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EGUALMENTE ESTRANEI, EGUALMENTE REALI

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VIAGGIO IN SICILIA

VIAGGIO IN SICILIA

“Non credo che si conoscano mai le persone nei loro ambienti; le si conosce solo altrove, lontane da tutti i piccoli fili e ragnatele dell’abitudine”. In una delle sue tante lettere a Virginia Woolf, la poetessa, scrittrice e botanica Vita Sackville-West cercava di convincere la sua amante a fuggire insieme dalla loro vita mondana per recarsi in Spagna. Vita voleva disperatamente che Virginia rompesse le catene della sua vita ordinaria, ma sapeva che per farlo accadere avrebbe dovuto rimuoverla fisicamente dal regno domestico quotidiano. “O io sono a casa, e tu sei estranea; o tu sei a casa e l’eìstranea sono io; così nessuna è la persona che è realmente nell’essenza, e il risultato è la confusione. Ma nelle province basche … potremmo entrambe essere egualmente estranee ed egualmente reali”.

Quando la curatrice Valentina Bruschi mi ha invitata a partecipare alla nona edizione della residenza artistica itinerante Viaggio in Sicilia, ho sentito quello stesso richiamo. L’idea di mettermi in cammino insieme a persone “egualmente estranee” ed “egualmente reali” era una forma di vocazione, un proposito ad acquisire familiarità con l’ignoto, a correre con gli occhi spalancati il più lontano possibile dalle “ragnatele dell’abitudine” e creare qualcosa di nuovo da quella piccola ebbrezza. Quattro artisti, una scrittrice e un fotografo in viaggio con una curatrice e un (filosofo) viticoltore. Alcuni di noi si conoscevano vagamente e apprezzavano il lavoro degli altri, ma questa sperimentazione migratoria era il legante che ci avrebbe tenuto uniti. Nel suo lungo saggio The Art of Arrival, Rebecca Solnit scrive del legame tra viaggio e amicizia. Qualcosa cambia quando, anche in silenzio, si raggiunge insieme la tappa di un percorso. Il viaggio è un’esperienza così curativa e intima che i luoghi stessi diventano “vecchi amici” dopo averli attraversati. Inoltre, il viaggio rivela quanto sia elastica la nostra percezione del tempo. I collegamenti che si creano nel cervello nell’atto di ricordare

Advertisement

di CHIARA BARZINI

sono simili a quelli che avvengono quando si immagina il futuro. Avevamo ricevuto un invito a viaggiare indietro nel tempo, a riscoprire le influenze arabe in Sicilia e immergerci in esse per futuri atti creativi.

Sono arrivata a Palermo in una soleggiata giornata di ottobre, prima degli altri, e ho deciso di andare sulla spiaggia di Mondello per scrivere. Ero seduta sulla riva da un quarto d’ora quando ho capito che l’arcobaleno che stavo osservando romanticamente all’orizzonte era in realtà un nemico, la sua luce metallica che cadeva sulle palme era un preludio all’inferno. Un feroce mostro d’acqua impazzita ha raggiunto all’improvviso la spiaggia, attaccandomi da tutte le parti. Sono scappata dalla riva e mi sono rifugiata in una farmacia dove ho cercato di ammazzare il tempo parlando per circa quarantacinque minuti degli effetti benefici della primula con un farmacista che, alla fine, timidamente, mi ha chiesto di andarmene a causa delle restrizioni Covid. Non avevo ombrello, né impermeabile, non c’era un luogo in cui potessi nascondermi e le auto avevano cominciato a galleggiare sulle strade che si erano trasformate in fiumi. Si stava facendo buio e morivo dal freddo, bloccata su una panchina che era diventata un’isola. Alla fine l’autista di un autobus ha avuto pietà di me e mi ha lasciata salire a bordo. Era stato un battesimo, ne ero sicura: rovesci, temporali, arcobaleni e cambiamenti di programma sarebbero stati i temi del viaggio attraverso la Sicilia. Anche la forza implacabile delle stelle era contro di noi. Mercurio era appena diventato retrogrado e sarebbe rimasto fermo in quella posizione ostinata per tutta la durata del soggiorno. Il giorno successivo ci siamo incontrati a Palazzo Butera, davanti al suo iconico albero di Jacaranda, le cui radici avevano scavato fino al seminterrato in cerca di acqua. Durante il restauro erano state rinvenute in un fossato per l’acqua piovana ricoperto di maioliche del 1700. Il fossato era poi stato conservato e messo sotto vetro per essere ammirato dai visitatori. Attraverso una piccola finestrella, riuscivamo a vedere le radici che premevano per scavare. Quando non trovavano quello che cercavano, facevano un’inversione a U e andavano a cercare l’acqua altrove. Un’altra premonizione: il viaggio richiedeva inversioni ed elasticità. Ci siamo divisi tra un furgone e l’auto di Vito. Nonostante Vito – come ogni viticoltore che si rispetti –amasse bere, fumare e mangiare, non era un amante dell’ozio, anzi. Era una specie di John F. Kennedy siciliano. “Dobbiamo usare il tempo come uno strumento, non come un divano” ha notoriamente affermato JFK, e Vito sembrava avere lo stesso nobile approccio alla vita e all’avventura. Lui era in grado di piegare il tempo alla propria volontà. In viaggio, le sveglie del mattino erano settate sempre con quella mezz’oretta di anticipo che ti mette un po’ a disagio. “Che ne pensi di farci una bella notte di sonno, tipo otto ore consecutive?” chiedevamo mesti, quando Vito presentava il programma del giorno successivo con aria spiritata. Lui sorrideva e rilasciava la sua risata gutturale. “L’ultima volta che ho dormito otto ore è stato quando ero in coma”.

Con Vito ho percorso uno dei tratti più lunghi del viaggio, passando da Planeta Buonivini nel sud dell’isola fino a Planeta Dorilli, sulla costa occidentale verso Gela. Credo che mi abbia chiesto che ora fosse ogni dieci minuti circa. Era comica questa ossessione con la puntualità, ma era anche bello vedere la sua capacità di infliggere una volontà sul tempo diventandone iperconsapevole. Per una come me, terrorizzata dagli scontri con la realtà, è stato terapeutico. Vito sembrava possedere una sorta di bussola quantica innata. A intermittenza i suoi passeggeri prendevano parte ai frammenti di una storia in corso, ma la versione intera la conosceva solo lui. Le percezioni di spazio e tempo, così come le sensazioni corporee, si muovevano seguendo un pendolo che, almeno per quella settimana, era interamente nelle mani della nostra guida. Una guida inarrestabile. A due giorni dall’inizio del viaggio eravamo già scesi nelle profondità dell’Inferno di Palazzo Chiaramonte a Palermo, un tempo carcere per le vittime del tribunale della Santa Inquisizione. Le mura erano ricoperte di disegni e graffiti, realizzati con una miscela di fluidi corporei e polvere rossa della pavimentazione che i prigionieri raschiavano a mani nude. Ci eravamo persi nelle stanze di Villa Chiaramonte Bordonaro ai Colli, grazie a Gaia e Marco Sorgi, padroni di casa con un carisma di altri tempi. Avevamo ascoltato la città pulsare oltre le loro terrazze, eravamo

di CHIARA BARZINI

rimasti storditi dai colori delle maioliche cangianti. Eravamo stati accolti dalle farfalle con le ali perennemente spezzate di Damien Hirst nel Palazzo Mazzarino di Annibale e Marida Berlingieri, trascorso il tempo all’ombra di un gigantesco Ficus piantato su una distesa di maioliche. Avevamo guidato fino a Centuripe e visitato il suo museo archeologico, arroccato su una rara formazione geologica. Ci eravamo scontrati con nuove tempeste, bagnati completamente, e arrampicati su una montagna per vedere la Chiesa Madre di Sambuca, che era stata in origine un luogo di culto arabo, sospesa su una nuvola scura. Ci era venuto il mal d’auto e avevamo dovuto fare a turno a sederci davanti. In preda alla nausea e ai brividi eravamo arrivati davanti alle immagini storiche delle foto di Robert Capa al Museo di Troina dedicato a lui.

Stare in movimento sembrava sempre il modo migliore per inseguire la giornata o, se non altro, per mantenersi in sintonia con il suo flusso naturale. Da scrittrice combatto costantemente con il senso di colpa per il tempo sprecato, cerco modi creativi per nascondere a me stessa lo scorrere del tempo, lamentandomi di quanto poco ne abbia a disposizione. Lo

scrittore David Gilbert

una volta mi aveva descritto le sue giornate come una serie di pendii scivolosi nella terra della procrastinazione compulsiva. Sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa prima di mettersi a sedere alla sua scrivania, incluso raccogliere piccioni mezzi morti dai marciapiedi di Manhattan. Don DeLillo ammise che “uno scrittore prende seri provvedimenti per assicurarsi la solitudine e poi trova infinite occasioni per sperperarla”. Come Vito, anche io avevo cercato di lasciare il mio segno nel tessuto del tempo controllando ossessivamente il mio orologio, impostando sveglie e promemoria, ma a differenza di Vito non avevo mai davvero incamerato i numeri che mi apparivano davanti agli occhi. So fare un uso magistrale del pulsante “posponi”. Ogni volta in cui ho posseduto orologi ho trovato modi creativi per affogarli in acqua o smarrirli. Ma spostarsi ha il potere di piegare il tessuto dello spaziotempo, per questo il tempo rallenta quando ci si muove. Dunque il viaggio in sé per me è stato una cura per la procrastinazione e sapevo che restare in movimento sarebbe stato anche l’unico modo in cui sarei riuscita a scrivere di questa esperienza.

Quando abbiamo visitato Palazzo Abatellis a Palermo, il luogo che avrebbe ospitato la mostra di Viaggio in Sicilia, ero rimasta ferma per venti minuti davanti alla scultura di Domenico Gagini di una Madonna che allattava un bambino. C’era qualcosa di inquietante nella sua presenza e dopo un po’ ho capito perché. Siamo abituati a vedere la Vergine Maria come una figura eterea, lo sguardo sempre fermo e protettivo rivolto al suo bambino, ma in questa scultura la Madonna non stava guardando suo figlio. I suoi occhi fissavano lo spazio nella direzione opposta, in mano aveva una melagrana ed era persa nei suoi pensieri. Credo che la presenza dei bambini, senza dover scomodare Gesù, sia una delle più grandi fratture che gli esseri umani abbiano con il tempo. Il tempo dei bambini è diverso da quello degli adulti. Quando madri e figli si incontrano, scoprono che dovranno trovare un compromesso tra le loro percezioni del mondo circostante. In quel momento accade qualcosa di magico e inaspettato. I bambini riempiono lo spazio, sia quello fisico che quello psicologico. Ci sono quei primi preziosi momenti in cui il presente è fatto di novità in grado di risucchiarti, il momento in cui riesci a coordinare il tuo respiro a quello del tuo neonato, a dormire con occhi e pugni chiusi proprio come lui. Poi inizia la trattativa. Nella scultura di Gagini, Maria appariva nel suo momento di trattativa, magari stava cercando di raggiungere con lo sguardo qualcosa in fondo alla stanza – un libro o un piatto di cibo fumante che non poteva tenere in mano mentre allattava. Qualunque altra cosa desiderasse, richiedeva una distorsione immaginaria del tempo. In quello stesso edificio, al piano superiore a quello della scultura di Gagini, c’era un attico in cui erano state posizionate a terra due antiche porte arabe. Tutto coesisteva, respirando la stessa aria e mescolandosi. Anche il blu della Vergine Annunciata di Antonello da Messina era lì accanto, vivo, e per un momento ci è sembrato di riuscire a cogliere uno scorcio dell’integrità di cui parla Fritjof Capra ne Il tao della fisica: “Non possiamo scomporre il mondo in unità minime dotate di esistenza indipendente. Per quanto ci addentriamo nella materia, la natura non ci rivela la presenza di nessun mattone fondamentale isolato, ma ci appare piuttosto come una complicata rete di relazioni tra le varie parti di un tutto unificato”.

Al terzo giorno del nostro viaggio ci siamo accorti di essere approdati nell’occhio quieto della tempesta, “il centro dell’avventura” – quel magico momento in cui tutti sono improvvisamente sulla stessa lunghezza d’onda e felici. Per fortuna questo è accaduto mentre eravamo ai piedi dell’Etna, ubriachi del vino delle cantine Planeta e con le percezioni sensoriali alterate dall’altitudine. Cani neri attraversavano la strada. Il Monte Etna, con la sua aria imperiosa, lunatica e responsabile dei nostri cambiamenti emotivi, ci aveva avvertiti della sua presenza. Ci siamo arrampicati sotto la pioggia mentre il sole cercava di farsi spazio tra le nuvole sospese sul mare. Accade una cosa strana quando si raggiunge la parte più alta di un vulcano, uno stato di naturale euforia. Abbiamo camminato intorno ai Monti Sartorius con energia, correndo e arrampicandoci. Dal nulla sono apparsi quattro arcobaleni diversi, inondando le pianure di colori elettrici. Uno di loro era finito proprio ai nostri piedi. Siamo stati accolti da due montoni e sei pecore che passeggiavano su dune nere come il carbone senza un pastore

CHIARA BARZINI

che li sorvegliasse – sembravano agnelli di Dio mandati dalla Chiesa Madre. È stato allora che abbiamo capito: se c’era qualcosa con la quale avremmo dovuto scontrarci durante il viaggio, l’avremmo incontrata su quella superficie, il magma ribolliva sotto la nostra pelle. I viaggi sono come piccole vite. C’è il candore della nascita tipico della partenza, la mezza-età/metàpercorso in cui le illusioni vengono spazzate via, e infine il coraggio e l’apertura inaspettati che emergono quando ci si avvicina all’arrivo, una morte inevitabile.

Al vigneto Planeta a Feudo di Mezzo, un geologo di nome Palmiro ci ha parlato della terra che stavamo attraversando. Ci siamo seduti in una cantina, rapiti dai suoi racconti sulle esplosioni, sui crateri che collassano e sulla lava che crea canali sotterranei. Quando i crateri si intasano e la pressione aumenta, possono verificarsi esplosioni sulle aperture laterali della montagna. Prima di eruttare, i fianchi dell’Etna si gonfiano, come accade a una donna prima del ciclo. Il vulcano era un essere vivente che incarnava cicli infiniti, verdi di pioggia e neri di cenere. La vita e la morte avevano trovato una convivenza ardente e impulsiva nel suo grembo. E noi avevamo camminato attraverso il tempo, sovrastati dall’ampiezza di un potere che esisteva dall’eternità. L’Etna era una montagna, ma la sua storia e le sue stratificazioni risuonavano come quelle di un monumento, proprio come Palazzo Abatellis e la Chiesa Madre. Quando siamo scesi dal vulcano eravamo persone diverse. Una specie di tranquillità ci si era stabilita addosso, parte della nostra irrequietezza era svanita. Al tramonto abbiamo raggiunto il vigneto della cantina Planeta a Sciaranuova, sulla Valle dell’Alcantara. L’installazione lunga venti metri di Claire Fontaine si è illuminata con una citazione di Sciascia dedicata al fisico teorico Ettore Majorana: “Si divertiva a versar per terra e disperdere l’acqua della scienza sotto gli occhi di coloro che ne erano assetati”. La sete era una metafora per la brama di conoscenza. Cosa ce ne saremmo fatti dei flussi e riflussi di ciò che avevamo incontrato?

In The Art of Arrival, Rebecca Solnit scrive che “un viaggio assume una forma e un significato che saranno chiari solo in seguito”. I viaggi richiedono di “abbandonare i piani quando la realtà se ne allontana, per accogliere quello che arriva, lasciar andare ciò che abbiamo alle spalle per andare avanti e non rimanere bloccati. Si può percorrere la stessa strada con scopi completamente diversi”. Nel quarto giorno abbiamo fatto proprio questo. Abbiamo guidato per ore in una valle preistorica lungo una sinuosa strada di canyon fiancheggiati da piante di capperi selvatici, per raggiungere la Necropoli di Pantalica, e quando finalmente siamo arrivati abbiamo scoperto che era chiusa. Eravamo lì a strapiombo sulla valle dell’Anapo affacciati sulle tombe a camera che costeggiano il promontorio sul fiume Anapo, con il vento che ululava e una pioggia sottile che ci cadeva sul viso. Non sentirsi bloccati come suggeriva la Solnit sembrava impossibile. Secondo Afar, una rivista sperimentale di viaggio, ci sono cinque regole per viaggiare quando Mercurio è retrogrado: 1. Evitare di programmare qualcosa di nuovo 2. Essere prudenti e prendersi il tempo di cui si ha bisogno 3. Usare il potere di Mercurio retrogrado a vostro vantaggio 4. Non lasciarsi turbare dalla malizia di Mercurio 5. Non dare mai la colpa alle divinità! Noi le avevamo infrante tutte. Dopo ulteriori tempeste, deviazioni, navigatori rotti e arcobaleni che generavano desideri insoddisfatti, abbiamo capito che dovevamo smettere di incolpare gli dei. Bisognava trovare un modo per seguire il flusso. Siamo arrivati ad Akrai, una colonia greca fondata dai Siracusani, e ci siamo fermati a testare i livelli acustici al centro del teatro greco, perfettamente conservato nel corso di un migliaio di anni. Nel silenzio assoluto, la Necropoli piena di nicchie e decorazioni sembrava ancora infestata da fantasmi. I più audaci si sono adagiati all’interno delle bare scavate nella roccia, sembrava un rituale per esorcizzare la fine imminente del viaggio. Ore di traffico, luci notturne di cittadine lontane e malinconia, siamo arrivati al vigneto di Dorilli, dove finalmente ci saremmo riposati. Sentivamo di essere atterrati in uno squarcio metafisico di De Chirico, con lunghe ombre che si dispiegavano attorno. Il giorno seguente siamo riusciti ad arrivare a Vittoria per visitare l’architetta eremita Maria Giuseppina Grasso Cannizzo. Ci ha accolti dal suo divano, fumando sigarette a raffica, raccontandoci i suoi ricordi del mondo dell’arte degli anni ’70 e ’80, quando “non avevi bisogno di inviti o jet privati per andare ad Art Basel o a documenta”. Soffiava con nostalgia il fumo di sigaretta verso una stampa di Wolfgang Tillmans al centro della stanza. Aveva iniziato a collezionare arte per restare connessa alle persone che amava e con la cui energia voleva continuare a vivere, ma adesso era tutto diverso. Questa visita a fine viaggio, era un invito a rimboccarci le maniche. Potevamo arrenderci, oppure fare come lei e provare a riprendere il tempo nelle nostre mani di artisti, cercare di tornare a una percezione analogica della vita. In macchina abbiamo parlato di quanto fosse difficile chiudere fuori il mondo esterno quando si viene risucchiati dal vortice della routine quotidiana. Abbiamo condiviso aneddoti sulle diverse strategie adottate: modalità aereo, chiudere il telefono a chiave nella stanza adiacente, scaricare l’applicazione Freedom, impostare la modalità scala di grigi per impedire di venire stimolati dalle endorfine che rilasciamo quando guardiamo i colori brillanti dello schermo. Guidando verso Menfi e la casa dei fratelli Vito, Alessio e del padre Gigi Planeta dove avremmo trascorso le ultime notti del nostro viaggio, abbiamo impostato con determinazione la modalità scala di grigi, ma appena arrivati, ognuno per conto suo, l’avevamo di nuovo modificata, tornando alla versione luminosa, dilatando e comprimendo il tempo, non riuscendo mai a trovare il giusto equilibrio. Al mattino, con le suole delle scarpe infangate, abbiamo corso giù per la collina e siamo arrivati alla spiaggia deserta sottostante. Dei granchi invisibili scavavano piccole buche sulla sabbia. Era il primo, forse ultimo sole profondo che avremmo avuto per un bel po’ di tempo, quindi ci siamo tuffati in acqua e abbiamo nuotato al largo, il più lontano possibile. Era l’ultima finestra d’estate prima delle brevi giornate d’autunno. Al tramonto siamo arrivati al vigneto dell’Ulmo e ci siamo fermati davanti alle rovine sommerse di una fortezza araba che spuntava sulla superficie di un lago agitato. Sembrava un’antica creatura che emergeva dall’acqua per riportarci indietro nel mondo. Nel giro di qualche ora Vito ha smesso di presentarci i suoi programmi del giorno. Non eravamo pronti. Si viaggia “per amore dell’avventura, per il paesaggio, per muoversi, per la scoperta, per essere sradicati e, in generale, per quella bella espressione che sembra suggerire che la libertà è un ampliamento del sé, che tu cresci come cresce il tuo scopo. Ma forse, l’arte definitiva del viaggio è l’arrivo, la fine della storia che sfugge a tanti di noi che si tengono a galla o vanno alla deriva, quelli che credono che potrebbe esserci, che dovrebbe esserci, qualcos’altro,” scrive Solnit, ed è stato allora, quando non avevamo un altro posto da raggiungere, che siamo stati

di CHIARA BARZINI

assaliti da un leggero panico. Volevamo continuare a svegliarci all’alba, ad avere il mal di macchina, a bere, a pensare insieme. Tornati a Palermo, attorno a un grande tavolo da pranzo rotondo, abbiamo brindato e ci siamo guardati negli occhi. Eravamo riusciti a percorrere una quantità esorbitante di chilometri. Avevamo attraversato mondi diversi, lontanissimi da noi e adesso dovevamo far nascere qualcosa di nuovo da tutto questo.

Anche se le aveva causato molto dolore, Virginia Woolf non era mai partita per il viaggio nelle province basche in cui Vita Sackville-West l’aveva invitata. Era così preoccupata all’idea di uscire dal suo mondo che aveva preferito ritirarsi in una stanza a scrivere. Le aveva risposto componendo “la lettera d’amore più lunga nella storia delle lettere inglesi”, il suo romanzo Orlando Ovviamente nessuno di noi avrebbe scritto un capolavoro della narrativa modernista, o creato un’opera d’arte che avrebbe brillato per secoli, ma forse è bastato che tutti noi sentissimo di aver raggiunto una certa chiarezza. Allo specchio riuscivo a vederla nei miei occhi, erano diventati più morbidi e luminosi. E anche i miei figli se ne erano accorti quando sono tornata a casa. In viaggio eravamo stati “estranei” ed eravamo stati “reali”, questo valeva l’intera avventura.

Equally Strange And Equally Real

‘I don’t believe one ever knows people in their own surroundings; one only knows them away, divorced from all the little strings and cobwebs of habit.’ In one of her many letters to Virginia Woolf, the poet, writer, and botanist Vita Sackville-West tried to convince her lover to escape their mundane world together and travel to Spain. Vita desperately wanted Virginia to break the shackles of ordinary life, but knew that for that to happen she would have to remove her physically from her daily domestic realm. ‘Either I am at home, and you are strange; or you are at home, and I am strange; so neither is the real essential person, and confusion results. But in the Basque provinces … We should both be equally strange and equally real.’

When the curator Valentina Bruschi invited me to participate in the 9th edition of the itinerant art residency Viaggio in Sicilia, I recognised that same calling. The idea of being in movement amongst ‘equally strange’ and ‘equally real’ people was a form of vocation, a resolution to become comfortable with the unfamiliar, to run with eyes wide open as far away as possible from ‘the cobwebs of habit’ and create something new out of that little rupture. Four artists, one writer, one photographer on the road with a curator and a (philosopher) winemaker. Some of us knew each other vaguely and appreciated each other’s work. But this migrant experimentation would be the glue that would hold us together.

In her long essay The Art of Arrival Rebecca Solnit wrote about the link between travel and friendship. Something shifts when, even in silence, one performs a leg of a journey together. Travel is such an intimate balm that places themselves ‘become old friends’ when you traverse them. Also, travel reveals how elastic our perception of time is. What gets wired in the brain in the act of remembering is similar to what gets wired when imagining the future. Our imminent trip was an invitation to travel back in time, rethinking the Arab influences in Sicily while dipping into them for future creative acts.

I arrived in Palermo on a sunny day in October, earlier than the others, and decided to go to the beach of Mondello to write. I

by CHIARA BARZINI

sat on the shore for fifteen minutes and quickly discovered that the rainbow I was gazing at romantically on the horizon was in fact an enemy, the metallic light falling on the palm trees a prelude to hell. A raging body of moving water landed in no time, attacking from all sides. I ran from the beach and took refuge in a pharmacy where I tried to kill time by talking about the beneficial effects of primrose for about forty-five minutes with a pharmacist who finally, timidly, asked me to leave because of Covid restrictions. No umbrella, no sleeves, nowhere to hide; cars floated on streets that had turned into rivers. It was getting dark and I was freezing and stuck standing on a bench that had turned into an island. Eventually a bus driver had mercy and let me get on board. This was a baptism, of that I was sure: rain showers, storms, rainbows, and changes of plans would be the theme of the upcoming trip across Sicily. For those believing in the relentless strength of the stars, Mercury had just entered retrograde and would stay put in its same obstinate position for the whole duration of the trip.

The following day we met at Palazzo Butera in front of its iconic Jacaranda tree that dug underground into the basement of the building in search of water. During its restoration, the tree’s roots were discovered in a rainwater ditch covered with 18th-century majolica tiles. The ditch had then been preserved and encapsulated in glass for visitors to admire. Through a little window, we could see the roots pushing through. When they didn’t find what they were looking for, they simply did a U-turn and went searching for water elsewhere. Another premonition: travel required U-turns and elasticity. We split up between a van and Vito’s car.

by CHIARA BARZINI

Despite the fact that Vito – as a proper winemaker – clearly liked to drink, smoke and eat, he had no intention of lingering about in leisure. He was a kind of Sicilian John F. Kennedy. ‘We must use time as a tool, not as a couch’, J.F.K. famously said and Vito seemed to have that same noble approach to life and adventure. He had a way of bending time to his will. On the road, morning alarm clocks were always set at a slightly more uncomfortable hour that one would have liked. ‘What about getting a good night’s sleep? Like an 8-hour run?’ we occasionally asked when presented with the following day’s intense schedule. Vito smiled and released his signature throaty huff. ‘The last time I slept eight hours was when I was in a coma.’

I rode with him on one of the longest stretches of the trip, crossing from Planeta Buonivini in the South of the island to Planeta Dorilli up on the western coast towards Gela. He asked for the time approximately once every ten minutes. It was comical, but it was therapeutic to observe him carving into time by becoming hyperaware of it. Vito seemed to own an innate quantic compass, enabling his riders to intermittently partake in fragments of an ongoing story. Perceptions of space and time and bodily sensations shifted along with a pendulum that, at least for the duration of that week, was entirely in the hands of our guide.

Two days into our journey, we had already descended into the pits of hell in Palazzo Chiaramonte in Palermo, once a prison for the victims of the Holy Inquisition. The walls were covered in drawings and graffiti, the ‘ink’ a mixture of bodily fluids and red dust from the pavement that the prisoners had scraped with their bare hands. We had been lost in the rooms of Villa Chiaramonte Bordonaro ai Colli, in the house of the gracious Gaia and Marco Sorgi. We’d peered out from their terraces and heard the pulse of the city outside their majestic gate, dazed by the colors of their iridescent majolicas. We’d been greeted by Damien Hirst and his butterflies with forever-broken wings in Annibale and Marida Berlingieri’s Palazzo Mazzarino, and spent time in the shade of a giant Ficus tree planted on their tiled terrace. We’d driven to Centuripe and visited its archeological museum, perched on top of a rare geological formation. We hit new storms, got soaked and climbed up into a mountain to see the Chiesa Madre in Sambuca, originally an Arab place of worship, suspended in a dark cloud. We got car sick and drove out to Troina to see the Robert Capa museum. Being in motion has always seemed like a good way to chase the day, or, if nothing else, to be in tune with its natural flow. As a writer, I am constantly battling against a feeling of pressure, finding creative ways to obscure the passing of time, complaining about how little I have of it. The writer David Gilbert has spoken of his days as a series of slippery slopes into the land of compulsive procrastination. He’d be willing to do just about anything before sitting at his desk, including saving half-dead pigeons from the sidewalks of Manhattan. Don DeLillo has admitted that ‘a writer takes earnest measures to secure his solitude and then finds endless ways to squander it’. Like Vito, I too had tried to leave my own mark on the fabric of time by checking my watch compulsively, setting alarms and reminders, but unlike Vito I never actually absorbed the numbers that appeared before my eyes.

I am masterful with the snooze button. Whenever I’ve owned watches I’ve found creative ways to drown them under water or lose them. But momentum has the power to bend the fabric of spacetime, which is the reason why time actually slows down when you move. Thus travel for me has been a cure against procrastination and I knew that being in motion might well be the only way I’d be able to write about this journey. When we visited Palazzo Abatellis in Palermo – the beautiful building that would host the exhibition for Viaggio in Sicilia, I stood for minutes in front of a sculpture of the Madonna breastfeeding her child by Domenico Gagini. There was something unsettling about her presence and after a while I understood what it was.

We are used to seeing the Virgin Mary as ethereal, always with a steady, protective gaze towards her infant, but in this sculpture

by CHIARA BARZINI

the Madonna was not looking at her child. She was gazing into space in the opposite direction, holding a pomegranate, lost in thought. I think the presence of children, without having to trouble Jesus Christ, is one of the biggest fractures human beings have with time. Baby time is different to adult time. When mothers and babies meet and realise they are going to have to find a compromise between their perceptions of the surrounding world, something magical and unexpected occurs. Children fill up space, a psychological and physical one. There are those precious early moments when the nowness of novelty is allengulfing, when you are able to breathe with your newborn’s breath and sleep with the same locked eyes and fists. Then a negotiation begins. In Gagini’s sculpture, Mary appears in her own moment of negotiation, maybe reaching with her eyes for something at the edge of the room – a book, a fuming dish of food she couldn’t reach while she was breastfeeding. Whatever other thing she was trying to will into existence, it required its own imaginary time warp. In that same building, on the floor above the Gagini sculpture, ancient Arabic doors rested on the ground in the attic. Everything coexisted, breathing the same air and mixing. The blue of Antonello da Messina’s Vergine Annunciata was also there, alive, next door, and for a moment it felt like we could catch a glimpse of that oneness Fritjof Capra spoke of in The Tao of Physics: ‘We cannot decompose the world into independently existing smallest units. As we penetrate into matter, nature does not show us any isolated “building blocks”, but rather appears as a complicated web of relations between the various parts of the whole.’ After the third day of our journey, we realised we had landed in that calm eye of the storm, ‘the middle of a trip’ – that magical, serendipitous moment when everyone is suddenly on the same wavelength and happy. It helped that this happened when we were at the foot of Mount Etna, drunk on Planeta wine and high from the altitude. A few black dogs crossed the road as Etna, imperious, moody and in charge of our emotional shifts, made her presence known to us. We climbed up under the rain as the sun pushed through the clouds over the sea. There’s a thing that happens when you reach the higher planes of a volcano, a state of natural exhilaration. We walked around the Monti Sartorius with energy, running and climbing. Four different rainbows appeared out of nowhere, inundating the planes with electric colours. One of them hit the ground in front of us. We were greeted by two rams and six sheep. Strolling on the coal black dunes with no shepherd in sight, they seemed like lambs of God sent from the Chiesa Madre. We did not know what it was that we were meant to wrestle with on the trip, but we understood then that it was bound to make its way to the surface here. Magma was boiling under our skins. Trips are like little lifetimes. There is the birthing innocence of departures, the mid-life/mid-trip moment when illusions are swept away, and finally the unexpected courage and openness that emerges as one gets closer to the arrival, the end of the journey, an inescapable death.

At the Planeta vineyard in Feudo di Mezzo, a geologist named Palmiro gave us a talk about the land we were traversing. We sat

by CHIARA BARZINI

in a wine cellar, rapt as he spoke about explosions, collapsing craters and lava forming channels underground. When craters get clogged and the pressure builds up, explosions can occur on lateral openings of the mountain. Before erupting, Etna’s flanks literally become bloated like a woman before her period. The volcano is a living entity, embodying infinite cycles, verdant from rain and black from ashes. Life and death have found a fiery, impulsive cohabitation in its womb. We had walked through time, dwarfed by the spaciousness of a power that has existed from eternity. Etna is a mountain, but its history and layers resonate with those of a monument, just like Palazzo Abatellis and the Chiesa Madre.

When we came down from the volcano we were changed people. A kind of quietness had settled on us, some of the restlessness gone. At dusk we reached the vineyard of Planeta’s estate in Sciaranuova, on the Valle dell’Alcantara. Claire Fontaine’s 20-metre-long installation lit up with a quote from Sciascia dedicated to the theoretical physicist Ettore Majorana: ‘Si divertiva a versar per terra e disperdere l’acqua della scienza sotto gli occhi di coloro che ne erano assetati.’ Thirst was a metaphor for a lust for knowledge. What would we make out of the ebbs and flows of all that we’d encountered?

In The Art of Arrival, Rebecca Solnit wrote that ‘a journey assumes a shape and a meaning that are only clear afterward’. Journeys require you to ‘let go of the plan when the actuality departs from it, to embrace what’s arriving, let go of what’s departing, to move forward and not get stuck. You can cover the same ground with entirely different purposes.’ On the fourth day we drove for hours into a prehistoric valley, down a winding canyon road flanked by wild caper plants, to reach the Necropolis of Pantalica and when we finally got there it was closed. We stood, forlorn, overlooking the chamber tombs lining the large promontory over the Anapo river, with wind and drizzle in our faces. Not feeling stuck, as Solnit suggested, seemed an impossible task. According to the experimental travel magazine Afar, there are five rules about travelling during Mercury retrograde: 1. Avoid scheduling something new 2. Be cautious and take your time 3. Use the power of the Mercury Retrograde to your advantage 4. Don’t let Mercury’s mischief get the best of you and cause you to become more upset 5. Don’t blame the Gods! We had broken them all. After more storms, detours, dysfunctional navigators and rainbows yielding unfulfilled wishes, we understood we had to stop blaming the gods. We had to find a way to go with the flow.

We visited Akrai, a Greek colony founded in Sicily by the Syracusans, and stood in the middle of the Greek theatre in Palazzolo Acreide, which has been perfectly preserved for thousands of years. Ghosts guided us through the Necropolis filled with niches and decorations. Some of us were daring enough to lie inside carved-out coffins, which seemed like a way to exorcise the looming end of our trip. After driving through a sea of lights and traffic to the vineyard of Dorilli where we would finally rest, we felt like we had landed in a De Chirico moment, with long shadows all around us. The following day we managed to get to Vittoria to visit the hermit architect Maria Giuseppina Grasso Cannizzo. She greeted us on her couch, chain-smoking cigarettes voraciously and spinning tales about her memories of the art world in the 70s and 80s when ‘you didn’t need invites or private jets to go to Art Basel or documenta’. She blew her

by CHIARA BARZINI

smoke nostalgically towards the Wolfgang Tillmans print in the centre of the room. She started collecting art as a way to stay connected to people she loved and whose energy she wanted to keep living with, but everything was different now. This visit, arriving at the end of our trip, was an invitation to pick up our own arms. We could either surrender or try, like her, to take time back into our own hands as artists, to return to an analogue perception of life. In the car we talked about how difficult it was to shut out the outside world when you were sucked into the vortex of daily routines. We shared anecdotes of the different strategies we used: flight mode, locking phones in neighbouring rooms, downloading the app Freedom, setting our phones to greyscale mode in order not to be triggered by the endorphins we release when looking at bright colours onscreen. Driving towards Menfi and the home of the Planeta brothers Vito and Alessio, together with their father Gigi, where we would spend the final nights of our journey, we switched our phones to greyscale, but by the time we arrived we had all switched back, dilating and compressing time, never finding the right balance. In the morning, with muddy shoes, we ran down the knoll onto the empty beach below. Invisible crabs dug small holes in the sand. It was the first, maybe last deep sun we would get for a while, so we jumped into the water and swam out as far out as we could. We said grateful prayers to the universe for giving us a window of summer before the short days of autumn. When we arrived in the vineyard of Ulmo at dusk, we stood in front of the ruins of a half-submerged Arab fortress emerging from a moody lake. It looked like an ancient creature coming out of the water to push us back into the world. In just a handful of hours Vito would stop presenting us with his daily schedules. One travels ‘for the sake of adventure, for the scenery, for being in motion, for discovery, for being uprooted and at large, that nice expression that seems to suggest that liberty is an enlargement of the self, that you grow as your scope does. But maybe the final art of travel is arrival, the end of the story that eludes so many of us who are afloat or adrift, who believe there should be, must be, something next’, Solnit wrote, and a little panic came over us now that we had nowhere to go to. Back in Palermo, around a

by CHIARA BARZINI

great round lunch table, we toasted and looked into each other’s eyes. We had managed to cover an exorbitant number of miles. We had crossed paths, cultures, worlds, we had communed with artists, and now it was our turn to go back and do something about it. Even though it caused her a lot of pain, Virginia Woolf never did go on that trip to the Basque Provinces that Vita SackvilleWest had invited her on. She was so worried about stepping outside of her world that she found it easier to retreat to a room and respond by writing ‘the longest love letter in the history of English letters’, her novel Orlando. Of course, none of us would write a masterpiece of modernist fiction or create a work of art that would shine across centuries after this trip, but maybe it was enough that we all felt we had reached a little more clarity. I could see it in my softer eyes when I looked in the mirror and my children could see it as well when I returned home. We had been ‘strange’, we had been ‘real’, and that was worth the whole adventure.

Gili Lavy, Journey XII, 2022 installazione audio, ensemble vocale audio installation, vocal ensemble composta in collaborazione con composed in collaboration with Jacopo Salvatori durata duration 9’58’’

Un ringraziamento speciale With special thanks al Direttore Musicale to Musical director of Teatro Massimo, Omer Meir Wellber alla curatrice e scrittrice curator and writer Stella Sideli i cantanti and singers Elena Carlino and Flavio D'Ambra e il fonico and the sound recordist Robert Jack

Journey XII, allestita oggi in quella che era la cappella del Convento della Pietà a Palazzo Abatellis, è una composizione sonora che riecheggia la precedente vita di questo luogo sacro, attraverso un solenne canto corale.

Il brano, cantato in Sabir, la “lingua franca mediterranea”, è un dialogo tra viaggiatori per mare; riporta in vita i suoni parlati a Palermo e in tutto il Mediterraneo, tra l’XI e il XIX secolo. Questa lingua, unicamente orale, era un idioma comune parlato nei porti del Mediterraneo; univa italiano, catalano, spagnolo, portoghese oltre a berbero, turco, francese, greco e arabo. Originaria dell’area del Mediterraneo orientale, veniva utilizzata principalmente per la navigazione, il commercio e la diplomazia; era presente anche tra migranti, rinnegati europei e corsari.

La lingua franca, nota anche come “lingua del mare”, emigrò poi in Sicilia e nel Nord Africa, continuando a rappresentare e ad articolare la convivenza e la cooperazione di tante diverse culture e identità nel Mediterraneo e, in particolare, in Sicilia.

“Journey XII”, exhibited today in what used to be the chapel of the Convento Della Pietà in Palazzo Abatellis, is a sound composition echoing, through its solemn choral singing, the site’s previous life as a sacred place.

This piece, sung in Sabir, the “Mediterranean Lingua Franca”, is a dialogue between travellers at sea, bringing back to life the sounds spoken in Palermo, and more widely in the Mediterranean between the 11th and the 19th century. This unique language, being exclusively oral, was a common language spoken around the Mediterranean ports and based on Italian, Catalan, Spanish, Portuguese as well as Berber, Turkish, French, Greek and Arabic. It originated in the Eastern Mediterranean area, and was used mainly for sailing, trading, commerce and diplomacy; it was also current among migrants, European renegades and pirates.

The language, also known as “Lingua Del Mare” (The Language of the Sea) then migrated to Sicily and North Africa, continuing to represent and articulate the coexistence and co-operation of many different cultures and identities in the Mediterranean, and in Sicily in particular.

-1'Sentir, Sentir per mi?’

'Mi sentir bonu.’

‘Mi capir un poco per ti.’

-2-

“Cosa ti ablar?’

‘Responder de mi’

“Di que paise estar?’

‘Responder de mi.’

“Unde ti venir?’

‘Que hablar en citta?’

‘Ove tu andar?’

‘Responder de mi.’

'Mi venir del mare, mi andar al mare.’

‘Dio grande, no pigllar fantesia.’

‘Si estar scripto in testa, andar, andar.’

‘Si no, aca morir.’

-3“Fazir vento.’

‘Ostro levanti: Fazir fredo.’

‘Nave estar alla vela, mainar, mainar!’

‘Bandiera arriva.’

-4‘Molto tempo ti non mirato, amigo.’

‘Genti [h]ablar, genti [h]ablar.’

‘Non venir encora il journo Sancto di vos autros?’

’Questa star ultima casa fora de casa’

-5’Se ti sabir, mi comprendir, mi comprendir.’

‘Se no sabir, tazir tazir.’

-1-

“Senti. Mi senti?”

“Sento bene.”

“Capisco un pò.” ‘

-2-

“Cosa parli?”

“Rispondimi”

“Da che paese vieni? “

“Rispondimi”

“Da dove vieni?”

“Cosa dicono in città?”

“Dove vai?”

“Rispondimi”

“Vengo dal mare, Vado al mare.”

“È il destino, non essere testardo.” [il mondo è tale]:

“Se è scritto sulla tua fronte, andare, andare.”

“Sennò qui morirai.”

-3“C’è vento”

“Ostro levante: Fa freddo.”

“La nave va a vela, Ammainare, ammainare!”

“Issata la bandiera.”

-4“E’ molto tempo che non ti vedo, amico.”

“Parliamo.”

“Non è ancora arrivato il vostro giorno santo?”

“Questa è [la mia] ultima casa lontano da casa”

-5“Se lo sai, mi capirai, mi capirai.”

“Se non lo sai taci, taci.“

-1-

‘Listen. Do you listen to me?’

‘I hear well,’

‘I understand a bit.’

-2-

‘What do you speak?’

‘Answer me.’

‘From what country are you?’

‘Answer me.’

‘Where do you come from?’

‘What do they say in town?’

‘Where do you go?’

‘Answer me.’

‘I am coming from the sea, I am going to the sea.’

‘It is destiny, do not be stubborn. [The world is such]:

‘If it's written on your forehead for you to go, you will go.’

‘If not, you will die here.’

-3-

‘It is windy.’

‘Ostro (South wind) Levant (east wind): It is cold.’

‘The ship is under sail, furl, furl!’

‘Hoisted flag.’

-4-

‘Long time I didn’t see you, friend.’

‘Let us speak.’

‘Hasn't your holy day come yet?’

‘This is [my] last home away from home.’

-5-

‘If you know it, You’ll understand me.’

‘If you don’t know, Keep quiet, be silent.’

La nona edizione di Viaggio in Sicilia prende il titolo Coppe di stelle nel cerchio del sole, dai versi del filologo e poeta arabo-siculo Ibn al-Qattâ, citati anche dall’antropologo Antonino Buttitta1 relativamente al rapporto tra la Sicilia e la cultura del vino. L’occupazione della Sicilia da parte dell’Islam è riconosciuta dagli storici come un periodo di notevole sviluppo, che ha lasciato un’impronta indelebile nell’agricoltura, nell’ingegneria, nell’arte e nella poesia, contribuendo – tra le altre cose – alla nascita della scuola poetica siciliana. Ne era convinto anche l’archeologo siciliano Antonino Salinas (1841-1914) che, già nel 1873 quando assunse la direzione del Museo Nazionale di Palermo – oggi Museo Archeologico regionale che prende il suo nome - progettò l’allestimento della Galleria del Medioevo, nota anche come “Sala Araba”, segnando il cambiamento di paradigma di un’epoca, in anticipo rispetto al resto d’Europa2. Sotto l’influenza dell’illustre politico, storico e orientalista Michele Amari (1806-1889), docente di Arabo presso l’Università di Firenze e Ministro della Pubblica Istruzione del nuovo stato unitario, Salinas espose oggetti diversi che testimoniavano l’influenza della dominazione islamica nell’isola come parte integrante della specifica identità regionale siciliana, frutto di contaminazioni culturali. Un’esperienza che oggi potremmo definire “oltre l’orientalismo”3, nella quale gli elementi araboislamici – e anche ebraici – sono intesi come fattori interni e imprescindibili della propria storia nazionale. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, parte dei manufatti esposti nella “Sala Araba” confluirono nella collezione di Palazzo Abatellis. L’allestimento della mostra trae spunto dalle immagini d’archivio dei primi del Novecento che ritraggono la “Sala Araba” con il monumentale lampadario, restaurato dall’azienda agricola Planeta in occasione di questo progetto espositivo. Insieme a quest’opera, una selezione di altri manufatti in metallo e legno che raccontano e sono testimonianza non solo della multiforme varietà di oggetti provenienti dalla collezione Abatellis, diversità dovuta alle tante ed eterogenee collezioni in questa confluite nel corso del tempo a seguito di confische, donazioni o acquisizioni,

Documentazione fotografica della “Sala Araba” presso il Museo Nazionale di Palermo.

Riproduzione archivio fotografico Galleria

Regionale della Sicilia - Palazzo Abatellis.

Photographic documentation of the “Sala Araba” in the National Museum of Palermo.

Reproduction photographic archive ma anche attestano la modernità della visione museografica del Salinas, “decisamente in contrasto con quella allora imperante, piena di pregiudizi nei confronti della produzione artistica non riconducibile alla cultura classica greco-romana”4. Una visione estetica, quella del Salinas, precorritrice delle contemporanee “cultural studies”, “scevra da preclusioni, discriminazioni e gerarchizzazioni […] nasceva il coraggioso progetto di illustrare, quanto più esaurientemente possibile, attraverso le sale del Museo, l’evoluzione delle arti e della vita culturale della Sicilia nel corso dei secoli, presentando al pubblico manufatti di diversa natura e valenza (dai più appariscenti ai più umili), e di differenti periodi e matrici culturali. In tale progetto erano destinate ad assumere un posto privilegiato le testimonianze arabomusulmane, in quanto esse costituivano una delle peculiarità più vistose ed esclusive del patrimonio culturale della Sicilia, di Palermo, e del suo Museo, rispetto alle altre regioni italiane”5 . Questa mostra non vuole soltanto ricordare la visionarietà delle scelte espositive del Salinas, ma anche celebrare l’importanza della riscoperta in quegli anni della poesia arabo-siciliana, sempre per merito di Michele Amari, che nuova luce doveva portare sulla cultura araba presente in Sicilia. Infatti lo studioso, mentre andava riordinando e pubblicando il materiale destinato alla sua monumentale Storia dei Musulmani di Sicilia (1854-1872), diede alle stampe nel 1857 a Lipsia la Biblioteca arabo-siciliana Allora altri cominciarono a dedicarsi all’argomento e anni dopo, Celestino Schiaparelli, discepolo e amico di Amari, nel 1897, a Roma pubblicò il Canzoniere di Ibn Ḥamdīs, l’unica opera di circa seimila versi a noi arrivata completa; lo Schiaparelli poi tradusse anche un altro canzoniere, stavolta però mutilo, del poeta al-Ballanūbī, che venne pubblicato soltanto nel 1959 dallo studioso Umberto Rizzitano in un’edizione curata per conto dell’Università del Cairo.

Galleria Regionale della Sicilia - Palazzo Abatellis.

Da sempre gli artisti contemporanei studiano le opere esposte nei musei e, per questo progetto, oltre alla residenza nomade dello scorso ottobre nei territori di Planeta, gli artisti Bea Bonafini, Gili Lavy, Emiliano Maggi e Diego Miguel Mirabella, seguendo le tracce della cultura araba in Sicilia, si sono confrontati con le opere della collezione Abatellis. Durante e dopo il viaggio, un

di VALENTINA BRUSCHI

riferimento costante è stata la lettura dei versi di alcuni dei più famosi poeti arabi di Sicilia, nei quali la capacità descrittiva e la delicatezza dello sguardo, creando opere di grande suggestione, raccontano della magnificente bellezza dei luoghi di allora e non solo. E sia che si tratti dei palazzi e giardini reali di Palermo, tanto cantati dai due poeti Abd al-Raḥmān, o garbate descrizioni di mare in tempesta, guerre o il rimpianto di un esiliato, negli scritti del più significativo dei poeti arabi, il già citato Ibn Ḥamdīs, la scuola poetica arabo-siciliana lascerà, nella sua ricca produzione, una preziosa traccia di un indelebile intreccio di culture. Gili Lavy ha realizzato un’opera sonora, in collaborazione con il musicista Jacopo Salvatori, dal titolo Journey XII dove vengono evocate parole della lingua franca mediterranea, detta sabir. In questa lingua si svolge un suggestivo dialogo, qui cantato, fra due viaggiatori per mare, quel mare che esercita tutto il suo fascino, colto dalla Lavy, non appena si esce dal portone di Palazzo Abatellis su via Alloro. Quindi l’artista si riferisce al museo come spazio di transizione contenente molteplici identità mutevoli, talvolta fuse, metafora della Sicilia come immenso archivio di culture in migrazione. E riesce a far rivivere nello spazio museale anche lo spirito antico di quelle mura, un tempo convento per monache di clausura, espressione di quel sovrapporsi di strati che tanta ricchezza offrono a chi è capace di cogliere il senso del tempo che diventa storia, come qui avviene.

Emiliano Maggi ha realizzato tre sculture in ceramica e bronzo, come delle brocche che simboleggiano i versi e la figura del già citato poeta arabo-siculo al-Ballanūbī, anche questo riscoperto da Michele Amari nell’Ottocento. Per l’inaugurazione della mostra, Emiliano Maggi, in collaborazione con Damiano Colosimo, ha poi realizzato una performance dal titolo, La sua bocca custodisce perle di denti che rivelano perle d’amore, utilizzando flauti e strumenti a corda simili a dei kopuz, costruiti in maniera sperimentale dall’artista in ceramica e legno. Strumenti simili appaiono nelle raffigurazioni dei suonatori nei dipinti musicali del soffitto a muqarnas della Cappella Palatina insieme all’ud, al rabāb e al liuto. Anche l’originale composizione musicale realizzata per la performance dall’artista, risulta un’interpretazione del tema amoroso presente nel Canzoniere di al-Ballanūbī.

Diego Miguel Mirabella presenta invece un’installazione con stoffe, una tempera su tavola di legno e un lavoro a mosaico, realizzate con la collaborazione di artigiani marocchini, come ulteriore sviluppo della sua indagine sulle strutture grammaticali del decoro e dell’ornamento. L’elemento narrativo è sempre molto importante per la ricerca di Mirabella eppure, anche se appaiono delle parole nei suoi lavori, queste sono sempre misteriose, sembrano nascondere un segreto. Si tratta di poesie spezzate, come lui stesso le definisce, tali che, nel corso del tempo, riunendo tutti i suoi lavori, possano diventare esse stesse una narrazione, esprimendo così il suo modo di essere siciliano. Ma sono parole in parte celate dietro le decorazioni, dando solo qualche indizio circa l’essenza che, più che rivelata deve solo intuirsi, dando luogo a quel nascondimento che costituisce un altro elemento fondamentale del suo lavoro. Interessante notare la corrispondenza concettuale con il poeta siciliano Lucio Piccolo di Calanovella che intitolò una sua poesia Gioco a nascondere (1960), titolo eponimo della raccolta della quale la poesia fa parte.

Bea Bonafini è l’unica degli artisti che, oltre a presentare un’opera realizzata appositamente per l’occasione – Immortal Eye, dai versi del già citato Ibn Ḥamdīs, uno dei massimi esponenti della poesia araba di Sicilia, nato a Noto nel 1056 e morto a Maiorca nel 1133 – espone anche un grande tappeto-arazzo in moquette del 2018. Quest’ultimo, dal titolo Il Trionfo, è stato realizzato in riferimento al celebre affresco Il Trionfo della Morte, custodito nel museo, la cui iconografia particolare è riconducibile all’ampia diffusione del repertorio cortese in pittura, miniatura, arazzeria, arti decorative e nelle illustrazioni della trattatistica sulla caccia o negli erbari. Il tema della caccia con il falcone, in particolare, è tipico del repertorio islamico: tra i passatempi del principe era uno dei preferiti e assunse un ruolo di primo piano tra i motivi decorativi di ceramiche, avori e legni dipinti dalle manifatture sicule di tradizione araba. A tal proposito vale la pena di ricordare la passione per la caccia, in particolare per quella con il falcone, dell’imperatore Federico II di Svevia al quale si deve il celebre De arti venandi cum avibus, trattato ornitologico-venatorio che attesta gli interessi scientifici del sovrano svevo e della sua colta corte.

1 A. Buttitta, Coppe di stelle nel cerchio del sole, in A. Buttitta, G. Cusimano, Sicilia, l’isola del vino, Edizioni Kalòs, Palermo, 2005, pp. 21-53.

2 Questo elemento è sottolineato in tre testi che ho trovato fondamentali per la mia ricerca: M. A. De Luca, Il contributo di Bartolomeo Lagumina alla formazione e allo studio delle collezioni islamiche del R. Museo Nazionale di Palermo, in Notiziario Archeologico Soprintendenza Palermo, n. 11/2016; D. Katz, Reassembling the Sala Araba in Palermo’s Museo Nazionale, in MitteilungendesKunsthistorischenInstitutes in Florenz, nr. 1, Firenze 2017, pp. 40-46; e G. Mandalà, All’ombra di Amari: gli studi orientali in Sicilia al tempo di Bartolomeo e Giuseppe Lagumina, in G. Mandalà e A. Bellettini, Bartolomeo e Giuseppe Lagumina e gli studi storici e orientali in Sicilia fra Otto e Novecento, UniorPress, Napoli 2020, pp. 9-30.

3 In riferimento all’omonimo saggio del 1978 del docente della Columbia University, Edward Said. Qui infatti lo studioso riformula il concetto di “orientalismo”, da lui inteso quale insieme di immagini e stereotipi dei quali l’Occidente si è servito per esercitare il proprio dominio sull’Oriente e, sulla base di false concezioni, lo considera quale luogo dell’alterità, in cui risiedeva tutto ciò che per la cultura europea non è “Occidentale”, “l’altro”. G. Mandalà parla di “contro-orientalismo” nel suo saggio G. Mandalà, All’ombra di Amari: gli studi orientali in Sicilia al tempo di Bartolomeo e Giuseppe Lagumina, in G. Mandalà e A. Bellettini, Bartolomeo e Giuseppe Lagumina e gli studi storici e orientali in Sicilia fra Otto e Novecento, UniorPress, Napoli 2020, p. 9.

4 M.A. De Luca, op. cit., p. 2.

5 Ivi, p. 3.

6 Uno dei libri di riferimento per gli artisti, tra gli altri, è stata la raccolta di F. M. Corrao, Poeti arabi di Sicilia, Mesogea, Messina 2002. L’antologia, curata dall’arabista Francesca Maria Corrao, presenta i versi originali in arabo e la loro traduzione in italiano a cura dei maggiori poeti italiani a noi contemporanei, da Biancamaria Frabotta a Andrea Zanzotto.

DIEGO MIGUEL MIRABELLA Non è che inchino , 2015-2022, stoffa, motore, ferro, dimensioni variabili cloth, motor, iron, variable dimensions

The ninth edition of Viaggio in Sicilia bears the name Chalices of Stars Within the Sun’s Circle, after verses by the Sicilian Arabic philologist and poet, Ibn al-Qattâ, cited in turn by the anthropologist Antonino Buttitta in connection to Sicily’s relationship with the culture of wine.1 The Islamic occupation of Sicily is recognised by historians as a period of notable prosperity, which has left an indelible mark on agriculture, on engineering, art and poetry, contributing – amongst other things – to the birth of the Sicilian school of poetry. The Sicilian archaeologist Antonio Salinas (1841–1914) firmly believed as much and, upon becoming director of the National Museum of Palermo – now the Archaeological Museum that bears his name – began planning the design of the Mediaeval Gallery, also known as the ‘Sala Araba’ (the ‘Arabian Room’), denoting an epochal paradigm shift in advance of the rest of Europe.2 Under the influence of the illustrious politician, historian and orientalist Michele Amari (1806–1889), Professor of Arabic at the University of Florence and newly-unified Italy’s Minister of Education, Salinas exhibited a variety of objects that testified to the influence of Sicily’s period under Islamic domination, understood as an integral part of the distinctive regional Sicilian identity, fruit of the blending of cultures. Today we might define this historical experience as ‘beyond orientalism’3, one in which Arab-Islamic – and also Jewish – elements are understood as factors internal to and inseparable from the nation’s own history. After the Second World War, a number of the artefacts exhibited in the ‘Sala Araba’ were absorbed into the collections of Palazzo Abatellis.

The exhibition’s design takes its prompt from archival images of the ‘Sala Araba’ dating from the early 20th century, which include the monumental chandelier restored by Planeta Winery for this occasion. Together with this undertaking, a selection of other artefacts in metal and wood provide evocative testimony to the multifarious variety of objects comprised in the Abatellis collection. If this diversity derives from the many heterogeneous and eclectic collections gathered over time through confiscations,

by VALENTINA BRUSCHI

donations or acquisitions, it also attests to the modernity of Salinas’ museological vision, ‘decidedly in contrast to the presiding vision of the time, loaded with prejudice toward any artistic production not founded in Greco-Roman classicism’.4 Salinas’ aesthetic vision prefigured contemporary Cultural Studies, ‘devoid of preclusions, discrimination or hierarchy, giving birth to the ambitious project of using the museum’s spaces to illustrate, as thoroughly as possible, the evolution of art and cultural life in Sicilia over the course of the centuries, publicly presenting artefacts of varied nature and implication (from the most august to the humblest), and of different periods and cultural backgrounds. In such a project, the legacy of ArabMuslim culture was destined to assume a privileged position, insofar as it constituted one of the most striking and unique peculiarities of the cultural patrimony of Sicily, Palermo and its museum, as compared to the other regions of Italy.’5 This exhibition seeks not only to recognise the visionary character of Salinas’ curatorial choices, but also to celebrate the vital rediscovery of Sicilian Arabic poetry throughout the same years, again by merit of Michele Amari, which was to shed new light on the Arabic culture present in Sicily. Indeed, as the scholar was absorbed in re-editing and publishing material destined for his monumental Storia dei Musulmani di Sicilia (History of the Muslims in Sicily, 1854–1872), he printed the translated literary anthology Biblioteca arabo-sicula (The Sicilian Arabic Library) in Leipzig in 1857. Others duly began to apply themselves to the theme. Years later, Celestino Schiaparelli, Amari’s disciple and friend, published the poetry cycle of Ibn Ḥamdīs, a work of 6,000 lines of poetry and the only similar corpus to reach us in its entirety. Schiaparelli duly translated the surviving parts of another, partially lost, collection: that of the poet al-Ballanūbī, which was first published only in 1959 with the scholar Umberto Rizzitano as editor under the aegis of Cairo University. Contemporary artists have always studied museum collections. For this project, in addition to their itinerant residency across the various Planeta estates, the artists – Bea Bonafini, Gili Lavy, Emiliano Maggi and Diego Miguel Mirabella – continued along the trail of Sicilian Arabic culture through contemplation of works in the Abatellis collection. During and after the residency, the artists found a constant point of reference in reading the verse of noted Sicilian Arabic poets,6 whose descriptive acuity and delicacy of gaze combined to create deeply suggestive works recounting the magnificent beauty of that era’s Sicily, amongst other themes. Whether addressing Palermo’s royal palace and gardens, much extolled by the two poets of the name Abd alRaḥmān, or – in the writings of the most important of the Arabic poets, the aforementioned Ibn Ḥamdīs – decorous evocations of a storm-tossed sea, war or an exile’s regret, the rich production of the Sicilian Arabic school of poetry left the invaluable record of an indelible interweaving of cultures.

Gili Lavy has contributed a sound installation in collaboration with the musician Jacopo Salvatori, entitled Journey XII, invoking words from the Mediterranean lingua franca, Sabir. A suggestive dialogue unfolds in Sabir, sung in this case, between two voyagers by sea – the same sea that, as Lavy has noted, exercises all its allure from the moment one steps from the Palazzo Abatellis doorway onto Via Alloro. The artist thereby refers to the museum as a space of transition containing manifold protean identities, some of them fused together, in a metaphor for Sicily itself: an immense archive of cultures in migration. Lavy also succeeds in reviving the ancient spirit enclosed in the walls of the museum, once a convent inhabited by cloistered nuns. Her work illustrates the overlapping of temporal strata and the enrichment they offer to anyone receptive to their implications: those of time becoming history, as it has here.

Emiliano Maggi has produced three sculptures in ceramic and bronze, akin to jugs, to symbolise the verses of the aforementioned Sicilian Arabic poet al-Ballanūbī, he too rediscovered by Michele Amari in the nineteenth century. For the opening of the exhibition, Emiliano Maggi, in collaboration with Damiano Colosimo, also staged a performance entitled La sua bocca custodisce perle di denti che rivelano perle d’amore (‘The Mouth that Contains Pearls of Teeth Revealing Pearls of Love’), employing flutes and string instruments similar to komuz, constructed by the artist in an experimental combination of ceramic and wood. Similar instruments appear in the painted depictions of musicians and musical instruments in the ceiling

by VALENTINA BRUSCHI

muqarnas of the Palatine Chapel, together with the ud, the rabāb and the lute. In turn the artist composed an original piece for the performance, interpreting the theme of love ever-present in alBallanūbī’s cycle of poetry.

Diego Miguel Mirabella has instead presented an installation utilising fabrics, a gouache on wooden panel and a mosaic, all realised in collaboration with Moroccan artisans, as a further extension of his investigation into the grammatical structures of ornament and decoration. Although the narrative element is always highly important to Mirabella’s work, the words that appear in his pieces are always mysterious, as if they hid elusive secrets. They become fragmentary poetry, as he himself defines them – such that, were all his works gathered together over the course of time, they would themselves become a narration of his own Sicilian way of being. But they are words partly obscured by decorations, granting only partial clues as to their essence: one less revealed than intuited, enabling the concealment that constitutes another fundamental aspect of his work. Here it is interesting to note a conceptual correlation to the Sicilian poet Lucio Piccolo di Calanovella, who entitled one of his poems Gioco a nascondere (Hide and Seek, 1960), included in the collection of the same name.

Bea Bonafini is the only artist present who, as well as presenting a work created for the occasion – Immortal Eye, from the verse of the aforementioned Ibn Ḥamdīs, one of the greatest exponents of Sicilian Arabic poetry, born in Noto in 1056 and deceased in Majorca in 1133 – has also exhibited an imposing rug-tapestry in carpet, dating from 2018. The latter, entitled Il Trionfo, was created in reference to the celebrated fresco Il Trionfo della Morte (The Triumph of Death). Held in the museum, the Trionfo’s distinctive iconography is attributable to the wide diffusion of courtly repertories in painting, miniatures, tapestries, decorative arts and the illustrations accompanying hunting treatises or herbals. The theme of falconry, in particular, was typical of the Islamic repertory: it was amongst the favourite pastimes of the royalty and assumed a foreground role amongst the decorative patterns applied to Sicilian artefacts of Arab tradition, whether in ceramics, ivory or painted on wood. On this note, it is worth

by VALENTINA BRUSCHI

remembering Emperor Frederick II’s passion for hunting, in particular for falconry, to which we owe the celebrated De arti venandi cum avibus, an ornithological-venatic treatise demonstrating the scientific interests of the Swabian sovereign and his refined court.

1 Antonio Buttitta, ‘Coppe di stelle nel cerchio del sole’, in Antonio Buttitta and Girolamo Cusimano, Sicilia: L’isola del vino (Palermo: Kalòs, 2005), pp. 21-53.

2 This element is underlined in three texts that have been fundamental to my research: Maria Amalia De Luca, ‘Il contributo di Bartolomeo Lagumina alla formazione e allo studio delle collezioni islamiche del R. Museo Nazionale di Palermo’, in Notiziario Archeologico Soprintendenza Palermo, no. 11, 2016; Dana Katz, ‘Reassembling the Sala Araba in Palermo’s Museo Nazionale’, in Mitteilungendes Kunsthistorischen Institutes in Florenz, no. 1, 2017, pp. 40–46; and Giuseppe Mandalà, ‘All’ombra di Amari: Gli studi orientali in Sicilia al tempo di Bartolomeo e Giuseppe Lagumina’, in Bartolomeo e Giuseppe Lagumina e gli studi storici e orientali in Sicilia fra Otto e Novecento, ed. by Giuseppe Mandalà and Anna Bellettini (Naples: UniorPress, 2020), pp. 9-30.

3 In reference to the homonymous 1978 book by Columbia professor Edward Said. Indeed, in that text the scholar reformulated the concept of ‘orientalism’, which he envisaged as a repository of images and stereotypes utilised by the West to impose its dominion on the Eastern Hemisphere. On the basis of such false conceptions, the West could render the East a locus of alterity, wherein resided everything that, to European cultural sensibilities, was not ‘Occidental’: the ‘other’. Giuseppe Mandalà has discussed ‘counterorientalism’ in his essay, ‘All’ombra di Amari: Gli studi orientali in Sicilia al tempo di Bartolomeo e Giuseppe Lagumina’, in Bartolomeo e Giuseppe Lagumina, p. 9.

4 De Luca, p. 2.

5 Ibid, p. 3.

6 One of the artists’ key texts, amongst others, was the collection edited by the Arabist Francesca Maria Corrao, Poeti arabi di Sicilia (Messina: Mesogea, 2002). The anthology presents the original Arabic verses alongside their translations into Italian in collaboration with foremost contemporary Italian poets, from Biancamaria Frabotta to Andrea Zanzotto.

Chalices of Stars Within the Sun’s Circle dal 22 maggio al 17 luglio 2022 from 22 nd of may to 17 th of july 2022

Galleria Regionale della Sicilia Palazzo Abatellis - Palermo

Antonino Salinas (?), Disegno di iscrizione araba della lastra di marmo proveniente dal magazzino di Palazzo Reale di Palermo Arabic inscription drawing of the marble fragment from the deposit of the Royal Palace of Palermo , 1874 Carta, 2 fogli incollati lungo il margine inferiore, matita blu, inchiostro bruno Paper, 2 sheets glued along the bottom edge, blue pencil, brown ink , 70x38,8 cm

Si legge: “Lastra di marmo con lettere e ornati incavati. Magazzino di Palazzo reale”; “Dal Prof. Salinas ricapitato il 10 maggio 1874 volume mio VII 123 vedi la sua lettera del 14 aprile”

It reads: “Marble plaque with letters and hollowed ornaments. Royal Palace Deposit”; “From Prof. Salinas delivered on May 10, 1874 volume VII 123 see his letter of April 14”

Gili Lavy, Journey XII , 2022 installazione audio, ensemble vocale audio installation, vocal ensemble composta da composed by Jacopo Salvatori, 9’58’’min

Coperchio di cassa Chest lid , sec. XVIII legno intarsiato in avorio wood decorated with ivory inlays 34x98 cm, dono donation F. Costa, inv.7810

Gallone, manifattura italiana Gallon, Italian manufacture , sec. XIX rame dorato gilded copper , 5x54 cm, inv.8758

Lampada Lamp , sec. XVIII-XIX rame traforato, sbalzato e cesellato fretworked, embossed and chiseled copper h 64 x Ø 43 cm inv. 7259

Diego Miguel Mirabella, Non è che inchino , 2015-2022, stoffa, motore, ferro, dimensioni variabili cloth, motor, iron, variable dimensions

Emiliano Maggi, Le lacrime degli amanti , 2022, ceramica ceramic , bronzo bronze , h 70 x Ø 40 cm

Emiliano Maggi, Il Canzoniere , 2022, ceramica ceramic , bronzo bronze , h 90 x Ø 45 cm

Emiliano Maggi, Le lacrime degli amanti , 2022, ceramica ceramic , bronzo bronze , h 70 x Ø 40 cm

Elemento decorativo Decorative element , sec. XIV bronzo traforato pierced bronze , 22x16 cm, inv. 7536

Carmelo Giarrizzo, Riproduzione delle tavole dipinte dell’iscrizione della Cupola di Copies of the painted panels with the inscription of the Dome of Santa Maria dell’Ammiraglio - Palermo, sec. XIX, pittura su tavoletta paint on wood , 19x80 cm e 19x77 cm, inv.7805 e 7806

Matteo Buonomo, La strada The Road , 2022, 8 stampe inkjet su Baryta 8 inkjet prints on Baryta paper 13x13 cm cad each

Testo di Text by Chiara Barzini, Egualmente estranei, egualmente reali Equally Strange and Equally Real , 2022

Diego Miguel Mirabella, Not titled yet - Morocco , 2019, tempera su legno tempera on wood , 150x75 cm, courtesy Galleria Mazzoli

Cassetta Chest , sec. XVIII-XIX, legno intagliato carved wood , metallo metal , 17x28x20 cm, dono donation del Sig. Nicola Iacovelli dal Cairo 22/06/1903, inv. 7798

Cilindro Cylinder , sec. XVII-XVIII, rame argentato (?) cesellato e traforato silver-plated copper decorated with chisel and openwork h 44 x Ø 19 cm base, inv.7255

Bea Bonafini, Il Trionfo , 2018, pastello su intarsio misto di moquette pastel on mixed carpet inlay , 480x265 cm, courtesy l’artista the artist e Galleria Eduardo Secci

Bea Bonafini, Immortale Eye , 2022, intarsio di tappeti misti e pastello su pannello di legno mixed carpet inlay and pastel on wood , 150x135 cm

Diego Miguel Mirabella, Piove odore , 2021, ceramica ceramic , ferro iron , 60x46 cm

Piatto Plate , sec. XVIII, stagno cesellato chiselled tin , Ø 35 cm, dono del donation Sig. Nicola Iacovelli dal Cairo, inv.7260

Negli ultimi anni, la ricerca poliedrica e multidisciplinare di Bea Bonafini si è concentrata nella realizzazione di grandi installazioni ambientali costruite attraverso la creazione e combinazione di arazzi e tappeti, ispirata anche dall’uso domestico delle coperte ricamate all’interno di culture diverse. Una ricerca che rientra in una pratica comune a diversi artisti che nel XX e XXI secolo utilizzano il tappeto sia come referente culturale, con la decostruzione di concetti quali “Oriente” e “Occidente”, che come superficie scultorea sulla quale imprimere il proprio gesto. Bonafini taglia e incolla le sue opere personalmente con una tecnica originale che assomiglia alla creazione di un puzzle di moquette. L’indagine creativa dell’artista esplora anche altri media, dalla pittura su sughero intagliato alla scultura, dove le recenti sperimentazioni hanno incluso anche l’antico metodo giapponese del nerikomi per la realizzazione di sculture caratterizzate da una superficie ondulata e increspata da colori marmorizzati. Questa serie di opere dedicate alle “chimere”, che richiamano le acquasantiere, sono forme corporee intese come contenitori di cristalli di sale marino in riferimento alla natura curativa dell’acqua salata, simbolo interculturale e originario di purificazione e rinascita, un sentimento oggi più che mai necessario. [V.B.]

Introduction

In recent years, Bea Bonafini’s multifaceted and multidisciplinary approach has focused on the production of immersive installations based on tapestries and carpets created and combined by the artist, inspired by the domestic use of embroidered quilts throughout a range of cultures. This artistic approach dovetails with practices common to numerous artists in the 20th and 21st centuries who use carpets as a cultural reference, both as a deconstruction of concepts such as ‘East’ and ‘West’ and as a sculptural surface to inscribe with their own gestures. Bonafini cuts and splices her work by hand, using a technique of her own innovation that resembles the creation of a jigsaw puzzle of carpet fragments. The artist’s creative explorations also enter other media, from painting on inlaid cork to sculpture. Her recent experiments have included the traditional Japanese technique of nerikomi, which Bonafini uses to make coloured porcelain sculptures characterised by their marbled, rippling surfaces and undulating colours. The works in this series, dedicated to the theme of ‘chimeras’, call to mind holy water fonts. Their corporeal forms conceived as receptacles for sea salt crystals, referring to the curative nature of salt water, a primal and intercultural symbol of purification and rebirth, an experience needed today more than ever. [V.B.]

Partendo dalla pittura, oggi lavori con diversi media, dalla performance all’installazione, dalla scultura all’arazzo. Come sono collegate per te queste forme espressive e come scegli quale medium utilizzare, di volta in volta?

Ho sempre amato le lingue e sono cresciuta in vari paesi. Ogni lingua apre la porta a una mentalità e una cultura diversa, se si pensa alla logica delle loro strutture, al suono e al ritmo, alle espressioni... Imparare una nuova lingua è come indossare nuovi costumi, aumenta l’empatia per la cultura dalla quale deriva ed è come scoprire un gioco o risolvere un puzzle. Direi che è questo il mio approccio ai vari media che uso, sia personalmente quando sviluppo una nuova tecnica, sia per il pubblico al quale chiedo di entrare in un sistema con un pensiero e una sensibilità idiosincratica. Ogni forma espressiva la uso come un portale per entrare in uno spazio che può essere generato solamente da quel linguaggio.

Da dove nascono i soggetti delle tue opere, quali sono i tuoi riferimenti?

Sono sempre stata attratta dalla fragilità delle cose, messa di fronte alla potenza fisica o emotiva. Ho imparato molto da condizioni contrastanti ma che convivono: dalla fragilità del corpo che attraversa malattie e la potenza che ha nel combattere, sopravvivere o cedere; dalla fragilità dei frammenti di resti archeologici che con la determinazione e la pazienza di esperti vengono riesumati e ricomposti; oppure dall’immaginazione umana quando utilizza storie o forme creative per avvicinarsi all’immortalità di fronte alla precarietà della vita.

Nelle tue opere c’è spesso un’ambiguità tra figurazione e astrazione che a volte può ricordare la tradizione ornamentale nella storia dell’arte. Cosa ti interessa in questo tipo di ricerca?

Credo di essere attratta dai simboli segreti che vengono integrati nell’estetica ornamentale, che emergono soltanto se ci soffermiamo sui dettagli. Per esempio, l’arte grottesca nella decorazione antica e più tardi rinascimentale nasconde giochi assurdi, cupi e buffi, che non erano ammessi nei dipinti dell’epoca. Lì nasce il surrealismo puro, con acrobazie di forme ibride e spesso mostruose che si trasformano in gesti astratti e decorativi.

Com’è organizzato il tuo studio? Come elabori i tuoi progetti?

In poco più di due anni ho cambiato studio cinque volte. Perciò il mio studio ha un’organizzazione nomadica, con solo i materiali e gli attrezzi essenziali per il lavoro in corso. Sviluppo i progetti in base al contesto di una mostra o di una commissione, preferisco vedere ogni progetto come un ‘corpo’ dove ogni singola opera è essenziale per creare un superorganismo che verrà visto nell’insieme.

Negli ultimi anni sei tornata spesso in Sicilia e hai realizzato un’opera proprio dedicata al Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis. Puoi raccontarci la genesi e il significato di questo lavoro?

Ciò che adoro di questo capolavoro è l’anonimia dell’artista, il fatto che è stato creato per un luogo specifico nel quale doveva rimanere per sempre e infine la potenza spiazzante nell’approcciare il tema della morte. Abbiamo di fronte la figura della Morte e la strage che crea di fronte alla fragilità di qualsiasi essere umano. Nel mio arazzo ho deciso di nascondere simboli e figure in vari strati sovrapposti. Per esempio, le ossa degli scheletri fatali e le stecche delle frecce si intravedono nelle fessure dalle quali si vede il muro dipinto che entra a far parte del lavoro, pensando alle fessure come presenze fantasmatiche. Poi si intravedono i gesti delle mani dei mortali sparse nella parte bassa e separate dai loro corpi. Oppure l’apparizione sempre ambigua di due scene dove fuoriesce un uovo o del liquido dal corpo umano, pensando al ciclo perpetuo di morte e creazione.

Cosa stai preparando per la mostra? L’idea è quella di giocare con gli elementi ripetitivi di forme antropomorfiche che diventano motivi decorativi, spesso presenti nell’arte islamica. Per il lavoro dal titolo Immortal Eye, ho preso la figura di uno spicchio di luna, un elemento decorativo già presente nel mio lavoro. Le forme, quasi identiche, si ripetono otto volte e si incrociano come l’intarsio stesso. Il nome è un’interpretazione delle parole di Ibn Ḥamdīs nella sua poesia Mano del Destino: “l’occhio mortale, che bagna la sua guancia, scaccia fieramente ansia e dolore”. L’occhio, in quest’opera, è presente nel vuoto creato dalle forme concentriche, ma è anche presente otto volte per ciascuna figura di luna.

BATHING MELUSINE , 2019

62x52cm Courtesy l’artista the artist e GALERIE CHLOE SALGADO

Having begun as a painter, you now work in various media, from performance to installation, from sculpture to tapestry. How are these expressive forms connected and how do you choose which media to use each time?

I have always loved languages and I grew up in several countries. Every language opens a door to a different culture and mentality. If you think about the logic of their structures, their sounds, rhythms and expressions, learning a new language is like wearing a new costume, it increases your empathy for the culture from which it derives. It is like learning a new trick or solving a puzzle. I would consider this my approach to the various media that I use both personally, when I am developing a new technique, and for the public with whom I seek to enter into a system defined by idiosyncratic sensibilities and patterns of thought. I use every expressive form as a portal to enter a space that can only be generated by that medium.

Where do the subjects of your works originate? What are your references?

I have always been attracted by the fragility of things when they clash with physical or emotional forces. I have learned a great deal from contrasting, coexisting conditions: such as the fragility of the body plagued by illnesses and the power that it has to resist, survive or give in; the fragility of dismembered archeological remains, exhumed and recomposed only with the patience and determination of experts; or the way that the human imagination uses stories or creative forms to approach immortality despite the precariousness of life.

There is often an ambiguity between the figurative and the abstract in your works, which can occasionally recall ornamental traditions throughout art history. What interests you in this approach?

I believe I am attracted to the secret symbols integrated into ornamental aesthetics, symbols that only emerge when we

interview by VALENTINA BRUSCHI

linger over the details. For example, grotesques in ancient decorations – and in those from the Renaissance – hide nonsensical, droll or macabre motifs, motifs that were not allowed in paintings of their eras. A pure surrealism was born there, of playfully hybridised and often monstrous forms that change into abstract and decorative gestures.

How is your studio set up? How do you work through your projects?

I have moved studio five times in two years. My studio’s nomadic organisation duly provides only the essential tools and materials for my current work. I develop projects based on the context of an exhibition or a commission. I prefer to see each project as a ‘body’ where every single work within it is essential to creating a superorganism that will be seen as a whole.

You have often returned to Sicily in recent years and in 2018 you created a work dedicated to the Triumph of Death in Palazzo Abatellis. Can you tell us about the origin and meaning of this work?

I adore the anonymity of this masterpiece’s artist, the fact that it was created for a specific place where it had to remain forever and finally its overwhelming power in addressing the theme of death. We are faced with a personification of death and the destruction it wreaks in the face of human frailty. I decided to hide symbols and figures in various overlapping layers of my tapestry. For example, you can glimpse the bones of the murderous skeletons, while arrow shafts are visible in cracks that also reveal the painted wall, which in turn becomes part of the work; the cracks appear as ghostly presences. Then you can make out the gesturing hands of the dead, separated from their bodies and scattered across the bottom. Or there is the consistently ambiguous apparition of the two scenes in which an egg or an indeterminate liquid emerges from a human body; a reflection on the perpetual cycle of death and creation.

What are you preparing for the exhibition?

The idea is to play with decorative motifs derived from repetitive elements of anthropomorphic forms, a frequent feature of Islamic art. For the work entitled Immortal Eye, I took the figure of a crescent moon, a decorative element already present in my work. Near-identical shapes are repeated eight times and intersect like the inlay itself. The name of the work is an interpretation of words of Ibn Ḥamdīs from his poem ‘Hand of Destiny’: ‘The mortal eye, which bathes the cheek, fiercely repels anxiety and pain’. The eye in this work inhabits the void created by the concentric shapes, but it also appears eight more times: once for each moon figure.

Gili Lavy è nota per le sue videoinstallazioni immersive che esplorano la relazione tra luoghi, individui e credenze. Negli anni le sue opere sono state esposte diverse volte in Italia, paese al quale l’artista è profondamente legata per la sua storia di stratificazioni culturali nei secoli. Non è un caso che Gili Lavy prediliga i siti del passato per l’esposizione delle sue opere, proprio perché la sua ricerca spesso mette in discussione l’effetto che il tempo e i rituali hanno sulla creazione e sulla distruzione. Alcune delle tematiche ricorrenti nel lavoro dell’artista sono: l’idea di migrazione come movimento e mutamento costante, la discutibilità dei confini politici e tutto ciò che l’artista definisce come “post-trauma”, ossia quel lasso di tempo che segue un evento drammatico o una catastrofe e di cui l’artista studia le conseguenze, sia nell’ambiente che nelle comunità che lo popolano. Questi temi vengono indagati da punti di vista diversi come, ad esempio, nella videoinstallazione Furlong (2019), dove l’atto di misurare una parte della superficie terrestre (un’operazione strategica e meccanica) si trasforma in una sequenza di veloci scansioni computerizzate del suolo riprese da un satellite: un dispositivo militare per la mappatura dei territori che sfocia in una frenetica ricerca di terra incontaminata, ai limiti dell’immaginario. Un viaggio visivo nel tempo e nello spazio in cui i cambiamenti storici e politici hanno lasciato un segno sulla struttura geologica del nostro pianeta. [V. B.]

Gili Lavy is known for her immersive video installations, which probe the relationship between places, individuals and beliefs. Her works have been widely exhibited in Italy, a country to which the artist is deeply attached, not least for its long history of interweaving cultures. It is no accident that Lavy favours sites steeped in history as locations for her works, as her research often questions the effects of time and ritual on processes of creation and destruction. Some of Lavy’s recurrent themes are the idea of migration as constant movement and mutation, the questioning of political boundaries and what the artist defines as ‘post-trauma’, a period that follows a dramatic event or catastrophe. The artist studies the consequences of these events both in the environment and in the communities that populate it. Lavy explores these themes from different points of view, such as in the video installation Furlong (2019), where the act of measuring a sector of the Earth’s surface – a strategic and mechanical operation – turns into a sequence of brisk computer scans of the ground as seen from a satellite. A military device for browsing through territories results in a frantic search for an untouched, perhaps imaginary land. A visual journey through time and space, in which we find that historical and political changes have left a mark on the geological structure of our planet. [V. B.] pagine

SENZA seguenti next pages

TITOLO UNTITLED,2020-2021

Still da video installazione

Still from video installation

Digital 16:9

Stereo

Lavori con diversi media ma soprattutto con il film e il suono. Com’è nato il tuo interesse intorno a questi linguaggi e puoi raccontarci come si relazionano nella tua ricerca?

Il mio viaggio nel mondo del video e del suono nasce da un background multidisciplinare. Ho studiato e lavorato con diversi linguaggi, dalla scultura al suono, dalla danza all’installazione. Ad un certo punto ho capito che il video per me li racchiude tutti; immagine ferma e in movimento, suono, danza e la collaborazione con altre persone. Oltretutto, credo che il video sia un linguaggio capace di esprimere le idee in senso ampio e in tanti modi diversi. Fare video non smette mai di affascinarmi. Tuttavia non lo considero un linguaggio definitivo, lo esploro come uno strumento di narrazione e come materia fisica, sia che io lavori in pellicola o in digitale. Esploro l’immagine in movimento, le sue sfumature, i colori, le trame, plasmo le mie idee con essa. Un aspetto essenziale nella mia ricerca e nella realizzazione dei miei video è la collaborazione con persone diverse coinvolte nel processo di creazione: ricercatori, scrittori, compositori, musicisti, geologi, oceanografi e artisti con cui si crea un dialogo stimolante senza il quale il processo di realizzazione e il lavoro finale non sarebbero gli stessi.

Come elabori i tuoi progetti?

I miei lavori si sviluppano nell’ambito di ricerche incentrate su alcuni posti specifici, il che significa che viaggio spesso in luoghi diversi e vi trascorro del tempo, esplorando le risorse relative ad una specifica terra o area. Molte volte questo avviene nell’area Mediterranea. Un mio recente progetto, ad esempio, ha riguardato le barriere nel Mar Mediterraneo e quindi ho trascorso alcune settimane accanto alla barriera marittima Gaza/Israele nel Kibbutz Zikim mentre ero residente ad Artport, Tel Aviv. Trascorro anche parecchio tempo a Gerusalemme, dove sono nata e cresciuta, facendo esperienze ed esplorando ulteriormente la terra e la sua storia, accanto a barriere, posti di blocco, territori occupati e zone di tensione politico-militare. Un altro luogo in cui trascorro molto tempo è Palermo, un posto estremamente rilevante per il mio lavoro con molte connessioni e influenze con la mia città natale, identità e radici. Oltre alla localizzazione dei siti, spesso inizio un progetto con un testo scritto, partendo da un pensiero e da lì procedendo nello sviluppo della ricerca. Durante la scrittura del testo, sperimento spesso i materiali, con le proiezioni, la luce, disegnando, leggendo e inseguendo le idee in continuo divenire.

Da qualche anno frequenti regolarmente Palermo ma durante la residenza nomade VIS9 hai visto, per la prima volta, alcuni luoghi dell’isola a te sconosciuti. Di quale esperienza fatta durante la residenza pensi rimarrà traccia nei tuoi lavori futuri?

Per quanto mi riguarda, il viaggio stesso è stato un aspetto incredibile della residenza. Essere in movimento, esplorare costantemente diversi siti, luoghi, temperature, climi: tutto questo insieme ha creato un meraviglioso collage, un viaggio di esperienze e sapori. La Sicilia è una terra che include in sé tanti elementi diversi che attraversarla in questo contesto è stata un’esperienza unica. Ammirare i vigneti, toccare la polvere del vulcano, sentire l’odore della pioggia visitando il sito archeologico di Akrai, tutti questi momenti per me sono stati emozionanti. Il sito dell’azienda Planeta a Castiglione di Sicilia è straordinario, il vigneto lì è come ha descritto Chiara Barzini, “un giardino di sculture”, e ogni vite è così viva e feconda. Trovarsi sul vulcano nel contesto della residenza è stato incredibile, comprese tutte le “gemme nascoste” di cui ci raccontava Vito. Ed infine la serata sull’Etna, la conversazione interessante del geologo alla cantina Sciaranuova è stata splendida. Anche imparare, grazie a lui, come leggere le mappe delle eruzioni vulcaniche è stato affascinante.

Il paesaggio naturale o il contesto architettonico hanno un ruolo molto importante nei tuoi lavori video, puoi raccontarci come?

È vero, entrambi gli elementi sono parte integrante della mia ricerca. Ogni volta ritorno al concetto di terra e alla conoscenza e alle narrazioni che essa racchiude. Spesso esploro le storie dimenticate e gli eventi socio-politici che la terra ricorda e custodisce. Mi interessa studiare come questi eventi vi siano impressi e come possiamo leggerli in essa per cercare di comprenderla meglio. La considero come un antico e vasto archivio di saggezza da esplorare continuamente. Traggo ispirazione dall’indagine geologica e dalle scienze affini, soprattutto in modo olistico, esplorando le sue proprietà spirituali, la sua memoria e la sua entità. Mi concentro sulle reliquie, sugli scorci e le frazioni di tempo, sugli stati posttraumatici nelle transizioni della terra, su ciò che è rimasto, mancante o percepito, su quali narrazioni la terra potrebbe rivelare.

Cosa stai preparando per la mostra? Ho lavorato con il compositore Jacopo Salvatori ad un’installazione sonora dal titolo, Journey XII, che esplora il rapporto tra terra, identità culturale e migrazione. La Sicilia è una terra con una lunga storia di dominazioni e influenze interculturali, con molteplici anime, che raccoglie le grandezze di diverse culture: ellenica, romana, bizantina, ebraica, araba e normanna. Journey XII parla del linguaggio come elemento chiave del rapporto tra identità e migrazione: poiché si adatta ed è plasmato dalle circostanze storiche e culturali, le sue versioni passate e presenti modellano quelle future, e ad esse corrispondono contemporaneamente diverse concezioni del mondo. Il lavoro fa riferimento sia a narrazioni personali e collettive che all’ambiente espositivo che ha subito molteplici trasformazioni sostanziali: residenza nobiliare, monastero, museo. Palazzo Abatellis è uno spazio di transizione, un vascello, contenente molteplici identità mutevoli e talvolta fuse, come l’isola di Sicilia: un enorme archivio di storie. Journey XII, allestita in quella che è stata la cappella del Convento della Pietà a Palazzo Abatellis, è una composizione sonora che riecheggia la precedente vita di questo luogo sacro, attraverso un solenne canto corale. Il brano, cantato in Sabir, la “lingua franca mediterranea”, è un dialogo tra viaggiatori per mare; riporta in vita i suoni parlati a Palermo e in tutto il Mediterraneo, tra l’XI e il XIX secolo. Questa lingua, unicamente orale, era un idioma comune parlato nei porti del Mediterraneo; univa italiano, catalano, spagnolo, portoghese oltre a berbero, turco, francese, greco e arabo. Originaria dell’area del Mediterraneo orientale, veniva utilizzata principalmente per la navigazione, il commercio e la diplomazia; era presente anche tra migranti, rinnegati europei e corsari. La lingua franca, nota anche come “lingua del mare”, emigrò poi in Sicilia e nel Nord Africa, continuando a rappresentare e ad articolare la convivenza e la cooperazione di tante diverse culture e identità nel Mediterraneo e, in particolare, in Sicilia.

You work with different media but especially with film and sound. How did you develop your interest in these specific media and can you tell us about the relationship between them?

My journey into the world of video and sound came from my multidisciplinary background. I have studied and worked in different genres, from sculpture to sound, from dance to installation. At a certain point I realised that video for me in fact consists of everything: moving/still image, sound, dance, collaborating with people, etc. Beyond that, I believe video is a genre that can explore ideas to such vast extent and in so many different ways. Video-making never stops fascinating me. I do not look at it as a final piece, though. I explore it as a tool of storytelling, yet also as a physical material, whether I work through film or digitally. I explore its movement, its shades, colours, textures I sculpt my ideas with it. An essential aspect of my practice and video-making is the collaboration involved in the process of creation. The collaborations with different people – researchers, writers, composers, musicians, geologists, oceanographers and artists – create an incredible dialogue. Without it the process of the making and the piece itself would not be the same.

How do you develop your projects?

My works often evolve within location-based research, which means I often travel to different places and spend time there, researching and exploring resources related to a specific land or area. Often within the Mediterranean. A recent project of mine, for example, concerned barriers in the Mediterranean Sea and so I spent some weeks beside the Gaza/Israel sea barrier in Kibbutz Zikim while on residency at Artport, Tel Aviv. I also spend quite a bit of time in Jerusalem, where I was born and raised, further experiencing and exploring the land and its story, often beside barriers, checkpoints, occupied territories, and centres of tension. Another place where I spend a lot of my time is Palermo, a place extremely relevant to my work, with a lot of connections to and influences on my hometown, identity, and roots. Alongside locating sites, I often start a project with a written text, starting from a specific thought/element and progressing from there into developed research. Throughout the writing of the text, I often explore with materials, with light/projections, sketching, reading and researching ideas, and I keep on discovering from there.

You have visited Palermo regularly over the last few years, but during the nomadic residency you saw various places on the island that were previously unknown to you. Of all your experiences of the residency, which do you think will leave a trace in your future works?

In my view, the journey itself, the voyage, was an incredible aspect of the residency. Being on the move, constantly exploring different sites, locations, temperatures, climates –all of these together created a wonderful collage, a journey of experiences and flavours. Sicily is a land that has so much to it and observing it in this context was a unique experience. The vineyards and being on the land, touching Mount Etna’s dust, smelling the rain while we visited the Akrai archaeological site, for me all of these moments were incredible. Planeta winery’s estate in Castiglione di Sicilia is incredible. The vineyard there is, as Chiara Barzini described it, ‘a garden of sculpture’, and each grapevine was so alive and fruitful. Being on Mount Etna in the context of the residency was incredible including all of Vito’s hidden local gems. It was also amazing speaking to the wonderful geologist later on at the Sciaranuova estate. Learning, through him, how to read the maps of the volcanic eruptions was unforgettable.

Natural landscape and architectural context have a very important role in your video works. Can you tell us more about this?

It’s true, both elements are integral to my practice. Each time I return to the concept of the land and the knowledge and narratives it holds. Often exploring passing histories, forgotten narratives, and socio-political events that the land remembers and holds. How these events are marked on the land and how we can read or understand it better. I treat the land as a vast, ancient archive of wisdom to be continuously explored. I am inspired by geology and Earth sciences – but primarily holistically, exploring the spiritual properties of the earth, its memory and its entity. I focus on the relics, on glimpses and fractions of time, on post-traumatic states, on the land’s transitions; on what is left, missing, or sensed, on what narratives the land might reveal.

What are you preparing for the exhibition?

I created an audio installation with composer Jacopo Salvatori titled, Journey XII, exploring the relationship between land, cultural identity and migration. Sicily is a land with a long history of dominations and cross-cultural influences, with multiple souls combining Hellenic, Roman, Byzantine, Jewish, Arab and Norman grandeur. Journey XII unravels language as a key element of the relationship between identity and migration: as language adapts to, and is simultaneously informed, by historical and cultural circumstances, its past and present versions shape future ones, with consequently newer understandings of the world. The sound installation references Palazzo Abatellis, embodying personal and collective narratives through voices in a setting that has essentially undergone multiple transformations – a residence, a monastery, a museum. Palazzo Abatellis is a transitional space, a vessel containing multiple shifting and sometimes merging identities, like the island of Sicily: an enormous archive of histories. Journey XII, is exhibited in what used to be the chapel of

interview by VALENTINA BRUSCHI

the Convento Della Pietà in Palazzo Abatellis, a sound composition echoing, through its solemn choral singing, the site’s previous life as a sacred place. The piece, sung in Sabir - the ‘Mediterranean Lingua Franca’- aims to bring back to life the sounds spoken in Palermo and more widely in the Mediterranean, between the 11th and the 19th century. This unique language, being exclusively oral, was a common language spoken around the Mediterranean ports and based on Italian, Catalan, Spanish, Portuguese as well as Berber, Turkish, French, Greek and Arabic. It originated in the Eastern Mediterranean area, and was used mainly for sailing, trading, commerce and diplomacy; it was also current among migrants, European renegades and pirates. The language, also known as ‘Lingua Del Mare’ (The Language of the sea) then migrated to Sicily and North Africa, continuing to represent and articulate the co-existence and co-operation of many different cultures and identities in the Mediterranean, and in Sicily in particular.

La formazione di Emiliano Maggi avviene tra l’Accademia di Belle Arti di Roma, il Centro Sperimentale di Cinematografia e la sua famiglia di truccatori, parrucchieri e costumisti per la televisione e per il teatro che lo ha fatto crescere in contatto con la pratica e il gioco del “travestimento”. La sua ricerca artistica si esprime attraverso diversi media, dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla performance, dalla danza alla composizione di suoni ed elementi musicali, con un’attenzione particolare all’antropologia culturale, all’iconografia e alla tradizione del mondo delle fiabe, dei film horror degli anni Settanta, della letteratura erotica e dell’immaginario rurale, dove le rappresentazioni di corpi umani e animali talvolta si uniscono e si fondono senza distinzione di genere. Negli ultimi anni, la ceramica è diventata un linguaggio privilegiato per l’artista, dove l’utilizzo di una finitura lucida accresce la capacità di seduzione delle sue sculture che sembrano vibrare di luce. Spesso i suoi volti hanno fattezze soltanto appena accennate oppure l’artista si riferisce al corpo umano in maniera indiretta, attraverso vestiti o calzature scolpite o dipinte per affermare il valore dell’ambiguità. L’indeterminatezza tra maschile e femminile libera l’immaginazione verso una realtà anticonformista, più libera e plurale. [V. B.]

Introduction

Emiliano Maggi received his education at the Academy of Fine Arts of Rome, at the Experimental Centre of Cinematography and with his family of makeup artists, hairstylists and costume designers for television and theatre. He was raised in constant contact with the technique and the game of ‘dressing up’. His practice embraces different media, from painting to sculpture, from photography to performance, from dance to musical compositions and sound art. He pays special attention to cultural anthropology, iconography and storytelling traditions, as well as 1970s horror films, erotic literature and rural images, where representations of animal and human bodies occasionally merge into a unity devoid of any gender distinction. Ceramics having become the artist’s preferred medium in recent years, the use of a gloss finish heightens his sculptures’ seductiveness; they seem to vibrate with light. Often his faces have boasted only hints of features or the artist has referred to the human body indirectly, such as through clothing or shoes sculpted or painted to emphasise their ambiguity. This refusal to distinguish between male and female liberates the imagination towards a freer, more pluralistic, non-conformist reality. [V. B.]

Lavori con diversi media, dalla scultura all’installazione, dalla musica alla pittura, ma la ceramica e la performance sembrano essere elementi imprescindibili della tua ricerca. Come hai sviluppato la tua ricerca utilizzando questi due linguaggi e come sono collegati tra di loro?

Nella ceramica e nella performance il corpo è sempre attivo, c’è una forte fisicità. La gestualità per lo scultore è fondamentale, si inizia con una massa morbida e malleabile per poi tagliarla, graffiarla e violentarla, si lotta con un materiale antico e sacro, è una danza molto vicina a quella presente nelle performance, accompagnata da composizioni musicali e coreografie, qui il corpo viene messo alla prova per scoprire i suoi limiti e i suoi infiniti poteri.

Nel tuo lavoro è stato spesso sottolineato sia il riferimento alla cultura contadina che alla natura ancestrale e all’estetica dei film horror degli anni Settanta. Da dove nascono questi interessi e come s’intrecciano con la tua ricerca artistica? Nella cultura contadina vedo chiaramente un mondo semplice e innocente così come nella natura, luoghi fondamentali per trovare ispirazione, nuove energie e rifugio. Osservare il mondo animale e vegetale. I mondi fantastici e il cinema horror e fantasy mi tengono legato all’idea di non crescere e di mantenere uno spirito senza età nel mio lavoro e non solo.

Un altro elemento molto importante nella tua ricerca è legato alla musica e al folklore che ti ha portato a fondare il gruppo sperimentale Salò, in omaggio a Pier Paolo Pasolini. Puoi raccontarci della genesi di questo progetto e che sviluppi ha rispetto alla tua ricerca personale?

La musica è sempre presente nel mio lavoro in un modo o nell’altro, con altri componenti o semplicemente da sola, ha sempre avuto un ruolo fondamentale ed è una colonna sonora per ogni opera e ricerca affrontata. In questo momento con Salò stiamo percorrendo un viaggio, una serie di racconti ispirati sempre da mondi nascosti e scomodi. Pasolini è forte come presenza e come segno, siamo stati colpiti anche dal suono della parola “Salò” e ce ne siamo appropriati per portarla in altri mondi e reinventarla.

Com’è organizzato il tuo studio? Come elabori i tuoi progetti?

Lo studio ha una parte dove si muovono le sculture e i suoi materiali e strumenti; una grande parete utilizzata per la pittura e al centro e tutto intorno sono presenti strumenti musicali e manichini con costumi in trasformazione.

Negli ultimi 5 anni sei tornato spesso a Palermo per diverse collaborazioni ma durante la residenza hai visitato luoghi meno conosciuti. C’è un luogo o un paesaggio che ti ha colpito di più?

Senza dubbio la passeggiata sull’Etna è stata un’esperienza forte, così come la visita nella casa museo dell’etnomusicologo Antonino Uccello dove sono conservati oggetti e testimonianze di valore assoluto.

Cosa stai preparando per la mostra?

Tre brocche in ceramica e bronzo che personificano alcuni versi tratti dalle poesie del canzoniere di al-Ballanūbī, poeta arabo emigrato in Egitto proveniente da una famiglia di origini siciliane. Le tre sculture raffigurano il poeta.

You work in different media, from sculpture to installation, from music to painting, but ceramics and performance seem to be constant elements in your art. How did you develop your practice using these two media, and how are they interconnected?

The body is always active in ceramics and performance, there is great physicality. Sculptors’ gestures are fundamental: they start with a soft, malleable mass, then cut, scratch and ravage it; they battle with an ancient, sacred material. This dance is much like that of performance, accompanied by musical compositions and choreographies, which puts the body to the test and discovers its limits and its infinite powers.

References to both rural farming culture and primordial nature are often emphasised in your work, as are the aesthetics of 1970s horror films. Where do these interests come from, and how do they intertwine in your practice?

I see a simple, innocent world in farming cultures, much like nature. They are fundamental places for finding inspiration, energy and refuge, places to observe the animal and vegetable worlds. The worlds of fantasy and horror movies keep me connected to the idea of not growing up and maintaining an ageless spirit, both in my work and elsewhere.

Another quite important element in your practice is linked to music and folklore. This has led you to establish the experimental group Salò, in homage to Pier Paolo Pasolini. Can you tell us about the genesis of this project, and how its development relates to your individual work?

Music is always present in my work one way or another, with other components or just alone. It has always had a fundamental role and has been a soundtrack to each work I attempt. Right now I am on a voyage with Salò, a series of stories all inspired by uneasy, hidden worlds. Pasolini is a powerful presence and a signifier; we were also struck by the sound of the word ‘Salò’. We appropriated it so that we could take it to other worlds and reinvent it.

How is your studio organised? How do you work through your projects?

The studio has one area where sculptures move around, along with my tools and materials; I use one big wall for painting, while the centre is surrounded with musical instruments and costumed mannequins undergoing transformation.

You have visited Palermo for several collaborations over the last five years, but during your residence you visited less wellknown places. Is there a place or landscape that struck you in particular?

The Etna walk was unquestionably a powerful experience, as was the visit to the house-museum of the ethnomusicologist Antonino Uccello, which preserves objects and historical memories of immense value.

What are you preparing for the exhibition?

Three ceramic and bronze pitchers that personify specific verses from poems in the songbook of alBallanūbī, a Sicilian-born Arabic poet who later emigrated to Egypt. The three sculptures portray the poet.

Il lavoro di Diego Miguel Mirabella è focalizzato sulla poesia, il linguaggio e il tentativo di tradurre questi in opere visive. Una naturale irrequietezza lo porta a realizzare un eterogeneo corpo di lavori che organizza in diversi progetti. In molti dei suoi lavori Mirabella si appropria di immaginari e pratiche artigianali altrui nel tentativo di far scaturire, dall’incontro con altre culture, un’indagine sul confine della comunicazione e dello scambio tra sé e “l’altro” (l’artigiano, la cultura altrui), creando lavori nutriti da questo contrasto. Affascinato dalla tecnica ornamentale del mosaico marocchino, nel 2017 inizia il progetto “But me” che lo porta a lavorare con artigiani locali a Fès, in Marocco: “Consegno frasi, parole e segni ad artigiani locali che li scolpiscono all’interno della decorazione islamica. Trasformato in arte, il linguaggio diventa un ornamento”. Infatti, anche la poesia, il teatro, la letteratura e gli elementi della costruzione teatrale hanno un’influenza diretta sul lavoro del giovane artista e si evidenziano nell’inserimento di testi all’interno delle sue opere. [V.B.]

Introduction

Diego Miguel Mirabella’s work focuses on poetry and language, which the artist attempts to translate into visual works. A natural restlessness leads him to create a wide-ranging body of work, which he divides between different projects. In many of his works, Mirabella employs other artisans’ techniques and visual repertoires, attempting to investigate the boundaries of communication and exchange between himself and the ‘other’ in the form of international artisans and cultures. He creates works that depend on the discrepancies arising from this contrast. Fascinated by the ornamental technique of Moroccan mosaic, he began the ‘But Me’ project in 2017, which led him to collaborate with local artisans in Fez, Morocco. ‘I give local artisans phrases, words, and marks that they sculpt into Islamic decoration. Transformed into art, language thus becomes ornament.’ Indeed, dramatic and prose literature, poetry and the elements of theatre production directly influence the young artist’s work, influences accentuated by the integration of texts into his pieces. [V.B.]

Lavori con diversi media, dal video alla scultura al disegno e spesso collabori con degli artigiani per realizzare le tue opere. Come si sviluppano questi lavori e le collaborazioni per realizzarli?

Penso di lavorare con ciò che serve e considero un progetto avvincente quando mi stimola a raccontarlo in modi diversi, anche con diversi media. Non lavoro con tutti gli artigiani (anche un fabbro è un artigiano), ma tendo a cercare i depositari di quelle che comunemente sono chiamate “arti secondarie”, prediligendo pratiche che impegnano molto tempo e pazienza. Tutte qualità in contrasto con il mio temperamento.

I lavori delegati ad artigiani, che siano i mosaici, intagli su legno o pitture ad inchiostro, sono figli di queste premesse. Il mio compito è quello di adattare ai miei pensieri le peculiarità delle pratiche che incontro, insieme ai singoli artigiani.

Hai vissuto in diverse città, da Londra a Bruxelles e viaggi spesso per produrre i tuoi lavori, soprattutto in Marocco. Come si collega il tema del viaggio alla tua ricerca? Com’è nato questo tuo legame con il Marocco e la serie di lavori con i mosaici?

I miei stimoli sono narrativi e legati alla poesia, la mia vocazione visiva, la mia natura inquieta: ho molti dubbi. Nel ragionamento logico alimento i miei indugi con semplici contrasti, ma l’irrazionale e il sentimento necessitano anche forti conflitti. L’esotico è il conflitto e il viaggio il mio modo per perdermi in esso. Questo ha comportato anche tanti traslochi, mai troppi, ma molti.

In Marocco sono andato per motivi diversi dal lavoro scegliendo come meta Fès, la capitale dell’artigianato del paese. Sono capitolato in brevissimo tempo di fronte al fascino per il mosaico marocchino (zellige beldì), ho affidato ad un artigiano locale – che ormai considero un caro amico – disegni e frasi che lui ha incastonato nelle trame del pattern marocchino stravolto, quando possibile, dai canoni islamici, giocando con le sue trame. Le frasi sempre presenti nelle mie zellige sono una forma di scrittura minima che spero sempre si comporti come un’immagine.

Com’è organizzato il tuo studio? Come elabori i tuoi progetti?

Ho una pratica da studio disordinata. Per tornare alla tua prima domanda, quanto più mi stimola un progetto tanto più ho desiderio di estenderlo, stirarlo, decorarlo. La mia poca costanza mi fa saltare da un disegno all’altro, impugnare la stecca per la creta, scrivere alcune frasi, ma piano piano tutto trova il suo posto.

Uno dei miei lavori, che considero molto bene, ha un titolo che penso possa rispondere alla tua ultima domanda: Decorato, decoroso, distratto

Com’è nato il tuo interesse intorno al tema del decoro e dell’ornamento? La scrittura è inserita nel tuo lavoro come decoro, come la tua firma?

Appunto Decorato, decoroso, distratto mi è sembrato quasi un manifesto. Nella pratica viaggio alla ricerca di due cose: l’artigianato e le arti decorative. Il decoroso e la distrazione invece sono due attitudini delle quali, forse, ho parlato fino ad adesso.

Il decoro (struttura grammaticale) e l’ornamento (l’applicazione della lingua) raccontano una storia di per sé, un’odissea culturale che io voglio intercettare con racconti e segni a me familiari, ad esempio la firma che è un’intrusione di autorialità quanto un pretesto per narrarmi, perso decoro tra gli ornamenti.

Sei nato in Sicilia e negli ultimi due anni hai avuto uno studio a Palermo ma durante la residenza nomade Viaggio in Sicilia hai visto, per la prima volta, alcuni luoghi dell’isola a te sconosciuti. Di quale esperienza fatta durante la residenza – un paesaggio, luogo, opera d’arte – pensi rimarrà traccia nei tuoi lavori futuri? Ho visto delle cose per me nuove che mi hanno stupefatto, ma anche rivisto luoghi da punti di vista mai esplorati. Sarò sincero, non saprei darti una risposta certa eppure posso dirti che ho il sospetto che non scorderò facilmente alcune persone che riflettono una caratteristica molto particolare dell’isola e degli isolani: una testardaggine che oserei definire romantica (per non semplificare e riassumere dicendo: la radicalità).

È stato un viaggio molto intenso.

Cosa stai preparando per la mostra? Sto lavorando a stretto contatto con il Marocco, riguardando lavori vecchi, sperimentando nuove trame.

You work with different media, from video to sculpture to drawing, and you often collaborate with artisans to create your work. How do you develop these works and the collaborations that create them?

I think I work with what I need. I recognize a winning project in proportion to the different narrative strategies that it inspires, including different media. I do not work with every kind of artisan (a builder is an artisan too), but I tend to search for the custodians of those crafts that are commonly called ‘decorative arts.’ I prefer techniques that require a lot of time and patience, all of which contrast with my temperament. The work that I delegate to artisans, be it mosaic, woodcarving or ink painting, is the offspring of these principles. My task is to apply my thoughts to the particularities of the techniques that I encounter, with the help of their individual artisans.

You have lived in various cities, from London to Brussels, and you often travel to produce your work, especially to Morocco. How does the theme of travel connect with your art? How did this connection with Morocco and your series of mosaics come about? My stimuli are narrative and they are linked to poetry. My calling is visual and my nature is unsettled: I have many doubts. On a logical, rational level, I feed my hesitations with simple contrasts, although irrationality and sentiment also make harsher conflicts inevitable. Exoticism provides the contrast, and travelling is my way of losing myself in it. This has entailed frequent relocations, never too many, but many. I went to Morocco for other reasons unrelated to work, but when I chose Fez, the national capital of decorative arts, I very quickly surrendered to the glamour of Moroccan mosaics (zellige beldi). I gave a local artisan, whom I now consider a dear friend, drawings and phrases that he set into the framework of the Moroccan patterns. These he distorted beyond Islamic canons wherever possible, playing with their motifs. The phrases, always present in my zellige, are a form of minimalist writing that that I hope will function as an image.

interview by VALENTINA BRUSCHI

How is your studio organised? How do you work through your projects?

I have a messy studio practice. To return to your first question, the more a project stimulates me, the more I want to extend it, draw it out, decorate it. My lack of constancy leads me to jump from one drawing to another, grab a stylus for clay or write some phrases, but little by little, everything finds its place. One of my works, which I consider highly, has a title that I think might answer your second question: Decorated, Decorous, Distracted

How did your interest in the theme of decoration and ornamentation come about? Is the writing inserted in your work as a form of decoration, as is your distinctive signature?

Exactly: Decorated, Decorous, Distracted seemed to me almost like a manifesto. In practice, I travel looking for two things: the handiwork of artisans and the decorative arts. Decorum and distraction, however, are two attitudes that perhaps I have consistently addressed. Decorum (grammatical structure) and ornamentation (application of language) tell a story in themselves, a cultural odyssey that I want to intercept with the stories and signs that are significant to me. An example of this is my signature, which I see as an intrusion of authorship as much as an excuse to narrate myself, lost among the ornaments.

You were born in Sicily and you have had a studio in Palermo for the last two years. During the nomadic residency of Viaggio in Sicilia, you nonetheless discovered various places on the island that you had not known before. Which experiences from your residency – a landscape, a place, a work of art – do you think will leave traces in your future works?

I saw some new things that stupefied me and I revisited familiar places from unexplored viewpoints. I can’t give you an exact answer, to be honest, and yet I can tell you that I suspect I will not easily forget some of the people I encountered, who reflect a very particular characteristic of this island and its people: a stubbornness that I would dare call romantic (so as not to oversimplify and summarise it in terms of radicality).

What are you preparing for the exhibition?

I am working in close contact with Morocco, looking at old works again and experimenting with new motifs.

interview by VALENTINA BRUSCHI

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BAD THOUGHTS - FEZ , 2022

37x22 cm ( con base with pedestal 29x144 cm)

Ceramica Ceramic Courtesy l’artista the artist and Studio SALES di Norberto Ruggeri

BAD THOUGHTS - GENNY GENNY GENNY, 2020

30cmx20 cm ( con base with pedestal 29x144cm)

Ceramica Ceramic Courtesy collezione privata private collection in Rome

Bea Bonafini (Bonn, Germany, 1990)

Vive e lavora a Londra | Lives and works in London

Mostre personali | Solo shows:

A Monstrous Fruit, 2022, Setareh Gallery, Berlin, Germany

Luna piena stomaco vuoto, 2021, Renata Fabbri, Milan, Italy

Onde gemelle, 2020, Operativa Arte, Rome, Italy

Mostre collettive | Group shows:

Upon a time, 2022, Galleria Eduardo Secci, Florence, Italy

June mostra, 2021, The British School at Rome, Rome, Italy

Waves Between Us, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Palazzo Re Rebaudengo, Guarene, Italy

Bibliografia | Bibliography

E. Angiolini, Corpo, ceramica e performance. Intervista a Bea Bonafini, Artribune, 27 January 2022

J. Ambrose, In the studio with Bea Bonafini, Emergent magazine, 13 September 2019

E. Bordignon, I corpi in caduta di Bea Bonafini, ATP Diary, 30 November 2018

Matteo Buonomo (Monza (MI), Italy, 1991)

Vive e lavora tra la Sicilia e Milano, Italia | Lives and works between Sicily and Milan, Italy.

Mostre collettive | Group Shows:

Italia 90, 2021, Condominio XYZ, Milano

Finalista Premio Marco Pesaresi Award, 2021, Savignano sul Rubicone (FC)

PhotoVogue Festival, 2022, BASE, Milano

Bibliografia | Bibliography

K. Høltermand, Story 59: Matteo Buonomo, Nowhere Diary, 17 marzo 2021

C. Fuggetti, The Land That Sleeps, la Siberia di Matteo Buonomo, Collateral, 2019

A. Margiaria, L’America come davvero non l’hai mai vista, iD Italia, 5 aprile 2019

Le immagini di Matteo Buonomo sono state pubblicate su riviste di arte, moda, attualità con le quali collabora regolarmente Matteo Buonomo’s images have been published on art, fashion and news magazines, with which he collaborates regularly

Gili Lavy (Jerusalem, Israel, 1987)

Vive e lavora a Londra e a Palermo | Lives and works in London and Palermo

Mostre personali | Solo shows:

Common lakes, Ocean-Archive, TBA21-Academy/Ocean Space, 2022, Venice, Italy

Intermezzo, Fondazione Sicilia, Villa Zito, 2019, Palermo, Italy

Intangible Spaces, Fieldworks Gallery, 2018, London, UK

Mostre collettive | Group shows:

PAW. Palermo Art Weekend, Eglise, 2021, Palermo, Italy

Talent Prize 2020. 13a Edizione, 2020, Museo Pietro Canonica, Rome, Italy

ELIA Academy, Stuttgart State Academy of Art and Design, 2019, Stuttgart, Germany

Bibliografia | Bibliography

V. Bruschi, Gili Lavy - On the Borders of Reality, Klat Magazine, March 6th 2020

AA. VV., NEU NOW Festival - Stuttgart, 2019, published by ELIA - European League of Institutes of the Arts, Amsterdam, The Netherlands

L. Kim, Digital Body: New Media Art, 2018, published by CICA Press, Gimpo, South Korea

BIOGRAPHIES & BIBLIOGRAPHIES

Emiliano Maggi (Rome, Italy, 1977)

Vive e lavora a Roma | Lives and works in Rome

Mostre personali | Solo shows:

Venus Anadyomene, 2021, Hypermaremma, Scansano, Italy

La Notte Piu Profonda, 2021, Operativa Arte, Rome, Italy

Los Amigos de Espejo (double solo show with Emanuel Grondona), 2020, Galeria Revolver, Buenos Aires – Argentina

Mostre collettive | Group shows:

Casa Balla, dalla casa all’universo e ritorno, 2021, Fondazione MAXXI, Rome, Italy

Ils bougent la nuit, 2021, Bruises Gallery, Montreal, Canada

Simone Carella, Io Poeta Tu, MACRO Museum, Rome, Italy

Bibliografia | Bibliography

I.Biolchini, Gli artisti e la ceramica. Intervista a Emiliano Maggi, Artribune, 30 giugno 2019

V. Muzi, Emiliano Maggi, THE CLUB | Nomas Foundation, Exibart, 12 settembre 2019

M. Gatti, Emiliano Maggi – The Club, Formeuniche, 13 settembre 2019

Diego Miguel Mirabella (Enna, Italy, 1988)

Vive e lavora a Roma, Italia | Lives and works in Rome, Italy

Mostre personali | Solo shows:

Decorato decoroso distratto, 2021, Studio Sales di Norberto Ruggeri, Rome, Italy

La bocca arsa, 2018, l’Ascensore, Palermo, Italy

Pendant la nuit, 2018, Rue petite boucher, Bruxelles, Belgium

Mostre collettive | Group shows:

Materia Nova, 2021, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Rome, Italy

One Clover and a Bee and Revery, 2021, Moonens foundation, Bruxelles, Belgium

Talent Prize, 2020, Museo Pietro Canonica, Rome, Italy

Bibliografia | Bibliography

S. d’Ippolito, Decorato decoroso distratto, Inside art n° 120, 2020 pp 38 – 43

D. Bigi, Diego Miguel Mirabella, Le regard, le pli, in Arte e critica, n° 75-76, 2013, pp. 82-83

C. Crialesi, Diego Miguel Mirabella, in Inside Art, n° 101-102, 2014, pp. 24-28

MOSTRA | EXHIBITION

VIAGGIO IN SICILIA nona edizione | ninth edition Coppe di stelle nel cerchio del sole Chalices of Stars Within the Sun’s Circle dal 22 maggio al 17 luglio 2022 from 22 nd of May to 17 th of July 2022

Galleria Regionale della Sicilia - Palazzo Abatellis

A cura di | Curated by Valentina Bruschi

Sezione storica a cura di | Historical section curated by Evelina De Castro

Artisti | Artists

Bea Bonafini

Gili Lavy

Emiliano Maggi

Diego Miguel Mirabella

Fotografie | Photographs

Matteo Buonomo

Archivio Fotografico della Galleria Regionale della Sicilia Palazzo Abatellis

Testi | Texts

Chiara Barzini

Ideazione e produzione | Concept and production

Planeta

Con | With

Assessorato Regionale Beni Culturali e Identità Siciliana Dipartimento Beni Culturali e Identità Siciliana Galleria Regionale della Sicilia Palazzo Abatellis

Coordinamento del progetto | Project coordination

Vito Planeta

Marketing Planeta

Alessandra Rinaldi

Comunicazione visiva | Visual design

Beit Studio

Progetto di allestimento | Exhibition design

Valentina Miceli e Ignazio Mortellaro - Beit Studio

Restauri | Restorations

Giuseppe Mercurio

Laboratorio di restauro della Galleria Regionale della

Sicilia Palazzo Abatellis

Allestimenti | Set-up

Giuseppe Di Carlo

Falegnameria | Carpentry

Salvo Nicosia

Illuminazione | Lighting

Enzo Buscemi

Service Audio | Audio service

Sonos Produzioni

Allestimenti grafici e teli | Outfitting exhibition

Visiva marketing tools srl

Logistica | Logistics

Calogero Lucido

Ufficio stampa| Press Office

Sofia Li Pira

Assicurazioni | Insurance Generali

CATALOGO | CATALOGUE

A cura di | Edited by

Valentina Bruschi

Progetto grafico | Design

Ignazio Mortellaro - Beit Studio

Testi | Texts

Chiara Barzini

Valentina Bruschi

Evelina De Castro

Benedetta Fasone

Vito Planeta

Valeria Sola

Revisione testi scientifici | Scientific texts edit

Benedetta Fasone

Fotografia | Photography

Matteo Buonomo

Maria Lo Meo - Beit Studio

Documentazione mostra | Installation views

Filippo M. Nicoletti

Traduzioni | Translations

John Edmonds

Dominic McElwee

Sara Verdecchia

Stampa | Print

Officine Grafiche

Galleria Regionale Della Sicilia Palazzo Abatellis

Direttore | Director

Evelina De Castro

Responsabile unità operativa 2 - Palazzo Mirto

Maria Rosa Panzica

Segreteria di Direzione | Directorate Secretariat

Salvatore Pagano

Attività tecnico scientifica | Technical-scientific activities

Benedetta Fasone

Valeria Sola

Ufficio tecnico | Technical office

Francesco Orecchio

Laboratorio di restauro | Restoration laboratory

Eliana Andriolo

Arabella Bombace

Stefania Caramanna

Bianca Pastena

Marcella Glorioso

Concetta Greco

Antonella Leto

URP | Front office

Valeria Gerbasi

Ringraziamenti | Acknowledgements

Annibale e Marida Berlingeri - Palazzo Mazzarino, Marco e Gaia Sorgi - Villa Chiaramonte Bordonaro ai Colli, Massimo e Francesca Valsecchi, Claudio GulliPalazzo Butera, Alkinois Project Space - Atene, Galleria

Eduardo Secci - Firenze, Galleria Mazzoli - Modena, Studio Sales di Norberto Ruggeri - Roma, Maurizio Caggeggi, Elena Carlino, Giuseppe Chiovetta, Damiano Colosimo, Flavio D’Ambra, Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Robert Jack, Michael F. Lo Bianco, Palmiro Mannino, Giovanni Mazzola, Don Antonio Pietro Ruggiero, Jacopo Salvatori, Stella Sideli, Omer Meir Wellber

Infine, si ringrazia tutto il personale della Galleria Regionale della Sicilia - Palazzo Abatellis per l’attiva partecipazione all’iniziativa

Finally, we would like to thank all the staff of the Galleria Regionale della Sicilia - Palazzo Abatellis for their active support in the project

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