all’improvviso sono arrivate le formiche. Non mi ero neppure accorto del loro sopraggiungere alle mie spalle, finché non vidi sotto di me, proprio tra le ginocchia, una truppa marciante alla volta del monticello già presidiato dagli insetti volanti. Nella piccola radura si verificò l’incontro fra i due battaglioni. Il comandante delle formiche, una polposa larva di formicaleone, incedendo con singolare portamento tronfio da veterano si distaccò dallo schieramento e raggiunse marciando la base del cocuzzolo, scortato da due grosse formiche rosse tutte imbardate che impeccabilmente gli stavano al passo. I tre insetti si arrestarono qualche centimetro prima dell’inizio della salita, lasciandosi alle spalle l’armata inquadrata; qui attesero che i moscerini tornassero a terra. Il portamento marziale del comandante, il cui grado non era di certo inferiore a tenente colonnello, era indicativo della sua austerità: avevo infatti notato vibrazioni


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d’insofferenza percorrergli le zampette durante l’attesa dei dovuti onori. Quando finalmente gli aviatori toccarono terra, lo stormo fulmineamente si ricompose nella consueta formazione nove per nove. Ma dov’era il loro comandante? In effetti, mai avevo notato la presenza di un leader fra i moscerini, né avevo avvertito una tale carenza, dato che le operazioni, nel loro complesso, erano sempre state eseguite con la massima precisione e senza che qualcuno degli elementi si fosse mai visibilmente occupato del comando. Ma in questa occasione eccezionale, non era naturale che venissero adeguatamente rispettate le dovute formalità? Mentre dal basso il formicaleone sbuffava oramai spazientito, il più piccolo tra i moscerini, precisamente il perno della nona riga, sgattaiolò fuori dall’inquadramento e, certo di non essere stato visto, in fretta si arrampicò lungo la parete posteriore del gambo della piantina, quella che non vedeva mai il sole, fino a raggiungere una piccola foglia ripiegata a guscio su se stessa perché oramai quasi secca, al cui interno si intrufolò. Si sentì un ronzio profondo provenire dall’interno della cavità. Il formicaleone e la scorta guardarono in alto. Tutto taceva, mentre il battaglione di scavatori rigido e silenzioso attendeva l’ordine. I moscerini sudavano freddo. La faccenda assumeva le connotazioni di una scomoda ispezione a sorpresa. I secondi trascorrevano con lentezza drammatica, quando ad un tratto i lembi della fogliolina sussultarono con uno spasmo violento, e dal suo interno irruppe sul campo il comandante dell’aviazione. Un enorme moscone verde fluttuò a mezz’aria esibendo la corazza lucente, atterrando poi con grazia in testa al proprio stormo. Sgranchitosi le zampe, ronzò un paio di ordini ai suoi, che vibrarono tutti eccitati; dopodiché si avviò sicuro ad incontrare il collega ufficiale. Si erano fatte le nove, il sole volgeva al tramonto e i due capi ancora confabulavano. Certamente l’oggetto del rapporto riguardava lo stato della pianta, che fin dalla


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sua nascita non aveva mai dato l’impressione di godere di buona salute. Finalmente fu ordinato ai due schieramenti di rompere le righe e ritirarsi a trascorrere la notte: i moscerini si tuffarono nel buio tra gli arbusti, mentre le formiche si accamparono tutt’intorno alla zolla da cui sorgeva il prezioso vegetale, dividendosi in aliquote da cinque elementi; a turno, ognuna di queste avrebbe effettuato un servizio di ronda notturna. Avvenuto il passaggio di consegne tra la prima e la seconda aliquota, mi ritirai a preparare la cena. I due ufficiali si erano già da un pezzo ritirati. Il mattino seguente, stavo facendo colazione quando in giardino iniziarono le manovre (non avrei mai immaginato che le corazze degli insetti potessero produrre un simile rumore di ferraglia). Comodamente abbandonato sulla sdraio, mi preparavo a godere un’intera giornata di osservazione. Come al solito, cani e gatti fecero il loro ingresso verso le sette e mezzo, sparpagliandosi tra le aiuole. Per tutta la mattinata, i moscerini svolsero le operazioni ordinarie di ricognizione aerea; a terra, le formiche proseguivano imperterrite il pattugliamento dell’area, sotto il controllo del formicaleone cui, durante la notte, era stata scavata una confortevole buca ai piedi della zolla. Da quella postazione, esso poteva agevolmente seguire il volo dei subalterni, nonché ricevere i rapporti dalle formiche sulla situazione, senza che queste – per ovvi motivi di opportunità – fossero costrette ad avvicinarglisi troppo. Sfortunatamente, gli sforzi degli animaletti sembravano ora più che mai essere vani. Infatti l’aspetto della pianta era davvero sconfortante. L’esile gambo, lacerato in più punti, aveva assunto una vistosa colorazione verdognola di tumescenza, essendo la materia flaccida come pestata; delle poche foglioline che da esso escrescevano, i due terzi erano oramai prossime a staccarsene e le restanti andavano velocemente decomponendosi. Il bocciolo malato non stava certamente meglio.


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L’estremità superiore era ancora chiusa a cappuccio ed ora il suo volume risultava notevolmente aumentato, come se all’interno esso covasse un enorme pulsante foruncolo tumorale, un male irreversibile che dal profondo ne stava succhiando la vita. L’afrore era quello di materia putrescente. Ma tutto ciò non sembrava scoraggiare affatto gli animali: continuarono così per oltre una settimana le cure degli insetti ed il raccoglimento religioso dei quadrupedi. L’altro pomeriggio, considerato che le operazioni proseguivano con la loro ciclicità inalterata, pensai bene di dedicare un paio d’ore alla pulizia del giardino. Da un mese abbondante, infatti, mi occupavo esclusivamente della pianta moribonda, trascurando del tutto la manutenzione delle aiuole. Mi rimaneva l’ultima palma da potare, verso le sei, quando proprio alla base del tronco notai qualcosa di strano venir fuori dal terreno. In mezzo all’erba vidi che la terra tutt’intorno al tronco era percorsa da minuscole ferite, dalle quali emergevano numerosi filamenti vegetali, simili a radichette pelose e contorte, che si rituffavano sottoterra dopo qualche centimetro. In tondo diradai l’erba sotto il fusto: l’intera superficie era crepata, e da ognuna delle fessure affioravano le radici. Controllai allora l’altra palma, poi tutte le altre lungo il filare intorno alla casa, e ancora ai piedi della buganvillea, sotto le tuie e tra i papiri: dappertutto il mio appezzamento era devastato dai misteriosi filamenti. Corsi fuori dal giardino e raggiunsi la strada dietro casa, via Malaffare. Esplorai una per una le aiuole lungo il marciapiedi, e in tutte vi trovai le radici. Un sospetto mi scivolò allora dentro al cervello, ma era troppo pazzesco per darvi credito: possibile fossi io il primo ad accorgersi dell’epidemia? Io lo scopritore del nuovo flagello? Io, dunque, l’incosciente guardiano della madre cellula? Ora sì che tutto è chiaro. Ma che me ne faccio adesso della coscienza? A che mi serve avere inteso la ragione


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della venerazione, dell’addolorato raccoglimento degli animali del quartiere, adesso che sento bussare alla porta? Il male tutto m’ha mangiato, di dentro, liquidandomi con diagnosi in tre parole. I parenti lontani attorno al letto, a debita distanza, riempiono assieme agli amici la mia camera buia: ad ogni mio rantolo, venti trenta loro sospiri. Mio cugino Alberto dirige le operazioni d’accesso e visita: se qualcuno alza il volume, questi subito ammonisce severo. Li vedo ruotare tutti attaccati alle pareti, mentre mi osservano dal collo in giù per un attimo soltanto, pietosamente: dal bisbigliare capisco che è arrivato il prete. Dal silenzio avverto la fine. E nell’ultimo ansito i miei occhi guardano fuori, attraverso due tapparelle sbilenche, là in fondo al giardino. Vedo cani e gatti correre ai piedi delle rose rampicanti, e gonfi nuvoloni di moscerini rombanti volare neri in quella stessa direzione: quale cataclisma! Qualcosa dev’essere accaduto, qualche fatto nuovo e veramente importante. Ora gli animali si diradano proprio al centro del gruppo, come per lasciarmi scorgere l’evento meraviglioso, l’ultimo omaggio, mentre mosconi e coleotteri si ammassano a mezz’aria in un fortunale d’elitre ed ali membranose e delicate. E quando capisco che solo l’ultimo sguardo alfine mi è concesso, non uno di più, di fuori qualcuno si appoggia di spalle alla finestra, chiudendomi il varco.


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Domani, al limite «E allora: penna, astuccio e calamaio. Solo penna, dato che il calamaio non lo trovo e l’astuccio neppure ricordo cosa sia. Viceversa, il sapore di quella frase lo ricordo, eccome. Ricordo le labbra di mia madre trentasettenne chiudersi, riaprirsi un poco come per sorridermi, fare la “A” come se mi volesse chiamare mentre gioco nella strada del Barone Cupani che tanto cara mi è. Poi la “u” sorpresa di quando facevo un danno; quindi schioccavano e io immaginavo mi dicessero “gioia”. Da questo punto in poi non le seguivo più le sue labbra. Solamente un altro sorriso, forse, e qualche ulteriore piccolo movimento sfocato che, purtroppo, non trattengo. Intanto mi ritrovavo là, seduto composto di fronte alla penna, all’astuccio e al mio bel calamaio che non trovo più.» «Ho detto penna, astuccio e calamaio!» «Trentasette anni. Non so se è il ricordo di mia madre a trentasette anni o piuttosto della mia felicità al tempo in cui lei aveva quella precisa età. Certamente ricordo i suoi capelli a quel tempo, e le sue ciglia. Rammento di essermene abbondantemente nutrito. Non so quanti anni avesse mio padre, pur avendo nitidamente presenti le scarpe che indossava, i pantaloni grigi con le pence. E gli occhiali, come no! E le sue basette nere, belle basette nere e folte. E la giacca.» «Per l’ultima volta: penna, astuccio e calamaio!» «C’era un castello a ridosso della ferrovia tra Messina e Palermo, che solo adesso vengo a sapere essermi appartenuto, io ne ero il signore. Eppure, allora l’immenso rudere non aveva segreti per me. Vi trascorrevo più tempo in sogno che nei lunghi pomeriggi dopo la scuola. Era il castello dei sogni che poi, da sveglio, ritrovavo pro-


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prio dietro casa. Mentre esploravo le sue stanze sognavo però di tornarmene a casa, anche se ogni volta non sapevo se, giunto fuori, l’avrei più trovata. Una volta trovai un uovo.» «E va bene! Metti le mani sul banco!» «Ma quando mai! Sono le cinque meno venti e io staccavo alle quattro e mezza. Domani, al limite.»


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Ora Ti dico che cosa m’infastidisce, dopodiché senz’altro mi darai ragione. Sai che c’è che non mi piace per niente? Che il nostro anniversario cada in un giorno comune a tutti quanti gli altri, un giorno che non si distingue per alcunché. Questa nostra ricorrenza, importante, sfuma tra decine di cose già fatte quante volte? Mille, un milione? Io invece avrei voluto che oggi fosse stato diverso, magari uno di quei giorni speciali. Che ne pensi, per esempio, se al telegiornale dell’una il cronista, in preda ad una incontrollabile emozione avesse annunciato: «È ormai certo, fonti ufficiali confermano senz’ombra di dubbio che in California è atterrata una nave spaziale. L’ambasciatore alieno alle cinque del pomeriggio incontrerà il Presidente alla Casa Bianca…» Oppure, perché no: «Cittadini, finalmente è stato scoperto il segreto della longevità. Tra un mese il miracoloso vaccino verrà diffuso alle masse: esso permetterà all’uomo di superare la soglia dei trecentoventi anni. Il Ministro della Sanità suggerisce di non uscire di casa né di maneggiare oggetti taglienti, almeno fino al giorno dell’imminente rivelazione, per non correre rischi… un mese di riposo, prima di godersi l’eternità…» Non sarebbe piaciuto anche a te che il nostro anniversario fosse coinciso con un evento singolare, uno di quegli avvenimenti che poi i nostri figli studieranno a scuola? Volendo essere più modesti, mi sarebbe bastato notare mio padre sedersi oggi a tavola con una certa aria di mistero, e tra i rigatoni e gli involtini scattare in piedi e confessare: «Rimanete seduti e calmi, c’è una cosa che devo dirvi. Ieri sera ho controllato la schedina» (mia madre che sviene, io che penso all’ultimo modello di


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Ferrari) «e – non ci crederete – i sei numeri della combinazione vincente differiscono da quelli che ho giocato io per una sola cifra… ma ci pensate? Ecco qua: 6, 21, 33, 37, 41 e 70, e invece sono usciti il 5, il 20, il 32, il 36, il 40 e il 69! Cose da pazzi!» Ecco, mi sarei accontentato di un giorno segnato da una così forte emozione, anche se così breve, giusto un istante. Credimi, pur di fare di questo anniversario una data indimenticabile avrei accettato anche una piccola disgrazia, per carità, niente di grave s’intende. Se per esempio oggi mi fossi rotto una gamba, di sicuro questa sarebbe stata una giornata diversa. Oppure un incidente con la macchina: ma sì, sfasciare irrimediabilmente la macchina contro un palo. Macché. Invece, cara mia, ancora una volta ci sorbiamo un anniversario che di speciale non ha proprio niente: la solita telefonata a metà mattino, noi due che ci vediamo dopo pranzo, ci salutiamo con un bacino discreto, io che ti chiedo che vuoi fare quando so già perfettamente che andremo a prendere il caffè dai miei cugini. Del resto ho registrato la corsa delle macchine, per cui neanche stasera accadrà niente di fenomenale. Niente di cui parlare agli amici, niente da custodire gelosamente, niente da ricordare e di volta in volta tirar fuori per parlarne sottovoce, in disparte, come si fa dei segreti più preziosi. Non succede proprio niente e ne sono certo, niente succederà. Ma chi sarà adesso al telefono? Sei tu. Mamma mia, che desiderio che ho di vederti, ora.


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Un momento di solitudine Signore e signori, mi dispiace per voi, ma stasera succede che piano piano da me esco e pieno pieno di me dico: andate a farvi fottere. Sì, tutti, coi vostri pensieri cretini, i dizionari smarriti, le insolenze (comprenderete, se vi pare o gentili intervenuti, che lo scrittore ha bisogno di un momento di solitudine, d’escludervi tutti, condannandovi, perché ha da fare). Sentiamo un po’… ecco qua. Tutti fuori, eliminati, scordati, schifati finalmente. Ah no! Eccone un altro, là in fondo, che sbuca da una curva e mi viene incontro con la macchina. Ma chi è? Via! Via! Hai capito o no che te ne devi andare? Andato. Stavolta non c’è più anima viva. Sicuro? Sì, nessuno. Bene bene bene. Allora: il fatto è che devo chiedere perdono. Incominciamo. Perdonate innanzitutto se dal deserto lontano vi giungono lettere d’amore, tipo «Un abbraccio… un abbraccio? Ma rispiratimi dd’aria, taliatimi dd’u mari, apritimi ‘a porta chi staju turnannu ‘a casa. Vi vogghju bbeni.» e poi, quando il tempo è oramai dilatato allo spasimo e dal Comando Supremo quale premio! al belligerante giunge il foglio («Vada, vada pure a godersi il suo meritatissimo minuto di svago in riva al fiume, sul picco


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panoramico, all’inferno. C’è un bel timbro tondo, vede? C’è la firma del Comandante. Vada!»), ecco a voi il soldato che non sveste la giubba, non abbassa il saluto, non ordina il “rompete le righe!”. La battaglia fantasma è ostinata, miei cari, e giorno e notte romba negando il sonno ai focolari, sebbene Radio Tokyo, Radio Londra, Radio quello che vi pare non fanno altro che annunciare la pace, la capitolazione del despota, i congiunti fucilati in piazza, le truppe che brindano alla freschezza della vita risparmiata. Perdonate se ogni mattina presto, mentre ancora tutto il mondo dorme, vi sveglio coi miei rumori. «Vado a pescare!» E quanta vita aggancio con la canna, guardate qua: carpe, trote, merluzzi, balene, capodogli, polpi giganti, sirene, Poseidone, tutti nella cesta a boccheggiare e al mio ritorno, sul piatto, alghe salate. Perdonate le cose di seguito elencate: a) la velocità; a) la rabbia; a) gli sproloqui; a) le dissolutezze; a) le tante formule errate; a) le amnesie; a) l’immaturità; a) la nonvolontà; a) l’egocentrismo; a) l’egoismo; a) la violenza; a) l’anti-amore; a) le sordità; a) le cecità; a) i silenzi; a) gli eccessi; a) le assenze; a) l’impazienza; a) la distrazione; a) i safari; a) l’intolleranza; a) le apnee; a) la menzogna; a) i tradimenti; a) l’autolesionismo; a) il concubinato; a) ; a) ; a) . Se tra i numeri 1 2 3 4 5 6 7 8 9 0, in tutte le loro possibili combinazioni, riconoscete quelli che mi sono appartenuti, perdonatemeli. Perdonate se scrivo cose senza senso, tipo ygdste djjduew hgtrfdu llk hsfret csderas lls tredfsrt. Perdonate questo spazio vuoto . Certamente avrò dimenticato qualcosa, ma voi perdonate pure ciò che adesso mi sfugge. Ecco qua, signore e signori, ho finito. Potete rientrare, ma in fretta, che ripartiamo.


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Appunti sul suicidio di un entomologo algerino residente all’estero Vi sono accadimenti ben localizzati nella vita dei popoli, che con la loro forza esercitano potestà sulla concatenazione dei movimenti dell’universo: così esiste la Storia e si trasforma, e rapportandosi proprio a tali fatti, resta. D’altro canto, accadono pure cose irrilevanti per il mondo, ma il cui verificarsi basta ad alterare profondamente la vita di qualcuno; ed è così che esiste e si trasforma la storia di un uomo, e l’evento che ha generato l’effetto, talvolta, presenta un notevole interesse. Il dott. [ ] ha prestato servizio in qualità di analista presso il mio laboratorio dal 7 ottobre 1996 al 23 agosto 1998, giorno in cui ha deciso di suicidarsi, calandosi in una cisterna di catrame allo stabilimento della Edilsidera. Quella mattina, appena giunto al mio studio, lo trovai ad attendermi seduto sul pianerottolo. Già indossava il camice e mi sembrò sereno. Quando ci fummo accomodati, per mezz’ora non fece altro che parlarmi di fatti privi d’importanza, accennando di tanto in tanto a un appuntamento importante che aveva fissato per le nove, se volevo scusarlo, ed io non sospettai affatto che quel vago discutere fosse solo un pretesto per nascondere qualcosa qui dentro. Solo qualche giorno dopo il decesso, aggiornando certi incartamenti alla firma, ho trovato la sua lettera che, purtroppo, non mi è stato possibile comprendere per intero, poiché alcuni passaggi risultano indecifrabili. «Neanche lei si è accorto del mio intimo disordine. Se le avessi rivelato subito ciò che invece ho finora taciuto, forse adesso non mi troverei qui, tra scope e ragnatele, al


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buio dello sgabuzzino di casa mia, acquattato come un demente con una torcia elettrica fra le righe. Fuori da questa porta, che ho avuto l’accortezza di sprangare alle mie spalle, soltanto silenzio. A spezzarlo, il mio orologio da polso, uno Zenith automatico d’una ventina d’anni fa, che scandisce tremendamente il tempo del mio panico. La mia mente è percorsa da tremori bestiali: eccola qua, sconquassata dalle più atroci convulsive visioni della fine prossima. Mi rendo conto che solo violentando la memoria e verbalizzandone i vomiti riesco a sedare parzialmente l’istinto suicida che mi divampa dentro la mente secca. […] Erigo lapide all’equilibrio. Mi sono appena riavuto da una serie paurosa di violentissime convulsioni, causatemi dalla memoria di quanto è avvenuto qualche ora fa davanti alla toletta [...] La luce va affievolendosi sensibilmente, ma è indubbio che non mi muoverò da qui. Per nessuna ragione varcherò la soglia di questo che oramai s’erge ad ultimo, futile rifugio. Riaccendo la luce alle 17:46. Sarebbe illogico ogni tentativo di tradurre, anche nella più surrealistica delle formule letterarie, i pensieri ributtanti che mi hanno tormentato durante questa pausa di tenebra assoluta. Ma forse questo è solo un terribile incubo ingannevolmente mascherato da sogno, che mi mostra le sue reali fattezze un poco alla volta: piano piano, ad ogni frase della tragica ouverture, esso dunque si priva di una parte del suo subliminale costume traditore. Questa mattina, svegliatomi da un sonno inaspettatamente tranquillo, privo dei soliti incubi, mi si era spalancato davanti uno spettacolo gioioso: la campagna radiosa, nella quale è immersa la mia piccola, solinga abitazione in pietra, si presentava ai miei sensi con tutto il suo fulgore, convincendomi ad attivare i muscoli e le articolazioni del mio corpo finalmente riposato. E come canticchiava lasciva, la natura! Ogni cosa era felicemente


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equilibrata: i deliziosi profumi rupestri, quei suoni melliflui, trovavano razionale sistemazione e perfetto bilanciamento nell’incantevole novità di un’alba tranquilla. Non un alito scomponeva quell’inverosimile scenario naturale, quasi come se tutto, intorno alla mia casa, si fosse improvvisamente cristallizzato, immobilizzato, per consentire ad un ignoto osservatore di focalizzare vividamente il mio risveglio, senza che neppure una minima impercettibile oscillazione di quella grande lente (il mondo stesso intorno a me) potesse disturbargli l’attenta contemplazione della mia assonnata ed illusoria ingenuità. Ed io, preso com’ero dalla venerabile quiete, dai plastici perimetri delle querce secolari che si stagliavano magnificamente contro l’aurora silente, dalla tranquillità del mondo mi feci ammaliare. Così, dopo essermi riempito i polmoni con due o tre profonde inspirazioni d’ossigeno immobile preso in prestito da quel paradiso, decisi quasi contemporaneamente di renderglielo in versione rivisitata, ed accesi una Galouise. Ciò che successe dopo pochi minuti rappresenta il piano panoramico dell’epilogo della mia esistenza, un presagio orrendo che mi trasmette ancora adesso impulsi svisceranti. È tremenda la paura e vano il coraggio, un coraggio che, seppure elevato ad infinitesima potenza, non riuscirebbe a sconfiggere ciò che mi segrega qui, al buio. Non ho via di scampo, né trovo volontà sufficiente all’elevazione del mio coraggio ad alcuna potenza... I miei liquidi febbrili, come raz de marée hanno oltrepassato il confine (segnato idealmente dalla proiezione dello spessore della porta di questo ripostiglio sulla sua stessa soglia) tra la mia paura e la fine incombente. Lo specchio fu l’orribile cornice del presagio. Con naturalezza, i miei occhi si posarono dapprima sui pomelli bicolore del lavandino, sulla superficie interna del quale notai immediatamente un pelo. Sin da bambino, ho sempre detestato quelle impercettibili e filiformi variazioni cromatiche sul chiaro lucido omogeneo della


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ceramica sanitaria, per cui, con un abituale scatto nervoso della mano destra, ruotai impazientemente il pomello dell’acqua calda, sollevando simultaneamente con la sinistra la leva dell’otturatore e mi misi comodo ad osservare il lento formarsi della piccola laguna fumante che avrebbe combattuto per me. Attesi qualche istante, sempre col mento rilassato sul bordo del lavandino, che il livello del liquido trasparente raggiungesse lo stelo bruno che dormiva ignaro nel suo letto, finché non venne scottato dall’elemento mio alleato e trascinato via dal gorgo cui la mia mano aveva dato origine abbassando di scatto la leva dell’otturatore. Quindi, soddisfatto, per qualche secondo fantasticai sulla sorte di quella volgare formazione cutanea dell’epidermide che avevo così malvagiamente sottratto al riposo, sconfitto e scaraventato nelle profondità abissali dell’oblio. Come per autocompiacermi dell’esito vittorioso di quella beffarda incursione, sollevai il capo lentamente, come lento sorge il sole al di là delle creste lontane, facendo capolino al di sopra della spessa cornice inferiore dello specchio, e vidi spuntare i miei capelli. Poi di scatto, come se innaturalmente l’astro ancora sonnolento fosse stato spinto verso l’alto, con violenza, dagli elementi, mi rizzai sulle gambe e mi riflessi pienamente fino all’ombelico sulla superficie maledetta. Ciò che vidi, e che solo adesso la concatenazione dei fatti mi convince ad interpretare come il più orrendo dei presagi, interruppe per un istante infinito ogni mia funzione vitale: quell’immagine riflessa nello specchio penetrò attraverso la mia bocca spalancata ma incapace di urlare per il troppo orrore, come un’improvvisa violenta folata, tremenda potentissima aspirazione meccanica, una scarica di privazione che risucchiò via dal mio petto ogni minuscola molecola di gas ossigenante. Tempesta rovente di sabbia e rovina di lastroni taglienti nelle mie vene, dottore. Gorgo marino che scava scava nel buio degli abissi, turbinando risveglia tra le


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melme creature che bramano vendetta dalla notte dei tempi e a mille a mille, dentro al petto a mille a mille urlano gli spiriti antichi, custodi delle tombe degli uomini. Come il Guillaume Tell che parte piano, nel silenzio quasi ti sorprende, ti s’appoggia sulla spalla come la cornacchia, andante allegro andantino allegro vivace il crescendo sinfonico spaventoso spaventosissimo e d’improvviso il boato di piatti trombe e grancasse nel cervello, ecco gli dei cannibali della morte! Il mio sguardo pietrificato orrendamente s’incontrava con quello di mia madre che nello specchio, di fronte a me, era riflessa.»


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Anne Ora conosco la causa del turbamento che da mesi ti sottrae alla normalità. Abbandonato davanti al televisore cui ho annullato audio e colore, vago nell’ombroso limbo del ricordo, comodamente paralizzato sulla poltrona ancora intrisa delle ultime tue bave di follia. Appena ieri le mie perplessità sull’abito nuziale che tradiva il candore classico per un paglierino pallido; il progetto del nostro viaggio di nozze: da Trapani a Tunisi in nave e poi attraversare l’Algeria sconsigliataci da tutte le agenzie, giungendo in Marocco. La nostra prima alba a Casablanca, ricordi? E quel miagolio sotto la scala antincendio che ci suggerì di non tornare indietro, ma di risalire in Europa per lo Stretto di Gibilterra e quindi la Spagna, il Portogallo, l’iguana a 5.000 lire al chilo, la Francia, le vie di Nizza e di nuovo l’Italia, dal Piemonte, per percorrerla tutta d’un fiato fino a casa. Appena ieri la passione cocente e le gelosie, la caccia ai fantasmi; la prima videocamera, spettatrice connivente del nostro improvvisarci attori e registi; le scenate sul lungomare e la poesia di concepire nostro figlio in una terra lontana dei cui profumi sarebbe rimasto impregnato per sempre. La riconciliazione; il piacere di captare lo stupore di quanti, per caso, si imbattevano nei nostri sguardi al tavolo de L’Hotel des Termes quando, senza respiro perduti, impiegavamo ore per bere due dita di Lanzan’i Betsileo. Appena ieri, tutto ciò, e sono passati diciott’anni e tu, Anne, non sei più la stessa. Per il tuo bene ho lottato e dal tuo male siamo stati sconfitti. Anne, io so cosa ha annientato la tua bellezza, cosa ti ha resa un’estranea al mondo e a me. Dentro una piccola ed umida stanza dall’intonaco


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bruno, un pesante tavolo d’ebano e sedie per quattro. Ad ogni angolo che le pareti formano col soffitto basso, una lampada elettrica da cui sgorga luce ocra appannante, come crema negli occhi. Seduti, quattro eleganti giocatori di poker ed un bicchiere di Jack Daniel’s alla sinistra d’ognuno. Ai piedi del tavolo, la bottiglia vuota. Tre, con le carte in mano, attendono in silenzio la parola del quarto, all’ombra d’una candela che erutta in mezzo alla posta mutando i volti di quelli in visioni di spettri. Allora accosto la porta d’eternit e notando che nessuno dei tre in attesa ha distolto lo sguardo dal quarto, i cui occhi sono fissi sulle proprie carte, mi fermo alle spalle del giocatore seduto immediatamente davanti a me e vedo che in mano ha un tris di dieci, asso e nove di cuori. Mi sposto verso il secondo a sinistra, quello di cui s’attende la parola: dieci, jack, qu e cappa di picche, con l’ultima carta da spizzicare. Immerso nel silenzio più profondo, altri due passi e scorgo l’altro punto, una doppia coppia di assi e nove, mentre l’ultimo sta veramente bene, con tre sette e due jack. Attendo. Dopo due ore nulla è cambiato dell’espressione dei quattro, la cui muta pazienza m’innervosì a tal punto da farmi decidere di non indugiare oltre e andare via. Dopo quel pomeriggio, tornai dai giocatori il giorno dopo e da allora ogni pomeriggio per due mesi, annullando qualsiasi impegno avesse potuto impedirmi di soddisfare la mia curiosità, oramai interamente orientata all’acquisizione di una pur minima mutazione di quello stallo. Ma niente si modificava: il punto in mano, le espressioni, il livello d’apertura di quella quinta carta la cui superficie continuava a concedermi soltanto l’angolo bianco. Ogni cosa era ferma, compresa la quantità di whisky nei bicchieri: uno zero assoluto in cui ogni molecola è impantanata ed una scossa è speranza perduta. Se non t’avessi confessato il mio delirio, adesso non giaceremmo moribondi in celle separate. Io ho causato il


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decadimento vorticoso della ragione e del suo futile sarcofago, portandoti con me nella stanza del poker. Ma quando l’ultima volta mi sentii beffeggiato dalla stasi maledetta, non mi riuscì di reprimere l’istinto e furente aggredii il giocatore col punto incompleto. Ricordi come lo strattonai, fendendo l’immobilità molecolare che ancora governava quel buco nero? E tu, delicata sventura, sorridendo mi accarezzasti dolcemente il viso per calmarmi, e ti chinasti a raccogliere le carte cadutegli di mano. Mi perseguita fin qui il ricordo di te che t’accovacci, l’orlo della tua gonna di lino bianco che sfiora il pavimento catturandone le polveri e la tua espressione innocente mentre, sistemando le carte, le guardi prima di porgerle. Ma ora che il ciclo è compiuto e la nostra miseria di carne s’assorbe e coagula, trovo nel finale anelito il coraggio della sentenza: Anne, noi stiamo svanendo e con noi le cellule amiche, fuochi fatui destinati ad esser sempre ciò che fummo e siamo ed a finire così, nel veleno. Il veleno che interviene opportuno a cancellare le mie dissolutezze e la tua coerenza, le mie colpe così come la tua vita, la mia ultima inutile lotta contro la tua cannibale pazzia, il nostro inevitabile declino comatoso per avere tu visto la quinta carta.


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Sali in macchina a dirmi Io ti amo, Antonio. Io ti amo. Collina per te stasera, insenatura selvaggia, mai esplorata tua tua tua sono. La corsa, l’affanno, l’amore. Non contano gli occhi, i gesti e l’ardore. Le parole, mio, statua, vino. Annota i miei ansiti. Cavalca i miei muscoli, domami l’anima. Prendi la mia vita, tutta quanta, seppur breve, bevila, iniettatela dentro. Dammi le vene. Perdonami se peso, se ho consistenza; ma ascoltami. Piango, se non mi guardi. E rido da sola, quando poi sola penso a te che guardi altrove, alle macchine, ai palazzi, alla vita all’infuori di me. Fuma. Per te sono nata e non so come. Ti amo. Ti amo, Antonio. A nulla rinuncio per appartenerti; niente mi costa perché io non ho scelta. Solo amarti, esser tua soltanto. Fuma, e per te tremo. Fumami, ma non lasciarmi sola: ho paura del buio, degli altri, della mia vita semplice. Non voglio morire senza di te… Chi è al telefono, Antonio? Sergio? «Nenti, ccà semu…» (2)

(2) «Niente, siamo qua…»


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Edificazione di un hysteron proteron su un fazzoletto di flora intestinale. Il pensiero arcuato. Il pensiero che s’inarca, trascendendo la linearità, è il pensar che m’appartiene: il mio pensare naturale, contro la presunzione universale che vorrebbe non contorta l’idea pura. Immagina un corridoio rettilineo diviso in due, nel verso della lunghezza, da una retta passante per il suo centro; all’estremità iniziale del corridoio ipotizza un punto solo, sospeso nello spazio, giacente sulla retta (non consideriamo le combinazioni percentuali di luce ed ombra che, nelle infinite possibilità ambientali, parrebbero attribuire al nostro plastico mentale connotazioni tendenti ora al romanticismo, ora alla lividezza lucifuga, o a quant’altro sia eventualmente riferibile ad ogni gradazione ed angolo di provenienza luminosa). Ora, per attraversare il corridoio, le modalità si sviluppano entro due estremi: il punto si sposterà seguendo la linea retta (estremo teoretico) o progressivamente s’allontanerà dalla direttrice, stabilendo un numero n di contatti con la superficie delle pareti, prima di raggiungere un qualsiasi stadio intermedio del passaggio (estremo pratico). È altresì apprezzabile l’incidenza di altra variabile: la possibilità di fluttuazione del valore spaziotemporale della mia anamnesi, rappresentabile come oscillazione della retta nel senso di un allontanamento dal centro dello spazio considerato. Le barriere rappresentate dalla fredda sussistenza geometrica di pareti, pavimento ed un ipotizzabile soffitto, sono ostacoli meramente virtuali: proiezioni olografi-


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che la cui facilità d’attraversamento è direttamente proporzionale al grado di circonflessione del pensiero. Del pari, in ossequio alla incoerenza che la contraddistingue, l’idea rettilinea sconosce il concetto di retta: solo allontanandosi dall’area di appartenenza all’estremo teoretico (contestualmente alla quale vige il dovere di genuflessione ai segmenti) il pensiero oltrepassa i diaframmi pellucidi ed approda – con graduale acquisizione di coscienza relativa alla nuova posizione – al fremito il cui espandersi retto non è, ma che della retta si serve come sostrato concettuale, di essa ripetendo e rinnovando l’infinità delle distanze percorribili. Le relative positività o negatività degli effetti dei contatti con le pareti medesime (considerazioni risultanti da orientamenti concettuali precostituiti – con obiettività sindacabile – dal pensare comune, fallace in quanto tale), sono particolari irrilevanti al cui pensiero non trattengo il sorriso: in un momento ed in uno spazio, il punto potrebbe consistere in un organo sessuale, la superficie delle pareti in una distesa compatta di carnosi organi sessuali di genere contrario; ancora, il punto d’ovatta e le pareti di barba da tre giorni non rasata. In ogni caso, si tratta di contatti che sottintendono frangenti d’espressione vitale, esperienze che quantitativamente s’accumulano, mentre la funzione del risultato di qualità finale è generata da un amalgama, un calderone fumante in cui interagiscono i momenti di contatto (in tutte le loro direzioni d’effetto) ed i momenti – più o meno protratti nel tempo – di moto rettilineo uniforme. È vero che la ripetitività dei contatti, qualora questa soggiacesse al governo di un’eccessiva cadenza, condurrebbe ad uno stadio degenerativo produttivo di relativa insensibilità al rimbalzo. Così com’è vero il contrario: tutto è dunque vero, quando tale tutto sia inscrittibile in un estremo. Hai mai osservato il disporsi caotico delle verdure sul


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pelo dell’acqua del minestrone? Converrai sul fatto che sia arduo riconoscere una rispondenza della sistemazione – seppur geometrica – dei frammenti vegetali ad uno schema organizzativo ripetibile secondo medesime modalità genetiche. D’altronde, ritengo che la regia della rappresentazione non sia di diritto attribuibile, per intero, al caso: la facoltà di decidere consapevolmente la propria direzione comportamentale in vista dello scopo è presente, se non altro nel frangente in cui storicamente s’innesta la scelta generatrice del caos. Infatti, avrei potuto decidere di friggere una o più triglie anziché cucinare il minestrone (abbattendo quindi la possibilità di esistenza del disordine in analisi, non consentendogli d’iniziare ad essere), ma quale dei due lati d’essa (se una) avrebbe toccato per primo la superficie della padella? E quante altre combinazioni se a riempire la padella ci fosse stato un intero banco di triglie? Poiché la libertà del volere implica la facoltà di preferire una decisione possibile ad altre anch’esse possibili, avrei potuto scegliere a priori quale lato adagiare sul fondo, quanti pesci friggere e tra essi quanti adagiare su un lato e quanti sull’altro, ma neanche in tali ipotesi sarebbe esistita la certezza che le scelte sarebbero state in effetti realizzate – nella loro interezza – da un pensiero risultante da impulso volitivo puro, ossia privo di qualsiasi connotazione d’aggancio casuale. Ora, l’essenza del circolo vizioso in cui il caso e la volontà ambiguamente con leggerezza volteggiano, altro non esprime che l’intimo contenuto dell’interazione tra contatti empirici e linearità della virtù cogitativa. Ma può darsi che l’esperienza, per la sua particolare configurazione in una determinata allocazione spaziale e temporale (ed in virtù della sua non passività) necessiti di un approccio cogitativo che si dispieghi con modalità tendenzialmente lineari: in tale ipotesi, un pensiero eccessivamente circonflesso escluderebbe la possibilità


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del contatto. Quando le cose sono intelligibili per vie traverse, l’idea arcuata diviene la negazione di se stessa: una sorta di antipensiero formalistico che si ostina ad evitare il contatto più naturale e la cui esistenza trasforma le pareti - in condizioni di normalità rappresentanti la curiosità di base - in aree di curiosità esplorativa, gerarchicamente più elevata.


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Stop Vado e torno, parto-arrivo riparto e ritorno. Muovo il passo, m’affretto, correndo m’imbarco atterro e decollo, riprendo. Improvvisamente dietro l’angolo, proprio dietro quell’angolo.



INDICE

Introduzione Lettera alla Redazione - Puff! e l’onomatopea. Storia di un uomo che disparve. - Rovinosa mente - Dialogo tra la mia Mano Destra e la mia Mano Sinistra - Titolo, opera, contenuto - The scent of magnolia - Appuntamento - Buona notte, Caos - Quattro lettere I Lettera a mio padre II Lettera a Sir Joe III Per l’ultima volta un cane, un pollo, il caso e la luna. Lettera ad una scrittrice. IV Alla castellana - Michele della miniera - Altrove III - Costruisci una frase usando il verbo amare e poi fai l’analisi illogica - Grandi manovre (Campus) - Domani, al limite - Ora - Un momento di solitudine - Appunti sul suicidio di un entomologo algerino residente all’estero - Anne - Sali in macchina a dirmi - Edificazione di un hysteron proteron su un fazzoletto di flora intestinale. Il pensiero arcuato. - Stop

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