Silvano Sau
L’ISOLA CHE NON C’È PIÙ Isolando tra storia e immagini
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Edizioni “Il Mandracchio” - Isola 2013
Silvano Sau
L’ISOLA CHE NON C’È PIÙ Isolando tra storia e immagini
Edizioni “Il Mandracchio” 2
CIP - Kataložni zapis o publikaciji Narodna in univerzitetna knjižnica, Ljubljana 908(497.4Izola) 77.047(497.4Izola) SAU, Silvano LʼIsola che non cʼè più : isolando tra storia e immagini / Silvano Sau. - Isola : Il Mandracchio, 2013 ISBN 978-961-6391-24-5 270106624
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L’intenzione di questo progetto era di proporre una ristampa, ampliata e riveduta, del volume “Isola in 200 cartoline”, uscito una quindicina di anni fa ed esauritasi in pochissimo tempo. L’odierna pubblicazione invece, è diventata un prodotto che offre un’ampia escursione storica e paesaggistica della nostra cittadina. Le cartoline sono diventate un pretesto per costruire un veicolo di facile comprensione che può avvicinare i giovani e non solo, alla conoscenza della storia e delle tradizioni della propria cittadina. Questa pubblicazione è il frutto di un lavoro che non comincia oggi, ma che impegna già da diverso tempo l’autore nella ricerca e nella divulgazione di episodi o di personaggi storici e, partendo da un contesto locale approda al recupero della memoria storica di un’area molto più vasta. Se è vero che la rimozione della memoria storica significa avere cattiva coscienza, allora questo volume ci aiuta a creare una buona coscienza. Oltre ai capitoli che riprendono i contenuti del primo volume troviamo altri argomenti, dedicati alla cultura e al culto. Le cartoline sono più numerose e le immagini proposte testimoniano la metamorfosi che Isola ha subito specialmente negli ultimi anni. Questo è un libro scritto con il cuore, oltre che con la ragione e già le prime pagine rivelano l’amore che l’autore nutre per il suo paese. Isola, dicembre 2013
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Lilia Macchi
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Le nostre immagini Il volume che state sfogliando, che abbiamo battezzato prendendo in prestito il titolo della canzone di Edoardo Bennato “L’isola che non c’è”, l’abbiamo adattato alla nostra Isola che ormai non c’è più, ma che per fortuna è ancor sempre testimoniata da migliaia di immagini e che noi abbiamo voluto offrire, almeno in parte, agli Isolani di oggi. L’abbiamo fatto seguendo un impegno che da anni caratterizza il lavoro della nostra redazione: documentare, per quanto possibile, la storia vicina e lontana della nostra città e della nostra gente. Proprio per questo, abbiamo voluto riproporre delle immagini che negli anni la redazione è riuscita a raccogliere e, in buona parte, anche a pubblicare all’interno di altre pubblicazioni. Questo, dopotutto, è anche uno dei motivi per cui abbiamo voluto presentare questo lavoro sottolineando che si tratta di una ristampa, riveduta e aggiornata, di altri volumi pubblicati dalla nostra redazione negli ultimi anni. Trattandosi di una raccolta di immagini, è necessario ribadire che parte dell’iconografia riguardante le cartoline d’epoca è stata presa dai volumi “Isola in 200 cartoline” del 1999 e “Isola: Immagini di una storia” del 2006. Prezioso, inoltre il materiale documentario dall’amico Ferruccio Delise, fornitoci a suo tempo quale supporto iconografico servito per illustrare e documentare alcuni aspetti della storia isolana da lui stesso raccolti nei vari archivi di Trieste. Una delle immagini più esclusive, il panorama aereo di Isola scattato nel primo decennio del secolo scorso, ci è stato gentilmente offerto da Francesco Orlini su concessione del legittimo proprietario Paolo Pocecco, entrambi Isolani, ma residenti a Trieste. Va apprezzato, inoltre, il contributo di alcuni amici, che con le loro foto hanno reso possibile documentare anche aspetti della vita di Isola negli ultimi anni e decenni ma che non potevano far parte delle relative collezioni di cartoline illustrate. Vogliamo ricorda-
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re le fotografie in bianco e nero ed a colori del compianto Erminij Benčič. Di grande valore anche le fotografie che ci sono state concesse dall’amico Giovanni Russignan, al quale appena un anno fa abbiamo dedicato un mostra a Palazzo Manzioli in occasione del conferimento del premio “Isola d’Istria 2012”. Da ricordare pure le foto espressamente scattate per le nostre pubblicazioni poco prima della prematura scomparsa dal collega Vlado Zavišič. E, infine, ma non per ultime, le foto del nostro Claudio Chicco, che ormai rappresenta lo scatto ufficiale della nostra redazione. Un ringraziamento anche al TIC, Ente Isolano per il Turismo, che ci ha concesso l’utilizzo di alcune immagini realizzate da quel grande fotografo che è ancora sempre Jaka Jeraša.
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INTRODUZIONE Si dice che con il passare degli anni l’uomo finisca con l’identificarsi con l’ambiente che lo circonda e con il quale è cresciuto e vissuto diventando sua parte integrante e inscindibile. Anzi, si dice, che con il passare dei decenni l’uomo finisca con l’acquisire le stesse caratteristiche e le stesse sembianze del territorio che l’ha ospitato e visto crescere nel corso della vita. Probabilmente c’è qualche fondo di verità in tutto questo, poiché non raramente succede che si riesca a definire l’origine campanilistica di una persona, al di là delle conoscenze, delle sembianze fisiche e dei modi di dire. “Basta vardarlo – si dice – per capir che a xé un Piranese!” Oppure: “Chi te vol che a sia, se no un Cavresan!”. Ma lo stesso vale anche per un Piranese o un Capodistriano nei confronti di un Isolano, sempre definito “sensa bulìgo!” Tuttavia, pur avendo trascorso quasi tutta la mia pluridecennale esperienza in questo piccolo territorio, dalla storia lunga e non sempre entusiasmante, negli ultimi anni sento crescere un disagevole distacco tra il mio sentimento di appartenenza ad una struttura urbana, sociale e umana, e quello della mia appartenenza ad un suo presunto tessuto storico e culturale. Presunto, perché ormai scomparso, inesistente, passato. Un distacco, che a momenti sa diventare addirittura sofferenza fisica e intolleranza nei confronti di un sentimento che ritenevo ormai acquisito e che, invece, constato diventare sempre più distante e lontano dall’idea che negli anni della mia città, forse egoisticamente, forse ingiustamente, mi ero costruito. È probabile che questo senso di doloroso distacco sia il risultato dei grossi cambiamenti che, soprattutto nell’ultimo decennio, sono intervenuti nell’assetto territoriale ed urbanistico della mia città. Forse ancor più che a causa dei tumultuosi cambiamenti avvenuti a livello demografico, economico e sociale. Si dice che negli ultimi decenni la vita ed i processi che ad essa sono collegati – quindi anche le città – stanno cambiando più rapidamente di quanto l’uomo sia in realtà capace di adeguarvisi. Sarà vero, ma è anche vero che a
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modificare l’ambiente è sempre e comunque l’uomo. Quindi l’uomo impegnato a costruire un ambiente nel quale sa di doversi insediare e nel quale sa di dover domani abitare. A meno che…. Ecco, a meno che… a meno che l’ambiente che sta progettando e costruendo non lo costruisca per sé, ma lo destini ad un ipotetico mercato, del quale pensa di interpretare i gusti e le capacità materiali, prima che di assecondarne quelli culturali e spirituali. Ed ecco allora… che può subentrare quel senso di distacco tra chi si sente figlio e frutto di un territorio che, rapidamente, sta perdendo le sue caratteristiche originarie storiche, culturali, ambientali e naturali. Bastava un’occhiata ad un’immagine qualsiasi di Isola, prima, per riuscire a stabilire un contatto diretto di reciproca appartenenza: una specie convenuta parola d’ordine tra due soggetti che quasi inconsciamente sapevano di derivare dalla stessa matrice e di appartenervi, l’uno risultato dell’altro. Il paese, risultato delle vicende umane, oltre che naturali, e l’uomo – pure – risultato delle vicende condizionate dal territorio e dalle sue strutture formatesi nei secoli, oltre che dagli eventi della natura. La stessa denominazione del toponimo, che nei secoli non ha voluto togliere il potere delle sue origini naturali per sottoporla al volere occasionale e opportunistico dell’uomo. Isola è rimasta Isola da oltre un millennio, da quando l’isola ha incominciato ad essere abitata per diventare, sempre come risultato dell’opera incessante della natura e dell’uomo, penisola. E domani, chissà!… Molti, ultimamente, tra coloro che sono chiamati a reggere la cosa pubblica del nostro Comune, sono troppo spesso impegnati a sostenere una presunta volontà di ridare alla città la sua anima perduta o smarrita nel tempo. Ma, quale era stata l’anima di questo insieme agglomerato di persone, case, vie, abitudini, tradizioni, storie e vicende? Come è possibile riportare qualcosa che non si conosce e non si sa dove trovare? Perché, nelle vicende umane, quello che è andato perduto, purtroppo, spesso è perduto per sempre, soppiantato dal nuovo. Per caso, amante come sono delle cose dette su Isola, scoprii per caso – pur essendoci passato sopra decine di volte - una delle definizioni più oneste e genuine dell’anima di Isola. Contenuta in una breve omelia pronunciata da mons. Salvatore Degrassi durante una S. Messa e pubblicata da Antonio Vascotto nel suo libro “Ricordan-
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do Isola” ...”Isola non vanta una grande storia. La storia universale non la conosce, la geografia molte volte la dimentica; anche la storia dell’Istria non la mette in grande rilievo, altre cittadine le stanno davanti.Eppure per noi Isola, il nostro umile Paese, ha la storia più grande, più bella e luminosa, perché è la nostra storia, la storia di ognuno di noi. La città più famosa del mondo non saprebbe dire al nostro cuore quello che ci sa dire il nostro Paese. Le sue case ci dicono dove siamo nati, dove siamo cresciuti nel calore delle nostre famiglie; le contrade risuonano ancora dei canti gioiosi, delle voci argentine della nostra fanciullezza innocente, le scuole ci ricordano i primi passi del nostro sapere, la Casa Comunale porta scritta la storia della nostra vita civile, i campi sparsi nella valle e sulle colline sono ancora bagnati dei sudori della nostra gente, le fabbriche, le officine, i negozi, i luoghi di lavoro testimoniano ancora la vita operosa ed industriosa del nostro popolo buono; il mare, che stringe Isola come in un abbraccio fraterno, ricorda i nostri pescatori, il loro amore al dovere, molte volte pagato con il sacrificio della vita. Tutto a Isola parla al nostro cuore. Se i sassi avessero una bocca, anche i sassi parlerebbero e racconterebbero la nostra storia.” Isola è terra antica. Storia di secoli e di millenni, durante i quali sono cambiate popolazioni, abitudini, lingue, culture e colture. La memoria dell’uomo è molto più corta di quella del territorio: neanche l’archeologia riesce a dare tutte le risposte. Le pietre, perché potessero testimoniare hanno dovuto prima incontrare l’uomo capace di lavorarle e di scolpirle. La più grande invenzione dell’uomo, la scrittura, é venuta tanti secoli dopo, quando l’uomo aveva già imparato a parlare e a disegnare. E la carta, prima di poter raccontare le sue storie, ha dovuto essere inventata. Il territorio, invece, ha una sua storia che nel tempo va più lontano dell’ uomo. Ed è proprio per cercar di esprimere questo sentimento di appartenenza ad un territorio, ad un ambiente, ad un contesto sociale, che abbiamo voluto riproporre sotto altra forma e con un aggiornamento dei contenuti il volume “Isola in 200 cartoline”, pubblicato nel 2000 dalla redazione del “Mandracchio”. Ed ancora di più, abbiamo voluto dare un titolo in seconda fila a questa introduzione: ovvero come fu, che l’Isola non c’è più, raccontata con l’ausilio di sole immagini, raccattate un po’ qua e un po’ là..
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LE CARTOLINE POSTALI ILLUSTRATE
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Da un secolo e mezzo circa, le cartoline postali illustrate offrono un’immagine “semplice”, ma vera, della realtà, del costume, del gusto artistico, dell’ambiente e dello sviluppo sociale, economico ed urbanistico di un determinato territorio. Prendendo in considerazione soltanto quelle stampate nell’epoca della loro maggiore diffusione, dal 1895 al 1950 se ne possono contare alcuni milioni di esemplari. Facendo un po’ di conti potremmo affermare tranquillamente che sono stati messi in circolazione diversi miliardi di cartoline postali. Spesso si tratta di testimonianze eccezionalmente valide della vita quotidiana, degli avvenimenti, della situazione politica e militare, ancorchè fortemente propagandistica, distribuite in un arco di tempo molto vasto, articolate in una straordinaria gamma di temi, a volte contrastanti, ma sempre di grande effetto. Leggendo la data di pubblicazione delle cartoline, le immagini che esse riproducono ci consentono di definire anno per anno la storia di una società, di una città. Il quadro di informazioni trasmesse da tale mezzo può essere completato con i messaggi destinati al ricevente comprensivi delle varie affrancature. Queste ultime, a volte, addirittura stampate ed emesse per celebrare l’evento.
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Va considerato che la cartolina illustrata ha rappresentato uno dei mezzi di comunicazione di massa più diffusi fino all’avvento della radio e della televisione, tanto che non sarebbe esagerato parlare di fenomeno massmediologico povero per eccellenza e, proprio per questo, alla portata di tutti. Si è diffusa tra tutte le classi sociali, dalle più umili alle più raffinate, trasmettendo ovunque i suoi messaggi che potevano essere di volta in volta di tipo politico, pubblicitario, sociale o di costume. Questa sua originalissima caratteristica è stata ben intuita e usata per influire, in modo anche subdolo, ma certamente efficace, sull’opinione pubblica. Tutti i regimi, da quello nazista, a quello fascista, ma anche il comunista hanno operato in maniera magistrale per sfruttare al massimo la forza propagandistica rappresentata dalle cartoline illustrate, promuovendo una produzione intensa e anche di una certa qualità artistica.
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Il primo e certamente il più appagante dei motivi per cui qualcuno si mette a collezionare cartoline d’epoca, è indubbiamente quello rappresentato dalle immagini create dai grandi illustratori: le cartoline sono state anche una testimonianza diretta del “divenire” delle tendenze dell’arte locale e internazionale. Fra i nomi degli artisti che hanno contribuito a questa produzione “popolare” (diffondendo il proprio modo di fare arte e la propria appartenenza ad una determinata corrente) nomi illustri come, tanto per rimanere nella nostra zona, l’omai famoso triestino Marcello Dudovich, ma anche l’altro triestino, altrettanto noto soprattutto nella nostra regione, Argio Orell.
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Naturalmente, anche tra i collezionisti di cartoline esistono gli “archeologi”, coloro che si interessano in particolare alle prime stampe dell’esemplare collezionato e limitano la loro ricerca a reperti sicuramente degni di essere considerati delle vere e proprie “antichità”. Ogni paese, ogni città, ogni contrada addirittura, vanta la sua “prima cartolina” (il modo più sicuro comunque per accertarne la data di nascita è il controllo della data impressa sull’annullo postale). Si conoscono esemplari tedeschi risalenti al 1868 e altri del 1870. Orientativamente si può affermare che la data di nascita della cartolina illustrata risale al periodo che va dal 1870 al 1875. Per comodità si propongono poi delle suddivisioni in epoche, per cui il periodo dal 1870 al 1884 può venir considerato come il momento dei “precursori” delle cartoline.
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Per quanto riguarda le cartoline italiane, in leggero ritardo su quelle prodotte dall’Austria-Ungheria, le prime conosciute risalgono al periodo tra il 1881 (molto rare) e il 1884. Accanto a questi primi esemplari vanno ricordati diversi “pezzi” molto interessanti che possono venir definititi dei veri e propri “incunaboli” e rappresentano il periodo in cui la cartolina si trovava agli inizi di uno sviluppo più organico e di una diffusione più vasta. Tra il 1885 e il 1893, infatti, la cartolina illustrata incominciò a registrare una notevole diffusione in molti paesi, soprattutto nelle regioni d’influenza della lingua e della cultura tedesche, quindi anche nel cosiddetto “Litorale Adriatico” di austriacante memoria, di cui faceva parte pure la piccola Isola.
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Indubbiamente, le prime cartoline postali, anche nella nostra regione che allora era in tutto e per tutto suddita dell’Austria felix, si impadronirono del percorso illustrativo della cartellonistica pubblicitaria avvalendosi del disegno e della grafica tipicamente decorativa e visivamente molto gradevole. Come rileva Piero Delbello nel volantino che accompagna l’imponente raccolta di poster pubblicati tra fine ‘800 e inizio ‘900 dalla Modiano di Trieste, il punto è proprio questo: bisognava disegnatre tanto e bene, perché se un prodotto affascinava esteriormente nella sua confezione, poi richiamava l’attenzione del pubblico anche con i manifesti murali che lo reclamizzavano. E l’invenzione della cartolina postale ne diventò un fenomenale strumento di diffusione.
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Va tenuto presente, che le fortune della Modiano, fondata a Trieste nel 1868, esordiscono con il commercio della “carta fina”, cioè delle sottilissime cartine da sigaretta. Fioriscono così, fra gli anni ’90 dell’800 e il primo decennio del ‘900, i disegni per illustrare le cartine per avvolgere il tabacco delle sigarette. Un mondo variopinto e allegro che in breve tempo viene invaso dai valori per decine di marchi che le contengono.
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Ăˆ un periodo importante quello che va fra il 1898 e il 1910, quando la Modiano diventa leader del settore della cartellonistica pubblicitaria e della cartolina, anche grazie alla comparsa ed all’uso della fotografia in tutta la regione. Migliaia di esemplari che trasportano in tutto il mondo immagini di localitĂ e costumanze che oggi possiamo riconoscere come preziose e autentiche testimonianze del periodo.
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Va ricordato poi il periodo delle cartoline che si possono considerare semplicemente “antiche”, che va dal 1894 al 1899: è un’epoca di grande diffusione della cartolina con la produzione di sempre nuovi modelli e nuove grafiche, ma anche con l’invenzione quasi quotidiana di innumerevoli curiosità grafiche e contenutistiche. Il periodo che va dal 1900 al 1920, tuttavia, può esser considerato come l’età d’oro: sono gli anni di maggior produzione e diffusione delle cartoline illustrate, durante i quali si sviluppano i grandi temi della “bella èpoque”, i virtuosismi inventivi del “liberty” e quelli antecedenti la prima guerra mondiale. L’Austria-Ungheria è stata maestra nel produrre serie su serie di cartoline illustrate finalizzate all’uso dei militari, ma anche nel propagandare la propria macchina bellica. Del resto, anche la produzione italiana del periodo è notevole, anche se aumenta superbamente nel periodo successivo, dopo la vittoria e l’avvento del fascismo. In tale periodo il quantitativo delle cartoline immesse sul mercato è indubbiamente altissimo e si può affermare senza dubbio che la maggior parte del collezionismo, oggi, è interessato proprio a quell’epoca.
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Anche per la nostra Isola il fenomeno delle cartoline illustrate va probabilmente ricollegato al periodo della fine del secolo scorso, quando i mezzi di comunicazione e di trasporto diventarono di massa, quindi non erano più a uso e consumo di pochi privilegiati, ma di strati più ampi di popolazione che finalmente consideravano la possibilità di spostarsi con una certa facilità da un posto all’altro, sia per lavoro che per svago. A tutto questo, naturalmente contribuì il rapido e forte sviluppo delle industrie.
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La cittadina d’Isola allora non offriva, come del resto non offre nemmeno oggi, grandi attrattive dal punto di vista architettonico o artistico-culturale per invogliare una gran quantità di tipografi a stampare cartoline. È certo, quindi, e gli esemplari reperiti e in parte pubblicati in questa raccolta lo confermano, che le cartoline raffiguranti Isola traggono spunto da due momenti particolari nella lunga e ricca storia della nostra città. Da una parte, verso la fine dell’Ottocento, l’apertura di importanti industrie conserviere, che aiutò notevolmente un considerevole movimento di persone e di notizie, agevolato anche dall’apertura di un moderno (per allora) ufficio postale e telegrafico, dall’altra, la nascita di un pur modesto complesso turistico, ma per i tempi abbastanza ben attrezzato, come quello dei bagni di Porto Apollo. Probabilmente sono stati questi due eventi a stimolare e a favorire la nascita di una precisa necessità di comunicazione a distanza per mezzo delle cartoline postali illustrate.
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Altri fattori sono conseguenza dei primi due: una rete non indifferente di servizi dediti al ristoro e allo svago (vedi l’elenco degli alberghi e dei ristoranti) e una serie di iniziative sociali legate alla crescita dell’imprenditoria e alla formazione di una classe operaia progressista. Non a caso, tra le cartoline illustrate pubblicate nei primi anni di questo secolo una riguarda la nascita della prima biblioteca circolante, un’altra la presenza molto attiva della Lega Nazionale (si era in periodo di dominio austro-ungarico), e una nel 1905 dedicata addirittura all’inaugurazione della Casa del Popolo.
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Se escludiamo quelle con contenuti di carattere generale, come messaggi augurali, che facevano parte di alcune serie di cartoline stampate prevalentemente a Trieste, ma che possono essere il prodotto di una qualsiasi tipografia dell’Impero, la stragrande maggioranza delle cartoline che riguardano Isola in questo periodo presenta vedute più o meno riuscite della cittadina e del suo immediato circondario. Le più numerose, naturalmente, sono destinate al porto, visto che i visitatori, possibili acquirenti di queste, provenivano soprattutto dall’interno del vasto impero asburgico ed il mare rappresentava un elemento di novità e di particolare interesse. Seguono via via le immagini che riprendono i bagni di Porto Apollo e le due piazze che allora fungevano da centro della vita cittadina: le Porte e Piazza Grande.
Queste vedute ci danno una precisa testimonianza storica della vita di Isola verso la fine dell’Ottocento e nei primi decenni del secolo scorso. In essa notiamo subito un preciso elemento rivelatore del periodo in cui sono state stampate. Fino alla fine della Grande Guerra e negli anni immediatamente successivi, sui margini delle cartoline, la denominazione della città è quella che presente nei secoli, cioè quella di Isola. Dopo gli anni venti, con la venuta dell’amministrazione regia italiana, probabilmente per distinguerla da altre eventuali “Isole” presenti sul territorio nazionale, la denominazione ufficiale fu modificata in “Isola d’Istria”. Tale denominazione rimase in vita per quasi ottant’anni, fino al 1996, quando il Consiglio Comunale decise di ripristinare il nome originario.
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LE PANORAMICHE
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Come iniziare il racconto di una città attraverso le cartoline illustrate per conoscerne in parte e fuggevolmente la storia e per avere un’idea della sua collocazione sul territorio? Come esporre con immediatezza la trasformazione urbanistica e sociale che essa ha subìto nel corso dei decenni, nel nostro caso più di un intero secolo? La risposta, almeno per quanto ci riguarda, è abbastanza semplice. Dobbiamo partire proprio dalle “panoramiche”, cercando di mettere in primo piano quelle più anticamente datate. In questo modo è possibile rendersi conto degli effettivi mutamenti che il territorio ha subìto negli anni, dei cambiamenti che la stessa struttura urbanistica ha portato avanti anno per anno.
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Purtroppo, gli esemplari di cartoline illustrate di cui disponiamo non sono tanti da permetterci di fare una storia di Isola degli ultimi due secoli per immagini. Proprio per questo, accanto alle illustrazioni già di per sé eloquenti, cercheremo di offrire anche qualche piccolo dato raccolto dagli scritti di coloro che in tempi più o meno recenti hanno voluto lasciarci una testimonianza della nostra città. È difficile e molto raro trovare un’immagine panoramica di Isola risalente a periodi antecedenti a quello in cui vennero inventate le cartoline. Si conoscono soltanto qualche singolo disegno e qualche descrizione scritta, dovuta alla penna di qualche storico, come il Naldini, il Coronelli o il Morteani.
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Lo studioso Luigi Morteani, il quale anche per questo era stato insignito della cittadinanza onoraria, scriveva nel lontano 1888, più o meno nel periodo quando incominciavano a circolare le prime cartoline di Isola, nel suo Isola ed i suoi Statuti: “Fra punta Ronco e punta Velisana s’estende il territorio d’Isola, circondato verso il continente da elevazioni marno-arenacee che s’innalzano maggiormente né castellieri di S. Marco e di Albuciano, il quale continua nel filare de’ monti che mandano le loro ultime propaggini nel colle di Strugnano e in quelli di Pirano, fra i quali avvi la valletta del fiume Aquario, col suo limitato talus alluvionale ridotto a saline. In questa stavasi la chiesetta di S.to Spirito che segnava il confine tra Isola e Pirano. Nell’interno il territorio giunge fino alla Valderniga ed al letto superiore del torrente Grivino.”
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Prima del Morteani altri importanti studiosi si soffermarono su Isola per descriverla come appariva loro in quei tempi. Nell’Isolario del Coronelli, pubblicato a Venezia nel 1696 (un esemplare del libro fa parte della Biblioteca Besenghi di Isola, anche se custodito presso la Biblioteca Centrale di Capodistria), nel capitolo dedicato alle “Isole dell’Istria e della Dalmatia attinenti alla Repubblica di Venetia”, sta scritto che “cinque miglia distante da Capo d’Istria, ed altrettanti da Pirano si vede eretta sopra uno Scoglio la Terra, che anticamente hebbe il nome d’Alieto, e vi fu poi aggiunto quello d’Isola, col quale solo bene spesso viene chiamata. Vogliono che la sua origine sia così antica, come quella di Capo d’Istria, e dicono, che fosse edificata colle rovine di Castelliero, che stava situato sopra i monti. Un ponte le dava prima la comunicazione con la terra ferma, oggidì però a quella è interamente congiunta: onde meriterebbe più di Penisola, che d’Isola il nome: Vicende solite del tempo, che si prende giuoco di simili mutationi.”
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Anche il Morteani, nella descrizione dela nostra città, come già qualche secolo prima aveva fatto il Coronelli, si sofferma sull’origine insulare. “Il luogo chiamato Isola - scrive il Morteani - era anticamente un’isola nel vero senso della parola, congiunta colla terraferma mediante un ponte di pietra, da quella parte dove il mare andò successivamente ritirandosi, o meglio il suolo andò sollevandosi di maniera che si formò una congiunzione tra il terreno marnoso e lo scoglio calcare sul quale troviamo costruita la nostra cittadella. Alieto fu il nome più antico, che alcuni considerano d’origine celto tracica, altri lo derivano dal greco in cui vorrebbe significare aquila. L’influenza greca fu certamente grande su tutta la nostra costa, ma non tale da persuaderci che i nomi dati dagli abitanti ai singoli luoghi siano stati poi mutati dai greci. Il luogo che più palesemente ci dimostra la romanità d’Isola sarebbe l’antico porto, oggidì detto di S. Simone per la chiesa ivi dedicata al detto Santo.”
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Paolo Naldini, nella sua “Corografia ecclesiastica (O sia descritione della Città, e della Diocesi di Capo d’Istria)”, pubblicata a Venezia nel 1700, offre una panoramica abbastanza dettagliata della località: “A mezzo il viaggio marittimo, da Giustinopoli a Pirano di miglia dieci, s’incontrano due promontorj che pari d’altezza, porgono anco eguale all’Adriatico il piede. Questi tra essi discosti à tre miglia, stringono cò fianchi, e spalleggiano cò monti un’ampia, e spatiosa valle, che tutta seminata d’Ulivi, e de Viti, ed altri squisitissimi frutti porge ricco provento a chi la possiede, e delitioso prospetto a chi la mira. Alle falde di questa Valle lambite dalle salse onde, s’alza entro del mare in mezzo ali due Promontorj uno scoglio di figura quasi ovata, e di giro un lungo miglio, il quale serve di base alla terra, denominata Isola dal sito isolato, in cui giace. Chi ne fossero i primi Fondatori, diversamente ne scrivono gl’Historici. Leandro Alberti l’attribuisce agli Istriani; allorché intorno al cinque cento cinquanta la Provincia da gl’Hunni miseramente
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desolata, molti di quelli si ridussero allo scoglio di Giustinopoli, e riedificarono Egida distrutta e altri al Promontorio di Pirano, e principiarono la fabbrica di quella Terra; & alcuni vennero a questo Scoglio e vi fabbricarono la terra di Isola. Piero Coppo Cosmografo, e cittadino Isolano, vuole, che s’edificasse da gli Aquileiesi, quando alcuni di questi intorno al quattro cento cinquanta, per sottrarsi dall’esecranda barbarie d’Attila, si rifugiarono sovra d’un Monte da questo scoglio tre miglia distante, detto volgarmente Castelliero; e dà Latini per la sua grande altezza Castrum aereum. E che Poscia restituito all’Istria qualche riposo scendessero a soggiornare in questo scoglio, come di clima salubre, di positura comoda, e di sito vantaggioso. (...) Ma siasi in qualunque forma, certo è che la terra già intitolata Alieto, oggi dicesi Isola; perché ora da sé stessa più diversa di conditione di quello fosse già di nome.”
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Pietro Kandler, nelle sue ricerche sulle varie località istriane, si sofferma sull’antica Alieto e, in questo contesto scrive anche del porto di S. Simone che ancora oggi mantiene vive alcune preziose testimonianze tramandateci dai secoli della presenza romana. Scrive il Kandler: “Il porto artificiale è tuttora visibile. È questo un quadrilatero perfetto, il lato maggiore del quale misura 47 tese viennesi, il minore 27; la muraglia che sosteneva la terra è ancora visibile; i due moli che si protendono in mare avevano nella parte superiore la larghezza di 15 piedi austriaci ed erano costruiti a gradata cioè a corsi di pietre disposte a gradini; vi si vedevano anelli di bronzo per legare le barche. L’apertura d’ingresso aveva la larghezza di 25 tese, il porto la superficie di 2400 tese. Il mare in questa parte ha guadagnato sulla terra perché il terreno si è abbassato come in altre parti della spiaggia istriana; però sotto l’acqua del mare si veggono le fondamenta di antiche abitazioni che si dilungano fin presso la fontana d’Isola, e dappertutto si trovano mosaici, cotti bollati, frammenti di stoviglie, mattoni da comporre colonne, monete romane del primo e del secondo secolo, vetri ed altre minutaglie, da che deve indursi che stesse qui borgata come in altre parti della spiaggia istriana.”
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Acccanto all’antico porto di Alieto, noto già nei secoli scorsi, all’inizio del secolo scorso, venne scoperta un’altra località che all’epoca dei romani era adibita a porto. Il rinvenimento è dovuto all’isolano Attilio Degrassi, che nel 1913 ne scrisse sull’Archeografo triestino: “Nella località di Vilisan, sulla strada regionale da Isola a Capodistria, ad un quarto d’ora di cammino da Isola, al chilometro 27.8 della ferrovia Trieste Parenzo, quasi dirimpetto alla fabbrica di laterizi del signor Nicolò Udine, si protendono in mare due moli che sotto un angolo di 85 gradi s’incontrano a circa 53 metri dalla spiaggia attuale. Visibili per buona parte almeno durante i periodi delle basse maree scompaiono del tutto sott’acqua durante l’alta marea. I moli sono costruiti nella tecnica detta a sacco o a riempimento; le facce cioè sono di blocchi riquadrati di pietra arenaria del monte vicino, sovrapposti l’uno all’altro, mentre lo spazio interno si componeva di materiale minuto, che il mare nella sua opera distruggitrice ha per buona parte asportato. I due moli descritti racchiudono un porto che attualmente ha la superficie di circa 3900 metri quadrati. Ma all’epoca della sua costruzione il porto era di certo maggiore. (...) L’origine romana del porto è assicurata dalle recenti scoperte d’antichità nei fondi vicini alla fabbrica di laterizi del signor Udine. Già qualche anno fa in mezzo a cocci diversi che tradivano la loro origine romana, vennero alla luce una fusaiola, un manico d’anfora e il fondo di un vaso con una marca che il professor Sticotti lesse AC/AO.”
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Non solo i resti del porto di S. Simone e di quello di Vilisan ci parlano dell’antica presenza romana sul territorio di Isola, ma anche le numerose tombe rinvenute sui monti verso Capodistria e Pirano e i nomi delle contrade, delle singole zone e dei villaggi che circondano la cittadina e fanno parte del suo territorio: Albuciano, Cerreto, Saleto, Livizzano, e così via. Anche se non esistono studi approfonditi sull’origine dei toponimi del territorio isolano, qualche indicazione comunque è arrivata fino a noi, pur se in maniera alquanto schematica e, a volte, approssimativa. Tra queste vanno certamente ricordate le descrizioni fatte dallo stesso Morteani, e soprattutto quelle pubblicate da Giannandrea Gravisi nel 1922 negli Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria, con il titolo “I nomi locali del territorio di Isola”, certamente una delle raccolte di toponimi isolani più complete esistenti, ripresa successivamente anche da altri.
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Una delle prime descrizioni del territorio circostante Isola ci viene ancora da Luigi Morteani che nel 1888 scriveva: “Il dintorno d’Isola s’apre in una bella pianura, non estesa, nella quale si trovano i migliori terreni coltivati a vitigni, oliveti e frutteti. Essa è circondata da colline coperte di vigne, di olivi, di campi arativi e di pascoli. Il territorio tutto, ricco d’acqua, confina ad oriente con Lazzaretto, Gason e Monte, al sud con Corte d’Isola, ad ovest con Pirano ed al nord col mare.”
Lo stretto legame che è sempre intercorso tra il centro urbano di Isola ed il territorio circostante è dato proprio dal fatto che gli abitanti di Isola, pur avendo dimora all’interno di quelle che erano le antiche mura, quindi essendo a diretto contatto con il mare, si dedicavano più all’agricoltura che alla pesca. Infatti, fino alla prima metà del XIX secolo, prima cioè della nascita dell’industria conserviera del pesce, due terzi degli Isolani erano dediti al lavoro dei campi, il rimanente terzo viveva del lavoro in mare e soltanto marginalmente si occupava di attività artigianali e pubbliche.
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Riportiamo ancora le parole del vescovo Paolo Naldini che scrive nel 1700: Descriviamola succintamente quale ora è, e riconoscerassi almeno per obliquo quale anticamente fu. Tiene ella a fronte il Mare aperto, che le forma solidissimo baluardo con la sua incostanza. Si premunisce il fianco sinistro col Porto e col Molo, e assicurasi gli homeri non meno che il lato destro con alte Mura, framischiate da varie Torri, erette nel mille quattro centoundici; riparo ordinario delle Terre antiche. Nel mezzo poi delle sue Mura spalanca una porta da alto Torrione diffesa, e nel tempo predetto edificata, la quale per un Ponte di pietra porge sicuro l’accesso al Continente.
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LE PORTE
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Le Porte sono sempre state il centro nevralgico di Isola, fin dai tempi in cui il centro urbano era circondato dalle mura. Scrive Paolo Naldini nel 1700: Nel mezzo delle sue Mura spalanca una porta da alto Torrione diffesa, e nel tempo predetto edificata, la quale per un Ponte di pietra porge sicuro l’accesso al Continente. Tra questi confini ristretta, s’allarga primieramente in una Piazza moderata, dal Palazzo Pretorio, dal Fontico Pubblico, e da altre fabbriche private recinta: indi diramasi in varie Strade da sacri e profani edifici degnamente fiancheggiati.
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Nei secoli scorsi a Isola esistevano numerose porte d’accesso alla città; a loro ricordo restarono toponimi quali Vicolo Porta Puiese, Vicolo Porta Ughi, Riva de porta (poi Riva Nazario Sauro, oggi Riva del Sole), ma soprattutto Le Porte (oggi denominate Piazza della Repubblica – Trg Republike). Con il nome Le Porte veniva definita tutta la zona antistante l’edificio della farmacia, la stazione delle corriere, fino all’inizio di quella che era Via Besenghi, prima ancora via S.Caterina e oggi via Gregorčič, compresa la Piazza del Tibio, oggi Piazza E. Kristan. Nella vita della cittadina Le Porte ebbero probabilmente un’importanza superiore a quella avuta dalla Piasa Granda, anche se questa comprendeva il Municipio, la Dogana, il molo, il Fondaco, la diga e, il mandracchio, fondamentali per la vita economica e amministrativa della cittadina. Le Porte, infatti, rappresentavano l’entrata principale del Paese, sempre molto frequentata e vi avevano sede importanti attività.
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Delle mura, dei merli e delle porte oggi ad Isola non rimane più traccia. Già verso la metà del secolo scorso i viaggiatori che passavano per il paese scoprivano che, dove prima si trovava la porta principale con il torrione più grande, passava la strada che collegava Isola a Capodistria e proseguiva, per la via di S. Simone, verso Pirano. È rimasto soltanto il nome ad indicare lo spiazzo, che oggi è trasformato in piazza.
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Dalle Porte si accede alla piazza contigua (oggi Piazza Kristan) che un tempo era conosciuta con il nome di Tibio, derivante forse da “Trivio”, poiché si diramava in più direzioni: verso la Strada de l’ospedal (poi via P. Coppo, oggi via Lubiana) e verso la via Besenghi, molto frequentata non solo perché vi si trovavano il palazzo dei Besenghi, ma pure la chiesetta di S. Caterina e, dal 1890, anche la scuola italiana. A testimonianza dei tempi che furono rimane soltanto la chiesetta di S. Domenico, che nei secoli scorsi era consacrata alla Madonna del Carmine.
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Prima del congiungimento tra la terraferma e lo scoglio su cui sorgeva la cittadina di Isola, nel tratto di mare che divideva i due lembi di terra, il fondale non doveva essere molto profondo e pare esistessero delle saline, che si spingevano fin sotto le mura. Della loro esistenza si ha notizia nello Statuto del comune di Isola del 1360 e in un documento del 1417, anche se non esiste alcuna immagine. Delle saline capodistriane, invece, sono giunte fino a noi delle splendide cartoline illustrate. Non si riescono a individuare nemmeno nelle piante di Isola, per la veritĂ alquanto approssimative, disegnate da alcuni volonterosi cartografi nel XVI e XVII secolo. Secondo alcune testimonianze, le saline erano situate tra Fontana Fora e il mare.
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Alla fine del secolo scorso, lo storico Morteani scriveva: Verso il continente il mare non dev’essere stato mai profondo pel deposito continuo portato dalle acque, che diede origine ad una piccola formazione paludosa, la quale va oggidÏ sparendo pel continuo interramento: ed è in questa parte che esistevano delle saline già nel 1417, le quali si estendevano verso le mura. Anche il cartografo isolano Pietro Coppo accenna nei suoi scritti ad un fondamento di saline. Nelle aggiunte agli Statuti di Isola, inoltre, troviamo che nel 1417 il Consiglio concedeva ad un Capodistriano di costruire un fondamento di saline verso il muro di cinta del Comune.
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Ancora nel primo decennio dopo la fine della Seconda guerra mondiale, alle Porte era situata la pesa pubblica. Negli anni ’30 e ’40 veniva gestita da una guardia. Durante il periodo dei raccolti era al centro di un vivace movimento mattiniero tra i vendarigoli (coloro che acquistavano frutta e verdura per rivenderla) ed i campagnoi che portavano i prodotti della terra sul carro trainato dall’asino (el mus). Senza farsi sentire dagli altri, i vendarigoli facevano la propria offerta al venditore che, dopo aver sentito tutti, la cedeva al miglior offerente.
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Le Porte acquisirono un’importanza ancor più decisiva con l’inaugurazione della locale stazione ferroviaria, che comportò l’apertura di tutta una serie di servizi, di ristoranti e trattorie. Di notevole importanza per l’area anche la costruzione della Villa Ravasini, in cui trovò dimora l’omonima farmacia. Prima di venir trasferita alle Porte nella nuova Villa, l’unica farmacia di Isola era situata al pianterreno della Casa Comunale. Nel Municipio esisteva anche un vecchio ambulatorio, che poi venne trasferito presso il Pio Ospizio Besenghi.
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Nei tempi andati il farmacista, a Isola più conosciuto come el spesiàl, era il personaggio più ricercato della comunità, perché fungeva un pò, oltre che da negoziante (l’attuale “droghiere”), anche da surrogato del medico, e assieme alla comare (la levatrice, che fungeva anche da pediatra, ginecologa e, se il caso, da medico generico), rappresentavano un valido supporto al dotor (il medico vero e proprio) al quale ci si rivolgeva solo in casi particolarmente difficili, anche per via del costo. L’edificio che ancora fino a pochi anni fa ospitava la farmacia di Isola era stato costruito agli inizi del secolo precedente dal farmacista Ravasini che la tenne in proprietà e la gestì per lunghi anni. Successivamente, la farmacia venne rilevata dal dottor Cruscio, che per un determinato periodo fu anche sindaco della città. Il dottor Cruscio era proveniente da una cittadina dell’interno istriano ed il suo cognome originario era Hrušč, tanto è vero che i suoi atti in veste di podestà di Isola erano ancora firmati con questo cognome. Importante punto di ritrovo per gli Isolani, soprattutto nella prima metà del secolo scorso è stato il giardino pubblico, oggi dedicato alla figura del cartografo Pietro Coppo. Soprattutto negli ultimi anni ha subito alcune importanti modifiche che, certamente, ne hanno mutato il carattere di area privilegiata per bambini, giovani e vecchi durante le assolate ore dei pomeriggi e delle serate estive. Così va posta in rilievo il restauro della fontana con la bella copia in bronzo del cigno che vomita l’acqua. Tra le novità, che secondo alcuni deturpa il carattere mediterraneo del parco, il sovradimensionato padiglione estivo di tipica fattura montanara. Tra le modifiche che hanno contribuito a cancellare una parte della storia isolana del giardino anche la scomparsa del monumento ai caduti nella Prima Guerra Mondiale e, chissà perché, anche la quattro simpatiche statuine che attorno alla fontana rappresentavano le quattro stagioni dell’anno.
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Nel 1914, su iniziativa della locale sezione del Partito Socialista, venne innalzata in centro, la seconda Casa del Popolo che in breve tempo divenne centro politico e culturale. La Casa del popolo venne incendiata dai fascisti nel 1922. Più tardi fu ricostruita e ospitò la Casa del Fascio, di coloro cioè che l’avevano incendiata qualche anno prima. Dal maggio 1945 l’edificio riprese il proprio nome originario e nei suoi locali trovò posto il Circolo di Cultura Popolare, che vi rimase fino al 1948 quando venne chiuso su ordine delle autorità popolari. Oggi è sede di alcune organizzazioni sociali e nella sala grande tiene le proprie riunioni il Consiglio Comunale di Isola. Fino alla fine del secolo scorso, le Porte rappresentavano anche un punto obbligato di transito della strada che da Capodistria portava a Pirano. Solo più tardi fu costruito il tratto di strada che dal Primo Ponte conduce alla salita per Saleto con i due meravigliosi filari di pini mediterranei.
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Dalle Porte la strada che portava verso Fontana Fora era denominata Mesa Grisa perchĂŠ il suo fondo era stato formato a suo tempo con la pietra grigia arenaria, pietra che abbondava sul territorio.
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Fuori dalle mura, dove oggi si trova la Piazza dei Caduti, si trovava una pianura molto ben coltivata che si estendeva fino a S. Piero. Veniva denominata il Vier (Viario). Proprio in quella zona sorse la fabbrica di sardine di Roullet et C. e nelle vicinanze sorse nel 1920 il bagno termale aperto dal prete Vascotto.
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Altra figura di una certa rilevanza per gli abitanti di Isola era una specie di guardia municipale intenta all’osservanza dell’ordine pubblico e al rispetto delle regole stabilite dal Comune. Per quanto si sa, era in circolazione fino alla fine della Grande Guerra, durante il periodo austriaco, ed era un po’ l’antesignano della più tardi famosa figura della Guardia del radicio, una specie di tutore dell’ordine che veniva chiamato Guardia Suca ed aveva dei gran baffi alla Francesco Giuseppe. Non si sa se il soprannome di Suca gli sia derivato da “zucca” (testone) per il suo modo di fare, ma è certo, che per i baffi fosse noto anche come Mustaci de fil de fero.
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PIAZZA GRANDE
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Lo studioso Morteani, nel descrivere la configurazione urbanistica di Isola, rileva che La via principale è quella che conduce dalle Porte su per la grisa al domo, passando innanzi al palazzo de’ Besenghi. Poi continua constatando che vi sono due piazze principali: la Piazza Piccola (anche Piasa Picia o Piaseta), dietro la chiesa di S. Maria d’Alieto con due o tre case di stile gotico appartenenti a vecchie famiglie patrizie isolane, quali i Manzioli ed i Contesini, e la Piazza Grande (Piasa Granda) molto spaziosa che s’apre sul mare, sulla quale guardano l’antico palazzo pretoreo, oggidì palazzo comunale, ed il fontico con dirimpetto lo stendardo. Nel palazzo comunale vedesi ancora l’abitazione del podestà veneto con un corridoio che conduce all’oratorio il quale guarda entro la chiesa di S. Maria. A pianoterra, dovè il caffè, eravi l’ufficio della vicedominaria. In ogni caso è fuori di dubbio che gli edifici più importanti che fino a tutto il XIX secolo simboleggiavano il centro urbano di Isola erano la Chiesa di S. Maria d’Alieto, Casa Manzioli, il Fondaco e il Municipio.
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La costruzione del Palazzo Comunale ha inizio nel 1253 e coincide, praticamente, con le vicende storiche di Isola, che proprio da quell’anno diventa libero Comune, come testimoniano i suoi Statuti. È di qualche decennio più tardi la decisione di sottomettersi al dominio della Serenissima (11 maggio 1280), un vincolo che tenne legata la città a Venezia per ben settecento anni e si sciolse nel 1797 con la Pace di Campoformio.
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Anche il simbolo di Isola ha antiche tradizione che la riportano al legame con Venezia. Nel 1379, quando la flotta genovese, feroce antagonista di Venezia, imperversava nell’Alto Adriatico, una parte di essa viene dirottata dal mare antistante Isola da una fitta nebbia che, secondo la tradizione sarebbe stata provocata dal Santo protettore S. Mauro. La città in questo modo riuscì a sottrarsi alle devastazioni cui sarebbe stata altrimenti condannata. Lo scampato pericolo, sempre secondo la leggenda, sarebbe stato annunciato agli abitanti da una colomba bianca recante in bocca un ramoscello di ulivo, come simbolo di pace. Ancora oggi, la colomba con il ramoscello d’ulivo nel becco è simbolo del Comune di Isola. Quanto forte fosse il legame di Isola alla Serenissima è dimostrato anche dagli avvenimenti che succedettero all’indomani della Pace di Campoformio del 1797 e alla decisione di Napoleone di cedere i Domini veneti all’Austria. Il 5 giugno il popolo isolano si solleva per protesta e addirittura uccide il podestà Pizzamano, accusato di aver complottato, assieme alle famiglie nobili capodistriane, a favore dell’Austria.
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Al Palazzo comunale è legato anche l’unico simbolo tipico che stava a testimoniare l’appartenenza della città alla Serenissima: il Leone marciano posto entro il timpano della facciata del Municipio rivolta al mare e alla Piazza. Come viene definito nel volume “Il Leone di San Marco in Istria” di Alberto Rizzi, si tratta di leone marciano andante (I metà del XV sec.). Pietra d’Istria, cm 100x170 c. Leone nimbato andante (tipo stante) verso sinistra reggente libro aperto lievemente inclinato (scritta consueta in carattere gotici: è caratterizzata per allineamento su entrambe le pagine) e avente accigliato muso da leonessa un po’ scorciato, con naso camuso e lingua estroflessa, ali tra parallele e divergenti, coda distesa arcuata, testicoli visibili (?); poggia su acqua e terreno (appena accennati) Per il corpo pressoché glabro e specialmente pel modo in cui cade la coda, l’animale assomiglia un po’ ad un babbuino. La conclusione di quella protesta, che fu piuttosto una rivolta? È ancora l’Apollonio a raccontarcela: La furia popolare era esaurita. I danni vennero valutati in complessive Lire 36.410, somma che nella successiva sentenza venne addebitata ai rei, ripartita tra un centinaio di “rivoltosi”, individuati per nome, cognome e soprannome... Ben inteso ci furono le condanne e morte, peraltro in contumacia, dei due sunnominati assassini del Podestà, e i responsabili di atti di violenza contro le persone, una dozzina, si ebbero delle condanne ai ferri, una sola delle quali molto severa di dieci anni.
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Piazza Grande (ex Piazza Garibaldi e prima ancora Piazza Stefania), ma anche Piazza Piccola (già Piazza Alieto ed oggi Piazza Manzioli) avevano, fino a qualche secolo fa, un livello di superficie più basso di almeno mezzo metro rispetto a quello attuale, come dimostrato dagli scavi effettuati in Piazza Piccola durante la posa del nuovo selciato davanti a Palazzo Manzioli. Anche il sistema dei canali cittadini che portavano al mandracchio le acque piovane e attraversavano Piazza Grande non dovevano essere delle vere e proprie opere di ingegneria edile. Certo è, come dimostrano alcune immagini, che Piazza Grande non era allora ricoperta da un selciato in pietra, come buona parte delle vie cittadine. E’ attestato che la stessa piazza veniva attraversata ai lati da un canale a cielo aperto, nel quale confluivano le acque che vi si raccoglievano durante le piogge più impetuose e che scendevano dai viottoli in ripida discesa derivanti dalla zona più alta sotto il Duomo e che, soprattutto quando erano particolarmente copiose, si trasformavano in veri e propri torrenti. Per cui, durante le alte maree e durante le grandi piogge, succedeva che buona parte della Piazza finiva inondata e coperta d’acqua.
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Dal 1805 al 1815 anche Isola, come le altre cittadine venne occupata dalle truppe napoleoniche. Ed è proprio in quel periodo che furono costruite alcune importanti strutture comunali, come le vasche della Fontana Fora, ma anche la strada costiera che ancora oggi collega Isola a Capodistria
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Uno dei modi di dire isolani, che denota l’antica saggezza popolare, ma pure un tipo di dignitosa povertà, recitava Fogoler giasà, tardi se magnarà. Anche se il Fogoler appartiene alla storia del secolo scorso, in quanto si trattava di un focolare basso, con una grande cappa (la napa) nel mezzo della quale pendeva una catena per il paiolo, dopo la prima guerra mondiale si passò ad una versione più alta, murata, con un fornello per il carbone o per la legna e fornito di una piastra in ghisa con due o tre buchi provvisti di cerchi sui quali si cuocevano le pietanze. Subito dopo venne introdotto, almeno da chi se lo poteva permettere, lo Spacher (dal tedesco “Sparherd”), provvisto anche di una caldaietta per l’acqua calda, tutto di metallo. In esso, ma già in quello precedente, era possibile cuocere anche il pane nello spazio adibito a forno.
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Forse una volta non erano disponibili tante qualità e tanti tipi di pane, quanti ce ne sono oggi. E’ certo, però, che il numero dei forneri (fornai) non fosse inferiore ad oggi. Probabilmente perché allora non c’erano i mezzi di trasporto rapidi che esistono attualmente, ed i pane doveva essere cotto e venduto entro un breve lasso di tempo. Negli anni Venti a Isola esistevano cinque fornai, almeno secondo alcune testimonianze, che cuocevano e vendevano il pane di giornata per tutti coloro che non lo facevano direttamente a casa. Va detto, però, che c’era anche la prassi di preparare a casa l’impasto e di portarlo dal forner per la sola cottura. Uno di questi aveva il suo forno vicino alle scuole e veniva chiamato Bacan. Poi c’era il Viola in via Besenghi, La Piranesa vicino alla Chiesa di S. Giovanni, il Raisa in vicolo Porta Ughi e, infine, el Forner de fora, visin al campo de balon, perché situato fuori dalle Porte, dove il terreno era stato bonificato per costruirvi il campo sportivo.
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Nel corso dei secoli Isola non aveva mai sentito la necessità di disporre di una pescheria, visto che una buona parte degli abitanti era dedita alla pesca. Questi poi fornivano il pesce agli altri in vendita o barattandolo con i prodotti della campagna. Dei secoli passati, comunque, si ha notizia di una piccola pescheria situata in un porticato, dove più tardi trovò posto la sagrestia della Chiesa della Madonna d’Alieto, e che era conosciuto come la losca (la loggia). Più tardi la vendita del pesce fu trasferita in un locale adiacente la Chiesa di S. Andrea in Piazza Grande. Infine, progettata da Ettore Longo, venne costruita la nuova pescheria che servì al suo scopo fin nei primi anni della seconda guerra mondiale. Oggi ospita la Capitanieria del Porto e la Dogana. Secondo alcuni dovrebbe tornar a volgere la propria funzione originaria per cui venne costruita e recentemente parte dell’edificio ospita pure una moderna pescheria.
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Ogni cittĂ in Istria disponeva di un Fondaco, una specie di magazzino pubblico per le riserve di derrate alimentari, che veniva gestito dalle autoritĂ municipali e che serviva da fondo di riserva per far fronte ad eventuali necessitĂ della popolazione.
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Interessanti le disposizioni comunali con le quali veniva esercitato il controllo delle merci custodite, di quelle in arrivo e di quelle in partenza, tanto che, per evitare la possibilità di contrabbando o di vendita sottobanco, tutte le merci venivano diligentemente specificate e pesate. Nei pressi del Fontego, inoltre, non era possibile attraccare imbarcazioni prive di permesso o effettuare operazioni d’imbarco o di sbarco senza l’autorizzazione delle autorità comunali e senza la presenza fisica della dogana. Il passaggio di Via del Fondaco, ancora oggi esistente con la sua suggestiva volta, veniva chiamato Soto el Fontego, ed era chiuso tra la Scola vecia di fronte al Municipio e la trattoria Alla città di Trieste. Non siamo riusciti a trovare molte notizie su quando e perché è stato costruito il Molo Sanità, anche se è da presumere che risalga più o meno all’epoca in cui è stato ristrutturato il Mandracchio. Non vi sono molte notizie nemmeno sul perché di questa sua denominazione, almeno fino ai primi anni del secolo scorso. Probabilmente sanità deriva dal fatto che si trova nelle immediate vicinanze del Fontego e che quindi serviva da molo d’imbarco, ma soprattutto di sbarco, per le merci (granaglie innanzitutto) che il Comune poi immagazzinava per le proprie necessità. È altresì probabile che per attraccarvi vigessero regolare particolari, come il controllo doganale, ed altro per evitare malversazioni. Non va esclusa anche la possibilità, che il nome vada collegato al fatto che, attraversata la Piazzetta, si arrivava all’imbocco della Contrada de l’Ospedal, dove aveva sede appunto l’antico ospedale, l’ospizio di Isola, che veniva chiamato anche l’Ospedal dei poveri. La Casa dei poveri cessò le sue funzioni all’inizio del secolo scorso, quando vennero trasferite nel neocostituito Ospizio Besenghi. La Contrada de l’Ospedal, chiamata Via dell’Ospedale Vecchio, fu ribattezzata nei primi decenni del secolo in via Pietro Coppo e dopo gli anni Cinquanta in Via Lubiana. La strada che, partendo dalle Porte, dopo una cinquantina di metri si dirama, veniva definita Contrada de sora, poi via Ettoreo, oggi via Capodistria.
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FONTANA FORA
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In molti documenti del passato Isola viene indicata come provvista di ricche fonti idriche. La constatazione, probabilmente, derivava dal confronto con la realtà presente in altre località istriane, notoriamente da sempre sofferenti di mancanza di acqua. In verità, nemmeno Isola disponeva di quantità idriche tali da poterle definire abbondanti.
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Secondo una piccola ricerca effettuata dall’isolano Giovanni Russignan intitolata “Le risorse idriche” si apprende che di sorgenti cospicue a Isola se ne potevano contare tre: quella della fonte degli Àgnesi o, secondo alcuni, Àgnisi di cui non è possibile ricostruire l’origine del nome, quella del torrente Ricorvo, che poi venne convogliata in un piccolo acquedotto, e quella della Fontana Grande o Fontana Fora, così chiamata perché certamente la più ricca e importante e perché situata fuori dalle mura che circondavano Isola.
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Le immagini che ci giungono dalle cartoline illustrate della fine dell’800 o dei primi anni del secolo scorso riguardano esclusivamente Fontana Fora, ciononostante va ricordato che anche la Àgnesi aveva per gli abitanti di Isola una notevole importanza, proprio perché situata non molto lontano dal centro abitato. Probabilmente rifatta al tempo dell’occupazione napoleonica del primo decennio dell’800, era situata poco prima dell’incrocio della strada romana con il torrente Pivol. Consisteva di un pozzo di forma quadrangolare che finiva con un muro in pietra. Da qui, attraverso un foro, l’acqua si riversava in una vasca più piccola, pure quadrata, che serviva da abbeveratoio per gli animali. Infine, l’acqua in eccedenza entrava in un canale di scolo e scendeva fino al mare nei pressi del macello. Come rileva il Russignan, la strada romana che le passava accanto testimonia dell’importanza che la sorgente rivestiva per Isola fin dai tempi più remoti.
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Fontana Granda o Fontana Fora era situata immediatamente prima di arrivare alle porte d’entrata a Isola, sulla via che portava a San Simone, al tempo quasi in aperta campagna. Fontana Fora, con il suo sistema di grandi vasche e fontane, rappresentava l’acqua madre degli Isolani, abbondante nonostante un’errata deviazione di un suo ramo, che faceva scaricare parte dell’acqua direttamente in mare. Era il punto di riferimento idrico per tutta la cittadina. Le donne facevano corteo con le mastele per attingere l’acqua che serviva per le necessità domestiche. L’acqua eccedente veniva convogliata in una grande vasca detta fontanon, dalla quale usciva per riempire il lavatoio. Questo era sempre circondato da massaie intente a lavare i panni e la biancheria. L’amministrazione comunale provvedeva almeno una volta all’anno alla sua pulitura. Quasi tutto il bucato della popolazione isolana veniva eseguito proprio al lavatoio della fontana. La lisia, naturalmente, veniva praticata per la biancheria facendo ricorso ad un sistema oggi certamente non conosciuto. Dopo averle lavate con acqua calda e sapone, le lenzuola (i linsioi) si mettevano in una tinozza (mastèl), che coperta con un telo robusto serviva per contenere cenere di sarmenti. Sulla lisiera (lavanderia) si faceva bollire l’acqua che, bollente, si versava sulla cenere, la quale con il calore liberava i sali detergenti che conteneva e con i quali veniva impregnata la biancheria sottostante. Se i panni erano particolarmente sporchi, si provvedeva a rimestarli. Alla fine i panni venivano resentadi (risciacquati), strizzati e stesi ad asciugare. Per impedire che i panni diventassero giallastri e fare in modo che mantenessero un colore quanto più vicino al bianco, si usava una polvere azzurra, il Perlin, che ancora oggi qualche signora più in là con gli anni dice di usare per definire le varie polveri aggiuntive che vanno introdotte in lavatrice per rendere il bucato bianco “che più bianco non si può”.
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Della bontà e della qualità della sorgente testimonia anche il vescovo Tommasini che, nel descrivere la produzione isolana del vino e dell’aceto, sottolineava in particolare come quest’ultimo fosse importante per gli isolani perché viene venduto ai marinai, e serve ai vascelli con grandissimo utile degli abitanti e si dà la causa all’acqua di quella loro fontana, che sta vicino alla terra così abbondante, che tal anno facendosi dieciotto sino a 20,000 barile di zonta, mai resta asciutta nelle vendemmie.
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L’esistenza della Fontana Grande, o Fontana Fora come veniva chiamata dagli Isolani, è menzionata già negli Statuti del 1360. Il cartografo isolano Pietro Coppo la cita nel suo “Del Sito de l’Istria”. Nei secoli successivi pare sia stata ricostruita, come quella degli Àgnesi al tempo dell’occupazione francese, e restaurata nuovamente più tardi nel 1847. L’antica strada romana, che dall’antica Aegida proseguiva per Haliaetum,e che già sfiorava la Fontana Àgnesi passava anche nei pressi della Fontana Fora. Le strade che nel corso dei secoli venivano tracciate dal passaggio dell’uomo passavano sempre in prossimità di località dove era possibile approvvigionarsi di acqua potabile.
Con la crescita della popolazione, ma soprattutto con la nascita di una fiorente industria conserviera alla fine del XIX secolo, a Isola si fece pressante anche il fabbisogno di acqua. Così nei primi anni del secolo scorso l’amministrazione austriaca della città ritenne opportuno dotare l’abitato di una serie di fontane pubbliche, nelle quali, attraverso un piccolo acquedotto, far confluire l’acqua del torrente Ricorvo.
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Le fontane pubbliche erano costituite da una colonna di ghisa con qualche modesto elemento decorativo, erano alte metri 1,60 e con un piano d’appoggio per i recipienti. Erano situate nelle maggiori piazze e nei piazzali, ma di esse non rimane piÚ traccia. A testimoniare della loro esistenza rimane soltanto la fontana ancora oggi situata di fronte alla Chiesa di S. Domenico, al centro del mercato ortofrutticolo (Piazza Kristan), che venne ricostruita nel 1935 e collegata alle tubature del nuovo Acquedotto Istriano.
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IL PORTO
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Nel suo volume sulla storia di Isola, lo storico Luigi Morteani rileva che di fronte a Isola “vi è il mare aperto che colla sua incostanza per i venti di borea le formava sempre un solidissimo baluardo, per cui non vi era bisogno di mura che la difendesse da questa parte. Nel 1326, sotto il podestà Giorgio Contarini, furono costruiti il porto ed il molo per comodità e decoro degli abitanti e per difendere il fianco sinistro.” Proprio questo, infatti, è il primo cenno storico ad un’opera di ampliamento e di ricostruzione delle strutture portuali di Isola. Nei secoli successivi, si hanno notizie di viaggi e di trasporti, ma bisogna aspettare l’arrivo dell’Austria per poter registrare alcune importanti opere pubbliche anche nel settore del porto. Anche questo un dato con il quale indicare che, in fondo, le attività marittime non si trovavano all’apice degli interessi comunali. Sempre prendendo a prestito i dati del prof. Morteani, per esempio, si desumne che verso la fine del XIX secolo, la popolazione isolana comprendeva 2.571 maschi e 2.412 femmine, per un totale di 4.983 persone. Di queste, 3.134 - come sottolinea – appartenevano alla classe agricola, della quale 1.396 erano persone occupate nei lavoro dÈ campi. Ancora in una statistica del 1902, quindi quando erano già in funzione le industrie conserviere del pesce, la popolazione isolana era suddivisa in 580 famiglie di agricoltori, 214 famiglie di pescatori, 26 marittimi, 61 artigiani, 47 industriali e commercianti, e 30 compresi tra i civili e singoli individui.
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Da una lettera dell’undici maggio 1746, inviata da Capodistria ai Cinque Savi della Mercanzia di Venezia, si apprende che a Isola esistevano in tutto soltanto 33 imbarcazioni da pesca, nessuna adibita al trasporto e 13 adibite a non meglio specificate mercanzie. Complessivamente, gli addetti all’attività peschereccia non superavano le cento persone. Anzi, secondo il documento, esattamente 99, mentre altre 46 si occupavano del commercio di mercanzie. Che Isola non contasse alcuna imbarcazione da trasporto, quindi di dimensioni più grandi rispetto a Capodistria e Pirano, probabilmente dipendeva dal fatto che la cittadinoaaveva ormai abbandonato completamente la produzione del sale, che non era stata mai molto consistente, quindi non sussiteva la necessità del suo trasporto dalle saline ai magazzini o verso Venezia. È evidente che per il trasporto dell’olio e del vino venivano usate imbarcazioni provenienti direttamente dalla Serenissima.
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In un’immagine lasciataci del cartografo arabo Al Idrisi nel XII secolo, che si premurò di disegnare Isola circondata da possenti mura di difesa, è possibile comprendere che il molo di attracco per tutte le imbarcazioni doveva essere stato costruito in legno. Lo stesso dicasi per tutte le documentazioni che nei secoli successivi si riferivano ai traffici marittimi da e per Isola. Le imbarcazioni non erano di grosso tonnellaggio ed anche la frequenza non doveva essere molto consistente.
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In base ai documenti presenti nell’Archivio di Stato di Trieste, è evidente che fino al 1883 a Isola non esisteva ancora un molo costruito solidamente in pietra, dove potessero approdare i piroscafi che arrivavano o partivano da Isola. Come nei secoli precedenti, ad accogliere le imbarcazioni in transito o in approdo alla città esisteva un pontile di legno che, come tutti i manufatti marittimi, veniva spesso danneggiato dalle intemperie, ma che finiva anche come bottino di ladri, come si riesce a leggere da questi primi documenti.
Appena il 18 marzo 1883 l’i. r. Agenzia di porto e sanitaria marittima di Isola inviò al Governo Marittimo di Trieste il rapporto N. 48 a firma dell’agente Ermani, con il quale – visto lo stato disastroso nel quale si trovava il pontile d’approdo - .si chiedeva con urgenza la sua riparazione. Un lavoro resosi ancora più necessario, dopo che a Isola avevano incominciato a lavorare a pieno ritmo due importanti industrie conserviere che si servivano proprio del porto per i propri trasporti verso l’estero.
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Fu cosÏ che venne progettato un molo piÚ solido in cemento e calcestruzzo a prova anche delle mareggiate che spesso colpivano il mare isolano. Ci vollero ben 10 anni per portare a termine i lavori del molo che, tuttavia, nonostante la sua fragilità e le sue disavventure, era servito nei secoli alla popolazione isolana. La parola fine al molo di legno venne posta praticamente con il rapporto inviato alla Sezione tecnica del Governo Marittimo, dall’agente Marchig in data 4 settembre 1893.
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Dai documenti, si può desumere che in quell’epoca il mare portasse molti detriti all’interno della zona portuale– come scrive Ferruccio Delise nel suo volume sulla storia del porto isolano - riducendo così la profondità del bassofondo marino con la conseguente difficoltà d’approdo per le imbarcazioni in transito, specialmente di quelle di stazza più grossa. Probabilmente, la ragione di questa situazione va ricercata anche in una situazione generale di manchevole disciplina delle acque portuali: basta tener presente, per esempio, che dall’area adiacente la zona comunemente definita “Alle Porte” non esistevano banchise murate fino al molo Sanità. D’altra parte, la zona che una volta ospitava i campi delle saline, da quando queste non erano più in lavoro si era trasformata in una vera e propria palude fangosa che contribuiva a sedimentare il fondo marino di fanghiglia. Infatti, già il 5 aprile del 1879, Isola si trovò costretta a prevedere un’ulteriore progetto di scavo e di pulitura del fondo.
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Il molo è sempre stato il punto di incontro degli isolani, soprattutto in alcuni momenti della giornata: durante l’arrivo o durante la partenza dei vapori, che quasi sempre erano gestiti da società armatrici triestine o capodistriane. A più riprese Isola tentò di creare una propria Società di Navigazione. Tutti i tentativi però non ebbero vita lunga. Tra i primi piroscafi isolani il “Guido”, comandato da Piero Benvenuti (Cavarlese), e i successivi “Andromeda” e il “Besenghi” con il nostromo Giovanni Derossi (Tasacanele) o la “Spiro Xydias” comandata da Cesare Giraldi.
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Come ricorda l’isolano A. Vascotto, la navigazione marittima degli isolani fu sempre ostacolata dalla concorrenza con una spietata guerra dei prezzi e con ripicche della Società di Navigazione “Istria-Trieste” alla quale si agganciò anche la “Navigazione Capodistriana”. Per un certo periodo fece scalo a Isola, comandato dal cap. Giraldi anche un piroscafo “a tamburo”, con le ruote, dal nome promettente di “Bella Riviera”, e per il quale gli Isolani dicevano che era più largo che longo. Comunque, nella memoria degli isolani rimasero impressi soprattutto i vaporetti “Itala” e “Diadora”, appartenenti alla Società di Navigazione Isolana creata per merito di Roberto Schiavon e che copriva regolarmente il tragitto di andata e ritorno con Trieste.
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Il traffico passeggeri, ma non solo, tra Isola e Trieste mantenne la sua importanza anche per il periodo che seguì la fine della Seconda guerra mondiale. Infatti, durante tutto il periodo del Territorio Libero di Trieste ad essere frequentate dagli isolani erano soprattutto le vie mare, piuttosto che quelle via terra ancora alle prime armi. Delle automobili, in quel periodo, non si prevedeva ancora l’imminente sviluppo. Anche i cosiddetti transfrontalieri si servivano quasi esclusivamente del piroscafo, coloro cioè che da Isola si recavano quotidianamente oltre la “Linea di demarcazione”, perché avevano un impiego fisso a Muggia, a Trieste o, ancora più lontano, ai cantieri di Monfalcone. Ma dei piroscafi si servivano anche i contadini che portavano i loro prodotti al mercato di Trieste, almeno fino a quando le autorità lo permettevano.
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Nella prima metà del secolo scorso, interessanti alcuni dati riguardanti il traffico registrato dal porto isolano. Nel 1938 erano state trasportate merci per 30.300 tonnellate, delle quali 19.100 in uscita e comportanti operazioni di carico, e 11.200 in entrata (scarico). Dall’estero nel porto di isola sono state manipolate merci importate dall’estero pari a 2.900 tonnellate. Complessivamente, il trasporto di merci per via marittima nel porto di Isola era nettamente superiore a quello registrato sia a Pirano che a Capodistria.
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Negli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale, l’Istria registrò un notevole e intenso traffico marittimo, soprattutto nel settore passeggeri. Nel 1938, per esempio, si raggiunsero i 4,85 milioni di passeggeri, il che rappresentava più del 50 per cento dell’intero movimento registrato allora in tutta l’Italia. Indubbiamente si trattava di una particolarità di questa regione, da sempre vitalmente legata a Trieste e che comportava un consistente spostamento di persone, sia che si trattasse di operai e manodopera impiegata nelle industrie e nei cantieri di Trieste, Monfalcone e Muggia, ma anche di commercianti, artigiani, contadini. Infatti, Trieste rappresentava il più grande mercato ortofrutticolo per tutta l’area istriana nord-occidentale. La sola Isola, nel 1938 aveva registrato un traffico passeggeri di 237.113 persone, e si trovava subito dopo Trieste, Muggia e Capodistria. Una tendenza, del resto, che si è mantenuta anche durante il periodo bellico, come pure negli anni immediati del dopoguerra, pur con la presenza di confini a volte addirittura ermetici. Una tendenza che, per fortuna, sta riprendendo forza, dopo l’entrata di Slovenia e – ora – anche della Croazia in Europa.
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Lo stato della marina a Isola alla fine del 1886 era il seguente: 18 navigli a vela di piccolo cabotaggio della portata complessiva di 129 tonnellate, e 65 navigli da pesca con 278 tonnellate e 251 uomini d’equipaggio. In tutto 109 navigli, 448 tonnellate e 349 uomini d’equipaggio. I battelli si adoperano per il trasporto di prodotti agricoli, di quelli delle fabbriche, della pesca e per i bisogni della città, compreso il concime proveniente da Trieste e territorio. Il totale movimento interno e coll’estero di navigli a vela ed a vapore entrati in un anno in Isola (1886) era di 747 unità dalla portata complessiva di 25.645 tonnellate.
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È ormai noto che i primi porti di Isola, ai tempi di Haliaetum, erano due ed erano situati fuori dell’odierno comprensorio urbanistico, quello di San Simone, appartenente all’antica Alieto, e quello di Vilisano, scoperto appena agli inizi di questo secolo, ma pure sempre di epoca romana. Quello che, invece, ancora oggi serve all’attracco delle barche e un tempo neanche tanto lontano serviva ai vapori che collegavano Isola a Trieste e alle altre cittadine istriane, è stato costruito assieme al mandracchio nel lontano 1326, per iniziativa del podestà Giorgio Contarini. Il molo che oggi viene definito “doganale”, perché fino a pochi anni fa fungeva da scalo marittimo internazionale per la Slovenia, nei secoli aveva più volte cambiato denominazione. Da pontile d‘imbarco a molo Savoia. Alcuni secoli fa, veniva comunemente definito come “molo sanità” in quanto tutte le merci che il podestà faceva arrivare a Isola per le riserve del fondaco dovevano passare un adeguato controllo sanitario e di qualità. Lo stesso, naturalmente, valeva anche per le merci che dal Fondaco venivano destinate a Venezia o ad altra località. Inoltre, il controllo aveva lo scopo di evitare che con le riserve alimentari della città venisse foraggiato un fiorente contrabbando con l’interno della Carniola e con Trieste, che allora apparteneva alla Casa d’Austria.
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La Diga, invece, che molti Isolani chiamavano anche Giga, risale a parecchi secoli piÚ tardi. Infatti, fu costruita nei primi anni trenta del secolo scorso per difendere il porto e il mandracchio dalle continue mareggiate. La diga proteggeva inoltre tutta la riva, ormai diventata di fondamentale importanza per i trasporti di cui necessitava l’industria conserviera..
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La diga, ritenuta di importanza strategica dalle truppe d’occupazione tedesche, prima della fine della Seconda guerra mondiale venne totalmente minata. Qualche giorno prima della liberazione e prima di ritirarsi da Isola, il 22 aprile del 1945, alle ore 6.45 del mattino i tedeschi la fecero saltare in aria con un’esplosione che danneggiò parecchie delle case circostanti e danneggiando alcune delle imbarcazioni più vicine. Venne ricostruita nei primi anni del dopoguerra. Nelle immagini che seguono testimoniano ciò che gli Isolani trovarono all’indomani della deflagrazione.
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Nei primi anni del secolo scorso, Isola risultava certamente all’apice delle cittadine dell’Adriatico settentrionale per il numero delle imbarcazioni da pesca che, naturalmente necessitavano anche di uno spazio per le riparazioni. A memoria d’uomo è possibile constatare che esistevano addirittura due squeri, entrambi posizionati subito dietro la pescheria, ed uno nei pressi della fabbrica Ampelea, a poca distanza dal Primo Ponte. Secondo le testimonianze degli Isolani, il più importante era certamente lo squero dei Deste, anche se oggi di tutti questi non esiste traccia, a parte qualche piccola fotografia.
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Negli ultimi decenni la situazione del porto isolano è del tutto cambiata. Nell’antico mandracchio sono ormai ormeggiate soltanto alcune piccole imbarcazioni da pesca, mentre le rive, il molo ed anche la diga sono praticamente occupate da piccole e grandi imbarcazioni che poco hanno a che vedere con la pesca. Lungo la riveasono stati collocati parecchi pontili mobili per le barche da svago e, nella baia di San Simone, all’altezza delle fabbriche dell’Arrigoni, ormai scomparse, nel giro di pochi anni è sorto un imponente porto per yacht e lussuose imbarcazioni da diporto. Praticamente scomparso da decenni, è invece, il traffico passeggeri marittimo come scomparsa, del resto, anche l’attività della pesca. Quanto è rimasto è quasi esclusivamente in funzione dell’industria dell’ospitalità: il turismo.
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RIVA DE PORTA
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Quasi fino ai primi anni del XX secolo, al di fuori dell’area adiacente il mandracchio, Piazza Grande, il molo sanità , nonchÊ Punta Gallo, tutta la parte sud-occidentale di Isola era circondata dal mare che, in pratica, arrivava fino alle case. Una situazione che era venuta a configurarsi dopo lo smantellamento delle antiche mura cittadine che rappresentava un vero e proprio anello difensivo da possibili minacce che avrebbero potuto arrivare per mare. Anche l’area immediatamente prossima alle Porte, dopo la scomparsa delle saline, col tempo si era andata trasformando in una zona paludosa e piena di fanghiglia.
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Con lo sviluppo delle industrie e soprattutto con l’incremento del traffico portuale si fece presente la necessità di migliorare le linee di comunicazione tra le nascenti industrie ed il porto, coinvolgendo le Porte, le rive ed il Mandracchio che, fino a quel momento trovavano l’unica via di passaggio all’interno delle vie cittadine, cioè attraversando la contrada dell’Ospedale Vecchio e la Contrada de sòra, che dalle Porte sboccavano in Piazza Grande e in Piazza Piccola. L’unica soluzione possibile era stata identificata nella bonifica dell’acquitrino delle ex saline e nella costruzione di una riva che permettesse a tutta la città un nuovo sbocco al mare, ma anche una più semplice via di congiungimento con il porto. In pratica, si trattava di aprire agli Isolani un’area che fino a quel momento rimaneva estranea alla vita quotidiana della città, facendo assumere per Isola un’ importanza molto rilevante.
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Le Rive, con il passare del tempo, vennero usate sempre più non solo per lo scarico e il deposito provvisorio delle merci, ma anche per stendere le reti da pesca ad asciugare e da sito dei pescatori per rammendarle. Nella stagione delle vendemmie, inoltre, gli agricoltori (i campagnòi) mettevano le loro botti lungo gli argini per disinfettarle e stagnàrle, ovvero riempirle con l’acqua di mare per far gonfiare il legno dopo un periodo di inoperosità.
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A Trieste avevano sede le grandi società armatrici, quasi tutte controllate o di proprietà degli armatori lussignani, i Tripcovich, i Cosulich. Anche per collegare le piccole cittadine istriane furono in molti a darsi da fare. I collegamenti marittimi tra le quattro cittadine istriane (da Pirano a Isola, Capodistria e Muggia) e Trieste erano ormai realtà quotidiana, già fin dalla fine del XIX secolo. Per Isola, come per tutte le città costiere dell’Istria, il traffico marittimo aveva ormai preso la rincorsa e pure gli Isolani si diedero da fare dando vita ad una “Società di navigazione a vapore”. Ben presto, però, si scoprì che i piroscafi, proprio perché superavano le misure delle tradizionali imbarcazioni da pesca e da trasporto isolane, non avevano dove ormeggiare lungo le rive per le operazioni di carico e scarico merci. Una prima richiesta che in tal senso riguarda la posa di due colonne da ormeggio fu indirizzata al Capitanato marittimo di Trieste.
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Il 23 aprile del 1902 il Podestà di Isola, Eugenio Marchetti, oltre alla bonifica della palude chiese pure lo scavo di un canale navigabile per accedere a “Riva de Porta”. Si arrivò al 1909, quando l’agente dell’Agenzia portuale isolana allora in carica, comunicò al Capitanato di Trieste i diversi lavori che riteneva necessario eseguire, anche se alcuni di piccola entità e anche se non sempre riguardavano rigorosamente le rive, ma comprendevano tutto il litorale isolano.
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Isola stava vivendo in quel primo scorcio di inizio secolo ventesimo uno dei suoi periodi di massimo sviluppo economico, sociale e culturale. Vi aveva certamente contribuito, oltre all’ampliamento del porto e del molo, anche l’arrivo della ferrovia a scartamento ridotto, che offriva nuove possibilità di trasporto e di movimento, sia delle persone che delle merci. Ma altre importanti vicende, legate soprattutto all’ormai irrobustita industria, concorsero a modificare sia la struttura della popolazione, che il suo impegno sociale e politico. Nel 1906 venne inaugurata la prima casa del popolo, con annessa la prima biblioteca circolante. Vennero istituite le prime società operaie e contadine di mutuo soccorso. Vennero costruite anche le prime case operaie, che esistono tuttora.
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Nonostante il fatto che molti dei problemi riguardanti il porto, ma anche alcuni progetti, come quello di “Riva le Porte”, non fossero stati portati a termine, la prospettata e assaporata ricchezza economica e sociale del Comune, tuttavia, fece già pensare ad altri progetti di una certa consistenza. Il 28 novembre 1912, a sorpresa venne elaborato un progetto per la costruzione di un nuovo mandracchio a Isola, per una spesa totale di 235.000 Corone. La costruzione di un nuovo porto in prossimità di Riva alle Porte, visto lo sviluppo degli ultimi vent’anni, potrebbe esser visto oggi come un progetto addirittura avveniristico. Nel 1912, però, nessuno né a Trieste, né tantomeno a Isola, sospettava che le vicende internazionali stessero rapidamente deteriorandosi e che nemmeno due anni più tardi sarebbe scoppiata una delle più disastrose e tragiche guerre che il mondo ricordi. Tuttavia, il 12 marzo 1915, pur essendo l’Austria già in guerra, con tempo bello e mare quieto, ebbe inizio il lavoro d’escavo della fondamenta per l’impianto della muratura della riva nuova a secco, con un capo cantiere e 24 manovali.
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Caduta l’Austria-Ungheria, l’Italia, Paese vincitore, entrando a Trieste, subentrò al Governo Marittimo austriaco con competenze su tutto il litorale ex austro-ungarico e che, naturalmente, comprendeva tutta l’Istria e Isola. Il primo documento sulle rive isolane di cui fu promotrice l’amministrazione italiana, risale al 20 gennaio 1919, quindi a circa due mesi dall’arrivo dell’Italia a Isola che, come si ricorderà, avvenne il 7 novembre 1918. Vi si apprende innanzitutto che nel frattempo la nuova riva, fino ad allora conosciuta come Riva de Porta, aveva cambiato il nome in Riva Nazario Sauro. Finalmente, il 16 aprile 1920 il subentrato Regio Governo marittimo di Trieste, dopo adeguato controllo dell’opera, constatò che il muro di sponda della Riva Nazario Sauro in Isola, “dall’angolo vicino al Consorzio fino all’angolo vicino alla pesa, per una lunghezza complessiva di 116,50 metri è stato ricostruito a regola d’arte e con l’impiego di materiali di buona qualità. Il muro anzidetto è stato eseguito con pietrame a secco, nel mentre i conci di paramento e la copertella di coronamento, sono posti in opera in malta di cemento, e le facciate a vista sono riboccate in cemento.Si pronuncia perciò l’incondizionato collaudo del lavoro in parola e si propone di assegnare al Comune d’Isola la sovvenzione straordinaria di Lire 8000 (ottomila) concessa dal Commissariato Generale Civile per la Venezia Giulia.” (v. il volume sul Porto di Isola di Ferruccio Delise.
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LA PESCA
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Anche se Isola, per la sua configurazione geografica e per la sua posizione, avrebbe potuto essere dedita soprattutto alla pesca ed alle attività legate al mare, è constatato che la sua popolazione nei secoli era prevalentemente agricola. Una situazione questa che si protrasse praticamente fino agli ultimi decenni del XIX secolo, quando la nascita ed il forte e rapido sviluppo dell’industria conserviera del pesce, portò una parte consistente degli abitanti a dedicarsi all’attività della pesca o intraprendere la strada del lavoro salariale nell’industria.
Altre notizie riguardanti il percorso storico che ebbero a Isola le attività collegate con la pesca praticamente non esistono per quasi tutto il periodo in cui la città fu dedita alla Serenissima. Che si trattasse comunque di un’attività di secondaria importanza rispetto all’agricoltura lo sta a dimostrare la diversa attenzione che a questa seconda venne dedicata durante le delibere del Consiglio Maggiore della cittadina e presenti, quindi, nello statuto municipale. Alla pesca, o più concretamente, al pescato venivano dedicati complessivamente quattro articoli del terzo libro degli “Statuti del Comun de Isola” del 1360. Statuto che nella versione originale latina è stato pubblicato da Luigi Morteani nel lontano 1888, e che nella versione volgare, risalente crediamo agli ultimi decenni del ‘400, è stato trascritto da Franco Degrassi.
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Anche nel caso degli Statuti, però, più che regolamentare l’attività della pesca, non facevano altro che definire compiti e doveri del pescatore in materia di imposte e di dazi dovuti al Comune e al Podestà. Il pesce, infatti, era sottoposto ad un’imposta, sottoforma di decima dovuta al podestà, dal momento stesso in cui veniva pescato. Se poi era sottoposto alla salatura per una maggiore conservazione e per il trasporto a Venezia, i dazi si moltiplicavano, comprendendo anche quello per il sale che doveva essere di produzione locale e già per conto suo sottoposto ad altri dazi. In pratica una specie di Imposta sul valore aggiunto dell’epoca. Con queste cinque norme, in pratica il Comune di Isola regolamentò per quasi cinquecento anni la pesca e la vendita del pesce. Soltanto più tardi, come si diceva, con l’arrivo di Napoleone, ma soprattutto con l’arrivo della burocrazia austroungarica, anche questo settore venne regolato più dettagliatamente.
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Anche se il sistema della saccaleva, come testimonia proprio lo scritto di Luigi Mortenai, era presente a Isola già alla fine del XIX secolo, è tra le due guerre che prese definitivamente cittadinanza lungo le nostre coste per merito dei Troian. Albino Troian, autore – con l’aiuto del prof. Giuliano Orel - del libro “Il mio mare” racconta: “La saccaleva ad anelli ha origini dalmate. La sua invenzione nella forma attuale , sempre secondo il Troian, avviene nel 1926 e si deve al rovignese Ribarich, nocchiero di pesca, che aveva trascorso un lungo periodo di vita militare in Dalmazia. L’idea comunque, convince i pescatori Giacomo e Angelo Troian di Isola d’Istria. Insieme la costruiscono, avvalendosi dell’aiuto economico del Ministero della Marina, ottenuto grazie ai buoni auspici del comandante Manicor, della Capitaneria di porto di Trieste.L’introduzione della saccaleva ad anelli suscitò non poche reazioni da parte degli altri pescatori, sino allora dediti a una pesca limitata, condotta con reti ad imbrocco (utilizzate durante il plenilunio) oppure con menaide. La saccaleva consentiva maggiori catture, da qui la falsa credenza che questo tipo di pesca, oltre che determinare un sensibile calo del prezzo del pesce per aumento dell’offerta, avrebbe indotto la distruzione dello stock, con evidente definitivo danno per tutti i pescatori. Si trattò di un’au-
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tentica sollevazione: i pescatori si rivolsero anche alle autorità civili e amministrative, senza tuttavia nulla ottenere. Ci si appoggiò dunque alle confraternite religiose, le quali acconsentirono di estromettere i fratelli Troian dalla processione con barche, che accompagnavano la statua della Madonna di Isola al Santuario di Strugnano e tutto questo per il danno arrecato alla pesca e alle marinerie. Non bastò questa estromissione, vi furono insulti e minacce.” Troian, nel suo volume, parla anche delle reti a strascico e dove e cosa si pescava: “Le reti da strascico, venivano usate a Isola fina dall’Ottocento, sotto Ronco e a San Simone per la pesca di Boghe, Spigole, Cefali, Seppie, Aguglie, Mormori, Occhiate, More, Saraghi maggiori, Orate, Calamari, Polpi comuni, durante l’estate e in autunno. Nella baia di Strugnano, invece, per la pesca delle acciughe in tutte le stagioni.”
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Un documento sullo stato della pesca nell’Alto Adriatico commissionato nel 1903 dal Circondario marittimo di Trieste constatava “ …che i pescatori di mare professionisti ascendevano allora nel circondario al numero complessivo di 1595, di cui 350 a Grado, 100 a Pirano, 600 a Isola, 180 a Capodistria, 16 a Muggia, 4 in Valle San Bartolomeo, 15 a Zaule, 16 a Servola, 30 a Barcola, 42 a Contovello, 56 a S. Croce, 3 a Grignano, 21 a Duino e 162 a Monfalcone. Per quanto riguardava Isola, il documento stabiliva ancora che la città era congiunta colla città di Pirano mediante una strada distrettuale, la quale traversando la città, proseguiva poi alla volta di Capodistria. Con Trieste e Piran, inoltre, stava in comunicazione mediante piroscafi, i quali approdavano giornalmente in quello scalo marittimo. Col principio del corrente anno una Società isolana aveva attivato una regolare comunicazione giornaliera fra Isola e Trieste senza toccate di altri scali intermedi.” La relazione, è stata pubblicata integralmente nel volume “L’Isola dei Pescatori” di Ferruccio Delise.
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“A Isola - raccontava il documento - “sono in uso per la pesca i bragozzi , i battelli, denominati anche toppi e le battelline. I bragozzi sono alquanto più grandi a quelli che usano i pescatori gradesi e piranesi, in quanto che così stazzano da 12 a 14 tonnellate di registro; sono provveduti di due alberi fissi, equipaggiati da 5 a 6 persone ed il valore di ciascuno in istato nuovo si fa ascendere a 3500 corone. I battelli, conosciuti anche con il nome di toppi, sono consimili alle battelle, vulgo battane, dei pescatori piranesi e non già ai toppi dei pescatori gradesi, i quali ultimi sono più grandi e conseguentemente anche più costosi. Questi battelli hanno una media portata di 3 tonellate di registro; sono provveduti dell’albero di maistra ed eventualmente di trinchetto, che viene adoperato assai di rado; hanno un’equipaggio che varia da 3 a 6 persone, avvertendo che il maggior numero viene impiegato per la pesca delle sardelle, e costano in istato nuovo da 600 a 700 corone ognuno. Le battelline sono identiche nella forma a quelle usate a Pirano; solamente sono un po’ più grandi stazzando 1 ½ tonellate; non tengono un albero fisso e regolarmente vengono condotte a remi da un solo pescatore.”
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“Nel 1903, Isola presentava il suo materiale d’esercizio, come segue: Sardellere pezzi 5560 del valore di corone 278.000 Manaidi “ 250 “ “ “ 50.000 Sardoneri “ 1.970 “ “ “ 157.000 Squaeneri “ 1.785 “ “ “ 17.850 Gombine “ 500 “ “ “ 4.000 Cerberai “ 280 “ “ “ 4.560 Passelere “ 4.485 “ “ “ 35.880 Saltarelli “ 4 “ “ “ 800 Tratte “ 2 “ “ “ 2.000 Tartane “ 24 “ “ “ 7.200 Grippi “ 22 “ “ “ 1.760 Mussoleri “ 46 “ “ “ 2.300 Voleghe “ 220 “ “ “ 220 e quindi assieme 15.148 pezzi di reti di un totale valore di corone 562.170. La città di ISOLA era provveduta di un materiale come segue: Parangali pezzi 370 del valore di corone 2.960 Lenze “ 1.000 “ “ “ “ 1.000 Pannole “ 160 “ “ “ “ 320 Puschie “ 210 “ “ “ “ 210 e quindi un complesso di 1.740 pezzi del complessivo valore di 4.490 corone. “Ad Isola, le sardelle venivano consegnate alle fabbriche ed una limitata quantità a negozianti locali, i quali si occupavano della salagione del pesce fresco. Tutto l’altro pesce veniva venduto dai pescatori ai trafficanti di pesce, i quali lo vendevano al minuto nel mercato locale, oppure lo inoltravano per la vendita al mercato di Trieste. Ad Isola vi erano 14 trafficanti di pesce, una parte dei quali era occupata giornalmente alla vendita del pesce nel mercato di Trieste, vendita questa che veniva fatta al minuto e non all’ingrosso. Oltre a ciò vi erano ad Isola quattro commercianti, i quali acquistavano sardelle e sardoni
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a scopo di salagione, e quando il pesce era confezionato lo vendevano poi tanto all’ingrosso quanto a dettaglio. Le barche da pesca ad Isola avevano diretta comunicazione con quel mercato, e rispettivamente colle fabbriche di sardine, mentre i trafficanti di pesce si servivano esclusivamente della via del mare per introdurre il pesce fresco sul mercato di Trieste.”
“Ad Isola nel 1903 esistevano quattro fabbriche di conserve di pesce, che confezionavano sardelle e sardine all’olio uso di Nantes, sardelle salate all’olio, tonno e scombri all’olio, filetti di sardelle all’olio ed anguille ammarinate. Le suindicate quattro fabbriche appartenevano alla “Societé generale francaise de conserves alimentaires”, alla Carlo Warhanek di Vienna, e a Giovanni Degrassi da Isola dimorante però a Vienna, ed a Noerdlinger e fratello di Trieste. Il prezzo unitario variava a seconda della qualità e del peso di ogni singola scatola confezionata di sardine; così ad esempio scatole del peso di 1/9 costavano 42 centesimi; di 1/8 centesimi 48; di 1/5 centesimi 58; di 1/4 centesimi 76; di 1/2 corone 1,60 e di 4/4 corone 2,80.”
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“Le sardelle salate venivano confezionate in vasi di latta del peso da 1 fino a 10 chilogrammi al prezzo di corone 1,50 fino a corone 15 per chilogrammo. Il pesce tonno e gli scombri venivano confezionati ad un prezzo maggiore del 30 %, rispetto a quello delle sardine, ed i filetti di sardelle salate al prezzo maggiore del 20 %. Le anguille ammarinate venivano confezionate in vasi di latta del peso da 1 fino a 10 chilogrammi al prezzo di corone 2,50 per chilogrammo, come pure in barili del peso da 10 fino a 50 chilogrammi al prezzo di 20 corone per chilogrammo. Fuori delle fabbriche venivano salati sardoni e sardelle per uso del commercio da quattro negozianti locali, ed il pesce così preparato veniva venduto tanto a dettaglio quanto all’ingrosso sia nell’interno che all’estero al medio prezzo di 1 corona per chilogramma. Per uso di casa venivano confezionati pure sardoni e sardelle, però in piccolissima qualità [quantità?], non superando negli ultimi dieci anni la quantità di 2.600 barili. Per il commercio furono confezionati negli ultimi 10 anni 26.000 barili di sardelle e sardoni salati”.
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“Il documento del 1903, testimonia ancora, che ad Isola le contravvenzioni di pesca avvenivano esclusivamente per pesca abusiva dei pescatori locali nelle acque pertinenti ad altri Comuni, e ciò entro il primo miglio marittimo dalla costa. Il numero delle contravvenzioni nel corso di dieci anni ammontarano a 950 [un record rispetto agli altri sottocircondari marittimi di Trieste, il che rappresenta un importo superiore alla somma di tutte le altre contravvenzioni. N.d.r.], anche se negli ultimi due anni queste contravvenzioni andarono diminuendo sensibilmente.â€?
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Il mondo della pesca rappresentava fonte di curiositĂ soprattutto per coloro che venivano a trascorrere qualche giorno di vacanza a Isola. In particolare i bambini.
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Lo Scoglio d’Isola rappresentò per varie estati la realizzazione dei nostri sogni di ragazzi, quando dall’obbligo e dalla fatica della scuola la nostra immaginazione correva alla libertà delle vacanze. Così inizia uno dei Racconti istriani che Giani Stuparich, scrittore triestino (1891-1961), dedica ai suoi ricordi legati alla nostra cittadina. Il padre originario di Lussimpiccolo portava spesso la famiglia a trascorrere le vacanze estive in amene località istriane. Nei primissimi anni del secolo, il piccolo Giani trascorse qualche estate anche ad Isola, certamente non annoiandosi, come lo dice egli stesso. Isola era un vero nido di pescatori. A Isola come in nessun altro posto dell’Istria, a noi ragazzi s’apriva il mondo della pesca.... La maggior parte di quella pesca andava alla fabbrica, che elevava il suo fumaiolo proprio sullo Scoglio, non lontano dai nostri bagni. Tutto intorno odorava di pesce salato e lustrava di teste di sardelle. Bariletti di teste si portavano via i pescatori e si servivano di esse per il “pascolo”: per la “bruma”: Qua a Isola, duto el fondo del mar xe coverto de teste de sardele, un vero pascolo che ciama i altri pesi!
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Giani Stuparich racconta le pescate che faceva con il padre e con un Isolano, “Marco il pescatore”: Il fatto straordinario della straordinaria avventura era la veleggiata in piena notte, saremmo infatti partiti poco prima della mezzanotte, per giungere sul posto alcune ore dopo a seconda del vento, e attendervi l’alba. Come spiega lo stesso Stuparich, si trattava di andare a pesca di sgombri: .. con lenze tutte ben ordinate: ce ne saranno state una ventina e in confronto con quelle che adoperavamo noi, ci sembravano gigantesche, avvolte attorno a larghi sugheri, coi piombi pesanti, il filo di Spagna grosso, ricche di ami. Non eravamo mai andati alla pesca degli sgombri. - Perché tante? - chiedemmo a Marco e Marco ci spiegò che all’occorrenza papà e lui avrebbero pescato con quattro. - Con quattro? - Si, due su le recie e due in man. In due ore d’affannoso e gioioso lavoro pescammo, quella indimenticabile mattina, intorno ai trenta chili di sgombri. Il posto lo si ritrovava per riferimenti. Quando il camino della fabbrica di sardelle si allineava perfettamente con il campanile del Duomo e la casetta rosa sullo scoglio copriva un’altra casetta bianca più in alto, eravamo sul posto.
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Tra i “Racconti istriani” di Giani Stuparich ambientati a Isola, sempre carichi di una umanità e di una capacità di fotografare luoghi e situazioni rare, bisogna ricordare anche “L’aquilone”, dove l’autore triestino descrive i giochi assieme ai coetanei e al padre durante una delle estati che fu, come dice egli stesso, particolarmente splendida. Descrive alcuni giocattoli e giochi tipici dell’epoca che sembra divertivano molto i bambini dell’epoca, cioè dei primi anni del secolo scorso: un giorno papà veniva a casa con un mazzo di canne palustri e da queste, con arte, egli ricavava per noi fischietti, piccoli zufoli e schizzetti: per una settimana, con disperazione della mamma, noi assordavamo l’aria di fischi e nessun passaggio all’aperto era più al sicuro dai nostri spruzzi. Un altro giorno vedevamo papà manipolare misteriosamente ogni sorta di stracci... ne venne fuori, con nostra gioia e sorpresa, una bella palla vibrata, cucita solidamente, con un forte manico di stoffa. Non appena il sole declinava un poco, eravamo sul prato, divisi in due squadre opposte, a lanciarci la palla e a farci sotto per afferrarla al volo.
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Qualche notizia su Isola si riscontra in quasi tutti i testi scritti da studiosi di storia istriana. Giuseppe Caprin, nelle sue “Marine istriane” illustra non soltanto la cittadina, ma anche la sua gente con molta simpatia. La popolazione d’Isola - scrive il Caprin - è tutta sulle viuzze: le mamme pettinano i bimbi, rammendano le vesti; si chiacchiera ad alta voce; cade una parola da una finestra e vien raccolta, e il vicinato fila il discorso, continua il racconto, e rompe in una chiassata, senza che gli occhi si levino dal lavoro. Sotto la nicchia di una scala si prepara con un po’ di pepe e di erbe il brodetto, una famiglia pranza all’aperto; scappa da un cortile una canzone e la segue l’accompagnamento di un coro... Sembrano immagini prese da un romanzo rosa, o comunque ritratte in un giorno di festa in primavera. Da quando il Caprin scrisse queste righe, tuttavia, è trascorso ormai un secolo e molte cose sono cambiate. Qualcuna in meglio, ma tante anche in peggio.
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LE FABBRICHE
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La prima fabbrica per la conservazione del pesce sorse a Isola nel 1881 (20 gennaio 1881) nell’area dove prima esisteva uno stabilimento di bagni termali. La zona ancora oggi viene ricordata per le sue sorgenti di acque sulfuree, che gli Isolani per l’odore che emanavano chiamavano aqua de ovi, e che venivano sfruttate, per la verità senza troppo successo, a scopo terapeutico. Il conservificio venne costruito su iniziativa della neocostituita “Societe Generale francaise des conserves alimentaires”, che aveva sede a Parigi e una sua rappresentanza a Trieste. Proprio per questo, la fabbrica veniva definita dagli Isolani “dei francesi”, oppure, per il luogo dove era stata aperta, “ai bagni”. Dopo la prima Guerra Mondiale cambiò proprietari e denominazioni. Ancora oggi è conosciuta soprattutto come “Ampelea”. Per un periodo, oltre alla lavorazione del pesce, produsse anche carne in scatola (soprattutto durante la seconda Guerra Mondiale per le necessità dell’esercito) e qualcuno degli Isolani più anziano ricorda ancora el vecio maselo, situato a San Piero, nelle sue vicinanze.
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L’altra fabbrica per la conservazione del pesce che sorse poco tempo dopo a Isola fu per opera degli austriaci Warchanek, che costruirono il proprio stabilimento subito dopo la chiesetta di San Rocco, sulla strada che da Fontana Fora porta a San Simon. Anche in questo caso la sua collocazione territoriale contribuì’ a farla ricordare dagli Isolani come la fabrica de San Rocco, prima di attecchire definitivamente con il nome di “Arrigoni”. Alla fine della Grande Guerra la Warchanek cedette la fabbrica al triestino Giorgio Sanguinetti, che usò la ragione sociale di un’azienda acquistata in Liguria da un piccolo industriale: Gaspare Arrigoni.
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È naturale che il rapido successo registrato dai conservifici invogliasse anche altri a intraprendere la strada dell’imprenditoria. Così verso la fine del 1800 nacque un’altra fabbrica di pesce conservato per opera dell’Isolano Degrassi. Situata anche questa tra Fontana Fora e il mare nell’area che prima era occupata dalle saline. La vicinanza del mare, ovviamente, era necessaria per facilitare il rifornimento di materia prima: il pesce. Anche questa fabbrica resistette fino allo scoppio della Grande Guerra, poi, nel 1919 venne rilevata dal marchese romano Luigi Torregiani. Infine venne incorporata dalla sempre più grande e potente Ampelea.
Pure un altro Isolano tentò la grande avventura della conservazione del pesce. Nel 1924 Nicolò Delise inaugurò la sua più modesta fabbrica in via A. Volta. Lo stabilimento a conduzione familiare si distinse subito per la qualità delle sardine sott’olio e per i filetti di pesce salato. Tuttavia, dopo la morte del fondatore gli eredi non riuscirono a far fronte ai giganti del settore e la fabbrica finì per essere assorbita dall’Ampelea che per un certo periodo mantenne ancora in vita il marchio “N.Delise & Figli” per accontentare i numerosi clienti.
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I conservifici si assicuravano il rifornimento della materia prima per la loro attività stipulando contratti annuali con i pescatori privati che avevano l’obbligo di cedere tutto il pescato. Il sistema, però, si dimostrò inefficace soprattutto con il continuo aumento delle necessità, in quanto era praticamente impossibile evitare che una parte consistente del pescato dirottasse sul mercato libero, in particolare a Trieste e a Capodistria. Di conseguenza, l’Arrigoni e l’Ampelea decisero di costruire e gestire in proprio delle flotte pescherecce che avrebbero assicurato stabilità nei prezzi e nell’approvvigionamento. Armarono una trentina di moderni barche attrezzate per la cattura del pesce azzurro, ciascuna con un equipaggio di 8-10 persone guidate da un “capobarca”. Nel 1938 l’Arrigoni rilevò addirittura un’intera flottiglia per la pesca del tonnetto, composta da una decina di pescherecci a vapore di 400 t. di stazza, che rimasero per anni a Isola con i loro caratteristici nomi di “Grongo”, “Cernia”, “Dentice”, ecc.
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Secondo lo storico Luigi Morteani, nel 1887, cioè quando stava preparando il suo volume sulla storia di isola, la popolazione isolana ammontava a non piÚ di 5.100 abitanti che si dividevano in 580 famiglie di agricoltori, 214 di pescatori, 26 di marittimi, 61 di artieri (artigiani), 47 industrianti e commercianti e 30 civili.
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Fra gli industriali il Morteani inserisce le quattro fabbriche di conserve alimentari allora esistenti a Isola: La “Società generale francese Roullet et Comp.”, aperta nel 1881 ed ingrandita successivamente colla costruzione di nuovi fabbricati. Si occupa della confezione di sardine, anguille, pesce salato, aceto, carne bovina, piselli. ecc… La Ditta C. Warhaneck, ch’ebbe principio pure nel 1881, e si occupa soltanto di sardine. Giovanni Degrassi, aperta nel 1882: lavora in sardine, pesce salato e piselli. “Nordlinger & fratello”, aperta nel 1884, e si occupa della preparazione delle prugne. Nel 1887 la Ditta Warhanek confezionò 435.600 scatole, la Società francese Roullet & Comp. ne confezionò 470.936, mentre la Fabbrica Degrassi ne mandò sul mercato 180.000. La Roullet, inoltre, costruì un luogo per la preparazione del guano colle teste delle sardelle, il cui interno era ripartito in fosse cementate del tutto staccate dall’edificio della fabbrica. Le teste si stratificavano con calce viva e, dopo due mesi, con segatura di legno e con acido solforico. Il prodotto così ricavato veniva venduto ad un agricoltore viennese. Anche la fabbrica di C. Warhanek produceva concime dalle teste delle sardelle gettandole in una fossa e mescolandole con calce. La notizia era stata pubblicata il 16 ottobre 1887 sul giornale “La Provincia”, che veniva pubblicato a Capodistria.
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Lo sviluppo dell’industria conserviera alla fine del XIX secolo portò rapidamente alla nascita ed allo sviluppo di una consistente coscienza operaia e progressista che, già nei primi anni del XX secolo andò a integrarsi nei valori e nelle ideologie dei partiti, ancora giovani e combattivi, dell’internazionalismo socialista austroungarico. Tra le forme più importanti dell’associazionismo moderno vanno certamente annoverate le Società di Mutuo Soccorso che nacquero per far fronte ai bisogni di assistenza e previdenza manifestatisi nel nuovo contesto sociale che si andava affermando in quegli anni. Con il Pagamento di una modica quota mensile, queste garantivano sussidi in caso di malattia, d’invalidità o di morte a chi si trovava in una situazione di bisogno. Occorre tener presente che all’epoca non esisteva alcuna forma di servizio sanitario, come non esisteva la pensione: quindi non vi era né previdenza né assistenza ed i salari operai erano fermi al puro sostentamento. In caso di malattia del capo famiglia, moglie e figli erano ridotti alla fame, o nella migliore
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delle ipotesi erano costretti a chiedere aiuto a parenti e amici. Se nelle campagne le vecchie famiglie patriarcali allargate consentivano di trovare l’aiuto necessario all’interno della famiglia stessa, nei centri urbani dove i nuclei familiari erano piÚ ristretti, questo aiuto spesso non era disponibile e pertanto il mutuo soccorso divenne una necessità molto sentita.
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Fin dall’inizio le società di mutuo soccorso ebbero il compito di aiutare i propri iscritti con provvedimenti di carattere economico e sociale, come i sussidi di infortunio, di malattia o di morte, le scuole serali e le cooperative di consumo; inoltre venne talvolta garantito il medico gratuito ai soci ed ai familiari. Tutto questo in cambio del pagamento ogni sabato di una quota associativa, in coincidenza con la riscossione della paga che era appunto settimanale. Si trattava – come si diceva all’epoca “di una forma di associazione volta al bene”, nella quale i lavoratori si univano, e proprio grazie all’unione raccoglievano i fondi sufficienti per soccorrere i soci che ne avevano necessità e le loro famiglie. Seguendo queste finalità, nei primi anni del 1900 il movimento associativo si sviluppa e si diversifica con la costituzione di circoli ricreativi, culturali e sportivi. Proprio in questo periodo c’è un grande fermento anche a Isola, risultato soprattutto del grande sviluppo registrato dalle industrie conserviere che diedero vita ad una forte movimento operaio. A Isola, per quanto ne siamo a conoscenza, la prima associazione sorta nell’ambito del movimento operaio risale addirittura all’ultimo decennio del XVIII secolo ed a pochi anni dalla nascita delle prime industrie conserviere.
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Come testimonia il prezioso libricino pubblicato nel 1914 in occasione dell’inaugurazione della seconda casa del Popolo isolana “fu a di 12 aprile del 1895, epoca memoranda da vero, che in Isola si istituì per la prima volta un Gabinetto operaio di lettura. Nobile ne era lo scopo: riunire in un fascio operai e agricoltori e, attenuando ogni stridore di tinte politiche, fondendole anzi tutte in quella spiccante della religione, promuoverne l’elevamento intellettuale e morale. Vi s’inscrissero allora settanta soci. Pure era fissato dai destini che su questo umile e informe altare, attizza e attizza, si sarebbe suscitata alta e vivida la nostra rossa fiamma. Raccolti entro le tranquille pareti del loro Gabinetto, leggendo questo e quel giornale, questa e quella rivista, i lavoratori andavano acquistando sempre maggiore interesse alla lettura e, fra sé meditando e fra loro intrattenendosi su quanto avevano letto, allargavano man mano la cerchia delle loro cognizioni e snebbiavano la mente da molti e inveterati pregiudizi.” E’ sempre il volumetto a spiegare che “per iniziativa del Gabinetto operaio di lettura, un comitato promotore di quindici membri lancia in data 4 febbraio 1902 un caldo appello fra le persone e gli enti tutti, a cui dovrebbe stare a cuore la coltura del popolo, e ne chiede l’ausilio: vogliano concorrere con oblazioni sia di denaro sia di libri all’opera eminentemente civile e morale dell’istituzione di una Biblioteca popolare circolante in Isola.” Da questo primo nucleo prendono il via anche tutta una serie di altre importanti iniziative: il 6 maggio 1906, come ribadisce l’autore del libretto, “erano già percorse intese e trattative per la formazione in Isola d’un Gruppo locale della federazione dei lavoratori della carta, delle industrie chimiche e della gomma in Austria.” Il 13 luglio dello stesso anno, promotore Arsenio Vascotto, si fonda la Federazione dei giovani socialisti, con una quarantina di soci. Poi, nominato un “comitato di compagni, presieduto da Giovanni Deluca, allora presidente del Gabinetto operaio di lettura, si decide di erigere una Casa del Popolo. E, sacrificio non tenue a borse magre, ben centoventisette quote di sessanta corone cadauna vengono sottoscritte all’uopo da cento compagni, da restituirsi senza interessi dieci all’anno, in dieci anni circa, mediante sorteggio annuale. Inoltre il falegname, il fabbro, il pittore, lo stagnaio si offrono a eseguire gratuitamente la parte del lavoro relativa alla professione
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di ciascuno. Alcuni compagni agricoltori cavano, senza compenso pur essi, il fondamento. E ben meriterebbe che i nomi di questi nobili apostoli del nuovo verbo, a eterna memoria, figurassero scolpiti si di una lapide murata nell’atrio della casa.”
La testimonianza racconta ancora che “nella nuova dimore trasferirono le loro tende il benemerito Gabinetto popolare di lettura con la Biblioteca popolare circolante e la Cassa distrettuale per sussidi agli operai malati che era diretta e amministrata dagli operai fin dal 1 luglio 1888, quando era stata istituita insieme con le consorelle delle altre città contava già cinquecento affiliati, mentre oggi ne conta il doppio.”
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“Il 24 aprile del 1907 viene creato il Banco agricolo marittimo operaio, un’opera con la quale il partito socialista isolano, oltre al proprio di classe, veniva a fare anche l’interesse de’ suoi avversari, fossero liberali o clericali, e dava agli uni e agli altri nobilissimo esempio di tolleranza politica e religiosa. (…) Inoltre: il 1 maggio 1908 vede rigermogliare l’Organizzazione dei prodotti chimici, ch’è un fatto compiuto a mezzo il novembre successivo. Essa si trasforma nella Federazione fra lavoratori e lavoratrici.” “Ed ancora, per iniziativa del Banco, ai 21 settembre del 1909 si costituisce, formato dalla sua direzione, dalla commissione del sindacato e da alcuni soci, presidente Giovanni Deluca, un comitato, che debba studiare un piano per la costruzione di un complesso di case allo scopo di offrire alla classe operaia d’Isola in generale, senza distinzione di parte, delle abitazioni decorose ed economiche e insieme comode e corrispondenti alle moderne esigenze dell’igiene.” “E pure nel 1909, ai 13 dicembre, si pianta a Isola con centocinquanta soci un Magazzino – il XI – delle cooperative operaie di Trieste, Istria e Friuli.”
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Lo sviluppo dell’industria conserviera a Isola, sembrava continuare nella crescita senza interruzioni con la popolazione convinta che la crescita del benessere non avrebbe potuto essere ostacolata. Tanto, che già nel 1914, constata la necessità di far fronte a nuove esigenze sociali e culturali della popolazione, venne costruita una seconda Casa del Popolo proprio al centro della città , alle Porte.
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Esiste una testimonianza, scritta di un certo Ottone Lantieri risalente al 1971, nella quale racconta quanto accaduto a Isola il 30 agosto 1914, durante l’inaugurazione solenne della nuova Casa del Popolo. Scrive in una lettera inviata al senatore Paolo Sema: “In occasione di quell’inaugurazione, noi del Circolo Giovanile Socialista avevamo organizzato una gita sociale in vaporetto e partecipato in letizia, con la nostra banda, alla festa di Isola. Alla sera si riparte nell’accostarsi al mare e la nostra banda, come d’uso, intonò a tutta forza l’Internazionale, quando vedemmo sulla riva una grande agitazione e un nuvolo di guardie si sbracciavano e gridavano comandi che noi non capivamo. Accostati che fummo le guardie tutte infuriate ordinarono il silenzio: era avvenuta la tragedia di Sarajevo”.
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Per lo sviluppo di Isola merita ricordare, se non altro a livello di curiosità, che il primo Ufficio Postale venne inaugurato addirittura nel 1860, mentre risale al 1881 l’apertura dell’Ufficio Telegrafico. Infine, il 15 maggio del 1888 venne formalizzata l’unificazione dei due uffici che stavano acquisendo sempre maggiore importanza grazie alla costante e rapida crescita delle locali industrie del pesce. A dare un notevole impulso allo sviluppo sociale, culturale ed economico di Isola fu anche l’inaugurazione della linea ferroviaria che collegava Trieste a Parenzo. Come ricorda Antonio Vascotto nel suo libro di testimonianze su Isola, il fatto che la “Parenzana” venisse inaugurata proprio il 1. aprile 1902 convinse qualcuno che si trattasse di un “pesce d’aprile”, per cui si guardò bene dall’intervenire alla cerimonia. Ciononostante, l’avvenimento venne accolto con entusiasmo da tutta la popolazione, tanto che rapidamente sul conto della nuova stazione ferroviaria nacquero presto anche iniziative economiche. È rimasta fino ai giorni nostri anche la canzone: Adeso che gavemo la strada ferata, in mesa sornada se vien e se va. Naturalmente la mezza giornata necessaria si riferiva al viaggio fino a Trieste e ritorno.
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Il tratto da Trieste a Buie era lungo 58.8 chilometri, e come in tutti i settori amministrativi, cosÏ anche in quello ferroviario la burocrazia austriaca era insuperabile. Infatti ancora oggi lungo il tragitto della Parenzana si possono trovare i cippi che segnavano la distanza da Trieste. Come è noto la famosa strada ferrata era a scartamento ridotto (76 cm) e rimase in funzione per trentatrÊ anni, e fece il suo ultimo viaggio il 31 agosto del 1935.
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Ben presto, lo spazio situato allora in aperta campagna, dove venne costruita la stazione, prese appunto il nome Ala stasion, e anche il ristorante vicino non poteva che chiamarsi Ristorante alla stazione. Gli Isolani trovarono subito un soprannome anche per il treno, che fu piÚ conosciuto come El brustolin. I binari, che da Semedella a Isola costeggiavano il mare, dalla stazione si addentravano nella campagna e, in larghi tornanti da Canola il treno sbuffava fino a Saleto, dove entrava nella galleria e ne usciva sotto Capitel, dove si apriva il lieve pendio di Lavorè per proseguire la sua strada verso Strugnano. Si racconta che sull’erta di Saleto i passeggeri potevano tranquillamente scendere dalle vetture, cogliere della frutta che si trovava nei campi e poi risalire sul treno che arrancava sbuffando. Secondo alcuni racconti, bastava qualche chilogrammo di fichi secchi gettati sulle rotaie per bloccare la locomotiva che prendeva a slittare. Allora il macchinista doveva scendere, pulire i binari e far ripartire il treno. Particolarmente pericolosi erano i refoli di bora, che riuscirono addirittura a far deragliare il treno. Il 31 marzo 1910, il convoglio venne rovesciato nella valle di Zaule provocando addirittura tre morti.
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PORTO APOLLO
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Isola, oggi, è un importante centro turistico. Gli alberghi di San Simone e di Belvedere, le migliaia di camere private messe a disposizione dei turisti durante la stagione estiva, il Marina con centinaia di barche, motoscafi e panfili attraccati durante tutto l’anno. Ma se è vero che soprattutto negli ultimi anni lo sviluppo è andato in crescendo con grande rapidità, è anche vero che le prime origini vanno indietro nel tempo fino ai primi decenni del XIX secolo. Non avevano ancora il carattere odierno di un turismo di massa, quanto piuttosto un tentativo ancora modesto, ma innovativo, di sfruttare le risorse naturali della cittadina. Risale, infatti al lontano 1824 l’inaugurazione dei primi bagni termali di Isola, bagni che usavano le sorgenti di acque sulfuree che sgorgavano nel mare, a poca distanza dagli scogli di San Piero, e che proprio per il loro caratteristico odore venivano chiamate dagli Isolani acqua de ovi. Con una solenne cerimonia, voluta dal parroco Vascotto, con un discorso di un incaricato di Trieste e con la solenne esposizione dell’Augusta Immagine di Sua I. R. Maestà Francesco I, vennero inaugurate al pubblico una decina di baracche di legno, dove era possibile, dietro pagamento, fare dei bagni che, si diceva, aiutavano la guarigione di varie malattie. Purtroppo l’iniziativa non ebbe molto successo. Già nel 1888 Luigi Morteani constatava che delle terme non esisteva più niente. E nell’albergo che era stato costruito nelle vicinanze si era già installata la fabbrica francese per la conservazione del pesce, più conosciuta più tardi come Ampelea.
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Ma se lo sfruttamento dell’aqua de ovi ha rappresentato soltanto un marginale episodio, perchè il turismo prende definitivamente piede con la nascita di Porto Apollo nella zona tra San Simone e Fontana Fora. Si tratta di una struttura balneare creata da imprenditori austriaci, che ai propri clienti, oltre ad un confortevole albergo di circa 70 posti letto, offriva anche una spiaggia con tutto il comfort necessario. Niente di strano, quindi, se buona parte delle cartoline illustrate del periodo tra la fine del secolo XIX ed i primi di quello scorso raffigurassero proprio Porto Apollo. Negli anni Venti, la fabbrica Arrigoni in continua espansione, acquistò lo stabilimento balneare e lo trasformò nel Dopolavoro aziendale con mensa, ritrovi, campi da gioco, rotonda per il ballo e, in tempo di guerra, anche stallaggio per i cavalli da tiro e perfino un allevamento di maiali.
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Tuttavia, se Porto Apollo ha rappresentato la struttura turistica più importante di Isola tra la fine dell’800 ed i primi decenni del secolo scorso, anche altre iniziative caratteristiche dell’industria dell’ospitalità trovarono spazio nella cittadina. Così, già nel 1920, in base ad un’analisi svolta dall’amministrazione municipale, si rileva che ad Isola sono in funzione numerosi, se visto con gli occhi odierni, alberghi.
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Nel volume “Ricordando Isola” di Antonio Vascotto (Cesena 1989) troviamo che nel corso della prima metà del secolo scorso, pur se non contemporaneamente e in periodi diversi, a Isola operarono i seguenti locali pubblici: Pensione “Riviera”; Albergo/bar/caffè di Luigi Menis; Albergo Ristorante “Bonavia” di Emerenziano Felluga; Albergo Ristorante “Alla Stazione” di Bortolo Vascotto; Pensione “Villa Progresso”; Albergo/Trattoria “Istria” di G. Dagostini; Albergo “Aquila d’Oro”; Osteria “All’approdo”; Osteria “Alla Marina”, Trattoria “Alla città di Trieste” di Vascotto; Trattoria “All’Oriente” di Degrassi; Caffè Centrale di Goina; Osteria “Miralonda”; Osteria “Al Vapore”; Osteria “Miramare”; Osteria “Alla Riva Nuova”; Osteria “Alla Pace”; Osteria “Al Lido”; Osteria “Al tramonto”, Osteria “Alla novità del giorno”; Consorzio Vinicolo Isolano, Osteria “All’antica candeletta”, Trattoria/Buffet Bressan, Trattoria “All’Industria”, Trattoria “Alle Porte” e la trattoria “Alla città di Vienna”.
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Tra le più conosciute indubbiamente la Beraria (birreria) e Ale Barache. Quest’ultima era situata dove più tardi venne costruito il Consorzio Agrario (a metà strada della Contrada del’Ospedal). Il ritrovo si distinse in particolare durante le feste cittadine, come quella del santo patrono S. Donà. La beraria, invece, era situata dirimpetto a Fontana Fora. All’antica candeleta era situata in Piazza Grande, a fianco del Municipio. Il nome, come racconta Salvatore Perentin nel suo “Isola vecchia e nuova”, aveva origine del fatto che in tempi più lontani fuori dalla porta, al posto di un lumino a olio o di una lampada a petrolio (e perché no a carburo?) c’era una candeletta di sego.
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Accanto ai ristoranti, alle trattorie e agli alberghi, naturalmente, esistevano a Isola anche dei luoghi di mescita e di vendita di vini locali, che erano delle osterie di carattere temporaneo. Un po’ sull’orma di quelle che sul Carso venivano chiamate osmizze e che invece a Isola erano denominate spaccio o ancora più propriamente ostaria particolar. Durava finché l’agricoltore che aveva pagato il dazio per una o più botti, facendo sigillare le altre, aveva smerciato al minuto il vino corrispondente. Egli noleggiava recipienti di misura e bicchieri, e mesceva ai clienti occasionali, che bevevano in piedi o seduti su panche o sedie. Quest’osteria veniva chiamata anche ostaria de frasco, perché era l’uso che davanti alla porta del venditore venisse appeso un mucchietto di rami d’ulivo, se il vino era bianco, e di rami di ginepro se era rosso (o nero, secondo la parlata isolana). Come testimonia Antonio Vascotto, ma anche tanti anziani Isolani che ricordano direttamente, l’iniziativa veniva presa dal campagnol o perché aveva bisogno di denaro e non aveva avuto l’occasione di vendere il vino all’ingrosso, o per realizzare un guadagno più consistente trovandosi in cantina qualche botte di vino particolarmente buono. Tra i documenti conservati presso l’Archivio Regionale di Capodistria anche un elenco del 1920, interessante soprattutto perché assieme alla lista delle aziende sono comprese anche le condizioni e le capacità ricettive degli alberghi. Albergo e Bagni “Porto Apollo”: 43 camere, 70 letti, preyyi da 7 a 22 Lire. Pensione 12 lire. Complesso provvisto di spiaggia, giardino, illuminazione e riscaldamento. Apetrto soltanto durante la stagione estiva. Albergo “All’Aquila d’Oro”: 12 letti, prezzi da 7 a ee lire. Provvisto di giardino, illuminazione e riscaldamento. Aperto tutto l’anno. Albergo “Alla Buona Via”: 2 stanze, 3 letti. Preyyo di una camera da 5 a 10 lire. Pensione 12 lire. Provvisto di giardino, illuminazione e riscaldamento. Aperto tutto l’anno. Albergo e Caffè “Alla Stazione”: 6 stanze, 9 letti. Costo delle camere da 6 a 12 lire. Pensione 12 lire. Provvisto di giardino, illuminazione e riscaldamento. Aperto tutto l’anno.
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Nel 1923, in una lettera inviata dal Municipio isolano alla “Società per il movimento dei forestieri” con sede a Trieste, venivano evidenziati alcuni ritocchi ai prezzi. Così si apprende che la spiaggia dell’albergo “Porto Apollo” disponeva pure di 35 cabine, che la colazione veniva offerta a 1,50 lire, che il pranzo, come pure la cena, venivano a costare 7 lire ciascuno. La pensione completa, invece, era di 20 lire al giorno.
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Chi non ricorda, da ragazzi, quando si andava a fare il bagno sulla spiaggia allora ancora selvaggia di San Simon, la raccolta di scagnei, i tasselli di mosaico che abbondavano tra la sabbia e la ghiaia? Erano i resti di un mosaico di una villa dell’epoca romana, venuta alla luce nelle immediate vicinanze della spiaggia, dove un tempo c’erano i campi di un certo Dudine. Il mare e le onde avevano provveduto con il tempo a sparpagliarle in lungo e in largo. I scagnei si potevano trovare ancora nei primi anni che succedettero alla seconda Guerra Mondiale, poi, con la trasformazione della zona in area turistica, sono scomparsi del tutto.
Attualmente, la zona dove si trovano i resti della villa romana è sotto tutela dell’Istituto per la salvaguardia dei beni monumentali. Del mosaico, oltre a qualche fotografia ripresa agli inizi del ‘900 e conservata in qualche volume di storia isolana, e a qualche chilogrammo di scagnei raccolti e conservati da qualche amante d’antichità, oggi non rimane più niente.
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A titolo di curiosità legate al turismo, nel febbraio 1926, il Consiglio Comunale di Isola approvò un decreto con il quale regolamentava il funzionamento dei bagni pubblici. Secondo il documento, le spiagge dovevano essere separate e divise in aree per soli uomini e per sole donne. Nelle zone provviste di cabine, l’accesso era consentito soltanto a coloro che erano realmente intenzionati a fare il bagno. Il regolamento, inoltre, vietava severamente costumi da bagno troppo succinti. E, infine, disponeva anche che in costume da bagno era vietato muoversi al di fuori della spiaggia. Visti i tempi che corrono, e certi spettacoli che si offrrono d’estate a Isola, forse anche oggi il Consiglio Comunale farebbe bene ad adottare una misura conforme a quella del lontano 1926.
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CULTO E CULTURA
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A Isola c’è sempre stata l’abitudine a definire le cose in maniera alquanto semplice e diretta, dando loro il significato in base all’importanza e alla grandezza. Così c’era una Cieşa Granda (Chiesa grande) e una Cieşa picia (Chiesa piccola), una Scola granda (Scuola grande) e una Scola picia o vecia (Scuola piccola o vecchia). Ma c’era anche una Piasa granda e una piasa picia o piasèta. Pure alcune feste venivano identificate con lo stesso sistema, per cui abbiamo la Madona granda (che si festeggia il 15 agosto al Santuario di Strugnano), e la Madona picia (che si festeggia l’8 settembre alla chiesetta di Loreto).
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Ancora durante la prima metà del secolo scorso le Chiese, oltre alla loro funzione puramente religiosa, svolgevano anche un ruolo di pubblica utilità. Le campane, per esempio, specie quelle della Ceşa Granda, del Domo, avevano il compito di chiamare a raccolta i fedeli, ma anche di scandire le diverse fasce orarie della giornata. Così, la prima suonata avveniva, come raccontano gli Isolani più longevi, già alle cinque del mattino per dare la sveglia ai campagnoi. D’estate si svegliavano anche prima, perché prima di recarsi nelle campagne, dovevano preparare il carro e el mus, che di solito venivano tenuti in qualche locale al pianterreno della casa in città. Alle otto, invece, c’era il richiamo per le operaie (le fabrichine) e gli operai delle fabbriche del pesce e per i ragazzi che per quell’ora dovevano trovarsi a scuola. Suonavano ancora a mezzogiorno per il pranzo. Poi alle quattordici, alle sedici per il Vespro, e alle diciotto o alle diciannove - a seconda della stagione - per segnalare la fine della giornata di lavoro e l’ora di andare alla meritata cena. Naturalmente, le campane segnavano anche altri importanti avvenimenti di cui si voleva metter a conoscenza tutta la cittadinanza. Così, i rintocchi per casi di lutto che, almeno a Isola, secondo alcune testimonianze, erano tre per la dipartita di un uomo e due per quella di una donna.
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Dal 1082, quando a Isola venne concesso il plebanato, anche se non ancora la fonte battesimale, la Chiesa dedicata al patrono San Mauro, venne sottoposta a tutta una serie di ampliamenti e ristrutturazioni. Secondo quanto scritto dallo storico Luigi Morteani, una seconda importante ristrutturazione venne eseguita nel 1867, su iniziativa del parroco Zamarin. Nell’occasione vennero esumati dall’interno della chiesa anche le tombe in cui negli ultimi secoli venivano tumulati i parroci, i canonici ed esponenti delle famiglie nobili isolane. Allora venne costruito anche il selciato con pietra di Grisignana e di Momiano. Furono aperti pure due archi ai lati dell’organo e sotto questo furono poste delle colonne. Fu ricostruita inoltre la scalinata che conduce al coro. L’ultima ristrutturazione del Duomo avvenne nel 1982, in occasione del 900.esimo anniversario della fondazione della Parrocchia isolana.
Oltre le chiese principali di S. Maria e di S. Mauro parecchie altre furono costruite e nel luogo e nel territorio: dal che si comprende che gli abitanti non risparmiarono nè fatica né spesa. E difatti eressero monasteri, romitaggi, confraternite e fondarono ancora un ospitale pel ricovero dei pellegrini e degli infermi. Ora diremo qualche cosa delle altre chiese e di tutte le istituzioni pie, rilevando particolarmente tutto ciò che serve a darci un’idea della cultura della popolazione.
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“Prima fra tutte è la collegiata di S. Mauro – come scrisse il Morteani - provvista d’un buonissimo organo, di molti ornamenti d’oro e d’argento e di altari adornati di belle pitture. Venne rifabbricata nel 1547, a spese del comune e delle scuole, e fu consacrata nel 1553. Per la rifabbricazione furono invitati il maestro Mazzafuoco di Venezia ed un certo maestro Francesco di Cologna abitante in Capodistria, i quali nel 14 dicembre del 1547 condussero a fine la loro opera, come si rende manifesto da una memoria scritta da Pietro Coppo, vice domino del Comune. Il vescovo Naldini nella sua Corografia riporta l’iscrizione posta al tempo della consacrazione e che dice: Thomas Stella Episcopus Iustinopolitanus Ecclesiam hanc In Honorem S. Mauri Mart. Die X. Augusti M.D.LIII. Cum solitis Indulgentijs Consecravit: “La Chiesa dividesi in tre navate: quella di mezzo, sostenuta da più archi sopra 14 colonne, termina colla cappella dell’altar maggiore, alla quale si accede per una scala rotonda, posta nel mezzo della nave fra due balaustri di pietra. Dietro l’altare è il coro costruito per cura di Tomaso Ettoreo, uno de’ più illustri cittadini. Sopra il coro c’è la palla di S. Mauro che ricorda la vittoria degli Isolani.
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Nel 1576 fu costruito l’organo col denaro della cameraria, delle scuole e del comune colla spesa di 3000 lire; e nel 1585 la cameraria spese del suo per l’erezione della cima del campanile, rifabbricato nel 1655 e restaurato nel 1705 sotto la direzione del maestro Marchetti, il quale lo riparò dai danni cagionati dal fulmine. Lo stesso maestro vi pose nel 1722 la croce. Nel 1647 un giovane tedesco aggiustò l’organo; ed in questa occasione rileviamo che l’organista percepiva 212 lire di salario; 84 dal comune, 36 dalla cameraria e 92 da sei confraterne.
Per la fede de’ cittadini e pel denaro della chiesa, questa si arricchì di molti ornamenti, fra cui nomineremo il Tabernacolo, donato nel 1641 dal cancelliere del podestà di Verona, Cristoforo Ettoreo d’Isola; il Cesandelo del valore di lire 691 e soldi 2, regalato da G. Battista Marini all’altare di S. Mauro; la Palla della B.V. della Cintura, dipinta dal pittore Francesco Minotto (1670); due palle, l’una del Redentore e l’altra della B.V. de’ Battuti, dipinte da Palma il Vecchio per la somma di 1860 (1582); la nuova Palla di San Mauro del Seccante da Udine, dipinta per lire 1240 (1580); la palla di S. Mauro dipinta da un celebre pittore di Capodistria per lire 170 (1761); la Palla di S . Giuseppe, dipinta da Girolamo di Santa Croce (1537); quella di San Donato, dipinta da romano Carlo Paparocci (1678); la pittura di S. Rocco, dipinta da Giorgio Venturini da Zara; la Palla di S. Giuseppe, dipinta da Giorgio Ventura da Capodistria. Sopra tutti questi dipinti merita speciale menzione la Palla di San
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Sebastiano, un capolavoro d’Irene da Spilimbergo, allieva del Tiziano. Aggiungendo ancora la Palla di S. Donato fuori delle mura, lavoro di un certo pittore Carlo (1661) per commissione della con fraterna del suddetto santo, e quella di S. Donato in morte, dipinta da Giorgio Ventura (1062), ci persuaderemo che Isola seguiva l’esempio delle altre città istriane nell’ornare le proprie chiese con dipinti di illustri pittori italiani.
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Fra le chiese minori ebbero importanza quelle di S. Pietro, di S. Simone, di S. Donato, della B.V. di Loreto, di S. Caterina, di S. Francesco.
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Fra la chiesa di S. Pietro e quella di S. Caterina esisteva la chiesa di S. Francesco col convento de’ minori conventuali, eretto nel 1582 per opera di Fra Fermo Olmo, primo inquisitore stabile dell’Istria colla sede in Isola, sul terreno donato a tale scopo dalla famiglia Manzioli, alla quiale era stato riservato il iuspatronatus del suddetto convento. Già nel 1152 abbiamo notizia di un ospizio benedettino donato da Vernardo, vescovo di Trieste, a’ Benedettini di S. Giorgio maggiore di Venezia. Molto più importante fu il monastero de’ Serviti di S. Caterina, che credesi essere stato dapprima di monache e poi di Benedettini. Passò quindi all’ordine di Malta che lo conferì in commenda al cavaliere Domenico Pavanello, patrizio padovano, il quale lo cedette nel 7 ottobre 1473 all’ordine de’ Serviti coll’assenso del pontefice, dotandolo di alcune vigna, oliveti e frutteti nel Viario.
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V’erano ancora le cappelle di S. Marina, dirimpetto alla Madonna della Neve, di S. Andrea, vicino all’arcata della porta per cui s’entrava in Isola, di S. Rocco, fuori della porta, di S. Giacomo, sul dorso del monte omonimo, di S. Fosca, non lungi dalla strada che conduce da Isola a S. Giacomo, di S. Lorenzo, non lungi dalla fontana e di S. Elisabetta nella Valderniga. Dalle suddette chiese e cappelle prendevano il nome le numerose confraternite che risalivano certamente all’antica divisione delle arti, le quali si posero sotto l’egida della chiesa. La loro importanza è riconosciuta dal fatto che servivano ad avvincolare i cittadini tra loro, ad istruirli nella pietà religiosa e a soccorrerli.”
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Secondo informazioni di Morteani, durante il secolo XIX vennero atterrate le seguenti chiese: San Bartolomeo e S. Antonio al Porto (1818), S. Andrea, alle porte (1797), S. Marina e S. Francesco, sempre in città (1805). Inoltre S. Rocco (1816), S. Donato, SD. Pelagio e S. Simeone nel territorio, ma senza una data precisa.
A Isola esistevano numerose confraternite. Le più conosciute erano quelle del SS. Sacramento che usavano come proprio colore il rosso, quella della Madonna del Carmine (con il colore celeste), di San Mauro (color viola), di S. Andrea (color verde) che aveva la sua scuola nella chiesa di S. Andrea in Piasa Granda La Confraternita dei Flagellanti o dei Battuti, di antichissima origine, aveva la sua scuola nell’edificio a destra di Palazzo Besenghi. La Madonna, patrona di questa Confraternita, era visibile nella lunetta sovrastante la porta d’ingresso. Nelle cantine c’erano sempre 4-5 pile di pietra che contenevano l’olio d’oliva della Confraternita a testimonianza
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delle sue risorse economiche. La denominazione di Confraternita dei Battuti derivava dal fatto che i membri, tutti uomini, praticavano la flagellazione personale in privato e nelle processioni a espiazione dei propri peccati. Meritano speciale menzione: la confraternita della Carità, fondata nel 1580 da Agostino Valiero, visitatore apostolico per l’Istria e Dalmazia, con a capo un priore, un cassiere e sei presidenti, i quali avevano l’obbligo di visitare gl’infermi, somministrando loro sussidi e conforti spirituali; quella del Sacramento, i cui fratelli andavano vestiti di cappa rossa, e questa scuola accrebbe nel 1550 la sua importanza, perché ottenne l’amministrazione dell’ospitale, salvandolo dalla rovina, ad esempio di Capodistria che ne diede il maneggio alla confraterna di S. Antonio ancora nel 1454; quella della B.V. de’ Battuti coll’abito bianco, e l’altra di G. Battista coll’abito nero. Confraternite di minore importanza erano quelle di S. Maria, di S. Mauro, di S. Donato, S. Michele, S. Rocco, S. Giuseppe, S. Antonio, del Rosario, della Cintura e del Carmine.
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La scuola ha una lunga tradizione a Isola. Alcuni elementi che si riferiscono ad una scuola pubblica risalgono addirittura agli Statuti dell’inizio del periodo veneto, vieppiù sviluppatisi nei secoli successivi, anche se per amor della verità va detto che Isola non è mai stata un vero e proprio centro intellettuale. Già nel 1700, tuttavia, Paolo Naldini rileva che la scuola pubblica si teneva nel recinto dell’ospedale: Nel recinto di questa fabbrica tiene il suo posto la scuola pubblica della Gioventù Isolana, che sotto la sollecita vigilanza d’un Precettore, per lo più sacerdote secolare, dalla Comunità stipendiato, s’ammaestra nelle scienze humane, e Divine; poiché i più minuti accoppiando à i rudimenti grammaticali i Sacri dogmi del Vangelo, assistiti dal proprio Precettore, ne danno saggio di questi con le pubbliche dispute, tutte le Domeniche fra l’anno nella Chiesa Maggiore.
La Scola granda per antonomasia era definito il bell’edificio inaugurato nel 1898 in via Besenghi accanto alla chiesetta di Santa Caterina. Svolse la sua funzione pubblica per un secolo esatto, fino al 1998, quando aule, alunni e insegnanti si trasferirono nel nuovo edificio situato in Mesa grisa e inaugurato dai presidenti della Repubblica di Slovenia, Milan Kučan, e della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro. Anche il nuovo impianto scolastico mantenne l’intestazione a Dante Alighieri, che all’Istituto venne conferito nel 1921, nel seicentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta.
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Gli edifìci odierni dell’ex via S. Caterina, un tempo via Besenghi, oggi via Simon Gregorčič (vedi disegno A). Diversa la locazione della Chiesa rispetto ai secoli precedenti (vedi disegno B) quando sul retro era attaccata al Convento dei frati Servi di Maria e all’ospizio dei poveri. Nella seconda metà del XIXsecolo la Chiesa venne ricostruita sul lato sinistro ed al suo posto venne inaugurato nel 1888 l’edifìcio della Scuola elementare “Dante Alighieri”. Il perimetro dove un tempo si trovava il Convento venne adibito a cortile della scuola. Anche i locali della Vecchia scuola pubblica nell’ala sinistra del Convento - Ospizio vennero destinati ad altro uso. A ricordare gli anni quando questi ospitavano il Ginnasio di Isola, sulla fiancata dell’edifìcio vicino venne posta una lapide commemorativa che al giorno d’oggi meriterebbe miglior decoro.
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La storia della scuola nella nostra città ha avuto un percorso molto lungo iniziato nel lontano 1212 (800 anni fa), quando un certo Petrus magister Scholae, ha incominciato a insegnare ai bambini come si scrive, come si legge e come si fa di conto. In parte con contributi che gli venivano erogati dall'amministrazione pubblica, in parte dagli stessi scolari. Era il periodo in cui in quest'area europea stavano nascendo i primi comuni per gestire la cosa pubblica e cresceva la necessità di disporre di persone abilitate per affrontare nuova situazione. Non è una novità che allora nemmeno alcuni principi sapevano leggere e scrivere. Che cosa comprendeva l’insegnamento, allora? Essenzialmente soprattutto leggere, scrivere, naturalmente in latino, e far di conto. Va ricordato certamente, il 1419, quando al suono delle campane, il Consiglio Maggiore decretò la nascita della “libera scuola di Isola”, indicando il rettore, gli insegnanti, il loro stipendio annuale e la sede dell’istituto. E decretando che tutti i bambini avevano diritto di frequentarla, purchè pagassero due ducati per la scuola latina e 1 ducato per la scuola volgare.
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Dopo 375 anni, nel 1794, fu ancora il Consiglio cittadino che, su iniziativa del canonico Antonio Pesaro, rivendicò dal governo della Serenissima il diritto di fondare un ginnasio, dal quale gli studenti potevano iscriversi direttamente all’Università di Padova. E tra poco, spostandoci all’inizio della via assisteremo allo scoprimento della storica lapide, restaurata, che testimonia quell’importante evento. Ancora oggi la storica lapide, restaurata, testimonia quell’importante evento.
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Fu la prefettura locale, nel 1819, a consentire anche a Corte d’Isola l’istituzione della prima scuola slovena del territorio.
E ancora, nel 1880, fu per decisione del Municipio che si decise di abbattere le mura del Convento, ormai disabitato dopo la venuta dei francesi, di spostare la Chiesetta di Santa Caterina di qualche decina di metri, dove ci troviamo ora, e di costruire al loro posto il nuovo, grande, moderno edificio della scuola italiana “Dante Alighieri”.
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Isola non ha mai potuto vantare i grossi personaggi di cui si vanta Capodistria e che anche Pirano riesce a mettere assieme nel corso dei secoli. Però, anche dei pochi che sono incontestabilmente suoi non sa fare grande sfoggio. Oltre ai più conosciuti Pasquale Besenghi e Pietro Coppo ve ne sono altri che pochi ormai rammentano. Domenico Lovisato, garibaldino, matematico e geologo di fama internazionale, nonché patriota isolano e istriano nacque ad Isola il 12 agosto del 1842 da modesta famiglia. Studente di grande talento, acceso irredentista, fu protagonista di clamorose manifestazioni di protesta contro la polizia austriaca, fu processato, incarcerato e condannato al confino più volte. Nel 1866 si arruolò al seguito di Garibaldi per combattere in Trentino e per la liberazione della Venezia Euganea.
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L’interesse scientifico e la forte tempra fisica lo portarono, nel 1881, a partecipare all’importante spedizione di Giacomo Bove in Patagonia e nella Terra del Fuoco, dove fece eccezionali scoperte. Nel 1884 fu nominato ordinario di geologia e mineralogia presso l’università di Cagliari. La permanenza in Sardegna e gli interessi scientifici non spensero però il suo amore per la terra natale ed i sentimenti antiaustriaci, che indussero lo stesso a definirsi, proprio in riferimento al suo legame con l’Eroe dei due Mondi, “un coraggioso “avanzo di camicia rossa”. Domenico Lovisato morì il 23 febbraio del 1916 a Cagliari, dove il “Museo di Mineralogia” porta ancora oggi il suo nome. A Isola, nel 1922, per ricordare la sua scomparsa e per il legame personale con Giuseppe Garibaldi, gli venne dedicata una lapide che in presenza della cittadinanza, era stata scoperta sulla facciata della casa natale. NATO IN QUESTA CASA AVITA ADDÌ XII AGOSTO MDCCCXLII MORTO IN CAGLIARI IL XXII FEBBRAIO MCMXVI DOMENICO LOVISATO MATEMATICO E GEOLOGO IL NOME ISTRIANO ONORÒ NELLE CATTEDRE UNIVERSITARIE E SUI CAMPI DI BATTAGLIA CON GARIBALDI CHE L’EBBE CARISSIMO ADDÌ XX SETTEMBRE MCMXXII POSERO I CITTADINI
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Nel 1953 la lapide venne tolta senza alcuna spiegazione e, probabilmente, distrutta. Nel 200esimo anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, su iniziativa della Comunità Italiana di Isola, nel corso di una significativa cerimonia, una lapide identica a quella originale è stata nuovamente collocata sulla facciata della casa natale di Domenico Lovisato.
La piazzetta antistante la Chiesa di S. Maria d’Alieto è riconoscibile ancora oggi dalla casa datata 1470 che appartenne alla famiglia dei Manzioli e situata nelle immediate vicinanze di quella di Domenico Lovisato. Della famiglia Manzioli si trova notizia in numerosi scritti riguardanti la storia di Isola, a partire dal Morteani. Ma è probabile che anche questo storico istriano abbia attinto da uno studio pubblicato pochi anni prima sul giornale “La Provincia dell’Istria”, precisamente sul No. 16 del 16 agosto 1884, a firma del più noto studioso capodistriano Gian Rinaldo Carli. Scrive il Carli: “Manzuoli, Manzolli e volgarmente Manziol è famiglia rifugiatasi nell’Istria da Bologna; mentre imperversavano le lotte tra Guelfi e Ghibellini, capitanati i primi dai Lambertazzi, gli altri dai Geremei.”
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Anche il cronista istriano Prospero Petronio nelle sue “Memorie dell’Istria sacre e profane” del 1680 scrive: “Sono (nella Terra d’Isola) alcune famiglie ab antiquo originali del luoco, et molte venute et concorse da diverse parti sì per suo diporto, come per fuggir l’Inimititie et discordie, che sogliono partorire le Città grosse et opulenti, et anco allettate dall’amenità’ del loco et salubrità dell’aria: et già tempo tra l’altre famiglie venero ad habitarni alcuni della nobil famiglia de’ Manzuoli di Bologna illustrata da loro Maggiori e per virtù di Lette, e per verità di armi, qual si crede che si fermassero in d.to loco per loro quiete e che fossero molto comodi per i honorati e grandi Casamenti che fabbricarono per loro habitat.o, et come benemeriti per le loro ottime qualità furono per il Ser.mo Dominio Veneto fatti Nobili di detto Luoco, tra quali visse un tempo Nicolò Manzuoli il Vecchio, di costumi, e di Lettere ornatiss. mo, sìche non degenerò ponto dai suoi Maggiori insieme con altri di detta famiglia... huomini di maneggio di Navi e di grossissima suma di danari...” Ebbe così abbastanza fortuna il volume “Nova descrittione della provincia dell’Istria” di Nicolò Manzuoli, pubblicato nel 1611 a Venezia e del quale, una ristampa anastatica è stata edita a Isola nel 2006 dalla redazione del “Mandracchio”
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Degli appartenenti alla famiglia si ha notizia nel corso dei secoli. Nel 1675 un Dottor Bortolo Manzioli è nominato tra gli ambasciatori spediti a Venezia per rendere omaggio a Nicolò Sagredo in occasione della sua assunzione al trono ducale. Gian Rinaldo Carli rileva che “nel secolo XVIII si distinse Domenico Manzioli, quale cultore di Belle Lettere, avendo lasciato parecchie poesie (inedite), tra cui un’egloga, composta insieme a Gian Rinaldo Carli, sotto i nomi di Eugasto (Manzioli), Eliaste (Carli). La confidenza tra il Carli e il Manzioli è spiegata subito per un certo legame di parentela sussistito tra loro; avendo Gian Battista Manzuoli, fratello a Domenico, sposata Anna Maria, seconda sorella di Gian Rinaldo. Ma nel figlio di Giovan Battista - conclude il Carli - cessa la linea maschile dei Manzuoli, e precisamente il dì 20 maggio 1779.”
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Dei Manzioli, o Manzuoli, a Isola rimane soltanto la testimonianza della casa, datata come si diceva 1470, restaurata in base ad un accordo tra il governo italiano e quello sloveno. L’edificio ospita la sede della Comunità Italiana di Isola. Tra gli edifici più prestigiosi non solo di Isola, ma anche di tutta la regione, il bel palazzo barocco fatto costruire dalla nobile famiglia dei Besenghi. Palazzo Besenghi degli Ughi fa parte dei monumenti meglio conservati del tardo barocco in Istria. Poderoso edificio a tre piani è stato costruito relativamente in poco tempo considerando l’epoca: dal 1775 al 1781.
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Palazzo Besenghi degli Ughi rappresenta l’apice dell’architettura del tardo barocco nella zona dell’Istria nord-occidentale e mostra anche elementi del Settecento veneziano ed è attribuita a Filippo Dongetti. Il salotto a due piani con un balcone di legno e con i disegni sul soffitto nei rami della stuccatura rappresenta la camera più riccamente allestita del palazzo. Le vedute del paesaggio nella sala per le cerimonie sono state dipinte da Angelo Venturini.
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L’antica e nobile famiglia dei Besenghi o Besengo si ritiene discenda da una signorile famiglia di origine toscana, rifugiatasi nell’Istria mentre imperversavano le lotte tra Guelfi e Ghibellini, ma su questo punto non tutti gli studiosi concordano. Documentata l’origine veneziana del primo di questa famiglia, Giovanni Pietro Besengo o Besenghi fu Pasquale, che venne da Venezia a Pirano nel 1698, portando con sè la madre Claudia, nata Carrara, e la moglie, nata Spiga. Pochi anni dopo, nel 1702, Giovanni Pietro abbandonò Pirano per stabilirsi nel castello di Piemonte d’Istria, dove fu insignito dell’onorifico titolo di Capitano civile e criminale, titolo conferitogli dalla famiglia Contarini Cav. del Zaffo, signora del castello. Giovanni Pietro, aggregato alla cittadinanza di S. Lorenzo nel 1718, ebbe per figli tanti personaggi importanti, tra i quali ricorderemo l’arciprete Don Giuseppe (morto 1746), il sacerdote Don Angelo (1776), il capitano civile e criminale Giacomo (1764), i notai Francesco e Pasquale ed infine un maggiore al servizio militare delle ordinanze, morto in Orsera nel 1768. Di questi merita soffermarci su Pasquale, che abbandonò il castello di Piemonte per trasferirsi a Isola, nello stupendo palazzo Besenghi, costruito proprio in quegli anni (1775-1781).
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Il 10 gennaio del 1802 fu aggregato per acclamazione alla nobiltà di Capodistria, e tale titolo gli venne confermato dallo stesso imperatore Francesco I. Pasquale, nonno del poeta, sposò Agnesina della nobile stirpe degli Ughi, e volle aggiungere al proprio anche il cognome di questa antichissima famiglia fiorentina, venuta a Isola verso il 1400, e la cui presenza è testimoniata da una lapide ancora oggi presente sulla facciata di una casa di via dei Pompieri, che un tempo si trovava addossata alle antiche mura medievali. Infatti, una piccola lapide posta su una modesta casa della Via dei Pompieri reca lo stemma e la scritta: MCCCCL adì 3 agosto Chado fiol de S. Gi ero d’Ugo fe fare qu esta casa
Come riporta Antonio Vascotto, la casa non è che una parte di quella costruita nel 1450 da Ser Cadolo, figlio di Ser Giero (Rogerio) d’Ugo, a ridosso delle mura della cinta esterna. In essa Ser Giero, e probabilmente anche suo padre, mercanti e prestatori fiorentini, avevano la loro casana, o banco (oggi diremmo che era uno sportello di banca). Secondo il Vascotto, anche la famiglia isolana era discendente degli Ughi, illustri cittadini come li definisce Dante nel XVI Canto del Paradiso (versi 88-90). Una prima ondata di mercanti-prestatori fiorentini già nel 1275 si spinse fin verso Trieste e l’Istria. Comunque, in una biografia compilata da Giacomo Besenghi, l’albero genealogico degli Ughi a Isola parte proprio da Giero de Ugo nel 1350, cui fa seguito il figlio Ugo, che nel 1380 è notaio a Pirano. Il figlio di questi, ancora chiamato Gero o Giero, viene
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aggregato al Consiglio cittadino di Isola nel 1459. Ebbe cinque figli e una figlia che nel 1499 andò sposa a Pietro Coppo, filosofo e cartografo veneziano stabilitosi a Isola.
Giovanni Pietro Antonio, figlio del suddetto e padre del poeta, fu persona di grande intelligenza, distinta ed onorata, che aveva ricoperto diversi incarichi pubblici: l’8 dicembre 1801 fu aggregato alla nobiltà di Parenzo, il 14 gennaio 1802 nominato cittadino di Pirano, il 23 agosto fu accolto membro dell’Accademia degli Arcadi Romano-Sonziaci in Gorizia ed il 31 luglio del 1797 in quella de’ Risorti di Capodistria. Nel medesimo anno venne nominato primo Dirigente del Tribunale provvisorio politico e giustiziale di Isola, il 4 aprile 1804 fu nominato a presiedere alla commissione delegata alla tassazione dei terreni nell’Istria, il 2 dicembre 1807 l’imperatore Napoleone Bonaparte gli conferì il titolo di consigliere generale del
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Dipartimento d’Istria, il 9 novembre 1805 ebbe dal pontefice Pio VII il titolo di conte Palatino Lateranense per sé ed eredi col cavalierato della milizia aureata ad vitam, e finalmente, il 28 ottobre del 1823 gli venne finalmente, dall’imperatore Francesco I., confermata la nobiltà per sé ed eredi. E quali eredi ! Sposata Oristilla Freschi del Friuli, ebbe da lei due figli, Giacomo e Pasquale, e due figlie Agnese e Domenica, andate in sposa rispettivamente al dott. Francesco Bressan avvocato di Trieste e a tal Amoroso Giacomo da Pirano.
Ma la fama della famiglia era destinata ad essere perpetuata dal suo ultimo rampollo, il poeta Giuseppe Pasquale Besenghi degli Ughi, uno dei più vividi e colti ingegni istriani dell’Ottocento. Nato ad Isola il 31 marzo o il 4 aprile 1797, compì i suoi primi studi nella città natia sotto la guida del canonico Antonio Pesaro. Terminati gli studi legali decise di andare in Friuli dai parenti materni, sul che la notizia che nel Regno di Napoli i liberali stavano cercando la costituzione proprio come in Spagna, lo spronò a partecipare attivamente alla conquista della libertà partenopea. La giovanile avventura era però destinata a fallire miseramente, poiché il Nostro, dopo un lungo e faticosissimo viaggio a piedi lungo tutta la Dalmazia, arrivò tardi all’appuntamento, quando cioè era già in corso l’intervento armato dell’Austria.
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Dopo una lunga e volontaria prigionia di studio nel palazzo paterno a Isola, il Besenghi passò a Trieste, con animo di dedicarsi alla carriera della magistratura, ed entrando nelle “camerate” letterarie ma anche, spesso e volentieri, in numerose ed aspre polemiche che sfogavano in aspri epigrammi di stizza contro i suoi nemici. Non poté, per malattia, partecipare alla campagna del ’48; il 24 settembre del 1849 moriva di colera che già da mesi incombeva a Trieste. Sepolto in una fossa comune del cimitero di Sant’Anna, la sua salma venne più tardi esumata e trasferita in un altro luogo dello stesso camposanto, luogo del quale s’è però persa ogni cognizione. Con la morte di Giacomo e Pasquale Besenghi, si estingueva il prolifico ceppo della nobile famiglia isolana.
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Oggi palazzo Besenghi ospida la locale scuola di musica, ma il salone del piano nobile viene usato anche per cerimonie nuziali.
La Contrada de l’ospedal, come comunemente veniva definita la via che da Piazza alle Porte conduceva alla Piazzetta della Chiesa della Madonna di Alieto, era dedicata a Pietro Coppo, valente geografo e concittadino d’adozione. Pietro Coppo nacque a Venezia da Marco, nobile patrizio, nella seconda metà del 1469 o nella prima del 1470. Sul tempo della nascita non c’è dubbio alcuno: l’attesta il Coppo stesso che nel testamento scritto il 7 luglio 1550 dice di aver ottanta e più anni. A Venezia fece gli studi sotto la guida di Marcantonio Sabellico, il più grande umanista di allora e famoso scrittore di cose istriane, così ci informa nel suo testamento quando per mostrare il suo affetto verso di lui dispone che il suo manoscritto più importante venga messo nella biblioteca accanto a quelli del maestro. Compiuti gli studi intraprese molti viaggi. Percorse tutta l’Italia e navigò quasi tutto il Mediterraneo.
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Si sa che a Isola il 1 gennaio 1499 sposò Colotta figlia di Cado di Ugo, cittadino dovizioso, la cui famiglia era stata aggregata al Consiglio di Isola nel 1459 per raccomandazione dello stesso doge Pasquale Malipiero. Nel 1505 non ancora diventato cittadino, Isola si valse dell’opera sua e lo mandò a Venezia ad implorare dal doge la conferma di concessioni speciali, missione che assolse con mirabile premura e che venne compensata con l’elezione sua nel 1506 a cittadino e consigliere, aprendosi così l’accesso alle cariche municipali. Pertanto nel 1511 diventò cancelliere del comune ma quello che conta di più fu l’esser stato vicedomino nel 1514. nel 1531 e 1532. Nel 1546 fu mandato una seconda volta a Venezia con Domenico Carlin a chiedere al neo-eletto doge Francesco Donato la conferma di grazie già concesse dalla Repubblica e la concessione di nuove.
Queste attività pubbliche non distolsero il Coppo dai suoi studi prediletti e così nel I520 finiva la sua prima opera “De toto orbe” per la quale raccolse il materiale durante i suoi lunghi viaggi e dallo studio di molte opere geografiche; antiche e recenti. Nel 1524 disegnò parecchie carte geografiche: nel 1528 pubblicò a Venezia il suo Portolano e nel 1529, a 60 anni, visitò tutta la penisola istriana dal Timavo all’Arsa prima di comporre l’opuscolo “del sito dell’ Istria”. È ancora tanto robusto che per due interi mesi può costeggiare con una piccola barca le spiagge istriane sopportando i disagi di un viaggio che poi lo portò a visitare l’interno della regione.
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Già nel XVI secolo il nome dei Coppo si fa sempre piÚ raro anche nei registri della parrocchia e ben presto il ramo isolano della famiglia si estinse. Isola cercò di onorarlo dedicandogli quella via nella quale ebbe la sua casa, il minimo che poteva fare in segno di riconoscenza, ma oggi, dopo che il suo nome era scomparso dalla memoria cittadina per mezzo secolo, è possibile incontrarlo come toponimo per identificare il giardino pubblico isolano.
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Tra le cartoline illustrate dei primi anni del secolo scorso, suscita una certa curiosità un edificio di Piazza Grande, nel quale, secondo la scritta, nell’ottobre del 1308 avrebbe pernottato, nel suo viaggio per Pola, nientemeno che il sommo poeta, Dante Alighieri.
È più probabile, invece, che il nome di Dante fosse presente a Isola usando il sistema allora in vigore di diffusione della Divina Commedia, e sfruttando la bravura e l’amore per il Sommo poeta che veniva nutrito da qualche zelante scrivano comunale. Una precisa testimonianza su quel periodo ci viene offerta nel 1935. E rappresenta la reale testimonianza della presenza dantesca nella nostra città. Il 9 gennaio del 1935 la Presidenza del Consiglio Italiano emanò un comunicato stampa, col quale dava notizia dell’acquisto, per la somma di 200.000 lire, di un magnifico codice di fine XIV secolo contenente la Commedia di Dante con il commento di Benvenuto da Imola.
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Il codice, composto di 285 fogli di pregiata pergamena, era stato scritto, come risulta dagli explicit dell’autore, negli anni 1398 e 1399 in Isola d’Istria da un notaio e cancelliere al servizio del podestà di quella cittadina, che rispondeva al nome di Pietro Campenni di Tropea, figlio di Giovanni. La successiva trascrizione del commento risultava definitivamente completata nel 1400 a Portobuffolè, incantevole borgo medievale della Marca Trevigiana, dove Pietro si era nel frattempo trasferito per motivi di lavoro. Purtroppo, dell’autore dei due codici danteschi, poco o niente si sa a Isola, ma è indubbio che si tratti di uno dei personaggi importanti della nostra città che, a pochi decenni dalla scomparsa del sommo poeta, addirittura agli albori del Rinascimento, portò tra la nostra gente il nome di Dante Alighieri.
L’inizio della “Divina Commedia” del Codice conservato a Venezia
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L’inizio della “Divina Commedia” del Codice conservato a Parigi Fu il governo italiano infatti nel 1934 ad acquistarlo su interessamento del Senatore Francesco Salata, d’origine istriana. Fu poi lo stesso Duce ad acquistarlo e a farne dono alla Biblioteca Marciana di Venezia. Poche le notizie relative a Pietro Campenni. Qualcosa si sa della sua famiglia d’origine, una delle più antiche e nobili di Tropea. Famiglia, tra l’altro, estinta intorno al 1676. Pietro quindi rivive per la prima volta dopo sei secoli di silenzio, grazie al ritrovamento e al rientro in Italia del codice isolano.
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Ai tempi del ritrovamento del manoscritto, agli studiosi di Dante era già noto un altro codice istriano con il commento di Benvenuto da Imola, custodito nella Bibliothèque Nationale de Paris. Era stato indicato e descritto da autorevoli studiosi, tra cui il rovignese Antonio Ive, che in un articolo apparso sul giornale “La Provincia dell’Istria”, che lo pubblicò il 16 agosto 1879, da buon istriano, fornì un accurato esame non solo del testo ma anche della consistenza cartacea del manoscritto. Incerto il nome del copista causa una errata lettura del manoscritto. Quando venne scoperto l’altro codice istriano, quello ‘veneziano’, non vi fu dubbio alcuno che quel Pietro fosse il Campenni di Tropea, notaio e cancelliere del podestà di Isola d’Istria. Ed è qui che Pietro ci appare non più come semplice copista, ma come studioso dell’opera dantesca con il disegno ben preciso di diffonderla nel migliore dei modi. Su iniziativa della Comunità Italiana di Isola, che interessò dei codici il Centro di ricerche scientifiche dell’Università di Capodistria, venne procurata una copia digitale dei due codici con il proposito di pubblicarli. Anche per ridare il giusto riconoscimento della città al sommo poeta e al copista che, a nemmeno 50 anni della scomparsa di Dante, lo riportò nella memoria culturale nella nostra città.
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BIBLIOGRAFIA Isola in 200 cartoline, Introduzione e testi di Silvano Sau, Edizioni “Il Mandracchio” Isola, 1999. Isola: immagini di una storia, a cura di Silvano Sau, Editrice “Il Mandracchio”, Isola, 2006. La nostra storia – Calendario storico di Isola fino al 1954, Prefazione: Gianfranco Siljan. Introduzione: Silvano Sau, Redazione “Il Mandracchio”, Isola,1997. Per la solenne inaugurazione della Casa del Popolo di Isola , Breve storia del Movimento Socialista Isolano narrata al popolo dal compagno G.V. - Ristampa anastatica del volumetto edito nel 1914 dalla tip. Priora Capodistria, allegato al volume “La nostra Storia”. Redazione “Il Mandracchio”, Isola, 1997. ISOLA D’ISTRIA DALLE ORIGINI ALL’ESILIO, La storia, la cultura, la fede, le tradizioni di una comunità che non vuole dimenticare, Edizioni “ISOLA NOSTRA”, Trieste, 2000. COLLEZIONISMO ITALIANO, Compagnia Generale Editoriale, Vol. I, Cartoline Postali Illustrate, Milano, 1979. JANEZ MUŽIČ, Casinò Portorose - I cent’anni, Tiskarna DTP Ljubljana, Portorose, 2013. ANTONIO VASCOTTO, Voci della parlata isolana nella prima metà di questo secolo, Cesena, 1986. ANTONIO VASCOTTO, Ricordando Isola, Cesena, 1989. FERRUCCIO DELISE, Il porto di Isola, Breve storia cronologica e documentata dal 1857 al 1923, Edizioni “Il Mandracchio” Isola, 2008. FERRUCCIO DELISE, L’ Isola dei pescatori, Contributi per una storia della pesca a Isola, Edizioni “Il Mandracchio” Isola, 2010.
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INDICE INTRODUZIONE
7
LE CARTOLINE POSTALI ILLUSTRATE
17
LE PANORAMICHE
43
LE PORTE
63
PIAZZA GRANDE
89
FONTANA FORA
109
IL PORTO
119
RIVA DE PORTO
161
LA PESCA
171
CULTO E CULTURA
255
BIBLIOGRAFIA
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Editore / Izdajatelj Comunità degli Italiani “Pasquale Besenghi degli Ughi” – Isola Skupnost Italijanov “Pasquale Besenghi degli Ughi” - Izola Casa Editrice / Založnik Il Mandracchio – Isola / Izola Titolo / Naslov L’Isola che non c’è più Isolando tra Storia e Immagini Testi e Cura / Besedilo in Ureditev Silvano Sau Impaginazione / Prelom Andrea Šumenjak Stampa / Tisk Birografika – BORI d.o.o. Tiratura / Naklada 400 copie / izvodov Isola, dicembre 2013 / Izola, december 2013
Un ringraziamento particolare è indirizzato a Unione Italiana, organizzazione degli Italiani in Croazia e in Slovenia, che ha reso possibile il progetto e lo ha finanziato con il contributo del Ministero Affari Esteri del Governo Italiano. Posebna zahvala gre Italijanski Uniji, organizaciji Italijanov na Hrvaškem in v Sloveniji, ki je omogočila projekt s prispevki Ministrstva za zunanje zadeve Italije.
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