Sabbie mobili di Alberto Fiz Di fronte alla nuda apparenza, l’arte contemporanea è sempre alla ricerca di nuovi antidoti. Gli oggetti schiacciati dalla loro invadente e fragile precarietà celebrano la loro scomparsa attraverso mille travestimenti, siano essi pailettes, diamanti, perline, pixel, o i più svariati alimenti colorati. “Faremo l’arte con tutto” non è solo lo slogan minaccioso delle avanguardie, ma la regola di un sistema edonistico che in taluni casi ha deciso di confondere il mezzo con il fine disponendosi a celebrare un vacuo sistema di forme e format ampiamente metabolizzato. Ad un realismo macabro e grottesco caratteristico degli anni Novanta, si è andato sostituendo un girotondo assai più rassicurante e familiare, non privo di ammiccamenti al sistema massmediale. Dinanzi al rischio di un’arte consumata dal consumo, la soluzione prospettata da Peppe Perone è quella, assai coraggiosa, di congelare le apparenze con l’obiettivo di creare un universo sotterraneo dove ciascun elemento viene sostituito dal suo simulacro in una continua tensione tra presenza e assenza. Lo spettatore affronta un contesto perturbante senza mai sapere con esattezza cosa stia osservando. Un mondo sotterraneo, modellato con la sabbia, pervaso da una tonalità monocroma che affranca le forme allontanandole da ogni esplicito riferimento. Nella sua opera, infatti, l’intera rappresentazione tende verso archetipi disarcionati dalla contingenza quotidiana in un contesto ludico e straniante. La sabbia non è la semplice copertura degli oggetti, ma rappresenta la loro essenza fragile e minacciosa che s’insinua nei sentieri della memoria: <<Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "Non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito.>>. (José Saramago da Viaggio in Portogallo) L’originale costruzione messa in scena da Perone nasce dalla consapevolezza che le forme estendono la loro presenza diventando componenti di un paesaggio mummificato, ancorché immanente. Ciò che conta non è più l’epidermide, bensì cosa avviene al di sotto dell’onda lavica che ha ricoperto un universo fossilizzato composto di cose sottratte al loro destino. Come ho scritto a proposito del lavoro realizzato da Perino & Vele con cui Perone ha non pochi elementi di assonanza poetica, anche la ricerca di quest’ultimo “rappresenta una felice anomalia all’interno dell’arte italiana dell’ultimo decennio dove, da un lato, ha prevalso un’indagine che affonda le radici nell’esperienza concettuale e dall’altra si è distinta una linea più specificatamente iconica in relazione con il contesto massmediale.” (1) Sin dalla fine degli anni Novanta Perone ha imposto alla sfera del quotidiano una deviazione permanente in una continua prova di resistenza tesa a sfidare le leggi del tempo e dello spazio. Un processo che prende le mosse da ciò che appare più deperibile, più trash, collocato al di fuori di ogni dimensione estetica come, ad esempio, semplici bicchieri di carta, scatole, bottiglie, comuni cucchiai in plastica, tazzine da caffè simili a quelle provenienti dai distributori automatici. Tutti questi sono elementi trascinati oltre loro stessi che tendono a sviluppare un’azione metaforica senza per questo subire alcun cambiamento nel loro stato apparente di oggetti usa e getta. Ciò che li modifica è il passaggio ad un’altra dimensione che li sottrae al processo di reificazione superando le arbitrarie contingenze. Perone si affida ad un procedimento eminentemente scultoreo, ovvero utilizza i calchi degli oggetti, spesso reali, bombardandoli con la sabbia che va a fissarsi inesorabile sulla resina epossidica. In tal modo, l’artista supera l’apparenza per concentrarsi, come sosteneva Cesare Brandi, “sulla struttura interna dell’immagine.” L’oggetto, inteso come reperto friabile della nostra esistenza, non si stabilizza come merce ma va ad assumere una nuova identità che lo rende ambiguo e inaccessibile nel suo collocarsi oltre l’immagine. Chi osserva si trova improvvisamente spiazzato di fronte ad un sistema di codici che gli sembrava già acquisito. Tuttavia, al contrario di quanto poteva supporre, non può esercitare la propria superiorità, ma è
costretto a confrontarsi con la componente enigmatica della creazione, a ricercare una nuova disposizione del processo visivo. I dati non rassicurano ma, anzi, si rivelano assai più discordanti di quanto si era previsto in un contesto dove ciascun elemento slitta tra memoria e cronaca deragliando dalla mimesi. Nella frammentarietà del racconto, non privo di assonanze emotive, quegli oggetti modificano il contesto ribaltando la relazione consueta tra le cose: le mensole si piegano sotto il peso di leggerissimi bicchieri, ingombranti pesi da droghiere fissano a terra le ali degli angeli, uova fuori misura finiscono a friggere in pentole troppo piccole in base a progressive devianze e deviazioni rispetto al piano ordinario del discorso che va ad investire figure retoriche come l’ossimoro che, insieme alla metonimia e alla sineddoche, accompagna spesso l’indagine di Perone. Sono frammenti di un diario minimo che rivela la precarietà dell’azione in un contesto dove i sogni, talvolta infantili, nascondono un sentimento di paura. Una fragilità intima e autentica che riscatta il disagio di un sistema dove tutto viene prodotto per essere consumato il più rapidamente possibile senza lasciar traccia, aspirando al delirio del nulla immortale. “Il tempo puro”, ha osservato Marc Augé; “è indifferentemente passato (anche se non è storia) o futuro (anche se non riguarda le prospettive o la pianificazione). La percezione del tempo puro è la percezione attuale di un vuoto che struttura il presente orientandolo verso il passato o l’avvenire.” (2) Le opere di Perone oscillano tra la fossilizzazione del presente e i castelli di sabbia che si costruivano da bambini sulla spiaggia, predisposti per essere spazzati via dalle onde. “La sabbia è un elemento che mi ha sempre attratto: sono la sua fragilità e la mutabilità continua dovuta agli agenti atmosferici che mi hanno spinto a sperimentare nuove tecniche per poterle pietrificare trasformando le caratteristiche fisiche ma conservando quelle visive e tattili”, afferma Perone. La sua opera non dà certezze e oscilla tra lo sgretolamento degli elementi e la perenne memoria di una costruzione che contempla la decostruzione, così come la smaterializzazione nella coscienza di un’ambivalenza consustanziale. In questa direzione la scultura rinuncia definitivamente ad ogni forma di monumentalità per diventare testimone di un incerto cammino tra le sabbie mobili. I passaggi, del resto, sono impervi e l’artista realizza spazi sospesi evocando una metafisica postmoderna dove dietro ai guanti in gomma sospesi si scruta l’ombra di Giorgio De Chirico che già nel 1914 aveva anticipato la pop art collocando al centro del suo celebre Canto d’Amore proprio un guanto rosso sorprendentemente grande appeso al muro con un chiodo a fianco di una testa in gesso che raffigura l’Apollo del Belvedere e una sfera verde. A tal proposito, in un articolo del 4 luglio 1914 Guillaume Apollinaire aveva scritto: “Il signor De Chirico ha appena acquistato un guanto di cauciù rosso, uno degli oggetti più impressionanti che si possono trovare in vendita. Esso è destinato, copiato dall’artista, a rendere le sue opere future più impressionanti e terribili di quanto non siano i suoi quadri passati.” Metafisica (al di là delle cose fisiche), assai più del Surrealismo (al di sopra della realtà) va considerata un riferimento costante per l’artista campano che lavora intorno alle cose, intese come fonte dell’enigma, di quel “demone” evocato da Eraclito. Perone ipotizza una metafisica domestica e familiare dove gli oggetti biodegradabili del consumismo di massa, sottratti alla loro apparenza, si dispongono come tasselli di un puzzle non più riconducibile al suo stato originario senza più trovare una collocazione in contesti architettonici o urbanistici. Sono segnali rapsodici, frammenti, interferenze visive e linguistiche di un universo congestionato che l’artista rilegge nelle sue componenti paradossali e contraddittorie attraverso un’ironia che affonda le radici nella tradizione italiana, sino ad ora mai indagata a sufficienza preferendo una lettura concettuale forse più lineare. Anche in questo caso l’ironia, intesa come azione tesa a provocare stupore e smarrimento in chi osserva, non può prescindere dal pictor optimus che potrebbe essere considerato il capofila di un gruppo eterogeneo che, nella seconda metà del secolo, ha tra i suoi testimoni Pino Pascali, Piero Manzoni, Alighiero Boetti, Gino De Dominicis, Aldo Mondino Luigi Ontani e Maurizio Cattelan. Sono loro i portatori sani di un virus benefico che fa del dubbio programmato, del ribaltamento del punto d’osservazione l’aspetto principale di un dissenso creativo destinato a destabilizzare e a delocalizzare la logica visiva e lo status sociale. Un’ironia spesso contro se stessi, persino masochista in una continua presa di distanza dal proprio operare che rappresenta uno dei tratti caratteristici dell’arte italiana distinguendola da quella inglese o americana. “Sono giochi che consistono in un tentativo di distruggere per un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico”, (3) ha scritto Roger Caillois. Ebbene, Perone si può collocare all’interno di questa nobile schiera di giocatori per la sua capacità di ordinare in maniera imprevedibile i suoi pezzi sulla scacchiera. La sua metodologia non consiste nell’aggredire lo spettatore, bensì attirarlo nella trappola con modi gentili, persino timidi, tanto che quest’ultimo si lascerà circuire nella convinzione di conoscere alla perfezione le regole del gioco. In realtà, non è così e quando si troverà nel bel mezzo della scena proverà un profondo senso di smarrimento dal
momento che non solo nulla sarà al suo posto ma, come afferma l’artista, “l’oggetto assume una nuova identità” separandosi dall’aspetto convenzionale dell’immagine. In tal modo, Perone ripensa alle mosse e ai sistemi combinatori senza consegnare allo spettatore il libretto delle istruzioni. Le immagini così camuffate, sempre sull’orlo del baratro, perdono la loro definizione iniziale e s’incamminano verso un nuovo percorso caratterizzato da improbabili e sorprendenti connessioni. Nella Pompei ibridata dalla società liquida, le sabbie colorate provenienti da chissà quali spiagge (ciascuna spiaggia ha il suo colore e nelle ultime opere è comparso un intenso rosso scuro) costituiscono la tavolozza su cui lo scultore interviene accentuando la stretta relazione con la pittura. Attraverso questi tracciati composti da sabbia e memoria Perone innesca il suo meccanismo rigenerativo imprigionando il corpo della forma. Non è dato di sapere se dentro al bidone della spazzatura da cui spunta un guanto nero si nasconda un individuo o qual è il destino delle lucertole bianche che vanno verso il centro del quadro. Del resto, il suo elaborato pattinaggio in mezzo alle cose prende le mosse all’inizio dello scorso decennio creando la vasca con le ali, uno scaldino, un distributore di bicchieri di carta e prosegue sospendendo e appendendo gli elementi fuori e dentro il recinto della visione. Tutto tende verso il quotidiano domestico dove esplodono le contraddizioni di un universo chiuso, solo apparentemente rassicurante. Così i pesci sono ordinatamente appesi con le mollette sui fili dove generalmente si stendono i panni e in un ironico rovesciamento dei canoni l’artista campano crea una serie di tautologici Quadri-Oggetto sistemando una serie di bottiglie nella zona vuota della cornice. L’omaggio non può che essere a Giorgio Morandi che per tutta la vita ha dipinto lo spazio metafisico delle bottiglie ricoperte dalla polvere del tempo. In questo caso Perone “restituisce” le sue bottiglie di sabbia al maestro bolognese in un passaggio simbolico tra due universi che talvolta possono ancora entrare in contatto. Non va dimentica nemmeno la fattoria degli animali che Perone mette in scena denunciando le oscenità di un sistema degenerato. La manipolazione genetica e i rischi determinati dalla clonazione sono i temi intorno ai quali l’artista organizza le sue rappresentazioni, intese come il teatro dell’assurdo quotidiano. Così descrive la violenza subita dalle oche in De-portate del 2004, una delle pochissime opere che hanno una precisa indicazione di contenuto rispetto ad un repertorio dove compare la generica dicitura Senza titolo. La marea nera nel Golfo del Messico, il disastro ambientale peggiore della storia americana, sembra trovare un lucido presagio nel 2003 con l’installazione presentata dall’artista alla mostra Napoli Anno Zero dove compare un nugolo di rospi giganti in mezzo ai barili di petrolio. Sono, poi, molti i casi in cui entrano in scena immense uova provenienti da chissà quale gallina pazza nell’ambito di installazioni dove Perone interviene su un tema domestico che, una volta estrapolato dal contesto, diventa la metafora di un allarmante inquinamento alimentare e, forse, non è un caso che il 2011 si sia inaugurato con la notizia dell’emergenza in Europa per le uova alla diossina. Ma la denuncia di Perone passa attraverso la componente di una monumentalità illusoria dove ciascun elemento è in grado di circumnavigare i luoghi dell’instabile realtà. Qualche volta i castelli di sabbia resistono e le onde non li spazzano via. Ma laggiù a Rotondi, un comune di appena 3 mila abitanti nel cuore dell’Irpinia battezzato dai Romani con il nome Castrum Rotundorum, la scultura sembra essere diventata la lingua ufficiale. Insieme a Peppe Perone e a suo fratello gemello Lucio, anche lui scultore, risiedono Emiliano Perino e Luca Vele, un duo classico dell’arte plastica. Un altro cittadino illustre di Rotondi è Luigi Mainolfi che ha iniziato a frequentare la scultura sin dagli anni Settanta. Poco più in là a Paduli abita Mimmo Paladino che di Peppe è stato il mentore scoprendo le sue qualità quando gli faceva da assistente. Ma sarà proprio un caso che in quel fazzoletto di terra campana siano così tanti ad occuparsi di scultura? Probabilmente no. Tra Rotondi e Paduli, si ascolta il respiro nascosto delle cose. Note: (1) A. Fiz, Sottovuoto in Perino & Vele. Sottovuoto, Electa, Milano 2008, p.22. (2) M. Augé, Che ha fatto il futuro?, Elèuthera, Milano 2009, p.51 (3) R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 2000, p.40.