QUATTRO PAROLE PER LUCIO PERONE di Demetrio Paparoni A volte, quando vedo le opere di un artista che non conosco, mi sovviene una storiella raccontata da Man Ray nella sua autobiografia. (1) Due vecchi saggi cinesi vivevano in una casa sulla rive di un fiume. Si rivolgevano la parola solo quando necessario. Ogni mattina si incontravano per pescare un pesce per il loro pranzo. Un giorno che erano seduti l'uno accanto all'altro, silenziosi come sempre, uno dei due sentì vibrare la sua canna più forte del solito. La preda doveva essere grossa. Cominciò lentamente a tirare e scoprì di aver preso all'amo una splendida fanciulla. La ragazza, dal volto terrorizzato e dalla lunga coda squamosa, non ebbe altra possibilità che lasciarsi tirare a riva. Il vecchio l'aiutò a uscire dall'acqua, se la mise sulle gambe in modo da poterla liberare più facilmente, quindi la sollevò sulle braccia e la restituì delicatamente alle acque del fiume. L'amico, che aveva seguito la scena in silenzio, dopo aver riflettuto un minuto, chiese: "Perché?" L'altro ci pensò un minuto anche lui, quindi rispose: "Come?" Commenta Man Ray: "La gente chiede sempre come si ottengono certi risultati, raramente perché." La morale è: domandarsi il perché di un gesto esprime il desiderio di capire cosa si nasconde in ogni azione, chiedersi come quel gesto è stato compiuto esprime invece la volontà di possedere strumenti capaci di dare una forma tangibile al desiderio. "Se sufficientemente forte," conclude Man Ray, "il desiderio trova il modo di esprimersi [...] L'aspirazione è la forza che genera ogni atto creativo." Nel caso della nostra storia, il come la sirena sia stata rimessa in acqua ha già in sé la risposta del suo perché. Le (quattro) parole chiave per la comprensione di questa storia sono: "come", "perché", "comprendere", "aspirazione". Ad approfondirne il significato facendo riferimento alla creazione artistica ne verrebbe fuori un trattato di estetica. Riferite invece al lavoro di un singolo artista ne forniscono un'esaustiva chiave di lettura. PERCHÈ I soggetti di Lucio Perone sono matite, uova, pesci, pettini, spazzole, sedie, tavoli, barattoli, costruiti in misura gigante, quanto meno rispetto alle dimensioni che quegli stessi oggetti hanno nel loro uso quotidiano. Perché? Nella maggior parte dei casi Perone associa più elementi sempre in conflitto tra di loro: una sedia ingloba delle matite, una carriola porta teste di pesce boccheggianti, una talpa solleva un'enorme caffettiera, da un vaso da fiori spuntano matite o pesci. Ci troviamo dinanzi all'evidente messa in scena di paradossi, non ci si può sedere infatti su una sedia che ha sul suo piano d'appoggio delle grosse matite appuntite, difficilmente una talpa solleverebbe una caffettiera per versare del caffè (trattandosi in questo caso specifico di una fontana – dalla caffettiera esce acqua – l'opera risponde a una sua logica).
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Altro elemento conflittuale nell'opera di Perone , oltre alle dimensioni, è il colore degli oggetti, sempre artificiale, nel senso che non ha nulla di naturalistico. Non va dimenticato che la percezione di un oggetto è mediata dalla mente e condizionata dalla cultura, sia individuale sia collettiva: tutto ciò che vediamo, lo si voglia o no, è un simbolo culturale, e in quanto tale si presta a varie interpretazioni. Non sappiamo se, dinanzi allo stesso oggetto, persone diverse vedono la stessa cosa, se la interpretano allo stesso modo pur rapportandola al proprio vissuto, alle proprie esperienze. Lucio Perone è nato a Napoli, ma vive a Rotondi, a ventisei chilometri da Benevento, una quarantina da Napoli. Le finestre del suo studio si affacciano su un laghetto artificiale dove da piccolo ha più volte pescato insieme al padre. Ha sempre amato il mare. Guardando l'acqua del lago pensa a quella del mare, quando guarda il mare pensa al suo laghetto artificiale: ogni cosa rimanda sempre a un'altra, che rimanda a sua volta a un'altra ancora. Quando nella mente di un artista due cose invece di rimandare l'una all'altra si sovrappongono, allora è tempo di farne un'opera. I tonni hanno perso la testa (2002) è costituita da teste di tonno di metallo su una vera carriola smaltata di bianco, come le teste dei pesci boccheggianti. Teste di pesce emergono anche da un tavolo (Ultimo respiro, 2003), una affiora da una sedia (Se non sta seduto gli manca l'aria, 2004), altre spuntano da un vaso come fossero piante (Le piante hanno bisogno di acqua, 2002).
La riflessione da cui muove Perone, il suo
"perché?", nasce dal fatto che il mondo dei pesci è un mondo parallelo al nostro, che nell'acqua c'è vita, quella stessa vita che noi associamo all'aria di cui non possiamo fare a meno per respirare. All'aria i pesci invece soffocano, come soffochiamo noi in acqua. Il globo terrestre è fatto più di acqua che di terra, dice Perone, eppure gli uomini hanno un potere sulle acque, ne traggono beneficio sfruttandone la fauna, ma nello stesso tempo le inquinano. La situazione è paradossale, uccidiamo chi ci dà da vivere e poi cerchiamo di correre ai ripari. Intanto i tonni hanno perso la testa, sono all'ultimo respiro e a poco vale l'illusione di annaffiarli come fossero piante. Il paradosso di cui ci parla Perone ha risvolti drammatici, perché rimanda a questioni esistenziali legate alla vita e alla morte, alla lotta per la sopravvivenza, ai danni inflitti alla natura. In queste opere prevale il bianco, che è il colore del candore, quasi a indicare una presunta innocenza. Altro colore dominante è il blu, che evoca l'oltremare di Yves Klein., Un'altra opera che rimanda all'auto distruzione è L'erba del vicino è sempre la più verde (2001), nella quale un coniglio bruca su un masso verde-radioattivo posato su un carrello portapacchi. Non si capisce se il carrello stia portando il masso al coniglio o se lo stia rimuovendo dal luogo in cui il coniglio vive. Nel lavoro di Perone è il titolo a determinare l'opera, che nasce da una constatazione, si trasforma in una riflessione e si manifesta attraverso una forma. La forma rimanda
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all'idea iniziale, anzi, la forma è l'equivalente dell'idea iniziale. Insomma, Perone guarda il mondo e quando la sua attenzione è catturata da qualcosa, si chiede "perché?". Il riferimento a Marcel Duchamp è inevitabile. Si prenda per esempio la sua Porta: 11, rue Larrey, del 1917, una vera porta i cui cardini sono al centro di due telai disposti a formare un angolo retto. Una porta così fatta potrà chiudere e aprire solo un ambiente alla volta. Esposta in galleria (la porta e i suoi due telai), l'opera nega un proverbio francese che recita: "O la porta è aperta o è chiusa". Questo tipo di porta legata a due telai, comune nei piccoli appartamenti di Parigi, in quanto permette di guadagnare spazio, ha dato a Duchamp l'opportunità di dimostrare che un proverbio non necessariamente trova riscontro nella realtà. Ma soprattutto, come l'orinatoio che rovesciato diviene una fontana, dimostra che la nostra cultura ci fa vedere in ogni oggetto quel che vogliamo vedere. Lucio Perone si muove dunque nel solco tracciato da Duchamp, ma a differenza del grande artista francese, che utilizzava oggetti belli e pronti, scelti perché lo lasciavano indifferente, egli preferisce costruirli da sé. Per Perone il come ha pari importanza del perché. COME Si è appena detto che, anche se qualche volta si è servito di oggetti d'uso comune – le carriole, le sedie, i vasi per le piante –, l'attitudine di Perone non è scegliere degli oggetti belli e pronti e assemblarli, come facevano Duchamp e Man Ray, ma costruirli personalmente. La scultura è volume, è forma che invade lo spazio, il come questo spazio viene occupato determina il suo perché. È vero che Perone legittima la sua opera inserendola nella tradizione dell'opera duchampiana, e che guarda ai tanti artisti che, utilizzando degli oggetti d'uso comune, a quella tradizione si sono rifatti – Piero Manzoni, Fernandez Arman, Daniel Spoerri, Christo, Edward Kienholz, César, Rauschenberg, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Claes Oldemburg, Robert Moris, Robert Gober, Sherrie Levine, Jeff Koons – ma è altrettanto vero che egli, a differenza di Duchamp e Man Ray non è un giocatore di scacchi. Piuttosto che interrogarsi sulle conseguenza dell'una o dell'altra mossa del gioco, il suo interesse è rivolto ai singoli pezzi degli scacchi, sul come sono fatti. Chiude gli occhi e passa la mano sulla scacchiera per sapere di più sul tipo di legno, sull'intarsio e sulla superficie del colore. Re, regina, torri, alfieri, cavalli e pedoni lo interessano per la loro forma, prova a immaginarli in dimensione gigante. Non vuol perdersi nei meandri delle regole della competizione. A lui interessa solo capire le cose al tatto. Sa già perché, sa che la spinta che lo porta a fare è capire attraverso i sensi prima ancora che attraverso la ragione, così per lui il come non è meno importante del perché. A volte è l'idea a presentarsi per prima, occorre quindi individuare come darle forma, altre volte è la forma a catturare, e a quel punto occorre l'idea. Ma l'obiettivo non muta: come sempre è individuare cosa va compreso stavolta.
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COMPRENDERE Duchamp non amava solo gli scacchi. A un certo punto della sua vita cominciò a interessarsi alla roulette. Come sempre accade agli artisti, quest'interesse andava ben al di la del gioco stesso. Lo attiravano le sconosciute e misteriose leggi del caso, di cui lui voleva sapere di più. Si mise a studiare i bollettini mensili di Montecarlo che davano un resoconto di tutti i numeri usciti, e mise a punto un sistema di puntate. Si trasferì a Montecarlo, dove non avendo grandi cifre da puntare, vinse solo piccole somme. Ben presto quel gioco lo annoiò. Fece ritorno a Parigi soddisfatto di aver dominato le leggi del caso.(2) Anche Perone è interessato alle leggi del caso. C'è un gioco che ognuno di noi da bambino ha fatto almeno una volta, lo shanghai: si lasciano cadere dei bastoncini lunghi e sottili, poi si rimuovono facendo in modo che nessun bastoncino faccia vibrare l'altro. Perone ha realizzato in scultura una sua versione di quel gioco (Caos, 2000), dove ha sostituito i bastoncini con le matite, ciascuna alta quasi quattro metri. La matita è uno degli strumenti base del fare arte, è indispensabile a chi progetta. La matita è uno degli elementi ricorrenti nell'opera di Perone, che così evidenzia il suo riferirsi a chi fa fatto arte prima di lui. Con le matite Perone ha fatto più opere. In Ordine (2005) ne mette in piedi dodici, tutte nere e alte due metri e sessanta ciascuna, trattenute da una fascia bianca; in Disordine (2004) le matite, queste di diverso colore, vedono la fascia che le tiene insieme cedere leggermente sotto il loro peso e, che pur rimanendo in piedi, perdono la loro disposizione ordinata. Infine c'è Caos (2000), dove le 12 matite sono adagiate disordinatamente al suolo, come i bastoncini di uno shanghai. Bernar Venet ha fatto qualcosa del genere nel 1996 (Accidents) disponendo prima
delle pesanti barre di
acciaio in fila, appoggiate a una parete, facendole poi ruzzolare al suolo spingendo la prima sulle altre. Le barre si sono così disposte sul pavimento in modo casuale. In realtà è possibile calcolare la posizione di ogni asta in base alla sua altezza, al suo peso, alla velocità con cui la prima, cadendo sulle altre, ha determinato la reazione a catena. Il fine di Venet era osservare il processo attraverso cui l'opera prende forma nello spazio. Perone non guarda al processo, al contrario per realizzare Caos ha disposto al suolo le sue matite seguendo un criterio compositivo che non concede nulla al caso: la posizione di ogni matita è determinata dal suo gusto, l'aspirazione è la bellezza. ASPIRAZIONE "Alcuni oggetti che ho costruito," scrive Man Ray, "sono stati distrutti dai visitatori, non soltanto per ignoranza o per disgrazia, ma volutamente, per protesta. Ma sono riuscito a renderli indistruttibili; in altre parole, sono stato in grado di fare dei duplicati senza alcuna difficoltà."(3) Come quelle di Man Ray o Duchamp, anche le opere di Perone sono
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indistruttibili, se ne possono fare con facilità delle copie. Questo non vuol dire che l'opera che assembla o rifà oggetti d'uso comune possieda una valenza oggettiva, come avviene con le sue singole parti considerate prima di entrare a far parte di un'opera d'arte. In un'opera l'oggetto non è mai quel che era in origine, si carica di rimandi simbolici e incontrandosi con altri elementi cambia di significato, diviene altro da sè. È la magia dell'arte: quel che vedi non necessariamente coincide con quel che è. (1) Man (2) Ivi,
Ray, Self Portrait, 1963. Trad. It. Autoritratto, Mazzotta, Milano, 1975, p. 198
p. 192
(3) Ibidem,
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