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Introduzione di Antonella Greco

Cos’è un iceberg? Una concrezione di ghiaccio, specchiante, abbagliante, con i colori che trascorrono a seconda delle ore e del colore del mare. A volte si sciolgono e allora disvelano oggetti singolari, rimasti prigionieri nelle sue spire. Navi. Balene. Uomini persino. Montagne galleggianti e libere a volte minacciose. È incatenata all’iceberg la leggenda della nave inaffondabile, di quel Titanic che si inabissava nel viaggio inaugurale, simbolo della h´ybris tecnologica del xix secolo e della falsa sicurezza del secolo breve. Come quel secolo, il Titanic si inabissava portando con sé disuguaglianze, affetti, ricchezze immense, povertà inimmaginabili.

Altre volte l’iceberg, così impenetrabile ma anche fragile nella sua evanescente durezza, affascina come il cristallo. Diventa un simbolo, montagna innaturale nella sua naturalità, cangiante ed impenetrabile, sfuggente ma immanente. In tutti i casi una proiezione di chi lo guarda che ne coglie i molteplici effetti, estetici e psicologici. Duro come un iceberg si dice di qualcuno che non comunica di sé che aspetti fantasmatici e fuggevoli. In tutti i casi imprendibili. A New York, camminando dalla parte di Chelsea sulla High Lane (il museo all’aria aperta che percorre il tragitto della metropolitana sopraelevata dove le opere sono la città) si erge una architettura di vetro lattiginoso di Frank Gehry simile a un iceberg che attrae e respinge nello stesso tempo. Perché è incongruo, surreale. Appartiene al mondo naturale, è un reperto sfuggito al controllo che si è arenato ai margini della città. Dove la metropoli, l’antica Manhatta del film di Paul Strand e del pittore Charles Sheeler (1921) è un trionfo di macchinari e fumi e gru che disegnano lo spazio nel cielo e scavano le rocce sulla terra. L’iceberg è un ossimoro di cui conosciamo solamente uno dei termini. Montagna che galleggia sull’acqua dell’oceano, specchio che si scioglie, schermo sul quale si proietta la luce e che a sua volta la restituisce centuplicata, frazionata, iridescente.

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È un fatto che l’incontro con l’iceberg nell’arte e nella letteratura suggerisca spesso una nuvola minacciosa, rappresenti l’essenza

Introduzione

8 stessa del pericolo e della sua imprevedibilità. L’incontro con l’iceberg è incoronato di maledettismo.

Il Gordon Pym (Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket) di Edgar A. Poe, di settant’anni precedente il racconto di Salgàri, è avvolto da un’aura misteriosa e romantica, romanzo di formazione che culmina con la morte del protagonista nell’oceano antartico. Morte misteriosissima, enfatizzata dal finto non finito del romanzo. Così La sfinge dei Ghiacci di Jules Verne che pretende di esserne il seguito, dove l’impatto con l’iceberg determina lo svolgersi obbligato del romanzo. E infine, con una coincidenza tutt’altro che rara nella storia, Futility di Morgan Andrew Robertson, che addirittura prevede, nel 1898, la catastrofe del Titanic quattordici anni dopo. In ognuno di questi romanzi l’iceberg rappresenta il pericolo incombente, la variabile impazzita. Il lato oscuro di una natura altrimenti addomesticabile e soprattutto, per ciò che riguarda il Titanic, la perdita dell’innocenza.

Il romanzo di Salgàri di cui si parla riflette invece ancora tutta la fiducia nello scientismo ottocentesco, la forza della preparazione, l’oggettività della tecnica e del progetto, la precisione del comando e della risposta possibile dell’avventura. «Excelsior!» aveva gridato il gran ballo per il nuovo secolo nella vittoria della tecnica sulla natura. E nel romanzo salgariano si allude a Torino come a quella città moderna che sarà nell’esposizione universale del 1911.

Dovessimo definire il pittore dei ghiacci, come Turner è quello delle tempeste e Vermeer di Delft quello più amato da uno dei personaggi di Proust, diremmo che l’aura romantica e catastrofica appartiene a Caspar David Friedrich, i cui iceberg paurosi e immanenti, frastagliati come colossali rovine parlano appunto di una natura da contemplare ma con la quale sia meglio non avere l’ardire di confrontarsi. Poche eccezioni rimangono a questo che è uno dei tòpoi della pittura occidentale.

Gli iceberg dipinti da Màlgari Onnis, che qui illustrano il romanzo di Salgàri, sono invece catartici e sereni, monumentali ma non

minacciosi, dominabili e dipinti con la curiosità nei confronti della forma come la pittrice – famosa ritrattista – cerca di cogliere, nelle figure che dipinge, quel quid che le rende umane e accettabili. Anche gli iceberg possono essere assimilabili a una galleria di ritratti, un elenco di fantasmagorie che l’autrice registra con pacatezza, quale è nel suo carattere, ma con la curiosità di chi ricerca forma e colore di queste montagne di luce, senza farsi tremare i polsi, senza subirne la pericolosa perfidia, ma anzi accarezzandone le superfici. Ne deriva uno sbalorditivo catalogo di pezzi unici, diversi dalla pittura di paesaggio, perché inaudito e diverso il materiale di quei particolari paesaggi che si illuminano nelle più strane iridescenze. Materia di ghiaccio unica e sorprendente che svaria con l’incontro con la luce, che cambia di forma e si mostra qual è, mutevole e cangiante, monumentale e imprendibile, pronta a sfuggire a scivolare via a negarsi alla vista e all’individuazione. Ma in tutti i casi collaborativa e pacifica. La stessa autrice parla di queste concrezioni dell’assurdo come amici e complici, vettori di serenità e di meraviglia. Ed è così che li dipinge, senza indulgere ad alcun effetto speciale teso ad esalarne l’effetto simbolico. Amante della montagna, l’autrice ritrova una natura “alpina” in quelle punte scabrose pronte a trasformarsi davanti a noi, montagne precarie in millenaria mutazione, deserti popolati di orsi bianchi, quelli di cui si parla nel racconto di Salgàri che l’iceberg sgrulla via su una nave come molesti parassiti.

Placidamente gli iceberg di Màlgari pascolano sulle acque come una colossale mandria tranquilla pronta però a scatenarsi, in un pericoloso turbinio, come nella mano del destino che affonda il transatlantico più inaffondabile del mondo. Per concretizzarsi, all’alba del giorno dopo, nelle magnifiche montagne di luce che la pittrice ci descrive ancora, con serenità e compiutezza.

Antonella Greco

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