Progetto PON F-AZIONE- FSE - 2009 – 2471 F – AZIONE 1
MODULO GENITORI LA SCUOLA E IL SUO QUARTIERE
Esperti: DANIELA ARMENTANO
Tutor: ANGELINA STELLA VITTORIA CERMINARA
“…Per me la memoria involontaria, che è soprattutto una memoria dell’intelligenza e degli occhi, non ci dona del passato che facce prive di verità; ma quando un odore, un sapore ritrovati in circostanze diversissime risvegliano in noi, nostro malgrado, il passato, noi sentiamo quanto questo era diverso da come credevamo di ricordarlo….. …..ritrovare di colpo anni, giardini, esseri dimenticati, nel gusto di un sorso di té in cui ho intinto un pezzo di madeleine..”
INTRODUZIONE Fare ricerca sulla memoria di un luogo non significa raccontarne la storia dello sviluppo sociale, politico e culturale, bensì sviluppare il concetto di “contesti memoriali”, con i quali si intendono quei luoghi circoscritti che possiedono tradizioni, usi e costumi oggi messi a rischio dal diffondersi della cultura globalizzante. Il concetto di “memoria”, in tal modo, non coincide con il “far storia”: mentre quest’ ultima rimane ferma e si fissa nei libri e nei documenti, la memoria è in costante mutamento. La memoria elabora e “ricostruisce” creando miti, leggende, racconti a volte anche poco attendibili su immagini del passato, trasformate costantemente, non solo dall’azione del tempo, ma anche dalle interazioni sociali, da ridefinizioni del passato, dall’influenza dei media e dall’azione dell’immaginario collettivo. Maurice Halbwachs, pioniere degli studi sociologici sulla “memoria collettiva”, conia tale definizione per indicare quei ricordi condivisi, trasmessi e anche costruiti dal gruppo o dalla società, e la pone in contrapposizione al concetto di “memoria individuale”; il ricordo è in grandissima parte una ricostruzione del passato operata con l’aiuto di dati presi dal presente e preparata d’altronde da altre ricostruzioni fatte in epoche anteriori. La funzione sociale della memoria risiede proprio nella “coscienza collettiva” dei gruppi umani concreti; i ricordi individuali hanno pertanto bisogno di rientrare nel quadro della società di appartenenza per essere ricostruiti e riconosciuti dagli altri individui. Dallo sviluppo di tale concetto è nata l’esperienza di ricerca antropologica e scrittura autobiografica di alcuni genitori degli alunni dell’Istituto Comprensivo “Don Milani” di Lamezia Terme, che hanno partecipato molto attivamente al progetto scolastico “La scuola e il suo quartiere”(P.O.N 2009-2010). Anche in questo caso si è avuta la necessità di ricostruire un passato comune per ristabilire la propria identità di gruppo. ripercorrendo le vie dell’ antico quartiere di S. Teodoro di Lamezia Terme e Platania. Si è rivissuta la storia del quartiere e del paese attraverso un percorso antropologico e sociale, usufruendo della memoria trasmessa oralmente e studiando testi, anche in vernacolo, sul “ tempo perduto”. Ma l’identità di chi ricorda , pur non essendo mai singolare dal punto di vista sociale, può altresì esigere una soggettività pedagogica, esprimendo la memoria personale non solo come specchio delle trasformazioni di una o più entità territoriali, ma mettendo i singoli nella condizione di scoprire anche i valori per sé della memoria. Nel nostro caso, è stata proprio la scuola di Lamezia Terme a divenire, nel corso degli anni, luogo di plurime individualità e riflesso della stessa pluralità esterna.
Aver promosso progetti sulla memoria di sÊ e su quella del quartiere che la ospita da sempre, ha dato alla fiorente scuola, già luogo eccellente d’ istruzione, un valore aggiunto fortemente pedagogico adulto. Daniela Armentano
Franz Raccontare storie di vita legate a fiabe o leggende appartenenti a luoghi e territori in cui siamo cresciuti o vissuti, è alquanto complicato e difficile, perché significa scavare nella memoria e nei ricordi più remoti alla ricerca di immagini e momenti
quasi
completamente rimossi o poco utilizzati. Ed è tanto più difficile quanto più i nostri ricordi non sono legati ad altre persone con cui siamo stati in contatto, con cui abbiamo fatto esperienze e abbiamo vissuto strettamente. In realtà ciascuno di noi porta con sé dei sentimenti e delle idee che hanno la propria origine all’interno di altri gruppi perché è con altre persone che ci intratteniamo, che abbiamo rapporti, che viviamo una dimensione di
convivenze e di comunità. I ricordi che
ci vengono alla mente più
facilmente, sono quelli che ci è possibile evocare a nostro piacimento, perché fanno parte del dominio comune, nel senso che ciò che ci è familiare o facilmente accessibile lo è altrettanto per gli altri. Al contrario per quelli che non obbediscono ai nostri richiami, che non sono spontanei o consuetudinari, dobbiamo fare uno sforzo incredibile per andarli a cercare nel passato, proprio perché non appartengono anche agli altri ma sono di nostro esclusivo possesso. Le storie che abbiamo letto di certo hanno suscitato in me ricordi e memorie vivide di un passato non troppo lontano grazie anche alla presenza nel nostro gruppo di genitori e di persone con cui ho vissuto esperienze simili di crescita, di scuola, di giochi, di associazionismo, di strada ecc… La favola della chioccia e dei suoi pulcini d’oro evoca tantissime sensazioni legate soprattutto al castello. Gli antichi ruderi normanni incutevano paura e apprensione per i pericoli che ci venivano continuamente elencati dai genitori. Allo stesso tempo era un luogo ricco di fascino, di avventura e di fantasia che ci derivava continuamente dai films e dai primi telefilms del tipo “La freccia nera”, “Zorro”, oppure dai fumetti che leggevamo “Il grande Bleck”, “Il comandante Mark” ecc.. Il nostro pensiero era quello di emulare le gesta dei nostri eroi e quindi, il castello rappresentava il luogo adatto per i nostri duelli, specialmente con le spade di legno. Mio zio portava dei listelli dalla segheria, i chiodini piccolissimi e costruivamo delle sciabole bellissime le migliori della zona. Il massimo era combattere fra le rocce, nascondersi dietro le sterpaglie o i grandi cespugli di mirto (murtilla) e attendere in silenzio l’arrivo del “nemico”. L’odore del mirto era fortissimo, ci rimaneva addosso per molto tempo, si impregnavano i capelli, la pelle e soprattutto le unghie, di quel profumo inconfondibile tipico delle corone che si usano durante i funerali o di quei mazzetti di foglie che
servivano per adornare il presepe. Mi ricordo il presepe che si faceva a casa della donna, nell’angolo fra le due pareti del ballatoio della scala, che dava sulla cucina. Per nascondere le pareti e creare lo sfondo al presepe si sistemavano dei rami di mirto quasi a formare un bosco dietro la grotta e dietro i pastori che scendevano dalle montagne fatte con la carta dei sacchetti di cemento. La storia dei pulcini d’oro, generava in noi una sorta di tensione della ricerca ossessiva in ogni angolo o anfratto dei ruderi del castello. Guardavamo dappertutto se c’era qualche moneta, qualche oggetto prezioso, qualche spada. Si diceva infatti che qualcuno aveva trovato armi da fuoco, spade, lance; ma chissà se era vero!!! E comunque, quando ci vedevano scendere dal castello c’era sempre qualcuno che chiedeva se per caso avessimo trovato qualcosa, una “trovatura”. Ci chiedevano come era l’interno del castello, se c’erano stanze, sotterranei ecc… Gli anziani ci raccontavano che all’interno c’era una spiazzo immenso dove loro da bambini andavano a giocare a calcio. Io immaginavo ci fosse uno stadio intero. In realtà il campo si rivelò una enorme delusione. Era in effetti un piccolo larghetto dove a mala pena si poteva giocare a calcetto (quattro e quattro al massimo) e dove era impossibile giocare per via degli strapiombi ai limiti delle mura di contenimento del campetto stesso. Del castello mi ricordo i momenti in cui ci “flagellavamo” dentro i rovi o venivamo accidentalmente a contatto con le ortiche. I graffi, le escoriazioni, le ferite (mai suturate se non in casi gravissimi) e gli eritemi erano all’ordine del giorno. Penso in questo momento che i miei genitori o i genitori dei miei compagni avevano un grande coraggio o una grande incoscienza a lasciarci giocare in quei luoghi, a quell’età. Non credo farei la stessa cosa con i miei figli, non avrei la stessa spensieratezza o lo stesso coraggio!!!!
Di notte però il castello faceva
veramente paura sia per il buio, sia per tutto quello che raccontavano i nonni, i genitori e qualche anziano del rione sull’esistenza di streghe, di fantasmi e di spiriti e di storie legate anche alla chioccia e al tesoro che custodiva proprio nel castello. Le stesse paure le vivevamo quando andavamo a giocare nei tre “fiumi” Serra, Barisco e Niola che poi prendevano i nomi a seconda del tratto particolare che si attraversava. Era sempre un luogo pieno di pericoli a detta dei genitori, ma pur sempre un luogo da esplorare e poi chi andava al fiume era uno tosto, uno coraggioso. I giochi erano principalmente nell’acqua; si andava a caccia di granchi e di ranocchi e verso gli ultimi anni anche di trote. Il fiume si era popolato accidentalmente di trote perché a qualcuno gli si era rotta
una vasca di allevamento (cibbia) e i pesci più piccoli erano finiti nel torrente attraverso dei piccoli rivoli. Nel periodo di Natale raccoglievamo il muschio per il presepe e negli stessi posti si trovavano anche i porcini e i chiodini. C’era anche un posto dove andavamo a prendere le canne di bambù (canna marina) che utilizzavamo per fare le canne da pesca. Il tratto dove si diceva che c’erano degli spiriti, delle streghe o a volte anche delle fate era quello chiamato jummi di priàviti vicino alla chiesa di S. Lucia. Era per noi di S. Teodoro un posto molto fuori zona; guai se l’avesse saputo mio padre. C’era una sorgente in mezzo a dei massi giganti e uno di questo era a forma di scivolo. Il divertimento era quello di lasciarsi
andare
lungo
questa
pietra e a fine serata avere, ovviamente
tutti
i
pantaloni
consumati. Rileggendo la fiaba delle fate, attraverso i luoghi in cui viene descritta, mi ricorda tanti posti
molto
familiari
e
in
particolare contrada Cassino, il luogo in cui il Principe d’Aquino rinchiuse la moglie. Cassino era il luogo
delle
tante
scorribande
fuoriporta, molto lontane che ovviamente facevamo di nascosto per paura delle ritorsioni dei nostri genitori. In effetti per arrivare a Cassino si impiegava quasi un’ora, percorrendo sentieri impervi e attraversando boschetti fittissimi, erba molto alta, in cui il sentiero spesso si perdeva perché ormai non era più battuto da alcuno. Si giungeva in una piccola valle attraversata da un torrente sul quale gli scouts degli anni ’70 avevano costruito un piccolo ponte di legno: quella zona da allora in poi venne chiamata “u ponticiàllu” (il ponticello). Al di sopra della valle procedendo verso est c’era un’antica casa ormai semi abbandonata che apparteneva al signorotto della zona in tempi antichi, e poi passata al balilla del rione durante il primo dopoguerra e poi ancora agli odierni eredi. Cassino era il posto dove andavamo a prendere le pigne, perché proprio davanti alla casa c’era un pino grandissimo alto almeno 15 metri. Era un’impresa salire fino a dove c’erano le pigne, era pericolosissimo. C’era anche una palma grandissima ed era il nostro riferimento per la domenica delle palme. Prendevamo i “curini” i cuori dei rami, poiché lì c’erano le palme più tenere, quelle che si potevano modellare e intrecciare e adattare per costruire crocette, panierini, ecc.. La storia di Ingrid e Gerlando mi suona poco familiare, appare molto lontana dai nostri luoghi e dalle nostre abitudini e tradizioni, anche se in qualche modo è sempre legata al castello. Mi viene in mente comunque che
solo i maschi andavamo dentro le mura del castello e che eventualmente se ci fosse stata la presenza di qualche donna o ragazza sarebbe stata considerata un
po’
equivoca, per cui una storia in cui vede coinvolte donne nel castello non mi sembra molto verosimile.
I racconti popolari Il racconto di Mastru Vriulillu ridesta tantissimi ricordi dell’infanzia legati soprattutto alla figura di Mastru Giuanni u scarparu, (ancora vivente ma non più attivo) il calzolaio di riferimento della zona intorno alla chiesa di S. Teodoro, di cui era anche sagrestano. A volte passavamo interi pomeriggi nella sua umilissima bottega ad ascoltare le sue storielle e suoi lamenti sul caro vita, sul cuoio che era aumentato e sul lavoro che era venuto meno. Lo stavamo a guardare e ad ascoltare in silenzio per ore; ma in realtà il nostro scopo era quello di tenercelo buono perché, ogni tanto, ci facevamo cucire il pallone di cuoio. Seduto su un banchetto di lavoro di legno consumato, in un angolo del suo magazzino insieme alle galline che di giorno vagavano per le strade, un gatto nero e un merlo in gabbia accudito ossessivamente dalla moglie, riparava scarponi, stivali, scarpe da uomo e da donna, sandali, zoccoli, gambali, ecc. Gli arnesi dei quali si serviva erano lesine per praticare fori, trincetti per tagliare il cuoio, tenaglie, martelli, forme di legno, setole, spaghi, pece, cera, colla. Per ridurre i costi, ricavava da sé i materiali di lavoro: dal lino otteneva ‘u spacu (lo spago); dalle setole del maiale i ‘nziti, che, uniti ad un capo dello spago, gli consentivano di passarlo più agevolmente nei fori fatti con la lesina nel cuoio o nella pelle. Sotto il banchetto c’ra un recipiente di argilla smaltato all'interno, con dell’acqua dove si immergevano, per ammorbidirli, i pezzi di cuoio che servivano per risuolare le scarpe. Quando andavamo a ritirare le scarpe riaggiustate avevano un aspetto diverso per via della rilucidatura e un odore intenso di “cromatina” il lucido da scarpe passato con uno spazzolone di legno consumato quasi senza più setole. Ogni tanto lo seguivamo in chiesa perché ci faceva suonare le campane e poi di nascosto dal parroco ci regalava i ritagli di ostia. Ricordo ancora il sapore di quelle ostie mangiate avidamente
e velocemente per non farci vedere dal parroco, con la lingua e la bocca,
che si
asciugavano fino quasi a soffocare. Ancora oggi ogni tanto usiamo il termine Mastru Vriulìllo per indicare una persona di poco conto o un individuo che si sente più intelligente degli altri. Le storie e gli avvenimenti legati a personaggi cosiddetti “diritti” o “malandrini”, che ricordo direttamente, sono tanti e sicuramente differenti di quelli narrati da mio nonno o dagli anziani del quartiere. Senza scendere nei particolari la differenza che si coglieva al volo rispetto ai fatti e ai personaggi più attuali era la questione dell’onore e del rispetto. L’onore, dunque: qualcosa di forte, molto intenso, sentito come un bene da tutelare vita natural durante. C’era l’onore della famiglia, l’onore della propria madre, sorella, donna o moglie fosse, da vendicare se veniva violato e la reputazione da difendere. I cosiddetti “diritti” erano delle persone a modo, sempre educate e rispettose negli confronti degli altri, e rispettavano tutti indistintamente. Se poi c’era qualche comparaggio (San Giuànni) il legame diventava quasi di sangue, nel senso che il rispetto era dovuto per grazia ricevuta, non solo per i diretti interessati, ma per tutti i parenti e affini. Ci raccontavano di questi personaggi particolari col coltello o la pistola sempre in tasca, legati a questa o a quella fibbia , una sorta di associazione di auto-difesa dei ceti popolari ed emarginati, in una realtà tipicamente agraria e rurale. La struttura della fibbia era strettamente articolata in piccole porzioni di territorio e se più fibbie si mettevano insieme formavano una cosca. Uno sgarro veniva pagato a caro prezzo, però nei primi anni del secolo scorso, come ci raccontavano gli anziani, non si andava più in là di una sonora batosta o al massimo di uno sfregio permanente al volto. “Ti tagghjiu a fhacci” era un’espressione molto comune anche quando eravamo bambini. Talvolta ricorrevano poi agli incendi, ed anche, ma più raramente, alla fisica eliminazione di soggetti poco graditi o scomodi, quando questi ultimi rappresentavano un ostacolo alle svariate iniziative dell’organizzazione. Se poi qualcuno aveva avuto la “sfortuna” di fare un po’ di galera allora diventava un pezzo grosso, uno che meritava rispetto e da cui bisognava guardarsi. Nessun disprezzo, ma stima, suggerita dalla paura. L’episodio della morte della vecchia suocera, in qualche modo è molto simile alle vicende legate ai funerali a cui partecipiamo adesso, anche se oggi non si strilla o non si cantano più quelle litanie che ricordano la vita del defunto. Durante la “veglia” in casa del defunto comunque gli aspetti familiari, le liti e i ricordi rievocati sono perfettamente identici alla storia “Disgrazia mia”. Specialmente a tarda sera, quando gli estranei alla
famiglia andavano via, si raccontava di tutto e di più. Subentrava quasi una sorta di situazione di liberazione, di sfogo, dove ognuno raccontava anche le storie più intime. Sembra paradossale ma c’era un clima quasi gioioso soprattutto se il defunto era abbastanza anziano e quindi si era più rassegnati per la sua dipartita. Una scena che ricordo vividamente e che incuteva tanta paura era quando passava il corteo funebre e le persone in casa, dopo aver fatto il segno della croce, sbirciavano dalle finestre e dai balconi da dietro gli scuri e dicevano a noi bambini: <<non guardate, non fatevi vedere, state zitti!!!>>. Non capivamo ma eravamo terrorizzati, in quell’atmosfera di silenzio rotto soltanto dalle grida dei parenti del defunto. Quando il corteo era abbastanza distante allora si riaprivano le finestre e i balconi e si tornava alla normalità. La vicenda di Bruno e Marianna è una di quelle storie molto comuni nel rione poiché sono stati moltissimi gli emigranti di S.Teodoro sparsi in tutto il mondo: Argentina, Brasile, Venezuela, Australia, Canada, Stati Uniti, Libia, Francia, Germania, Svizzera ecc.. Ogni abitante del quartiere aveva parenti in qualche parte del mondo,
ognuno
aveva
figli,
nipoti,
mariti
lontanissimi che vedevano soltanto una volta all’anno. Ovviamente erano tanti i pettegolezzi che scaturivano soprattutto nei confronti di quelle donne rimaste sole (a volte anche per anni) e anche per quegli uomini che probabilmente al di là del mare o delle Alpi avevano un’altra vita e anche un'altra famiglia. Mio padre è stato emigrato per parecchi anni all’estero e nel nord Italia e la mia famiglia è vissuta per qualche anno in Germania poi mia mamma è voluta tornare in patria quando ancora noi figli eravamo piccoli. Tornava a casa due o tre volte l’anno e ogni volta era un evento straordinario. Aspettavamo tutti dalla nonna: figli, parenti e vicini. Qualcuno dai balconi antistanti ogni tanto gridava :<<E’ arrivatu mastru Pasquali? U trenu è in orariu?>>. Quando poi arrivava sembrava uno sconosciuto, io ero un po’ timoroso, quasi quasi non ricordavo il suo aspetto; solo il giorno dopo realizzavo che mio padre era tornato e stava finalmente con noi. La fase dove tutti stavano attenti era quella dell’apertura delle valigie. Valigie grandissime di simil-cartone, che ancora custodiamo in un vecchio magazzino e che contenevano di tutto, dai vestiti al cioccolato, dai regali per i parenti ai giocattoli per noi figli. Era forte l’odore che si sprigionava appena venivano aperte, un odore non familiare,
poco usuale; l’odore del caffè era quello predominante. Poi subentrava la fase dei regali, chi più chi meno, tutti tra i parenti ricevevano qualche dono. Era comunque la mamma che decideva le quantità e a chi dovevano andare i preziosi doni: pacchetti di caffè, cioccolata, portamonete, alimenti in scatola, caramelle particolari, medicine per il nonno. Erano delle comuni aspirine, ma per il fatto che venissero dall’estero erano migliori di quelle nostre e questa cosa si ripeteva sempre ad ogni ritorno; anzi dato che mia nonna sapeva scrivere, la raccomandazione di portare le medicine era scritta su ogni lettera che veniva inviata a mio padre. Un anno mio padre mi portò una giacca imbottita nera con la fodera rossa, era un pezzo raro per quei tempi; nessuno aveva un giubbotto come il mio. Mia mamma lo fece indossare negli anni ai miei fratelli e l’ha conservato fino a oggi. Io l’ho fatto indossare a mio figlio qualche anno fà!!. Una vicenda particolare a proposito dell’emigrazione è capitata ad una vecchietta mia vicina di casa che quasi novantenne si è vista recapitare una salatissima cartella di pagamento esattoriale (in milioni di lire) per presunta mancata dichiarazione dei redditi. In pratica le si imputava che avendo lei percepito una pensione dall’estero non l’aveva mai dichiarata. Le cose non stavano così. All’età di vent’anni lei si era sposata e il marito dopo pochi giorni era andato in America per cercare lavoro. Come spesso capita non tornò mai più e all’età di pensione morì. Per qualche motivo mai accertato risultava che sua moglie in Italia per forza di cose stesse percependo la pensione americana ma in realtà non aveva mia visto un solo dollaro e aveva solo la misera pensione italiana di vecchiaia. Abbiamo comunque chiarito l’equivoco con una serie di ricorsi poiché nessuno credeva che la moglie non avesse prodotto una benché minima domanda di assegnazione di pensione. In conclusione lei poteva chiedere le somme non percepite da circa trent’anni, ma non le ha mai volute perché sosteneva che: << m’abbasta chillu ca mi fha mangiari u Signuri>>. (Mi basta quel poco che Dio mi fa mangiare.!!!). La signora è vissuta serenamente, fino all’età di cento anni. Passando alle storie narrate dai nonni, dagli anziani o da qualche personaggio capace raccontare con naturale sfrontatezza, frottole e panzane di qualsiasi genere i ricordi riemergono molto facilmente e vive sono le immagini dei racconti di alcuni personaggi simbolo del quartiere. Uno era chiamato “u zzu ‘Ntoni”, che come il protagonista del libro che abbiamo commentato, quando si cimentava nelle storie di guerra era una specie di eroe, un Rambo dei nostri tempi. Diceva di essere stato prigioniero prima in Africa durante le campagne italiane di
colonizzazione e poi in Russia alla fine della seconda guerra mondiale. Le sue vittime erano centinaia, ammazzate con la baionetta, con il fucile, con il coltello e qualche volta anche con il cannone. Numerosissime donne erano state vittime invece del suo fascino e del suo fisico in quanto, raccontava che lui da giovane non era come lo vedevamo adesso, ma tutte gli correvano dietro. Un altro personaggio, di tempi meno lontani, ci raccontava di imprese altrettanto coraggiose ma ancora più fantastiche. Lotte sott’acqua con squali (nel nostro mare!), cattura di cinghiali e selvaggina di tutte le specie (nei nostri boschi!), raccolta di quintali e quintali di funghi che crescevano a vista d’occhio mentre lui passava. Addirittura un giorno mentre si riposava sdraiato sull’erba, ad un certo punto si sentì sollevare, come se stesse lievitando; erano decine e decine di funghi, sotto la sua schiena, che stavano venendo su dalla terra!!!
Sono questi i ricordi legati
all’infanzia, ma ancora oggi, questa persona non si smentisce e continua spudoratamente e simpaticamente a raccontare fantasticherie, sempre in modo sincero e mai con malvagità o cattiveria. Ricordare e raccontare significa per me trovare, dare e trasmettere il significato delle cose, creare una dimensione di memoria più allargata, più sociale e
non puramente individuale; il momento conseguente del narrare nasce
certamente dalle esperienze personali, ma assume una valenza tale, che va al di là dell’individuo e del singolo, che diventa inevitabilmente, la memoria di un intero quadro sociale, una memoria collettiva che rende le storie narrate indelebili. La dimensione del ricordare, dunque, diventa il modo principale per stabilire le connessioni e i legami con gli altri.
Franz
Alessia Percorrendo le strette viuzze del quartiere di San Teodoro, sento le grida gioiose dei bambini, che giocano per strada, gli odori dei cibi che preparano le massaie, i fiori che adornano alcune finestre, si vedono sui tetti di alcune vecchie case i colombi con i loro nidi. Sedute sull’uscio di casa alcune anziane parlano tra loro, lavorando all’uncinetto, o ricamando qualcosa, il loro ricordo va ai tempi passati, bei tempi, per loro faticosi si, ma la vita era più felice e semplice, ma qualche volta in mezzo ai loro discorsi ci scappa qualche pettegolezzo su qualche vicina. Salendo verso la parte superiore del quartiere San Teodoro, si vedono i resti di un antico castello, risalente al periodo NormannoSvevo, che si erge su di una rupe e che con la sua presenza vorrebbe raccontare tante cose, le storie belle o brutte della gente di questo rione, le varie guerre, gli alluvioni che vi sono stati nei secoli passati, ma non può farlo e sta li ad osservare. A questo castello costruito intorno al 1100, anche se alcuni studiosi sostengono che fu costruito ancora prima di questo periodo, sono legate alcune leggende popolari che sono state tramandate nei secoli e narrate ai bambini, dai nonni o da persone anziane. Da piccola anche a me le raccontavano, le ascoltavo in silenzio. Una di questa leggende, precisamente “ La tana delle fate” ricorda quella della Sirenetta di Andersen. Un’altra fiaba è quella della chioccia dai pulcini d’oro, secondo questa leggenda dentro lo spiazzale del castello vi era una chioccia dai pulcini d’oro, una storia secondo me irreale frutto di fantasie popolari e superstizioni. Anche se da bambina quando me la raccontavano sognavo ad occhi aperti di riuscire ad arrivare in cima al castello, superare le prove difficili e impossibili e prendere questi pulcini, ma ripensandoci ora, sicuramente le prove che bisognava superare erano le difficoltà che la vita ogni giorno ci pone davanti. La chiesa più antica del rione San Teodoro è la chiesa delle “cucchiarelle”, secondo una leggenda fu fatta costruire da una figli di Federico II, che durante la sua permanenza nel nostro castello le apparve in sogno la Madonna delle Grazie e le chiese di far costruire una chiesa sul colle di fronte alla rocca. All’inizio questa chiesa fu dedicata alla Madonna delle Grazie, ora e chiamata “Vetrana”, perché è la più antica del rione. Crollata durante il terremoto del 1600 venne ricostruita. Molte cose antiche furono distrutte, altre rubate. Durante il periodo di Pasqua vi è la tradizione di andare in chiesa a chiedere le indulgenze concesse dal Papa Callisto II°, davanti alla porta veniva esposta una bolla
attaccata ad alcuni pezzi di latta a forma di “cucchiare” , il popolo, non sapendo il significato di bolla e pergamena cominciò a chiamarla “ Cucchiarelle”. La gente all’entrata e all’uscita della chiesa le bacia e le batte con forza. Nel 1800 questa chiesa fu adibita a carcere dai francesi. Venne affidata poi ad un “romita” cioè un custode. Si racconta che l’ultimo custode di nome Angelo, ma soprannominato “Pirivissi” era un uomo buono e semplice, con due gobbe una sulla spalla e l’altra sul petto. Quando passava per il rione San Teodoro i ragazzi per scaramanzia gli toccavano la gobba e lui alzava il bastone per allontanarli, inoltre aveva molti gatti. Anche la chiesa di San Teodoro ha origini antiche e venne costruita intorno al 1300. Si racconta che nel 1600 un tale di nome Fiorenzo, fuggito dal carcere del castello si rifugiò nella chiesa, per un po’ di tempo la chiesa rimase chiusa poi di nuovo benedetta e riaperta. Al rione San Teodoro sono legati alcuni racconti popolari, racconti di gente comune trasmessi oralmente, alcune sono storia divertenti e altre con una nota di umorismo . La storia più mi è rimasta impressa è quella di zio Pasquale , un uomo vissuto nel quartiere , che più le ascoltavano e più ne volevano raccontate delle altre . Le tradizioni popolari nel mio rione , col passare degli anni , si sono un po’ perse , ne sono rimaste soltanto alcune , la festa della “ Santa Croce “ la “ Strina “ , e la corajisima … è scomparso anche il vestito tradizionale della “ Pacchiana “ , che in qualche modo ci ricorda i vestiti che usavano le donne aristocratiche nel 700 , e ora usato soltanto durante i balli folkoristici . La festa della “ Santa Croce “ , è una festa che ancora oggi , si svolge nel rione , un po’ diversa da un tempo , perché vi era più partecipazione e collaborazione tra i bambini e i grandi . Questa festa viene fatta nei primi giorni del mese di Maggio , e i preparativi iniziano una settimana prima , si preparano i festoni colorati , e in ogni via si costruisce una croce , cercando di farla più bella delle altre , data che è una gare , a volte qualcuno
cerca
di
danneggiare
quelle degli altri , e quindi vengono guardate a vista , in modo che nessuno si avvicina ad esse . I bambini , di solito vanno in giro per il rione , a cercare qualche soldo , per comprare ciò che serve per i giochi , e procurarsi i fasci di frasche . L’ultimo giorno si porta le croci in professioni al cauto “ E viva la Croce “ . La festa finisce molto tardi con la grande falò : canti e balli. Un’altra tradizione e quella della “ Strina “ che viene fatta casa per casa durante le feste Natalizie , cioè da Capodanno all’Epifania , andando da
parenti e amici, ad augurare con questi canti buon anno. La strina è accompagnata dal suono dell’organetto e dalla chitarra, a volte capitava che qualcuno non apriva la porta per farli entrare loro cominciavano a dire cattive parole e ad imprecare. Nei tempi passati molta gente del rione San Teodoro si rivolgeva ad alcune anziane chiamate “sfascinatrice” che con alcune riti magici, secondo loro, riuscivano a togliere il malocchio, la verminazione e persino il mal di pancia. Le formule magiche venivano trasmesse oralmente e questi riti dovevano essere fatti di sera. Personalmente non credo a queste cose, frutto dell’ignoranza della gente e della suggestione. Ricordo però che un giorno, potevo avere all’incirca sei anni, andammo insieme a mia mamma e a mio fratello, nato da poco tempo,a trovare una mia zia che abitava a Rione S. Lucia. La sera, prima di andarcene, diede a mia madre un piccolo sacchettino dicendole che era contro il malocchio e di metterlo sotto il cuscino della culletta di mio fratello. Dato che da piccola ero molto curiosa, di nascosto, lo presi e lo aprii, rimasi delusa, perché all’interno non vi era altro che una medaglia, un pezzettino di sale grosso e un nastrino rosso. Oltre alle tradizioni popolari vi sono anche i canti, che hanno come tema principale l’amore, la gelosia, l’onore. In questi canti , si parla della donna e della sua bellezza. Di questi canti i più popolari del rione sono : “ ‘A lincella”, “Buonasera Antoniuzza”, “ ‘U ‘zzu Monachiallu”. “A Lincella”, parla di una
ragazza,
che
era
andata
a
prendere l’acqua alla fontana e un giovane
del
luogo,
vedendola,
gli
chiede un po’ d’acqua, lei gli dice di no, perché gli si poteva rompere la lincella, e lui le disse che se si sarebbe rotta gliela
avrebbe
pagata.
“Bonasera
Antoniuzza”, è una dichiarazione d’amore di un giovane del Timpone, alla sua innamorata, anche le innamorata di lui la ragazza gli suggerisce, che se la vuole vedere deve mandare un ambasciatore a parlare con i suoi genitori , dato che una volta per potersi vedere bisognava avere il consenso dei genitori. “U ‘zzu monachiallu”, parla dell’amore di due giovani. Un tempo non era facile potersi frequentare, questo giovane escogita il modo per potersi incontrare con la sua amata travestendosi da monaco, entra in casa di lei e con la scusa di confessarla i due si possono vedere. Questi canti vengono cantati e ballati dai gruppi folkloristici, riuscendo così a mantenere vivo nel cuore delle gente, il ricordo, delle vecchie tradizioni, non soltanto qui da noi ma anche all’estero.
Alessia
Azzurra Sono seduta e sto ascoltando queste leggende di moltissimi anni fa. Sono storie che risento per la prime volta , e su un foglio di carta scrivo le mie emozioni. Mi sono immaginata che in una notte buia, mentre la gente dorme, nel cielo azzurro una stella si avvicina e illumina una neonata abbandonata, che privata degli affetti più cari sorride. Sono delle favole molto belle che mi coinvolgono e mi lasciano una strana sensazione. Ascoltando l’altra leggenda mi sono messa a pensare guardare lontano nel tempo e immaginare di vedere una chioccia con dodici pulcini d’oro piena di brillanti. Io voglio raccontare una delle storie che ricordo di quando ero bambina. In una casetta piccola e vecchia abitava una vecchietta di nome Nicoletta. Se chiudo gli occhi sento l’odore che c’era in quella casetta e la ricordo pure come era sistemata. Io, bambina, ero seduta su uno scalino e lei mi raccontava che in un magazzino teneva una serpe; io sbalordita chiedevo: “Non hai paura?” Lei mi diceva che era la sua fortuna; ma la serpe non doveva uscire fuori perché altrimenti avrebbe perso la fortuna. Io chiedevo: Cosa mangia? Lei rispondeva che ogni giorno le faceva un uovo fritto. I suoi nipotini raccontavano che la serpe c’era davvero infatti quando lei è morta dicevano che in ogni angolo della casa trovavano soldi. Io bambina ascoltavo con piacere e con tanta gioia tornavo a giocare. Oggi abbiamo letto queste storie dei tempi passati dove si parla del Rione San Teodoro e di storie vissute. Io cresciuta in un altro paese, situato su una collina, dove una volta c’erano casette piccole, e grosse famiglie. Il mio ricordo è di quando ero bambina e giocavamo per la strada. Ricordo che c’era una vecchietta e io sedevo per ascoltare i suoi racconti: era una ricamatrice da giovane lei era rimasta signorina perché era stata fidanzata e il ragazzo era partito per l’America in cerca di fortuna. Lei ha passato la sua giovinezza ad aspettarlo ma lui non è più tornato perché si era fatto una famiglia in America. Lei lo raccontava con tanta tristezza ed io vederla così mi dispiaceva moltissimo perché è era rimasta sola. Diceva ho sperato, ma la speranza è morta. Un altro ricordo è quando d’inverno pioveva e l’acqua sbatteva sui vetri fortemente, c’era vento e nebbia, ed io seduta su un divano ascoltavo le storie di una vicina di casa, vicino al caminetto con il fuoco che bruciava la legna,e si vedeva la fiamma rossa; ogni tanto si sentiva la puzza di fumo. Lei mi raccontava che abitava insieme a sua suocera, ed andava a lavorare nei campi, e la suocera badava i a bambini
e diceva che erano tempi tristi e pieni di sacrifici e non si poteva nemmeno lamentare. Raccontava che una volta stavano mangiando fagiola e sua suocera metteva l’olio nel piatto e quando arrivata al suo piatto disse che l’olio era finito e lei è dovuta stare zitta. Quanto ne ha dovuto passare; ma quando è morta la suocera diceva alla gente. Poverina è morta mia suocera, ma nel suo cuore pensava che doveva morire prima. Altri ricordi belli erano di quando insieme ad altri bambini giocavamo fuori, specie di sera; quando giocavamo a nascondino e ricordo che c’era un signore di nome Peppino di una famiglia benestante. Lui voleva vivere a modo suo in una casa grandissima tutta sporca, andava sempre in giro con una moto, non parlava bene. E noi bambini avevamo paura, ogni tanto lo vedevo sbucare da quella stradina ed io mi mettevo a correre a gridavo, mi tremavano le gambe e il cuore mi batteva fortemente come se mi scoppiasse. Un altro racconto molto triste che mi è rimasto impresso è di quando mia zia mi raccontava che quando è morta sua figlia piccolina lei piangeva notte e giorno, era disperata. Una notte si sognò questa bambina triste e sola e li le chiese perché era sola. La bambina rispose perché tu piangi e io non posso andare insieme agli altri bambini, non piangere così io posso stare con tutti i bambini! Sono storie che ti fanno sentire nel cuore tanta amarezza, ma spero che un bambino con un sorriso potrà entrate nel regno del paradiso. Ho ascoltato tante storie del rione San Teodoro che negli anni passati c’erano queste tradizioni. Ma parecchie tradizioni non ci sono più , via dei tempi più moderni. Alcune sono rimaste: come esempio: la corajsima, a strina , e la festa della Santa Croce. Di queste storie che scrivo sono le mie emozioni e racconto quello che provo . Io scrivo con serenità le cose che ho vissuto ; quando ero piccola che si facevano , che ora non si fanno . Ogni sera in una casa diversa si recitava il Rosario con le nostre famiglie abituate nella pace e nell’amore. Il Rosario è una preghiera Cristiana. Noi bambini facevamo l’altarino alla Madonna, si pregava tutto il mese dedicato proprio alla Madonna . Erano momenti belli ancora oggi li ricordo con gioia. Un’altra festa molto bella è l’Avvento e il Natale festa molto significativa perché ci ricorda la nascita del Bambinello. Io ricordo che notte di Capodanno si festeggiava in casa dopo la mezzanotte alcune persone andavano in case diverse per cantare la strina, invece molti giovani amano andare a divertirsi. Altri
emozioni che ricordo è la Quaresima di Pasqua che rappresenta questo periodo molto triste e quello via Crucis che nella tradizione Cristiana e rivolto attraversa la morte e la Resurrezione di Cristo. Il venerdì Santo richiama migliaia di persone di tutte la Provincia, che coinvolge giovani e adulti. L’immagine della Madonna Addolorata e le statue della passione di San Giovanni, e la croce, percorrendo le vie del paese partendo dalla chiesa del Carmine e si conclude al Calvario dove avverrà la Crocefissione, dopo la Vergine riceve il Cristo morto,
nella
bara
tutta
illuminata
e
avviene
l’accompagnamento della banda musicale che esegue della marce funebri e poi si girano i sepolcri fino a mezzanotte. Il giorno di Pasqua si svolge la tradizione che rappresenta la “Comprunti“. Le statue di San Giovanni, della Maddalena, della Addolorata e del Cristo Risorto vengono sistemati in due punti diversi del paese e portate a spalle dai fedeli, fanno rivivere l’incontro con la Madonna e il figlio risorto. San Giovanni si reca dalla Madonna per annunciare il miracolo della Resurrezione. Lei non crede e il Santo si allontana . La scena si ripete tre volte e alla fine la Madonna decide di seguire San Giovanni e la Maddalena per accertarsi di persone che il figlio è vivo. Nel momento che il Cristo incontra la madre alla Madonna viene tirata via il velo nero e appare l’azzurro. Suonano le campane in festa. Serate di estate piene di ricordi belli e molto gioiosi. Il paese pieno di turisti, di emigrati. L’amministrazione comunale e la proloco organizzano sia le sagre, sia musiche, teatri e tantissime altre cose. Per tutto il mese e gli ultimi tre giorni di agosto per chiudere l’estate si fanno i giochi rionali al centro del paese che coinvolge uomini, donne e bambini. Il centro storico e suddiviso in quattro Rioni: Santa Barbara, San Teodoro, San Francesco e il Carmine, si fronteggiano in gare (caccia al tesoro, corsa dei sacchi, tiro alla fune, gara della pesca, gioco dell’ uovo, delle pignate, dei mattoni, di portare in testa una cesta) si festeggia cantando e suonando, il paese e in festa. Adesso parlo di devozione popolare e l’offerta di un ex voto confezionato dai fedeli i cosiddetti “popotuli” che sarebbero dolci che si richiedono alle persone che hanno ricevuto una grazia. In genere si richiedono alle feste di San Francesco, San Rocco si procede alla benedizione dei popotuli e alla loro vendita. Mentre per la festa di Santo Antonio si usa accendere in ogni incrocio il fuoco e mettersi a cerchio e pregare in ricordo dei tempi in cui era diffusa la malattia (fuoco di San Antonio). Io sono cresciuta in una famiglia credente alla vita Cristiana, ho frequentato la chiesa da bambina. Mia nonna donna semplice ed umile, grande lavoratrice
ci raccontava
sempre di quanto lei era devota a San Francesco di Paola e noi dobbiamo vivere nella grazia di Dio, e il modello per noi dare coraggio a coloro che soffrono. Ci raccontava
quando mio fratello era piccolo stava per morire tra le sue braccia lei rivolse verso il Santo e chiese di fargli la grazia a l’avrebbe portato a piedi da San Francesco, così mio fratello è cominciato a stare bene. Ma Siccome in quel periodo non aveva soldi gli disse che l’avrebbe portato l’anno prossimo. Mio fratello è stato di nuovo male mia mamma preoccupata disse: San Francesco di Paola se vuoi te lo porto adesso. Così mia mamma prese mio fratello con pochi soldi e lo portò a San Francesco di Paola; da quel giorno mio fratello è cresciuto in buona salute mentre lo raccontava ci faceva piangere e diceva: è stato un periodo difficile ma che aveva ricevuto la grazia. Si sente parlare di magia fin dai tempi antichi delle magie che delle fatture, del malocchio si pone negativamente contro le persone, si diceva che il malocchio provoca diversi disturbi. Le tradizioni tramandano numerose formule. Ogni malvagità di persone maligne perché purtroppo si dice che esiste il bene, esiste anche il male. Io ricordo che sentivo parlare alcune vecchiette dicevano che cacciavano il malocchio con preghiere, mettendo dell’acqua in un piatto e poi mettevano gocce di olio e si formano diversi cerchi loro toglievano il male per fare entrare il bene. Le tradizioni e canzone a doppio senso quando un ragazzo innamorato chiedeva di dargli un po’ d’acqua dalla lincella che voleva un contatto fisico. Ma la ragazza risponde: che non è padrona lei della lincella ma deve dare conto ai suoi genitori quindi lui risponde prontamente che qualsiasi danno possa fare è pronto a riparare. L’altro canto sono storie che generalmente avvenivano davvero all’interno del rione com per esempio “Buonasera Antoniuzza”, dichiarazione d’amore di un giovane verso la propria amata. “U ‘zzu Monachiallu” invece tratta di una storia contrastata dai genitori quindi i due giovani escogitavano diversi piani per incontrarsi. Al mio paese le canzoni che ancora oggi si cantano sono: la Calabrisella e le Tarantelle, suonate con gli organetti e con la fisarmonica. Le canzoni venivano create in particolari occasioni come agli innamorati sotto le finestre e dal balcone all’amata con diversi strumenti : mandolini, fisarmoniche che fanno rimanere viva questa tradizione. Diventa momento di festa per chi si prepara all’indomani a sposarsi.
Azzurra
Chiara Questo è il secondo anno che faccio parte di questo progetto P.O.N. Devo essere sincera è una cosa molto bella e coinvolgente. Abbiamo iniziato la zona storica di S. Teodoro, incluse le varie chiese che vi fanno parte. Abbiamo letto tre leggende, io non sono nata a San Teodoro pero ci vivo dodici anni . Sentendo parlare mia suocera quanto è bello ascoltare le cose di una volta anche se a volte si era un po’ esagerati. Nella prima legenda: si narra di alcune fate che ritrovarono una bambina abbandonata nel Timpone. Devo tornare indietro negli anni e cioè quando sono nata, mia mamma dopo che ha partorito mi ha abbandonata, mi ha lasciata in ospedale. Nella seconda leggenda: la chioccia e i pulcini d’oro; una certa Zia Betta si procurava da mangiare lavorando la lana e lino. Quando sento parlare di queste cose ci prendo gusto perché mi piace il ricamo. Io lavoro con il punto croce. Non sono brava al lavoro dell’uncinetto e nemmeno agli altri ricami, esempio lavorare al tilaretto ecc. Ai tempi di una volta le persone anziane passavano le giornate tessendo la lana e ricamando lenzuola e asciugamani, questo è quello che mi ha raccontato mia suocera. Nella leggenda il Paggio e la Principessa: invece, la cosa che associo è questa: quando ero fidanzata con mio marito quante volte girava con la macchina dove abitavo io perché voleva fidanzarsi con me. Abbiamo avuto delle difficoltà ma alla fine ci siamo messi insieme. Oggi abbiamo letto altre leggende, quante cose che sono uscite fuori. Dopo aver letto le leggende abbiamo commentato. Se ci pensi le cose antiche ti portano davvero nel toccare qualcosa di tuo personale. Nella leggenda Mastru Vriulillu: si parla di un tizio che faceva il ciabattino dopo la morte della moglie si mise a fare il cantastorie ambulante. Io mi ricordo un particolare della mia infanzia. Avevo circa l’età di otto anni e mi avevano regalato un giradischi mi ero affezionata tanto. Immaginate mettevo continuamente dischi e li ascoltavo. Nella leggenda del povero Antonio si narra che era andato a capitare con gente poco seria. Su questo penso una cosa: è vero che una volta c’erano famiglie di un certo livello e poi avere terreni oppure avere cose significa molto. Bisogna innanzi tutto non avere invidia delle cose altrui e poi di accontentarci di quello che abbiamo o ha. Nella leggenda disgrazia miaaaa! Si narra di una suocera che campò più del previsto. Qui mi ricordo quando morì mia nonna, la mamma di mio padre, eravamo molto affiatate e quando mi diedero la brutta notizia immaginate io!! Disperata . Nella leggenda Bruno e Marianna si narra di un tizio che cercava l’elemosina e non guardava a chi la cercava. Gente più ricca o gente più povera di lui. A questa leggenda associo quando io e mio marito non avevamo un posto di lavoro come è stato duro e difficile. Per
tanti anni a mio marito lo avevano illuso facendogli credere che da un giorno all’altro si fosse sistemato. Lo zio Pasquale: in questa vicenda si descrive un certo zio Pasquale che quanto ne ha saputo raccontare! Io invece voglio ricordare di una persona carissima che mi stimò e mi volle sempre bene, ora non c’è più perché è morto. Oggi abbiamo parlato e letto le tradizioni popolari. C’è stato qualcuno che ha commentato qualche tradizione. In quanto non sono nata a San Teodoro non posso descrivere sulle tradizioni. Mia suocera sa qualcosa perché è nativa del posto e quindi mi racconta alcune cose. Addirittura il dipinto del Colelli che è stato rubato apparteneva a suo nonno. Mi piace sentire tutte queste cose. Probabilmente le tradizioni negli anni passati saranno state tante. Ma da quando vivo a San Teodoro e cioè da dodici anni le tradizioni che tutt’oggi esistono e si svolgono sono: il canto della “Strina” e la “Santa Croce”. In questa seconda parte devo scrivere un particolare; e quindi ritorno indietro nel tempo quando ero piccola stavo insieme a mia nonna e mi ricordo che venivano delle persone a casa sua per togliere il Malocchio. Un’altra cosa che so è la vista, che è santa Lucia. Probabilmente una volta quante cose e formule vi esistevano ma i tempi di oggi non sono così
Chiara
Colomba bianca Anche se non ho avuto il piacere da parte dei miei nonni e anche dai miei genitori di ascoltare le leggende che riguardano il quartiere di San Teodoro,oggi mi ritengo comunque fortunata di partecipare al P.O.N . e di ascoltare e leggere leggende che riguardano il piccolo quartiere da cui poi si è sviluppata la mia citta’. Leggendole mi rendo conto che sono bellissime e che riescono a farmi conoscere bene i luoghi e la personalita’ della gente che lo abitava.”Tana delle fate” esprime,dal mio punto di vista, la bellezza della vita vista con gli occhi ingenui di una ragazza “Gelsomina”. Lei vive nel suo mondo,quel mondo che le hanno fatto conoscere le fate. Ella, fino a un’eta’ non si è preoccupata del resto del mondo che la circondava. Un giorno pero’ decide di voler diventare “donna mortale”. In questo suo cambiamento è accompagnata da una fata che le sta sempre accanto, ma quando Gelsomina affronta la vita mortale avverte forte il desiderio di voler tornare indietro. Questo mi porta a pensare che ognuno di noi ha sempre accanto un angelo custode che cerca di guidarci nel nostro cammino di vita, ma alla fine siamo sempre noi a decidere del nostro futuro. Nella seconda leggenda risuona molto la voglia di supremazia che ogni uomo ha dentro di se. A volte per la maledetta voglia di grandezza non ci si volta indietro a guardare se attraverso il nostro comportamento abbiamo potuto fare del male a qualcuno. Questa sensazione l’ho provata quando la donna del racconto non riusciva a decidersi se consegnare o no il pulcino alla strega. In, questa storia, fortunatamente, vince il bene sul male, La donna decide di consegnarlo restituendo alle persone del quartiere la gioia di vivere. La storia del “Paggio e la principessa” fa riaffiorare in me alcuni ricordi su discorsi che sentivo fare a mia madre con
le
sue
amiche
quando
puntualmente
ogni
pomeriggio ci si riuniva nelle scale della nostra palazzina. Parlavano che la tanta differenza di eta’ e di cultura in una coppia riusciva a portare la stessa anche all’interruzione del matrimonio. Ecco perche’ il padre della principessa non voleva che la figlia si innamorasse del paggio ,anche se egli fosse il migliore dei suoi paggi. Anche se non ho vissuto nel quartiere di San Teodoro,quindi non conosco nulla, avverto che nei tempi antichi regnava tanta semplicita’ tra le persone, tra i bambini ecc. Sarebbe
sicuramente bello poter tornare indietro nel tempo e vivere di quei momenti in cui tra vicini di casa ci si aiutava spontaneamente,o osservare i bambini giocare a pallone con un calzino imbottito di pezzi di stoffa e vederli felici di tirare calci a quel fantomatico pallone, senza accorgersi di essersi graffiati tutte le dita dei piedi. A me, piace molto camminare tra le vie di San Teodoro e anche di Santa Lucia. Quando vedo qualche signora anziana fare capolino dall’uscio della sua porta,come se volesse dire al mondo “ci sono anch’io”, amo regalarle un sorriso o un saluto. Questo mi fa provare una sensazione che mi allieta. Concludo dicendo che, amo vivere nella semplicita’, amo vedere correre i miei figli e giocare all’aperto, raccogliere un fiore, aiutare un amico in difficolta’. Invece mi fa tanta rabbia vedere i bambini di oggi passare le proprie giornate davanti al computer o un qualsiasi gioco elettronico. Ogni paese, ogni popolazione oltre alle sue leggende racchiude in se tante storie di personaggi fantastici realmente vissuti. Si narra della vita di gente comune, come il ciabattino, “mastru Vriulillu”, l’aggiusta scarpe del quartiere, o ancora di “ zio Pasquale” un uomo che pur di stare in compagnia, racconta storie inventate dalla sua fantasia, ma che comunque riesce ad attorniarsi di bambini pieni di curiosita’. Tutto cio’ ti riporta alla mente la semplicita’ del vivere la vita giorno per giorno. Non essendo del quartiere non so se esistono ancora di queste persone ma, sarebbe veramente bello se ci fossero ,passare con loro ,di tanto in tanto, qualche ora della nostra giornata ,oramai cosi’ frenetica. Andando a ritroso con la mente ricordo che quando frequentavo la scuola media, che si trovava nel quartiere chiamato “ Turra” , ogni mattina quando salivo la strada che mi portava a scuola, incontravo un personaggio che abitava proprio li’. Il suo nome era “Turuzzu capu ‘nninna”. Ricordo che avevo tanta paura . Lui era un uomo malato e ogni volta che vedeva una ragazza o una donna inveiva verso di lei con parolacce di tutti i generi e con gesti poco discreti. Questa situazione, quasi giornaliera, suscitava in me tanta tensione che solo a vederlo da lontano, con le lacrime agli occhi, cambiavo strada o facevo finta di non guardarlo, accelerando il passo. Altri personaggi che conservo nei miei ricordi sono due sorelle gemelle, basse , grasse che camminavano in coppia. Tutti le chiamavano “le masculille”. Io avevo paura di loro, le vedevo come elle donne cattive che se riuscivano a prendermi mi avrebbero portato via. Oggi nel leggere la storia “disgrazia mia” mi rendo conto che anche nell’affrontare la morte ,noi siamo cambiati. Oramai non ci si mette piu’ a gridare, come ci racconta la storia”, ma si affronta il dolore in modo molto personale e anche il lutto si svolge in modo molto freddo e frettolosamente. Mi raccontava mia zia che una volta i defunti venivano vegliati almeno 24 ore, invece oggi ,a volte non si aspetta neanche un giorno e si celebrano i funerali. Nel mese di maggio mi è capitato di dover scendere in Sicilia per un funerale in un paesino che fa nome Francofonte. Li’ le donne si mettono in processione, il defunto viene seguito dalla banda musicale, che ti lacera il
cuore, i negozi abbassano la serranda e gli uomini alla vista del carro usano come gesto di rispetto mettersi la mano destra sul cuore e alzano la mano sinistra in segno di saluto. Questi sono dei riti che ti fanno capire che nei paesini le persone sono ancora legate ad usanze e riti che nelle grandi citta’ ormai sono scomparsi. Oggi noi ai nostri figli non raccontiamo vicende particolari legate a defunti o spiriti, perche’ abbiamo paura di sconvolgerli, invece io da piccolina sentivo ,di tanto in tanto ,mio padre che raccontava che mentre lui si recava a lavoro vide lo spirito di un bambino sul ciglio della strada. Lui non voleva crederci ma, si dovette ricredere perche’ molti come lui avevano vissuto la stessa esperienza. Oggi ci siamo soffermati in modo particolare alle tradizioni popolari che riguardano il quartiere di “ San Teodoro”. Le tradizioni piu’ sentite nel quartiere sono “a Corajisima”, “a Strina” e la Santa Croce. Nel periodo della Corajisima, che sarebbe la Quaresima, ai balconi del quartiere viene legato un filo e a questo appese delle pupazze vestite da “pacchiana”,che è il tipico costume nicastrese, con sette penne di gallina. La prima penna, viene sfilata la prima Domenica di Quaresima e l’ultima, cioè la settima, nella mattinata del Sabato Santo. In un secondo momento si è parlato della tradizionale Strenna di Natale che viene eseguita durante la notte di San Silvestro. Per fare la “ Strina” si uniscono piu’ persone che, dopo aver scelto una casa, attraverso canti e musiche cercano di convincere la padrona di casa ad aprire e a preparare qualcosa da mangiare. Se tutto cio’ avveniva,allora il tutto si completava in modo tranquillo con canti di gioia e di buon augurio. Se invece la porta non gli veniva aperta “a strina” si concludeva con ingiurie nei confronti del padrone di casa. L’ultima tradizione popolare è la “ Santa Croce”. Questa si svolge ancora oggi dal primo al terzo giorno di maggio, e consiste nell’allestire nei vari rioni , degli altari addobbati con fiori, centri fatti all’uncinetto e un quadro con l’immagine di Gesu’. Ogni rione concorre a fare l’altare piu’ bello e la sera del terzo giorno la festa si conclude con l’accensione di un grande falo’ preparato con i rami raccolti durante i tre giorni. Queste tradizioni vivono ancora in modo fervido tra i cittadini del quartiere e io non essendo del luogo, osservo con ammirazione e penso a quando i miei genitori vivevano questi momenti che a me non appartengono ma che spero un giorno di poter vivere anch’io. Ancora molto sentite tra di loro sono le “ formule magiche”, riti che ancora oggi vengono fatti dalle donne del quartiere e non solo. Esistono le “fattucchiere”, donne che secondo loro, attraverso la recita di alcune
parole,riuscivano ad allontanare alcuni mali come il malocchio, il mal di piedi, il mal di pancia, la verminazione, gli occhi arrossati, ecc. Le fattucchiere erano molte nel quartiere, oggi spero siano rimasti solo vecchi riti che eseguono gli anziani. Non riesco a credere che una persona emancipata possa credere ancora a queste cose. Non penso proprio che si possa mischiare il sacro con il profano anche perché quand si recitano queste preghiere viene invocato il nome del Signore. Loro pensavano e credevano fermamente che attraverso queste invocazioni il Signore Le potesse aiutare ad eliminare il male. Oggi invece si ricorre al medico, persona che studia una vita i problemi di salute dell’uomo e invece si invoca il Signore affinche’ possa illuminare le menti degli scienziati a scoprire la medicina giusta. Concludo dicendo che queste letture mi portano a sorridere e a sperare che oggi siano rimasti solo dei riti da leggere sui libri. Tra le tante tradizioni del quartiere di San Teodoro, ecco emergere anche i fantastici canti popolari anch’essi molto belli come le altre cose gia’ trattate. Leggendoli, la maggior parte di loro parlano di amori condivisi e non. Un canto che mi è piaciuto molto è “a lincella”. Questo canto parla di una coppia di ragazzi che si incontrano ogni giorno alla fontana. Essendo sempre circondati da persone, lui non vuole far capire agli altri che si è innamorato e comincia a chiedere alla ragazza un po’ d’acqua della sua lincella. La lincella in questo caso non è altro che l’amore e il corpo della ragazza. Lei gli risponde che certe cose non si chiedono in mezzo alla strada dove tutti possono sentire. Ma lui insiste chiedendo “ acqua”, cosi’ lei sentendosi coinvolta da questo amore gli risponde che se non fosse per la mamma , di cui ha paura, gli avrebbe donato anche la sua anima. Lui senza arrendersi gli risponde che è pronto ad affrontare qualsiasi situazione. Oggi le cose sono molto cambiate, ormai si usa “ face book” per comunicarsi qualsiasi cosa. Sono pochi i ragazzi che si scrivono lunghe lettere d’amore esprimendo in esse tutto di se. Non esiste piu’ il senso del pudore. Devo dire che anche essendo una donna di trentasette anni, preferisco l’amore semplice, tradizionale e mi rendo conto che i giovani di oggi sono molto cambiati, sembra che non capiscano piu’ cosa significhi aver rispetto degli altri , e quindi sarebbe proprio bello se si potesse tornare un po’ indietro nel tempo.
Colomba bianca
Daisy Lee Non sono nata a San Teodoro come molte altre ma i miei nonni vi abitavano in via Maggiordomo e da bambina, quando andavo a trovarli, mio nonno, spesso d’inverno seduti davanti al braciere, anzi attorno, ci raccontava quando era lui bambino che a piedi scalzi andava girando per le vie di San Teodoro giocando con gli altri bambini e che non poteva andare oltre un certo limite prestabilito, “oltre quelle case” non si poteva inoltrare al di la della fontana della piducchiusa perché, gli raccontavano i suoi genitori c’erano le fate della grotta sotto il castello che lo potevano prendere e portare con loro nel bosco per non tornare più come Gelsomina la bimba umana diventata fata, ci raccontava anche che durante una notte di luna piena una donna, sonnambula,andò alla fontana a prendere l’acqua con la brocca e che il mattino dopo si risvegliò nel suo letto avvolta in un mantello messole sulle spalle dal Cavaliere errante “Gerlando” che si aggirava di notte tra i ruderi del castello aspettando che l’amata riuscisse a fuggire. E poi ancora, dei rumori, delle grida che si sentivano provenire dal castello e che pensavano che fosse proprio l’anima della principessa triste rinchiusa. Ora, a distanza di tempo, ripercorrendo quelle stradine dell’infanzia di mio nonno, ripensando a quello che lui mi raccontava, sento in parte di rivivere le emozioni, la paura, le sensazioni di allora. Mi è capitato di andare al castello una sera, al buio, quasi ho avuto la sensazione di sentire il soffio delle fate che mi avvolgeva e la presenza di qualcosa di soprannaturale che mi sfiorava il volto, quasi come se non fossi sola ma una presenza accanto a me si materializzava, …il volto della principessa. La paura, in quel momento, prese il sopravvento sulla ragione e salendo per quelle viuzze fino in cima al rudere aumentava quella sensazione di gelido. Diversamente l’ho rivissuta andandoci di giorno, ho ammirato intensamente i colori grigio verdastri della pietra dei muri e il giallo-rossastro della terra sotto i miei piedi, riandando indietro con la mente all’antico castello e rivivendo i bei momenti trascorsi dalla piccola trovatella Maria che divenne figlia dell’Imperatore sentivo di appartenere totalmente a quel luogo come fossi vissuta in quel tempo. Un’altra leggenda che mi raccontava sempre mio nonno era quella della chioccia con i pulcini d’oro che si aggiravano tra i vecchi ruderi del castello e di quanto ognuno di loro avrebbe voluto trovarne uno, perché diceva:” chi trova un pulcino diventa assai ricco, ma deve affrontare, nello stesso tempo, molte prove di forza di volontà e capacità di resistere alle avversità della vita, perché il pulcino è fatto di preziosi rubini e diamanti e chi ne verrà in possesso potrà perdere la ragione”. Ero sempre incantata da questo racconto e mi ricordo che quando andavo dalla nonna paterna, che abitava ai piedi del castello spiavo continuamente negli anfratti dei ruderi per vedere se riuscivo a trovarne uno; chissà! Forse un giorno ci riuscirò come la zia Betta e diventerò ricca, ma a pensarci bene questa è solo una bellissima illusione, una favola.
Continuando il racconto, dalla fantasia si passa alla realtà di ogni giorno di allora e anche di oggi: Mi raccontava, sempre mio nonno, di un certo ciabattino che dato che guadagnava poche lire per una riparazione, lasciò il lavoro che aveva e si mise a fare il Cantastorie con la speranza di poter guadagnare qualcosa in più, visto che la Curia, all’epoca non gli dava neanche la paga settimanale come agli altri. Tra l’altro era rimasto pure vedovo; quindi con le sue canzoni, una in particolare molto triste allietava la gente che passava per strada tant’è che era diventato ormai una abitudine e dopo un pò di tempo non ci faceva più caso. Un giorno, però non sentirono più la sua voce, chiesero in giro e si seppe che era morto assiderato in un portone. Mi dispiacqui per lui, tanti sacrifici per portare avanti la famiglia che si ritrovò senza soldi e alla fine morire così solo come un cane, non c’è cosa peggiore. Comunque cosa abituale, in questi casi, quando una persona muore senza nessuno e fare una colletta per dargli giusta sepoltura. La stessa cosa è accaduta poco tempo fa, ad un signore di cui non conoscevo il nome, io lo chiamavo l’eremita. A questo signore sono morti due figli con un incidente d’auto, dopo di che si è lasciato andare si è abbandonato a se stesso e la sua famiglia lo ha allontanato non lo ha più riconosciuto come tale. Stava sempre seduto sotto un albero assorto nei suoi pensieri, ogni tanto qualcuno si fermava per dargli qualcosa da mangiare e qualche spicciolo. Da qualche tempo passando per la quella strada, ho notato che mancava qualcosa, il suo corpo raggomitolato nei giorni di freddo e pioggia, non c’èra più. Ho chiesto in giro e mi hanno detto che era morto, che le persone che lo vedevano e lo aiutavano spesso gli avevano persino pagato il funerale e che della sua famiglia non si era fatto vedere nessuno. Storia simile è successa ad Angilina, parente di mia nonna che aveva un marito ubriacone e pieno di debiti. Un giorno per fare fortuna disse ad Angilina che sarebbe partito per l’America e che sistematosi le avrebbe fatto l’Atto di Richiamo. Nel frattempo Angilina rimasta sola con tre figli si dovette rimboccare le maniche per mandare avanti la famiglia con tanti sacrifici, del marito non si seppe mai niente. Dopo un po di tempo venne a sapere che in America viveva con un’altra donna, ma Angilina non si volla mai unire ad altri. Dopo molti anni si fece vivo con una lettera dove le diceva di essere malato di aver perso tutto quello che aveva e di voler ritornare in Italia per finire la sua vita con lei ma Angilina che aveva fatto tutti quei sacrifici non lo volle vedere anzi gli mandò a dire che non aveva
nessuna intenzione di fargli da balia nella vecchiaia e ne di farsi carico nuovamente dei suoi debiti. Ricordo ancora chiaramente, alla morte di mio nonno, come alla morte di una persona cara, tutti i parenti si disponevano intorno alla salma e gridavano a più non posso quasi facevano a gara a chi alzava di più la voce, si vestivano a lutto, si scioglievano i capelli, si graffiavano la faccia, si mettevano il manto nero o la veletta. Durante i tre giorni di lutto la casa era aperta a tutti, giorno e notte e ad un angolo veniva disposto un tavolo coperto con una tovaglia di lino ricamata, dove venivano posati i cosiddetti fangotti, che tutte le comari del vicinato portavano, composti da generi alimentari, che servivano per aiutare i familiari del defunto, soprattutto se si trattava di una vedova rimasta sola.
‘A Lincella - La Brocca Questa canzone ha come significato nascosto
un
amore
non
vivibile
apertamente e il ragazzo che vede la sua amata che va a prendere l’acqua alla fontana con la brocca, per poterle esprimere il suo desiderio, le chiede un po di acqua dalla brocca, ma la ragazza risponde che per la strada non è il caso di dare acqua ma che nello stesso tempo, se era padrona lei della brocca non gli avrebbe dato solo l’acqua ma anche la sua vita. La ragazza lo intimava a fare attenzione perché la brocca si poteva rompere e che la mamma l’avrebbe picchiata, lui di rimando risponde che se si fosse rotta sarebbe stato ben felice di pagargliela.
‘U zzù monachiàllu - Lo zio monaco Un giovane innamorato, travestito da monaco bussa alla porta della sua amata per chiedere l’elemosina. La madre della ragazza apre la porta dà l’offerta e prega il monachello
ad andarsene perché è
preoccupata per la figlia che è molto malata. Il giovane monaco convince la madre a far confessare la figlia, facendo chiudere tutte le porte e le finestre perché, dice, in questo modo non si sente la confessione da fuori. Così facendo il falso monaco rimane solo nella stanza con la ragazza alla quale chiede un bacio. Ciò fa capire che anche se un tempo era molto difficile avvicinare una ragazza si faceva tutto il possibile per vederla e parlarle.
U zzu monachiallu E tuppi tuppi … chinè allu miu purtuni E tuppi tuppi … chinè allu miu purtuni? E’ llu ziu monachiallu Annacati tumba e l ariu la Chini vò fatta ‘a limuosinella E lla limuasinella iu ti la fhazzu E lla limuasinella iu ti la fhazzu Ma vavatindi ca .. Annacati tumba e l ariu la Ca fhighia mia e assai malata! E s’è malata, fhalla cumpissari, E s’è malata, fhalla cumpissari, e fhalla cumpissari… Annacati tumba e ll ariu la E fhalla cumpissari a modu nuastru. E s’à Madonna ma fha stari bbona E s’à Madonna ma fha stari bbona À fhazzu fhari mò ……. Annacati tumba e llariu la A hazzu fhari monachella Chiuditi mo i porti e lli barcuni Chiuditi mo i porti e lli barcuni A dammu nesci lla Annacati tumba e llariu la A dammu nesci lla cumpissioni A mamma arriatu a porta chi ciangi A mamma arriatu a porta chi ciangi! E dammillu mò Annacati tumba e llariu la E dammillu mò nu vasillu
Lo zio monaco Toc .. Toc! Chie è al mio portone, Toc .. Toc! Chie è al mio portone, E’ lo zio monaco Sculetta, piegati e fai una giravolta chi vuole fatta l’elemosina? L’elemosina io te la faccio L’elemosina io te la faccio ma vattene di qua … Sculetta, piegati e fai una giravolta perché mia figlia è molto malata E se è malata falla confessare E se è malata falla confessare E falla confessare…. Sculetta, piegati e fai una giravolta E falla confessare a modo nostro E se la Madonna me la fa stare bene E se la Madonna me la fa stare bene! La faccio fare mò … Sculetta, piegati e fai una giravolta! La faccio fare monaca. Chiudete adesso le porte e i balconi Chiudete adesso le porte e i balconi Sennò esce fuori la… Sculetta, piegati e fai una giravolta! Sennò esce fuori la confessione La mamma dietro la porta che piangeva La mamma dietro la porta che piangeva! E dammelo adesso… Sculetta, piegati e fai una giravolta! E dammelo adesso un bacetto
Daisy Lee
Daniela Io non sono del posto cioè del rione "San Teodoro" le leggende sul castello - i tesori nascosti, gli amori impossibili - le fate - mi hanno fatto ritornare in mente quand'ero bambina, quando mia nonna raccontava delle storie sui fantasmi tutti riuniti davanti al camino, io ricordo bene solo quelle, forse perchè mi facevano più paura. Mentre sentendo quella " Paggio e la Principessa" mi è venuta in mente la storia che ho sentito quando avevo circa 17 anni. A casa di mia suocera tra un ricco benestante e una ragazza di un piccolo paese. Il loro era un amore impossibile, difficile e contrastato, proprio a causa della classe sociale. Il Barone si sposò con una ragazza del suo rango ma non ebbero figli. Mentre di nascosto continuò ad amare la ragazza. Dalla loro storia nacquero 5 figli, i quali appena nascevano (da qualche persona) complice della mamma di lui i bambini venivano portati in un orfanatrofio dove potevano essere adottati. Il ricco signore appena poteva andava a riprenderseli e li consegnava di nuovo alla sua donna (amante). Per quanto riguarda le fate mio padre mi ha raccontato che anche al mio paese natio, cioè sul "Monte Reventino", abitavano delle fatine, ma non sò altro ricordo solo che quando avevo 12 anni, tra i boschi mentre andavamo a raccogliere le fragole c'era una casetta un pò misteriosa e mi dissero delle persone del posto, che lì avevano abitato delle fate. Ricordo che quando, ero bambina, i funerali, mi facevano parecchia paura. Le grida delle donne, mi impressionavano molto, i capelli sciolti, i vestiti neri, io avevo molta paura di vedere i morti, e di participare ai funerali. Così mia mamma, ritornava da qualche funerale, io le facevo mille domande, mamma piangeva la figlia? mamma piangeva la sorella? Ma come piangevano urlavano? Infatti, "Disgrazia mia" mi ha ricordato proprio i lutti di una volta, ricordo mia zia, che lo ripeteva sempre, durante i funerali di sua mamma. Adesso le cose sono molto cambiate rispetto a trenta, quarant'anni fa. Ricordo che allora dopo, il funerale si teneva il lutto in casa per otto giorni, la gente andava e veniva. A Conflenti, un paese vicino al mio, si teneva il lutto addirittura per una mese. Adesso qui il lutto si è ridotto a tre giorni appena, tante persone non le tengono più, e non si usa più vestirsi di nero. Io penso che sia meglio adesso, che una volta. Anche riguardo ai fantasmi, adesso si sente parlare poco, mentre una volta ricordo che mia nonna, raccontava di un giovane al paese dove abitava, lei precisamente Decollatura, proprio vicino (casa sua) era stato impiccato un giovane, ad un albero il motivo non si sapeva, raccontava che spesso la notte, sentiva bussare forte alla porta, lei apriva ma non vedeva nessuno. Una notte, raccontava sempre mia nonna,
il fantasma di questo ragazzo stava strozzando mio nonno, nel sonno. Di giorno poi lui andava nei campi, lasciava mia zia più grande a casa sua, a badare alla più piccola, quando nonna si ritirava la sera, trovava, la piccola, piena di lividi e con le impronta delle dita, sulle braccine e sulle gambette, lei se la prendeva con mia zia, perchè si pensava, che era lei a picchiarla, (anche i vicini riferivano, a mia nonna, che sentivano piangere sempre la bimba), ma mia zia negava tutto e così poi mia nonna in seguito, si accorse che era opera del fantasma. Tutte queste storie ascoltate su "San Teodoro" , mi ricordavano in fondo, qualche episodio del mio paese. Ricordo che quando avevo appena 8-9 anni vicino a casa mia ci abitavano delle persone abbastanza strane, marito e moglie, lei quando aveva delle crisi, litigava con il marito e lui si rifugiava a casa mia, cercando aiuto a mio padre, si nascondeva e implorava mio padre, di non dire a sua moglie che si trovava lì, la moglie puntualmente correva a cercarlo. Delle sere poi lui veniva a casa nostra con la chitarra ci faceva ascoltare storire antiche e storie vere, accadute molti anni prima. Anche la storia del "Povero Antonio" mi ricorda, mio zio il fratello di mio padre, che emigrato in Australia per lavoro, per tanti anni non ha scritto più a mia zia, aveva 4 figli e faceva molti sacrifici per poterli crescere e farli mangiare, ogni giorno, ma per fortuna dopo alcuni anni anche lei è emigrata con i miei cugini ed ora sono ancora insieme. Le tradizioni del centro storico di Nicastro, "Rione San Teodoro" che ricordo essendo venuta ad abitare, circa 35 anni fa, sono più o meno uguali a quelle del mio paese natio, che ricordo da bambina. Ricordo la "Strina" che venivano a cantare il periodo natalizio, a casa mia, ricordo che appena arrivavano gli "Strinari" si facevano entrare e poi si bandiva la tavola con frutta, castagne, noci, fichi secchi e da bere. Della quaresima ricordo solo che mia mamma non ci faceva mangiare carne. Mentre la "Santa croce" la ricordo perchè appena sono venuta ad abitare a Nicastro, vedevo dei bambini, che chiedevano soldi con un piattino e un santino. Anche i miei bambini, la facevano appena sono cresciuti un pò. Abitavamo in via Garibaldi, ricordo che si raccoglievano i soldi e alla fine dei tre giorni, si faceva una bella festa con i giochi e si mangiava tutti insieme. Delle
Formule
magiche
ricordo,
solo
"l'affascino" che si tramandava, poi la formula mamma a figlia. Anche adesso è molto praticata io credo nel bene e nel male, credo nella cattiveria di alcune persone, ma mi difendo pregando, Dio e i Santi, andando in chiesa e recitando il "Rosario". Di altre formule magiche non ricordo molto, solo che quando nasceva un bambino si metteva addosso un "Abitino" un sacchettino di stoffa con dentro un santino, un pò di sale e ruta contro, l'affascino e gli spiriti. I neonati non si portavano fuori casa fino a quando non si
battezzavano. E quando si aveva il mal di pancia pensavamo che erano i "Vermi", e ci facevano mangiare uno spicchio d'aglio. Mia mamma mi bolliva anche la malva per la tosse. Nel passato per poter vedere la propria innamorata si andava o in chiesa, o alla sorgente. E' il corteggiamento, di un ragazzo ad una ragazza, che venendo dalla fontana le chiede un pò d'acqua dalla lincella, la ragazza capito il doppio senso, gli risponde di no, di andare a bere dalla fonte, perchè per strada non si fanno certe dichiarazioni, perchè lei ha i genitori ai quali deve dare conto, e se le fosse successo qualcosa di male, sicuramente avrebbe dovuto dare conto alla famiglia. Ma lui insiste, dicendo che avrebbe, ben volentieri riparato al danno, pagando cioè sposando la ragazza. Bonasera "Ntoniuzza" dice un ragazzo innamorato di lei, è un piacere infinito, incontrarti stasera e vorrei dirti che ho un fuoco dentro il cuore, e mettendo in evidenza i suoi beni materiali si dichiara con la ragazza. La ragazza risponde che lei gli voleva bene, e siccome una volta, (l'innamorato doveva mandare l'imbasciatore, per dichiararsi) e se la famiglia accettava poi si potevano sposare. Una volta, più delle volte, i genitori decidevano per i figli, più delle volte, addirittura, la ragazza si ritrovava fidanzata senza saperlo, e senza conoscere il ragazzo. "U ZU MONACHIALLU" invece era una storia d'amore contrastata dalla famiglia di lei così lui si traveste da monaco e andando a bussare a casa di lei, con la scusa di "chiedere l'elemosina" riesce ad entrare (sapendo che la ragazza si fingeva malata), con la scusa di farla confessare e così riuscì a restare in intimità con la sua innamorata. Sono nata in un piccolo paese (precisamente vicino) perchè abitavamo in campagna. Ero la quarta di sei sorelle e sei fratelli. Il mio ricordo più lontano risale a quando avevo circa 2-3 anni. Ricordo mia sorella più grande che mi faceva il bagnetto, e anche l'altra mia sorella che mi dava da mangiare, vicino ad una finestra. Quando avevo 3 anni abbiamo cambiato casa, ricordo che davanti alla nostra casa c'era la strada ed io per seguire mia sorella, ho attraversato la strada, mentre passava una macchina. Mia mamma, si sentì male per la paura e la dovettero soccorrere. Per circa 7 anni abbiamo abitato in questa casa, ho tanti bei ricordi, i giochi con i miei fratelli più piccoli, ricordo che dormivamo con le due sorelle, in un solo letto grande, mia mamma aveva la sua stanza, e poi c'era la cucina, il bagno, e poi giù c'era una cucina, con il forno, per fare il pane, e il caminetto dove ci riunivamo a cenare. Ricordo un grosso contenitore di cemento un'enorme vasca dove si spremeva l'uva per fare il vino. Ogni volta che si faceva la vendemmia, era una festa perchè venivano ad aiutarci, gli zii ed anche i miei cugini, la nonna ed il nonno materni, la nonna paterna, mio nonno non l'ho conosciuto perchè è morto, dopo la guerra.
Ricordo ancora l'odore acro del vino, il profumo dell'uva appena raccolta. Noi bambini ricordo che dovevamo aiutare la famigli, ognuno aveva dei compiti da svolgere, mia sorella grande aiutava mio padre e mia madre in campagna, la seconda aiutava in casa cioè a pulire, cucinava, badava ai più piccoli, ricordo che andavamo a prendere l'acqua da una sorgente, perchè non avevamo nè l'acqua, nè tantomeno l'elettricità, ci illuminavamo con la lampada a petrolio e quando si spegneva si andava a dormire (forse, per questo, sono nati tanti figli!) scherzo. Io e mia sorella, che aveva 5 anni più me badavamo agli animali, ricordo una capretta molto carina che si chiamava stellina, perchè aveva una macchia bianca a forma di stella, in fronte. Quando avevo 5 anni mio padre mi scrisse ad una scuola, vicino casa, si faceva scuola per tutti i bambini di campagna, incominciava a Febbraio e finiva a giugno. In 5 mesi non imparai un granchè, mio padre mi comprò il libro di lettura e l'alfabetiere, ricordo che tutte le sere mi faceva ripetere i numeri, ma io ero troppo piccola non avevo frequentato l'asilo, ne mai imparato a leggere, così fui bocciata, ricordo la delusione di mio padre, ricordo gli esami come un'incubo. L'anno successivo mi iscrissi a scuola andavo insieme a mia sorella. La mia maestra era molto buona, e per tutte le scuole elementari ebbi sempre la stessa. Ricordo che la scuola incominciava il primo ottobre e finiva a giugno. Per andare a scuola facevamo circa 2 km, non c'erano macchine. Mio padre faceva il contadino e le macchine, c'e l'avevano solo i più ricchi, mio padre, lavorava la terra e andava ad arare la terra ai vicini e ai parenti, ricordo che c'era molta solidarietà, si aiutavano uno con l'altro, e ogni volta che si faceva la vendemmia o la raccolta del grano, era una festa, si lavorava fino alla sera e poi si cenava e si chiacchierava tutti insieme. Si raccontavano, storie e leggende del passato, si raccontava che, che sulla strada vicino casa mia, molti anni prima avevano ucciso un ragazzo di 17 anni a bastonate, un delitto d'amore per una donna, io avevo molta paura e ancora adesso quando mi capita di passare di lì mi ricordo questa storia. Ricordo che non avevamo molti vestiti, ricordo che mia mamma andava al mercato per vendere frutta e verdura, così a turno ci comprava qualcosa, a me comprava quasi sempre la stoffa rosa, per farmi cucire, poi il vestitino per la festa, e le scarpe erano quasi sempre bianche. Nel '66 precisamente a febbraio nacque il settimo fratellino, era molto bello, ma purtroppo non ricordo quale problema avesse, ricordo che mio padre lo portò degli specialisti ma non ci fu nulla da fare dopo una settimana morì. Quando avevo 10 anni mio padre decise di cambiare di nuovo casa, lì c'era l'acqua quindi era un vantaggio, ma non c'era ancora l'elettricità e così ogni sera, era un'impresa accendere il lume a "carburo", dovevamo sbrigare tutte le faccende
prima che facesse buio, altrimenti dopo non si vedeva più niente. Per riscaldarci avevamo il caminetto. Venne così il primo inverno e lì era molto più freddo. Per andare a scuola, dovevamo sempre andare a piedi, ricordo che c'era una scorciatoia, ma quando nevicava, dovevamo fare la strada lunga, io prima di andare a scuola, la mattina dovevo distribuire il latte a molte famiglie del paese, quindi dovevo alzarmi presto, perchè altrimenti facevo tardi a scuola. Iniziai le medie e così le mattine d'inverno, tra i libri pesanti e poi anche i contenitori del latte, dovevo fare piano le strade, erano ghiacciate e spesso piangevo, perchè le mani e i piedi mi si congelavano, il naso e le guance rosse, quando arrivavo al paese, trovavo quasi sempre qualche buona persona, che mi faceva riscaldare vicino al camino, oppure al "Braciere". Mi piaceva molto studiare, e anche se dovevo aiutare a casa, trovavo sempre il tempo per farlo, da piccola il mio sogno era di fare la maestra. Ricordo che in seconda media, una tragedia colpì la mia famiglia, mia sorella più grande di me, un giorno ebbe un malore, ricordo che io avevo una piccola radio a pile, stavo ascoltando, le "Hit Parade" le canzoni più ascoltate, degli anni '70, io avevo 12 anni ero fuori e a stento sentii la sua voce che mi chiamava. Corsi dentro e trovai mia sorella sul letto che appena mi sussurrò, sto male! muoio, corsi a chiamare mio padre e mia madre che si trovavano vicino casa, mio padre corse, a chiedere aiuto, allora come ho già detto non avevamo la macchina, ed il telefono, era un pò distante da casa. Arrivo un taxi che trasportò mia sorella all'ospedale, quella fu l'ultima volta che la vidi, viva. La rividi il giorno dopo il camera mortuaria, stesa su un freddo marmo, piangendo la sfiorai, ma anch'essa era gelida. Mi resi conto solo in quel momento che mia sorella era davvero morta, aveva 17 anni, e tra pochi mesi avrebbe dovuto sposarsi. La mia vita rimase, molto scossa da questo evento tragico, piano piano tutti cercavano di andare avanti, con il dolore nel cuore, dopo l'estate incominciai l'anno scolastico (terza media). Dopo la scuola aiutavo mia mamma, e badavo a mia sorellina, piccola di tredici mesi, era una bellissima bambina, dagli occhi neri e dai capelli chiari. La piccola verso l'autunno, si ammalò di un'intossicazione intestinale, così disse il medico un bravissimo pediatra del paese. Mio padre la portò a Cosenza, la ricoverarono in un ospedale pediatrico, dove rimase lì per circa un mese, e quando era guarita, mio padre chiamò all'ospedale se poteva andare a prenderla, ma una febbre improvvisa, che durò circa 3 giorni la uccise, e cosi dopo soli 4 mesi dall'altra mia sorella, ecco un'altro dolore, mia madre e mio padre erano distrutti. Passò un pò di tempo, finì la terza media, ricordo che quell'anno fecimo la gita scolastica, andammo a Pompei, la reggia di Caserta, la Corte Amalfitana e le grotte di castellana. Era la prima volta che mi allontanavo dal mio paese, ci divertimmo molto. Finita la scuola volevo continuare gli studi ma mio padre non ne volle sapere, perchè dovevo andare, in un'altra città vicina, dovevo viaggiare con il pullman. Restai circa, un paio d'anni a casa, ma niente era più come prima, mi
mancavano le mie sorelle, avevo paura di restare sola con una sorella piccola, gli altri erano tutti nei campi o a scuola, siccome era un posto un pò isolato a volte dovevo difendermi da persone che cercavano d'importunarmi. Quando ebbi 15 anni accettai la proposta
di
una
signora,
di
trasferirmi a casa sua, e di fare da baby
sitter
a
sua
figlia,
una
stupenda bimba di 3 anni. Restai in questa casa per circa 2 anni. Nel frattempo andando alla festa del mio paese, in onore del Santo Protettore, conobbi un ragazzo, che faceva il commerciante, io ero insieme a mio padre, lui mi vide e dopo un pò si mise a seguirmi. Il giorno dopo andai con una mia amica ex compagna di scuola, ci siamo parlati, e poi dati l'appuntamento, per il giorno seguente, nel paese dove io lavoravo. Piano piano mi affezzionai a lui, ci frequentammo per circa un anno, ci vedevamo per pochi minuti al giorno, e quando non potevo uscire ci parlavamo dalla finestra, lui veniva con la moto sotto casa, oppure mi telefonava, con un solo gettone parlavamo ore. Ricordo una volta, che mi chiese se potevamo andare al cinema insieme, mi dissero di si ma solo se portava sua sorella più piccola, dovette salire sopra a prendermi, poi mi accompagnò, fu una bella serata. Passarono i giorni e un giorno per dieci minuti di ritardo, mi dissero che non sarei più uscita di casa, io disperata scesi sotto e gli dissi, non ci possiamo più vedere, fu allora che mi propose e decidemmo di fare la "Fuijtina" avevo 17 anni e lui 20. Fu una tragedia per la famiglia per cui lavoravo, ed anche una delusione per i miei genitori. Lui che poi è diventato mio marito sconvolse anche la sua famiglia. Sua mamma aveva bisogno di aiuto perche aveva, ancora 3 figli a carico, il papà di mio marito era morto, quando lui aveva 16 anni. Il primo incontro, con la sua famiglia fu molto imbarazzante, temevo l'incontro, il giudizio, sopratutto di mia suocera. Ricordo il fratello, più grande che mi domandò da quanto ci conoscevamo, ed io risposi un anno e tre giorni, si mise a ridere perchè ricordavo anche i tre giorni. Piano, piano, conquistai tutti, ci volevamo molto bene con le sue sorelle. Piano, piano, anche mia suocera si affezionò a me ed io a lei, ci trovò una casetta ad andammo ad abitare da soli. Appena compìi 18 anni ci sposammo in chiesa. Volevamo dei bambini, ma all'inizio ebbi due gravidanze finite male, verso i 2 mesi di gestazione. Dopo circa un anno che ci eravamo sposati, nacque il primo figlio, fu qualcosa di indescrivibile. Dopo circa un anno nacque una bimba, bellissima molto desiderata anche lei. Dopo circa 2 anni, mio marito non avendo un lavoro stabile, decidemmo di andare in Germania, li c'era mia sorella maggiore, ci trasferimmo lì. Per un mese circa, ci ospitò lei, poi trovammo una casetta e
ci siamo trasferiti. Restammo lì per circa 18 mesi, intanto era nato il mio terzo figlio, un bellissimo bambino di 4 kg e 53 cm. La nostalgia ci assalì e così decidemmo di tornare in Italia, avevamo lasciato sempre arredata la nostra casa, per fortuna. Ne abbiamo passate di tutti i colori, durante la mia seconda gravidanza ricordo che io mia ammalai di asma, ero incinta di 5 mesi e ricordo, che fui trasportata all'ospedale, li mi presero, subito in cura, stetti malissimo, mi misero l'ossigeno e per tutta la notte un'infermiera mi controllò e alla mattina mi disse non speravo che c'è l'avresti fatta. Dopo per tanti anni mi curai l'allergia e stetti meglio. Mi misi a lavorare, aiutata da mio marito, perchè io non guidavo, era un lavoro di rappresentanza, facevo la consulente alimentare. Ho vinto tanti premi viaggi e soddisfazioni economiche. Piano, piano facendo grossi sacrifici, ci comprammo una casetta, da restaurare. Mio marito ha lavorato molto per renderla abitabile. Fu in questa nuova casetta che nacque il mio quarto figlio, forse ero più matura, gli altri, miei tre figli, erano grandicelli, ma questo bimbo l'ho cresciuto con più...non sò come dire, insomma mi sono goduto di più la sua crescita, forse perchè stavo meglio di salute. Dopo circa 7 anni decidemmo di vendere quella casa, e di cercarne una più grande, quella era un pò piccola per la mia famiglia. Ci trasferimmo un pò distante ma più o meno nella stessa zona. Lavoravamo sempre, anche se la famiglia, mia occupava tanto tempo. Dopo circa tre anni che abitavamo in questa nuova casa, mia accadde qualcosa di strano, tutto pensavo, potesse accadere ma non un'altra gravidanza, esattamente la quinta. Fui presa all'improvviso dal panico e dalla paura, e non sapevo cosa decidere anche perche avevo già 40 anni compiuti. Ci pensai molto prima, di decidere cosa fare, ma decisi di portarla avanti, la gravidanza, anche se poi, ho dovuto fare degli esami speciali a causa di alcuni esami inveduti e radioattivi, fatti prima della gravidanza, l'attesa fu lunga, mi sembrò un secolo, ma alla fine il risultato fu buono, e la gravidanza proseguì bene. Sapevo già che era una femminuccia e nel 1999 che nacque mia figlia. Fu coccolata da tutti. Crescendo incominciò a frequentare, la scuola dell'infanzia "Don Lorenzo Milani" e poi la scuola elementare quest'anno fa la quinta, anzi ha appena terminato l'anno e spero, che continui anche le medie. Ci siamo trovati bene in questa scuola, veramente bene!. Dimenticavo di dire che abbiamo comprato casa, più grande nel verde e vicino al fiume il sogno della mia vita. Ma in questi, ultimi anni, nella mia famiglia, ci sono stati dei problemi, ho dovuto affrontare cose che non avrei mai, creduto mi accadessero, proprio a me e alla mia famiglia. Ho conosciuto l'inferno, il buio più buio di mezzanotte, ancora non ci posso credere che un pò alla volta ci stiamo riprendendo. Abbiamo sofferto molto, tutti, tutta la mia famiglia. L'amore che sento per la mia famiglia, mi ha aiutato molto, ho combattuto per tenere unita la mia famiglia e anche se ho sofferto troppo, sono contenta di averlo fatto, di essermi comportata così. I miei figli adesso sono grandi, solo la piccola è sempre a casa con me.
Ringrazio Dio di avermela mandata perchè, adesso è qualcosa di grandioso, di prezioso. E' molto attaccata ai fratelli e anche alla sorella che adesso è sposata, e speriamo affinchè il signore gli mandi un nipotino. Se penso, alla mia infanzia, mi sembra che sia passato un secolo, avrei tante cose ancora da raccontare, episodi belli e brutti, come il lutto di mio fratello morto per un incidente sul lavoro a soli 36 anni ed anche la morte dei miei cognati e di mia suocera che per me è stata una seconda mamma. Lei mi ha sostenuto, e consolato, durante questo brutto periodo che ho passato, in famiglia. Ringrazio e prego dio che faccia rimanere in vita la mia famiglia. Ringrazio dio di avere ancora in vita i miei genitori, spero di avere più tempo da trascorrere con loro. Penso che dopo tutti i momenti della mia vita brutti, la vita va vissuta giorno per giorno. Mi hanno insegnato che solo alla morte non c'è riparo, per tutto il resto si deve e si può combattere.
Daniela
Elena Delle storie che ho letto ho capito che ti danno tante emozioni e ti fanno capire che anche a quell’epoca c’era tanta povertà ma c’era tanto amore, quello che ora non c’é le storie che ho sentito sono delle storie bellissime che mi fanno capire che c’era pure tanta cattiveria ma dove c’é l’amore c’é pure tanto odio e questa storie mi sono piaciute assai perche? Dove c’é l’amore c’é tanta pace e vince su tutto mi ricordo che quando ero piccola mia mamma mi raccontava ogni sera una fiaba e dopo un po’ mi addormentavo e facevo dei sogni bellissimi. Le fiabe sono una cosa che mi piacciono assai perché c’e tanto amore. Dalle seconde letture che abbiamo letto mi hanno dato tante emozioni forti perché c’era pure a quell’epoca gente un po’ stupida che si convinceva niente solo che alla fine la saggezza vinceva su tutto perche la gente si fidava di altra gente e poi alla fine si facevano convincere per poco. E poi c’è pure gente un po’ farfallone che raccontava tante bugie e mi sembravo un po’ pazzerello, solo facendo cosi faceva passare il tempo alla gente mentre l’altra storia mi ricorda che una persona può soffrire senza avere amore perché c’è gente che illude parecchio. A me non piace perché mi piacerebbe un mondo d’amore ma purtroppo non è cosi. Queste tradizioni sono belle perché fanno capire che alle feste di Natale si tiene ancora . E’ bello quando passano nel periodo di Natale e cantano la strina solo che anche se c’è ancora se persa questa tradizione. Io penso che non ci sono più le famiglie unite come una volta viviamo in mondo pigro senza amore. Mentre la via crucis è una cosa bella per i bambini perché s’impegnano a preparare i preparativi e me piace assai. Mentre io non credo alla gente che dice di guarire le persone perché per me riesce solo la medicina che arriva fino in alto . Nel periodo delle feste che ero una bambina mi ricordo che la mia mamma preparava delle cose deliziose soprattutto alla vigilia di Natale dei dolci e soprattutto calzoni e li mangiavo subito perché caldi si scioglieva la mozzarella e diventavano una squisitezza e ci riunivamo tutti insieme . Era una grandissima festa fatta di tanto amore e pace e che rimane nel mio grande cuore per sempre. Della magia nera ne ho sentito parlare perché dove abitavo prima c’era tanta gente che ci credeva per esempio se ti regalavano un elefantino significava che avresti avuto tanta fortuna; ma io non ci credo per me è solo per fare pubblicità. Io credo nei miracoli perché ho tanta fede perché sei anni fa una persona cara ha subito un intervento e ho fatto una preghiera forte ad un santo e da allora faccio la tredicina ma soprattutto una fede forte perché il credo nei miracoli. Per quanto riguarda le canzoni, per lo più le canzoni d’amore, raccontano di vere e proprie storie d’amori contrastati con dei veri propri doppi sensi. La storia che abbiamo
ascoltato, parla di una ragazza che si reca sempre a prendere l’acqua e qua incontra un uomo innamorato di lei a cui chiede dell’acqua ma essendo vicino a una fontana non è quella la vera richiesta ma l’amore stesso della ragazza. Ma la ragazza stessa dice all’uomo di stare attento perché certe cose non si fanno per strada ma l’uomo per nulla intimorito risponde che anche se dovrebbe sbagliare la sposerebbe. L’altra parla di un signore che ingannando la mamma della futura sposa riesce ad entrare nella casa travestito da monaco e così si sposa anche se i genitori sono contrari.
Elena
Enzo Le tradizioni popolari del nostro quartiere nel passato erano molto vissute, partecipavano sia grandi che piccoli. Si iniziava dalle prime festività di Natale, cioè dalla festività di San Nicola, Santa Lucia e l’Immacolata e si facevano delle grispellate. La sera della vigilia di Natale si organizzava la veglia in chiesa, si pregava, ma si discuteva anche del significato della festa. Poi si aspettava il Capodanno per fare il falò la notte di San Silvestro e dopo la mezzanotte partire per andare a fare “ la Strina” ad amici e parenti. Ricordo un anno che dopo aver lavorato ad un ristorante per il veglione, verso l’una di notte sono andato a trovare alcuni amici che ancora erano al falò. Insieme abbiamo deciso di andare a cantare “ la Strina “ senza musica. All’inizio eravamo in quattro, ma mi ricordo che ci ritrovammo alle sette di mattina con quindici persone con organetto e chitarra, non mi ero reso conto che strada facendo ogni amico si era associato. Dopo le feste di Natale noi ragazzi ma neanche gli adulti si aspettava il Carnevale, in cui ci travestivamo da “farzari” e insieme agli adulti si andava a fare scherzi ad amici e parenti. Dopo di che iniziava la Quaresima e molti anziani mettevano un pupazzo davanti la porta con cinque penne di gallina, dei quali ne toglievano una a settimana. Molta gente ci teneva molto a fare il voto di mangiare solo pane e acqua. Noi ragazzi aspettavamo la settimana di Pasqua perché c’era l’usanza di fare i taralli e la cuzzupa per poi andare alla Pasquetta a fare la “galinea”. Ci univamo insieme due o tre famiglie e si andava in collina dove c’era un prato e insieme mangiavamo quello che avevamo portato, specialmente “ la Cuzzupa “ il dolce del giorno. Una volta quando ero piccolo e mi sentivo poco bene, mia madre mi portava da una vecchietta, la quale mi guardava e mi diceva delle parole sante. Dopo qualche giorno mi sentivo bene allora dicevano che eri stato affascinato e si credeva molto al malocchio. Comunque sono rimasto molto impressionato quando hanno calmato i vermi ad un bambino, ho visto mettere dei fili di cotone a pezzi in un bicchiere e dicendo delle parole sante, li vedevo saltellate fino a quando la vecchietta finiva di parlare.All’inizio ci credevo molto a tutti i malocchi che mi raccontavano, ma crescendo mi rendevo conto che ad ogni cosa c’è una spiegazione. Quando ero ragazzo alle liturgie religiose partecipavo molto, credevo molto in Dio e Gesù i quali mi hanno dato sempre la forza per superare qualsiasi ostacolo, ancora oggi anche se non partecipo alle liturgie o alle sante messe e a volte lo bestemmio anche, lo sento sempre con me e dico che il Signore è grande e mi aiuta sempre a superare il mio problema. Pensando nel tempo
passato mi ricordo quando ero piccolo, i zii anziani mi raccontavano tante leggende, adesso dico leggende ma all’epoca per me erano fatti veri da come mi raccontavano,infatti nella mia testa mi facevo molti illusioni. Mentre ero in giro con altri ragazzi, per le strade del quartiere a volte andavamo ai piedi del castello, perchè dentro non potevamo entrare perchè c’era un guardiano,cercavamo in giro se potevamo trovare qualcosa di antico che riguardava il castello. Una volta un mio amico più grande mi fece vedere un pugnale vecchio e mi disse che l’aveva trovato nel castello forse la curiosità mi portava andare al castello, chissà se anch’io avrei avuto la fortuna di trovare qualcosa. Mi ricordo che volte dopo il racconti degli anziani dei quali mi raccontavano della chioccia e dei pulcini d’oro,del cavaliere che girava intorno al castello la gente che sentiva lo zoccolio del cavallo, mi suggestionavo essendo che abitavo a ovest del castello non mi prendeva sonno e stavo allerta per sentire qualche rumore o zoccolio. Quando ero adolescente giravo molto nel quartiere rimanevo anche fino a tardi con altri ragazzi fuori di casa perche giocavamo al gioco chiamato “ libero” che ci appassionavano molto, ma una volta rientrando a casa, sentivo qualcosa dietro, il quale mi fece rabbrividire, girandomi non vidi niente, ma quando ritornai a camminare vidi un vecchietto che come giro l’angolo non lo vidi più, lo raccontato a mia madre e mi disse che forse era uno spirito che andava in giro perchè non aveva trovato la sua pace. Nel quartiere negli anni passati, mi ricordo che nelle vie succedevano delle brighe tra famiglie ma all’epoca non mi rendevo conto di queste famigli erano rivali per questioni di terreni fabbricato e altri interessi ma notavo che anche portavano molto rispetto. Nel passato ci sono state tante storie che gli anziani ci raccontavano,anche quando ero piccolo c’erano nu “ciùatu du quartieri” u “pazzu pipitularu” (cioè quello che parlava sempre) ma anche loro avevano una vita quotidiana che parlavano avanti nel loro modo di vedere anche se altre persone si divertivano alle loro spalle. Tutto questo succedeva perche non si andava a scuola e cera molta ignoranza, si andava a lavorare per portare qualcosa a casa perche c’era povertà ognuno cercava di fare qualcosa. Mi raccontava mia madre che andava in montagna per fare lo scambio di merci” patate con fagioli, arance con castagne etc” mi raccontava sempre mia madre che un giorno
mentre andava in montagna per lo
scambio di merce , con suo padre, incontro un vecchietto che la fermo e gli disse se voleva cambiare le patate con fagiola, il vecchietto si inoltrò nelle boscaglia per evitare il sentiero e mia madre ingenua lo stava ad aspettare, il padre vedendola ferma le domandò perchè non camminasse, e lei gli raccontò l’accaduto, il padre dopo averla ascoltata che li vicino era morto un vecchietto.
Una volta molta gente per sentirsi importante ho per avere più rispetto si aggregava ad una famiglia onorata e rispettata detta fibbia. Sul racconto si parlava del povero Antonio che entrato nella fibbia, doveva uccidere una persona e dopo per poter vivere dovette lasciare la famiglia per emigrare,anche se questo succedeva molti anni fa, ma anche tutt’oggi se fa uno sgarro alla mafia deve far perdere le tracce non basta solo emigrare all’estero perché con la tecnologia di oggi ti trovano in capo al mondo. Mi ricordo quando ero piccolo e moriva qualcuno le donne vicine di casa e i familiari del morto facevano la veglia e piangevano a cantilena e nel l’oro pianto raccontavano un po’ la vita del defunto. In ogni quartiere penso che ci siano personaggi particolari simpatici,scherzosi, scemi etc.. che si fanno volere bene,anche se si gioca sulla loro vita. Mi ricordo che nel quartiere c’erano due o tre persone più o meno della mia età che ci giocavamo e li scherzavamo ma infondo gli volevamo bene, li portavamo con noi ai campeggi degli scout. Ma ho notato che negli anni sono cresciuti anche con l’aiuto di qualcuno a formarsi una famiglia e oggi vedo che hanno figli.
Enzo
Lulù Oggi è iniziata una nuova esperienza grazie alla possibilità che mi ha dato il 3° circolo “Don Milani”. Ascoltando alcuni brani del libro su San Teodoro scritto da “Don Bonacci” sono riuscita a rivivere sensazioni che da tempo non sentivo più. Il motivo è stata la lettura della leggenda sulla “tana delle fate” che mi ha fatto ricordare una vecchia leggenda
del
mio
paese
che
parla
anch’essa delle fate. Le similitudini sono tantissime dai luoghi incantati e dalla natura incontaminata al rispetto che queste creature
fantastiche
riscuotevano
dalla
gente. Oggi per la gran parte di noi, presi dalle rapidità degli avvenimenti e degli impegni familiari e lavorativi, un luogo vale l’altro. Visto un albero o un torrente visti tutti, non ci si sofferma più ad ammirare l’unicità delle cose o a pensare quanti episodi di vita si sono svolti in quei luoghi. Non è una cosa facile dopo anni di vita “frenetica” lasciarsi andare ed immaginare, soffermandosi in qualche posto, quali e quante sensazioni si siano vissute in quel luogo. Oggi ho deciso di provarci raggiungendo a piedi i luoghi della mia infanzia. Dopo un po’ di “vergogna” per quello che stavo cercando di fare, sono stata improvvisamente colpita dal silenzio. Non era così: ricordo il vociare delle anziane intente a ricamare sull’uscio delle proprie case, gli schiamazzi dei bambini che si rincorrevano, le urla dei venditori, di tutto ciò non c’era più nulla, il tempo aveva trasformato tutto o quasi. Allora mi sono chiesta del perché non mi ero mai soffermata, nel corso degli anni, in quei luoghi (dove fra l’altro passo spesso) per cercare qualche ricordo della mia fanciullezza. Allo stesso modo mi sono chiesta come mai quella leggenda che conosco da tantissimi anni non mi aveva mai suscitato particolari emozioni. E’ strano pensare che sia bastata la sola lettura di un libro a far nascere la voglia di ricercare nuove emozioni. Queste sensazioni mi incuriosiscono molto, infatti ho deciso di rivisitare con uno spirito diverso tutti i luoghi della mia infanzia, tentando di coglierne le emozioni e la bellezza. Come mi ero riproposta oggi mi sono recata sul monte Reventino, in un luogo chiamato “a fassa da gghiasa”, conosciuto come il regno delle fate portando, anche, un libro di poesie del prof. F. Mastroianni nel quale è riportata la poesia “Mi cantano le fate del mio monte”. Dopo averla letta più volte non riuscivo, sinceramente, a cogliere l’essenza di quei versi. Intanto il tempo passava e
ormai incominciava a calare il sole, così decisi di tornare a casa, il mio tentativo di riscoprire quei luoghi era andato male. Mentre stavo per andare via, mi girai per dare un ultimo sguardo e come per incanto le nuvole che ricoprivano il cielo erano scomparse e davanti ai miei occhi si apriva uno spettacolo maestoso. Il mare sembrava vicinissimo, quasi potessi toccarlo con una mano; il sole incominciava ad abbassarsi dietro le montagne; un leggero venticello muoveva le fronde degli alberi. Quel posto fino a poco tempo prima insignificante incominciava a prendere vita. La natura prendeva il sopravvento e a un tratto mi vennero in mente alcuni di quei versi che avevo letto e riletto più volte. Uno in particolare mi sembrò descrivere quel luogo “Quassù ritroverai i magici reami”. Comprendevo così che alcune volte le descrizioni che si trovano nelle leggende si possono confondere con la realtà. Tutto sta, forse, nel trovarsi nel momento giusto al posto giusto. Questa mattina appena uscita dalla chiesa, mi sono incamminata per raggiungere la casa dei miei genitori, il caldo era opprimente e per cercare un po’ di ombra ho svoltato per le “vinelle” che corrono parallele al corso principale. Dopo aver percorso alcune centinaia di metri sentivo nell’aria un profumo di sugo che inondava tutto il vicolo che proveniva dalla casetta di una vecchietta. Man mano che salivo l’odore andava svanendo, arrivata in cima alla viuzza il mio sguardo si posò su una finestra della casa di zia Carmelina una carissima vecchietta che di tanto in tanto ci regalava delle caramelle. Ricordo, infatti, che soprattutto nel periodo estivo quando si avvicinava l’orario per preparare il pranzo - il vicolo era completamente saturo di odori di ogni tipo dai peperoni fritti al soffritto del sugo - tutte le bambine del mio quartiere, con la scusa di giocare, si recavano nelle vicinanze della casa di zia Carmelina sicure di ricevere quel goloso regalo.
Mi sono messa a sorridere e ho
pensato come un semplice odore aveva fatto ritornare nella mia mente ricordi che sembravano essere svaniti per sempre. La lettura che oggi più di tutte a stimolato i miei ricordi, è stata quella di “Lo zio Pasquale”. Quando ero bambina in paese c’era la consuetudine di mandare d’estate al “mastru” o alla “maistra” tutti i bambini dai 6 anni in poi. I maschietti di solito andavano dal calzolaio, dal falegname o dal barbiere; per le bambine, invece, la scelta era unica la scuola di ricamo. La differenza sostanziale tra le varie “scuole” era costituita dalla diversa esperienza di vita dei vari maestri. La mia “maistra” era la signora Teresina, bravissima nel ricamo, ma di una severità spaventosa. I “mastri” dei maschietti erano anch’essi severi, però più simpatici. In particolare ne ricordo due “mastru Duminicu” e il fratello Ernesto. Per ascoltare le loro storie, dato che
era vietato alle bambine andare nelle loro botteghe, ci mettevamo nei pressi dell’entrata dei magazzini per ascoltare. Per la verità non riuscivamo ad ascoltare vere e proprie storie, perché di continuo ci rimproveravano di non stare li e di andare via. Alcune cose però sono rimaste nella mia memoria indelebili, che solo a pensarci mi viene da ridere. Gli episodi riguardavano le loro esperienze di guerra. Il primo episodio era raccontato dal signor Ernesto che durante la traversata per andare a combattere in Africa aveva viaggiato con una nave talmente grande che a poppa facevano la guerra e a prua non ne sapevano nulla; rispondeva il signor Domenico che durante il suo soggiorno in Africa un intero battaglione si mise all’ombra di un cavolo. O come non ricordarsi dell’automezzo militare che parcheggiato al sole si scioglieva a causa delle forti temperature e per finire l’incontro con Tarzan. Al dire il vero i due simpatici signori, come tanti altri miei concittadini, la guerra in Africa l’avevano fatta davvero e qualcuno si era fatto pure qualche anno di prigionia. Noi bambini, senza internet e con poca televisione, rimanevamo affascinati da quei racconti che venivano considerati veritieri. A distanza di qualche anno, grazie alla scuola scoprimmo, che quei racconti erano in realtà delle bellissime bugie. Pur sapendo la verità, il cuore ci impedì di correggere i due vecchietti, era bello ogni tanto sentirsi raccontare quelle storie con tante enfasi e partecipazione. Mentre rileggevo alcuni racconti di Don Bonacci la mia memoria si soffermava, anche se in maniera molto labile, sul ricordo del rito funebre. Quello che si viveva con maggiore partecipazione era lo stato d’animo dell’intera “ruga”. Le donne della famiglia erano tutte vestite di nero con i capelli sciolti, mentre tutte le altre donne, che partecipavano alla veglia, erano vestite di scuro. Gli uomini anch’essi vestiti di nero portavano la barba incolte e lunga. Era usanza assistere i familiari, colpiti dal lutto, in tutte le loro esigenze compreso il cibo. La cosa più strana che mi ricordo era l’arrivo ogni tanto di qualche vecchietta che raccontava di aver ricevuto in sogno qualche “richiesta” di un familiare defunto. Poco prima della chiusura della bara, nella quale mettevano gli oggetti e gli indumenti più cari al defunto, si infilava l’oggetto “richiesto” nel sogno sicuri che quello oggetto sarebbe arrivato a destinazione. Oltre alle grida, alle urla e alle nenie recitate dalle donne più anziane l’atteggiamento dell’intero paese che era sinonimo di partecipazione era il così detto “accompagnamento”. Questa antica usanza consisteva nel seguire in corteo la bara fino al cimitero come ultimo omaggio. Oggi le cose sono molto cambiate i funerali si svolgono con una minore partecipazione a alcuni di quelle usanze sono ormai scomparse del tutto. Oggi il mio interesse si è rivolto verso alcuni avvenimenti storici sui briganti che ancora qualcuno
ricorda o conosce. Il mio paese durante il periodo francese e durante il risorgimento, era un perfetto nascondiglio per tutte quelle persone che si davano al brigantaggio. Numerosi furono gli episodi che si verificarono nel territorio Platanese. Gli episodi più noti si riferiscono al periodo francese quando il brigante “Panedigrano” (di Conflenti) catturò al passo di Acquavona un drappello di soldati francesi e lo scrittore Courier. Trasportati nel covo del brigante i francesi vennero torturati per vendicare la morte del figlio di Panedigrano, avvenuta ad Amantea. Durante le torture l’unico a mantenere un certo contegno fu lo scrittore Courier. Il brigante colpito dal coraggio dimostrato, lo fece liberare e lo riaccompagnò nei pressi di Platania da dove poi raggiunse facilmente Nicasto. L’altro episodio riguarda un certo Cesare Mastroianni, che era un collaboratore delle truppe francesi. Subito dopo l’abbandono della Calabria da parte dei francesi, una banda di briganti riuscì a catturare il Mastroianni e portatolo in un bosco lo legarono mani e piedi a dei cavalli fecendolo dilaniare. Subito dopo l’unità d’Italia, il paese era un punto di ritrovo e di
assistenza
dei
numerosi
briganti
che
vivevano sulle montagne circostanti. Il fatto che il paese fosse dalla parte dei briganti, era a conoscenza delle autorità militari che avevano fatto istallare al centro del paese, nei pressi del attuale farmacia, un gancio con appesa una gabbietta metallica. In questa gabbietta venivano esposte, per lungo tempo, le teste mozzate dei briganti catturati come monito per tutta la popolazione. Potrei citare, inoltre, tantissimi altri episodi raccontati dagli anziani del paese che riguardano tesori, passaggi segreti, ecc. ma la poca certezza sulle fonti non consente di accertare la veridicità dei racconti. Queste del brigantaggio sono delle strane storie fatte di lutti e di sangue alle quali non si sottrassero i francesi, i piemontesi ma nemmeno i meridionali. In questa data nella quale ricorre il solstizio d’estate, quasi come un segnale, le nostre letture si sono soffermate sulle tradizioni popolari. Pochi giorni prima si era tenuto a Lamezia Terme uno spettacolo denominato “La festa del sole” che riguardava appunto le credenze dei popoli circa il solstizio. Queste due sollecitazioni mi hanno stimolato nel ricercare notizie sulle tradizioni del mio paese. Purtroppo tante e tante tradizioni sono ormai scomparse non solo nella vita quotidiana, ma anche nella memoria delle persone. Alcune di queste riguardavano prettamente il mondo contadino in particolare la vendemmia, la mietitura, l’uccisione de maiale ecc. che il passaggio alla vita moderna ha fatto completamente sparire. Nella mia ricerca passando da casa in casa ho ripercorso alcuni vicoli dove la memoria mi ha riportato indietro nel tempo, in particolare al periodo della vendemmia. Le
operazioni di raccolta erano effettuate prevalentemente dalle donne che lungo le ripide “lenze” dei vigneti trasportavano sulla testa, in perfetto equilibrio, delle enormi ceste colme di uva. Il prezioso carico veniva trasportato, nei tradizionali contenitori in legno denominati “ruvaggi”, sul dorso degli asinelli che sollecitati da grida e imprecazioni raggiungevano i “parmianti”, dove l’uva veniva scaricata è “ciampata”. La cosa che più attirava la mia attenzione era, però, il rumore cadenzato del torchio e il nuvolo dei moscerini che stazionavano nel vicolo sorvolando quanto era stato pigiato.
Le mie
ricerche però non sono state del tutto vane ma ho riscoperto due tradizioni particolari una delle quali in pochi ricordano. La prima, in uso fino a pochi anni fa, riguarda la processione del santo patrono - San Michele Arcangelo - durante la quale la gente appendeva, in segno, di voto dei soldi su un drappo chiamato “spada”. La seconda riguarda la processione che si teneva quando le avversità atmosferiche colpivano le produzioni agricole. Lo scopo di questa processione era quello di rialzare delle croci infisse sulla cima del monte Reventino, che cadute provocavano l’accanimento degli eventi atmosferici sul paese. La mia ricerca anche oggi è andata avanti riuscendo a individuare altre curiosità e scoprendo che, anticamente, la popolazione del mio paese credeva molto nell’efficacia della magia. Alcuni ricordi di mia nonna riguardano le “raccomandazioni” fatte dalla sua bisnonna circa la caduta della lucerna e dell’olio che era di cattivo augurio. Si credeva che le “pullule” (farfalle notturne) che di sera entravano in casa attratte dalla luce fossero le anime dei defunti che venivano a visitare i parenti, oppure che gli spiriti dimorassero dove era stato ucciso qualcuno e che per allontanarli bisognava fare una “conicella”, infine che era necessario raccogliere i panni dei bimbi, stesi all’aperto, prima che diventasse buio perché si pensava che durante la notte gli spiriti maligni se ne impossessassero. Una delle usanze più curiose era quella di realizzare dopo la nascita di un bimbo “l’abitiallu” una sorta si piccolo manichino riempito da 13 chicchi di grano, un pò di sale, un pò di ruta e un’immaginetta di un santo. Tale creazione era ritenuta efficace contro l’affascino e gli spiriti maligni. Una delle poche tradizioni che ancora resiste e quella legata alla festività religiosa di Santa Lucia. In questa occasione, infatti, chi ha ricevuto una grazia realizza, per voto, i “panicialli e Santa Lucia” che dopo essere stati benedetti si distribuiscono agli amici ed ai parenti con la raccomandazione di pregare prima di mangiarli. Purtroppo tante tradizioni e usanze, sicuramente legate ad alcuni riti pagani che con l’avvento del cristianesimo subirono delle modificazioni, sono andate irrimediabilmente perdute. La speranza e che una maggiore considerazione del nostro passato possa garantire alle poche tradizioni rimaste il perdurare nel tempo.
SANTO ROSARIO DI SAN MICHELE San Michele putentissimu, chillu patre nostru ternissimu duna a nue pace e ripusu o gran principe gloriosu. O eternu patre e cu tutti li santi e cu l’angeli e cu l’arcangilu e cu la rigina de l’angili e cu san Michele arcangilu. Gloria allu patre e allu figliu e allu spiruti santu San Michele che nu gran santu Nu gran santu de valure San Michele lu prutetture E guardatilu che misu cumu re de paradisu E guardatilu che natu cumu re de ncurunatu. Beatu San Michele gloriosou Beatu San Michele incurunatu Pigliate l’anima mia quandu tu viani Principe d’angelo allu cialu si chiamatu O Principe du cialu Chi difiandi l’anima mia Quando stai nell’angonia vene la tua ternità
Questa antica preghiera viene recitata, anzi cantata, durante la processione che si tiene il 29 settembre per le vie del paese. Sulla probabile epoca di stesura della preghiera è da considerare che la data di ultimazione della chiesa di San Michele Arcangelo risale al1600/1700.
‘A NOVENA Ad una festa, religiosa, in genere, ci si arriva con una prescritta preparazione fatta di prediche durante la "novena". Si definiscono così, i nove giorni prima di una festa religiosa. Nei nove giorni prima del Natale, una comitiva di giovani forniti di vari strumenti musicali (alcuni anche originali) percorreva, prima ancora dell’alba, le vie del paese, suonando arie natalizie, pastorali ed altri eco e ricordo di antiche nenie accompagnate dal suono dei pifferi e delle, raramente, zampogne degli antenati pastori. Il suono di questa improvvisata "banda" aveva il compito di svegliare gli abitanti del passe ed invitarli alla messa che veniva celebrata appunto prima dell'alba, per tutti i nove giorni precedenti la festività natalizia. La comitiva di suonatori si fermava, poi, in un vicolo del paese dove una famiglia, diversa a seconda dei giorni, apriva la porta e ospitava e rifocillava i suonatori. La gente del paese intanto, si avvicinava verso la chiesa. La mattina della vigilia, poi, la comitiva di suonatori della novena faceva il giro del paese a raccogliere qualche offerta con cui organizzare un pranzo da consumare in allegria. Ora l’usanza, sparito il movente religioso - devozionale della messa prima dell'alba, viene, a volte, ripresa. In epoca ancora più antica il suono dei “novenari" che si levava nel silenzio delle campagne quando non partiva addirittura da una delle contrade che circondano la zona, svegliava anche i contadini e i pastori, la povera gente delle campagne insomma, che accendeva un tizzone con cui farsi luce e scaldarsi per via e si avviava verso la chiesa dal cui campanile ai levavano gli primi rintocchi. Di ciò resta, ora. solo un ricordo sia perchè le campagne sono state spopolate dalle emigrazioni sia perchè alla novena, è bene dirlo non partecipa più nessuno. Quale è il motivo di questo cambiamento? E' forse dovuto al fatto che la “novena" ha perduto la sua funzione sociale, nel senso che costituiva un pretesto per rincontrarsi e per intrecciare nuove amicizie, scegliere il marito o la sposa ? Certo oggi, rispetto a ieri si ha più, almeno nella zona, possibilità di scambi interpersonali anche se si dubita, alquanto, dell'intensità e della sincerità di qualsiasi relazione tra le persone. O forse perchè il subalterno oggi, difficilmente si commuove e partecipa al rituale religioso spinto da un labile ricordo dell'infanzia e alla ricerca di quella gioia e di quella gratificazione che provava allora ? Ora delle "novene” di cinquanta anni fa, resta solo un ricordo fra le persone anziane, le quali nel riferirne i modi e la tecnica di svolgimento fanno trapelare la nostalgia del tempo passato e il loro turbamento per il nostro tempo. ‘A STRINA La strina si cantava, e da alcuni anni si canta ancora, dalla sera di S. Silvestro fino all’Epifania con lo scopo di portare gli auguri di buon anno alle famiglie dei parenti, dei compari e degli amici. Gli "strinari" più attrezzati accompagnano il loro canto con la
fisarmonica o con la chitarra, ma i più, specialmente i bambini, la cantano senza accompagnamento alcuno o, al massimo, si accontentano dello strano rumore di certi coperti di latta, attaccati ad un palo, detto "tirri tirri", che viene agitato ritmicamente dal capo "strinaro", durante il canto della strina. Il canto iniziava per lo più con le parole : Con questo stile e con la stessa tonalità si augurava ai componenti della famiglia ogni bene. Dopo l’avvio, il coro intonava le sue richieste, facendo un elenco dei doni desiderati secondo il modulo :
Fanne a strina e fannilla d’arangia,
Al padrone di casa, in particolare, tra il
mu te sta buanu stu figliu chi ciange.
serio e il faceto veniva cantato :
E fhà ….
Fanne la strina e fannilla de nuci,
Fanne la strina e fannilla de ficu,
qua quando mauri te portamu a cruce
mu te sta buanu stu bellu maritu. E fhà …. E fhà …. I componenti della famiglia venivano interpellati secondo il modulo : Fanne la strina e fannilla de mele,
ch’era llu jure du parentatu.
mu te sta bona sta bella mugliere.
E fhà ….
E fhà ….
Un me fare jestimare a Santu Roccu, ca ‘a nive m’è arrivata allu jinùacchiu.
Ammianzu sta casa ce pende na catina, mu potere fhare ‘na fhigghja regina.
E fhà ….
E fhà ….
E un me fhari jestimare a Santu Vitu ca ‘a nive m’è arrivata allu villicu.
E de ________________ mi ndavia scurdatu
E fhà ….
Dopo che la comitiva aveva cantato sulla soglia di casa accompagnandosi con il suono dell’organetto o di altro strumenti, si sentiva all’interno qualche rumore o si vedeva muovere qualche lume ed allora la comitiva riprendeva il canto dicendo : Ammianzu a casa ce cantau nu gallu
a rrobba mu te trase ccu llu carru
E fhà …. E fhà …. Siantu lu sgrusciu de lu catarattu Cha Diu mu ti mandera tantu vinu,
piansu ca me la piglia de lu tavulatu
quanta acqua porta u iume allu pendinu. E fhà …. E fhà …. Siantu lu sgrusciu du manigliune Vijiu ‘na lucicchia vascia vascia,
criju ca mo me scinde nu butigliune
criju ca mo se rapere lla cascia E fhà …. E fhà …. Siantu lu sgrusciu de lu tavulinu, Siantu u sgrusciu du tavulatu
è llu patrune chi piglia llu vinu
crjiu ca mo me scinde nu vuccellatu E fhà …
A LINCELLA Il dialogo avviene tra un ragazzo e una ragazza che si incontrano nei vicoli di San Teodoro. Apparentemente il dialogo risulta alquanto normale, anzi quasi banale nascondendo, invece, tra le righe la richiesta da parte del ragazzo di ottenere l’amore della giovane. A quei tempi non era affatto facile per le donne, dimostrare apertamente i sentimenti, senza il permesso dei familiari. Tutto ciò di deduce facilmente dall’esplicito riferimento che la ragazza fa alle “palate” che avrebbe ricevuto dalla mamma. Nell’ultima parte si fa accenno all’onore della ragazza e sull’eventuale necessità di “riparare”. Il ragazzo conscio di questa situazione parla di “pagamento” riferendosi, ovviamente, al matrimonio riparatore, consapevole che tale rimedio dovrà essere poi accettato forzatamente dall’intera famiglia.
FILASTROCCA NATALIZIA “Maruzzella” U Bombinu un nde vò Maruzzella, Maruzzella,
ca cce vruscia a vuccuzza;
tu ca fhai sta suppiccella
a vuccuzza l’ha chjina ‘e mele,
e a fhai ccu pane e vinu,
viva, viva San Michele.
u mbitamu u Bombinu ? San Michele è jutu supra, ppemmu sona e campane. E campane su’ sonate, viva, viva l’Eternu Patre.
Lulù
Luna Piccola, ti andrebbe di fare una passeggiata con la tua mamma? “ Volentieri! E’ tanto che non trascorriamo un po’ di tempo assieme!” Ecco come è iniziato il mio viaggio nei ricordi di bambina quando seduta su una sediolina ascoltavo i racconti di mio nonno. Era il momento più bello della giornata. Attraverso le sua parole entravo in una dimensione diversa. Tutto: tv, giocattoli, bambole perdeva d’importanza. Le strade si coloravano di una luce nuova, E’ da lui che ho saputo le notizie storiche, leggendarie e magiche che ora ti dirò. Il mio è un piccolo paese adagiato su una collina che domina la pianura di Lamezia Terme, si chiama Zangarona dal macedone Zan Gheron ovvero Grande Corona nasce da un insediamento di soldati albanesi i quali ricevettero in dono dal re Alfonso I° di Aragona alcuni terreni che erano stati confiscati ai Baroni ribelli. Ben presto quei soldati
divennero
abili
contadini
e
resero
rigogliose quelle terre. Dopo soli 50 anni dal primo insediamento si contava una comunità di 700 famiglie che si riuniva in una piccola chiesa. Ma la notte di Natale del 1498 un violento alluvione spazzò via il paese. I nostri antenati non si fecero abbattere, anzi, ricostruirono le abitazioni ed i monaci Brasiliani iniziarono a costruire una maestosa chiesa ed un monastero. Il terremoto del 1638 distrusse il convento e , non potendo più ricostruirlo, i monaci si trasferirono nella provincia di Cosenza. Negli anni tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600 Zangarona, sotto l’influenza dei vescovi di Nicastro, abbandonò il rito Greco per abbracciare quello latino e proprio nello stesso periodo iniziarono i lavori per la chiesa intitolata alla Beata Maria S.S. delle grazie in un luogo, che la tradizione vuole sia stato scelto proprio dalla miracolosa statua della Madonna. La sua festa si celebra il 2 luglio, in quella occasione il paesino si popola di devoti e soprattutto ritornano da ogni angolo d’Italia e del mondo gli Zangaronesi che per cercare lavoro e fortuna sono dovuti emigrare…sembra che la Mamma Celeste li chiami a sé per non far loro dimenticare che li ha visti nascere. Una leggenda narra che nel Golfo di Sant’Eufemia fosse affondata una nave ed in seguito sulla spiaggia venne ritrovata una splendida statua in marmo bianco raffigurante la Madonna, in molti si radunarono per ammirarla e cercare di sollevarla ma non vi riuscirono fino a quando un umile bovaro di Zangarona le si accostò ed essa si alzo miracolosamente e si posò sul suo carro…segno inequivocabile di quale volesse che fosse la sua destinazione. Ed ancora oggi la possiamo ammirare in tutto il suo splendore. Zangarona fu rifugio tra il 1509 e il 1511 di numerose famiglie ebraiche perseguitate, qui costruirono le loro case
dando vita al ghetto chiamato “Judeca”. Ma la parte più bella veniva quando mio nonno mi raccontava delle grotte che sui trovano alla fine del paese. Esse, secondo la tradizione, erano le dimore delle fate protettrici di Zangarona, le quali però oltraggiate da uno dei suoi abitanti, le abbandonarono, non prima però di aver maledetto il paese impedendogli di progredire. Quelle stesse grotte sono state anche rifugio di briganti preistorici, ma qualcuno racconta ancora che la magia delle fate impedisca a chiunque di sostarvi… Sulla collina ad est del paese si trovano i segni di insediamenti preistorici risalenti al neolitico, ovvero 9 milioni di anni fa. Proprio al centro di un pianoro vicino alla sommità della collina esistono una serie di vasche ricavate nella pietra e destinate a raccogliere le acqua piovane. Intorno a questa vasche rimangono tracce di costruzioni le cui pareti erano formate da enormi blocchi di pietra intagliata in modo perfetto e su cui erano state ricavate piccole insenature perfettamente squadrate. E’ stato ipotizzato che, per la posizione in cui sono orientate rispetto al sole, siano in realtà state utilizzate per dei sacrifici agli dei. Oggi anche se non vivo più qui amo questi luoghi, quei vicoli e i loro profumi, amo la gente che mi ha vista crescere e muovere i primi passi e che oggi mi vedono donna e mamma di due splendidi figlioli che sono la mia luce e il mio conforto. Vorrei ancora poter ascoltare la voce di mio nonno e chiedergli: “ Nonnì, sono stata brava? Ho ricordato tutto o ho tralasciato qualcosa? Le tradizioni rappresentano l’elemento di culto più diffuso ed importante del nostro territorio. Tra le tante tradizioni i canti popolari rappresentano momenti di vita vissuta… canti d’amore, dichiarazioni con doppio senso, di ciò che si voleva o che si desiderava, una tra queste “A Lincella”. Qui il ragazzo andava alla fontana dove si trovava la ragazza amata e si dichiarava chiedendole un po’ d’acqua dalla lincella, non l’acqua cercava, ma c’era il doppio significato voleva qualche bacio, qualche carezza, lei si rifiutava perché aveva paura della mamma anche se l’amava ed era disposta a dargli la propria vita e lui continuava dicendole che se rompeva la lincella era pronto a sposarla. Poi, altro canto “Bonasera ‘ntoniuzza”, questa era anche una dichiarazione d’amore, qui la ragazza era pronta a sposarlo, quando lui si dichiara le risponde di mandare l’ambasciatore dal padre e anche se i genitori non avrebbero acconsentito lei l’avrebbe sposato. “U zzù monachiallu”, altra manifestazione d’amore tra due ragazzi contrastati da fattori esterni, tanto che lei fa la malata a casa, la madre piange, e da casa sua si trova per caso a passare “u monachiallu”, il ragazzo travestito da frate, la madre era disposta a farla fare suora, se l’avesse confessata e di conseguenza guarita. Così per questo diventa un modo originale per i ragazzi di vedersi nella stanza di lei senza che nessuno lo venga a sapere. Queste canzoni io da piccola, non le avevo mai sentite, le conosco solo da una
quindicina d’anni, cioè da quando mio figlio è entrato a far parte di un gruppo folk come fisarmonicista. Anni fa, quando all’inizio andavo a sentire mio figlio, l’emozione era tanta non conoscevo i testi, ne il significato…ed ero veramente estasiata dalla musica e dal modo come veniva interpretata dai ragazzi del gruppo e devo dire la verità c’è voluto del tempo perché io capissi le canzoni. Ora che in occasione del PON mi ritrovo a parlare di tradizioni popolari, reputo che esso sia un patrimonio indiscusso, da preservare e diffondere nel tempo, per dimostrare qual ora ve ne fosse la necessità, che anche il meridione ha un vasto ed importante bagaglio di culture e tradizioni popolari. Il mio paese, il posto dove io ho vissuto è un piccolo paesino che si adagia sulla collina;
qui
molti
sono
stati
i
personaggi che in passato vi sono vissuti, e molti assomigliano alla storia di “Mastru Vriulillu” di
S.
Teodoro, un ciabattino umile che con il suo modo di vivere nella povertà riuscì ad andarsene quasi in punta di piedi come un barbone, tanto che per il suo funerale, si fece una grande perché potesse avere una grande sepoltura. Altri personaggi come lo “Zio Pasquale”, che raccontava delle storie assurde ai bambini tanto da farli rimanere stupiti, anche se tra questi c’era sempre quello più sveglio che faceva domande perspicaci, chiedendo specificamente i particolari come la zucca di 4 metri di larghezza e 3 metri di altezza, fatta crescere da lui quando era al fronte, gli domandò perché non si fosse portato i semi, lui tergiversava aggredendo il ragazzo a volte, nel dirgli che lui non capiva nulla. Quando morì lo zio Pasquale, erano in numerosi al suo funerale i bambini ormai grandi che lo ricordavano con molto affetto. Parlando oggi con il mio papà, ho scoperto che questo zio Pasquale era il suo nonno materno, perché il mio papà è originario della Veterana; ma lui è emigrato con il suo papà all’età di quindici anni, ritornando nella sua terra nativa all’età di ventinove anni, poi si è sposato e trasferito in un paesino limitrofo, quindi io non so proprio nulla di queste leggende. Solo alcuni personaggi vissuti nel mio paese uno si chiamava “Antonio”, che era simile allo zio Pasquale, raccontava anche lui, un sacco di storie non vere e poi due sorelle che venivano denominate “Caterina a monaca” e “Angelina a muta”. Questi due personaggi, io le ricordo come un sogno; camminava sempre insieme per le strade del paese parlando e mandando maledizioni e brutte parole a tutti che le incontravano, soprattutto la Caterina, che parlava male del prete e di chi andava in chiesa, diceva che erano cattivi a non crederle perché lei era una suora e dovevano pregare a modo suo, perché
lei sarebbe diventata Santa! Poi, noi bambini gli facevamo i dispetti, buttandogli pietre ai vetri delle loro case, loro affacciandosi, ci buttavano secchi d’acqua senza mai prenderci. Poi proseguendo per il vicolo della loro abitazione c’era un altro vecchio che chiamavano “Zzu Micu”, questo ci gridava continuamente perché giocavamo a nascondino nel suo porticino e dopo le dieci di sera andavamo a bussare e suonare alla sua porta e lui usciva dal balcone e ci diceva: <i patri vanu a fatigari, e illi arrianu>, ma noi, ci divertivamo tanto perché dove abitava lui c’erano degli archi e portici talmente belli che quasi non volevamo tornare a casa infatti spesso facevamo dei pic-nic lì. Ritornando a S.Teodoro ricordo solo che da piccola il giorno di Pasqua andavo dalla nonna e salivo alla piccola chiesetta della Veterana a toccare le “cucchiarelle”cosi li chiamavano al lato della porta della chiesa.
Anche oggi abbiamo ricordato usanze e leggende di S.Teodoro. sono
le
tradizioni
Tante
popolari
di
questioni. Anche se io non ho vissuto queste tradizioni in modo diretto venivo spesso a trovare i miei nonni e vedevo nei vicoli della Veterana attaccati da un balcone all’altro dei foglietti di carta a forma di bandierine fatte della carta delle uova di Pasqua. I bambini del rione chiedevano un’offerta, con questi soldi compravano le frasche che servivano poi a fare il falò dell’ultimo giorno di Santa Croce che era il tre maggio vinceva il rione dal falò più grande. Poi la tradizione della strenna anche questa io da piccola non l’ho mai ascoltata ma da quando mi sono sposata ogni anno a casa mia mi vengono a fare la strenna. Ormai da quasi quindici anni c’è mio figlio che suona vari strumenti (insegna musica ed è al settimo anno di conservatorio) tra questi l’organetto, la fisarmonica, il pianoforte, quindi lui dalla notte di Natale a quello della Befana è sempre in giro per case a suonare la strenna. Altre tradizione “A Corajisima” cioè Quaresima in cui nei quaranta giorni che precedevano la Pasqua appendeva un filo al balcone una “pacchiana”con questo voleva ricordare alla gente del quartiere che si doveva digiunare finchè non si arrivava alla Pasqua, questo però io non l’ho mai visto ma mia nonna me l’ho raccontava, che erano solo due signore a S. Teodoro che sapeva far calmare il
mal di pancia toglieva i vermi ai bambini, aggiustava le slogature delle braccia e piedi facendo un intruglio di scaglie di sapone e albume poi fatta questa crema sbattuta come una frittata la stendeva su un panno e legava la parte interessata quando si induriva e si doveva togliere dopo sette giorni e si guariva. Invece la mia nonna materna di Zangarona che sapeva togliere “l’affascino” faceva delle croci sulla testa dei bambini recitava delle preghiere in albanese, i vermi li toglieva: con del filo di una spoletta bianca nuova misurava l’altezza dei bimbi faceva un sacco di croci con quel filo e poi lo tagliuzzava in una tazza larga, se questi fili scendevano a fondo i vermi morivano, se restavano a galla avevano bisogno d’altre sedute, (sempre nei giorni dispari e all’imbrunire del giorno), per farlo guarire facendo sempre lo stesso procedimento. Io sono molto scettica su queste credenze, non so se crederci o no, nonostante alcune coincidenze a volte fanno riflettere ma il dilemma resta… crederci, o no?
Luna
Maria Le tre leggende lette mi hanno fatto riflettere su come storia, credenze, fiabe ed inoltre il mito o meglio la mitologia sono collegate fra di loro per affinità, origini simili , punti di contatto. Da bambina queste tre leggende le avevo sentite raccontare da alcune persone anziane, ma non le ricordavo più bene, ma solo per sommi capi, rileggerle oggi è stato davvero emozionante. Quello che da bambina mi ha affascinato più di tutto dei luoghi da me vissuti, del posto dove abitavo era il castello Normanno, che imponente sovrastava e tuttora sovrasta San Teodoro e Santa Lucia. Ricordo che un giorno avrò avuto sette otto anni, con un gruppetto di mie amiche, curiose di vedere da vicino il castello, decidemmo di salire da Santa Lucia a San Teodoro, quasi come piccole esploratrici. La giornata era magnifica, ricordo ancora quel dolce tepore, ma soprattutto l’emozione che tutte noi provavamo. L’idea di andare vicino al castello era stata a dir poco magnifica. Scarpe comode, vestiti leggeri e via, si parte all’avventura. Mentre salivamo verso San Teodoro una bimba del gruppo grida: “ Chissà se incontreremo la zia Betta, o meglio ancora la chioccia coi pulcini d’oro !” Se oggi ci penso mi viene da ridere, che ingenue! Era una delle prime volte che salivo a San Teodoro e quello che più mi colpì, che rispetto a Santa Lucia San Teodoro era tutta salita, salita, tutto vicoli stretti. Avevo notato che a San Teodoro davanti alle loro porticine stava molta più gente, soprattutto anziani, rispetto al mio rione. Molti di loro quel giorno ci domandarono dove andavamo e se le nostre mamme sapevano che eravamo li. Qualcuna di noi ogni tanto rispondeva, ma noi avevamo però fretta di arrivare al castello. In particolare ricordo un’anziana signora vestita di nero che stava seduta davanti alla porta di casa sua, io le passai vicinissimo, il vicolo era stretto, la guardai e da brava bambina la salutai, lei subito esclamo ( nel suo dialetto locale però) : “ Tu devi essere la nipote di Maria del mulino, somigli molto a tua nonna quando aveva la tua età”. Ero felicissima per quelle parole, ricordo che arrivata a casa lo dissi subito alla mia cara nonna. Ma ritornando al castello, finalmente eravamo arrivate che emozione! Purtroppo non potevamo entrare perché c’era una cancello chiuso ed inoltre quelli che abitavano lì vicino ci rimproverarono.. Stanche, deluse, tristi, senza aver potuto vedere il castello ritornammo a casa. Io non abito a San Teodoro, ma a Santa Lucia rione ubicato proprio ai piedi di San Teodoro. Di leggende sul mio rione non ne conosco, ma il PON di quest’anno mia ha invogliata ad andare nei prossimi giorni ad indagare su eventuali leggende. Parlando con mia mamma mi ha raccontato degli episodi davvero curiosi. Alla fontana del “preti”, ubicata un po’ più sopra di casa dei miei genitori molte persone sono state protagoniste di fatti alquanto strani. Mia nonna Maria abitava in un mulino vicino a questa fontana, era mattino molto presto e lei con il “variali” era andata a prendere l’acqua. Mentre
camminava dietro di lei sentiva dei passi, come di una persona che aveva fretta, fattosi di lato per far passare non c’era nessuno. Un giovane maestro che abitava in Vico Seggio, figlio di una certa Concetta Paola, era andato alla fontana dei preti per prendere l’acqua, arrivato c’era già una signora ben vestita da pacchiana, elegante come erano a quei tempi le spose. Avendo il giovane dimenticato “ u canniallu” cioè una canna che infilata nella fontana permetteva di riempire i recipienti, pensò di chiederlo in prestito alla bella signora, finita la richiesta da parte del giovane la donna scompare all’improvviso. Tale fu la paura del giovane che tornato a casa fu colpito da una forte febbre. Emozionante poi un episodio successo ad un parente di mamma. Era una giovane alto, bello, aveva due mulini e il lavoro andava a gonfie vele, i suoi mulini macinavano molto. Ciò aveva suscitato l’odio, l’invidia di alcuni nei suoi confronti. Un compare invidioso aveva architettato un vero e proprio piano. In un primo tempo questo si fa invitare a casa del giovane e chiede che gli venga preparato brodo di gallina; il pranzo è ottimo, l’invito era riuscito. A fine pranzo il compare invita il giovane ad andare a cantare a Niola, dopo una bella “cantata “ all’aria fresca il compare conclude recitando un ritornello: “Uccello solitario fui chiamato dai miei migliori amici fui tradito!” Così dicendo il compare spara al giovane che muore sul colpo. Fatti simili a questo penso ne sono successi tanti, sarebbe interessante raccogliere tutte questa storia in un bel libro! Sentire raccontare fatti, leggende, storie che da reali sono poi diventate “quasi” storie fantastiche, o meglio “favole”, mi ha catapultata,, mi sembra il termine più adatto, nella mia infanzia. Prima più di oggi più che la tv e i libri a noi bambini le storie le raccontavano i nonni o gli anziani del rione. Storie simili a quella di “mastru Vriulillu” non me ne ricordo, ma il termine vriullillu mi riecheggia nella mente con la voce di mia nonna, che emozione!. Con questo termine dialettale si designava una persona magra, anzi magrissima “ che il vento sembrava quasi spostare” diceva mia nonna. La storia del povero Antonio mi ricorda alcuni omicidi commessi nelle osterie, gli adulti dicevano “pareggiano i conti tra loro”. L’altra storia letta “disgrazia miaaaa” mi ricorda i lamenti durante i funerali, gridavano, si tiravano i capelli, era una vera sofferenza per le mie orecchie, a volte avevo persino paura, per non parlare di quelle vesti nere, tetre, il nero era ed è un colore che non mi piace. Il personaggio di Bruno nella storia “Bruno e Marianna” mi ha fatto tanta tenerezza e mi è sovvenuto il fatto che venivano celebrati i matrimoni “a distanza, per procura” dicevano gli adulti. Una cugina di mia mamma, infatti, si è sposata qua a Lamezia Terme con uno “sposo sostituto” e poi è partita in America dove c’era i “vero sposo”. Da piccola questa cosa non mi piaceva, non riuscivo a capirla. Penso che in ogni paesino ci sia uno zio Pasquale che racconta la sua vita in maniera leggendaria, che tutti i bambini adorano e che ascoltano a bocca aperta. Da bambina non ho avuto però la fortuna di avere nel mio rione uno zio Pasqua Famosa è la storia della zucca
grande come una casa. Pensandoci oggi, sarebbe stato bello aver qualcuno pronto sempre a raccontarmi delle storie. “Tradizioni popolari”, la prima cosa che mi viene in mente è che all’università ho fatto un esame che aveva proprio questo titolo. E’ stato straordinario leggere e studiare quei libri che raccontavano molte, tante cose che io stessa avevo vissuto da bambina, che erano per me normali e naturali. Come non ricordare “ a corajisima”? Anche quest’anno la signora Angela Filardo ha appeso ad un filo “ a corajisima” col suo vestito nero, vederla è come fare un salto nel passato. A chi chiede alla signora Angela il perché continua ad appendere questa pupazza, lei molto convinta risponde che le “ tradizioni del passato” non devono e non possono essere dimenticate o rinnegate, ma devono continuare a vivere e vivono grazie a chi oggi dà loro vita. Fin da piccola ho sentito parlare della “strina”, so cos’è, so cantarla, so qual è il suo svolgimento, ma con grande mio rammarico non ho mai avuto modo di fare “a strina” o di ricevere a casa mia “ i strinari”. Certo nel passato l’esigenza principale della strina era anche la fame , se la famiglia che ospitava gli “strinari” era generosa essi potevano fare una bella “mangiata”. L’andare in giro, bussare alle porte, chiedere di poter entrare ricordano il viaggio degli Ebrei nella loro fuga dall’Egitto ed il peregrinare di Giuseppe e Maria per trovare un ostello anche le condizioni di Maria in attesa di Gesù. Secondo me non c’è tradizione più bella della “Santa Croce”, festa che si svolgeva nei giorni 1,2,3 maggio. La prima cosa da sottolineare era la collaborazione tra bambini, adulti e anziani. Era l’unione, l’impegno, il lavoro di tutti che garantivano la buona riuscita della “Santa Croce”. Noi bambini preparavamo le catenelle di giornale incollate con acqua e farina da appendere poi da un balcone all’altro, andavamo in giro durante i tre giorni a chiedere “ i soldi per la Santa Croce” con un piattino ed un santino sopra. Facevamo i giochi pomeriggio di giorno 3. Compito degli adulti era: fornire il materiale di cui avevamo bisogno, preparare la Santa Croce con quadri di Santi, fiori, damaschi, custodire i soldi la sera del giorno 1 e 2 per andare a comprare “ e pignatelle” e tutte le leccornie che servivano per riempirle, arbitrare i giochi, cucinare. Gli anziani la sera facevano recitare il Rosario davanti alla Santa Croce, partecipavano l’ultima sera alla Processione cantando canti Sacri. Tutti per uno, uno per tutti questo doveva essere il motto. Le”formule magiche” sono per me quanto di più normale e quotidiano ci sia. Da bambina le sentivo recitare dalle anziane del rione, per qualsiasi cosa iniziavano le loro litanie, bastava dire che avevano mal di testa che ci invitavano a sederci ed a stare buoni perché ci dovevano togliere il malocchio. Era come sentir parlare in arabo, solo con gli anni, con il tempo sono riuscita a “tradurre” quelle lunghe litanie, oggi alcune le conosco a memoria. Credere o non credere, sacro o profano, razionalità o irrazionalità, le tradizioni popolari sono tutto ciò insieme. Se mi si chiede : “ Tu credi a queste cose?” Io posso solo
rispondere che se è la paura, l’emozione, un dolore eccessivo che prevalgono in me allora la risposta è affermativa, e “crederci” mi fa sentire vicina a tante persone care che oggi non ci sono più e che in tutte queste cose credevano. Se però è la ragione ad avere la meglio, come avviene di solito, la mia risposta è negativa. La ragione però non è riuscita, non riesce oggi, non riuscirà mai a spiegare “tutto”.
La Brocca ( Canzone popolare)
- Calabrisella mia, calabrisella, dammi un poco d’acqua della brocca
(ragazzo)
Presto rispondi con molta grazia :
-
Acqua non se ne dà per la via -
Se ero padrona io della brocca
ti davo l’acqua ed anche la vita mia -
(ragazza)
Attento che si rompe la brocca
Botte te ne dà mamma sua!... -
(coro)
Attento, che si rompe la brocca,
botte me ne dà mamma mia!... -
(ragazza)
Se era padrona lei della brocca,
ti dava l’acqua ed anche la vita sua -
(coro)
( coro)
Se anche te la rompo la brocca
pagare la posso a mamma tua
(ragazzo)
I giovani non perdevano occasione per corteggiare le ragazze di cui erano innamorati e le occasioni di incontrarle erano poche: in chiesa, alle processioni o come nel caso si questa “canzone” alla fontana. Certo la richiesta del giovane non era di bere dalla brocca della ragazza, la sua era ben altra “sete”. A quei tempi “certe richieste” non si potevano fare assolutamente apertamente, giammai! Ecco nascere quinadi una serie di “canti” con
un doppio senso, che bisognava poi “tradurre” nel loro vero significato. Tematica amorosa ha anche “U ‘zzu monachiallu”. Il povero innamorato per poter vedere la sua amata arriva ad escogitare il travestirsi da monaco. Bussa alla porta di casa della ragazza, risponde la mamma e lui si presenta come un monaco in cerca di elemosina. La povera signora risponde che l’elemosina gli verrà fatta e poi confida al monaco la sua preoccupazione per la figlia ammalata.
Quale migliore occasione di questa poteva
presentarsi al falso monaco? Egli propose subito alla donna di fare confessare la figlia proprio da lui giacchè è lì e di chiudere le porta e finestre lasciarlo solo con la ragazza affinché non “esca fuori la confessione”. Mi viene spontaneo confrontare il modo di comportarsi dei giovani innamorati del passato con quelli odierni e per la conclusione del confronto mi sembra appropriato ricordare il famoso proverbio “la virtù sta nel mezzo”. “Ntoniuzza” è a sua volta un altro canto d’amore o più precisamente una dichiarazione d’amore in stile mi viene da dire “stilnovo”, dichiarazione dolce, con bei modi del ragazzo di nome Domenico e dolce a sua volta della timida Antonietta. Tutte e tre le canzoni le conosco a memoria fin da quando ero bambina, come tantissimi altri canti popolari. Le ho sentite cantare dai più anziani e dal gruppo folkloristico dei “Nicastrisi” che si esibivano e si esibiscono tuttora coi tipici vestiti di allora: “pacchiana “ e “pecuraro”.Non avevo riflettuto mai sul fatto che tutto ciò che è tradizione popolare si San Teodoro è anche la mia “personale” tradizione, un ricco bagaglio che possiedo dentro di me e che mi lega a tutti quelli che hanno lo stesso mio bagaglio. Le tradizioni popolari diventano così un vero e proprio patrimonio lascito a noi in eredità dai “nonni” e che abbiamo il dovere di lasciarlo poi in eredità ai nostri nipoti.
Maria
Mary A volte, quando sento mia madre cucinare, gli odori dentro quella cucina, mi riportano alla mia fanciullezza. A quando al mattino presto scendevo con i quaderno in mano per andare a scuola a via Calia e ricordo persino alcune dei miei compagni. Al ritorno camminavo lungo la salita verso casa e raggiungevo mamma in cucina che preparava il pranzo per me e la mia famiglia. Dopo aver fatto i compiti uscivo nello spiazzo fuori casa per giocare con mia sorella e i miei fratelli e guardavamo le donne anziane vicino le loro case vendere i fichi d'india e il vino. Quando pioveva invece stavamo tutti vicini vicini la braciera inventando nuovi giochi. Dopo pochi anni mi sono trasferita nel quartiere di Capizzaglie e già mi mancava la vecchia casa anche se la nuova era più grande e il cortile per giocare molto più ampio. entro pochi mesi avevo già conosciuto tutti i coetanei della zona. Ricordo quando in inverno, gli anziani vendevano le castagne arrostite e dai loro pagghjiari, ovvero le case antiche, e sembrava un grande presepe, e tutto intorno si alzava un buonissimo odore. Anche a casa mia ogni giorno c'era un odore buono di pane fatto in casa da mia nonna. ricordo anche, però non benissimo, una strana signora che chiamavano 'Maruzza a Micela' e crescendo mi spiegavano
che era una
fattucchiera e aveva uno sguardo che mi faceva paura e stavo lontana da casa sua. E stavo attenta anche a quel signore tanto strano che inseguiva persone per qualche metro; si chiamava Nicola e lo chiamavano 'U Lattaru' ed era malto ma da bambini non capivamo. Purtroppo non ho molti ricordi perchè i miei nonni non mi raccontavano molto; chiudevo gli occhi e immaginavo di essere la protagonista di quella favola che da piccola mi raccontavano sempre. Una bambina diventata fata ma poteva uscire solo di notte per non perdere i poteri, ma poi voleva diventare una bambina normale e le fate che la trovarono accontentarono il suo desiderio. Lei si sposò con un principe che però, dopo aver avuto 4 figli da lei, per la sua bellezza la rinchiuse nel castello. Le fate lo scoprirono e decisero di liberarla ma non potè più vedere i suoi bambini. Solo di notte andava dai suoi cari per sfiorarli con un bacio. Io di notte, immaginavo di essere quella fata. Ed anche ora, quando sento quegli odori, mi capitava di rivivere quei momenti. Oggi, per la prima, ho sentito di una piccola chiesetta antica della Veterana che si trova in cima ad una piccola collina sopra il rione di S.Teodoro. Io ho un lontano ricordo di bambina quando mia nonna, un pomeriggio di pasqua, mi portò a battere delle piccole bolle a forma di cerchio che si chiamavano ' ucchiarelle'e servivano a dare le indulgenze. Ricordo che rimasi stupita dalla bellezza del luogo che sembrava tra il verde ed il profumo degli alberi dei fiori e quella madonnina dal viso bello e dolce, circondata da piccoli angioletti. Mia nonna mi raccontò che una leggenda raccontava che mentre la madonnina parlava, gli angioletti dovevano stare seduti in silenzio e l'angelo che era stato disubbidiente era stato punito e messo alle sue spalle.
Per quanto riguarda personaggi un pò particolari come mastro Vriulillo un calzolaio spavaldo e mastro Pasquali, che raccontava storie inventate vicino casa mia nella zona che si chiamava Trempa, e ce n erano altri di cui io avevo paura perchè temevo mi potessero fare del male. Ne ricordo uno che chiamavano Jugali e che andava sempre a fare il bagno nel fiume, anche in inverno e poi cantava sempre. E' morto annegato, trasportato dal fiume, chissà avrà trovato la sua pace, però quel giorno ci fu lutto per tutta la via. Uno degli altri ricordi, fu di quando morì mio zio, il fratello di mamma. Io avevo circa 15anni e in quei tempo non potevamo accendere la televisione per rispetto, e il giorno dopo si doveva fare spazio sui tavoli per i doni portati dai parenti. Questi ricordi mi fanno ancora oggi molta tenerezza, e ogni mio ricordo legato alla mia infanzia mi fa sentire bene perchè ora ho una famiglia intorno a me. Nella zona dove io abito non si predicano grandi tradizioni; L’unica che io mi ricordo volentieri è la S. Croce, perché quando ero bambina mi piaceva tanto costruire i festoni, impastare la colla con acqua e farina che tutte le mamme ci davano per aiutarci, poi tagliavo la carta dei giornali, oppure quella luccicante delle uova di Pasqua che conservavamo con cura. Poi si costruiva l’ altare con il crocifisso, la coperta rossa appesa al muro e tutte le piante intorno: era bellissimo. Mi fa anche tanto piacere sapere che questa veniva praticata a S. Teodoro perché mi fa pensare che qualcosa mi accomuna a questo rione che in questi giorni sto imparando a conoscere e mi affascina sempre di più perché ricco di tante tradizioni, anche se da noi non si faceva il falò finale perché dato che la zona era circondata da tanti alberi, c’ era il rischio di scatenare un incendio. Un'altra cosa molto divertente era la Strenna di Natale, “A Strina”. Ricordo che nella notte di Capodanno i miei due zii si armavano di chitarra facevano il giro di tutti i parenti fino al mattino. La prima visita era la nostra e mio padre gli faceva trovare sempre due bottiglie di vino e due di olio. Era molto contento perché secondo la tradizione nella mia famiglia questo rito porta fortuna e abbondanza. Un rito magico particolare era la costruzione del “Bruviniallu”, che una vecchietta della zona in cambio di doni faceva ai bambini piccoli per proteggerli dagli spiriti. Era un sacchetto di stoffa quadrato e all’ interno veniva inserito una piccola icona di Santi, poi un pezzo di sale grosso e un crocifisso , poi recitava una preghiera e lo attaccava addosso ai vestiti con una spilla; Questo non veniva utilizzato più nel momento in cui il bambino veniva battezzato. Tutte queste cose mi sembrano così lontane ormai, infatti non si predicano più, per lo meno, nella mia zona. Nel rione di S.Teodoro in genere i canti popolari trattano temi diversi soprattutto di storie d’ amore. “A Lincella” è quello che mi ha colpito di più; questo canto ha un doppio senso in quanto l’ innamorato cerca dell’ acqua per la lincella ma in realtà vuole un rapporto un po’ più intimo, ma non è libero di farlo poiché deve tenere conto del volere dei genitori;
Nonostante ciò il ragazzo, convinto, insiste perché vuole sposarla. Altri canti amorosi sono: “Bonasera Antoniuzza” e “U zzù monachiallu”. Il primo è molto bello per la dichiarazione spontanea del ragazzo nei confronti della ragazza che ricambiando pienamente dichiara di voler stare con lui, anche questa volta contro la volontà dei suoi genitori. “U zzù monachiallu” ha scene più comiche, in quanto due giovani studiano un piano per potersi vedere da vicino e di nascosto dai propri genitori contrari al sentimento dei due innamorati. La ragazza allora si finge malata, la mamma disperata non si aspetta che il monaco con la scusa della confessione sia il ragazzo e quindi i due giovani rimangono soli nella stanza e chi s’è visto s’è visto.
Mary
Mimmo Con l’inizio del nuovo p.o.n. è ripartita una nuova avventura quest’anno, il lavoro che da quello che ho capito sarà impostato sulla conoscenza del rione di San Teodoro, il mio rione, dove sono nato e dove tuttora vivo. Si è iniziato, con la lettura di tre vecchie leggende che io già conoscevo, quante volte mi sono state raccontate. La tana delle fate, la chioccia e i pulcini d’oro e il paggio e la principessa. Però, risentirle e leggerle mi ha fatto provare una piacevole sensazione, sono ritornato indietro col tempo. La tana delle fate Risentendo questa leggenda, e come essere ritornato indietro nel tempo ricordo, che quando ci venivano raccontate queste leggende, lo si faceva per lo più per spaventarci. Infatti i nostri genitori, quando facevamo qualcosa di nuovo, oppure ci allontanavamo da casa, ci ricordavano sempre di fare attenzione, perché le fate erano sempre in giro e anche s’erano fate buone loro ci facevano credere che erano per lo più cattive, quindi bisognava stare attenti e anche quando si giocava in gruppi con altri ragazzi, magari, essendo in troppi qualcuno doveva essere escluso, così si cominciava a parlare delle fate, così i più piccoli desistevano e tornavano a casa rinunciando così a giocare. E poi ricordo anche, che quando diventai più grande, insieme ad altri, siamo andati sempre alla ricerca del miele, dei fiori e delle bacche, senza mai riuscirci. La chioccia e i pulcini Vivendo in un periodo di povertà, la leggenda della chioccia e dei suoi pulcini, rappresentava un momento di speranza, la speranza di un futuro migliore. Ritrovarsi, nelle sere d’inverno, intorno ad un braciere, e sentire come sarebbe bello trovare, la cosiddetta “trovatura”,(la chioccia e i pulcini d’oro) diventava, motivo di discussione. Si sognava, si fantasticava, i genitori, prendevano coraggio, il tempo scorreva più veloce, si faceva buio in fretta, si andava a letto, quasi contenti, con la speranza che all’indomani si trovava il tesoro e che quindi la vita cambiava. E noi bambini, a fantasticare, a fare quasi a gara a chi l’avesse trovata, anche se mai nessuno si era avventurato nel castello, per paura e timore di fare un brutto incontro. Per rendere la speranza viva, però qualcuno sparse la voce che la chioccia di notte passeggiava nel castello, ma di giorno, la si poteva trovare facilmente lungo il fiume, così a volte noi ragazzi, organizzavamo vere e proprie spedizioni, alla ricerca di un qualcosa che non avremmo mai trovato, ma che già era dentro di noi, la speranza. La speranza di un qualcosa che avrebbe
migliorato la nostra vita, e nonostante tutto , credo sia stato bello vivere così, con un sogno accanto. Il paggio e la fata Quest’ultima leggenda ci faceva sembrare le fate più brave, la tragedia vissuta dal paggio e di Ingrid, ci ricordava tutte le cose brutte della vita, la morte, la malattia, la lontananza, cose che anche noi vivevamo quotidianamente, questo faceva si, che il paggio ed Ingrid, erano persone come noi. Tanti di noi, avevano i propri padri emigrati all’estero, e questo, faceva sembrare le nostre madri, delle tante Ingrid, ma il fatto che ogni sera c’era una luce accesa, ci faceva capire, che alla fine, l’amore avrebbe vinto. Anche oggi, come allora ci sono gli amori, contrastati, i diversi ceti sociali, causa di ripicche e di odi, ma per fortuna, sono sempre meno i Federico secondo, cosicché possiamo notare che nelle tre leggende, la speranza diventa un filo conduttore. Infatti troviamo, la speranza di vivere, una vita normale, la speranza di trovare una fortuna, che ci cambi la vita e infine la speranza di vivere un amore intenso e vero. Cose che rapportate ai nostri giorni dopo tanti millenni, sono ancora d’attualità. Continua l’avventura,oggi , rileggendo,delle vecchie fiabe riguardanti , la vita del rione di San Teodoro , cose vecchie e risapute che hanno ancora oggi , il gusto di riscoprire , ricordare , e rivivere persone , personaggi e luoghi a me cari. Mastru vriulillu La storia , di questo vecchio ciabattino , morto povero e in soliti dune , ci porta automaticamente a pensare come sia brutto vivere da soli , oggigiorno ci sono tante persone che chi per scelta , chi per forza, è costretto a vivere da barbone , che vivendo ai margini di una società abbastanza avanzata e industrializzata , vive di stenti , e muore, nell’indifferenza di quasi tutti . personalmente poi, il nostro ciabattino , mi fa rivivere , la mia prima gioventù, quando , a volte , passando da piazza stocco , , trovavo i cantastorie siciliani , che mettendo , un lenzuolo , che mettendo, un lenzuolo appeso al muro con delle scene, riguardanti, un fatto di cronaca, aiutati da un certo tipo di musica, raccontavano delle storie, che appassionavano tutti. C’era sempre un capannello di gente , adulti piccoli, tutti estasiati, con la bocca aperta, quando poi si tornava a casa , ricordando la storia , la si raccontava a chi non era stato presente , cercando di imitare i cantastorie.
Il povero Antonio Storia, di fibbia , malavita , ieri , come oggi, purtroppo, sempre d’attualità, , cambiano , i luoghi , i metodi , i personaggi, ma il male è lo stesso. Anzi , evoluto, sempre in peggio. Quante , persone oggi , come irei antonio , cadono , in una rete , in cui non possono, uscire, oppure lo fanno, però perdendo tutto, anche il diritto a vivere la propria vita. È, quante marianna, ci sono , nel mondo , magari non abbondante come quella della nostra storia , ma con un epilogo identico. Forse, una volta, tante storie , si mettevano a tacere , per un buon quieto vivere e non tutto si sapeva , oggi invece , abbandoni , divorzi , fughe e ritorni , sono all’ordine del giorno , e anche il mio rione. Che sembrava esserne indenne. ormai fa parte di una realtà nazionale. Disgrazia mia Due storie , in particolare, mi vengono in mente, , una,mi è stata raccontata da una mia parente anziana . era morta, un anziana donna, s’erano naturalmente, riuniti tutti i parenti stretti e le donne che erano del vicinato . gli uomini , erano saliti al piano superiore a mangiare qualche cosa. Intorno alla bara, si recitava il rosario, una donna , anzi un donnone , che aveva la fama di essere un maschio , non avendo mai timore di contro ribattere chiunque avesse d’avanti , cominciò a sentire un certo languore alla pancia . voleva emettere feti , ma non poteva , il rumore si sarebbe sentito e sarebbe stata derisa, ma il dolore cominciava ad essere sempre più insistente , così decise che avrebbe liberato l’aria nel momento che il rosario avrebbe raggiunto una tonalità più forte, con la speranza così, di non essere sentita. Ma non essendo una donna di chiesa e non conoscendo il rosario , sbagliò ,il tempo , emettendo l’aria proprio contemporaneamente ad una breve pausa. Ci fù un attimo di sbigottimento totale , ma non durò a lungo , in un attimo tutti scoppiarono in una grossa risata . per dieci minuti , tutti si dimenticarono della morta , accorsero gli uomini , pensando chissà cosa fosse successo , ma ben presto si unirono si unirono alla risata. Fu veramente un funerale felice. un altra volta , capitò, che morì un mio parente , mia madre e nmia zia ,dovettero per forza di casa , fare la parte delle dolorenti , essendo parenti vicini .
io li
accompagnai , e già sentivo mia madre , piena di acciacchi , lamentarsi della nottata che avrebbero dovuto sostenere . ben presto però la gente andò via , rimasero solo due donne , vicine di casa , cosicchè tutti pensarono che ben presto, sarebbero andate via anche loro , cosi si rarebbero potuto chiudere le porte e poter finalmente sdraiarsi e riposare . ma il tempo passava e quelle non si muovevano .ò mia madre , lanciava sguardi verso mia zia, la quale a sua volta sospirava. Per farla breve , si arrivò quasi a mezzanotte , mia madre non c’è la faceva più e sbottò guardando le due donne : “vedete
se voi andate via , anche noi , potremmo finalmente andare a riposare , tanto lui ormai è morto , o dobbiamo morire pure noi? Al che le donne si alzarono e salutarono. Bruno e Marianna Bruno , mi ricorda , un personaggio, ancora vivo. Legato alla mia infanzia, un giovane nato con una piccola deficienza mentale rendendolo, un credulone e persona soggetta a credere a tutti. (turuzzu capu ninna) (salvatore piccola testa). Turuzzu , lavora da un fabbro, lo aiutava a forgiare il legno caldo, batteva con la mazza sull’incudine, in perfetta sincronia con il suo maestro non sbagliando mai un colpo. Io quando passavo da la, mi fermavo ad osservare quanto era bravo, meravigliato, anche se non era come tutti gli altri. A volte si aspettava che sbagliasse un colpo, per vedere la reazione di tutti, per poterlo deridere, ma questo, non è mai successo e si andava via, quasi stanchi di osservarlo e delusi della sua bravura. Diventato grande, Turuzzu è diventato, il divertimento, di tanta gente adulta, che credendosi più intelligente lo istigava e incitava a dire male parole alla gente che gli passava daccanto. Io non l’ho mai preso in giro, gli stavo sempre lontano anche se mi piaceva ascoltarlo. Nelle nostre tradizioni, nel nostro modo di essere, anche i canti rispecchiavano momenti di vita vissuta. Per lo più erano canti d’amore, dichiarazioni che si facevano in modo velato, a volte anche con doppi sensi alludendo a ciò che si voleva e desiderava, tipo il canto della “lincella”. Canto in cui, un uomo, che incontrava la ragazza di cui s’era invaghito, vicino alla fontana, ove si era recato a prendere acqua, chiede alla stessa di avere un po’ di acqua della lincella. Ma la vera richiesta non era l’acqua, essendo li una fontana, bensì l’uomo voleva qualcosa di più, magari l’amore stesso della ragazza. La ragazza, come tutte d’altronde, era restia a concedersi, rispondendo che certe cose, non avvenivano per strada, e quindi non poteva dare acqua a chicchèssia, e avvisando anche, se qualora l’uomo avesse potuto rompere la lincella, ci sarebbero stati per lui, sicuramente dei guai. Ma l’uomo, sicuro del fatto suo, ribatteva che se avesse procurato dei danni, era pronto a ripagare tutto anche con il matrimonio. Un altro canto di amore, era certamente Bonasera N’toniuzza, un altro amore contrastato dai genitori della ragazza prescelta. Anche di fronte a beni terreni quale case e appezzamenti di terra, quando c’erano degli attriti non si dava mai il consenso a un eventuale fidanzamento. La ragazza cadeva così in uno stato di depressione e fingendosi ammalata si metteva a letto qui, con un inganno giungeva il proprio innamorato travestito da frate pronto a confessare la ragazza morente. Confessione che si doveva fare in una stanza chiusa, perché segreta, e quello era il momento giusto per poter baciare la propria innamorata. Una volta successo questo la ragazza era ormai compromessa, cosicché i genitori erano costretti a dare il proprio consenso. Questo ci fa capire come a volte una semplice
canzone d’amore, con le giuste allusioni, facesse diventare la stessa in una vera e propria dichiarazione d’amore. Le vecchie tradizioni, rispecchiano di solito le proprie origini, oggi i tempi si sono evoluti, e tante cose sono state dimenticate, facendo diventare i nostri figli poveri di cultura, rispetto ai loro, io ricordo tante cose, che naturalmente racconto loro, ma certe cose, vanno vissute per provare emozioni e sentimenti. Il periodo di Natale, era uso, cantare la strenna natalizia. Un certo numero di persone, accompagnate da una fisarmonica o da un organetto, si riuniva e a notte inoltrata, si recava nelle abitazioni altrui, iniziando a cantare la strenna, era un onore per la famiglia che riceveva questa specie di serenata, un momento di gioia e di vita vissuta insieme. Però io la ricordo purtroppo, non molto gioiosamente, perché vivendo in una piccola casa, io e i miei fratelli dormivamo praticamente, nella stanza che durante il giorno fungeva da cucina, per cui gli ospiti che erano venuti a cantare e a suonare, erano ospitati dove noi dormivamo. Immaginarsi, essere svegliati, in piena notte e sentire tutto il vociare, era per lo più gente ubriaca che per ringraziare per l’ospitalità e le cibarie ricevute, cantava strillando ancora più forte. Finito di cantare, sotto l’effetto dell’alcol, si ricordavano fatti ed episodi vissuti e poi non si finiva mai di ringraziare abbastanza. Io, mi annoiavo e non vedevo l’ora che andassero via, ma di solito venivo esaudito solamente non prima di un paio d’ore, e il guaio era che la cosa non finiva li, perché ben presto sarebbe venuto un altro gruppo a fare festa. Oggi, la strenna, viene eseguite sempre di meno, ed io quando la sento provo un po’ di paura, mentre, quando rivedo i bambini, che allestiscono l’altarino, per festeggiare la santa croce, rivivo dei momenti bellissimi. Il rapporto, tra adulti e ragazzi per poter organizzare una santa croce migliore di quella fatta, nella strada sottostante era una festa di tre giorni, ma che iniziava una settimana prima con la costruzione delle ghirlande che servivano per abbellire il tutto, e che venivano fatte con la collaborazione degli adulti. Era un connubio perfetto, ognuno svolgeva il proprio compito nel migliore dei modi, contribuendo così alla buona riuscita dell’evento. Alla fine di tutto dopo il classico falò, si ci lasciava con un po’ di amaro in bocca, dal giorno dopo ognuno ritornava al proprio ruolo, il bambino, che per una settimana si era comportato da adulto, ritornava il bambino che era. E poi i racconti, sul malocchio, sugli spiriti, da bambino, avevo paura, per cui ero portato a credere certi discorsi, crescendo mi sono fatto le mie proprie idee, e così non ho avuto più paura. Credo che le tradizioni, rispecchiano noi stessi, il nostro essere, la cultura in cui siamo nati e cresciuti, tenendo in vita le nostre tradizioni, teniamo in vita noi stessi.
Mimmo
Nellina Il Pon, quest’anno ha come obiettivo lo studio e la riscoperta del Borgo di San Teodoro. A tale proposito sono state lette delle leggende tratte da ‘’ Racconti d’altri tempi’’, scritto da Don Pietro Bonacci, nativo di Decollatura, ma che ha svolto l’attivita’ di parroco per 40 anni presso il Borgo di San Teodoro. Io non sono del posto e quindi per me e’ stata la prima volta che ho ascoltato queste leggende, ma ascoltandole ho trovato, soprattutto con la leggenda delle ‘’Tane delle Fate’’, qualche similitudine con una leggenda del mio paese’’Le Fate del Monte Reventino’’. Nell’ascoltare questo racconto, e trovando qualche similitudine con le leggende del mio paese, mi sono riaffiorati alla mente i ricordi della mia infanzia, riuscendo a sentirne i rumori e perfino gli odori di allora. Sono nata e cresciuta fino all’eta’ di dieci anni, in una via al centro del paese, che veniva chiamata ‘’vinella’’, dove insieme alle mie amichette ho trascorso momenti indimenticabili.
I
pomeriggi, infatti, ci ritrovavamo tutte a casa di una signora anziana che veniva chiamata ‘’Za Francisca a Ciomba’’, che ci insegnava a ricamare, a lavorare all’uncinetto e nello stesso tempo ci raccontava le leggende di Platania e di come era nato il nostro paese. Ma la mia preferita era proprio quella delle Fate del Monte Reventino, questa leggenda mi affascinava tanto e ogni volta che mi veniva raccontata riuscivo a scoprire un particolare in piu’ e cresceva il desiderio di andare in quel posto incantato. Oggi rivisitando questi posti ho provato emozioni che da tempo avevo perso, ho rivisto le montagne
che si incurvano dolcemente da ogni lato in un abbraccio, il rumore del
fruscio dei ruscelli, e i raggi del sole che mi hanno fatto riscoprire uno scenario ormai dimenticato. Oggi ormai grande ho visto spesso il monte e non nego che l’emozione che trasmette e’ tanta e mi piace immaginare che davvero un tempo questo luogo dalla vegetazione florida, e particolare sia stato abitato dalle fate. Ogni paese e ogni borgo ha una sua storia, le sue tradizioni i suoi usi e costumi. Ha inoltre i suoi personaggi particolari, gente piu’ o meno importante, persone che hanno e svolgono tutt’ora dei lavori umili, o persone nullatenenti che vivevano di elemosina, ma che avevano una propria dignita’ e che non davano fastidio a nessuno. Gente che per un motivo o un altro ha dovuto lasciare il proprio paese per cercare altrove lavoro, rifugio e fortuna, magari abbandonando per tempo la propria famiglia, ma per poi farne ritorno, dopo tanto tempo, quando andava bene o addirittura non ritornare piu’. Mia nonna mi raccontava, che negli anni venti, un suo parente aveva lasciato la moglie con tre figlie piccole ed era emigrato in America. All’inizio mandava regolarmente sue notizie e nello stesso tempo il danaro per il sostenimento della famiglia, ma dopo un po’ di tempo smise di dare notizie di se’, tanto che la moglie preoccupata del suo silenzio , si imbarco’ anche lei in America, lasciando le figlie alla custodia della madre. Arrivata li’ con l’aiuto di altri parenti, riusci’ a rintracciarlo, e dopo parecchi anni fecero ritorno a casa insieme,
ritrovando cosi’ le figlie ormai grandi. In passato cio’ accadeva molto spesso, ma non sempre si concludeva con il ricongiungimento della famiglia, infatti molto spesso le donne con i figli venivano abbandonate ai loro paesi d’origine, mentre i mariti rimanevano nei paesi dove erano emigrati, magari rifacendosi una nuova vita. In questa storia che e’ realmente accaduta la famiglia si e’ potuta ricongiungere grazie alla caparbieta’ e alla forza di volonta’ della moglie. Quando ero piccola, e mia nonna mi raccontava questa storia, venivo assalita da un gran senso di tristezza e di malinconia, in quanto pensavo alle figlie che si erano dovute crescere senza l’affetto e l’amore, prima del padre e poi successivamente della madre. Un altro personaggio particolare del mio paese che ha fatto a suo modo epoca e’ stato : il ciabbataio, un tempo chiamato ‘’U Scarparu’’. Chi a Platania incarnava questa figura era’’Mastru Duminicu’’, una persona dal fisico imponente, ma di animo buono, generoso e paziente, che costruiva e riparava scarpe. Raccoglieva tutti i ragazzi della ‘’Ruga’’ nella sua umile e modesta bottega, cercando di insegnarli il mestiere, e nello stesso tempo con modestia e umilta’ li toglieva dalla strada. Nella sua umile bottega i ragazzi trascorrevano interi pomeriggi in armonia tra di loro e lui gli raccontava le vicende della guerra e della sua prigionia in Africa, anche se ogni tanto esagerava, raccontando delle storie fantastiche, che ci affascinavano sempre anche se sapevamo che erano storie improbabili. Come recita il famoso detto’’ Paese che vai usanza che trovi’’, anche Platania ha i suoi usi e costumi, le sue tradizioni popolari, le sue usanze religiose e pagane. Ricordo di quand’ero bambina, le poche donne anziane, oggi ormai scomparse , vestite da’’ Pacchiana’’, vestito che cambiava colore a secondo dello stato civile della donna che lo indossava, era viola se la donna era nubile, rosso se era sposata, nero o scuro se era vedova. Indossavano un bustino che era piu’ o meno lavorato con il pizzo e sulle spalle portavano uno scialle che si abbinava alla gonnella che era di seta o di raso. I capelli che erano per lo piu’ lunghi venivano annodati in una treccia e raccolti dietro la nuca ‘’a tuppo’’ ed erano fermati da una pettinissa. Oggi la ‘’pacchiana’’ non esiste piu’ e la si puo’ ammirare solamente durante le serate canore dei gruppi folkoristici. Le tradizioni popolari sono quelle tradizioni tramandate dal popolo, tradizioni tramandate da generazioni in generazioni, tradizioni affidate alla memoria degli anziani, o da qualche rara fotografia, o da qualche arnese da lavoro, dimenticato nei solai e nelle cantine. Nel mio paese diverse sono le tradizioni popolari: dalla ‘’Strina’’, alla ‘’Focara’’, alla ‘’Novena di Natale’’. Una delle tradizioni piu’ diffuse del passato, ma ancora viva nel cuore dei
Platanesi, e’ la ‘’Strina’’. A differnza della Strina Nicastrese, che inizia la Notte di San Silvestro e temina la notte dell’Epifania, la Strina del mio paese incomincia la notte della Vigilia di Natale e termina la notte dell’Epifania. Gruppi di amici, formati da adulti, giovani e ragazzi passavano di casa in casa a cantare la’’Strina’’ ed a chiedere doni ad amici e parenti, uno di loro portava un sacco di canovaccio chiamato’’Virtula’’, dove venivano messi i doni che la famiglia visitata le offriva prima di andare via. Alla famiglia visitata veniva augurata tanta felicita’ ed ogni bene. La strina in passato veniva considerata come un sacro vincolo d’ospitalita’, infatti gli strinari venivano accolti anche nelle famiglie che erano a lutto, in questo caso gli strinari venivano fatti entrare e ricevevano i doni in modo piu’ rapido e meno allegro. Se penso alla strina, i miei ricordi vanno lontani nella memoria, ricordo di quand’ero bambina, quando nel cuore della notte, venivo svegliata dal suono melodico di una fisarmonica e di un organetto. Ricordo mio padre, che dopo aver fatto cantare e suonare la strina agli strinari, li apriva e li faceva entrare in casa, invitandoli a bere e a mangiare. Si trascorreva cosi’ in gioia e in allegria qualche ora . Dopodiche’ agli strinari mio padre gli riempiva la viartula di cio’ che c’era in casa, i quali lo ringraziavano e se ne andavano cantando. Ancora oggi tutto cio’ accade, ma mentre una volta era la casa di mio padre a essere visitata dagli strinari, oggi e’ casa mia ad essere visitata, ma l’emozione e la gioia che si prova , quando nel cuore della notte si sente la strina cantare , e’ sempre la stessa anche se e’ trascorso un po’ di tempo. Un’altra tradizione popolare ancora diffusa nel mio paese e’ la’’Novena di Natale’’. La Novena di Natale, e’ una tradizione che si tramanda di generazione in generazione, di padre in figlio. Ha inizio il 16 dicembre e termina la mattina del 24. Un gruppo di ragazzi con vari strumenti musicali, all’alba, andava in giro per le vie del paese , suonando canti natalizi. In passato, cio’, aveva l’obiettivo di svegliare le persone del paese per invitarli alla messa mattutina. Oggi tutto cioè scomparso, ma la tradizione della Novena è rimasta, infatti, ancora oggi in tale periodo, un gruppo di ragazzi, sfidando a volte le cattive condizioni del tempo, si danno appuntamento alla villa comunale, per poi andare in giro per le vie del paese a suonare la novena. Sono per lo piu’ ragazzi che cercano di rispolverare e non far perdere questa antica tradizione. Essere svegliati all’alba con il suono di ‘’Tu scendi dalle stelle’’, da’ una grande emozione. ‘’Chilli da Novena’’, cosi’ vengono chiamati si fermano nelle vie del paese, dove qualcuno li apre e li invita s prendere qualcosa di caldo per rifocillarsi. Un’altra tradizione popolare da sempre praticata nel mio paese è
la
‘’Focara’’. Nella notte della Vigilia di Natale e nella notte di San Silvestro è consuetudine accendere dei grandi falo’, intorno ai quali si raduna tanta gente, giovani, ragazzi, adulti e dove si intrecciano canti e balli. Oggi portando mio figlio alla’’Focara’’ mi riaffiorano in mente i ricordi di quando insieme alle mie amiche e amici, all’uscita della Messa di Mezzanotte, ci siedevamo
sulla gradinata della scala di fronte alla “focara”, e tutti
insieme cantavamo delle tarantelle, al suono di fisarmoniche e di organetti. Si trascorreva cosi’ una serata diversa, stando insieme, a scherzare e a divertirsi. Una delle credenze pagane più’ diffuse in passato era il malocchio (jattura), si pensava che chi ne fosse colpito poteva essere oggetto di una serie di disavventure. Per tale motivo a volte si andava dai cosìdetti maghi o fattucchieri , spendendo molto spesso una fortuna, a volte fino a indebitarsi. Ricordo mia nonna che mi diceva sempre di raccogliere i panni dagli stendini prima che del
tramonto del sole, perche’ altrimenti li prendevano le
‘’ombre’’e, quindi i bambini si sarebbero ammalati, nel caso che si raccoglievano dopo il tramonto del sole, i panni dovevano essere esposti al sole il giorno seguente oppure riscaldarli sul fuoco. Un’altra credenza che ricordo mia nonna mi ripeteva spesso era quella di non scuotere la tovaglia da tavolo la sera al buio e nemmeno di buttare fuori le briciole, perche’ era un segno di malaugurio. Delle antiche tradizioni religiose del passato oggi le uniche rimaste sono la festa della Madonna del riposo. La festa patronale di San Michele Arcangelo e la festa di Santa Lucia. La fesyta della Madoona del riposo si celebra l’otto settembre. La chiesetta in cui si trova la statua della Madonna è stata costruita su una roccia, secondo una credenza popolare la Madonna avrebbe sostato in quel luogo lasciando l’impronta dei suoi piedi su un grosso masso detto appunto “pietra della Madonna”. Per noi platanesi questa chiesetta ha una notevole importanza, in quanto costituisce un legame profondo con il nostro passato. Mia madre mi raccontava che quando lei era ragazza si riunivano in comitive e si recavano in questa chiesetta dove si facevano le veglie notturnela sera della vigilia della festa. Era anche un momento di incontro con altre persone venute anche dai paesi vicini. Oggi la festa dopo tanti anni è stata ripresa e come nel passato si fa la veglia notturna il giorno della vigilia e poi il giorno della festa della la statua della Madonna viene portata in processione per le vie del paese accompagnata dalla banda musicale. Durante la processione vengono intonati canti dedicati alla Madonna. Anche le canzoni popolari, fanno parte del bagaglio culturale e storico di un paese, di un borgo. Varie sono le canzoni popolari: canzoni che a volte rispecchiano situazioni di vita realmente vissuta. Diverse sono le canzoni che si riferiscono al ‘’Borgo di San Teodoro’’, una di questa e’ la’’Lincella’. La Lincella è una canzone popolare che ha un doppio senso. Un ragazzo cerca di corteggiare una ragazza per strada, dicendogli di darle un po’ d’acqua, ma in realta’, il ragazzo non e’ l’acqua che vuole, ma qualcosa d’altro cioe’ il suo amore. La
ragazza le risponde che se lei fosse stata padrona della brocca non solo l’acqua le avrebbe dato, ma anche la sua vita. Tutto cio’ significa che la ragazza non e’ libera di fare cio’ che vuole, infatti in senso ironico la ragazza gli continua a dire che se la brocca si dovesse rompere, i suoi genitori le darebbero delle botte, cio’ significa che se fosse successo qualcosa sarebbe stato un bel guaio. Ma in realta’ il ragazzo essendo innamorato e’ disposto a tutto affinche’ possa avere l’amore della sua donna amata. Per quanto riguarda le canzoni popolari del mio paese è stato difficile reperirne. Le uniche che sono riuscita a “riscoprire” sono canzoni a sfondo religioso. Una di queste è’’Matre Maria’’. Canzone religiosa che in passato veniva recitata il Venerdi Santo’’. E’ una canzone che è stata tramandata da diverse generazione.
MATRE MARIA Matre Maria se mise lu mantu Jia ciangindu a vevia Cavia perdutu u sue caru fiju Affruntaru i judei e ce dissero ‘’Ca viti Matre Maria’’ Ciangiu caiu perdutu u miu caru figliu Rispuseru i judei e ce dissero ‘’Va lucu arriti ca lu truvi strittu e ligato di pidi alla capu’’, e ca ce dui phorgiarilli ca stanu fhaciundu dui chiovarilli e li stanu fhacindu lunghi e puntuti ca ne passare a carne ferita. Matre Maria se mise a ciangire : scurau la terra, scurau Maria che era tanta bella. MADRE MARIA Madre Maria Si mise il mantello E andava piangendo lungo la via , perche’ aveva perso il suo caro figlio, incontro’ i giudei che gli chiesero ‘’cosa avete Madre Maria? Piango perche’ ho perso il mio caro figlio. Risposero i giudei e gli dissero vai qua dietro che lo trovi legato stretto dai piedi fino alla testa, e poi ci sono anche due fabbri che stanno facendo due chiodi lunghi e pungenti perche’ devono essere messi nella carne ferita. Maria si mise a piangere . Si fece buio sulla terra, si rattristò Maria che era così bella.
Nellina
Pami Io non sono cresciuta nel rione di San Teodoro, ho abitato in vari posti nel corso della mia vita, ma abitando comunque ormai da vent’anni a Nicastro lo considero il mio paese. Ho sempre vissuto lontano dai miei nonni e non ho mai avuto la fortuna di farmi raccontare leggende o comunque storie del passato. Mi sono resa conto assistendo alle discussioni del gruppo P.O.N., di quanto assai poco conosco del posto in cui vivo, della sua storia e delle sue leggende. In questi racconti letti, si ricollega il passato al presente e si vede come danti atteggiamenti e tanti problemi sociali sono rimasti simili ad oggi. Nella prima leggenda si parla di grotte, castello, fiume, stradine del quartiere, di una trovatella e di fate. Fate buone che crescono la bambina fino all’età di diciotto anni, cioè fino a quando la ragazza non sente la necessità di vivere con la gente come lei, umani. Allora
và
a
vivere
a
Nicastro, e qui il principe D’Aquino se ne innamora subito e la vuole sposare. Ma come tutti sanno a quei tempi c’erano i ranghi da rispettare e dopo aver combattuto tanto per poter stare insieme si sposano. Dal matrimonio nascono quattro figli e dieci anni di felicità; dopodiché lei inizia a guardarsi intorno e a vedere che c’è gente che soffre, allora come oggi, ed ha bisogno di aiuto, malati, poveri; allora il marito le vieta di frequentare certa gente ed è costretto a rinchiuderla in una delle loro proprietà “Cassino”. Lei è molto infelice, non può vedere nessuno e neanche i suoi figli. Saputo cosa le era accaduto le fate la vanno a trovare, allora lei esprime loro il desiderio di tornare fata, e così accade. Si racconta che nella notte lei vada nelle case della gente del quartiere e accarezzi i bimbi buoni e tiri le orecchie a quelli cattivi. La cosa che mi ha colpito di più da mamma è che io non avrei mai abbandonato i miei figli per aiutare gli altri. Non so se sia giusto o meno, ma io non vivrei senza di loro. Nella seconda leggenda, si parla di pulcini d’oro e gallina, che vivevano nel castello custoditi da una maga gigantesca. Una sera la zia Betta, un’abitante del quartiere San Teodoro, ne sente il pigolio ed incuriosita và a sbirciare, ne rimane affascinata e così decide di rubare un pulcino d’oro, e ci riesce. La maga se ne accorge e si vendica con tutto il rione creando disagi alle case. La gente allora all’inizio pensa che zia Betta abbia il malocchio e la vuole cacciare, già questo ti fa capire quanto le credenze popolari possano essere pericolose e cattive, ma saputa poi la verità la convincono a restituirlo. Allora zia Betta chiede in cambio alla maga il segreto per rubarli,
la maga le rivela che bisogna superare 5 prove, prove impossibili, che ti fanno pensare che come accade nella vita reale ti si parano davanti e ti sembrano insormontabili. Nella terza storia si parla di un amore impossibile e contrastato e sempre tra persone di ranghi diversi. Maria una trovatella, viene adottata dall’Imperatore Federico II e ribattezzata col nome di Ingrid, si innamora di un paggio, ma loro stessi si rendono conto dell’impossibilità di questo amore, però non potendone fare a meno decidono di vedersi di nascosto, fino a quando l’Imperatore, a causa dei pettegolezzi del paese, lo viene a sapere quindi la fa rinchiudere e minaccia di morte Gerlando. Lei riesce ad avvertirlo appena in tempo e lui scappa sul suo cavallo ed attraversa il bosco che da Niola arriva al Reventino e si nasconde tra i suoi folti ami. L’Imperatore lo fa cercare a lungo, ma invano, mentre Ingrid è sempre più infelice, fino a quando una notte sente un piffero suonare ed una voce cantare, capisce allora che è il suo amore lontano ed impossibile. Così continuano, anche se distanti ad amarsi, perché un grande amore supera anche le distanze. Si racconta che di notte si sentano delle grida di dolore, o dei suoni, o del chiacchiericcio, oppure si veda una luce ardere in uno dei vani della rocca, ma magari è solo il fiume o il vento tra le foglie, oppure una stella che fa capolino tra i vani di una finestra. Questo ci porta a pensare a quanto è strana la suggestione, perché il fatto di conoscere una leggenda ti faccia vedere le cose in modo diverso. Sicuramente, ora, quando guarderò il castello da lontano, lo vedrò con occhi diversi, e quando passerò tra le viuzze di San Teodoro, mi fermerò a leggere le targhette con i nomi delle vie per ritrovare Vico Seggio o il ponte di Casalinuovo. Mi dà una sensazione strana parlare di fate, grotte, maghe, castelli, Imperatori e Principesse, mi fa sicuramente tornare con la mente alla mia infanzia, le favole e l’ingenuità dei bambini che credono che queste cose possano essere vere. Oggi abbiamo letto alcune storie di personaggi realmente esistiti e vissuti nel passato. Nella prima si parlava di un ciabattino che dopo la morte della moglie aveva deciso di cambiare lavoro e diventare un cantastorie, anche la sua voce non era molto adatta, comunque cantava sempre la stessa storia con un finale tragico. Ad un certo punto sparì dalla circolazione, solo dopo si seppe che era morto da solo in un portone ed era stato sepolto senza un funerale vero e proprio. Possiamo dire che questo era un personaggio un po’ strano e qualcuno ha raccontato che conoscono dei casi di “barboni” che nel momenti della morte sono stati
seppelliti con funerali pagati da collette fatte da persone che in vita li avevano conosciuti. Nella seconda storia troviamo un certo Antonio, che, per avere un po’ di rispetto dalla gente del quartiere si era aggregato ad una “fibbia”, odierna cosca, ma leggendo la sua storia ci si accorge subito della scelta sbagliata che aveva fatto, poiché dopo una riunione davanti alla chiesa del Soccorso, era stato sorteggiato per uccidere un uomo che aveva offeso il capo fibbia. Lui molto abbattuto torna a casa e assillato dalla moglie, le racconta tutto, così lei, ignorando le raccomandazioni del marito di farsi gli affari suoi, decide di aiutarlo. La moglie riesce ad avvisare l’uomo che doveva essere ucciso, ma è Antonio che ne paga le conseguenze, fortunato a non essere stato ammazzato, ma era stato pestato di brutto. Durante la convalescenza lui aveva rivelato alla moglie che aveva deciso di fuggire in Argentina, altrimenti lo avrebbero ucciso. Inizia allora il loro rapporto epistolare si và via via scemando fino a quando lui non scrive più alla moglie. Poi dopo molti anni si fa risentire chiedendo di poter ritornare a casa, ma ovviamente la moglie gli chiude la porta in faccia. Diciamo che ciò avveniva soprattutto nel passato, ma anche adesso ci sono dei casi in cui uno dei due coniugi ha una doppia vita con figli. Mi ricordo di aver scoperto da grande che mio nonno paterno era uno di questi, conviveva con una donna dalla quale aveva avuto un figlio, intanto aveva conosciuto mia nonna e se l’era sposata , intanto frequentava l’altra e con la quale aveva fatto un altro figlio, dal matrimonio con mia nonna sono nati altri otto figli, diciamo che alla nascita del terzo figlio poi aveva smesso di frequentare l’altra anche perché avevano dovuto cambiare paese per lavoro. Quando è morto mio nonno i due figli della convivente si sono fatti avanti per reclamare l’eredità, che consisteva in un appartamento, eredità che andava divisa per ben dieci figli più la moglie, ed è stato allora che mia mamma ha conosciuto i fratellastri, con i quali hanno rapporti civili, ma niente di più. La terza storia la conoscevo perché mio figlio frequenta gli scout di San Teodoro, allora alla festa di San Giorgio dei genitori hanno organizzato delle scenette in uno dei piccoli piazzali del rione, ed hanno inscenato questa storia. Sono state molto brave ad interpretarla, la gente intorno a me si è divertita molto, io un po’ meno perché il dialetto stretto non lo capisco molto. In questo racconto si parla di una nuora che alla morte della suocera, ormai in età avanzata, chiama una vicina per farsi aiutare a lavarla e vestirla per la veglia ed aspetta insieme a lei le prime luci dell’alba per poi mettersi al balcone ad urlare il suo dolore per la perdita, anche se per lei era stato un sollievo la sua dipartita. Questa storia un po’ si associa a quella di mia suocera con la sua , certo non si è messa sul balcone a gridare il suo dispiacere, ma ha sofferto molto , oltre quaranta anni con la suocera in casa, alla quale non andava mai bene niente, non l’ha mai aiutata, l’ha sempre trattata male, mia suocera ha sacrificato per lei la sua giovinezza. Per lei la sua morte, avvenuta alla veneranda età di novantotto anni, è stata una liberazione, certo era dispiaciuta perché
per lei era come una madre, arcigna, che un po’ sostituiva la sua che abitava in un paese lontano. Invece la storia di Bruno e Marianna narra di uno scherzo che un amico di Bruno gli fa raccontandogli che una ragazza che aveva conosciuto negli Stati Uniti, voleva conoscere un italiano e trasferirsi in Italia con le sue ricchezze. Bruno che era povero e chiedeva l’elemosina per strada, gli disse di scriverle e dirle che lui la voleva. Da quel giorno non fu più lo stesso, si vestiva meglio ed aveva pure smesso di zoppicare. In attesa della risposta della ragazza, che non sarebbe mai arrivata, Bruno si ammalò gravemente e quando l’amico andò a trovarlo lui subito con un filo di voce gli chiese notizie di Marianna e l’amico viste le sue condizioni per pietà continuò con la farsa e gli disse di rimettersi perché presto sarebbe arrivata. Dopo un paio di giorni Bruno morì, contento perché aspettava la giovane . Questo racconto mi ha fatto pensare un po’ al fatto che a volte le bugie possono migliorare la vita di qualcuno, quindi se dette a fin di bene a volte si possono dire. Questa storia mi ha riportato alla mente un racconto fattomi da un mio vecchio compagno di scuola, che mi narrava che i genitori si erano sposati per procura, la madre viveva in Venezuela e lì aveva conosciuto un italiano parente del padre che le aveva detto che in Italia c’era quest’uomo che cercava moglie, lei lo aveva visto solo in fotografia e poi si erano scambiati qualche lettera ed aveva accettato di sposarlo. Il problema era che lui per motivi suoi non poteva affrontare quel lungo viaggio, mentre lei non poteva andare via di casa da nubile, così l’amico aveva fatto le veci del futuro marito
al
matrimonio.
Nell’ultima
storia si parla di un certo Pasquale al quale
piaceva
raccontare
delle
storie, in parte inventate, ai bambini. Era una persona che raccontava un sacco di frottole, coloriva le sue storie con grande fantasia, i bambini, o almeno alcuni di loro, ne erano coscienti, ma anche molto affascinati e lui aveva una risposta pronta per ogni loro domanda. Raccontava storie di cavoli e zucche gigantesche, della sua amicizie con il re Vittorio Emanuele III che non giocava a tressette senza di lui. Poi della guerra contro gli austriaci, che lo avevano trovato da solo e lo avevano attaccato, ma lui era riuscito ad ucciderli tutti tranne uno, perché quando questo gli si era avvicinato, lui aveva visto che era orbo da un occhio, allora Pasquale con uno sputo gli aveva accecato pure l’altro e poi l’aveva fatto prigioniero. Io nella mia vita non ho mai incontrato un personaggio del genere, ogni tanto mio suocero quando alza un po’ il gomito è in vena di racconti e narra storie un po’ inventate ed un po’ vere, ovviamente io da adulta riesco a discernere la
realtà dalla fantasia, ma riesco ad immaginare e me li vedo proprio quei bambini seduti a terra intorno a lui ad ascoltare stupiti ed incantati quelle storie meravigliose. Oggi abbiamo parlato di tradizioni popolari, quelle ormai scomparse e quelle che ancora oggi esistono e vengono praticate. Sparite le pacchiane, il varrile, la vozza, sono rimaste ancora “a Corajisima”, “a Strina” e la “Festa della Santa Croce”. A Corajisima di Mariangela, nonna di un caro amico di mio marito, era una pupazza vestita da pacchiana, che veniva appesa durante il periodo di Quaresima e doveva ricordare alle donne del rione che era tempo di filare lana e lino. A quello stesso filo era attaccata un’ arancia, nella quale erano infilate sette penne di gallina che segnavano il passare del tempo penitenziale. La prima penna veniva tolta la prima domenica di Quaresima e l’ultima la sera del Sabato Santo. Accanto a questa pupazza veniva appesa una sarda che indicava la fine del periodo dell’abbondanza iniziato con il carnevale e l’inizio del periodo di magra, cioè l’astensione dal mangiare la carne. A Strina era un canto che ancora oggi si fa nel periodo che và dalla notte di San Silvestro fino all’Epifania e si cantava sotto le finestre degli amici in piena notte, per ricevere, in cambio del canto augurale, una strenna, cioè un dono, ovviamente cibo e bevande. Spesso i cosiddetti cantori erano ubriachi ed insistevano fino a quando i padroni di casa non li facevano entrare e se ciò non avveniva iniziavano con le bestemmie. A me non è mai capitato che me la cantassero, però mio marito mi racconta che quando lui era piccolo, il padre andava a farla con gli amici. Così come oggi accade che anche nella tradizione, gli uomini ricercavano le cose essenziali della vita: un rifugio, una famiglia e qualcosa con cui sfamarsi. La Santa Croce, invece, si svolge ancora oggi tra il primo ed il tre maggio, ed è una festa che secondo la tradizione popolare vuole ricordare il ritrovamento della vera Croce di Gesù sul Golgota da parte di Sant’ Elena, madre dell’ Imperatore Costantino. Per l’occasione si preparano festoni colorati da appendere per le strade del quartiere e poi quasi ogni via prepara la sua croce, ed ognuno cerca di renderla più particolare e bella possibile. I bambini fermano le auto e le persone per strada per raccogliere i soldi per comprare pentole di terracotta per fare il gioco della pignata che consiste nell’appendere ad una fune un certo numero di pignate a vari centimetri di distanza, poi una alla volta i concorrenti bendati e muniti di bastone lungo circa un metro e mezzo, devono cercare di spaccarle colpendole ed appropriarsi così del rispettivo contenuto, e poi comprano fasci di frasche per fare il falò finale facendo a gara per vedere chi fa il falò più grande. Prima della festa ci si riunisce per recitare il Rosario e poi si fa una piccola processione. Mio marito ricorda con affetto questa festa, perché, a suo dire, era un’ occasione per riunirsi tutti insieme, erano partecipi anche i genitori ed anche loro avevano dei compiti da svolgere. Un’ altra tradizione che è in uso tutt’ ora, anche se meno diffusa rispetto ad un tempo, è quella delle formule magiche, un’ unione tra magia,
religione e scienza, venivano effettuati riti propiziatori tipo per il malocchio e per dolori vari, mal di pancia, piedi, e venivano effettuate per cercare di dominare ciò che l’uomo con la ragione non riusciva a fare. Venivano e vengono tutt’ ora tramandate di generazione in generazione oralmente, infatti alcune sono incomprensibili. Quelli che credono in queste cose, non riescono a convincersi del fatto che spesso le guarigioni sono solo coincidenze che queste pratiche sono inutili e che non centrano nulla con la religione, anche con questi riti si sono appropriati di frasi che sono tipicamente della Chiesa. Mi ricordo che quando mio fratello era piccolo ed io avevo circa undici anni, mia madre mi mandava con una delle sue scarpine dalla cosiddetta “sfascianatrice”, perché diceva che mio fratello era stato “adocchiato”. Io ci andavo controvoglia perché non credevo e non credo ancora oggi a queste cose, e la signora che doveva togliere il malocchio iniziava a recitare frasi incomprensibili facendo una serie di croci con il pollice sulla scarpina di mio fratello, io la guardavo stranita e con scetticismo, allora lei mi guardava e mi diceva che se non ci credevo me ne dovevo andare perché altrimenti lei non sarebbe riuscita a toglierlo. Molte persone credono che questi riti siano come delle preghiere, perché loro invocano la protezione di Dio e quindi per loro il malocchio è qualcosa che và contro di lui, come un male da cui Dio può e deve difenderci, ma in realtà non hanno niente a che vedere con la religione, il malocchio è considerato dalla chiesa un peccato gravissimo
condannato come demoniaco. Il fenomeno della
superstizione è stato un parte superato dalla cultura, esiste ancora perché in alcuni è radicata la predisposizione nel credere all’effetto di questi riti ed in altri perché ci si può trovare in un momento di debolezza psico-fisico. Spesso crederci fa più danni di quanto uno immagina, poiché credere nel malocchio e nelle superstizioni mette in moto l’autosuggestione, che lavora soprattutto quando qualcosa ci fa così tanta paura da non riuscire a controllare i pensieri che nascono da questa paura. Essere certi che si è sfortunati o che le cose vanno sempre male perché colpiti da malocchio e fatture, non porta altro che risultati deludenti. Come dice una pubblicità “ l’ottimismo è il profumo della vita”, è trovare il lato positivo delle cose. Siamo quasi giunti alla fine di questo viaggio nelle tradizioni del quartiere di San Teodoro ed oggi abbiamo parlato dei canti popolari più conosciuti, canzoni come “A Lincella” , “Zu monachiello”
e “Bonasera
Antoniuzza” . Nella maggior parte di queste canzoni c’è un doppio senso, soprattutto gli uomini le dedicavano alle loro morose con le quali non potevano incontrarsi e parlare di certe cose, anche perché le ragazze uscivano solo o per andare in chiesa o per andare al fiume a lavare i panni, allora a modo loro gliele cantavano. Per esempio nel primo canto il ragazzo incontra la ragazza per strada, dopo che lei era andata alla fontana a prendere una lincella d’acqua e lui, sottintendendo altro, gliene chiede un po’, ma il coro risponde che per strada certe cose non si possono fare, mentre lei subito pronta dice
che se lei avesse potuto decidere della sua vita si sarebbe concessa volentieri , ma non poteva altrimenti la madre l’avrebbe picchiata, ma lui subito pronto le risponde con una proposta di matrimonio riparatore. Nella seconda, il monachello non è proprio un vero monaco, ma un ragazzo che pur di vedere la sua innamorata, si finge tale per riuscire ad entrare in casa sua con la scusa di una confessione che la ragazza malata deve fare. Così lui si chiude in camera con lei per confessarla, ma in realtà cerca solo un bacio, mentre la madre preoccupata per la salute della figlia piange dietro la porta della camera. La terza invece è una dichiarazione d’amore. Lui incontra per caso per strada la donna che ama e le rivolge la parola, ma lei è preoccupata per ciò che la gente del paese può pensare di lei, ma lui le dichiara il suo amore e le fa capire di essere benestante, di possedere delle proprietà terriere e una casa. Lei ricambia il suo amore e gli confessa che se anche la famiglia dovesse essere in disaccordo con lei, la ragazza è decisa a non arrendersi. Ma nella tradizione non ci sono solo canzoni d’amore, ma anche canti di chiesa per i santi, per i morti per le feste tradizionali. Una delle ricorrenze più sentita a San Teodoro è quella della processione del Venerdì Santo dove la gente del quartiere fa il giro per le vie del rione con la statua dell’Addolorata, fino a rientrare nella stessa chiesa di San Teodoro dove la Madonna incontra il Cristo morto. Una volta invece la statua veniva portata fino alla Cattedrale di Nicastro dove avveniva questo incontro, poiché San Teodoro non possedeva la statua del Cristo, ora da qualche anno dopo una donazione fatta al quartiere ce l’ha allora si fa solo il giro delle vie del rione. BAMBINUZZU, BAMBINUZZU (FILASTROCCA)
Bambinuzzu, bambinuzzu culla vesti a turchinella i capilli vrundulilli tutti quanti anella anella. Durci mamma vuajju pani, duci fijju un ci ‘ndè e và supra alla spurtunella ca ci truovi i passulilli, passulilli nun ci ‘ndaiu truvatu a Madonna s’anginucchiatu. Citu citu fijju mio ca mò veni a patrunella e ni duna i sordicialli e n’accattamu u paniciallu.
Lu dimoniu supra u munti cosi brutti ci dicia, và maritati o Rusulia. Iu sugnu maritata, cu Gesù sugnu spusata, e Gesù è lu Patri Eternu cala l’Angilu e ni difhende.
Pami
Rinella Oggi abbiamo letto tre bellissime leggende del nostro antico rione” San Teodoro”. Sono delle storie bellissime ed emozionanti, a me personalmente mi sono venuti in mente tanti ricordi di quando me li raccontavano i miei nonni e anche il nostro sacerdote Don Pietro Bonacci , che adesso non c’è più, ed ho rivisto quei momenti quando io piccola bambina mi recavo al catechismo e Don Pietro ci raccontava queste leggende facendoci capire tanta cose, infatti io essendo una bambina piccola credevo molto a queste leggende specialmente quella della “ Tana delle Fate”, che ci racconta che sotto la Via Seggio dove c’è il fiume Canne c’era un rifugio delle fate, io da piccola andavo sempre con mia zia e mia nonna al Fiume Canne, andavamo di quei tempi per lavare le coperte di lana, perché una volta si usava così e io mi divertivo tantissimo era come se facevamo una festa perché di quel posto mi piaceva tutto, l’odore che c’era, i fiori che erano di tanti colori, l’acqua del fiume che era limpida e brillava, c’erano anche degli alberi di frutta, era proprio bello e adesso sentendone parlare di nuovo mi sono venute in mente di nuovo e con tanto piacere mi piace parlarne. L’altra leggenda è quella della chioccia e i pulcini d’oro, questa è una storia molto significativa perché ci rispecchia in certi sensi il mondo e la vita di adesso, infatti tre anni fa nel castello Normanno c’è stata una festa e io ci sono andata e mentre camminavo pensavo proprio a questa storia, e come se chiudevo gli occhi e li vedevo. L’altra leggenda è quella del paggio e la principessa anche questa molto bella e significativa, perché ci fa sentire e capire tanti sentimenti e ci rispecchia le cose che succedono alla nostra quotidiana vita di adesso. Oggi abbiamo parlato di nuovo del mio quartiere: San Teodoro, del quale abbiamo letto delle storie molto interessanti prese dal libro; scritto dal nostro precedente parroco Don Pietro Bonacci. Sul libro che si chiama “ Ricordi di altri tempi”, troviamo storie che ci fanno conoscere tanti personaggi: uno è mastru Vriulillu che era una ciabattino molto umile, e questo ci fa capire come vivevano tantissimo tempo fa. Un altro personaggio era il povero Antonio che si ritrovò in una storia di mafia a causa della sua povertà. Queste storie ci fanno riflettere molto e ci portano ad una realtà un po’ diversa. Un altro personaggio che ricordo personalmente era un cantastorie di nome Vincenzino Folino che girava nel castello e raccontava delle poesie. A guardarlo faceva un po’ paura , ma a ripensarci potremmo paragonarlo ad un artista dei nostri tempi. Una volta nel mio quartiere c’erano altre usanze come per esempio, quando c’era un funerale si doveva piangere e gridare forte altrimenti dicevano che era una vergogna, troviamo un esempio nella storia della morte della suocera, a la nuora aspetta che fa giorno per affacciarsi alla finestra e gridare :” Disgrazia miaaaa”. Si doveva portare il lutto per molto tempo, specialmente mia nonna mi raccontava sempre di chi moriva di una “morte brutta” cioè quando venivano uccisi. Sempre negli anni più antichi si credeva anche quando una
persona moriva, il corpo non cèì’era più ma lo spirito girava attorno alle persone care. Un episodio che ricordo tristemente me lo raccontava sempre mia nonna ed accadde sempre a “San Teodoro” esattamente in Via Marasco: due fratellini prendendo il fucile del padre si spararono e uno di loro morì; nonna “Catarnuzza” diceva che ogni tanto, specialmente la mattina presto, alzandosi sentiva sempre un pianto amareggiato di un bambino piccolo. Quando me lo raccontò per la prima volta io mi misi piangere e ogni volta che entravo in casa sua mi veniva in mente, ed è come se sentivo in me un forte bisogno di pregare. Sempre nel nostro rione ci sono due chiese una la Veterana che è situata su una collinetta ed è visibile da tutto Nicastro, e da l’impressione che protegge tutti i cittadini. L’altra è la parrocchia di San Teodoro, tutti noi abitanti siamo legati da ricordi affettivi e soprattutto devoti ai santi di cui custodiamo le statue, in particolare la statua dell’Addolorata. Ognuno di noi, chi per un motivo, chi per un altro , abbiamo qualche episodio da raccontare; nella nostra famiglia è successo che negli anni ’60 a mia suocera è morto un figlio di tre anni e mezzo. Naturalmente la perdita era stata grande e lei non riusciva a rassegnarsi, piangeva in continuazione, finchè una notte sogno la Madonna proprio come è vestita la statua nella nicchia con il bambino vicino, su un balcone colmo di fiori. Lei mia suocera, lo chiamava affinché tornasse a casa ma il bambino si stringeva sempre di più al corpo della Madonna. Da quel giorno mia suocera visto che il figlio era in buone mani
dovette
rassegnarsi.
Anche
oggi
abbiamo parlato del nostro fantastico e antico rione di San Teodoro, parlando delle tradizioni popolari, che con tanto dispiacere una buona parte sono state spazzate via dal progresso di oggi, ma alcune per fortuna sono rimaste: come la “ Corajisima” “ A strina” e “ La festa di Santa Croce”. La corajisima è una tradizione che a me a guardarla mi fa un po’ paura perché durante i quaranta gironi che precede la Pasqua, viene appeso sulla Via San teodoro un filo, dove appendono la corajisima che è una bambola di pezza, vestita di pacchiana, di colore nero, poi allo stesso filo attaccano un’arancia nella quale erano infilate sette penne di gallina un’aringa o una sarda, questo ci fa capire che il tempo durante la Quaresima era tempo di astinenza. Poi c’è la strina che è un canto popolare antico e si canta il periodo di Natale, e poi c’è la Santa Croce, che è una festa
molto bella, inizia il primo di Maggio fino al giorno tre, questa me la ricordo con tantissimo piacere, perché mi rivedo adesso una bambina piccola e piena di entusiasmo a preparare tutti i preparativi facevamo tante bandierine, disegnavamo un grande sole e anche la luna e usavamo della carte colorata erano cose davvero belle. Associate a questa tradizioni ci sono molte formule magiche, che un tempo venivano praticati con frequenza, ma soprattutto con assoluta credulità, si tratta di una quasi misto tra religiosità e paganesimo, come ad esempio l’affascino e su questo mi ricordo che mia nonna ci credeva tantissimo infatti mandava proprio me da una sfasciatrice, che dopo aver fatto uno o più segni di croce su un oggetto di una persona colpita dal malocchio, incominciava a sbadigliare, e pronunziare una formula, un’ altra formula magica è molto esercitata e per guarire la verminazione, poi pure per calmare il dolore di pancia e per allontanare la tempesta e per guarire gli occhi arrossati. I Canti popolari del mio rione, S.Teodoro, sono tantissimi, oggi abbiamo parlato di alcuni di essi. A Lincella” , Canzone con doppio senso ; in quanto il ragazzo cercava un contatto fisico con la ragazza e gli chiedeva l’acqua , però il ragazzo desiderava ricevere altre cose . L’altra canzone antichissima è “ Bonasera Antoniuzza “ sempre un altro canto di amore , questo è contrastato dai genitori di lei , anche se lui diceva di possedere dei terreni e la casa . L’altra è uzz’u monachiallu , canzone comica , nel senso che fa un po’ ridere , per il modo in cui i due innamorati cercano di rimanere soli , infatti lui si traveste da monaco , lei si finge ammalata , bussa alla porta chiedendo l’elemosina , ma la mamma preoccupata per la salute della figlia lo invita ad andarsene , lui chiede di poter confessare la ragazza e la mamma convinta che Dio possa fare il miracolo di guarirla lo fa entrare , rimanendo dietro la porta a piangere , intanto i due si abbracciano e si baciano , ridendo alle spalle di quella poveretta che avevano preso in giro . Queste canzoni li cantava sempre mio nonno con la chitarra , e mia nonna gli rispondeva con il ritornello , a guardarli facevano proprio tenerezza e io li ascoltavo sempre , ma adesso capisco che i tempi sono ben diversi , da come erano allora
Rinella
Sofia L’unica cosa che mi porta ad introdurmi in questa leggenda, e quello che mia nonna raccontava sempre, la storia della cosiddetta “Trovatura”, che era una “Chioccia con 12 pulcini d’oro”. E si diceva che “ chi vedeva questa chioccia con i pulcini bastava acchiapparne uno o pure toccarlo era fortunato per tutta la vita. Avevo circa 10-11 anni quando mio padre mi raccontò che una notte sognò la chioccia con i pulcini, che gli indicò un luogo dove si nascondeva, di recarsi sul posto e scavare. Mio padre si alzò e si avviò di notte, nel punto giusto e si mise a scavare senza trovare niente. Mi ricordo anche i miei nonni paterni quando mi raccontavano la storia del l’oro passato, nella loro cucina tutta di rustico vicino alla stufa a legna, sento ancora il profumo del mangiare e anche del fumo. Era tutto cosi piacevole stare ad ascoltare i loro racconti. Anche loro raccontavano spesso della “travatura”. Ci sono state tante persone che sono riuscite ad acciuffare un pulcino o anche la chioccia. A quell’epoca era per loro, forse l’unica via per cercare fortuna, perché erano molto poveri. I miei genitori ogni tanto mi raccontano che la loro giornata tipo era sempre uguale sul mangiare, o alla mattina, a colazione a volte mangiavano pane e sarde. Quando già i miei nonni erano già a lavorare nei campi da ore .ogni volta che mi si racconta, mi sento male, perché oggi si ha così tante cose, invece allora non si aveva niente o poco. Davanti la casa dei genitori di mio padre c’ era una grande pigna alta forse una ventina di metri . Quando essa era piena di frutti, mio nonno molto pazientemente mi sgusciava i pinoli, a me piacevano tantissimo. Di fronte alla casa c’era un villaggio dei rom. Ogni giorno si avvicinavano e gli chiedevano a mio nonno di dargli delle pigne, ma quando venivano ogni minuto, perdeva la pazienza, e li rincorreva con un bastone, e loro scappavano via. La cosa buffa, era che ogni volta che volevano le pigne si presentavano 20 25 persone tra bambini e adulti. Quei scorci di vita sono sempre presenti in me. Anche i colori dei vestiti dei rom mi sono rimasti in mente e non solo, ma anche l’odore del sapone di casa, che usavano per lavare nel fiume. Essendo cresciuta in un quartiere difficile mi vengono raccontate tante storie dai miei genitori, ma ne scrivo una che mi ha toccato molto da vicino, nel senso che abitavamo vicino. Questo fatto successe trent’anni fa, ancora mi rabbrividisco quando ne parliamo. Una volta c’erano le cosche si riunivano 4 -5 persone e rubavano il raccolto della povera gente, così loro non sudavano, si approfittavano della roba degli altri. In questo caso rubarono non so quanto olio. Incolparono anche un mio parente, ma non era così. Poi, col passare del tempo queste persone continuarono a fare del male, e ad uno di questi gli tagliarono la testa con un’ascia. Io avevo un cantastorie speciale, la mamma di mia mamma, era un pozzo di simpatia ne raccontava di tutti i colori, tanti scorci di vita a lei successi. L’altra sera, parlando con mia madre fecimo tante di quelle risate, una volta mia nonna abitava in Via Conforti, aveva 7 figli adolescenti e non. Lei per tirare avanti la
baracca come si suol dire faceva il bucato al fiume a chi non poteva farlo e poi gli davano qualcosa. Un giorno una signora gli disse “Oh Nugè vidimmi st’alivi si su buani ?”. Mia nonna furba gli disse: ”Hoi cummari mia, su mualli i putiti jittari!”. La signora prese le olive e le diede a mia nonna per buttarle. Lei tornò a casa con le olive che non erano affatto non buone, ma l’aveva fatto per portarle a casa perché erano finite, e poi non avevano tanto da mangiare. Dato che la signora stava bene economicamente, non ne capiva niente di olive. Mia nonna ne aveva bisogno si fece un bel po’ di olive, per sfamare i propri figli e tante altre cose che gli sono successe. E tutto questo succedeva perché era una vita molto difficile. Le tradizioni popolari per me sono una delle cose da non dimenticare, perché reputo che la vita di allora era molto più genuina, faticosa ma più semplice. Nel senso che si lavorava duro dalla mattina alla sera, e il lavoro non era sotto casa, dovevano camminare per ore fino ad arrivare nei campi. Sono molto affascinata dal ruolo che svolgo nel gruppo Folkloristico, e dato che la sento nel cuore, la tradizione mi riesce molto bene. Durante le serate raccontavamo dei scorci di vita popolare, di come si corteggiava una ragazza, e di come si ci divertiva a cantare e ballare, in qualunque momento del giorno. Anche dopo una giornata di lavoro, era un modo di rilassarsi e di stare in compagnia. Poi mi colpisce molto quando parliamo con donne anziane, subito si riferiscono a come era la vita allora, andavano a lavorare con gli uomini, lavavano i panni al fiume, quando facevano “a lissia”, ci mettevano una giornata,perché mentre lavavano tutto il bucato lo asciugavano sui rovi. E poi alla sera sene tornavano a casa e cucinavano, poi continuavano affinché andavano a letto. E tengo cosi tanto a quello che stiamo facendo io e miei figli, che spero di coltivare ancora per molto questo sogno. Infatti ho cucito il vestito di pacchiana a mia figlia, e mi stò cucendo il mio perchè voglio che mi resti il ricordo fino a quando Dio mi vorrà sulla terra. Quando l’amore per la tua terra e la tua tradizione ti toccano il cuore, è una cosa bellissima e meravigliosa. Per quanto riguardano le formule magiche mi ricordo soltanto quello contro il malocchio, oppure quello della verminazione, che la mia nonna paterna sapeva fare. Ma io pero inconsciamente non ho mai capito che significato aveva, che potere aveva. Ma quando sono diventata più grande non ci credevo cosi tanto. Dei canti popolari che abbiamo approfondito, sono tutti basati sui sentimenti dell’amore. In tutti i modi, dovevano corteggiare le ragazze che non era tanto facile incontrarle per strada. Per me era più bello ai loro tempi, perché secondo me era più forte il desiderio d’incontrarle. Mi affascina tanto anche i vestiti che indossavano, cosi belli, e poi erano più naturali più semplici senza trucco, è i capelli lunghi .Gli uomini di una volta erano più romantici gli cantavano sempre canzoni le cantavano le famose serenate, sotto la finestra dove lei dormiva. Una volta le uscite delle ragazze erano in chiesa la domenica a prendere l’acqua, o andare a lavare i panni. Il ragazzo per poter prendere il primo
approccio con la ragazza, gli chiede dell’acqua, non di bere alla fontana, ma dalla lincella che essa portava. E delle persone che erano vicino a lei gli dicevano al ragazzo, che acqua non se ne vendeva per le vie. La ragazza innamorata del ragazzo gli rispondeva che se la lincella era sua, gli dava sia l’acqua che la propria vita. Le donne che erano là gli ripetevano al ragazzo che se la lincella era sua gli dava l’acqua e la sua vita. La ragazza gli rispondeva di stare attento che se mi rompi la lincella mia mamma ti da le botte. Le donne ripetavano che se gli rompe la lincella la mamma sua gli rompe la testa. Infine il ragazzo gli disse che se pure gli rompesse la lincella poteva pagare alla mamma sua , quello che voleva dire lui, che se la sposava subito, perché era l’unica cosa che voleva.
Sofia
Stella Primo giorno di pon entusiasmante si parla di un quartiere che amo..quello in cui vivo,dove sono nata e cresciuta S.Teodoro. La parte a nord di Lamezia il rione più antico ai piedi del castello normanno. caratteristica del posto sembra un regno incantata..con le sue stradine piccole e strette,le casette unite, i vecchi forni ormai chiusi e cadenti. dove quando ero piccola si sfornava un buon pane caldo, sento ancora l odore che si diffondeva dappertutto, la chiesetta antica con il santo di cui prende il nome al centro dell’altare principale, ricordo ancora i cori delle vecchiette, che intonavano inni all'immacolata, e quell'odore d'incenso, che ci trasportava in una dimensione paradisiaca. Mi ritorna in mente la mia scuola materna, situata accanto la chiesetta della veterana in vetta alla collina, era un giorno di primavera, nell'aria profumo di fiori di pesco e di ciliegie mature, un sole splendido nel cielo azzurro, la nostra maestra che grida " oggi visite,il nostro parroco viene a raccontarvi le favole". Tutti felici corriamo nel giardino dove, Don Pietro Bonacci era già seduto ad aspettarci, e la nostra cuoca Nina circondata dal profumo delle cose buone che solo lei sapeva cucinare, eccola e come se la rivedessi proprio in questo momento con un vassoio di ciambelline ci esortava a stare seduti e in silenzio. Ecco la leggenda di Gelsomina, Don Pietro riusciva a a farti vivere le storie coinvolgendoci, con il suo modo sereno,unico di racconatarle quasi, come se tutto fosse reale ed io ad occhi aperti,sognavo le fate bellissime e buone, che la notte si avvicinavano alla mia casa e vegliavano su di me, com' ero orgogliosa di vivere in quel posto circondato dal verde dal profumo degli alberi con il sottofondo dell'acqua cristallina del fiume canne che allora era assediato dalle lavandaie che andavano a lavare i panni,era bello sentire le loro grida, le loro risate spensierate lungo il fiume la gioia di vivere la si trovava ovunque il gracchiare delle rane il canto delle cicali il suono dei mille uccelli, il volo delle grandi libellule di cui io avevo una paura folle. Quasi sentivo il sapore del miele e delle bacche che le fatine, andavano a raccogliere nei boschi, con questo cibo nutrivano la bellissima Gelsomina, che ormai grande voleva tornare nel mondo degli uomini a cui lei infondo realmente apparteneva,qui incontra un principe vero, il figlio di Carlo d'Aquino. Ricordo che la sera prima di addormentarmi per molto tempo sognai l arrivo di un principe che con il suo cavallo bianco veniva a portarmi via nel suo grande castello e poi quel giorno presi la stradina di ghiaia che portava all'accesso del castello Normanno e mi soffermai persa con la testa fra le nuvole a fantasticare vestita con un bellissimo abito bianco e con la corona in testa convinta che un giorno sarei diventata una splendida principessa beh! avevo appena cinque anni. Ben presto il mondo degli uomini con tutti i suoi pregiudizi mette a dura prova, la povera Gelsomina che a causa della sua bontà viene allontanata dai suoi figli e dal regno e chiusa in una prigione. Come sempre la cattiveria degli uomini si impone e le persone più fragili sono le prime
ad essere scartate. Questo crescendo l'ho imparato subito la felicità e intensa e breve ti sfiora appena, mentre il dolore dei ricordi si trasforma nel rimpianto di ciò, che avresti ancora, potuto fare o dare a chi veramente vuoi bene, ma la vita, non da mai una seconda possibilità. Il paggio e la principessa ricordo che mi colpì tantissimo, perchè pensai a quanto potesse essere grande e forte questo sentimento chiamato "amore", tanto da farci combattere contro tutto e tutti , tanto da rinunciare alle ricchezze ,tanto da dare la propria vita per una persona. La chioccia ai pulcini d'oro è la leggenda più diffusa e più raccontata ai giorni nostri dalle nonne ai bambini del rione. Anche se a me non fece una buona impressione perchè mi spaventava molto l'idea che una brutta e grande strega viveva nel castello, e la sera soprattutto non uscivo mai fuori se per strada non c'erano altri bambini. Questa storia comunque che ha come protagonista la zia Betta vecchietta astuta che abitando proprio ai piedi del castello riuscì a catturare un pulcino sfuggendo alla terribile strega ma non alla sua vendetta,infatti da quella sera si scatenarono sul rione forti bufere di vento che scoperchiarono molte case, era il furioso soffio della malvagia strega. Ben presto i sospetti caddero sulla vecchietta alla quale fu affibbiato l'appellativo di malocchio tanto da rischiare di essere cacciata via,messa così alle strette la povera zia Betta confessò il reato, ma prima di restituire il a scoprire il pulcino riuscì segreto delle prove da superare per riuscire a catturare la chioccia e i suoi pulcini d'oro. Queste prove difficilissime furono realmente affrontate da molte persone del rione naturalmente senza successo. Oggi l'incontro è iniziato con l'introduzione della chiesetta della veterana(che significa antica), appunto perchè è la più vecchia fra tutte, situata in cima alla collina nella parte più alta del rione circondata dal verde,mammamia! mi ritorna in mente quando alla scuola materna che era accanto alla chiesetta nel mese di maggio noi bambine entusiaste raccoglievamo, le rose del giardino, per addobbare la madonna delle grazie perchè in questo mese mariano per tradizione ogni giorno si recitava il rosario ed era luogo d'incontro per tutti gli abitanti. Si narra che è costruita nel 1275 per volere della figlia di Federico II che in sogno riapparve la madonna e gli indicò la Veterana come luogo per edificare la sua chiesa. Nel 1300 Papa Paolo III concesse 100 giorni di indulgenze inviando, alcune bolle ponteficie, complete di scritture che con il tempo si sono cancellate,a forma di cucchiaio da questa presero il nome di "Cucchiarelle" che dovevano essere appese alla porta della chiesetta e dovevano essere battute da ogni fedele all'entrata e all'uscita,nel pomeriggio di ogni domenica di Pasqua,questa tradizione continua ancora oggi con molta devozione. E fu proprio un pomeriggio di Pasqua di 10 anni fa che portai mio marito (originario di un altro
paese)a far visita,alla madonna delle grazie perchè afflitto da un problema di salute, l'incontro con la madonna lo turbò perchè la trovò in un avanzato stato di degrado,tanto che pensò "Madonna mia quanto sei brutta!,ma se tu mi indichi la via da seguire per guarire dalla mia angoscia,io ti ridarò lo splendore di un tempo". Così fù in un anno ottenne il miracolo e la madonna fu immediatamente restaurata e rimarrà,nel nostro cuore, ma soprattutto farà parte della nostra vita per sempre. Certo che di persone curiose e strane il mio rione è stato popolato soprattutto intorno agli anni 40 il doloroso periodo bellico, quando la gente s'accontentava del pane quotidiano e di quel poco che riusciva a racimolare durante la giornata come l'umile calzolaio del rione Mastro Vriulillo, che dopo la morte della moglie improvvisamente per superare il dolore chiuse la sua bottega, e si improvvisò Cantastorie andando in giro per il quartiere a strimpellare melodie e storie dal tragico finale non si perse mai d'animo sperando in giorni migliori ma come si suol dire nel mio rione "Chi campa di spiranza, dispiratu mori" e così fù. I famosi branchi malavitosi del rione, allora venivano chiamate fibie e si distinguevano a secondo del nome del capo
a cui appartenevano,famosa la vicenda del povero
Antonio,che per acquistare un pò di rispetto si aggiunge alla fibbia di Don Vincenzo che era la più agguerrita e più tenuta. Pultroppo il destino gli fu a verso e nella scelta per compiere un omicidio durante la conta la responsabilità ricadde su di lui, ma essendo un uomo senza personalità e con il coraggio di un agnello racconta,tutto a Mariuzza la moglie, donne invece, di grande spessore e forte potere decisionale, infatti riuscì a far fallire il piano, la conseguenza però fù l'espatria di Antonio in Argentina
la povera
Mariuzza ne perse le tracce ma dopo cinquanta Primavere Antonio mandò una lettera con l'intensione di ritornare ma la risposta che ricevette fu netta e chiara "Nduvi a passatu astati,passa puru u viarnu"(dove ai passato la tua gioventù,passa anche la tua vecchiaia". Questo detto da allora fu sulla bocca di tutti e per i tanti casi che si verificarono e si verificano ancora Antonio e Mariuzza ritornano arivivere come grandi lezioni di vita e non solo nel mio rione, perchè ricordiamoci sempre che tutto il mondo è paese. Quanti zii Pasquale ho conosciuto da piccola i Così detti"Vaianari"(bugiardi)e il bello è che con le loro storie fantastiche non solo ingannavano noi bambini ma a volte,ho avuto la netta senzazione che ingannavano soprattutto loro stessi perchè in fondo volevano credere realmente alle loro storie. Qui entra in scena la mia nonna Dio mio! Che spasso raccontava storie di signorine che incontravano soldati,stranieri,ricchi,che le sposavano e le rendevano felici per sempre,lei durante le sere d'inverno radunava intorno al focolare della sua casa tutti "I schetti da ruga"(zitelle della via)e riusciva a regalare loro sogni e speranze a chi ancora a v'entanni non era riuscito a trovare marito,quando se ne andavano si rivolgevano sempre così "Cummari Pasqualì,dumani chisà orsi cnuantru ad ancunu puru iu"(Comare Pasqualina domani forse anch'io
incontrerò qualcuno)Bhe! infondo la speranza è l'ultima a morire. Io ricordo che nel mio quartiere fino a poco tempo fa alcune tradizioni popolari si svolgevano annualmente con la partecipazione di tutti. Alcune di esse rimarranno per sempre impresse nel mio cuore e ancora oggi parlarne mi coinvolge emotivamente fino a rabbrividire. Quella alla quale sono molto legata è la Santa Croce l'uno, il due e il tre maggio San Teodoro si vestiva a festa con le magnifiche catenelle che venivano appese da un balcone all’altro alternate alle bandierine, nelle varie vie venivano allestiti diversi altarini di varie forme e colori, in questi giorni si sentiva un forte legame che ci teneva uniti come se fossimo un unica famiglia,i bambini allegri e felici partecipavano con grande interesse,la festa finale poi con tanti giochi e gare che terminavano a tarda sera con un grande falò. Ormai da molti anni non si pratica più questa grande festa il 1 maggio trascorre lentamente non c'è più gioia nell'aria e la gente distratta continua ad occuparsi delle solite cose ormai non esiste più un interesse comune ma solo egoismo e freddezza. Per quanto riguarda i piccoli riti magici beh! come sempre entra in gioco la mia nonna "grande fattucchiera" ahahahah! lei credeva che la sua famiglia che tramandava da generazioni in generazioni avesse avuto il dono dello "sfascino" ricordo che in casa sua la gente faceva la fila per farsi togliere il malocchio. Giunta alla soglia di ottantaquattro anni in una notte di natale mi
tramandò
questa
cantilena
che
lei
riteneva
sacra
e
potente,
dicendo
"M'arraccumandu mparatilla bella, bella e dicilla a sira tardu ca u suli un t'addividiri". Io avevo appena 9 anni mi sentiì caricata di una grande responsabilità che io nemmeno volevo anche perchè queste cose mi hanno sempre spaventata, quella sera non riuscì a chiudere occhio e decisi che io non avrei mai praticato questo rito, naturalmente non le dissi niente perchè so che le avrei procurato un immenso dolore. Un'altra cosa che mi terrorizzava era quando portavano dei bambini piccoli e mia nonna doveva guarirli dai così detti "Costicialli"(si sospettava che questi piangevano sempre perchè avevano le costole indolenzite),poverini venivano fasciati dal collo fino ai piedi non potevano compiere nessun movimento per 10 giorni,ricordo che mi mancava il respiro a guardarli e il più delle volte piangevo.Durante la quaresima la nonna di una mia carissima amica MariaAngela appendeva ad un filo tra un balcone e l'altro "A Corajisima" (una pupazza vestita di nero) a questa aggiungeva un'arancia nella quale infilava sette penne di gallina che venivano staccate col passare della settimana,e si avvicinava la Pasqua.Questa tradizione esiste ancora oggi, e, mentre adesso la guardo con tranquillità e ammirazione, da piccola mi suscitava angoscia e paura,tanto che non riuscivo a passare da quella stradina e ogni volta mi toccava fare tutto il giro del rione. I canti popolari del mio rione in genere trattano quasi sempre storie d'amore,alcune realmente accadute altre frutto della fantasia dello scrittore. Oggi ne abbiamo letto un paio una in particolare dal signiicato molto ambiguo,"A Lincella" beh! diciamo che chiedere l'acqua intesa come "incontro
intimo" ai vecchi tempi era un modo insolito, ma utile per non far capire a tutti la vera intenzione dell'appuntamento, anche se il coro ironicamente precisa che l'acqua non si può dare in mezzo alla via,e la ragazza esterna la paura che guai a rompere "a lincella" i genitori l'avrebbero picchiata,ma il corteggiatore sottolinea che è pronto a pagarla con il matrimonio la benedetta "lincella". Bonasera Antoniuzza,la prima volta che l’ho sentita l’ho anche recitata,precisamente avevo 17 anni e facevo parte del gruppo scout di San Teodoro, ricordo, che era la festa di San Francesco, e tutto il gruppo aveva la responsabilità di allietare la serata con canti e scenette popolari, fu un grande successo. All'inizio confrontando il fatto con i miei tempi,restai meravigliata dal modo in cui questo giovane si dichiarò,il suo modo gentile di esprimere questo sentimento ampliamente ricambiato da Antoniuzza, che dapprima sembra timida e cerca di andarsene ma poi alla fine detta anche le regole, "mandati ambasciaturi". U zz'u monachiallu: questa storia la raccontava sempre mia nonna sottolineando che l'amore è un sentimento che non si ferma di fronte a niente e se è vero, è sicuro che vince sempre. Questa storia comunque in realtà fa un pò ridere però mette anche in evidenzia che rispetto ai tempi moderni in cui le cose si fanno alla luce del sole, a quei tempi le cose si facevano lo stesso,ma di nascosto prendendo in giro i propri genitori che credevano di poter controllare tutto ma la maggior parte delle volte venivano solo ed esclusivamente presi in giro. E' così la fanciulla fingendosi ammalata rimane nel letto della sua stanza,la mamma si dispera e intanto fra entrare l'astuto giovane,travestito da monaco e credendo che una buona confessione possa far guarire la figlia lascia solo il monaco nella stanza e così furono baci e abbracci....
Canto a San Teodoro Supra sta terra a vinutu nu santu ci la mandatu lu spiritu santu ci la mandatu lu caru signuri Santu Tidoru lu prutitturi Santu tidoru fiju sicundu e ndumminatu ppi tuttu lu mundu e ppi llu scimpiu di l'abbucatu Santu Tidoru sarà aiutatu. Santu Tidoru nobili e gintiali scocca di rosa e funtana d' amuri
li grazzii tua vinni a chidiri pi l ostia ca acisti cunsacrari facisti cunvirtiri l'impidiali e li cavalli facisti n'crinari chista è la virità nun è bugia Santu tidoru prega Diu pi mia.
Bambinuzzu Bambinuzzu bambinuzzu. ccu lla vesta turcinella i capilli vrundulilli tutti quanti anella,anella durci mamma vuaju pani durci fiju nun d'avimu e va vidi alla spurtunella ca ci truavi i passulilli passulilli un cci n'daiu truvatu. A madonna sa nginujjatu statti citu fiju miu ca mo ilamu sta lanicella ciĂ purtamu alla patrunella a patrunella mi duna dinari n'accattamu tantu pani n'assittamu a na spera i suli e stajamu u santu dijunu.
Stella
Viola Il P.O.N
di questo anno scolastico sembra molto coinvolgente, perché
narra le
leggende del rione dove ho trascorso la mia infanzia e la mia giovinezza e dove tutt’ora abito. Oggi ascoltando le leggende ambientati nel castello Normanno tornano nella mia mente tutti i bei momenti vissuti quando ero bambina . C’era sempre un’ atmosfera quasi magica quando qualcuno stava a raccontarci le leggende. Io pur essendo nata e cresciuta ai piedi del castello non sono mai potuta entrarci liberamente .Tutto questo mistero sulle leggende ci
rendeva
sempre più
curiose e faceva lavorare sempre di più le nostre immaginazioni cercavamo di sapere qualcosa in più , inoltre cercavamo di capire se tutti questi racconti che ci venivano letti , erano veri o erano solo delle incantevoli storie , comunque ci faceva piacere crederci. L’ idea di abitare in un posto dove tanto tempo fa era abitato da re , regine, principesse fate ecc rendeva l’atmosfera sempre più bella, anche se non nascondo che tutto questo ci faceva anche paura ma nello stesso tempo quando riuscivamo ad entrare dentro il castello di nascosto il nostro umore cambiava . Mi ricordo quell’aria fresca e l’ebbrezza dell’estate la sentivi sul viso , inoltre ti faceva stare bene vedere dei colori meravigliosi come il blu del cielo, il verde da tutte le parti ( anche se c’era molto erbaccia ) e ogni tanto si sentiva nell’aria l’odore del pane fresco appena sfornato , inoltre vedere volare gli uccelli liberi nel cielo mi dava una sensazione di libertà . Quello che io ricordo con molto piacere dopo aver letto queste storie e di un periodo della mia vita quando soprattutto le sere d’estate ci mettevamo seduti sopra i gradini delle nostre case insieme ad altre persone che abitavano nella mia stessa via, e li ascoltavamo tante storie, sia storie veramente accadute alle persone o racconti come quelli che oggi abbiamo letto, in particolare ricordo una signora che ogni volta che ci raccontava una storia è come se c’è la faceva vivere anche a noi,ricordo lo sguardo sbalordito di noi bambini sedute li ad ascoltare e ad essere presi dal discorso, senza aver nessuna voglia di giocare. A volte usavano questi racconti immaginari solo per metterci paura,ricordo in particolare la storia di un signore di nome mastro Pippino che abitava vicino la chiesa, in particolare ricordo il colore dei suoi capelli che erano di un bianco candido, era un uomo molto violento e soprattutto non sopportava vederci giocare sulle strade di san Teodoro e qualsiasi cosa gli dava fastidio….portava con se sempre un bastone,come per dirci stai attenta se no te lo do in testa, buttava acqua dalle finestre,,,ma noi per dispetto andavamo sempre li a giocare, anche se li per lì non capivamo il disturbo che gli potavamo dare…………… Ed eccoci di nuovo qua tra tradizione, canti e costume popolari riaffiorano nella mia mente ricordi di un tempo passato quando tra tanti periodi ricordo ogni avvenimento … come la Santa Croce che si svolgeva nel mese di maggio nei giorni 1-2-3 con grande
entusiasmo da parte di tutti noi, e avevamo anche la collaborazione delle persone più grandi che si mettevano a nostra disposizione. I preparativi avvenivano già da una settimana prima, il compito di noi bambini era quello di procurare carte da giornale o comunque ciò che si poteva rendere utile per costruire le bandierine e appenderle nel luogo in cui si svolgeva la Santa Croce. Per attaccarli usavamo una colla fatta da noi composta da farina e acqua, questi tre giorni erano un susseguirsi di emozioni, si andava in giro per chiedere in giro delle offerte per la Santa Croce, il ricavato era destinato per i festeggiamenti, la sera recitavamo il rosario, il terzo giorno era dedicato a tanti giochi, fra tanti cito il gioco della “ pasta asciutta” che consisteva nel mangiare la pasta nel minor tempo possibile con le mani legate dietro la schiena . Alla fine di tutti i giochi c’era quello più interessante per noi bambini cioè il gioco delle “ pignate”. Dopo i diversi giochi si procedeva con una processione per le vie del rione, le tre sere di festa terminavano con grande allegria entusiasmo e divertimento con l’accesa di un grande fuoco. Un altro periodo che tutt’ora viene ricordato è il periodo natalizio …ricordiamo la “ Strenna” un canto popolare che si inizia la sera di San Silvestro e terminava con l’Epifania , con lo scopo di portare gli auguri di buon anno alle famiglie di parenti compari e amici… Una volta la si faceva perché i tempi erano poveri e così andando di casa in casa
cercavano
di
racimolare
qualcosa da mangiare… Oggi invece quelle poche persone che portano avanti questa tradizione lo fanno semplicemente per divertirsi e farsi gli auguri… Con il passare degli anni questa tradizioni via via stanno sempre di più scomparendo . A me di tutto questo dispiace perché anche l’affetto il rispetto una volta erano più sentiti, dove il dolore o la gioia di uno era la gioia o il dolore di tutta “ la ruga”. “Nelle nostre tradizioni ci sono anche quelli dei canti, come il canto della Lincella” , che era un canto che alludeva a più cose, in questo senso è il ragazzo che cerca di avere un approccio con la ragazza , con la scusa di avere un po’ d’acqua dalla lincella, ma la ragazza dice di no, ma di bere dalla fontana perché alcune cose non si danno per strada perché erano guai se sua mamma avrebbe saputo tutto questo. Un’ altra canzone è quella di “U zio monachiallu” che in pratica è la storia di un uomo che era costretto a vestirsi da monaco per andare dalla fidanzata, mentre lei fingeva di essere malata così con la scusa lui poteva entrare nella sua stanza e stare da solo con lei. Un’altra canzone d’amore è quella di “ Bona
sera Ntoniuzza” che parla di un amore contrastato dai genitori di lei, ma lei essendo innamorata avrebbe superato tutte le diversità . Queste canzoni ti fanno capire come su alcune situazioni è cambiato il modo di pensare ed agire. Io ricordo mia nonna che mi raccontava alcuni episodi del suo fidanzamento quasi la “ rivedo in queste canzoni”, dove non potevano degnarsi neanche di uno sguardo fra loro o addirittura sedersi vicini, lei è morta a 96 anni e quando gli occhi suoi vedevano una coppia dei tempi nostri in atteggiamenti più intimi lei si scandalizzava e lo viveva quasi come un dramma.
Viola