Prologo
«Balia, credo di aver caricato tutto. Se cavalco di buona lena in pochi giorni dovrei essere a destinazione; dovrei arrivarne qualcuno in anticipo sul mio compleanno», gridai, mentre, sistemando le briglie del cavallo, mi giravo verso l’ingresso della nostra abitazione. «Oh no, ti prego, non fare quella faccia». La mia balia se ne restava sull’uscio con gli occhi rossi e le guance inondate di lacrime, stropicciando e mordicchiando convulsamente un fazzolettino di stoffa. Mi stringeva il cuore vederla in quello stato. Avrei voluto ci fossimo salutate con il sorriso sulle labbra. Avrei voluto che il suo ultimo ricordo di me fosse di una ragazza forte e coraggiosa. Invece la sua disperazione mi stava contagiando e iniziavo già a sentire le lacrime che mi pizzicavano gli angoli degli occhi, preannunciando la loro fuoriuscita imminente. Maledizione, non volevo farle vedere quanto in verità fossi spaventata. «Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato». La presi per le mani, sottraendo il fazzoletto alla tortura dei suo denti. «È la cosa giusta». «Vorrei che ci fosse un’altra soluzione», farfugliò tra i singhiozzi. «Lo so», dissi. ‘Lo vorrei tanto anch’io’, pensai. L’avvolsi forte tra le braccia. Era l’unica madre che avessi mai conosciuto. Quella vera era morta quando avevo poco più di un anno e non avevo alcun ricordo di lei. La balia mi aveva cresciuta come fossi figlia sua. Sempre insieme e ora la stavo lasciando sola. Ci separammo e ci guardammo sorridendoci. Almeno io sorridevo, lei fece quello che interpretai come un sorriso, ma pareva più una terribile smorfia. Mi diressi verso il mio cavallo e, dopo una breve carezza al muso della giumenta, con un balzo saltai in sella. Tenendo strette le redini tra le mani, indirizzai la puledra verso la stradina in terra battuta che passava adiacente la nostra abitazione. Mi girai un’ultima volta verso l’unica persona che avesse rappresentato per me una famiglia e che ora pareva un fiume in piena da tante erano le lacrime che non riusciva a trattenere, ma non dissi niente, non c’erano più parole, ci eravamo già dette tutto e gli occhi avevano compensato quello che le bocche non avevano avuto il coraggio di proferire. Con un ultimo sorriso la salutai, poi, con un colpo delle gambe e uno schiocco della lingua, incitai la cavalla al galoppo e partimmo per il viaggio, la cui fine, avrebbe decretato il termine anche della mia vita.
Quasi diciassette anni prima
La pioggia scrosciava, bagnando le vetrate delle finestre. Sembrava che il cielo stesse piangendo per il sangue che si stava versando in quella inutile guerra o forse desiderava cancellarne la presenza, lavandolo via dal terreno, come se i corpi di quelli che stavano cadendo sotto le lame nemiche non fossero già da soli sufficienti a evidenziare tutto l’orrore. La regina pensava a questo, mentre nella stanza della piccola locanda guardava il principe di soli sei anni addormentato sul grande letto matrimoniale. Gli accarezzò il capo e lui si mosse leggermente nel sonno. Il re, suo marito, aveva mandato lei e il bambino lì in incognito perché fossero al sicuro, lontani da possibili spie e infiltrati che potevano celarsi all’interno del palazzo reale, prima di partire alla volta del regno confinante, che aveva deciso di invadere con la sua armata. Da qualche mese il carattere del sovrano era peggiorato. Era sempre stato iroso e prepotente, ma negli ultimi tempi questi tratti del suo carattere si erano acuiti, accentuati dall’invidia che provava nei confronti del regnante del reame limitrofo, sfociando anche in una paranoia continua circa la loro sicurezza e la necessità di attaccare il rivale, mettendo a ferro e fuoco il suo castello, prima che fosse lui a colpire il loro. I due re non erano mai andati d’accordo e più volte si erano incontrati in battaglia, piccole scaramucce che si concludevano sempre con qualche morto. Tuttavia, nell’ultimo periodo, non vi erano state situazioni così eclatanti da giustificare l’ossessione del sovrano per una eliminazione preventiva del rivale.
Il cambiamento in peggio di suo marito era coinciso con l’arrivo al castello del vecchio. Spesso aveva pensato che in qualche modo costui dovesse avere esercitato una qualche influenza negativa su di lui, ma non aveva osato farne parola. Alzò gli occhi verso la poltrona. L’uomo poggiava la sua canuta figura sullo schienale, con il contorto bastone dal pomolo intarsiato stretto nella mano destra. Non se ne separava mai. Guardava le gocce di pioggia che scivolavano lungo il vetro della finestra, assorto anche lui nelle sue elucubrazioni. Il re aveva insistito perché li accompagnasse e li proteggesse in caso di pericolo. La sua presenza però la inquietava. Ogni tanto scorgeva nei suoi occhi una luce folle che le metteva i brividi. Sarà stato anche un grande mago, ma lei non vedeva l’ora che lasciasse il palazzo, cosicché si potessero finalmente liberare della sua sgradevole persona. Il bambino si girò nel letto mettendosi supino e la coperta gli scivolò leggermente verso il basso. La regina gliela rimboccò per bene fin sotto al mento. Quel ragazzino era per lei fonte di grande gioia e preoccupazione nel medesimo tempo. Il re sperava di avere in lui una copia esatta di se stesso. Appena era stato abbastanza grande da poter afferrare una spada, il sovrano aveva subito iniziato a istruirlo nell’uso delle armi e il principe si era immediatamente distinto per le sue doti atletiche e la velocità di apprendimento, ingrandendo ancora di più l’ego già smisurato del padre. Quest’ultimo però non vedeva quello che a lei era subito balzato agli occhi e non solo ai suoi: il bambino mostrava un carattere e una propensione d’animo quanto più lontane possibili da quelle del re. Era di indole pacifica e altruista, non sarebbe mai stato il conquistatore che suo padre sperava diventasse. Il principe dal canto suo si prodigava per non deluderlo, ma in più di un’occasione la regina aveva visto quanto sforzo questo gli costasse. Forse con il tempo e l’età il suo cuore sarebbe cambiato e il suo animo si sarebbe indurito, diventando il successore che il re desiderava. La regina però non riusciva a non augurarsi che il ragazzino non si facesse influenzare e rimanesse esattamente com’era; sarebbe stato in quel caso un sovrano di gran lunga migliore del padre. All’improvviso si sentirono dei forti lamenti. La sovrana si alzò e andò ad aprire la porta. Provenivano dalla stanza accanto. Si voltò a guardare il principe; si era destato e si stava stropicciando gli occhi con una mano, i capelli arruffati e il volto assonnato. Anche il vecchio si era messo in piedi. Altri gemiti attraversarono le pareti. Il bambino la guardò spaventato e confuso. Desiderava appurare cosa stesse accadendo, ma non voleva lasciare il ragazzino solo con quell’uomo, così gli allungò una mano. Lui scese prontamente dal letto e andò da lei afferrandogliela. Poi uscirono insieme dalla camera sul corridoio. Una volta davanti all’uscio della stanza a fianco bussò, la porta era solo accostata e si aprì leggermente. La spinse ulteriormente e questa si spalancò. Una ragazza arrossata in viso con un’espressione sofferente era sdraiata su un letto, adagiata con la schiena su una miriade di cuscini, mentre un’altra, più anziana, si muoveva trafelata per la stanza con in mano alcuni panni. Il principe le strinse più forte la mano. In quel momento la moglie dell’oste fece capolino dalle scale, con in braccio una grande bacinella colma d’acqua e lei si spostò per permetterle di entrare all’interno della camera. «Se vuole dare una mano allora si accomodi», le disse quest’ultima. Lei non capì e tornò a posare gli occhi sulla giovane sopra il letto, che si reggeva ora sugli avambracci, con i capelli mossi e dorati attaccati alla fronte sudata, respirando affannosamente. Quando l’altra donna le scostò le coperte di dosso e vide il pancione, finalmente comprese: la ragazza era incinta, aveva le doglie, stava per mettere al mondo un bambino. Prese una sedia, la portò in un angolò alle spalle della partoriente e ordinò al principe di sedersi. Poi si avvicinò alle donne. La ragazza la guardò e per un momento assunse un’espressione stupita e agitata al tempo stesso. «Io vi conosco, so chi siete», sussurrò tra i respiri concitati. La regina si irrigidì, guardando per un momento la padrona della locanda, che fortunatamente non prestava attenzione alla loro conversazione. «Se è così, conto nella vostra discrezione», disse a bassa voce. La giovane dopo un secondo fece un cenno d’assenso con la testa e la regina si girò per domandare come potesse essere d’aiuto in quel delicato frangente.
Il travaglio non durò a lungo e ben presto le contrazioni iniziarono a essere sempre più frequenti, finché fu chiaro che era ormai questione di pochi minuti prima che il neonato venisse alla luce. Il mago intanto si era fermato a osservare la scena sull’uscio, incerto se fosse già il momento giusto per lui di lasciare l’ostello o fosse il caso di trattenersi ulteriormente. Prima che riuscisse a prendere una decisione, il parto arrivò alla sua conclusione. Nacque una bellissima bambina, ma subito nella stanza calò il silenzio, perché il suo piccolo corpo era privo di vita. La neonata non respirava e il suo cuore non batteva. Nello sconcerto generale, la madre tremante strinse la figlia al petto, l'avvolse tra le braccia e scoppiò in un pianto disperato. Nella mente del vecchio prese a formarsi un’idea. Inaspettatamente gli era appena stata offerta un’occasione per tessere un altro filo della sua tela. Spostò lo sguardo affilato sul principe, che si era alzato dalla sedia e stava ritto in piedi, con le mani strette a pugno lungo i fianchi, gli occhi spalancati e un’espressione tesa sul viso. La moglie dell’oste in quel momento gli passò accanto, asciugandosi le lacrime affranta e prese a scendere le scale per tornare al piano inferiore. Anche la regina si stava allontanando per lasciare alla donna l’intimità che le serviva per esternare il suo dolore. Prima che fosse troppo tardi entrò velocemente nella stanza, richiudendo la porta alle sue spalle e con la voce più suadente che possedeva, esordì dicendo che esisteva un modo per salvare la vita della bambina. Le due donne sconosciute lo guardarono confuse, ma speranzose; solo la regina lo scrutò diffidente, con sguardo indagatore. «Se la sua anima non ha ancora lasciato il corpo, esiste un potente sortilegio per riportarla in vita, ma necessita di un grande dono e non vi è molto tempo, la decisione deve essere presa in fretta. Qualcuno deve essere disposto a darle metà del suo cuore». La madre della piccola, tra le lacrime, si disse subito disponibile a cederle anche tutto il suo, se questo avesse riportato in vita la figlia, ma il mago scosse la testa. «Per fare in modo che la magia sia efficace», disse, «serve un cuore più piccolo, che si adatti al corpo della neonata. Tra i presenti in questa stanza, l’unico cuore con cui il rito sarebbe efficace, è il suo». Indicò con una mano il petto del piccolo principe. Il bambino sollevò gli occhi su di lui, aprendo leggermente la bocca. La regina si portò velocemente dietro al ragazzino, mettendogli le mani sulle spalle e avvicinandolo a sé, rigida, con la fronte corrugata e le labbra ridotte a due linee sottili. «Devo altresì informarvi però, che avendo tutti gli incantesimi dei limiti, questo sortilegio sarebbe efficace solo per diciassette anni. Entro la mezzanotte del giorno del suo diciassettesimo compleanno la fanciulla dovrà restituire la metà del cuore donato. In caso contrario a perire non sarà lei, ma il ragazzo». Per una volta, si disse il mago, le limitazioni a cui arrivava la magia potevano fare la sua fortuna. La giovane con in braccio la neonata riprese a singhiozzare, straziata dal dolore. La sovrana invece strinse più forte il bambino a sé. «Una proposta del genere non è nemmeno da prendere in considerazione», esclamò decisa, ma un tremore le percorreva il corpo per la tensione e la paura. Quando il giovane principe mise una mano sopra la sua voltandosi verso di lei, capì che i suoi timori erano fondati. Lui stava prendendo seriamente in considerazione quella possibilità. «Mamma…» «No, è escluso che tu possa correre un rischio simile». Lo interruppe lei. Lui spostò lo sguardo sulla donna in lacrime, poi sulla bambina senza vita. «Se fosse successo a me, non avresti voluto che qualcuno, potendo, lo facesse per me?», chiese. La regina sbiancò in volto. A volte quel ragazzino aveva pensieri così maturi che non si addicevano alla sua tenera età. «Voglio aiutarla», concluse lui. Lei gli prese il viso tra le mani, guardandolo negli occhi. «Non puoi, la tua vita è troppo importante, sei un principe, non puoi esporti in questo modo».
Il vecchio scalpitava irrequieto. «Non c’è più tempo, se deve essere fatto, questo è il momento o sarà troppo tardi», affermò. Il principe si girò verso di lui. «Aiutatela, vi prego». Per compiere il sortilegio era indispensabile che il ragazzino vi si prestasse volontariamente. Una volta ottenuto quello, non ci sarebbero stati altri impedimenti. Così, prima che la regina provasse a dissuaderlo nuovamente o si intromettesse, il mago alzò il suo bastone, pronunciò le parole che avrebbero vincolato la magia e lo calò violentemente sul pavimento. In quel momento dal suo fusto fuoriuscirono delle spire luminose che si intersecarono nell’aria, allungandosi verso il petto del bambino e lo penetrarono violentemente insinuandosi in profondità dentro di lui. Il principe emise un gemito, sgranò gli occhi e si piegò leggermente in avanti, con il bel viso che assumeva un'espressione sofferente. La regina gridò, sconvolta. Alcuni istanti dopo le volute si ritrassero, uscendo dal giovane avvinghiate a un piccolo oggetto pulsante. Il ragazzino tirò un lungo respiro e le gambe gli cedettero. Si sarebbe afflosciato al suolo se la sovrana non lo avesse sorretto afferrandolo rapidamente per il busto. Le spire scintillanti vorticarono stringendo il loro prezioso bottino. Arrivarono in prossimità della neonata, immobile, tra le braccia della madre e in un attimo depositarono dentro di lei quel pezzo di vita palpitante. Quindi sparirono, lasciando del loro passaggio solo un’impercettibile scia, appena una luminescenza, che pian piano si dissolse anch’essa. Nella stanza calò un silenzio carico di una attesa quasi tangibile tanto risultava opprimente e il tempo si tese, come se ogni secondo si fosse allungato in una pausa infinita. Poi, all'improvviso, il torace della bambina si alzò una volta, dunque una seconda, i suoi polmoni reclamarono ossigeno e i suoi occhi si aprirono. Si guardò intorno, poi eruppe in un pianto cristallino che riecheggiò nell'ambiente e la tensione si sciolse, spezzata da quel suono acuto e innocente. La madre strinse forte a sé la figlia, singhiozzando rumorosamente di gioia. La regina, frastornata, si accasciò tremante sul pavimento, tenendo spasmodicamente tra le braccia il principe. Il mago invece, segretamente soddisfatto, abbandonò la camera con passo malfermo e una volta fuori, non visto, si spostò nelle ombre per lasciare la locanda. Era giunto il momento per lui di raggiungere il centro della battaglia. Il giovane principe, separandosi dall’abbraccio della sovrana, si avvicinò al letto, dove la sconosciuta abbassò prontamente la bambina per permettergli di vederla in volto. Lui allungò allora una mano con incertezza per toccare una delle piccole manine della neonata. Timoroso, la prese con estrema delicatezza e scorse il suo pollice sulle minuscole dita di lei. Questa, che ancora piangeva, smise in quel momento di singhiozzare, tranquillizzandosi istantaneamente a quel lieve contatto. Il principe e la donna si guardarono negli occhi e si sorrisero. «Sia benedetto il tuo cuore generoso. Grazie», disse la ragazza. Si chinò verso di lui e gli baciò il capo. Il mago nel frattempo aveva raggiunto la città del sud, dove si stava svolgendo la battaglia che vedeva impegnati i contingenti dei due regni rivali in uno scontro all’ultimo sangue. Indisturbato si spostò tra le armate che incrociavano le loro lame, fino a trovare i due re che duellavano furiosamente nel centro di una piccola piazza sotto la pioggia battente. Mai occasione per lui poteva essere più propizia. I sovrani respiravano affannosamente brandendo le loro spade, facendole cozzare con violenza sopra le loro teste, cercando un pertugio o solo un momento di cedimento del rivale per togliergli la vita. Il re del regno del nord aveva occhi folli e irati. Il vecchio pensò di avere giocato bene le sue carte, avvelenando la mente del sovrano fino al punto giusto, di modo che scatenasse quella guerra. Si portò dietro a una grande statua in marmo, rappresentante un cavaliere sul suo destriero con il viso proteso verso il cielo, perché celasse la sua figura. Per portare a compimento il suo piano avrebbe dovuto usare ancora le sue arti magiche; sfortunatamente, non poteva sfruttarle all'interno delle ombre che usava per muoversi velocemente nello spazio. Una volta all'esterno di queste, sarebbe stato visibile e vulnerabile. Tuttavia la scultura gli avrebbe fornito il giusto riparo. Si sentiva sfiancato, l’incantesimo per dividere il cuore del principe gli era costato uno sforzo notevole, ma l’adrenalina e il sapere di essere vicino al compimento dei sui piani, gli dava lo forza necessaria per
andare avanti e portare a termine i suoi propositi. Le ombre sparirono e il mago si accucciò vicino al piedistallo della statua. Ora poteva udire il rumore della battaglia che infuriava intorno a lui. Cercò di concentrarsi e di focalizzarsi sulle spade. Pronunciò alcune parole per veicolare la magia e le armi affilate sfuggirono subito dalle mani dei sovrani, i quali si bloccarono a guardarle esterrefatti. Le due lame, dominate da una forza che loro non potevano vedere, volarono in aria e presero velocità vorticando nel vuoto, puntando poi dritte al petto del rispettivo rivale. I due re non ebbero nemmeno il tempo di provare a scappare, vennero trafitti dalla spada dell’avversario, perendo sul colpo, accasciandosi sul duro lastricato, così, uno dinanzi all’altro, con un’espressione sbigottita dipinta sul viso. Nella locanda si sentì un forte trambusto e la moglie dell’oste entrò di getto nella stanza. Il principe era seduto sul letto insieme alla ragazza che teneva ancora la figlia tra le braccia. L’altra signora era china su di loro, mentre la regina se ne stava in disparte, con il viso pallido e angosciato. Alzarono tutti gli occhi verso la proprietaria dell'ostello. «È finita», annunciò quest'ultima, agitata, «I re sono morti, tutti e due, si sono uccisi a vicenda, ma l’esercito invasore si è impossessato del castello. Vogliono imporre l’egemonia della dinastia del nord anche al regno del sud e unire i due reami in uno solo. Al momento dicono che abbia preso il comando il mago della famiglia del settentrione, in attesa dell'arrivo a palazzo della sovrana del nord». Cercò di riprendere fiato, perché aveva parlato senza quasi respirare. Nella camera i presenti la fissavano attoniti e pallidi in volto, incapaci di proferire parola. La regina, riprendendosi quel tanto che bastava, prese per mano il principe, esortandolo ad alzarsi dal letto. Lui non oppose resistenza, obbedì al comando, sconvolto e con gli occhi lucidi. Quindi la sovrana si rivolse alla ragazza, cercando di parlare in modo chiaro nonostante l’agitazione che le scuoteva il corpo e l'anima. «Non posso occuparmi anche di questo adesso. Sapete chi sono, saprete dove trovarmi. Mi dispiace che voi e vostra figlia abbiate solo diciassette anni per stare insieme, ma ricordate che sono anni regalati grazie al cuore gentile del mio bambino. Se non vi presenterete alla mia residenza tra diciassette anni a partire da oggi, giuro su Dio che vi darò la caccia, sguinzaglierò cercatori in ogni dove e vi troverò. Dopodiché, che il Signore abbia pietà di voi, perché io non ne avrò, né per voi né per i vostri cari». Detto questo, uscì dalla stanza trascinando il principe con sé. La locandiera si voltò con sguardo confuso verso la giovane, iniziò a dire qualcosa, ma subito si bloccò quando si accorse che la neonata si muoveva tra le braccia della madre. «Oh! Benedetto sia il cielo, è viva, la principessa è viva», disse, piena di gioia, ma un attimo dopo subito si incupì. «Mia signora dovete fuggire, ora, immediatamente, hanno sguinzagliato guardie in giro per il regno alla vostra ricerca. Sembra che una truppa stia venendo proprio in questa direzione. Sto facendo preparare un carro con un mulo per voi. Per ora dovete mettervi al sicuro. Andare il più lontano possibile. Se voi e la bambina doveste morire, la dinastia reale del sud si estinguerebbe». La ragazza le prese una mano. «Ti ringrazio per la tua lealtà. Appena il carro è pronto fammelo sapere, partirò senza indugio», disse. La locandiera fece un cenno di assenso con la testa e uscì dalla stanza per andare a controllare i preparativi per la partenza della sua ospite. La giovane regina del sud guardò la neonata tra le sue braccia, poi si rivolse alla donna alla sua destra. «Balia, che destino infausto. Mio marito muore il giorno della nascita di sua figlia e per poco non perdiamo anche lei». Le tremava il mento e alcune lacrime corsero lungo le sue guance. «Due regine che, per sottrarsi alla furia della battaglia, trovano ricovero nella stessa locanda posta tra i loro due regni. La mia piccola salvata grazie a una magia dal figlio dell’assassino di suo padre. Quante possibilità c’erano che una cosa del genere avvenisse? È una fortuna che la sovrana del nord non mi abbia riconosciuto». Si portò una mano alla bocca per soffocare dei singhiozzi. Poi riprese il controllo e si asciugò con le dita il viso. «Vi hanno usurpato del regno e del trono. Ucciso il re vostro marito, ma avremo la nostra vendetta. Quando la principessa compirà diciassette anni, sarà la dinastia del nord a perdere il suo erede e…», iniziò a dire irata la balia.
«Il giovane principe non ha alcuna colpa». La interruppe la regina. «Quello a cui ha acconsentito stasera denota un animo incredibilmente altruista e generoso. Io non imporrò niente a mia figlia. Le racconteremo tutta la verità, sarà lei a decidere come vorrà comportarsi. Chissà, magari per allora saremo già tornate a palazzo. Vedremo cara balia dove il destino ci condurrà». Si alzò dal letto con la bambina addormentata stretta a sé e, con il cuore pesante e amareggiato, si preparò alla partenza, verso un domani incerto, verso un futuro ancora più oscuro.
Capitolo 1
Cavalcai al galoppo finché la mia abitazione non scomparve alla vista. Poi fermai il destriero e mi concessi un momento di debolezza scoppiando in lacrime. Una volta ripresa, mi asciugai gli occhi e tirai su col naso. Mi sentivo uno straccio. «Forza, bella», dissi alla cavalla, in verità più per incoraggiare me che lei. «Facciamo questa cosa». Ripartimmo al trotto lungo il sentiero di terra dorata. Dopo diverse ore di viaggio scorsi un fiumiciattolo che serpeggiava a poca distanza dalla strada. Avevo terminato l’acqua nella fiasca, così smontai dalla sella e condussi la puledra per le redini verso il ruscello di modo che potesse abbeverarsi. Prima di sera dovevo trovare una buona locanda dove fermarmi per passare la notte. Buona, sì, ma soprattutto economica viste le mie scarse finanze. Con la cavalla al mio fianco che lappava avidamente l’acqua fresca, mi chinai a riempire la borraccia del liquido trasparente e rimasi a guardare la mia immagine riflessa nell’acqua increspata. Avevo uno sguardo spento e truce; quasi non mi riconoscevo. D’un tratto dietro alla mia figura apparve un’ombra, ci misi solo un secondo per metterla a fuoco, ma prima che riuscissi a girarmi per cercare di difendermi, mi sentii afferrare per le braccia e strattonare all'indietro. Venni buttata bruscamente e dolorosamente a terra dal colosso d’uomo che avevo visto riflesso nell’acqua e sentii tutto l’ossigeno fuoriuscire dai polmoni. Lo sentii terrorizzata legarmi i polsi dietro alla schiena, con quello che doveva essere un grosso spago. Il panico e l’adrenalina iniziarono a scorrermi nelle vene. Quando mi issò in piedi tenendomi per le spalle e potei respirare di nuovo, mi accorsi che non era solo. Altri due uomini si stavano occupando della mia giumenta e cercavano di calmarla. Mi bastò un colpo d’occhio per classificarli come briganti della peggiore specie. Ma dai, ero appena partita, si poteva essere più scalognate? Una parte della mia mente trovava la situazione esilarante da quanto era incredibile tanta sfortuna. L’altra, beh, aveva solo una fifa nera. «Co… Cosa volete?», chiesi. Avrei voluto parlare con una voce salda e decisa, per non dimostrare loro quanto fossi in verità impaurita, invece le parole uscirono in uno sconfortante e confuso balbettio. «Co… Cosa vogliamo?», mi fece il verso uno dei tre, afferrandomi il mento con una mano. «Vogliamo soldi o meglio, i soldi che ci frutterai una volta che ti avremo venduto». Percorse il mio corpo con gli occhi. «Potresti essere acquistata come schiava, ma visto il tuo piacevole aspetto forse potrebbe comprarti qualcuno interessato a trovarsi una brava mogliettina». Rise e i suoi compagni lo imitarono come se avesse detto qualcosa di incredibilmente divertente. Un brivido percorse la spina dorsale e sentii lo stomaco stringersi per la tensione. L'alito di quell'individuo sapeva del peggiore dei liquori. Cercai di trattenere il fiato perché i suoi effluvi mi facevano venire la nausea e le vertigini. Mi lasciò il viso, si scostò e fece un cenno della testa al compare dietro di me. Mi sentii subito sollevare e girare. L’omaccione che mi teneva ferma mi caricò in spalla, neanche fossi stata un sacco di sterpaglie. Provai a divincolarmi, ma la sua presa era ferrea e mi impediva i movimenti. Iniziai a respirare affannosamente. Stava succedendo tutto troppo velocemente. Cosa dovevo fare? Come potevo uscire da un simile guaio? Mi passò per la mente di mettermi a strillare a pieni polmoni, ma chi poteva mai sentirmi? Eravamo nel bel mezzo del nulla e dubitavo che gli scoiattoli o le talpe sarebbero
accorse in mio aiuto. Guardai la mia puledra. Trottava tranquilla al fianco di “alito da svenimento” mentre lui le dava colpetti gentili sul collo. Maledetta traditrice! Risalimmo verso la strada. Sul ciglio del sentiero, trainato da due muli, c’era un carro coperto, con una piccola finestrella per lato bloccata da delle grate in ferro. Altri due malviventi, che si occupavano di tre bellissimi destrieri, si girarono nella nostra direzione. «Salutate la nostra nuova ospite», esclamò “alito da svenimento”, che ormai avevo inquadrato come il loro capo, prendendo ad armeggiare con la sbarra che teneva bloccate le porte anteriori del carro. I suoi compari scoppiarono in una fragorosa risata. Poi lo vidi, sgomenta, afferrare un coltello e il respiro mi si fermò nei polmoni. «Questa lì dentro non ti serve. Non vorrei rovinasse la pelle alla mia bella mercanzia». Con un taglio netto mi liberò i polsi dalla ruvida corda, poi, spalancati gli sportelli del carro, mi spinse dentro e li richiuse fragorosamente dietro di me. Li sentii parlare all’esterno e dopo qualche scalpiccio e uno strattone, il mezzo si mise in movimento. L’atterraggio era stato più morbido di quanto mi fossi aspettata. Cercando di tenere a bada il panico e i tremori che mi agitavano gli arti e le membra, mi alzarmi per vedere su cosa fossi caduta. Appena la vista si abituò alla penombra, scoprii che sotto di me stava sdraiato un bel ragazzo dai capelli scuri e dagli occhi verdi. Mi cingeva la vita con le mani e mi guardava con un mezzo sorriso sghembo, che gli incurvava solo uno degli angoli della bocca. «Salve», disse lui. Di scatto mi allontanai dalla sua persona, andando a sbattere nel movimento la schiena contro una delle pareti. «Tranquilla, non ti farò del male». Si raddrizzò alzando le mani. «Chi sei?», domandai dopo un attimo di tentennamento. «Un prigioniero come te». «Dove… Dove ci stanno trasportando?», chiesi. «In qualche paese dei reami unificati da quello che ho capito, ma non so niente di preciso, sono qui dentro solo da un paio d’ore più di te», rispose lui. «L’ultima cosa che ricordo è una botta in testa mentre uscivo da una locanda. Poi mi sono risvegliato qui dentro». Terminò la frase con un altro di quei sorrisi storti, probabilmente allo scopo di calmarmi e dimostrarmi che non aveva intenzioni ostili. I reami unificati, era lì che anch’io ero diretta. ‘Almeno non mi stanno portando lontano dalla mia destinazione’, riflettei, ma subito mi accorsi con sconcerto di essere percorsa da un leggero senso di delusione. Una parte di me, quella che voleva continuare a vivere, doveva aver sperato di essere condotta il più lontano possibile da quel regno. Scacciai immediatamente quella sensazione. La decisione era stata presa; da sempre. Non avevo mai avuto dubbi. Tuttavia il giorno della restituzione, come lo avevo soprannominato, mi era sembrato sempre così lontano. Qualcosa che, forse, non dovesse avvenire per davvero. Ora invece che si stava inesorabilmente avvicinando, diventando qualcosa di reale, mantenere fede ai miei propositi si stava rivelando più doloroso di quanto avessi pensato. In ogni caso sapevo che sarei andata fino in fondo. Era la cosa giusta, anche se mi terrorizzava a morte. Dovevo solo riuscire a uscire da quel carro e da quell’assurda situazione. «Cosa ti portava in viaggio tutta sola per queste strade, dov’eri diretta?», domandò il ragazzo strappandomi ai miei pensieri. Lo ignorai, non erano certo affari suoi. Iniziai piuttosto a guardarmi intorno alla ricerca di qualsiasi cosa potesse tornarmi utile per fuggire: un sasso, un bastone, qualcosa di appuntito da usare come arma contro il primo che avesse aperto gli sportelli della mia prigione e che mi desse quei secondi di vantaggio che mi permettessero di gettarmi fuori dal carro e scappare sfruttando l’effetto a sorpresa. «Se stai cercando un qualsiasi tipo di arma, perdi il tuo tempo. Il carro è completamente vuoto. Beh, a parte noi, si intende». Ridacchiò. Lo fulminai con gli occhi. «Cosa diavolo ci trovi di così divertente?», strepitai.
Gli occhi si stavano riempiendo di lacrime per la rabbia e la frustrazione ed ero pronta a scaricare tutta la collera che avevo in corpo sul mio compagno di prigionia, che ora mi guardava sorpreso.. Il suo viso si addolcì. «Mi dispiace, sono stato un insensibile», si scusò con fare contrito. Ricacciai indietro le lacrime, non mi sarei fatta vedere così debole e spaurita, dovevo mantenere il controllo e restare lucida. Mi appoggiai alla parete del carro, distendendo le gambe che iniziavano a formicolare per la posizione accovacciata. Riempii i polmoni ed espirai con forza. Sarei uscita da lì. Dovevo riuscirci. Vidi con la coda dell’occhio che il mio compagno di sventura mi fissava compiaciuto. Mi girai dalla parte opposta. Il viaggio si prospettava lungo. A un certo punto, esausta, dovevo essermi addormentata, visto che mi svegliai di soprassalto. Guardandomi intorno notai che ormai era buio pesto. Probabilmente era notte fonda. Il rumore che mi aveva svegliato era quello di un temporale. La pioggia scrosciava violentemente sopra il tetto di legno e lampi di luce entravano dalle due piccole finestre, tagliando l’oscurità quasi assoluta che regnava dentro il carro, mentre forti boati squassavano l’etere. Qualcosa mi scivolò dalla spalla e di colpo rabbrividii per il freddo, la temperatura si era abbassata notevolmente. Guardai cosa mi era sceso dalle spalle e mi ritrovai in mano la giacca dell’altro prigioniero. Doveva averla posata sopra di me mentre dormivo. Che gesto gentile e premuroso, forse lo avevo giudicato male. Mi girai a guardarlo. Era appoggiato con la schiena alla parete del carro, le gambe leggermente piegate e le braccia a penzoloni sulle ginocchia. Pareva preoccupato e anche un po’ triste, sentimenti che mi parvero molto in contrasto con la strafottenza che aveva manifestato solo poche ore prima. Mi lasciò un po’ disorientata, ma come dargli torto vista la situazione in cui ci trovavamo. «Grazie per la giacca», dissi e gliela tesi. Lui sorridendo mi fece cenno con una mano di tenerla. Così finii per indossarla come si deve, infilandomi le maniche a dovere. Avevo troppo freddo per mettermi a discutere. Mentre mi allacciavo l’ultimo bottone, di colpo il carro si fermò bruscamente inclinandosi pericolosamente verso destra, facendomi sbandare. Due mani salde mi afferrarono al volo evitandomi un brutto bernoccolo. Nel giro di poche ore era già la seconda volta che finivo tra le braccia di quello sconosciuto. Mi voltai a guardarlo per ringraziarlo, ma lui era con la testa altrove, intento ad ascoltare i borbottii che provenivano dall’esterno della nostra gabbia di legno. Eravamo fermi e completamente sbilanciati. Una ruota doveva essere sprofondata nel fango e averci fatto incagliare. Le voci attraverso le pareti divennero sempre più concitate. A un certo punto sentii qualcuno armeggiare con la barra che chiudeva le porte e il cuore prese a battermi ferocemente nel petto. Il mio compagno mi scostò di lato gentilmente, ma con risolutezza. «Tieniti pronta», disse. Mi chiesi che intenzioni avesse e lo osservai posizionarsi davanti all’entrata, concentrato e con i muscoli in tensione. Appena i battenti si schiusero, lui alzò una gamba e tiro un calcio potente alle due ante che si spalancarono di colpo, scaraventando a terra le sagome di due individui. Poi mi afferrò inaspettatamente una mano e con un balzo mi trascinò fuori sotto alla pioggia battente. Il resto del gruppo di malviventi ci fu subito addosso. Il ragazzo schivò un pugno abbassandosi velocemente e lo restituì senza indugi al mittente, colpendolo alla mandibola e facendolo finire a bocconi nel fango. Riuscivo a seguire i movimenti solo a intermittenza tra un lampo e l’altro, impedita anche dall’acqua scrosciante che mi entrava fastidiosamente negli occhi. Nel combattimento a mani nude non potevo essergli di nessun aiuto. Così, con il cuore in gola, mi guardai intorno, cercando qualsiasi cosa potesse venire in nostro soccorso. Scorsi i cavalli che, spaventati, se ne restavano in disparte vicino agli alberi che delimitavano il sentiero; con loro c’era anche la mia cavalla. Mi misi a correre in quella direzione. Mancavano solo pochi metri per raggiungerli, quando mi sentii afferrare alle spalle e piombai a terra sul selciato. Cercai di voltarmi e scoprii che il mio inseguitore era caduto con me. Mi guardò sogghignando. Alzai una gamba e gli tirai un calcio con il tacco dritto sui denti, riuscendo a liberarmi dalla sua presa. Mi rialzai e coprii più velocemente che potei lo spazio che mi separava dalla mia puledra. Appena la raggiunsi mi issai immediatamente sulla sella e vidi che il brigante che mi aveva atterrato si era nel frattempo rimesso in piedi. Protese un braccio nella mia direzione e tentò di afferrarmi la veste. Riuscì a gremirla e a stringerla tra le dita sporche di fango, ma io con uno strattone gliela sottrassi e partii al galoppo verso il centro dello scontro.
Il ragazzo con un gancio ben piazzato stava atterrando l’ultimo dei malviventi ancora in piedi, ma notai subito che non sarebbero rimasti a terra per molto. Si stavano infatti già rialzando. Gli arrivai alle spalle e lui si girò di scatto, pronto a sferrare un altro colpo. Quando si accorse che ero io in sella alla mia giumenta, parve sorpreso. «Andiamo», gli gridai, tendendo una mano. Stese le labbra in quel suo mezzo sorriso sghembo e, afferratami la mano, si issò sul dorso dell’animale. Appena lo sentii saldo dietro di me incitai la cavalla a partire. Lei recepì prontamente il comando e subito sfrecciò galoppando nel folto del bosco. Quando fummo sicuri di avere distanziato i briganti a sufficienza e di non essere inseguiti, feci rallentare il destriero, che continuò ad avanzare al passo sul terreno irregolare. La pioggia continuava a cadere copiosa, ma il folto degli alberi ne attutiva in parte la caduta. «Da che parte andiamo?», chiesi tutta intirizzita. «Conosco questi boschi, abbiamo già varcato i confini dei reami unificati», asserì, «se continuiamo a procedere verso est, tra non molto dovremmo arrivare a un villaggio». Feci un cenno di assenso con la testa. Dopo pochi minuti già non avevo più sensibilità alle dita e il corpo era percorso da tremiti incontrollabili per il troppo freddo. Ci mancava solo che iniziassi a battere i denti. Le mani del ragazzo si allungarono ad afferrare le redini, scostando le mie che ormai erano due ghiaccioli. «Cerca di riscaldarti le mani», disse. Non protestai, ero troppo sfinita e infreddolita per mettermi a fare la dura e non ci tenevo proprio a trovarmi con due moncherini al posto delle estremità. Mentre con una mano continuava a tenere le briglie, con l’altra mi cinse il busto, abbracciandomi e, stringendomi, mi spostò più vicina a sé, fino a far aderire completamente la mia schiena al suo petto. Avvampai per l’imbarazzo, ma non mi sottrassi. Non solo perché il tepore che emanava il suo corpo mi aiutava a tenere sotto controllo i brividi, ma anche perché, in un modo del tutto insensato, non mi sentivo per niente a disagio, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Il freddo doveva avermi surgelato anche il cervello, non c’erano altre spiegazioni. Era ancora notte fonda quando arrivammo al paese. La vista della borgata mi scioccò, lasciandomi senza fiato. Non era solo per il buio della notte o per il temporale che potevano ingannare la vista; il villaggio presentava un degrado e una decadenza che non avevo mai visto prima. Le poche abitazioni erano fatiscenti, le strade dissestate. Anche la vegetazione sembrava soffrire di un qualche tipo di malattia degenerativa. «Cos’è successo in questo luogo?», chiesi con gli occhi sgranati. Il mio compagno non rispose e si limitò a indirizzare la cavalla giù per il declivio che portava verso il borgo. Ci fermammo davanti a un fienile adiacente a un’abitazione e scese da cavallo, aiutandomi poi a fare altrettanto. «A chi appartiene questo posto?», domandai mentre mi guardavo attorno. «Ad amici, non hai niente da temere». Aprì il grande portone sbilenco del pagliaio, facendomi segno di aspettare e vi portò dentro la puledra. Ne uscì quasi subito e una volta richiuso l’uscio, si diresse verso la porta d’ingresso della casa, dove bussò sul legno dalla vernice scrostata. All’interno della fattoria al piano superiore si accese una flebile luce e poco dopo la porta si schiuse, restando però ancora fissata con un catenaccio di sicurezza. Attraverso la fessura vidi il viso di una donna di mezz’età dal fare spaventato e sospettoso. Temetti non ci avrebbe invitato ad entrate. Quando però i suoi occhi si posarono sul giovane accanto a me, la sua espressione cambiò, passando prima al sollievo, poi, subito dopo, al preoccupato, il tutto nel giro di pochi secondi. Sganciò immediatamente il chiavistello e spalancò la porta. «Deam, mio signore… ma cosa?». Gli sfiorò una spalla, sondando con occhi irrequieti ogni centimetro del suo corpo. «Dio mio, siete ferito!». Ferito? Mi accorsi solo allora della chiazza rossa sul fianco sinistro della camicia del ragazzo. Mi sentii quasi mancare e portai le mani alla bocca.
«Non ti preoccupare, Iridea è solo un graffio», la rassicurò lui. «Presto entrate», esclamò agitata la donna, scostandosi e afferrandolo per un braccio. «Chiudi la porta per favore», disse distrattamente rivolta a me. Lo condusse dentro all’abitazione, mentre io restavo indietro per chiudere l'uscio. Dopo un corridoio lungo un paio di metri, la casa si apriva in una grande stanza. Un cucinino sconquassato, un lavabo e un ripiano pieno di stoviglie sulla sinistra, un vecchio tavolo in legno con sei sedie nel centro della stanza, vicino a una poltrona imbottita dalla federa lisa e sgualcita. Un paio di cassettoni si appoggiavano alla parete in fondo alla sala, mentre un grande camino occupava buona parte di quella di destra. Adiacente al muro del corridoio di ingresso salivano le scale verso il piano superiore. I muri erano affrescati alla buona e ingombri di arnesi da lavoro. A dispetto della sua apparenza esteriore la casa all’interno era povera, ma pulita e confortevole. La signora, che, a quanto pareva, si chiamava Iridea, stava riaccendendo il fuoco, buttando un paio di paletti di legno sulla brace ancora scarlatta, mentre il ragazzo, che ora sapevo si chiamasse Deam, era stato fatto accomodare sul sofà e si stava sfilando la camicia aperta dai pantaloni. Aveva una grande macchia di sangue, tagliata di netto da una striscia vermiglia, che gli percorreva tutto il fianco. Mi sentii terribilmente in colpa per non essermi accorta che era ferito. La padrona di casa afferrò una pezzuola e, dopo averla bagnata e strizzata in un catino, si chinò a pulire il taglio e a rimuovere il sangue coagulato sulla pelle. «Per fortuna avevate ragione, è una ferita superficiale; si sta già rimarginando», constatò ad alta voce la donna con aria sollevata, iniziando a medicargli il taglio. «Dovete fare attenzione, se vi capitasse qualcosa…». La sua voce si incrinò. Mentre la donna parlava il viso di lui si era incupito, emanando una profonda tristezza. Me ne domandai il motivo. «Deam!». La voce che aveva appena urlato il suo nome apparteneva a una ragazza che si stava fiondando giù dalle scale. Si butto ai suoi piedi e lo abbraccio di getto. «Siete ferito? Cosa vi è successo?», lo incalzò lei dopo essersi separata da lui. Doveva essere di un paio di anni più giovane di me. Aveva un fisico agile e snello, capelli castani raccolti in una morbida crocchia, da cui scappavano un paio di ciocche ondulate. Era davvero graziosa; non capii subito il perché questo mi desse molto fastidio. «Niente di preoccupante Lena, sto bene». Le diede un buffetto in testa sorridendole. Increspai la fronte, cos’era quella sensazione che mi saliva dal basso ventre e mi stringeva lo stomaco? Ogni cellula del mio corpo sembrava vibrare di gelosia. Avrei voluto mettermi in mezzo per dividerli. Reclamarlo come… mio. Spalancai la bocca sconcertata. Che diamine mi veniva in mente? Lo conoscevo appena. Mi salì pure il nervoso. Me ne stavo lì in piedi senza sapere cosa fare, fradicia come un pulcino. Forse me ne sarei dovuta semplicemente andare, ma allora perché non riuscivo a muovere i piedi? Fissai il pavimento pensando al da farsi, quando mi accorsi che Deam si era alzato e mi era venuto accanto. «Iridea non vorrei essere troppo di disturbo, ma…». Non ebbe il tempo di finire la frase che la donna si mise subito in moto. «Santo cielo, ma certo, starete congelando con quei vestiti bagnati. A voi darò dei vestiti di mio figlio, avete più o meno la stessa taglia», disse a Deam. Poi rivolgendosi alla figlia continuò. «Lena aiuta la signorina e prestale uno dei tuoi abiti?». Lena mi accompagnò al piano superiore nella sua camera da letto, dove mi offrì un asciugamano pulito con cui potessi tamponarmi i capelli e il corpo. Poi estrasse da un piccolo armadio un abito viola con una bella scollatura e un ricamo sul busto raffigurante una rosa schiusa. La ringraziai e lei mi lasciò sola cosicché potessi cambiarmi.
Ero sollevata di essere riuscita a sfuggire a quei malviventi ed era una fortuna avere trovato ricovero per la notte, perché mi sentivo ghiacciata fin nelle ossa. Quand’ebbi finito, ridiscesi le scale con l’asciugamano, il mio vestito bagnato e le scarpe in mano. La sala era illuminata ora solo dal fuoco scoppiettante nel caminetto; della signora e di sua figlia non c’era traccia. Deam invece stava seduto sul divano. Lo aveva girato perché chi ci si fosse seduto potesse guardare verso il focolare. I suoi vestiti bagnati erano appesi a un filo tirato in mezzo alla stanza. Quando si accorse di me, mi sorrise e il cuore cominciò a galopparmi nel petto. «Va meglio?», chiese. «Molto», risposi sorridendogli a mia volta. Andai al lavabo, dove vidi era stata preparata una tinozza piena d’acqua con un sapone in parte. Lavai e sciacquai i miei abiti e l’asciugamano. Poi li stesi accanto a quelli di Deam e vi posai sotto le mie scarpe. Con quel tepore per la mattinata sarebbe stato tutto senz’altro asciutto. «Lena questa notte dormirà in camera con la madre, per cui tu puoi usare il suo letto. Io sarò nella stanza accanto, quella di suo fratello. Lui e suo padre sono via con il gregge», mi informò. «Grazie», dissi. Sarei dovuta andare di sopra a riposare, ma la verità era che, per qualche strano motivo, non volevo ancora separarmi da lui. «Posso restare qui davanti al fuoco un momento?», domandai guardando a terra verso i miei piedi scalzi. «Certo», rispose, scostandosi per farmi spazio. Mi sedetti accanto a lui. Il calore delle fiamme mi stava rinvigorendo tutto il corpo o forse era la sua presenza a farmi questo effetto? Non avrei saputo dirlo. «Allora dove sei diretta… ». Con un cenno di una mano mi incitò a terminare la frase. «Aili», conclusi per lui. «Aili, è un nome grazioso», disse, guardandomi negli occhi. «Allora dove sei diretta mia bella Aili?». Fece spuntare il suo mezzo sorriso sghembo. Mi girai verso il camino, perché sentii le guance incendiarsi. «Alla città del sud», risposi dopo un attimo di esitazione e vidi con la coda dell’occhio che lui inarcava un sopracciglio aspettando maggiori informazioni. «Devo… Devo vedermi con dei miei parenti, perché una mia cugina si sposa», buttai lì di getto. Non so perché gli raccontai quella balla immane, ma non potevo certo dirgli la verità. Mi girai verso di lui che ora guardava il focolare con lo sguardo perso. «In tempi così bui c’è ancora spazio per questo», disse. Non capii se si trattasse di una affermazione o una domanda. «Questo cosa? L’amore?», chiesi. «La speranza», rispose lui voltandosi verso di me. I suoi occhi mi catturarono e ci lessi dentro una molteplicità di sentimenti che gli agitavano l’anima: tristezza, paura, rabbia, ma ci vidi anche forza, coraggio, determinatezza e speranza. Tanta speranza. Poi lui sbatté le palpebre e tornò a osservare la fiamma che pian piano stava consumando i ciocchi di legno. «Cos’è successo in questo posto?», domandai allora. «Io sapevo che i reami unificati erano governati da una regina e da suo figlio, ma come possono permettere un simile stato di degrado nel loro regno? E perché ho avuto l’impressione che ogni cosa fuori da questa abitazione fosse stata ricoperta da un che di velenoso e degenerativo?». Se erano stati la sovrana e il principe a ridurre i loro cittadini in questo stato di miseria, allora io stavo per perdere la vita per assicurarla a un mostro. Ma com’era possibile che una persona in grado di compiere un atto così coraggioso e disinteressato, come quello che mi aveva riportata alla vita, fosse capace di questo? Poteva davvero una persona crescendo cambiare così tanto? Deam sospirò. «Le cose sono complicate. La mente della regina è controllata e la sua vita appesa a un filo tra le mani di un burattinaio senza scrupoli. Il principe ridotto all’impotenza». Chinò il capo, passandosi più volte con forza le mani sul viso e sulla testa, poi iniziò a parlare in modo agitato e convulso. «Io ho fatto
quello che potevo. Ho cercato in tutti i modi di boicottare il suo nefasto operato ma… lei, non sono riuscito ad aiutarla». Si mosse irrequieto sul divano. «Tutti hanno affidato in me le loro speranze, anche quelli del regno del sud dopo che la loro stirpe reale si è persa in quella stupida guerra. Adesso però, prego solo che trovino la forza per combattere da soli e…». Si bloccò di colpo, voltandosi a guardarmi e indurendo i tratti del viso. Senza che me ne fossi accorta, vedendolo così angosciato, gli avevo preso una mano tra le mie e gliela stavo stringendo. «Scusami», disse, ritraendosi da quel contatto e alzandosi in piedi. «Si è fatto tardi e tra poche ore sarà l’alba, meglio riposare un po’». «D’accordo», risposi un po’ confusa e sentendo un’indecifrabile stretta al petto. Mi sollevai e mi avviai verso le scale. Lui rimase in piedi davanti al camino dandomi le spalle, appoggiato con un braccio alla cornice in pietra. Mentre salivo i primi gradini mi chiamò. «Aili». Mi girai verso di lui. «Andiamo nella stessa direzione, anch’io devo raggiungere la città del sud. Se mi vorrai con te, ti farò da scorta finché non arriviamo». Poi con il suo sorriso sghembo continuò. «Tanto più che ho bisogno di un passaggio e tu sei l’unica che ha un cavallo e mi devi pure un favore per averti liberato dai briganti». «Saremmo ancora in mano loro se io non ti avessi preso al volo con la mia giumenta prima che ti fossero addosso di nuovo», risposi. Scoppiò a ridere. «Mi sa che hai ragione. Allora diciamo che siamo pari. Tu mi dai un passaggio, io ti offro i miei servigi come guardia del corpo per ripagarti e torniamo pari un’altra volta». Gli sorrisi e dopo un’alzatina delle sopracciglia ripresi a salire i gradini. «Era un sì?», mi sentii rivolgere alle spalle. «Era un sì», risposi mentre voltavo l’angolo delle scale. Lo udii ridacchiare di cuore. Era il più bel suono che avessi mai sentito. Una volta nella camera di Lena mi sdraiai sul letto e tirai le coperte fin quasi sotto il naso, scoprendomi, con stupore, irrazionalmente amareggiata per come Deam aveva scansato quel momento di involontaria intimità, quando avevo preso la sua mano tra le mie. Era stato un comportamento probabilmente inopportuno; tuttavia il suo scostarsi da me così deciso mi aveva un po’ ferito. Mi rendevo conto che era una cosa ridicola e ancora di più lo era il fatto che mi sentissi felice e sollevata perché avremmo continuato il viaggio insieme. Pensai che la motivazione fosse data dalla maggiore protezione che avrei avuto con lui al mio fianco, ma la mia mente continuava a vagare per i fatti suoi, ponendosi miriadi di domande su di lui e una in particolare: se fosse già sentimentalmente legato a qualcuno. Provai a riportare i pensieri sulla retta via. Che rilevanza poteva mai avere, tra pochi giorni nulla avrebbe avuto più importanza per me. Fine. Stop. Addio. Si chiude il sipario. Non era davvero il momento di dimenticarsi di colpo, davanti a un bel viso, che i giochi per me si sarebbero chiusi di lì a pochi giorni. Mi rigirai nel letto faticando a prendere sonno e abbracciai il cuscino cercando un po’ di conforto dalla sua soffice imbottitura. Ero ancora sveglia mezz’ora dopo, quando sentii le scale scricchiolare e la porta della stanza accanto chiudersi con un leggero cigolio. Alla fine mi addormentai senza riuscire a riprendere il controllo dei miei pensieri, figuriamoci quello dei sentimenti. Continuarono a volare attraverso il muro che ci divideva, verso quel ragazzo eccezionale che sembrava essere riuscito in così breve tempo a rubami il cuore. Già, peccato fosse solo in prestito e il momento della restituzione imminente.
Capitolo 2
La mattina trovai il mio abito asciutto piegato su una sedia fuori dalla porta della mia stanza. Mi vestii e scesi al piano terra, dove trovai Deam intento a litigare con la signora, mentre lei cercava di mettere in una borsa, che pareva già colma, un paio di mele rosse. Quando il primo mi vide si girò verso di me, schiudendo
le labbra in un largo sorriso che, non so come, riuscì a illuminare tutta la stanza. Mi sentii sciogliere il cuore come neve al sole. Fantastico, se andavo avanti così, tempo due giorni e non avrei avuto più un bel niente da restituire al principe. Le due mele volarono dentro la sacca in quel suo attimo di distrazione e lui si girò a protestare. Mi parve un momento prezioso di normalità in mezzo al delirio di quei giorni burrascosi. Una volta pronti e bardata la cavalla ci avviammo, salutati dalla signora Iridea e dalla figlia. Se tutto andava bene, entro la sera del giorno seguente saremmo arrivati a destinazione. Alternammo cavalcate, camminate e riposi per non stancare troppo la giumenta. Seguendo un sentiero che si snodava in un bosco che un tempo doveva essere di incomparabile bellezza, ma che ora faceva solo paura. Era lugubre e anche lì la sensazione di decadimento era palpabile. Scoprii che la signora Iridea ci aveva rifornito di due coperte pesanti e di frutti dolci e succosi: mele, pere, uva. Il carburante ideale che ci serviva per affrontare quel lungo viaggio. Nelle prime ore del pomeriggio trovammo un torrente che scendeva a valle. Deam affermò con sicurezza che se ne avessimo seguito il tragitto, saremmo arrivati dritti alla città del sud, così deviammo lungo il suo corso. In quel luogo dove anche gli alberi, seppure verdi e rigogliosi, sembravano morenti, l’acqua era l’unica cosa che pareva ancora viva e incontaminata. La fonte della vita che, a dispetto di tutto, regalava ancora energia a quel mondo decadente. Quando il sole scese all’orizzonte decidemmo di accamparci. Quella notte avremmo dormito all’addiaccio. Dopo aver raccolto dei sassi per delimitarne il perimetro e dei rami secchi come combustibile, Deam accese un fuoco. Stendemmo a terra le coperte dateci dalla signora Iridea e ci sedemmo davanti al falò. Durante il tragitto non avevamo quasi parlato, troppo impegnati a risparmiare le forze o a guardare dove mettevamo i piedi. Decisi che ora poteva essere un buon momento per azzardare qualche domanda. «Perché ti stai recando alla città del sud?», chiesi. Lui stava seduto con le mani posate ai lati del corpo a reggerne il peso e le gambe allungate con le caviglie accavallate. «Perché ci abito», rispose. «Sono nato… più a nord. Là ho ancora la mia casa. Viaggio molto per necessità tra le due». «Hai fratelli? Sorelle?... Una fidanzata?». Azzardai quell’ultima domanda buttandola lì con noncuranza, ma dovevo essere arrossita pronunciandola e il cuore aveva iniziato a battere più forte mentre attendevo, trepidante, una risposta. Mi sentii una completa sciocca per non essere riuscita a trattenermi dal porgergliela. Cosa cambiava anche se mi rivelava di non avere legami? Niente. Non cambiava assolutamente niente. «No, siamo solo io e mia madre», rispose. «In quanto a fidanzate…», sorrise tristemente, «non mi sono mai permesso di avvicinarmi veramente a qualcuno e non avevo incontrato nessuno che fosse in grado di superare le barriere che ho eretto intorno al mio cuore fino a…». Aveva parlato con lo sguardo perso nelle fiamme, ma adesso si era voltato a guardarmi. Quando i nostri occhi si incontrarono, il cuore sobbalzò nel petto accelerando ulteriormente i suoi battiti. Poi lui riportò lo sguardo verso le fiamme. «Non fa niente, ormai non ha più importanza», concluse e si sdraiò con le braccia sotto alla testa. Rimasi un po’ delusa per come aveva troncato il discorso, ma mi sembrò inopportuno indagare oltre. Dopo un momento sciolsi i capelli che portavo raccolti in un morbido chignon e li lasciai cadere liberi lungo la schiena, quindi mi coricai anch’io. Una ciocca dorata sfuggì nella sua direzione e gli sfiorò un braccio. Lui si girò su un fianco e prese a giocarci distrattamente con le dita. Restammo così, in silenzio. Rimasi ferma senza muovere un muscolo, timorosa di poter rompere con anche solo un lieve spostamento quel labile contatto; augurandomi che lo scoppiettio del fuoco nascondesse il suono del mio cuore, perché batteva così forte che temetti seriamente potesse uscirmi dal petto. A un tratto un rumore nel sottobosco attirò la nostra attenzione. Mi alzai di scatto sui gomiti per guardare in quella direzione. La giumenta iniziò a nitrire e ad agitarsi spaventata. Un basso ringhio gutturale si alzò
nella notte e un grosso lupo grigio sbucò dalle tenebre digrignando i denti. Dietro di lui altre ombre si muovevano lentamente verso di noi. Balzammo in piedi. «Lupi? No, com’è possibile? Non scendono mai dalle montagne così presto», mormorò Deam. «Forse hanno anticipato il rientro». Mi avvicinai maggiormente a lui con gli occhi sgranati su quelle pericolose creature. «Deam. Cosa…Cosa facciamo?», chiesi, ormai raggelata dalla paura. Lui si piegò ad afferrare un ramo infuocato nel falò e lo brandì davanti a sé con una smorfia di dolore. Doveva essere bollente. «Resta dietro di me e non allontanarti dal fuoco», mi ordinò. I lupi continuarono ad avanzare con le orecchie basse e, ringhiando con ferocia, iniziarono ad accerchiarci. I loro movimenti erano lenti e calcolati. Non avevamo più vie di fuga. D’improvviso, quello che doveva essere il maschio alfa, balzò alla nostra destra pronto ad attaccarci. Deam alzò la torcia colpendolo in pieno e l’animale si ritrasse uggiolando, senza però rompere il cerchio che ci asserragliava. Se ci avessero assalito tutti insieme saremmo stati persi e temetti non avrebbero tardato molto a provarci. Anche Deam lo capì. «Ora ti passerò la fiaccola. Io proverò a distrarli. Mi inseguiranno. Tu appena puoi corri a liberare il cavallo e fuggi», sussurrò. «No, è una follia, ti saranno subito addosso», esclamai, sconvolta. «Non c’è altra scelta», ribadì con forza. Lentamente passò nelle mie mani la torcia. «Stai pronta». Senza darmi il tempo di replicare, con un urlo iniziò a correre verso i lupi che, presi alla sprovvista, si scostarono dalla sua traiettoria. Una volta ch’ebbe forzato il cerchio però, questi si misero subito a rincorrerlo. Lasciai cadere la fiaccola e scattai verso la cavalla. Districai più velocemente che potei il nodo che la teneva bloccata con le redini al tronco di un albero e mi girai verso Deam in tempo per vederlo afferrare un grosso ramo e agitarlo davanti ai suoi inseguitori. Non lo avrei abbandonato. Scattai in sella, ma la puledra, terrorizzata, non volle saperne di eseguire i miei comandi. «Andiamo. Ti prego. Dobbiamo aiutarlo», la incalzai, ma lei non si mosse, iniziando invece a indietreggiare con le lunghe gambe. Deam aveva ormai alle spalle la riva del torrente. Lo avevano bloccato. Il grosso lupo grigio si scagliò su di lui. Deam perse l’equilibrio e cadde in acqua insieme all’animale che lo sovrastava. «No, Deam, Deam!», gridai con tutto il fiato che avevo in gola, sentendo la pressione scendere di colpo. Lo vidi riaffiorare alcuni metri più avanti. Annaspava per restare a galla, ma la corrente era molto forte e lo ringhiottì immediatamente. Poco dopo fu il muso del lupo a riemergere tra la spuma vicino alla riva. Cercò di attaccarsi con le unghie alla terra per sfuggire alla potenza dell’acqua e dopo diversi tentativi di issarsi ci riuscì. Di Deam invece non c’era più traccia. Il panico mi percorse tutte le membra. Ero incapace di staccare gli occhi dal turbinio delle rapide. Pregavo di vederlo riapparire da un momento all’altro, ma la mente continuava a focalizzare la mia attenzione sulle rocce appuntite che affioravano affilate dall’acqua. Un ringhio basso e prolungato mi riportò sulla terraferma. I lupi si erano riorganizzati e ora procedevano verso di me. Con sconcerto compresi che adesso ero io la loro preda. Non persi un secondo. Comandai alla cavalla di voltarsi nella direzione opposta al branco e la incitai alla fuga. Lei questa volta non necessitò di suppliche, scattò come un fulmine costeggiando il fiume. I lupi però si dimostrarono subito più veloci e in lampo ci furono alle calcagna. Uno di loro balzo di lato cercando di morderle una coscia. Un altro le si avventò sul collo facendole perdere stabilità. Lo zoccolo anteriore e posteriore sinistro non trovarono più aderenza al terreno e le gambe le cedettero. Cademmo di lato, scivolando dalla riva, finendo inghiottite dal torrente. Terrorizzata, mi attaccai in una presa spasmodica al collo della puledra che lottava per non affogare. L’acqua era ghiacciata e mi entrava per la bocca e le narici, soffocandomi. Roteammo tra i flutti per un tempo che mi parve infinito, poi, inaspettatamente, sentii sotto ai piedi di nuovo del terreno solido. Aprii gli occhi e vidi che eravamo ferme alcuni metri più in giù rispetto a
dove eravamo cadute, ma sulla riva opposta, dove, in una piccola insenatura, il terreno scendeva gradatamente nel fiume. Eravamo salve. Quasi non ci credevo. Guidai la giumenta all’asciutto. I lupi sull’altra sponda si muovevano irrequieti, incapaci di raggiungerci. Spostai lo sguardo lungo il corso del ruscello con il vuoto nello stomaco. Implorai Dio e tutte le divinità che conoscevo perché Deam fosse salvo. Doveva essere vivo. Dovevo crederci con tutte le mie forze. Passai la notte cavalcando e camminando al fianco della puledra lungo la riva del fiume. Scrutavo ogni affioramento sospetto, ogni ombra lungo la riva che potesse sembrare un corpo umano, ma che immancabilmente si rivelava un tronco d’albero. Cercavo Deam disperatamente, incapace di darmi per vinta. All’alba uscimmo dal bosco. Mi sentivo sfinita. Davanti a me si apriva una pianura sconfinata, attraverso la quale serpeggiava il torrente, ormai ridotto a un placido fiumiciattolo. Sull’orizzonte potevo scorgere le sagome di una città. La città del sud. La mia destinazione. Camminai vacillando fino a un grosso albero, mi chinai sulle ginocchia e semplicemente svenni.
Mi risvegliai che il sole non era ancora alto nel cielo. Dovevo essere rimasta senza conoscenza solo poche ore. Mi misi seduta e vidi la cavalla che brucava l’erba poco distante. Mi alzai in piedi spinta solo dall’inerzia. Avevo la mente vuota. Completamente svuotata. Giunsi in città che iniziava già a imbrunire. Sulla strada per arrivare non avevo incontrato che poche persone: un contadino con un carretto pieno di paglia trainato da un bue. Un paio di cavalieri che andavano in tutta fretta nella mia stessa direzione. La città era l’emblema di tutto quello che avevo già visto nel reame. Degrado e decadenza. Riconoscevo a stento alcune strade e alcune piazze dai racconti della mia balia. Le aveva decantate come un tripudio di fasto e opulenza. Realizzazioni architettoniche di tale bellezza, che sarebbero dovute perdurare per i secoli, come celebrazione della grandezza della mia dinastia. Ora non ne restavano che le ombre. Le porte e le finestre delle case sembravano tante bocche vuote, spalancate in un urlo silenzioso. Non un albero, non un fiore, nemmeno un filo d’erba crescevano su quel terreno. Solo nelle abitazioni in cui riuscivo a scorgere delle persone, le case parevano possedere ancora un po’ di calore. Come se l’energia dei suoi abitanti si trasferisse anche sugli oggetti che le circondava. Trovai una scuderia dove riuscii a vendere la mia cavalla per un buon prezzo. Era leggermente ferita per via dell’attacco dei lupi, ma si sarebbe ripresa presto. Non potevo più tenerla. Non ci sarebbe stato nessun viaggio di ritorno per me. La salutai con una carezza sul muso. In una sartoria acquistai un abito già confezionato. Pareva un po’ troppo largo per la mia figura, ma non mi importava. Trovare un alloggio non fu un problema. Mi sistemai in un piccolo ostello su una via secondaria. Chiesi alla moglie dell’oste di prepararmi un bagno caldo e mi lavai con cura. Gettai il mio vecchio abito, non mi sarebbe più servito. Una volta nella mia camera mi buttai sul letto. Non provavo più niente. Non avevo più lacrime. Non esistevo già più. Mi lasciai andare e mi addormentai. Sognai Deam. Mi svegliai al tramonto del giorno successivo. Avevo dormito per quasi ventiquattr’ore. Avevo gli occhi e le guance incrostate di sale. Malgrado tutto sembrava avessi ancora lacrime da versare. Mi costrinsi ad alzarmi e a darmi una rassettata sciacquandomi il viso nel catino. L’ostello che mi ospitava non faceva servizio di ristorazione, così uscii in strada alla ricerca di una locanda attrezzata. Ne trovai una poco più avanti sulla stessa via ed entrai. Sui tavoli sparpagliati per il locale in modo apparentemente casuale, c’erano diversi avventori riuniti in piccoli gruppi, assorti nelle loro conversazioni. Scelsi un posto appartato e ordinai una zuppa di verdure. La minestra era calda e saporita e mi sentii un po’ rinvigorire, ma dopo poche cucchiaiate dovetti fermarmi. Avevo un groppo in gola e il corpo percorso da tremiti. Stavo per crollare. La voce della locandiera, che riordinava un tavolo accanto al mio, mi aiutò a riprendere il controllo. Feci due grossi respiri e cercai di concentrarmi sulle sue parole.
«Hai proprio ragione», disse. Parlava con dei signori seduti a un tavolo vicino. «Il principe è il nostro faro. La nostra speranza è che salga presto al trono al posto di sua madre». «Mi parli di lui», chiesi intromettendomi. La donna alzò per un secondo il viso verso di me. «Del principe?», domandò. «Sì», risposi. «Beh», cominciò lei, «se non lo conosci almeno per fama non devi certo essere di qui», disse impilando dei bicchieri. «Quando c’è stata la guerra tra il regno del nord e il nostro e abbiamo perso la nostra dinastia reale non è stato facile. Il nostro re anche se non era perfetto, così egocentrico e geloso, era però giusto e buono con il popolo. I cittadini stavano bene, eravamo felici e la città prosperava. Poi però è morto, lui e il re del nord si sono uccisi a vicenda. La nostra regina è sparita. Probabilmente morta anche lei. Una vera disgrazia perché a quei tempi era incinta dell’erede al trono. I due regni sono stati uniti e a noi hanno imposto l’egemonia della casata del nord. Per i primi tempi anche se la popolazione era contraria alla nuova reggenza, la sovrana si è comportata in modo retto ed esemplare. Ma poi le cose sono cambiate. Ha introdotto con la forza nuove leggi e tasse che stanno affamando il popolo e, lo avrai percepito, c’è qualcosa di sbagliato, di malevolo che sembra ricoprire ogni cosa, non so cosa sia ma…» «Io sapevo che la regina era manipolata da qualcuno», asserii, ricordando le parole di Deam quella sera davanti al camino. «Manipolata? Non so cosa vuoi dire…». «E il principe, cosa mi dice di lui», la interruppi cercando di riportarla sul discorso originario. Le scintillarono gli occhi. «Il principe si è subito rivelato una pietra preziosa. Più cresceva e più il suo gran cuore si palesava a tutti. Non c’è persona che non lo ami e lo stimi nel regno. Si è messo dalla parte del popolo e dei più deboli. Più volte ha scacciato le guardie in cerca della riscossione dei tributi dai villaggi più poveri. Si occupa di tenere in piedi il sanatorio e spesso vi presta lui stesso assistenza ai malati. L’ho visto con i miei occhi aiutare a ricostruire la casa di una famiglia di poveri contadini che era crollata dopo un temporale. Dove c’è bisogno di aiuto lui non si tira mai indietro, ma non so perché non si è mai opposto apertamente a sua madre», concluse, sollevando un vassoio ricolmo di stoviglie e indirizzandosi verso la cucina assorta nei suoi pensieri. Se come diceva Deam, la regina in verità era controllata da qualcuno che metteva a rischio la sua vita, era facile capire perché il principe non si fosse ribellato. Era anche lei una vittima e lui pensava di riuscire in qualche modo a salvarla. D’altronde era sua madre e lui doveva sicuramente amarla, non avrebbe mai messo in pericolo la sua vita. La situazione non era certo delle migliori, ma se davvero quel ragazzo era così speciale, ero sicura avrebbe trovato prima o poi il modo di sistemare le cose. Sentir parlare così bene di lui mi aveva sollevata. Anche crescendo era rimasto il bambino altruista e generoso che mi aveva salvato. Non stavo andando a morire per la paura della vendetta della regina, che si sarebbe abbattuta su di me e sulla mia cara balia, nel caso non lo avessi fatto. Stavo andando per lui. Per ripagarlo del suo incredibile dono. Per la sua fiducia. Per il suo cuore gentile. Perché era la cosa giusta. Non avevo mai preso in considerazione l’idea di non presentarmi al castello. Tenermi il cuore e lasciare morire lui al posto mio. Non era mai stata un’opzione. E ora che avevo perso Deam rinunciare alla vita sembrava essere ancora più semplice. Lasciai una manciata di monete sul tavolo per pagare la zuppa che alla fine non avevo mangiato e tornai all’ostello. Ancora tre giorni e sarebbe stato il mio compleanno.
Passai il giorno seguente a girovagare per la città. Il castello si trovava nel centro, su una collinetta dalla quale dominava sull’abitato. Una struttura imponente, ma elegante, che un tempo doveva essere stato un vero vanto per mio padre e i suoi antenati. Era strano pensare che se le cose fossero andate diversamente avrei abitato là con i miei genitori o forse, chissà, probabilmente non avrei vissuto affatto. Niente mago, niente principe, niente magia, niente diciassette anni a disposizione.
All’imbrunire non avevo ancora voglia di rientrare alla locanda, così arrivai fino al fiume che tagliava di netto la città in due parti. Per le strade non c’era anima viva, l’unico rumore era quello del lento sciabordio dell’acqua. Mi appoggiai con le braccia al parapetto a osservare il movimento del liquido che pareva un mantello di seta nero agitato dal vento e mi persi nei miei pensieri. D’un tratto la quiete fu rotta dallo scalpiccio degli zoccoli di un cavallo che risaliva la strada sulla riva opposta. Non potevo ancora scorgerlo perché un ponte, una decina di metri alla mia destra, mi impediva la visuale. Quando l’ebbe superato vidi un grosso destriero dal manto lucido e nero, ma la mia attenzione fu subito attirata dal giovane che camminava al suo fianco tenendolo per le briglie. Il cuore iniziò a battere freneticamente nel petto. «Deam, Deam!», gridai sporgendomi dal parapetto. Lui si girò nella mia direzione. Sgranò gli occhi, mollò le redini e si appoggiò alla balaustra. «Aili… Aili!», gridò, iniziando a correre in direzione del ponte. Feci lo stesso senza riuscire a staccare gli occhi da lui, timorosa che se solo avessi sbattuto le palpebre sarebbe sparito. Ci incontrammo nel centro del ponte e senza rallentare ci lanciammo l’uno tra le braccia dell’altra. L’impatto fu quasi doloroso, ma non mi importava, dovevo toccarlo subito, sentire che era reale, vivo. Anche un secondo di attesa in più mi sarebbe stato insopportabile. Mi strinse così forte che faticavo a respirare, ma sarei potuta restare così per sempre, con il suo corpo solido a contatto con il mio. Quando ci separammo tutti e due ansanti, cercai di calmare il cuore che rischiava di scoppiare nel petto. «Sei qui, sei viva. Ti ho cercata senza sosta nel bosco», disse. «Mi dispiace, ti ho cercato lungo il corso del fiume, ma tu non c’eri e non sapevo cosa fare. Pensavo fossi annegato». Quasi strillai quelle ultime parole mentre scoppiavo in lacrime. Lui mi strinse fra le braccia, cullandomi, cercando di calmarmi, mormorando che andava tutto bene. Pian piano ripresi il controllo. «Come ti sei salvato?», chiesi. «La corrente mi ha trascinato per più di un chilometro a valle, finché non sono riuscito ad aggrapparmi alle radici di un albero mezzo riverso nell’acqua e a issarmi sulla riva. Una volta sulla terraferma mi sono portato verso gli alberi e lì credo di essere svenuto, perché ero un po’ ammaccato e mezzo affogato. Quando mi sono ripreso era ancora buio, ho risalito il fiume per cercarti. Ti ho cercata ovunque ma… Alla fine oggi sono tornato in città… Pensavo di averti persa». Gli alberi, la vegetazione e la notte, dovevano avermi celato il suo corpo mentre passavo sulla riva opposta. «Sei rimasto nel bosco fino a oggi?», domandai, sconvolta. «Ma come e i lupi?». «No, no, poco fuori dal bosco c’è una vecchia roccaforte delle milizie usata dai cavalieri come base di appoggio nei loro spostamenti, ce ne sono diverse disseminate nel regno. Per sicurezza non è facile da scorgere perché è nascosta dagli alberi, ma conoscendone l’ubicazione… Ho passato lì le notti seguenti, mi hanno aiutato nelle ricerche, dato vestiti puliti e questo bel destriero che oggi mi ha riaccompagnato a casa». Indicò con un cenno della testa e un sorriso caloroso il cavallo che si era avvicinato a noi senza che me ne accorgessi. Passai le braccia intorno alla vita di Deam e affondai il viso nel suo petto. Lui intrecciò le mani dietro alla mia schiena. Rimasi così, ad assaporare il suo calore, il piacere della sua presenza, ad ascoltare il suo cuore che batteva. Era vivo, era vivo! «Sei alloggiata da tua cugina?», chiese. «Che? Quale cugina? », domandai, scostandomi per guardarlo in faccia. «Ehm... quella che si sposa», disse lui alzando le sopracciglia. Oh cavoli, mi ero completamente dimenticata della balla che gli avevo raccontato. Cercai subito di rimediare alla gaffe. «Si, beh, no». Stavo peggiorando la situazione. «Volevo dire, sto dai miei zii… Che appunto sono i genitori di mia cugina». Un disastro su tutta la linea. Lui non parve per niente convinto, ma fortunatamente non volle indagare oltre. «Domani ti posso vedere?», chiese stringendomi a sé.
Sentii una nota di disperazione nella sua voce che mi allarmò, ma quando mi scostai per guardarlo in faccia mi sorrise con quel suo mezzo sorrisetto storto e furbo. Stavo per rispondergli affermativamente, quando all’improvviso recuperai una lucidità che fino a quel momento sembrava essermi mancata. Cosa stavo facendo? Mi sarei dovuta separare da lui, subito, immediatamente. Avevo scordato il motivo per cui mi trovavo in quella città? Non mi ero mai innamorata in vita mia, non avevo idea di come funzionasse. Non mi ero aspettata però niente di simile, di così veloce, dirompente e allo stesso tempo… normale. Tra le sue braccia mi sentivo a casa. Era davvero questo che mi stava accadendo? Mi ero innamorata? Sentii salirmi il panico. Non era proprio il momento per provare simili sentimenti. Non dovevo rivederlo più. Chiudere immediatamente quella storia, se non per me, per lui. Che senso avrebbe avuto? Avevo solo due giorni di vita davanti a me. Meglio salutarci adesso e dirci addio. «Certo», mi sentii rispondere invece. Dovevo essere impazzita. «Domattina? Su questo ponte?». «Va bene». Invece non andava bene per niente. Perché non ero riuscita a dirgli di no? Ci separammo e lui spostò lo sguardo verso il castello, concentrato per un istante sui propri pensieri. Era il momento buono per dirgli che ci avevo ripensato, che mi era tornato alla mente un precedente impegno, qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Mi imposi di dirgli qualcosa, ma poi, prima che potessi aprire bocca, lui tornò a guardarmi e la mente si svuotò di colpo. «Allora a domani», disse afferrando le redini del cavallo. Avevo perso la mia occasione.
Capitolo 3
Passai una notte quasi insonne, rimuginando su quello che era accaduto con Deam. Quel ragazzo mi piaceva. Era ovvio. Lo avevo capito quasi subito e il pensiero che fosso morto, quando lo avevo creduto tale, mi aveva davvero affranto; molto più profondamente di quanto sarebbe stato logico pensare, visto che ci conoscevamo solo da pochi giorni. Tuttavia non ero stata affatto preparata all’ondata di sentimenti che mi aveva letteralmente travolto appena lo avevo rivisto. Buttai le gambe giù dal letto e mi vestii. Pensai di non presentarmi all’appuntamento, ma poi mi sorpresi a metterci più cura del solito nel sistemarmi i capelli. Appena me ne accorsi sciolsi immediatamente la crocchia che stavo annodando, mi infilai le dita tra i capelli e li scombussolai per bene, lasciandoli ricadere disordinati sulla schiena. Mi stavo comportando da stupida. Alla fine decisi che lo avrei incontrato e gli avrei raccontato una bugia. Qualcosa del tipo che ero già promessa a un altro o addirittura già sposata. Lui si sarebbe messo il cuore in pace e avrebbe continuato la sua vita, mentre io… io avrei fatto quello che dovevo. Fine del discorso. Mi diedi un’ultima sistemata e uscii in strada. Camminai con passo sostenuto per le vie sentendomi penosamente agitata e a un certo punto dovetti fermarmi per prendere un profondo respiro. Perché quel ragazzo mi scombussolava tanto? Mi ero davvero innamorata di lui? Forse era solo il panico per il giorno della restituzione. Probabilmente lui non c’entrava niente, ero io che inconsciamente cercavo una scusa, una via di fuga per sfuggire al mio destino. Poteva anche essere comprensibile, ma mi indispettiva terribilmente, perché mi stavo dimostrando molto più debole di quanto avessi pensato. Quando arrivai in vista del ponte cercai Deam con gli occhi, ma non lo vidi subito. Poi lo trovai appoggiato al parapetto, con le braccia incrociate e una caviglia accavallata all’altra. Vestiva con un
completo nero e teneva un cappuccio sul capo leggermente calato sul viso. Il cuore saltò nel petto e lo sentii protendersi verso di lui. Certo che la paura faceva davvero degli strani effetti, perché alla sua vista mi ero sentita immediatamente pervadere di gioia. Mi imposi di darmi una controllata e lo raggiunsi, mentre lui si scostava dalla balaustra. «Buongiorno», mi salutò. Aveva gli occhi luminosi anche sotto l’ombreggiatura del copricapo e il suo sorriso raccontava chiaramente che si sentiva esattamente come la sottoscritta: felice. O doveva morire anche lui e come me era inconsapevolmente alla ricerca di una scappatoia, oppure stavo per fargli davvero del male dovendogli dire addio. L’idea di veder spegnere quel sorriso mi sembrò insopportabile. «Ciao», risposi, stupendomi di quanto era suonata languida quella singola parola tra le mie labbra. «Andiamo, voglio portarti in un posto». Mi irrigidii e stavo per prorompere rigettando in un sol getto le balle che avevo programmato di rifilargli, quando lui mi prese per mano. Le mie dita si chiusero istantaneamente sulle sue senza che io glielo avessi comandato e avvertii ogni proposito andare in fumo, mentre la bocca si piegava in un sorriso ebete da innamorata. Che disastro! Mi lasciai guidare da lui fin quasi fuori città, dove, legato a un abbeveratoio, ci attendeva un cavallo dal manto lucido del colore della terra. Deam gli liberò le redini e una volta salito in groppa all'animale aiutò anche me a issarmi sul dorso del destriero, facendomi sedere davanti a sé. Sebbene sentissi le guance infiammate per la vicinanza del suo corpo con il mio, la sensazione di familiarità, che avevo già precedentemente conosciuto, era predominante su qualsiasi altra. Cavalcammo per un’ora spingendoci verso ovest, inoltrandoci dopo una mezzora all’interno di un bosco che si inerpicava per un colle. A un certo punto scendemmo da cavallo e proseguimmo a piedi. Il luogo era intriso di quello strato di deperimento che in quel regno aveva intaccato ogni cosa. Non capivo perché mi avesse condotto in un posto simile. Era tetro pure nella luce del pallido sole che brillava sopra alle nostre teste. All’improvviso udii lo scrosciare di una cascata e poco dopo sbucammo in una piccola radura. L’acqua da un torrente si gettava da delle rocce con un salto di un paio di metri, riversandosi in un piccolo laghetto. Intorno allo specchio d’acqua le piante parevano ancora floride, intoccate dalla degenerazione che interessava quelle anche solo di pochi metri più lontane. Lì si poteva ancora scorgere la bellezza che doveva essere appartenuta a quel reame. Mi voltai per cercare Deam. Stava in piedi al limitare di una scarpata, in un punto dove la mancanza di alberi lasciava spaziare lo sguardo. In lontananza si vedevano gli edifici della capitale e nel loro centro il castello, che si ergeva con le sue alte torrette verso il cielo. Anche in quel clima di decadimento la vista era comunque mozzafiato. Gli andai accanto. «Se il tuo tentativo era di mostrarmi che in questo posto esistono ancora degli scorci pieni di bellezza, allora ha funzionato. Grazie per avermici portata». Annuì. «Ho pensato di dovertelo far vedere. Non volevo che una volta ripartita, dopo il matrimonio di tua cugina, portassi con te solo sgradevoli ricordi di questo regno». Se avessi avuto davvero una vita davanti a me, ogni brutta impressione di quel reame sarebbe sbiadita dietro a un solo bellissimo ricordo: il suo. Ne osservai il profilo, mentre guardava verso la città, sentendomi stringere lo stomaco, osservando le sue lunghe ciglia, il naso dritto e la curva perfetta delle labbra. Altro che panico da morte prematura, il mio cuore batteva incontrollato, schiudendosi per lui come un fiore alla luce del sole. A due giorni dal temine della mia vita mi ritrovavo innamorata? La cosa mi disorientò completamente. Dovevo essere felice di aver provato simili sentimenti prima della fine? O esserne rammaricata perché dovevo già abbandonarli? Non trovai una risposta. La mia pancia emise un suono di rimprovero per la fame, era da giorni che mi limitavo a sbocconcellare il cibo senza appetito. Deam mi guardò alzando un angolo della bocca. «Direi che sei affamata». «Temo di sì». Misi una mano sullo stomaco un po’ imbarazzata.
«Torno subito». Andò fino al cavallo, che si riposava vicino alla vegetazione legato per le briglie a un ramo e prese un sacchetto in stoffa attaccato alla sella. Poi tornò da me. «Sediamoci». Si accomodò sulle rocce con le gambe a penzoloni nel vuoto. Mi sedetti al suo fianco allo stesso modo. Lui aprì il sacco, ne estrasse una pagnotta e una piccola forma, simile a formaggio, bianca e rettangolare. Le divise entrambe e mi porse una metà di ognuna. «Grazie», dissi, accettandole. «Non sarà un gran pasto, ma vedrai che è buono. La formella è fatta con semi, frutta secca e spezie. È la specialità di una delle cuoche del palazzo, ne va molto orgogliosa». Sorrise. «Del palazzo?», domandai, addentandola; subito si sciolse in bocca facendo cantare le mie papille gustative. Era davvero squisita. «È buonissima, ma come mai frequenti il palazzo? Lavori lì?». Deam ci mise un secondo per rispondere. «Diciamo così». Sperai di non doverlo incontrare il giorno seguente all’interno del castello, avrebbe scoperto che gli avevo mentito e sarebbe stato doloroso rivelargli la verità; ma mi stavo di sicuro preoccupando per niente, quel luogo era così grande che le possibilità di incontrarci erano pari a zero. «Che tipo è il principe? Ho sentito parlare bene di lui in città». Aggrottò le sopracciglia. «Perché lo vuoi sapere?». Scrollai le spalle. «Semplice curiosità», risposi evasiva. Si appoggiò all’indietro con le braccia. «Parliamo d’altro. Dimmi di te piuttosto. Di cosa si occupa la tua famiglia?». Spostai lo sguardo verso la capitale, pensando per un istante di cavarmela con l’ennesima bugia, ma quando lo riportai su di lui non me la sentii. «Parliamo d’altro?». Lo implorai con gli occhi. Mi osservò per un attimo, titubante, ma poi sorrise rassicurante. Non avrebbe insistito. D’altronde era lui il primo a sembrare non gradire molto parlare di sé. Finché non ci eravamo separati dopo l’attacco dei lupi, aveva anche cercato di tenere una certa distanza tra di noi. Come se per tutto il tempo avesse mantenuto alzato un muro che però ogni tanto avevo visto incrinarsi e che ora invece sembrava essere caduto del tutto. Mi chiesi cosa fosse cambiato. Forse il motivo era quello che aveva scosso anche me: il pensiero della sua morte, magari per lui era stato il pensiero della mia. «Presto lascerò il regno, mi ha fatto piacere tornare qui un’ultima volta. Sono contento che tu sia venuta con me». Sollevai le sopracciglia. «Te ne vai? Dove? Torni a nord?», chiesi, ricordando che lì, mi aveva confidato, possedeva ancora l’abitazione dove era nato. Si limitò a sorridere senza rispondere. Non voleva dirmi nemmeno questo e io che per un momento, sul ponte, avevo temuto di spezzargli il cuore. Invece non sembrava affatto interessato a mantenere i contatti con me una volte che fosse partito. ‘Beh meglio così’, pensai; peccato sentissi una fitta al petto che suggeriva tutt’altro. «Tu quanti giorni ti fermi?», domandò. «Non molti». «Forse dovresti cercare un passaggio sicuro. Se il viaggio di ritorno si dovesse rivelare come quello di andata rischieresti di non arrivare a destinazione». «Ti stai preoccupando per me?». La domanda mi uscì più civettuola di quanto avessi voluto. Il suo sorriso si allargò. «Certo. Ti avevo proposto di farti da scorta e per poco non ti facevo divorare dai lupi. Sono stato davvero scadente come guardia del corpo. Meglio se la prossima volta ti affidi a qualcuno di più fidato e che magari sa scegliere strade più sicure». «Non ti svalutare, non sei stato affatto male e anzi, molto coraggioso». Portò lo sguardo verso l’orizzonte. «Sei fin troppo clemente, ma grazie». Staccò con un morso un pezzo di pane.
Mi ricordai anch’io del cibo che avevo in mano; concentrata su di lui me ne ero completamente dimenticata. Ripresi a sgranocchiare la formella, sapeva di mandorle e noci. Restammo a crogiolarci al calore del tiepido sole, continuando a chiacchierare del più e del meno. Ogni tanto Deam rideva a quello che dicevo con quella sua risata cristallina che mi faceva venire voglia di ascoltarla ancora e ancora, all’infinito. Dopo un po’ mi accorsi che mi osservava. Spostai gli occhi nei suoi e lui curvò le labbra in un dolce sorriso che mi accelerò la respirazione e i battiti nel petto. «Se ti avessi incontrata prima, oggi sarebbe stato uno dei giorni più brutti della mia vita al pensiero di lasciarti. Invece, incredibilmente, lo stai rendendo uno dei più belli». Non seppi cosa rispondere, ma mi resi conto che per me era lo stesso. Non fossi stata lì con lui avrei passato la giornata torturata dall’angoscia. Invece le ore erano volate, leggere, senza che quasi me ne accorgessi. Rimanemmo ancora per un po’ sulla rupe, poi, a pomeriggio inoltrato, decidemmo di rientrare in città. Quando ci ritrovammo a passeggiare per le sue vie si era già fatto buio. Arrivati in vista del ponte mi fermai. «Da qui posso andare da sola, conosco la strada». Non volevo vedesse che alloggiavo in un ostello, invece che a casa dei miei ipotetici zii. «D’accordo». Restammo in piedi uno davanti all’altra, mentre cercavo di andarmene, provando a spostare i piedi senza però riuscirci. «Posso rivederti anche domani?», mi chiese lui. Domani. Domani sarebbe stato il mio compleanno. Sarei salita al castello e avrei dato il mio addio per sempre a questo mondo. Dopo quella sera non lo avrei più rivisto. Volevo rispondergli di no, ma avrei dovuto dare spiegazioni, inventarmi l’ennesima bugia e avevo la mente così vuota che non ero sicura ne sarei stata in grado. «Sì», risposi allora, «ma nel pomeriggio. Verso le quattro, sul ponte». Almeno così non mi avrebbe aspettato invano troppo a lungo. Non sembrò molto contento, ma annuì. Morsi il labbro inferiore e abbassai lo sguardo. Quasi tremavo all’idea di separarmi da lui. Appena me ne fossi andata quella giornata sarebbe finita e temevo di essere subito preda del terrore per il giorno seguente che avanzava, inesorabilmente, minuto dopo minuto. In più la verità era che non volevo ancora lasciarlo, al solo pensiero il cuore doleva come se volesse spezzarsi nel petto. Lo guardai un’ultima volta, poi trovando un po’ di coraggio feci per girarmi, ma Deam mi afferrò una mano, trattenendomi. «Io non vorrei darti un’impressione sbagliata». Non capii cosa volesse dire e lo guardai aspettando una spiegazione. «Nelle mie intenzioni… tra di noi intendo. Non ci può essere niente, non in quel senso, perché è probabile che dopo la giornata di domani non ci rincontreremo più». Mi colse un po’ alla sprovvista. «No. Certo. Io, capisco. Tu sei in partenza. Io pure. Quindi…». Tremai mentre le parole mi morivano sulle labbra, sentendomi sconquassare da emozioni che cozzavano tra di loro, impedendomi di capire davvero cosa provassi. Sollievo? Delusione? Probabilmente tutte e due allo stesso tempo. «Però nonostante questo», continuò lui, «c’è una cosa che sto morendo dalla voglia di fare e se vuoi puoi fermarmi, ma…». Prese un respiro e dopo un secondo mi afferrò il viso delicatamente tra le mani, chinandosi su di me per baciarmi. Avrei potuto sottrarmi se avessi voluto, ma non lo feci. Mi ritrovai immobilizzata, accorgendomi di desiderare quel bacio. Lui premette la sua bocca sulla mia e io andai a fuoco. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare al calore e alla morbidezza delle sue labbra, sentendomi stringere lo stomaco, mentre lui muoveva la sua bocca sulla mia, sconvolgendomi completamente l’anima e mandandomi quasi in affanno. «Non ho la più pallida idea di come sei riuscita a entrarmi dentro in questo modo», sussurrò, continuando a baciarmi. Era la stessa cosa che mi chiedevo anch’io per quanto riguardava lui.
«Non avevo mai baciato qualcuno prima d’ora». Non so perché lo dissi. Forse perché volevo sapesse che era stato il primo. Non avrebbe mai saputo invece che sarebbe stato anche l’unico. «Allora siamo in due», rispose. Questo mi stupì e mi rese scioccamente felice. Quando ci separammo non ero la sola ad avere il cuore che pulsava furiosamente. Deam, rosso in volto, si toccò con una mano le labbra. Io le sentivo scottare e pulsare, era un misto tra una sensazione piacevole e qualcosa come lo struggente desiderio di baciarlo ancora. Eravamo chiaramente tutti e due un po’ imbarazzati. «Ok, allora… a domani», disse. Annuii. Ci guardammo ancora per un istante negli occhi, poi lui indietreggiò per allontanarsi, ma io lo fermai. «Deam». Si voltò verso di me. «Sono contenta di averti incontrato. Ora non ho davvero nessun rimpianto. Grazie». Era vero. A pochi giorni dalla fine della mia vita, mi aveva fatto conoscere l’amore più forte e travolgente che avessi mai potuto sperare. Non avevo mai chiesto tanto. Era stato un bellissimo e inaspettato regalo. Mi guardò per un istante perplesso corrugando la fronte, probabilmente non comprendendo il significato delle mie parole. «Buonanotte», disse poi dolcemente, facendo un accenno del suo mezzo sorriso sghembo. «Buonanotte», risposi sorridendogli di cuore. Ci incamminammo in direzioni opposte continuando a girarci l’uno verso l’altra. Cercai di imprimermi nella mente ogni dettaglio di lui. I suoi capelli, le sue spalle, la sua camminata. Poi alzò una mano per salutarmi e girato un angolo sparì alla mia vista.
Capitolo 4
La mattina del giorno dopo non venni svegliata da urla di panico, nessun pianto disperato da fine dei tempi. Il mondo non stava finendo, terminava solo il mio. Per tutti gli altri era un giorno qualunque. Mi alzai. Mi lavai il viso. Mi vestii. Intrecciai due piccole treccine con i capelli ai lati della testa, poi le fissai insieme dietro al capo, come una piccola coroncina, in modo che tenessero fermi anche gli altri che invece lasciai liberi sulla schiena. Scesi a pagare l’oste per la camera, lo ringraziai dell’ospitalità e uscii in strada. Nel tragitto verso il castello sentivo ogni sensazione amplificata. Il sole che mi accarezzava la pelle, il vento che mi sollevava i capelli. I ciottoli della pavimentazione sotto alle mie scarpe. Ogni odore. Ogni suono. Mi sarei dovuta sentire spaventata, ma non era così. Quando pensavo che Deam fosse morto, la disperazione mi aveva illusa che questo mi avrebbe fatto lasciare più facilmente questa vita, ma mi sbagliavo. Ora, proprio il saperlo vivo, mi stava dando la forza per accettare il mio destino. Mi domandai cosa avrebbe pensato quando non mi fossi presentata all’appuntamento. Che avevo avuto un contrattempo? Che mi era successa una disgrazia? Che non lo amavo? Qualunque cosa fosse, il tempo avrebbe rimediato cancellando ogni ferita, o quanto meno l'avrebbe attenuata. Se non si fosse fatto uccidere da dei briganti, mangiare dai lupi, affogare dalle rapide o accoppare da qualsiasi altro guaio in cui si riusciva a cacciare, il tempo non gli sarebbe mancato. Arrivata all'ingresso del palazzo, due sentinelle mi si fecero dappresso. Dissi loro che dovevo vedere il principe e che pensavo di essere attesa. Non sbagliavo, perché le guardie aprirono subito il cancello e, scortandomi, mi introdussero all’interno del castello per una porta secondaria. Passammo diversi corridoi e stanze, finché giungemmo in un grande salone dove mi lasciarono chiedendomi di aspettare. Su un lato della sala si aprivano enormi finestre ornate da vistosi drappeggi dorati. Cassettoni intagliati, scaffalature lavorate, divanetti imbottiti, componevano il mobilio della stanza. Due pareti erano completamente rivestite di quadri: scene di guerra, di caccia e alcuni ritratti. Uno in particolare attirò la mia attenzione, perché la modella sarei potuta essere io da quanto mi somigliava. Doveva essere mia madre.
A un tratto una porta si spalancò ed entrò un vecchio alto e magro, che subito la richiuse dietro di sé. Il suo aspetto senile era in netto contrasto con la sua prestanza fisica e nonostante accompagnasse i suoi passi appoggiando la sua figura a un lungo bastone, si muoveva con la disinvoltura e l’agilità di un uomo molto più giovane. I suoi occhi iniziarono subito a scrutarmi e sebbene la sua bocca si schiuse in un largo sorriso, quelli rimasero freddi come il ghiaccio. «Mia cara, perché non ci siano fraintendimenti, puoi dirmi la motivazione della tua visita?», esordì. «Diciassette anni fa il principe mi ha fatto un dono, sono qui per restituirglielo», spiegai. L’uomo si passò la lingua sulle labbra, mordicchiandosi poi quello inferiore. «È così dunque. Perché sia chiaro, fui io a compiere il sortilegio quella notte, per cui so di cosa stiamo parlando», affermò. Era lui allora il mago che aveva compiuto la magia che mi aveva riportato in vita. «È davvero onorevole da parte tua essere qui oggi, sei una ragazza dall’animo nobile e molto coraggiosa», disse. Le sue parole erano di lode, ma l’espressione del suo viso mentre parlava raccontava tutta un’altra storia. Sembrava provare un forte disgusto e dissenso. Non ne capii il motivo. «Il principe in questo momento è assente, rientrerà questa sera. Per cui mi duole dirtelo, ma, ahimè, dovrai attendere in questa stanza per tutta la giornata. Spero non ti annoierai troppo. Io ho altri impegni inderogabili. Mi dispiace, ma a tenerti compagnia ci saranno solo i ritratti dei vecchi re e regine». Lasciò scorrere lo sguardo sulle pareti, indicandomi i dipinti con un cenno del braccio, bloccandosi d’un tratto con l’arto a mezz’aria. Tornò a posare gli occhi su di me. Poi di nuovo sul muro, sul ritratto di mia madre. «Bizzarro». Riportò la sua attenzione sul mio viso. «Una somiglianza sorprendente. Possibile…». Quasi sentivo il rumore delle rotelle nel suo cervello che lavoravano. Potevo anche rivelarglielo, ormai non aveva molta importanza. «Si, era mia madre, l’ultima regina del regno del sud». Il mago si illuminò e scoppiò a ridere. «Ordinai ai soldati di cercarla ovunque, sapendola pure incinta dell’erede al trono e invece l’avevo avuta sotto il naso per tutto il tempo». Sembrava trovare la cosa molto divertente. Proruppe in un colpo di tosse, poi si ricompose. «E dimmi mia cara, dov’è ora tua madre?». «E’ morta un anno dopo la mia nascita», risposi. Parve soddisfatto della risposta, perché prese ad annuire con la testa. «Molto bene, ora ti devo lasciare. Manderò qualcuno a portarti qualcosa da mangiare. Ci rivedremo più tardi». Lo ringraziai. Lui si avviò verso la porticina dalla quale ero arrivata e controllò che fosse chiusa a chiave. Poi uscì dal portone principale e una volta ch’ebbe richiuso l’uscio dietro di sé, sentii la chiave girare nella toppa. Mi aveva chiuso dentro la stanza. Forse paventava un mio possibile ripensamento e un tentativo di fuga. Strano. Pensavo avrebbero celebrato il rito magico subito al mio arrivo. Che si sarebbero tolti immediatamente il pensiero. Invece il principe non era nemmeno presente al castello. Se la prendevano davvero comoda. Scelsi un libro da uno scaffale, poi mi sedetti su un divanetto adiacente una finestra e mi misi a sfogliare distrattamente le pagine. Sarebbe stata una lunga giornata. Circa due ore dopo sentii il portone riaprirsi. Entrò un domestico con un grande vassoio in mano. Senza guardarmi si inchinò, poggiò il vassoio su un tavolino davanti a me e se ne andò richiudendo la porta a chiave. Tolsi il coperchio e scoprii un piatto pieno di verdure fresche, frutta colorata, un morbido panino di semi e una brocca d’acqua. Tutti cibi freschi e ricchi di energia. Non avevo molta fame, ma una volta incominciato a mangiare spazzolai via tutte le pietanze. Il pomeriggio iniziò all’insegna della noia, tanto che, incredibilmente, a un certo punto mi addormentai sui morbidi cuscini. Quando mi svegliai il cielo stava già per imbrunire. Il vassoio era stato ritirato e nella stanza ero ancora sola. Iniziavo a sentirmi agitata e impaziente. Forse il corpo e la mente mi avevano concesso l’oblio del sonno, proprio per proteggermi dalla paura che poteva assalirmi. L’orario in cui mi sarei dovuta incontrare con Deam sul ponte doveva essere passato da parecchio. Ormai doveva essersene già andato. Mi si strinse il cuore. Ero contenta di aver dormito per buona parte del
pomeriggio, se fossi stata sveglia mi sarei torturata inutilmente per tutto il tempo. Pensando a lui un forte dolore al petto mi costrinse a piegarmi in due. Strizzai forte gli occhi e spalancai la bocca senza riuscire a trovare ossigeno. Poi, pian piano, l’aria riiniziò a fluire nei polmoni. Riuscii a calmarmi e la stretta al petto si allentò. Dovevano sbrigarsi e compiere la magia al più presto o rischiavo di crollare emotivamente. Invece passarono altre ore senza che succedesse niente. Il cielo ormai era un firmamento di stelle e avevo acceso un lume per riuscire a vedere qualcosa nella stanza buia. La mia ansia stava raggiungendo livelli quasi incontrollabili. Poi, finalmente, sentii la porta sbloccarsi. Ma invece del mago e dell'erede al trono entrò il servitore con un altro vassoio. Gli andai in contro pronta a tempestarlo di domande. Gli chiesi dove fossero il principe, il mago e la regina. Ma il maggiordomo sembrò molto spaventato e senza mai alzare gli occhi su di me si scusò, dicendo di non essere autorizzato a rivolgermi la parola. Adirata, lo afferrai per una manica per costringerlo a guardarmi in faccia e dirmi quello che volevo sapere, ma lui si scostò bruscamente e scappò, abbandonando di corsa la sala. C’era qualcosa che non andava, tutti i miei sensi erano in allerta, ma potevo cercare di scoprire cosa stesse accadendo, perché questa volta, il cameriere, si era dimenticato di chiudere la porta a chiave. Potevo uscire. Afferrai la maniglia, schiusi l’uscio e mi trovai in un lungo e ampio corridoio con il soffitto a volta affrescato di scene sacre. Non c’era anima viva e anche del maggiordomo non c’era già più traccia. Tutte le porte che davano sulla galleria erano chiuse, tranne l’ultima sulla destra, che era solo accostata e dall'ambiente in cui conduceva filtrava una flebile luce. Mi incamminai nella sua direzione, cercando di non produrre alcun rumore. Una volta davanti alla porta l’aprii leggermente con una mano, sperando non cigolasse. Era un ampio studio con una grande finestra dalla quale entrava il bagliore della luna. Un piccolo lume posato sopra un tavolino nel centro della stanza aiutava a spezzare l’oscurità. Un ragazzo stava seduto davanti alla vetrata su una ottomana di raso rosso, con la schiena curva e la testa tra le mani. Si raddrizzò appoggiando le spalle al muro e lasciò ricadere le braccia. Con il volto stava rivolto verso l'astro della notte, lo sguardo triste perso al di là del vetro. Non avevo avuto bisogno di vedere il suo profilo, la morbida curva delle sue labbra o i suoi occhi sinceri per riconoscerlo. L’avevo riconosciuto subito e un velo si era come dissolto, lasciando che ogni parola detta o solo accennata, si collegasse l’una all’altra, prendendo forma e significato. Ora capivo il suo turbamento. Perché conoscesse fatti che altri ignoravano. Perché i cavalieri erano stati così solerti ad aiutarlo nelle ricerche, dandogli poi vestiti e un cavallo per rientrare in città. Perché sembrasse voler tenere i sentimenti lontano. Deam era il principe. Era suo il cuore che avevo nel petto. D’un tratto si accorse di essere osservato. «Chi c’è?», chiese, voltandosi nella mia direzione e alzandosi in piedi. «A... Aili! Cos… Cosa…?». Vidi il suo viso passare dal disorientamento alla comprensione, mentre me ne stavo in piedi sull’uscio a guardarlo. «No», disse scuotendo la testa con l’espressione più triste e disarmata che avessi mai visto. Si portò le mani al viso, come se coprendosi gli occhi e impedendosi di vedere, avesse potuto in qualche modo tenere lontano quella triste verità, farla diventare meno reale, meno crudele. Mi accorsi solo in quel momento che stavo piangendo, perché sentii delle gocce che cadendo mi bagnavano il vestito sul petto. Cosa ci poteva essere da dire? Cosa potevamo mai dirci? A un tratto mi sentii afferrare una spalla. «Mia cara, vedo che non hai seguito le mie istruzioni». Era il vecchio mago. «Hai anche trovato il nostro amato principe», disse. Il suo tono era gentile, ma il suo volto tradiva una rabbia furibonda e la sua mano nodosa vicino al mio collo stringeva talmente forte da farmi male. «Allora passiamo alle presentazioni», continuò, spingendomi dentro alla stanza. «Mia cara ragazza lui è il principe Deam. Principe, lei, come sembri avere già compreso, è la ragazza a cui hai fatto dono del tuo cuore diciassette anni fa, nonché figlia dei sovrani del sud e legittima erede al trono», concluse.
Deam mi guardò sconvolto. Sapevo a cosa stava pensando: i nostri padri si erano uccisi a vicenda; la sua famiglia mi aveva costretto all’esilio usurpandomi il trono. Non poteva sapere che non gliene facevo certo una colpa e che ero lì di mia spontanea volontà, non per paura, ma per onorare la sua persona. Mi staccai dal mago, che ancora mi teneva per la spalla, e correndo andai da lui, che pareva sul punto di accasciarsi per terra e lo afferrai per le braccia. «Deam, mi dispiace, mi dispiace, io non sapevo che tu fossi il principe. Mi dispiace di averti mentito, ma oggi sono qui per te, solo per te, per onorare il nostro patto. Dimentica le nostre discendenze, a me non importa di quello che hanno fatto i nostri genitori o di chi sarei dovuta essere, mi importa solo di te. Sono qui di mia volontà. Non avevo rimpianti prima a lasciare la vita per il principe e ora che so che sei tu è ancora più semplice perché…», “perché ti amo”, stavo per dire, ma mi fermai in tempo, temevo che questo invece di facilitargli le cose le avrebbe solo complicate. Deam mi guardava sperduto, disperato, sembrava non avere capito una sola parola di quello che avevo detto. Non sapevo come aiutarlo a riprendersi. «Interessante», disse il mago, mi girai verso di lui sempre sorreggendo Deam. «Vi conoscevate già. Beh poco male, non cambia niente». Chiuse la porta. «Dopo aver scoperto chi davvero fosse la nostra bella ospite, ho riflettuto tutto il giorno su come fosse meglio agire. Quando feci l’incantesimo, non credevo certo che quella bambina in futuro si sarebbe veramente presentata a palazzo diciassette anni dopo. Gli esseri umani sono egocentrici ed egoisti. Chi rinuncerebbe alla vita per qualcun altro? Poi però, oggi, per scaramanzia, ho ordinato comunque alle guardie di accompagnare nelle mie stanze qualsiasi ragazza si fosse presentata al castello chiedendo del principe e tu sei venuta realmente. Pensavo di tenerti semplicemente rinchiusa finché il giorno fosse passato, il nostro principe morto e poi lasciarti andare». Cosa? Cosa stava dicendo? «Scoperta la tua identità invece le cose si sono complicate. Ora chiaramente non posso davvero permetterti di abbandonare questo luogo, la tua persona è una minaccia per i miei piani». Sentii Deam irrigidirsi al mio fianco. Mi afferrò per la vita e io mi voltai a guardarlo. Aveva lo sguardo vigile e collerico. Le parole del mago erano riuscite a scuoterlo e a farlo tornare in sé. Io avevo iniziato solo ora a capire la situazione. Doveva essere lo stregone la persona di cui mi aveva parlato: colui che controllava la mente della regina e teneva la sua vita tra le mani. Il mago continuò a parlare. «Visto che con la mia magia non posso né uccidere né incantare il principe finché il suo cuore non tornerà integro al completo dentro il suo corpo, credo che adesso porterò a termine il sortilegio che ha avuto inizio diciassette anni fa e questo mi libererà automaticamente anche della nostra principessa, che morirà appena avrò terminato il rito», concluse. Deam mi spostò dietro di sé. «Non te lo permetterò», disse irato, afferrando un tagliacarte d’argento da un tavolo accanto. Il mago iniziò a ridere. «Cosa vorresti fare? Uccidermi? Sai bene che con una magia ho legato la vita di tua madre alla mia. Se me la toglierai, anche lei morirà». Assunse un’aria di sfida. «Allora, cosa vuoi fare?». Deam si bloccò con la mano che brandiva il tagliacarte alzata a mezz’aria e il mago, approfittando di quel suo momento di incertezza, sollevò il bastone, che un secondo dopo sprigionò un fascio di luce che colpì Deam sul petto, facendolo schiantare addosso a un tavolo e rovinare a terra di schiena. Un secondo dopo volute luminose uscirono dal pavimento e gli legarono i polsi e le caviglie, imprigionandolo al suolo. Deam urlò di rabbia. «Maledetto liberami!», gridò. Corsi subito da lui e mi chinai a terra per cercare di liberarlo, ma appena provai ad afferrare un laccio, quello emanò una scarica di energia che mi bruciò le mani. «Veniamo a noi principessa», disse il mago pacato. Mi voltai verso di lui. «Mancheranno pochi istanti alla mezzanotte. Ti presti volontariamente al rito o vuoi lasciar morire il principe? In onore al tuo coraggio ti giuro che una volta compiuto il sortilegio non lo ucciderò, mi limiterò a tenerlo sotto il mio controllo come sua madre, ma almeno in questo modo avrà salva la vita. A te la scelta». «No, Aili non ascoltarlo, non dargli retta», gridò Deam divincolandosi. Io continuavo a guardare il mago. «Aili, Aili, no, ti prego».
Si dice che finché c’è vita c’è speranza. Ero sicura che sotto qualunque condizionamento fosse stato posto, prima o poi Deam sarebbe riuscito a liberarsi e a tornare padrone di se stesso. Non lo avrei lasciato morire. Non potevo. Non volevo. Gli dovevo tutto. Mi alzai in piedi e mi diressi verso il mago, mentre lui mi pregava di fermarmi. «Lo lascerà vivere? È una promessa?», chiesi rivolta allo stregone. «Hai la mia parola», rispose lui. Mi girai verso Deam. «Il popolo ha bisogno di te. Riuscirai a liberarti, ne sono sicura». Mi guardò angosciato. Tornai a fissare il mago e feci un cenno di assenso con la testa. Era arrivato il momento. Mi ero preparata a questo istante per tutta la vita e, incredibilmente, mi sorpresi a non avere affatto paura. Lui alzò il bastone e lo ricalò con forza sul pavimento. Una spira luminosa fuoriuscì dalla base e serpeggiando nell’aria mi entrò immediatamente nel petto. Fu come ricevere la scarica di una folgore. La sentii attorcigliarsi dentro di me e avvinghiarsi al cuore, stringendolo in una morsa dolorosa. Le forze mi abbandonarono. Poi la stretta scomparve e un lampo accecante mi uscì violentemente dal petto dirigendosi verso il mago. Persi di lucidità, compresi che mi stavo accasciando sul pavimento, quindi persi i sensi prima di toccare il freddo marmo. Galleggiavo in un mare di oscurità. Nessun tunnel di luce per me. Nessuna sensazione di pace a confortarmi per la mia morte. Che fregatura, o tutti i racconti delle esperienze di premorte erano fasulli o per me non valevano. Adesso cosa dovevo fare se nessuno mi veniva a prendere? Aspettare in quel buio per il resto dell’eternità? C’erano dei rumori lontani in sottofondo. Uno era un attutito palpitio, l’altro sembrava una voce, ma non riuscivo ad afferrare le parole. Cercai di concentrarmi. Il battito ora pareva più forte, assomigliava a quello di un cuore, del mio cuore, ma se ancora mi pulsava nel petto, forse allora non ero morta. Provai a mettere a fuoco la voce che sentivo, adesso la riconoscevo: era Deam. Il mio Deam. Sembrava disperato. Avrei voluto consolarlo, ma non riuscivo a trovare le labbra per parlargli, né le mani per accarezzarlo. Poi le parole divennero più chiare, ora potevo udirlo perfettamente. Gridava il mio nome. «Aili, Aili, ti prego, ti scongiuro, ti supplico torna da me. Io ti amo, ti amo, non mi lasciare», singhiozzava. Finalmente riuscii a ritrovare il mio corpo e ad aprire gli occhi. Deam, piangendo, mi cullava tenendomi tra le braccia, con il viso appoggiato al mio. Sollevai un braccio e gli accarezzai una guancia, lui drizzò di scatto il capo, guardandomi in volto con gli occhi arrossati. Gli sorrisi e alzandomi con il busto lo abbracciai. Lui mi strinse forte, affondando il viso tra i miei capelli. «Sei viva, sei viva», sussurrò. Ero viva, il sortilegio non aveva funzionato. Mi scostai da lui. «Dov’è andato il mago?», chiesi presa dal panico. «E’ scappato. Qualcosa nel rito è andato storto e gli si è rivoltato contro, mandando il suo bastone in mille pezzi. In quel momento anche le spire che mi tenevano imprigionato al pavimento si sono dissolte», rispose. Non sapevo cosa non avesse funzionato nel sortilegio e perché, ma se il cuore di Deam batteva ancora dentro al mio petto, significava che la sua vita era in pericolo e che ci restava poco tempo. «Dobbiamo trovarlo», gridai, mettendomi velocemente in piedi e fiondandomi verso la porta aperta. Corsi per il corridoio verso le sue stanze private, dove mi aveva tenuta rinchiusa per tutta la giornata. Sentivo Deam correre dietro di me. La porta era spalancata e io entrai nel salone senza esitare. Il mago stava chino, piegato sopra un sofà. Ansimava rumorosamente. Quando sentì i nostri passi si girò verso di noi e trattenni a stento un urlo. Il suo viso invecchiava a vista d’occhio. La sua pelle fremeva e si decomponeva sopra le ossa appuntite del viso e delle mani. Aveva i denti scoperti in un ringhio di rabbia e il suo sguardo ardeva di furore. «Che siate dannati, mi avete ingannato, avevate già rotto il sortilegio», gridò irato. Non capii cosa stesse dicendo. «Avrei dovuto uccidervi quando ne avevo la possibilità, come feci con i vostri padri», disse. «Sì, sorpresa li ho uccisi io quei due sciocchi». Fu colto da un accesso di tosse. Quando si riprese sputò a terra e continuò a parlare. «Come sapevate che interferire su un incantesimo infranto mi si sarebbe ritorto contro,
privandomi della mia magia? Come?», urlò cercando di rimettersi in piedi. Poi iniziò a ridere. «Amore. Dovevo capirlo dal modo in cui vi proteggevate a vicenda». Iniziò a vacillare nella nostra direzione. «Prima di andarmene però, porterò almeno uno di voi con me nella tomba». Ritrovando stabilità, scattò verso di noi. Deam mi si parò davanti, frapponendosi tra me e il mago. Quest’ultimo gli si avventò contro, prendendolo per il collo. Caddero al suolo. Deam cercò di scrollarsi di dosso lo stregone. Riuscì a fargli mollare la presa sulla sua gola e con un calciò lo spedì a terra lontano da sé. Il vecchio si rialzò, ma prima che potesse fare alcunché, il suo corpo iniziò a disgregarsi in polvere. Ebbe solo il tempo di mettere tutta la sua collera in un ultimo urlo colmo di rabbia, prima di diventare null’altro che un mucchio di cenere sul pavimento. Mi inginocchiai accanto a Deam, che era ancora seduto a terra, per vedere se stesse bene, quando delle campane nella città iniziarono a segnare con i loro rintocchi l’arrivo della mezzanotte. Deam parve spaventato, ma io pensai di avere intuito quello che era accaduto. Presi il suo viso tra le mani e posai le mie labbra sulle sue. «Andrà tutto bene, non avere paura», gli dissi, scostandomi da lui solo leggermente. «Ti amo. Il mio cuore è già tuo, te l’ho già restituito», dissi. «E il mio, io l’ho ridato a te». Iniziava a capire. Poggiai un palmo sul suo petto. Con la mano libera presi una delle sue e la appoggiai sul mio. «Riesci a sentirlo?», domandai. Due cuori che in verità erano diventati uno solo. Due vite che palpitavano all’unisono. Lo stesso battito vitale in due corpi separati. Ci baciammo finché le campane tacquero. Poi ci separammo fissandoci negli occhi. Il nostro amore ci aveva salvato e uniti per sempre. Dal corridoio sentimmo arrivare delle grida, qualcuno chiamava il suo nome. Una donna apparve trafelata sulla porta. «Mamma!», disse Deam alzandosi e correndo nella sua direzione. I due si abbracciarono. Mi sollevai in piedi e restai a guardarli. Il potere del mago si era spezzato, anche la regina era libera dal suo controllo mentale e la sua vita salva. Chissà da quanto tempo Deam aspettava questo momento. Dopo che si furono ritrovati per davvero, madre e figlio si girarono verso di me. Deam mi presentò alla regina. Lei all’inizio parve preoccupata, ma mano a mano che Deam le raccontava la storia che ci aveva condotti fino a lì, il suo viso si addolcì. Si separò dal figlio e venne da me. «Grazie», disse. Una semplice parola che racchiudeva tutto l’amore di una madre per il suo unico figlio. Poi mi abbracciò.
Il giorno seguente la città sembrava completamente mutata nell’arco di una sola notte. La coltre che la ricopriva era sparita. Pareva aver ritrovato i suoi colori e piccoli germogli spuntavano in ogni dove. Dopo tanto tempo la natura stava cercando di riappropriarsi dello spazio che le spettava di diritto. Alberi che prima apparivano morti e secchi ora erano ricoperti di gemme. La vita stava tornando a fiorire. E per la prima volta nella mia vita, davanti a me si apriva un futuro in cui non avevo mai avuto il coraggio nemmeno di sperare. Il resto della notte precedente io e Deam l’avevamo passato insieme nella sua camera, sdraiati sul suo letto tenendoci per mano, guardandoci negli occhi senza parlare. Troppo sovreccitati dagli eventi delle ultime ore per riuscire a dormire. Nessuno dei due pensava avrebbe visto l’alba del giorno dopo. Tutti e due convinti, che quella appena trascorsa, sarebbe stata la sua ultima giornata su questa terra. Invece eravamo ancora lì ed eravamo insieme. Alle prime luci la stanchezza ebbe la meglio e sprofondammo entrambi in un sonno profondo. I giorni che seguirono furono di grande fermento sia per noi che per la popolazione. Le pesanti tasse e le ingiuste leggi imposte dal mago furono cancellate e dopo che ne avemmo discusso tra di noi, la regina annunciò ai cittadini che entro la fine del mese avrebbe abdicato in favore del figlio. I molti anni sotto il
controllo del mago l’avevano logorata e ora voleva solo ritirarsi in tranquillità. All’inizio Deam e la sovrana erano titubanti, in quanto anch’io avevo pari diritti di salire al trono, ma Deam era stato cresciuto come un re, aveva una preparazione che a me mancava e la popolazione già lo amava, così fui irremovibile sul fatto che il nuovo reggente dovesse essere lui. La mia balia mi raggiunse pochi giorni dopo al castello, scortata da delle guardie. Con lei lì, mi sentii finalmente completa. Avrei aiutato Deam a riportare i nostri regni al loro antico splendore. I nostri regni che erano stati uniti in uno solo, così come lo erano i nostri cuori.
Era passata una settima dal mio compleanno e dagli eventi che avevano cambiato inesorabilmente la mia vita e quella di tante altre persone. Me ne stavo sull’ampio terrazzo della mia camera, seduta sul parapetto, a gustarmi il vento che mi accarezzava la pelle e a rimirare il bagliore delle stelle e della luna, quando Deam entrò nella mia stanza e, vedendomi, mi raggiunse sul balcone. «Mia principessa», disse con un inchino, sfoderando nel contempo il suo sorriso sghembo. «Mio principe», risposi ridendo. In quegli ultimi giorni non avevamo avuto tempo per restare molto insieme da soli. C’era sempre qualcosa da fare, qualcuno con cui parlare. Fui contenta di questo momento di intimità solo per noi due. Si appoggiò alla balaustra con i gomiti, sfiorandomi con un braccio le gambe, lo sguardo rivolto verso il parco su cui si affacciava la mia camera. Gli scostai i capelli dal viso e lui si girò a guardarmi. I suoi occhi seri e penetranti fissi nei miei. «Sposami», esclamò, cogliendomi completamente di sorpresa. «Il giorno stesso dell’incoronazione», continuò, mettendosi dritto davanti a me. «Sali al trono insieme a me, come mia regina». Per un momento, sbalordita dalla sua proposta, non riuscii a rispondere. Impiegai qualche istante per riuscire a rimettere in funzione il cervello. «Me lo stai chiedendo perché sei preoccupato che mi possa sentire messa da parte? Pensavo ne avessimo già discusso», dissi. Parve offendersi. «No. Come ti viene in mente? Ti voglio al mio fianco perché non posso più pensare a una vita senza di te». Il suo sguardo si addolcì. «Perché non desidero niente se non sei come me… Perché mi sono innamorato». Chinò il capo, poi lo rialzò sorridendo, come se simili sentimenti lo meravigliassero e allo stesso tempo lo colmassero di gioia. «Sposami, Aili». Il mio cuore ormai saltava incontrollato. Lui sembrò fermarsi a riflettere su qualcosa. «Forse volevi una richiesta formale in ginocchio?», chiese, sollevando un sopracciglio. Risi. «No, no, sei stato perfetto». Le sue parole avevano scatenato in me una felicità così totale e travolgente che faticavo seriamente a contenere. I sentimenti che avevo provato per il ragazzo con cui ero sfuggita ai briganti, si erano intrecciati e fusi insieme a quelli per il bambino che diciassette anni prima mi aveva salvato la vita, regalandomi una parte di sé. Non mi sarebbe stata necessaria come prova l’unione dei nostri cuori in uno solo per comprendere cosa provassi per lui e se anche tali emozioni, all'inizio, quando ancora non sapevo chi fosse, erano state probabilmente veicolate dal sortilegio che ci legava, attirandoci inesorabilmente l'uno verso l'altra, non avevo alcun dubbio: lo amavo. Lo amavo davvero. Tantissimo. Come non avrei mai creduto di poter amare qualcuno. Ciononostante avevo bisogno di un’ulteriore conferma prima di dargli una risposta. «Sei davvero sicuro che quello che provi per me non sia dovuto semplicemente all’incantesimo che ci unisce?». Si fece pensieroso. «In principio immagino fosse in parte così. Insomma, è stata un’attrazione piuttosto dirompente e, ammetto, che se mi fosse stato possibile mi sarei sottratto a tali sentimenti, non erano proprio opportuni date le circostanze. Tuttavia, a quanto pare, è ben difficile chiudere il proprio cuore a qualcuno che già lo possiede. Direi che hai sfondato una porta aperta e io non ho potuto che lasciarti entrare. Mi è stato impossibile respingerti». Mi fissò. «Però tutto questo ha realmente importanza se è servito a far nascere
qualcosa di genuino e sincero? Se la situazione fosse stata differente… Se la nostra vita fosse stata differente…». Mi sfiorò una guancia con una mano. «Sono certo che mi sarei innamorato di te in ogni caso». Sorrise. «Magari ci sarebbe solamente voluto un po’ più di tempo perché tu riuscissi a sbaragliare le difese intorno al mio cuore». «Invece che pochi giorni?». «No, invece che poche ore». Risi. Lui piegò leggermente il capo verso una spalla. «Ti basta come risposta?». «Sì. Credo di sì», dissi. Si avvicinò maggiormente. «Bene. Allora, mia signora… circa la mia proposta...?». Lo presi per la vita. «Certo che ti sposo, Deam. Il mio cuore è indissolubilmente tuo, oggi, domani, per sempre. Ti amo». Le guance mi si colorarono leggermente per l’imbarazzo. Mi era un po’ difficile esprimere così apertamente quello che sentivo, ma volevo lo sapesse. I suoi occhi si illuminarono. Accostò il suo viso al mio e mi baciò teneramente. «Mia regina», sussurrò, senza staccare la sue labbra dalle mie. «Mio re», risposi senza riuscire a trattenere un sorriso. Quella notte le stelle e la luna ci fecero da testimoni, suggellando il nostro patto di amore eterno.
Capitolo 5
Non ero abituata a vivere circondata da così tante persone e tutti erano fin troppo solerti nel cercare di aiutarmi in ogni minima attività, anche quelle più intime e personali. Una volta definiti i miei spazi con la servitù però, adattarmi alla vita di corte fu più semplice di quanto avessi potuto sperare. Mi fu assegnata una cameriera personale, una ragazza di nome Eica, di poco più giovane di Deam, con cui mi trovai subito in sintonia. Era stata la dama di servizio del mago e lavorava al castello sin da quando la casata del nord vi aveva posto la sua principale dimora. Senza bisogno che mi esprimessi a parole aveva subito compreso il mio imbarazzo e le mie difficoltà nell’avere sempre qualcuno che facesse le cose al posto mio e vi si era adattata con discrezione. Le ero molto grata per questo. Nei rari momenti di tempo libero mi piaceva vagare per il palazzo e per il parco, fantasticando, immaginando di vedere i miei genitori affacciati a una finestra o seduti su uno dei morbidi divani in raso. Anche dopo tutti quegli anni, il castello era pregno della loro presenza. Nei loro svariati ritratti affissi alle pareti; negli appunti segnati nei margini ingialliti di alcuni libri; negli eleganti centrini che, avevo scoperto, a mia madre piaceva ricamare. Era così strano essere circondata da tante cose che gli erano appartenute; attraverso loro, mi sembrava di imparare a conoscere un po’ quei genitori che non avevo avuto la possibilità di incontrare. Mancava poco più di una settimana al matrimonio e all’incoronazione. Si sarebbero svolti nella basilica al centro della città in un’unica funzione. Avevamo richiesto una celebrazione semplice, senza troppo sfarzo, ma la cittadinanza era in fermento e in ogni dove spuntavano addobbi e decorazioni. Potevo capire la loro gioia. La salita al trono del principe rappresentava la fine di un periodo buio e apriva le porte a un nuovo inizio. Deam era come un sole che illuminava il loro futuro. Sapevo come si sentivano, perché Deam irradiava anche me. Mi piaceva pensare però che qualcuno di quei festoni colorati fosse stato appeso anche per festeggiare il mio ritorno. Mi stavo recando in uno dei saloni dell’ala ovest, vi erano stati portati alcuni doni provenienti dalle famiglie nobiliari del regno e mi era stato chiesto di scartarli e scrivere delle lettere di ringraziamento. Mentre percorrevo silenziosamente il lungo corridoio, con il mio abito che frusciava appena sfiorando il pavimento di marmo, sentii delle voci parlottare dietro una porta socchiusa. Rallentai il passo. L’uscio si spalancò di colpo e un ragazzo smilzo dallo sguardo furente ne uscì di gran carriera, finendomi quasi addosso. Si bloccò dinanzi a me e quando i nostri occhi si incontrarono assunse un’aria sgomenta. Distolse
rapidamente lo sguardo, si profuse in un frettoloso inchino, mormorò delle scuse e si avviò poi velocemente lungo la galleria. Aveva un aspetto familiare, ma non riuscii a ricordare dove lo avessi già visto. Un secondo dopo dalla stessa stanza uscì Eica. Indossava un abito color cachi. I capelli dorati erano raccolti in una lunga treccia e al collo portava una catenina, alla quale era appeso uno strano ciondolo simile a un lungo rametto di legno, che le vedevo sempre indosso. Non avevo ancora avuto il coraggio di chiedere cosa rappresentasse per lei quel bizzarro pendente. Temevo di essere troppo indiscreta. «Principessa! Fate una passeggiata? Gradite compagnia?», chiese, scrutandomi in volto. «Grazie, ma sto andando nella sala degli arazzi. Sono arrivati dei regali e devo scrivere dei ringraziamenti», risposi. «Capisco. Allora vi vedrò più tardi. Con permesso». Sorridendomi fece una riverenza per accomiatarsi e si avviò nella direzione opposta alla mia. I regali erano decisamente molti più di quanto mi fossi aspettata. Così mi misi subito all’opera. Iniziai a stracciare la carta che li avvolgeva, ad aprire le buste e a srotolare le pergamene. Mi sedetti quindi alla scrivania in mogano. Estrassi dal cassetto centrale una pila di fogli, la posai sul tavolo alla mia sinistra, presi il primo e dopo aver intinto il pennino nel calamaio iniziai a scrivere la prima lettera. Una volta terminata la sigillai con la ceralacca e vi impressi il sigillo della famiglia reale del nord. Avremmo dovuto farne creare uno nuovo. Uno che unisse gli stemmi di tutte e due le nostre famiglie. Al pensiero sorrisi tra me e me. Lo misi mentalmente tra le cose da fare. Era già l’imbrunire quando Deam entrò nel salone cercandomi con gli occhi. Quando mi vide sorrise e io mi alzai per andargli in contro. Non era proprio nei dettami dell’etichetta di corte, ma io ero cresciuta in campagna, per cui al diavolo il galateo, gli gettai le braccia al collo. Lui strinse le sue intorno alla mia vita, sollevandomi da terra. Il profumo dei suoi capelli era inebriante. Quando i miei piedi toccarono di nuovo il pavimento, le sue labbra cercarono le mie e mi baciò dolcemente. Ero traboccante di felicità. «Mi sei mancata», disse. «Anche tu». Lo guidai tenendolo per mano fino alla scrivania. «Sto scrivendo i ringraziamenti per i regali, ma ho quasi finito, me ne mancano solo un paio», dissi, indicando la lettera che avevo lasciato a metà. «Resti con me finché non ho finito?», domandai, speranzosa. «Certo, per oggi sono libero. Sono tutto tuo», rispose, inarcando un angolo della bocca nel suo sorrisetto furbo. Sentii le guance avvampare e per dissimulare mi misi a sedere afferrando il pennino e fingendomi indaffarata. Lui ridacchiò, sapeva come mettermi in imbarazzo e di sicuro lo faceva apposta per vedermi arrossire. Deam prese a gironzolare per la stanza osservando i doni per le nostre nozze e il cambio di reggenza e io cercai di concentrarmi per finire al più presto. «Te ne è sfuggito uno», disse, mentre si chinava per afferrare un piccolo pacchetto bitorzoluto di carta marrone legato con uno spago. Sciolse la cordicella e una volta liberato l’involucro dallo spaghetto, scartò la confezione. «Cosa contiene?», domandai andando verso di lui. «Non ne sono sicuro. Sembrerebbe una piccola fede fatta in legno». La afferrò con le dita, sollevandola dalla confezione. «Ah, maledizione, è bollente!». Deam lasciò andare subito la vera, che ruzzolò sul pavimento. Mi accovacciai e la toccai incerta con la punta dell’indice. Era fredda. La presi in mano e mi rialzai in piedi, confusa. «Strano, ora è fredda», dissi. Mentre osservavamo l’anello, il suo colore cominciò a mutare, come se volute fiammeggianti si stessero espandendo, turbinando al suo interno, possedendolo fino a farlo diventare completamente rosso. All’improvviso Deam gemette, si portò le mani al petto e si piegò in due. «A... Aili!». La voce gli uscì strozzata. «Deam, cosa succede?», gridai, spaventata.
Sembrava preda di un fortissimo dolore. Cadde sulle ginocchia, ansante e un attimo dopo si accasciò a terra privo di sensi. «Deam! Deam!», urlai inginocchiandomi accanto a lui, cercando di girarlo supino. Avvicinai il mio viso alla sua bocca per accertarmi che stesse respirando. Non avrei avuto bisogno di appoggiare la mano sul suo petto per sentire se il cuore batteva, il mio e il suo erano diventati una cosa sola, se il mio ancora palpitava voleva dire che lo stava facendo anche il suo. Lo feci ugualmente e un rincuorante pulsare si trasmise al mio palmo. Eppure c’era qualcosa che non andava. Un particolare dissonante che mi causò un immediato mancamento, il panico si impossessò di tutte le mie membra, sudori freddi ricoprirono la pelle e un singhiozzo sfuggì dalle labbra. I nostri cuori non battevano più in sincrono. Lo afferrai per le spalle e lo scossi cercando di svegliarlo senza successo. Sul suo viso non c’era più traccia di sofferenza, sembrava solo profondamente addormentato.
Ci trovavamo nella stanza di Deam. Non avrei voluto piangere, ma le lacrime uscivano da sole e non riuscivo a controllarmi. Io e la mia balia eravamo sedute su un sofà. Lei mi circondava con un braccio le spalle, cercando di consolarmi. Ma io non riuscivo minimamente a concentrarmi, non capivo una singola parola di quello che diceva. La regina era seduta sul letto del figlio e gli teneva la mano. Deam era immobile, disteso sul suo letto, privo di conoscenza da ormai tre ore. Quando era svenuto nella sala degli arazzi, avevo impiegato un attimo per riprendermi dallo shock e correre a chiamare aiuto. Quattro domestici l’avevano alzato di peso e portato nella sua stanza, adagiandolo sul morbido materasso del letto a baldacchino. Il legame magico che si era creato grazie al nostro amore si era infranto. La magia che ci aveva uniti, permettendoci di restare in vita entrambi, era svanita. Sentivo Deam scivolare via, lontano da me. Lo stavo perdendo. Avvertivo come qualcosa di tangibile, che la sua presenza dentro di me si stava affievolendo sempre di più ogni minuto che passava. Improvvisamente fui consapevole del piccolo rigonfiamento nella taschina del mio corpetto. Vi infilai le dita ed estrassi l’anello. L’avevo infilato lì, senza quasi rendermene conto, prima di cercare soccorsi. Lo soppesai sulla mano, studiandolo con attenzione. Il colore rosso acceso ora sembrava più sbiadito, ma forse erano le lacrime a ingannare la vista. Di una cosa invece ero sicura, Deam si era sentito male dopo averlo toccato, questa piccola fede doveva per forza averci qualcosa a che fare. Mi asciugai gli occhi con le mani e mi alzai in piedi. «Abbiamo bisogno di parlare con qualcuno che s’intende di magia», dissi decisa. Non potevamo continuare ad aspettare, limitandoci a vegliare il suo corpo inerte. Sentivo una urgenza che mi tendeva tutti i nervi e mi spingeva ad agire, a cercare un aiuto, qualsiasi esso fosse. La regina si voltò a guardarmi, rigida e angustiata. Le raccontai nel dettaglio quello che era successo nella sala degli arazzi, mostrandole la vera. «Pensi possa trattarsi di qualche sortilegio?», domandò, sbiancando ulteriormente in volto. «È possibile», risposi. Riportò l'attenzione sul figlio diventando meditabonda e silenziosa. «Dopo la città di Amlbas, seguendo la via che porta alle montagne rocciose, sul terreno che un tempo apparteneva al regno del nord, a due giorni di viaggio da qui, abita una savia. Non è una maga, ma sa vedere la verità che si cela dietro alle cose. Se ancora vive lì e riuscirai a trovarla, ti aiuterà. Mio marito era solito recarsi da lei prima che...», si interruppe per un momento, «prima che il mago si insinuasse a corte», concluse. «Partirò immediatamente», dissi. Diedi ordini perché si sellassero tre cavalli e due guardie si preparassero alla partenza. La mia balia cercò di persuadermi ad aspettare che facesse giorno e dormissi qualche ora prima di avviarmi. Quando mi vide irremovibile si offrì di accompagnarmi, ma la convinsi a restare. Era una pessima cavallerizza e viaggiare in carrozza ci avrebbe rallentato.
Cercai degli abiti comodi e caldi per cavalcare e poco appariscenti per passare inosservata. Scelsi una giacca sciancrata lunga quasi fino alle ginocchia, una maglia a maniche lunghe, dei pantaloni, un paio di stivali e un mantello con cappuccio. Eica mi aiutò a cambiarmi e quando glielo chiesi mi procurò un piccolo sacchettino di stoffa in cui riposi la fede. Una volta chiusa la bustina con un laccetto, la infilai nella tasca destra della giacca. Eica non poteva sapere di cosa si trattasse e anche se probabilmente trovò la cosa bizzarra non pose domande. Appena pronta scesi nelle scuderie. I due cavalieri erano già lì ad aspettarmi. Due ragazzi sotto i trent’anni, uno biondo e uno bruno, tutti e due con gli occhi gonfi di sonno, dovevano averli tirati giù dal letto. Si presentarono. Quello con i capelli chiari e lunghi si chiamava Iane, quello con i capelli scuri e disordinati Rimet. Li istruii secondo la nostra destinazione. Mi ero fatta spiegare nel dettaglio dalla regina come trovare la casa della savia. I due si limitarono ad annuire col capo, così, senza ulteriori indugi, saltammo in sella e partimmo nella notte al galoppo.
Lasciare Deam era stata una delle cose più difficili che avessi mai fatto. Per uscire dalla sua stanza e non restare al suo fianco, avevo dovuto chiamare a raccolta tutta la forza di volontà di cui disponevo; ma ora che ero in viaggio mi sentivo più determinata che mai. Cavalcammo senza sosta per ore. All’alba il cielo completamente coperto dalle nubi non lasciava passare che pochi raggi di sole, rendendo il paesaggio, anche di giorno, quasi privo di colore. Le condizioni del tempo continuarono a peggiorare, fino a sfociare in una pioggia fitta e insistente. Non ci fermammo. Quando la pianura cedette il posto alle colline, Iane, che mi precedeva, fece rallentare il cavallo e mi affiancò. «Dobbiamo fare una sosta. I cavalli sono stremati. Dovrebbe esserci una stazione per il cambio dei destrieri tra qualche chilometro», disse. Non volevo fermarmi, ma aveva ragione. «D’accordo», dissi. Il cielo, sempre cupo, finalmente si acquietò e poco dopo avvistammo la stazione. Era una locanda di grandi dimensioni, costruita interamente in legno scuro, con una lunga scuderia che si allungava perpendicolarmente nella parte posteriore della costruzione. La porta d’ingresso si aprì cigolando su un ampio stanzone ingombro di tavoli. Nella parte opposta della stanza c’era un lungo bancone, con davanti alcuni sgabelli dall’aria poco robusta. Seduti a gruppetti nei vari tavoli, diversi altri viandanti, più di quanti mi sarei aspettata, producevano un gran baccano, gozzovigliando. Alzavano grandi boccali ricolmi di un liquido ambrato, calici di vino e caraffe d’acqua. Sui vassoi erano posate grosse fette di pane, sulle quali era spalmata una crema non ben definita dal colore grigiastro, patate bollite e ciotole di fagioli lessi. Il mio stomaco borbottò. Doveva essere ormai passata l’ora di pranzo, ma a discapito di quello che diceva il mio corpo, la preoccupazione non mi permetteva di avere appetito. Ci portammo verso il bancone, dove un signore di mezza età ci venne in contro con un largo sorriso stampato sulla faccia. Iane mi guardò di soppiatto mentre ci avvicinavamo al banco, capii che voleva essere lui a trattare con l’oste e io acconsenti con un lieve movimento del capo. Si accordarono sul cambio dei cavalli e l’uomo mandò subito un garzone a prendere i destrieri, che avevamo lasciato legati sotto una tettoia fuori dall’ingresso, perché se ne occupasse. Dovevamo attendere una decina di minuti per avere pronti e sellati degli altri cavalli, così Iane chiese anche tre porzioni del piatto della casa e una caraffa d’acqua. Protestai dicendo che non avevo fame, ma lui mi ignorò e fece l’ordinazione anche per me. Come futura regina pareva trasudassi ben poca autorità. Togliemmo i mantelli bagnati e li appendemmo a un attaccapanni di ferro fissato alla parete. Ci sedemmo a un tavolo, io da una parte, i due cavalieri dall’altra. Le pietanze non tardarono ad arrivare. Erano le stesse che avevo visto servite agli altri clienti. Iane spinse un piatto nella mia direzione. «Mia signora, vi prego mangiate, avete bisogno di energie», disse.
«Cavalcare così è fisicamente più estenuante di quanto possa sembrarvi in questo momento, abbiamo ancora un lungo viaggio davanti a noi, dovete tenervi in forze», aggiunse Rimet, appoggiandomi un cucchiaio davanti. Gli ero grata per la loro premura, ma mi sentivo trattata come una bambina capricciosa. Non potevano sapere il motivo del mio scarso appetito. Non conoscevano nemmeno la ragione del viaggio che avevamo intrapreso. Gli era stato ordinato di accompagnarmi e di aver cura che non mi succedesse niente. Capivano solo che il tempo era un aspetto fondamentale e che non potevamo sprecarlo. Mi sforzai di ingoiare qualche boccone per accontentarli, ma ogni cucchiaiata mi faceva sentire colpevole. Colpevole di stare bene. Colpevole di essere viva, mentre Deam… Mi venne un violento conato di vomito e dovetti precipitarmi fuori dalla locanda. Mi portai sull’erba dalla parte opposta della strada e vomitai anche l’anima. Lì, con gli stivali nell’erba bagnata e il vento che mi sferzava il viso, desiderai mettermi a piangere e gridare con tutto il fiato che avevo in gola. Una mano mi sfiorò la spalla destra e quasi trasalii. «Vi sentite bene?», chiese Iane. ‘No, per niente’, pensai. «Sì, ora mi riprendo», risposi invece. «Ho bisogno solo di un momento». Lui e Rimet mi guardarono con espressioni preoccupate. Dovevano essermi corsi dietro, quando ero scappata in tutta fretta fuori dal locale. Inspirai a pieni polmoni ed espirai lentamente, cercando di riprendere il controllo. Non era il momento di lasciarsi andare. Deam era vivo e aveva bisogno del mio aiuto. Non lo avrei deluso. Ritornammo all’interno della locanda. Chiesi all’oste dove potessi darmi una rinfrescata al viso e lui mi indicò una porta sulla destra del locale, vicino a quella che portava alle cucine. «Sempre dritto, l’ultima porta in fondo», aggiunse. Mi avviai, mentre Iane e Rimet tornavano a sedersi al tavolo, dopo che avevo rifiutato la loro proposta di accompagnarmi. Dietro all’uscio c’era un lungo corridoio. Il legno delle pareti era dipinto di bianco e dove si incontrava con il pavimento era sporco e un po’ scrostato. Arrivai alla porta indicatami dal proprietario e l’aprii. Fui investita da una folata di aria fredda. Il corridoio si apriva all’esterno sul retro del locale, sotto un grande porticato. Alla mia sinistra c’era un lavabo in roccia con la pompa in ferro leggermente arrugginita. Più avanti una casetta alta e stretta, probabilmente la latrina, attirava l’attenzione per il suo aspetto sgangherato e pericolante. Accanto ad essa un grande cumulo di legna era accatastata in modo disordinato. Mi portai davanti al lavello. Afferrai il maniglione per far scendere l’acqua e abbassai la leva. Il liquido trasparente si riversò fuori dal tubo. Lo presi tra le mani e mi sciacquai la faccia e la bocca. Improvvisamente mi sentii afferrare da dietro e venni strattonata e scaraventata contro il muro. Sbattei la testa e per un momento rimasi intontita. Quando mi riebbi una mano mi teneva premuto il capo contro il legno della parete, mentre l’avambraccio faceva pressione sulla schiena. Con l’altra mano l’assalitore stava cercando di aprire il bottone della tasca destra della mia giacca. La tasca dove tenevo il sacchetto con dentro l’anello. «Resta ferma, strega», disse. Gli mollai un calcio con il tacco sullo stinco e lui ebbe un momento di cedimento. Ne approfittai per sgusciare di lato. Feci in tempo a voltarmi, ma l’aggressore, che indossava un cappuccio che ne metteva in ombra il viso, mi afferrò per le spalle e capitolai sotto il suo peso, finendo a terra sul pavimento di cemento grezzo con lui che mi sovrastava. Spaventata, cercai di spingerlo via con le mani, dimenandomi sotto di lui, ma era pesante e più forte di me. Mentre cercava di afferrarmi i polsi, il copricapo gli scivolò all’indietro mostrandomi il suo volto. Mi bloccai di colpo. «Deam?», dissi sconvolta, sgranando gli occhi. Lo guardai sbigottita a bocca aperta, cercando di dare un senso a quello che stavo vedendo, un senso a quello che stava accadendo.
Visto che io non mi dibattevo più, anche lui si era fermato e ora mi osservava, inginocchiato sopra di me con espressione interrogativa. Ci stavamo guardando negli occhi, ma non c’era segno di riconoscimento nei suoi. Erano duri e freddi. Era lo sguardo che riservava ai nemici. Mi sentii gelare. «Deam… Cosa…?». Non sapevo cosa dire, erano troppo le domande che si agitavano nella mente. «Taci. Non mi interessano le tue bugie», affermò con voce decisa. Mi prese entrambi i polsi nella mano sinistra e con la destra riprese ad armeggiare con la chiusura della mia tasca. Nonostante non comprendessi quello che stava succedendo, i miei sensi allarmati mi dissero che dovevo proteggere la vera a tutti i costi. Così urlai con quanto fiato avevo in gola, sperando che Iane e Rimet mi sentissero. Evidentemente Deam non si era aspettato una tale reazione, perché per un attimo si bloccò, interdetto. Riuscii a sganciare un polso dalla sua presa e gli tirai un pugno sul naso. Lui portò entrambe le mani al volto con un gemito di dolore. Non mi lasciai scappare quell’occasione. Facendo leva con le braccia riuscii a spostare il corpo all’indietro, liberando una gamba. L’alzai e calai violentemente lo stivale sul suo viso. Deam barcollò all’indietro, guardandomi per un attimo esterrefatto, finendo poi a terra svenuto accanto a me. In quell’istante la porta si aprì e ne uscirono Iane e Rimet con le spade sguainate.
Capitolo 6
Non sapevamo come Deam fosse arrivato fin lì. Per cui prendemmo un quarto destriero su cui caricarlo, dopo avergli legato le mani dietro alla schiena con una fune. Iane e Rimet parevano terrorizzati. Dietro mio ordine avevano legato e issato a cavallo, come fosse un sacco di paglia, il loro principe esanime, il loro sovrano a cui dovevano dedizione e obbedienza. Lo stavano trattando come un brigante, sotto i comandi di quella che, probabilmente, ritenevano una sciocca ragazzina che non riusciva nemmeno a tenersi il cibo in pancia. Vedevo già nelle loro menti profilarsi le più terribili punizioni per quello che ai loro occhi doveva sembrare, ogni minuto di più, un terribile tradimento. Forse pensavano avessi in mente qualche vendetta per riprendermi il regno usurpatomi. Sperai non mi si rivoltassero contro prima di essere giunti alla nostra destinazione. Non avrei mai voluto trattare Deam in quel modo, non avrei mai voluto fargli del male, ma sentivo di dover essere cauta. Non era solo per il fatto che mi avesse assalita, ma perché mi aveva guardato come un’estranea e ancora peggio, come una nemica. Non sembrava in sé e io avevo bisogno di risposte. Deam riprese conoscenza mezz’ora dopo esserci rimessi in viaggio, mentre la strada che percorrevamo deviava per costeggiare una ricca boscaglia. «Fermatevi. Dove mi state portando?», domandò, adirato. «Voi due, vi conosco!», disse, cercando di alzare la testa dalla sua scomoda posizione a penzoloni sul dorso dell’animale. «Siete delle guardie imperiali». Iane e Rimet erano rigidi e bianchi in volto come dei cadaveri. Le cose si mettevano male. Feci rallentare il cavallo e mi portai di fianco a Deam. «Perché mi hai attaccato in quel modo?», chiesi. I suoi occhi freddi incrociarono i miei. Erano occhi che non mi conoscevano. Mi sentii morire dentro. Cosa stava succedendo? Deam non rispose continuando a guardarmi arcigno. «Deam...?». Tutte le domande che desideravo porgli mi morirono sulle labbra e un nuovo interrogativo si erse con preponderanza sopra tutti gli altri, insieme a un’assoluta sicurezza circa la sua conclusione. «Tu non sai chi sono?», quasi mormorai quelle parole, tanto mi sembrava assurdo anche solo pensarle. «Conosci il mio nome?», domandai. «Non mi serve sapere il tuo nome», rispose deciso.
Allora era così. Non si ricordava di me. Possibile? «Deam?», sussurrai il suo nome, implorante, terrorizzata. Ricevetti in cambio da parte sua solo un aggrottamento della fronte. Mi sentii mancare il respiro. Colsi Iane e Rimet intenti a scambiarsi degli sguardi carichi di significato. Iniziavano anche loro a intuire la verità. Ero completamente stordita dall’inaspettato evolversi degli eventi. Guardai il sentiero senza vederlo veramente, con la mente totalmente vuota, incapace di mettere insieme i pezzi di quell'ultima rivelazione. Improvvisamente sentii un tonfo. Deam si era lasciato scivolare dal dorso dell’animale, cadendo poi seduto a terra per lo scarso equilibrio datogli dalle mani legate. Si rimise prontamente in piedi sotto il mio sguardo allibito, quindi, a tutta velocità, si lanciò verso il folto del bosco. Gridai il suo nome con il cuore in gola. Non potevo lasciarlo andare. Con un balzo scesi da cavallo e mi gettai a capofitto al suo inseguimento. Riuscivo appena a scorgere la sua figura mentre sfrecciavo tra gli alberi, cercando, quando ci riuscivo, di proteggermi con le mani il volto dai rami, che sembravano piccoli rasoi affilati sulla mia pelle. Il terreno ricoperto di sterpi era molto irregolare e rischiai più volte di inciampare. Anche con le mani legate Deam era più veloce di me. Lo chiamai disperata, pregandolo di fermarsi, sapendo già che non mi avrebbe dato ascolto. Il cuore batteva freneticamente nel petto e iniziò a mancarmi l’aria. Non sarei riuscita a stargli dietro ancora per molto. A un certo punto credetti di averlo perso, ma poi lo scorsi un po’ più a sinistra di dove lo stavo cercando con gli occhi e mi rimisi a correre in quella direzione. Più mi sentivo affaticata, più cresceva dentro di me la disperazione data dalla sconfitta. Avrei finito per cedere, lo sapevo, vinta dalle limitazioni imposte dal mio stesso corpo, ma strinsi i pugni e costrinsi le gambe a continuare a muoversi, perché era ancora arrivato quel momento. Iniziai a sentire il rumore di un fiume e più sotto un altro suono, come di un basso boato. Gli alberi andarono diradandosi e questo mi permise di aumentare ulteriormente la velocità. A un certo punto mi ritrovai fuori dal bosco, su un terreno roccioso a ridosso di un torrente. Lasciai spaziare la vista e vidi Deam a un centinaio di metri da me, che correva affiancando il corso d’acqua. Mi rimisi subito all’inseguimento. Senza gli alberi a ostacolare il cammino, riuscii a guadagnare su di lui un po’ di terreno, ma ormai ero allo stremo delle forze. Il boato si era andato a mano a mano intensificando, dovevamo essere prossimi a una cascata. Dopo altri sfiancanti minuti di corsa lo vidi fermarsi. Rallentai con il fiatone, cercando di trovare ossigeno. Barcollavo per lo sforzo. Deam stava in cima a una rupe. Il corso del fiume si interrompeva bruscamente e non c’era modo di proseguire. Eravamo arrivati alla cascata. Pensai con sollievo che fosse finita. Invece vidi Deam guardare giù dal burrone e un secondo dopo, scioccata, spiccare un balzo lanciandosi nel vuoto. Urlai con quanto fiato avevo in gola, sconvolta. Raggiunsi in fretta il bordo del precipizio, dove mi buttai immediatamente carponi sporgendomi dalle rocce. Il torrente faceva un salto di una cinquantina di metri, atterrando in un piccolo ristagno d’acqua, continuando poi il suo corso serpeggiando verso valle. Rimasi qualche secondo interminabile ad aspettare di vedere Deam riemergere, con il cuore che mi rimbombava nelle orecchie, ma di lui non c’era più traccia. Capii di non avere altra scelta. Passai le mani sudate sul viso stringendo gli occhi. Tremavo come una foglia. Mi issai in piedi e prima di perdere il coraggio, feci un paio di passi indietro per prendere la rincorsa e con un lancio mi buttai. Caddi per quello che mi sembrò un tempo infinito. Quando finalmente raggiunsi l’acqua, l’impatto fu ancora più violento di quanto mi fossi aspettata. Tra il turbinio della schiuma riuscii a scorgere parte del fondale. Era un insieme di rocce appuntite che svettavano verso l’alto e carcasse di alberi. Accanto a me un spuntone aguzzo lambiva quasi la superficie. L’avevo mancato per un soffio. Riemersi prendendo fiato. Mi guardai intorno, ostacolata dagli spruzzi che mi finivano negli occhi. Non riuscivo a vedere Deam da nessuna parte. Il panico ormai mi stava per sopraffare, cercai di dominarlo. Presi un profondo respiro e mi immersi nuovamente.
Finalmente lo vidi. Lottava per risalire, ma qualcosa glielo impediva, tenendolo bloccato sul fondo del fiume. Nuotai fino a lui. Quando si accorse di me, per poco non si fece sfuggire di bocca il poco ossigeno che ancora gli rimaneva. Mi portai dietro di lui e vidi che le corde che gli legavano i polsi si erano impigliate in un ramo. La manica della giacca era strappata e un brutto taglio gli percorreva la pelle sull’avambraccio sinistro. Afferrai il tronco e cercai di spezzarlo. Al secondo tentativo si ruppe. Presi Deam sotto le braccia e lo aiutai a raggiungere la superficie. Quando poté respirare di nuovo, iniziò a tossire furiosamente. Lo trascinai, nuotando, fino a riva, dove finimmo tutti e due a terra sdraiati e ansanti. Mi girai con il viso rivolto verso il cielo. Il cuore martellava nel petto. Credetti non sarei mai più stata in grado di muovermi. Deam accanto a me era riverso sulla spalla sinistra. Gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta da cui respirava affannosamente. Sulla cima della cascata vidi una figura muoversi. Era Iane. Ringraziai il cielo e chiusi gli occhi. I cavalieri ci misero un’ora per raggiungerci. Per tutto il tempo io e Deam rimanemmo distesi nell’erba, nella stessa posizione in cui ci eravamo accasciati al suolo, alternando stati di coscienza e incoscienza. Quando arrivarono iniziavo appena a riprendermi. Caricammo Deam sul cavallo nella stessa posizione di prima, ma questa volta, per sicurezza, lo fissammo con delle corde anche al destriero. Lui non si oppose, troppo esausto anche solo per protestare. Io ebbi bisogno dell’aiuto di Rimet per issarmi sul dorso dell’animale, il mio corpo non voleva ancora saperne di collaborare. Ma quello che mi preoccupava maggiormente era lo stato di angoscia che mi opprimeva il petto e dal quale non riuscivo a liberarmi.
La sera le nuvole iniziarono a diradarsi e la luna apparve a illuminare il nostro cammino. I cavalli erano stanchi e anche noi eravamo sfiniti. Dunque decidemmo di effettuare una leggera deviazione per raggiungere una roccaforte delle milizie, una di quelle che erano disseminate per il paese e utilizzate dalle guardie come base per i loro spostamenti. Era ben nascosta dalla vegetazione, così che la vidi solo quando ci fummo praticamente davanti, dopo aver abbandonato la strada maestra ed esserci inoltrati per qualche minuto all’interno del bosco che costeggiava il sentiero principale. L’edera si arrampicava lungo tutta la costruzione in pietra, inglobandola, come se anch’essa facesse parte della foresta. Una torretta con il tetto a quattro falde svettava verso l’alto, innalzandosi sopra il resto dell’edificio, ma anche di questa la natura aveva preso possesso, ricoprendola con il suo manto di smeraldo. Rimet si occupò dei cavalli, portandoli sul retro, dove doveva esserci un ricovero adatto a loro. Iane irrequieto, teneva Deam, guidandolo per la corda che gli cingeva i polsi, come se avesse avuto tra le mani qualcosa di cui fosse impaziente di sbarazzarsi al più presto. Aprii la porta e mi feci da parte per farli passare. Le stanze interne erano piccole, le finestre minuscole e i muri e il pavimento in pietre facciavista rendevano l’ambiente ancora più angusto e opprimente. Sembrava di stare in una grotta. Portammo Deam in una camera claustrofobica e senza aperture sull’esterno, ma dove c’era un lettino su cui avrebbe potuto sdraiarsi e lo chiudemmo dentro senza slegarlo. Saremmo rimasti lì a riposarci per qualche ora, poi avremmo ripreso il viaggio. Dopo avermi mostrato una stanza dove potevo sistemarmi, Iane e Rimet portarono due brande nell’ingresso ed esausti vi si abbandonarono sopra. Uno dei locali era adibito a cucina. Trovai un bicchiere e una bacinella in uno dei mobili che ne componevano lo scarno arredamento, li posai su un vassoio e uscii per andare a un pozzo che avevo precedentemente notato antistante la rocchetta. Li riempii d’acqua e rientrai. Davanti alla stanza di Deam mi fermai un momento. Lo stomaco era stato sostituito da un blocco di pietra che mi appesantiva tutto il corpo. Colmai i polmoni nel tentativo di alleggerirlo, ma non funzionò. Quindi, facendomi forza, sbloccai la serratura con la mano che non era impegnata a reggere in equilibrio il vassoio. Venni colta solo in quell'istante dal timore che Deam potesse tentare qualche altra mossa per fuggire, cogliendomi impreparata.
Invece lo trovai sdraiato, coricato sulla spalla destra, sul basso materasso del letto a una piazza. Quando aprii la porta, schiuse le palpebre e si mise a fatica seduto. Si limitò a guardarmi senza dire niente, mentre mi inginocchiavo e appoggiavo il vassoio per terra davanti a lui. Aveva un ematoma violaceo alla base del naso, un taglio incrostato di sangue rappreso sopra al sopracciglio destro, tutti e due opera mia, a ricordo di quando lo avevo steso alla locanda e una quantità imprecisata di piccoli taglietti su tutto il viso. Probabilmente quelli c’erano anche sul mio. Estrassi un fazzoletto pulito dalla mia giacca e lo immersi nell’acqua fresca della ciotola. Poi gli porsi il bicchiere. «Hai sete?», chiesi, avvicinandoglielo alle labbra. Lui bevve qualche sorso, senza distogliere gli occhi penetranti dai miei. Iniziavo a sentirmi sempre più agitata e il cuore batteva incontrollato nel petto. Presi la pezza e la strizzai. La portai sul suo viso e iniziai a pulirgli delicatamente i tagli. Lui mi lasciò fare. Quando mi avvicinai troppo alla base del naso strizzò gli occhi dolorante e si ritrasse leggermente con un grugnito. Abbandonai la mano in grembo. «Davvero non ti ricordi di me?». Non ero riuscita a trattenermi dal chiederlo e la mia voce era parsa anche alle mie orecchie fin troppo disperata e implorante. Deam sembrò preso alla sprovvista, schiuse la bocca per un attimo, ma subito la richiuse. Mi resi conto di dover soppesare bene le parole. Temevo non mi avrebbe creduto se gli avessi raccontato la verità e non volevo passare per bugiarda, togliendomi ogni possibilità di guadagnare la sua fiducia. Sempre che non fosse già troppo tardi. «Perché mi hai attaccato? Perché vuoi l’oggetto che porto nella tasca?», domandai. Lui cercò di aggrottare le sopracciglia, ma l’unica cosa che ottenne fu una smorfia di dolore. «Qualcuno ti ha chiesto di prenderla?», insistei. Era da un po’ che ci pensavo. Solo una persona mi aveva visto infilare la fede nella tasca destra della giacca. Deam rimase imperscrutabile. Sembrava deciso a non rivelarmi niente. Sospirai per la frustrazione. Aprii il bottone della tasca destra della mia giacca ed estrassi il sacchettino di stoffa. Lo slegai e mi feci scivolare l’anello sulla mano. Dunque lo allungai verso di lui. «È tuo se lo vuoi, ma solo alla fine del nostro viaggio. Solo quando avrò scoperto di cosa si tratta», dissi. Lessi un accenno di stupore sul suo volto, ma subito si spense. Probabilmente pensava lo stessi ingannando. Rimisi la vera in tasca. Sciacquai il fazzoletto e ripresi a tamponargli i tagli finché non furono completamente puliti. Poi mi sedetti accanto a lui sul letto e gli aprii i lembi della manica strappata per occuparmi anche del taglio che aveva sul braccio. Era meno profondo di quanto avessi temuto. Si stava già rimarginando. Detersi anche quello. Quand’ebbi finito, afferrai il vassoio e lasciai la stanza. Quando mi richiusi la porta alle spalle sentii all’interno il letto che cigolava, mentre Deam si distendeva nuovamente. Cercai di respirare e di calmarmi, ma senza successo. Portai una mano tremante alla bocca. Non avevo voluto mostrare a lui il mio sconcerto quando avevo tolto la fede dalla busta e mi ero accorta che il suo colore era cambiato. Adesso non era più rossa come il fuoco, ora era senza dubbio di un pallido arancione.
Capitolo 7
Quattro ore più tardi salimmo di nuovo in sella. Deam sembrava così ammaccato che non ebbi cuore di caricarlo ancora a pancia in giù, così lo aiutammo a issarsi e a mettersi seduto. Sperai non ne approfittasse per cercare di fuggire nuovamente.
Riuscivo a vedere la pelle dei suoi polsi arrossata per il contatto prolungato con la dura fune, ma non potevo rischiare di slegarlo. Se tutto procedeva come speravo, entro tardo pomeriggio saremmo arrivati a destinazione. Pregai perché la savia abitasse ancora in quella casa. Dopotutto erano trascorsi più di diciassette anni dall’ultima volta che la regina e suo marito avevano avuto bisogno dei suoi consigli. Man mano che ci avvicinammo alle montagne il cielo prese a rombare. Sembrava che il tempo non volesse darci tregua. Sopra le cime aguzze del massiccio le nubi vorticavano e si agitavano inquiete, sferzate da ripetuti lampi che rischiaravano la notte. Poco dopo iniziò a piovigginare. Il sentiero divenne sempre più scosceso e accidentato e il bosco, che lo circondava da ambedue i lati, sempre più fitto. Cavalcavo accanto a Deam, alla sua sinistra. Iane ci precedeva, tenendo la corda che legava le briglie del cavallo di quest’ultimo. Mentre Rimet ci seguiva, diversi metri indietro rispetto a noi. Sembrava incredibile, ma saperlo accanto a me, anche in una circostanza del genere, mi era di conforto. Anche se non si ricordava di me, anche se sembrava odiarmi, il mio cuore continuava a cercarlo disperatamente. Vedevo con la coda dell’occhio che ogni tanto si girava a scrutarmi, ma io non me la sentivo di affrontare il suo sguardo severo, così guardavo fisso di fronte a me, fingendo di non notarlo. A un tratto un fulmine accompagnato da un boato assordante trafisse l’etere, schiantandosi alla nostra destra e spezzando un abete, che, con una vampata, si infiammò, prendendo subito ad ardere. I cavalli si agitarono violentemente. Il destriero di Deam si imbizzarrì e Iane perse la presa sulla corda legata alle sue redini, già impegnato com’era a cercare di calmare il suo. L’animale si alzò sulle gambe posteriori e Deam, incapace di reggersi per via delle braccia legate dietro alla schiena, scivolò all’indietro disarcionato. Allarmata, mi allungai verso di lui, gridando il suo nome. Riuscii ad afferrargli il braccio sinistro, ma era troppo pesante perché riuscissi a sorreggerlo, così venni scalzata da cavallo anch’io. Mentre cadevamo al suolo d’istinto lo tirai verso di me, portandomi sotto di lui per evitargli l’impatto con il terreno. Il colpo dovette essere molto forte, perché persi conoscenza. La vista tornò poco a poco. L’albero in fiamme in alcuni punti era ancora un falò ardente. La pioggia mi picchiettava lievemente sul viso. Iane mi stava sopra e urlava qualcosa che non riuscivo a capire. Deam era inginocchiato poco distante, con uno sguardo confuso e sconvolto. Sembrava non si fosse fatto male. ‘Per fortuna’, pensai. Rimet bianco in volto, osservava la scena, mentre tratteneva i cavalli per le briglie. «State bene? State bene, mia signora?», gridava Iane. Mi alzai sui gomiti e sentii una fitta alla testa. Mi portai una mano sulla nuca e quando la ritrassi vidi che era sporca di sangue. Per il resto sembravo tutta intera. «State sanguinando!». Iane estrasse un fazzoletto bianco e dopo avermi aiutato a mettermi seduta, me lo premette dietro il capo. «Sto bene», dissi, «davvero». Cercai di fare un sorriso per tranquillizzarlo. Dopo qualche secondo il sangue sembrò essersi arrestato, così cercai di alzarmi in piedi. Una vertigine mi causò uno sbandamento e Iane mi prese al volo. Notai che Deam si era alzato in piedi di scatto e aveva fatto un passo nella nostra direzione, come se avesse voluto afferrarmi lui, prima di ricordarsi, probabilmente, di avere le mani legate. Riuscii a ritrovare l’equilibrio. «Grazie, tutto a posto», dissi a Iane, che lentamente mi lasciò andare. «Dobbiamo proseguire», aggiunsi, risoluta. Risalimmo sui destrieri, ma ben presto la strada si arrampicò per la montagna, diventando così ripida e impervia, che dovemmo scendere e proseguire a piedi. Il sentiero continuò a stringersi, fino a raggiungere poco più del metro di larghezza. Da una parte la nuda roccia, dall’altra lo strapiombo. Il terreno era scivoloso per via della ghiaia e della pioggia, e massi di diverse dimensioni ostacolavano il passaggio. Mi chiesi da quanto tempo nessuno passasse per quella via. Iniziai a disperare che la savia abitasse ancora in quel luogo.
Iane guidava la comitiva, seguito da me, da Deam e infine da Rimet che chiudeva la fila e conduceva i cavalli legati l’uno all’altro. Iniziavo a sentirmi esausta e un leggero mal di testa, forse per la botta che avevo preso, pulsava sempre più forte nelle tempie. La pioggia si intensificò, fino a diventare un acquazzone. «Mia signora, dobbiamo tornare indietro, non possiamo proseguire con questo tempo, è troppo pericoloso», disse Iane girandosi verso di me. Non potevo dargli torto. «Va bene, riproveremo quando il tempo si sarà calmato», dissi, mio malgrado. Iane andò da Rimet per decidere dove fosse meglio far girare i cavalli. In quel momento delle piccole pietre iniziarono a scendere dall’alto. Io e Deam ci addossammo alla parete. «Liberami le mani», esclamò ad alta voce per farsi sentire sopra il rumore del temporale. «Sta diventato pericoloso e così non sono abbastanza stabile». Ci guardammo negli occhi. Sapevo di non avere scelta. Lo feci girare e snodai i lacci. Una volta libero prese a massaggiarsi i polsi. Andai verso i cavalieri, ma all’improvviso, insieme al pietrisco, dall’alto vidi cadere anche un grosso masso. Gridai verso Iane e Rimet, allertandoli perché si mettessero in salvo. Fecero appena in tempo a spostarsi, che il macigno si schiantò tra di noi sul sentiero, trascinando anch’esso a valle e lasciando solo una grossa voragine. Il terreno reso instabile iniziò a franare. Non feci in tempo ad arretrare e scivolai, finché non ebbi più niente sotto ai piedi e caddi nel vuoto. Strillai di paura. Ma inaspettatamente mi sentii afferrare per il polso della mano destra. Alzai lo sguardo e trovai Deam. Si era buttato a terra e mi tratteneva dal cadere nel baratro. Il sollievo per il suo interventi però durò solamente una frazione di secondo, in quanto notai, con orrore, che il terreno sotto di lui continuava a sgretolarsi. Se non mi lasciava andare subito rischiava di precipitare anche lui. «Dammi l’altra mano», gridò. «No, lasciami, cadrai anche tu», urlai. «Ti ho detto di darmi l’altra mano», gridò, imperioso. «Coraggio», aggiunse in tono più controllato. Dopo un secondo di esitazione alzai l’altro braccio e Deam lo afferrò. Cercai con i piedi un punto stabile dove appoggiarmi, ma la roccia persisteva a franare. Finalmente trovai un appiglio e Deam iniziò a sollevarmi. Con il suo aiuto riuscii a raggiungere il bordo, prima con le braccia, poi con il busto, alla fine con le gambe e a issarmi nuovamente sul sentiero. Appena fui in piedi, Deam mi attirò a sé, indietreggiando lontano dal precipizio, fin quando la sua schiena non toccò la parete rocciosa. Avevamo tutti e due il fiatone. Cercai di rallentare i battiti del cuore, ma con il viso poggiato sul suo petto e le sue braccia che mi cingevano, tenendomi stretta a lui, non era cosa facile. Sentii le voci di Iane e Rime che ci chiedevano se stessimo bene. Deam come risposta alzò un pollice verso l’alto. «Siamo stati fortunati», disse Deam. «Fulmini, diluvi e frane, ma dove ci vedi tanta fortuna?», replicai. Deam scoppiò a ridere. «Fortunati nella sfortuna, mettiamola così», rispose. Il crepaccio era troppo largo perché lo potessimo saltare. Così Iane disse che sarebbero tornati indietro e avrebbero cercato una strada alternativa per raggiungerci. A me e a Deam invece non restava che andare avanti. Non avevamo altra scelta. Deam mi stupì, prendendomi per mano, prima di avviarci lungo il sentiero.
Il vento e la pioggia ci investivano con ferocia senza darci tregua. E il freddo iniziava a farsi pungente. Non so quante volte scivolai e Deam dovette sorreggermi per non farmi finire bocconi sul sentiero. Sembrò passare un tempo infinito prima che il viottolo si allargasse e ci trovassimo di colpo in una piccola vallata. A un centinaio di metri da noi una casetta a due piani con le finestre illuminate spiccava per quanto sembrasse fuori posto in quell’ambiente ostile. La raggiungemmo e Deam bussò con forza sull’uscio. Quando si schiuse
ci trovammo davanti una vecchia di bassissima statura. I capelli bianchi erano raccolti in un alto chignon. Il viso era una ramificazione di rughe profonde. Indossava una camicia a maniche lunghe rosa chiaro, con dei volant intorno al collo e sulle spalle, una gonna grigia fino alle caviglie e un grembiule bianco con qualche macchia legato in vita. Ai piedi portava degli zoccoli di legno scuro. I suoi occhi, di un azzurro chiarissimo, si inarcavano gioiosi, così come la bocca sdentata aperta in un largo sorriso. «Era ora, forza venite». Ci invitò con un cenno ad entrare. L’interno dell’abitazione era rallegrato da uno scoppiettante camino, nel quale ardeva un cumulo di ciocchi. Rivolto verso il focolare, sopra un tappeto colorato, si trovava un morbido sofà, sul quale era adagiata una stola ricamata con un motivo floreale; alla sua sinistra una poltrona della stessa fattura; alla destra una sedia a dondolo in vimini con sopra due grossi cuscini. Davanti a loro era collocato un basso tavolino ingombro di libri. Dietro al divano c’era un tavolo circolare con tre sedie. Alla sua destra un cucinino a legna, sopra il quale sobbolliva in un tegame una qualche pietanza dal profumo appetitoso. Sulla sinistra del salone, addossato alla parete, trovava posto un grande cassettone finemente intagliato, anch’esso stracolmo di volumi rilegati e un attaccapanni. Sulla parete in fondo alla sinistra del camino si apriva una porta, che probabilmente conduceva alle scale per accedere al piano superiore. Una volta entrati la signora ci chiese di toglierci i mantelli bagnati, che agganciò prontamente all’appendiabiti. Cercai di parlare, ma lei sollevò una mano per dirmi di tacere, chiudendomi la bocca. Aprì un cassetto del comò e, dopo una veloce ricerca, estrasse due pesanti coperte rosse, che ci consegnò ordinandoci di avvolgercele intorno al corpo. Dopo un momento di esitazione noi obbedimmo. Poi, quasi spintonandoci, ci fece accomodare sul divano davanti al camino e dateci le spalle si mise a trafficare con piatti e padelle. Guardai Deam con tanto d’occhi. Lui fece un’alzatina di spalle e il suo mezzo sorriso sghembo. La sua leggerezza contagiò anche me e finii anch’io per ridere di quell’assurda situazione. La vecchietta tornò con due ciotole piene di zuppa e ce le porse. «È alla temperatura giusta, mangiate, vi sentirete subito meglio», affermò. Era vero. Appena il liquido mi arrivò nello stomaco mi sentii subito rinfrancata, la pressione alla testa si allentò e un piacevole tepore si diffuse nelle membra. Anche Deam stava riacquistando colorito. I nostri capelli e vestiti, poco prima ancora bagnati, parevano già quasi completamente asciutti. Mi chiesi se quella donna non fosse in verità una maga. Mangiammo in silenzio, mentre la signora mormorava una dolce litania, cullandosi sulla sedia a dondolo, con lo sguardo perso nel fuoco. Quando finimmo il pasto, la vecchietta raccolse le scodelle. Dopo averle lavate e riposte in un mobile, tornò a sedersi e si mise a osservarci. Poi si rivolse a me. «Allora», disse, «mostramelo». La guardai spaesata. «Sveglia bambina mia. L’anello! Non sei venuta qui per quello?». Ero sbigottita, come faceva a saperlo? Sbattei un paio di volte le palpebre e dopo un momento, un po’ impacciata, presi il sacchettino dalla tasca. Lo ribaltai, mettendo sotto l’altra mano e la fede mi cadde sul palmo. Trattenni il respiro. Era di un colore giallo dorato. Mi girai con occhi imploranti verso la signora. Lei allungò la mano e io gliela porsi. La alzò davanti agli occhi e inizio a studiarla. Quando parve soddisfatta si alzo e si rivolse a Deam. «Mio caro, se vuoi scusarci, io e la signorina dobbiamo parlare in privato», disse e mi fece segno di seguirla. Mi alzai dalla poltrona, ma subito mi bloccai e mi voltai verso Deam. Non volevo lasciarlo solo. Anche se mi aveva salvata e aiutata ad arrivare fino a lì, non avevo dimenticato di averlo fatto prigioniero. Temetti potesse andarsene, fuggire da me. Lui dovette capire quello che mi passava per la testa, perché mi prese una mano e guardandomi negli occhi disse: «Mi troverai qui». «Davvero?».
«Sì, hai la mia parola». Annuii, decisa a fidarmi e lui mi lasciò andare. La signora mi condusse al di là della porta accanto al camino. Ci trovammo in un corridoio con una rampa di scale sulla sinistra e altre due stanze che si aprivano sulla destra. Entrammo nella seconda. Era un piccolo studio ricolmo di libri. Ce n’erano ovunque. Sullo scrittoio. Sugli scaffali. In pile disordinate, che si alzavano da terra come bizzarre stalagmiti. Ne spostò qualcuno, liberando due sedie e ci sedemmo l’una davanti all’altra accanto alla scrivania, sulla quale appoggiò la vera. Si piegò verso di me e strinse le mie mani tra le sue. «Non volevo parlare davanti al ragazzo», disse. «Non ho idea di quanto sappia e non volevo turbarlo, se lo riterrai necessario, sarai poi tu a dargli spiegazioni». Io feci di si con la testa e lei proseguì. «Principessa, hai già compreso il potere che si è celato dietro questo piccolo anello?», domandò. Chiaramente sapeva chi fossimo, non ne rimasi stupita e anzi ne fui sollevata. La vecchietta sembrava conoscere ogni cosa, così non ebbi remore nel parlare liberamente. «Non ne sono sicura. Deam non si ricorda più di me. La magia che legava i nostri cuori si è rotta, ma siamo ancora vivi, per cui… non lo so», conclusi confusa, scuotendo la testa. La signora mi lasciò le mani, sedendosi dritta sulla seggiola e riprendendo tra le dita la fede. «Non sono una maga piccola mia, beh, qualche piccolo trucchetto lo conosco anch’io, ma il mio dono è più che sufficiente per vedere con esattezza cosa si nasconde dietro alle cose e posso dirti con assoluta certezza che tipo di magia è stata veicolata attraverso questo anello per colpire te e il principe. Tuttavia sono restia a parlartene, perché non sono buone notizie e vorrei che fossi preparata». Mi sentii gelare il sangue nelle vene, ma dovevo sapere. Dopo uno scambio di occhiate la savia continuò. «Quando il principe ha toccato questa vera, l’anello gli ha sottratto dei ricordi, giornate intere, rubate, come se non fossero mai avvenute. Le ha prese, portandole al suo interno. Tutti i giorni della sua vita da quando ti ha conosciuto. Il vostro amore era riuscito a mutare l’incantesimo fatto ai vostri cuori dal mago, unendoli in uno solo e questo via ha permesso di rimanere in vita entrambi. Uno stesso cuore, integro, eppure presente in due corpi separati. Ma ora le cose sono cambiate. Lui non ti ha incontrato e dunque non si è mai innamorato di te e senza amore, il legame magico si è sciolto, come se non fosse mai esistito». Cercai di capire cosa potesse significare quello che mi aveva appena detto. «Questo vuol dire che siamo tornati alla stessa situazione in cui ci trovavamo prima di conoscerci?», domandai. La signora scosse la testa. «No, tu hai già compiuto diciassette anni. L’incantesimo del mago ha già fatto il suo corso, si è già dissolto e la metà del cuore che il principe ti ha donato non gli è stata restituita», rispose. «Non capisco», dissi ad alta voce, iniziavo ad essere spaventata. «Deam è ancora vivo, se fosse come dice, lui dovrebbe essere morto». La savia mi guardò con occhi pieni di compassione. Fu come essere trafitta da due spade affilate. «Questa fede, non è sempre stata di questo colore vero?», chiese, riappoggiandola sullo scrittoio. «No, continua a cambiare colore». Parlai cercando di controllare la voce, ma avevo già iniziato a tremare. «Questa piccola vera lo sta tenendo in vita. Lui e l’anello sono interconnessi, ma pian piano la fede sta perdendo i suoi ricordi racchiusi al suo interno. Quando li avrà smarriti tutti, tornerà ad essere un semplice anello di legno e il principe morirà». «Ma… Ma se lui si innamorasse nuovamente di me, forse la magia che univa i nostri cuori si ricreerebbe?». Conoscevo già la risposta, ancora prima di finire la domanda. «Non funzionerebbe, quel legame si era creato per un mutamento dell’incantesimo che vi aveva fatto il mago, ma quel sortilegio non esiste più». «Ma ci deve essere un modo, ci deve essere!». Avevo iniziato a iperventilare. Mi piegai fino a toccare con la fronte le ginocchia, stringendomi il busto con le braccia. La testa era un tumulto di pensieri confusi. Cercavo un appiglio a cui aggrapparmi, mentre la mente andava alla deriva. Una speranza. Qualsiasi cosa. Tutto, ma non questo. Deam non poteva morire.
La vecchia prese ad accarezzarmi la schiena. «Su, su bambina, fatti forza. Cos’è questo atteggiamento. Non puoi lasciarti andare così alla disperazione», disse. Alzai la schiena. «Cosa posso fare?», chiesi con la voce incrinata. Lei rimase per un momento pensierosa, poi disse: «L’anello non è ancora tornato del suo colore originale, se i ricordi che ancora rimangono al suo interno tornassero dentro di lui, forse e dico forse, anche la magia che vi univa tornerebbe a esistere, ma le mie sono solo supposizioni». «Lei può farlo? Può riportare indietro i suoi ricordi?». La savia scosse la testa. «Mi dispiace, non ne sono capace. La persona che ha imposto l’incantesimo probabilmente ne è in grado, ma io non so dirti chi sia, i maghi sono come pagine bianche all’interno di un libro, buchi vuoti che non riesco a vedere». Scoppiai a piangere. «A volte vorrei non essere mai nata, se non fosse per me, Deam non si troverebbe in questa situazione», singhiozzai. Lei prese a massaggiarmi nuovamente la schiena. «Non dire così. Il nostro principe è un ragazzo forte e coraggioso, ma crescere da solo, senza sicurezze e senza amore, lo ha reso anche immensamente fragile. Tu non avevi i tuoi genitori, ma avevi la tua balia che ti ha dato tutto l’amore di cui necessitavi. Lui invece era solo. Sua madre, una marionetta incapace di agire autonomamente sotto l’influenza del mago, non c’è mai stata per lui quando ne avrebbe avuto più bisogno. Nessuno all’interno del castello gli si è avvicinato, distanziati dal suo rango e dalla sua posizione. E il mago stesso lo ha fatto crescere in un clima di oppressione e tormento. Quando è stato abbastanza grande per prendersi più libertà all’esterno del castello, era ormai troppo tardi. Il suo animo altruista e generoso ha sempre prevalso, ma aveva innalzato delle barriere impenetrabili intorno al suo cuore. Muri di vetro capaci di tenere fuori i sentimenti, ma che un altro duro colpo avrebbe mandato in frantumi, trafiggendo il suo cuore di schegge, distruggendolo. Tu hai impedito che questo avvenisse. Hai rimosso quelle barriere. Il principe è un sole ardente, ma anche un sole ha bisogno di qualcosa che lo alimenti per continuare a esistere e questo per lui sei tu. Lo è il tuo amore. Per cui smettila di frignare e lamentarti e sii forte. Hai ancora tempo per trovare una soluzione». La guardavo a occhi spalancati. «Come ci riesce? Come fa a sapere queste cose... A leggere così bene dentro alle persone?», chiesi, piena di meraviglia. Lei sorrise. «Le persone e gli eventi per me sono come libri aperti. Per conoscere le cose devo solo trovare la pagina giusta», rispose. Io e la vecchia signora restammo ancora un po’ nel piccolo studio. Lei prese a parlare di frivolezze allo scopo di distrarmi e aiutarmi a ritrovare la calma. Ci riuscì. Non sapevo se stesse usando un altro dei suoi trucchi, ma pian piano mi sentii sempre più tranquilla e fiduciosa. Quando fu chiaro che ero ormai tornata in me, ci alzammo e facemmo ritorno nel salone. Appena aprimmo la porta Deam si voltò a guardarci e i nostri occhi si incontrarono. Sentii una stretta al cuore e una ferma determinazione si insinuò nel mio animo. Avrei protetto qualcosa di così puro e bello con tutte le mie forze. Lo avrei salvato a qualunque costo.
Spostammo il basso tavolino e sopra il tappeto stendemmo delle morbide coperte e un guanciale, così come sul sofà. La vecchietta ci aveva dato la buonanotte e si era ritirata nella camera al piano di sopra, dopo che ci aveva fornito, nella stanza adiacente lo studio, tutto quello che ci potesse servire per darci una ripulita. Cosa che avevamo prontamente fatto pieni di gratitudine. Mi ero offerta di dormire io per terra, ma Deam non aveva voluto sentire ragioni e vi si era disteso a pancia in su con le braccia sotto la testa, dopo aver sprimacciato per bene il cuscino. All’improvviso si volò verso di me. «Qual è il tuo nome?», chiese, sollevando le sopracciglia. Quella domanda mi fece sentire un po’ triste. «Mi chiamo Aili».
«Aili! È un nome grazioso», disse sorridendomi. ‘Me lo avevi già detto’, pensai. «Perché stai viaggiando con due guardie imperiali?». «È una lunga storia», risposi evasiva. Mi scrutò per un attimo, ma poi vedendomi restia a dare ulteriori informazioni, rinunciò a indagare oltre e tornò a guardare il soffitto. Mi sedetti sul divano incerta sul da farsi, con il sacchettino contenente la vera tra le mani. «Deam», lo chiamai per attirare la sua attenzione. «Ti avevo detto che te l’avrei consegnata una volta che avessi scoperto di cosa si trattava», dissi alzando la bustina, «ma adesso che lo so, non posso proprio dartela, è troppo importante per me». Lui si mise seduto con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e intrecciò le dita delle mani. «Ti devo chiedere scusa», disse guardando in basso davanti a se. «È chiaro che sono stato ingannato. Non puoi essere una strega. Hanno fatto leva sul mio odio nei confronti dei maghi e io ci sono cascato come uno scemo». Si passò con forza una mano sulla testa, scompigliandosi i capelli. «Vuoi dirmi chi è stato?», domandai. «Una ragazza che lavora al castello, la cameriera personale del mago. Sarà stato lui a chiederle di farlo. Starà tramando qualcosa come al solito». Fece una risata triste, torcendosi le mani. «Mi era sembrata così sincera. Maledizione, che stupido, finisco sempre per farmi prendere in giro da lui», disse, riprendendo a torturarsi il capo. Il suo dolore mi arrivò come una morsa di ghiaccio che mi stinse il cuore. Parlava come se il mago fosse ancora vivo. Non sapeva che grazie a noi era diventato un cumulo di cenere. Eica doveva avere agito in totale autonomia. Come e perché erano due cose ancora da scoprire. «Quella ragazza ti ha chiesto di rubarmi l’anello?», chiesi. «Già, mi ha detto che eri una strega e che con quella vera avevi rubato la vita dei suoi genitori. Mi ha chiesto di sottrartela e portargliela. Non ho idea di cosa sia quella fede e di cosa lui ci volesse fare. Perdonami. Mi sono fatto usare come una marionetta. Dannazione, dannazione!». Tirò un pugno con forza sul pavimento. Per tutto il tempo aveva continuato a parlare senza mai guardarmi in volto. Appoggiai la bustina accanto a me, poi scivolai giù dal divano, inginocchiandomi accanto a lui e gli misi una mano sul braccio. Lui lo abbassò, si irrigidì e fece per allontanarsi da me. Non poteva ricordarlo, ma ci eravamo già trovati in una situazione simile: a casa della signora Iridea, dopo la fuga dai briganti. Quella notte mi ero ritirata confusa nella mia stanza. Oggi avrei agito diversamente. Le barriere di vetro erano di nuovo erette intorno al suo cuore, ma le avevo già rimosse una volta, potevo farlo ancora. Presi il suo viso tra le mani e lo costrinsi lentamente a voltarsi verso di me. «Va tutto bene», sussurrai. «Andrà tutto a posto». Avvicinai il mio viso al suo e lui cercò di scostarsi, ma non glielo permisi. «No», disse. «Non posso». «Sì che puoi», dissi io e lo baciai. Fu come se fossimo ancora una cosa sola. Il fuoco si sprigionò dalle nostre labbra, inondando i nostri cuori e per un attimo sperai che, come nelle favole, un bacio potesse risolvere ogni cosa. Quando ci separammo, ci guardammo negli occhi. «Perché mi sembri così familiare?», chiese. Appoggiai la mia fronte alla sua, inclinando la testa e chiudendo le palpebre. «Forse perché era destino che ci incontrassimo», risposi. Quella notte dormimmo tutti e due sul pavimento. Lo tenni stretto tra le braccia, accarezzandogli i capelli finché il suo respiro non si fece più lento e profondo e si assopì, poi mi lasciai andare anch’io alla stanchezza e mi addormentai. La mattina seguente Deam era scomparso e con lui anche l’anello.
Capitolo 8
«C’è bisogno che te lo dica io, che non se n’è andato di sua spontanea volontà?», disse la savia. «No, lo so già», risposi, mentre mi infilavo gli stivali seduta sul divano. «Ah sì, hai il mio stesso dono?». ‘No, ma conosco Deam’, pensai. «Sai dove cercarlo?». «No». dissi mestamente. Non ne avevo davvero idea. «Cosa farai adesso?». Mi alzai in piedi, andai all’appendiabiti dove afferrai il mio mantello e lo indossai. «Lo cercherò». «Trovalo in fretta, non gli restano molti giorni». Strinsi forte l’orlo della veste. «Non lo perderò, non lo permetterò». Quando svegliandomi non lo avevo trovato al mio fianco, avevo subito capito che doveva essere capitato qualcosa quella notte a mia insaputa, ma invece di disperarmi, avevo chiuso gli occhi e avevo poggiato una mano sul petto. Lo avevo sentito lì. La sua presenza ancora viva dentro di me. Era tutto quello di cui avevo bisogno per rimettermi in piedi e andare avanti. «Brava ragazza, è questo lo spirito giusto», disse, annuendo compiaciuta. Aprii la porta. Fuori il sole brillava intensamente. Mi fermai sull’uscio. «Grazie nonnina, di tutto». «Nonnina? Non sono mica così vecchia». Rise di gusto, facendo sembrare la sua faccia ancora più rugosa di quella che era. Non potei fare a meno di sorridere anch’io. «Parte della stradina che si inerpica su dal bosco è franata ieri sera, come faccio a tornare a valle?», chiesi. «Santa misericordia bambina, non sarete arrivati su per quel sentiero? Sta venendo giù tutto lì, non ci passa più nessuno da almeno quindici anni». ‘Ah, ecco’, pensai. «Segui verso ovest, poco più avanti troverai una strada che porta sulla via principale, da lì ti sarà facile orientarti». Mi chinai per darle un bacio sulla guancia e uscii nel giorno assolato. «Buona fortuna», mi gridò lei alle spalle. Io agitai una mano in aria in segno di saluto.
Camminai per una decina di minuti. Il tiepido calore del sole del mattino si mescolava ancora alla fredda aria notturna, dandomi una sferzata di energia. Scorsi la strada indicatami dalla signora e vidi delle figure a cavallo venire nella mia direzione. Li riconobbi. «Iane! Rimet!», gridai, alzando un braccio per attirare la loro attenzione. Non appena fui dappresso a loro, i cavalieri smontarono dai destrieri. «Mia signora, state bene? Dov’è il principe?», chiesero contemporaneamente. «Sta bene, non vi preoccupate, ma non è più con me». Afferrai le briglie di uno dei quattro stalloni. «Dobbiamo tornare immediatamente a palazzo, ve la sentite di rimettervi subito in viaggio?». Per tutta risposta risalirono prontamente in groppa agli animali. Io con un balzo feci altrettanto e, incitati i cavalli, partimmo al galoppo. Nel viaggio di ritorno il cielo fu clemente, trovammo solo qualche sporadica pioggerella. Non ci fermammo che per brevi e indispensabili momenti. Per il resto del tempo cavalcammo senza sosta. Non dormimmo e mangiammo appena. Nel primo pomeriggio del giorno dopo eravamo già in vista del castello.
Quando entrammo nelle scuderie, la madre di Deam e la mia balia erano già state informate del nostro ritorno, perché le vidi correrci in contro scendendo dalle gradinate del parco. Mi congedai dai due cavalieri e le seguii in un salotto privato. Lì la sovrana mi raccontò della sparizione di Deam tre giorni prima. La regina si era assentata solo per pochi minuti dalla stanza del figlio ancora addormentato. Una volta tornata, di lui non c’era più traccia, solo delle coperte spiegazzate a indicare la sua precedente presenza sul grande letto a baldacchino. Lo aveva fatto cercare per tutto il palazzo, ma senza risultato. Volle sapere dell’esito del mio viaggio, ma le chiesi di non domandarmi niente, di darmi ancora qualche giorno di tempo. All’inizio parve riluttante, ma poi acconsentì. Non doveva essere facile per lei sentirsi tagliata fuori e affidarsi completamente a una ragazza che, tutto sommato, conosceva appena; soprattutto dopo tanti anni passati sotto il controllo del mago. Il fatto che non potesse nemmeno lontanamente immaginare la gravità della situazione fu di aiuto nel renderla così remissiva. Dal canto mio avrei potuto raccontarle tutto. Sguinzagliare le milizie per il regno in cerca di Deam. Non gravarmi di tutto il peso della situazione da sola. Dividere la mia angoscia e, forse, sarebbe stata la cosa giusta da fare. Magari stavo commettendo un terribile errore, ma da quando avevo conosciuto Deam avevo capito più che mai che per realizzare grandi imprese non servivano possenti eserciti. Era la passione dei cuori di singole persone a renderle possibili. In me si era radicata la convinzione che nessun numero di guardie sarebbe mai stato sufficientemente grande perché riuscisse a trovarlo in tempo e la faccia tirata di sua madre mi aveva ulteriormente trattenuta dal confidarmi con lei, sobbarcandola di altro dolore e preoccupazione. Dovevo riuscire a salvarlo da sola e c’era un’unica persona nel castello che potesse aiutarmi a capire cosa stesse succedendo. Dovevo parlare con Eica. Appena accennai ad alzarmi per andarmene, la mia balia mi bloccò, preoccupata, portandomi davanti a uno specchio per farmi notare lo stato di incuria in cui mi trovavo. I capelli mi ricadevano sulla schiena in una massa aggrovigliata. I vestiti sporchi mi stavano incollati addosso come se avessero voluto fondersi con la mia pelle. Gli occhi arrossati erano contornati da pesanti occhiaie. Apparivo proprio come mi sentivo: uno straccio; ma non potevo preoccuparmi di simili dettagli, lo scorrere inesorabile del tempo non me lo permetteva. Le diedi un bacio sulla fronte e senza aggiungere altro abbandonai la stanza. Dovette intuire dal mio comportamento quanto le circostanze fossero disperate, perché non mi rincorse e mi lasciò andare.
La stanza di Eica era nell’ala del castello riservata alla servitù. Bussai alla porta. Non ottenendo nessuna risposta, provai ad abbassare la maniglia. Non era chiusa a chiave. Spinsi l’uscio ed entrai. La camera era di modeste dimensioni, spartana nell’arredamento, ma accogliente. La testiera del letto in legno massiccio poggiava sul muro di destra, un armadio a due ante su quello di sinistra, insieme a un cassettone. Un piccolo scrittoio con una sedia occupavano lo spazio tra due grandi finestre, che illuminavano l’ambiente aprendosi sulla parete dinanzi a me. Mi avvicinai al tavolino e presi a visionare l’interno dei cassetti, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse darmi un indizio utile, ma ci trovai solo: un vecchio libro, un fermaglio per capelli e qualche pergamena intonsa. La porta alle mie spalle si chiuse con un debole click e io mi girai di scatto presa alla sprovvista. Il ragazzo che avevo udito parlare con Eica e che mi aveva quasi investita pochi giorni prima, stava davanti alla porta e mi osservava. Questa volta lo riconobbi subito. Era il cameriere che si era occupato di me il giorno del mio compleanno, mentre ero rinchiusa nelle stanze private del mago. «Non è qui, è da due giorni che sparisce a intervalli regolari», disse avvicinandosi lentamente, «da quando mi ha detto che veniva a riprendersi l’anello». Feci un passo indietro e lui continuò a parlare. «Visto che il principe non è rientrato con te, ne deduco che mia sorella abbia preso anche lui e che sia questo il motivo delle sue continue sparizioni». Fece un sorriso triste. «Ovvio, onde evitare problemi, meglio andare sul sicuro e non lasciarvi insieme; per poi riconsegnarti il corpo una volta che tutto sarà finito. Molto d’effetto devo ammetterlo... O forse ti avrebbe fatto soffrire di più vederlo morire davanti a te?». Mi guardò come se fosse seriamente interessato alla risposta che potevo dargli. ‘Questo ragazzo non è normale’, pensai. Mi faceva venire i brividi.
«Eica è tua sorella?», domandai. «Sì. Il mio nome è Alect». Si sedette sull’angolo del letto con una gamba piegata sul materasso. «La vera, è stata lei a darmela?». «Non sei molto intelligente vero?». Più che una domanda pareva una constatazione. «Certo che te l’ha data lei. Ovviamente avresti dovuto aprire tu la busta e senza nessuno intorno. Trovandoti svenuta a terra, nemmeno una persona avrebbe collegato quella piccola fede alla tua condizione. Aveva calcolato che saresti rimasta incosciente per un paio d’ore. Invece il principe non si è ripreso per ben diciassette ore. Accidenti, perderti deve essere stato uno shock bello intenso. Eica credeva che a quel punto non si sarebbe più svegliato». «Perché... Perché l’ha fatto?». «Lunga storia. Sei sicura di volerla sentire?». Mi perforò con i suoi occhi gelidi. Io feci di sì con la testa. «Allora è meglio se ti metti comoda». «Sto bene dove sono», dissi. «Fa come vuoi». La sua bocca si incurvò in un sorriso, ma i suoi occhi restarono totalmente inespressivi. «Io e mia sorella siamo nati in un paese a nord da qui. Si chiamava Blamistim. Era un piccolo villaggio, abitato per lo più da contadini e artigiani. Mio padre faceva il falegname. Mia madre si occupava di noi ed eseguiva qualche piccolo lavoretto di cucito per racimolare qualche soldo in più. Abitavamo in una casa con solo tre stanze, grandi ognuna meno di questa camera. Quasi tutto l’arredamento era stato costruito da mio padre. Se la cavava bene, era bravo nel suo lavoro. Non eravamo ricchi, in verità neppure benestanti, avevamo quel poco che ci bastava per vivere, ma eravamo felici». Per un momento si fermò. Lo sguardo perso. Completamente immerso nei suoi ricordi. Poi riprese e la sua espressione divenne più dura. «Il nostro paese si trovava esattamente sul confine tra il regno del nord e quello del sud. Nessuno sapeva con esattezza a quale dei due reami appartenesse e agli abitanti la cosa non importava, era così da sempre. Eravamo troppo distanti dai due centri di potere perché qualcuno si occupasse veramente di noi. Era la nostra fortuna, ma fu anche la nostra disgrazia più grande, perché a qualcuno di colpo interessò. I re dei due regni all’improvviso iniziarono a rivendicare per sé stessi il possesso del villaggio. A loro non importava davvero quel piccolo pezzo di terra, solo non volevano lasciarlo al rispettivo rivale. Così un giorno si presentarono al paese schierati ognuno con un modesto esercito. Iniziarono a discutere animatamente sul campo di battaglia tra i due contingenti. A un certo punto la situazione sembrò collassare e bastò un nonnulla perché a uno dei militari partisse una freccia infuocata. Finì sul tetto di paglia di un’abitazione. In due secondi la casa era in fiamme e poco dopo tutto il paese stava bruciando. Le persone scappavano gridando. Mio padre cercò di metterci in salvo, prese a correre con me in braccio e mia sorella per mano, mentre mia madre ci seguiva con una borsa piena dei pochi averi che era riuscita a salvare. Ricordo il fumo; il caldo; le urla. A un certo punto sbucò da un angolo un carro trainato da due cavalli imbizzarriti. Mia madre non fece in tempo a spostarsi. Fu colpita in pieno. Mio padre mi depose a terra e corse da lei. Morì tra le sue braccia. Non avevo mai visto mio padre gridare a quel modo. Non fosse stato per mia sorella, che tra le lacrime l’aveva costretto ad alzarsi, saremmo morti anche noi lì, su quella strada, avvolti dalle fiamme. Nei giorni seguenti vagammo senza meta. Ci fermammo a chiedere aiuto in ogni casa che incontrammo lungo il cammino. Ci scacciarono tutti. Credo che mio padre, se avesse potuto, si sarebbe semplicemente lasciato morire sul ciglio della strada, ma aveva noi a cui pensare, per cui andò avanti. A un certo punto trovammo una casetta abbandonata in cima a una collina, vicino a delle rovine in pietra, sul limitare di un bosco. Era mezza diroccata. Parte del tetto era divelto e mancava la porta d’ingresso, ma c’era un pozzo ancora funzionante e l’acqua era fresca e pulita. Ci fermammo lì. Io e mia sorella macinammo per lungo tempo chilometri su chilometri a piedi ogni giorno, alla ricerca di qualcosa di commestibile da rubare dai campi e dagli orti più vicini, finché non riuscimmo anche noi a far crescere qualcosa sul prato antistante la nostra abitazione. Intanto mio padre era riuscito a rendere la casa abitabile. Sopravvivemmo, ma non tornammo quelli che eravamo un tempo, non lo saremmo stati mai più. Nell’animo di mio padre si era radicato un odio furente che lo consumava dall’interno.
Un giorno mentre sistemava il pavimento di legno trovò una botola. Era stata ben nascosta, ma le vecchie assi si erano espanse per l’umidità e avevano finito col sollevarsi mostrando un’apertura. Al suo interno rinvenne un libro dalla copertina nera, con un’incisione dorata raffigurante un sole che si intersecava con la luna. Fu l’inizio e la fine di tutto. Il libro era un manoscritto di magia oscura. Mio padre aveva trovato la sua personale lampada magica, capace di esaudire i suoi desideri, primo fra tutti: la vendetta. Studiò arti magiche per tutto l’anno successivo, istruendo con le basi anche me e mia sorella. Pian piano la magia lo consumò, sia nell’anima che nell’aspetto. A nemmeno quarant’anni sembrava già un vecchio, ma non gli importava. Non aveva quasi più occhi nemmeno per noi, l’unica cosa che gli interessava era distruggere le due casate regnanti. Diceva di voler unire i due regni, così che a nessuno potesse capitare quello che era successo a noi. Desiderava un mondo pacifico e senza guerre, ma allo stesso tempo bramava punire tutti per come eravamo stati trattati quando avevamo avuto bisogno di aiuto. Credo che alla fine non sapesse più nemmeno lui cosa volesse davvero. L’odio aveva ghermito a tal punto il suo cuore che, quando ha avuto la possibilità di realizzare i suoi ideali di un regno di pace e felicità, non è riuscito nel suo intento, mandando tutti i buoni propositi in fumo; portando l’intero regno nello stesso baratro da cui non era più riuscito a uscire lui stesso, come una piaga che ricopriva ogni cosa». Non ci potevo credere. «Vostro padre era il mago», dissi sbalordita. «Il suo nome era Aletmir». «Tua sorella sta continuando quello che ha iniziato lui. La distruzione della mia famiglia e quella di Deam», dissi portandomi una mano alla bocca. «Si. Eica idolatrava nostro padre e il suo desiderio di vendetta è altrettanto grande», disse. «Quello che vi è capitato è terribile, ma io e Deam non abbiamo colpe, non c’entriamo niente con quello che vi è successo». «È vero. Le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli. Ecco perché ti sto raccontando tutto questo. Ecco perché ti ho lasciato la porta aperta perché fuggissi il giorno del tuo compleanno. Non potevo fare niente per aiutare il principe, ma tu potevi ancora salvarti. Non avevo idea che la mia scelta avrebbe segnato il destino di mio padre». Rimase per un momento pensieroso, poi continuò. «Ho cercato di far desistere mia sorella dal consegnarti l’anello, ma non ha voluto sentire ragioni». A questo punto volevo capire ogni cosa. «Perché voleva riprendere la vera? Perché mandare Deam?». Lui mi guardò meditabondo. «Me lo sono chiesto anch’io. Nascondendosi tra le ombre aveva notato che il principe era prossimo a svegliarsi. Così, appena ci fu l’occasione, mi chiamò perché me lo caricassi in spalla e la seguissi fino alla locanda dove tu ti eri fermata e...». «Come avete fatto ad arrivare fin là in così poco tempo?», domandai interrompendolo. Mi guardò come se non comprendesse cosa gli stavo chiedendo, poi parve capire. «I maghi conoscono altri modi per viaggiare. Noi non ci spostiamo a cavallo. Lo spazio e le distanze per noi non sono un problema». Non ero sicura di cosa volesse dire, ma lo presi per buono e non insistei per ricevere maggiori informazioni a riguardo. «E Deam? Perché usare lui?», chiesi. «Se lo avesse chiesto a me sapeva che non l’avrei mai assecondata. Il principe è forte, atletico. Pensava ti avrebbe sopraffatto con poco e che nel caso tu lo avessi riconosciuto non ti saresti opposta. Di sicuro non si aspettava che tu lo mettessi fuori gioco e che lo facessi prigioniero legandolo come un salame. Dovevi vedere che faccia ha fatto Eica quando l’hai atterrato». Scoppiò a ridere. Io non ci vedevo niente di divertente. «C’era il problema di spiegare al principe cosa ci facesse in quel luogo, ma la fortuna aiuta gli audaci e così è stato. L’ultimo suo ricordo era di avere ricevuto una botta in testa uscendo da una locanda. A Eica è bastato raccontargli che lo aveva trovato svenuto sul ciglio della strada», concluse. «Non capisco perché tutta questa fatica per riprendere l’anello. Io non sono una maga, non sarei mai riuscita a utilizzarlo». Avevo l’impressione che fosse un dettaglio importante, ma non riuscivo a coglierne il significato.
«Non ne ho idea», rispose con un’alzata di spalle. «La mia magia non è forte come quella di mia sorella, non comprendo tutto quello che riesce a fare. Immagino che avesse le sue ragioni. Probabilmente originariamente pensava di poterne tornare in possesso prendendolo nella sala degli arazzi subito dopo che tu fossi svenuta, ma le cose poi non sono andate secondo i suoi piani». Si interruppe un momento. «Chissà, forse si tratta solo di una questione sentimentale. Era la fede nuziale di nostra madre. Gliela diede in punto di morte. Non possedeva altro da lasciarle come ricordo. L’aveva intagliata mio padre per lei». Questa notizia mi lasciò senza fiato. «Tu sai dov’è? Dove ha portato Deam?», chiesi sporgendomi verso di lui. «Certo. Può essere in un solo posto, ma se vuoi chiederle di fermare il processo e riportare i ricordi dentro al principe per salvarlo, sprecherai il fiato. Non ti aiuterà mai», sentenziò. «Puoi portarmici?». Lui distolse lo sguardo. «Se ti ci accompagno è probabile che mia sorella, presa dalla rabbia, uccida anche te. Per il momento i suoi piani erano di lasciar morire il principe e punirti facendoti precipitare nello stesso dolore che tu hai inflitto a lei uccidendo nostro padre». «Vostro padre si è ucciso con le sue stesse mani», dissi. «È vero, ma mia sorella non la vede allo stesso modo e non fraintendermi, non ha intenzione di lasciarti in vita a lungo. Ti ammazzerà prima o poi. Però, se adesso te ne vai, se ti nascondi, forse hai una speranza di sfuggirle». «Se Eica ci voleva semplicemente morti perché ricorrere a tutto questo. Perché usare la magia?». «Eica vi vuole morti, ma non è un’assassina. La magia regala il lusso di ottenere quello che si vuole senza sporcarsi le mani». Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo. «Puoi portarmi da lei?», ripetei la domanda. «Sì, ma sappi che una volta lì io non ti aiuterò. Non mi metterò contro mia sorella. Te la dovrai cavare da sola». «Portamici, ti prego». Dopo un momento di esitazione disse: «D’accordo». Si alzò in piedi. «Solo una cosa. Un mago veicola la sua magia attraverso un oggetto di legno con cui si lega. Come avrai capito per mio padre era il suo bastone. Per me e mia sorella è qualcosa di più piccolo». Sfilò dal colletto della camicia una catenina con attaccato un bastoncino di legno a mo’ di pendente, identico a quello della sorella. «Distruggi l’oggetto e distruggerai anche il mago». «Perché me lo stai dicendo?». «In un modo o nell’altro voglio solo che tutto finisca», disse incupendosi in volto. «Forse non sarà necessario arrivare a tanto, forse riuscirò a fare ragionare Eica». Se l’avessi uccisa sarei riuscita a salvare me stessa, ma non avrei salvato Deam. Lei era la mia unica speranza. Lui fece uno sbuffo dal naso e sorrise tristemente, poi mi porse il braccio. «Attaccati», disse. Non capivo, ma obbedii. Di colpo tutto intono a noi parve ondeggiare, come se ogni cosa fosse composta solo da uno strato di fumo o acqua corrente e i colori divennero soffusi, coperti da un mantello di oscurità. Mi aggrappai al suo braccio anche con l’altra mano. «Non mollare la presa e cammina normalmente», suggerì. Iniziammo a muoverci e ogni cosa prese a oscillare più velocemente. Il paesaggio mutava e si intersecava a una velocità incredibile, eppure riuscivo a cogliere ogni dettaglio. Ogni strada, ogni albero, ogni casa. Avevamo fatto solo pochi passi, quando Alect disse: «Siamo arrivati». Il mondo intorno a noi si fermò. «Adesso puoi lasciarmi». Ritirai le braccia, lasciandole cadere lungo i fianchi, stupefatta. Eravamo in una radura vicino a una collina, dietro la quale iniziava una lussureggiante foresta che si apriva abbracciando la vallata. Il morbido tappeto di erba era punteggiato qua e là da dei pagliai a forma di cono. Sulla cima dell’altura c’era una piccola casetta in legno scuro. Non ebbi dubbi su dove ci trovassimo.
«È casa vostra», dissi. Non era una domanda, ma Alect rispose ugualmente. «Sì». Mi incamminai, ma lui mi afferrò per un braccio, trattenendomi. «La magia di mia sorella non è potente come quella di mio padre. Eica non può stregare le persone o utilizzare gli elementi. Riesce solo a incantare gli oggetti. Non si aspetterà il tuo arrivo, ma di sicuro avrà pensato a delle protezioni», disse guardandomi negli occhi. «Non che mi importi di te, ma se vuoi puoi ancora fuggire, fai ancora in tempo ad andartene. Non lo puoi salvare. Stai andando lì solo per vederlo morire e per fare la sua stessa fine». Mi voltai verso la casa e liberai il braccio dalla sua presa. «Andiamo», dissi. Mi avviai verso la collina e Alect mi seguì senza aggiungere altro.
Capitolo 9
Con passo deciso, arrivammo in cima alla collina. Vidi subito Deam. Era sdraiato su quello che restava di una vecchia costruzione in grosse pietre mezza interrata. Il braccio sinistro sotto la testa, l’altro disteso accanto al corpo con il polso rivolto verso l’alto. La gamba sinistra era piegata, mentre l’altra ricadeva dal ginocchio in giù a penzoloni da quello che un tempo doveva essere stato il muro posteriore di un’abitazione. Teneva gli occhi chiusi, mentre il vento gli scompigliava i capelli, lasciandosi accarezzare il viso dall’ormai debole sole. Anche in una situazione del genere, vedendolo, non potei impedire al mio cuore di compiere un balzo e alla mia mente di pensare a quanto fosse bello. Mi avvicinai a lui, che dovette avvertire la mia presenza dal rumore dei passi. «Vattene Eica, non serve che vieni a controllarmi in continuazione. Ti ho già detto che non fuggirò. Avete già posto le vostre condizioni, non metterò a rischio la vita di mia madre, né quella di lei. Per cui lasciami in pace», disse. «Deam», lo chiamai. Appena pronunciai il suo nome, lui aprì di scatto le palpebre e si mise seduto girandosi verso di me. Quando i nostri occhi si incontrarono, il suo volto già pallido, sbiancò ulteriormente. Si alzò subito in piedi e mi afferrò con forza le braccia. «Cosa diavolo ci fai qui?», gridò. Non capii se fosse più arrabbiato o più spaventato. «Te ne devi andare. Subito!», disse agitato. Tenendomi per un avambraccio iniziò a camminare trascinandomi dietro di sé. «Deam, aspetta, fermati, fermati!», dissi cercando di fare resistenza. Lui si girò a guardarmi con occhi di fuoco. «Tu non capisci, non puoi restare qui. Lei potrebbe tornare a momenti», urlò, facendomi percepire quanto fosse impaurito. «No, sei tu che non capisci», dissi, cercando di controllare il volume della voce. All’improvviso si accorse che non eravamo soli. Mi tirò immediatamente dietro la sua schiena, frapponendosi tra me e Alect. Da come lo guardò, era chiaro non fosse lui la persona che si era aspettato di vedere. «Tu lavori al castello. Cosa fai qui. Cosa…Cosa sta succedendo?», chiese, confuso. «La signorina ha deciso di venirti a salvare. Io l’ho solo accompagnata», rispose Alect quasi annoiato. Deam mi guardò. «Salvarmi?», i suoi occhi erano pieni di dolore. «Non so quello che credi di sapere, ma non puoi aiutarmi in nessun modo». Avvicinò una mano alla mia guancia, ma la lasciò ricadere senza avermi sfiorata. «Tra qualche giorno non ci sarò più». Si allontanò da me, dandomi la schiena. «Ti prego va via». «Qualche giorno? Mi sa che si parla più di minuti», sussurrò Alect rivolto a me, alzando le sopracciglia. Sentii il desiderio di tirargli un pugno.
Avevo il cuore in tumulto dentro al petto. Deam era convinto che, di li a pochi giorni, sarebbero scoccati i diciassette anni da quando aveva donato parte del suo cuore a una sconosciuta per permetterle di vivere. Non sapeva che quel momento lo avevamo già vissuto e affrontato insieme. Afferrai Deam per un braccio e lo costrinsi a fermarsi. «Deam, devi starmi a sentire. Non è come credi», dissi. In quel momento vicino alla casa apparve una figura. Deam indietreggiò parandomisi davanti. Lo vidi chiudere le mani a pugno, irrigidendosi. Eica ci osservava con sguardo indecifrabile. «Ma bene, Alect. Si può sapere cosa hai in mente?», chiese. Alect alzò le mani in segno di resa e si allontanò da noi, facendosi da parte. Eica strinse gli occhi riducendoli a due fessure. Poi si mise a passeggiare lentamente verso le rovine in pietra. «Due notti fa, quando ho gentilmente invitato il nostro principe a passare in questo incantevole luogo un breve soggiorno, gentilmente quanto può esserlo un pugnale incantato puntato alla tua gola cara principessa…». Deam, che ancora non sapeva chi fossi in verità, sentendo Eica chiamarmi a quel modo, mi guardò velocemente con la coda dell’occhio. «Mi ero premurata di lasciare un pensiero alla buona savia per tutto l’aiuto che vi aveva fornito. Così oggi sono passata per vedere se l’avesse gradito. Beh non era in casa, ma mi aveva lasciato un biglietto di ringraziamento nel caso fossi tornata». Alzò un braccio, aveva una brutta scottatura che lo percorreva dal polso al gomito. «Capirete dunque che non sono esattamente di buon umore, ma… credo che ora le cose possano migliorare». Estrasse qualcosa dalla tasca dell’abito, lo prese tra il pollice e l’indice e lo alzò perché potessimo vederlo. Inclinò la testa nella sua direzione e sollevò gli angoli della bocca in un sorriso smagliante. L’anello era diventato di un bianco slavato. «A occhio e croce direi che per diventare del suo colore originale manchino sì è no una decina di minuti. Qualcuno vuole scommettere?», disse, prorompendo in una risata. Mi si mozzò il respiro in gola. Avanzai, superando Deam di qualche passo. «Eica, ti supplico. Lui non c’entra niente con quello che vi è successo», gridai. Lei fulminò con gli occhi il fratello. «Ti prego, ti darò qualsiasi cosa», dissi. «Mi stai offrendo la tua vita in cambio della sua? Non temere, principessa, mi prenderò anche quella appena avrò terminato con lui e visto il colore della fede, non credo dovrai attendere a lungo. Ma se proprio desideri fare qualcosa per me, allora riporta indietro il tempo ed evita di uccidere mio padre. Dovevi morire tu non lui», urlò con i tratti del viso contorti dall’ira. Il sole stava scendendo alle sue spalle, allungando le ombre. In quel momento tramontarono anche le mie speranze di convincere Eica a ridare a Deam i suoi ricordi. Cercai di tenere a bada l’angoscia che si stava impossessando di ogni centimetro del mio corpo, paralizzandomi. Ci doveva essere un motivo se Eica si era impegnata così tanto per non lasciare la vera in mio possesso. Iniziai a correre nella sua direzione, decisa a strappargliela dalle mani. Non mi sarei data per vinta, avrei tentato qualsiasi strada. A un certo punto della mia corsa, quello che stavo per calpestare, credendolo un pagliaio caduto a terra, si sollevò davanti a me, sbarrandomi la strada. Era una specie di fantoccio. La paglia era stata legata in più punti con della corda per creare delle suddivisioni che ricordassero la forma umana. Vidi uno scintillio in alto alla mia sinistra e troppo tardi, con sconcerto, mi accorsi che il pupazzo brandiva una spada. Non avrei fatto in tempo a scansarmi. Chiusi gli occhi e istintivamente alzai le braccia sopra alla testa per proteggermi. Improvvisamente però mi sentii afferrare e buttare a terra. Aprii gli occhi. Deam era sopra di me, ma un secondo dopo si rialzò, pronto a sferrare un velocissimo calcio al fantoccio, che cadde a terra a diversi metri di distanza da noi, perdendo la lama. «Aili, tutto bene?», mi chiese Deam con occhi preoccupati. Annuii e lui mi allungò una mano per aiutarmi a rimettermi in piedi. Mentre mi sollevavo mi accorsi che non ero la sola a farlo. Intorno a noi molti altri pupazzi si stavano alzando dal terreno e tutti brandivano un’arma affilata. Sulle loro teste, la paglia si aprì nei punti in cui, su un viso umano, ci sarebbero stati occhi e bocca, imitando delle mostruose cavità vuote e profonde.
Deam si chinò per raccogliere il ferro caduto al fantoccio. Poi, riprendendomi per mano, mi attirò il più possibile vicino a sé. I suoi occhi guizzavano da una parte all’altra e la fronte era imperlata di gocce di sudore. Io potevo sentire i battiti del mio cuore che pulsavano nelle orecchie, tanto ero terrorizzata. Eica rise di gusto mentre i suoi mostri si avvicinavano a noi. Deam alzò la spada e calò un fendente su uno dei fantocci. Questo parò il colpo e tirò una stoccata che Deam schivò per un soffio. Poi, rapidamente, Deam fece ruotare la lama e riuscì a decapitare il pupazzo che si afflosciò immediatamente ai suoi piedi. Subito un'altra creatura gli fu addosso. Dopo aver bloccato anche questo attacco, Deam si girò nella mia direzione. «Abbassati», gridò. Io reagii prontamente e lui trafisse con un affondo un fantoccio alle mie spalle. Afferrai la spada che aveva lasciato cadere quest’ultimo. Provai ad alzarla, ma era pesantissima, non sarei mai riuscita a brandirla. Deam era impegnato a fermare altri tre mostri. Un quarto mi si parò davanti, alzando la sua arma su di me. Sollevai la spada per bloccare il colpo. Quando queste impattarono, la mia mi scivolò dalle mani. Ero riuscita a deviare la sua imbroccata, ma il fantoccio stava già per caricare nuovamente. Sentii Deam che mi spingeva di lato e velocemente placcò il suo attacco. Nello stesso momento però un altro fantoccio eseguì una stoccata. Deam non ebbe modo di spostarsi e il ferro del mostro gli corse sul braccio, lasciando un taglio netto. Deam fece una smorfia di dolore, ma continuo a parare e fendere colpi. Erano troppi, non sarebbe riuscito a reggere così ancora a lungo. All’improvviso mi sentii afferrare e sollevare in aria. Deam gridò il mio nome. Un fantoccio mi teneva per le braccia e con un balzo incredibile si era portato fuori dal combattimento, atterrando accanto a Eica. «Troppo tardi», disse lei con un sorriso sornione. Mi alzò l’anello davanti al viso. Il poco colore, che ancora restava al suo interno, sparì in quel momento, tornando della sua tinta originaria. Spalancai gli occhi. Il respiro si fermò nei polmoni. Mi girai verso Deam e lo vidi cadere. La spada gli scivolò dalla mano senza presa. Le gambe cedettero e lui si accasciò a terra, restando immobile. Iniziai a urlare. Non sapevo di poter emettere simili suoni così pieni di strazio e disperazione. Avevo fallito, non ero riuscita a salvarlo. Sentii il cuore andare in mille pezzi e lo desiderai. Meglio morire che sopportare un simile dolore. Le forze mi abbandonarono e non fosse stato per il pupazzo che mi teneva per le braccia, mi sarei piegata in due sul terreno. Persi il controllo della mente, che chiedeva solo l’oblio per non dover affrontare la situazione. Eica mi tirò un paio di ceffoni che quasi non sentii. «Resta qui bambina, non provare a svenire», disse. La vedevo appena. La vista completamente offuscata dalle lacrime. «Visto tutto il tuo impegno per salvargli la vita, ti farò un regalo». Mi prese la mano sinistra e sull’anulare mi infilò la fede. «Ecco fatto ora come sognavi sei una sposina», disse ridendo. «Avevo pensato di lasciarti in vita per un po’ dopo la morte del principe, ma siccome so anche essere generosa, credo che ti ucciderò adesso. Contenta? Rivedrai presto il tuo amore». Non mi importava niente di quello che diceva. Deam era morto, nulla aveva più senso. Che mi uccidesse pure anche subito. La vidi alzare un dito e due fantocci atterrarono con un salto accanto a lei. Io continuavo a singhiozzare. «Finiamola qui. Uccidila!», ordinò a uno dei pupazzi, che subito alzò la spada. Chiusi gli occhi. Mi concentrai su Deam. Ma il colpo non arrivò. Sentii invece un po’ di trambusto e riaprii le palpebre. Alect aveva decapitato il fantoccio. «Alect, cosa stai facendo?», gridò Eica, furiosa. Lui la afferrò per la lunga treccia, tirandole indietro la testa. «La finisco qui», disse. Con la mano libera prese il pendente di legno di Eica e strinse la presa, spezzandolo in due. Lei gridò e iniziò a indietreggiare, incredula. «Cosa hai fatto! Cosa hai fatto!», sussurrò.
La pelle di lei iniziò a disfarsi e decomporsi, così come avevo già visto succedere a suo padre. Stramazzò sconvolta sul terreno. Alect si girò verso di me e mi liberò dalla presa del pupazzo. Anche nello stato di prostrazione in cui mi trovavo, riuscii a vedere che aveva un’espressione tesa e sofferente, ma ero incapace di comprendere appieno quello che stava accadendo. La mia mente si rifiutava di funzionare correttamente. D’improvviso lui ebbe un sussulto. Un rivolo di sangue gli uscì da un angolo della bocca e corse lungo il mento. Confusa, abbassai gli occhi, attratta da un movimento, e vidi che una spada lo aveva trapassato al ventre e solamente per poco non aveva raggiunto e trafitto anche me. Quando venne ritirata, lui cadde in ginocchio ai miei piedi. Dietro a lui un fantoccio brandiva l’arma insanguinata. Spostai lo sguardo su Eica. Era sdraiata a terra, appoggiata sugli avambracci per tenere il corpo leggermente sollevato. In quel momento si lasciò andare, allungò le braccia, appoggiò la testa al suolo e si tramutò in cenere. Nello stesso istante, tutti i pupazzi ancora in piedi, si afflosciarono, tornando ad essere della semplice paglia inanimata. Alect si era steso supino con le mani sulla ferita. Mi accasciai accanto a lui. Incapace di reggermi ancora in piedi e lo guardai sperduta. «Alla fine non sono riuscito a tenermi in disparte», disse, «si vede che era destino». Mi guardò negli occhi. «Sarai una buona regina. Ne sono sicuro. Non permettere che a qualcun altro capiti quello che è successo a noi». Le forze lo stavano abbandonando, ma riuscì a portarsi una mano al collo e a prendere il suo pendente di legno. Con gli occhi fissi nei miei strinse il pugno e lo ruppe. Aprii la bocca, ma non ne uscì nemmeno un suono. Poco dopo, anche lui diventò solo un mucchio di cenere sparsa dal vento. Dietro di me sentii una vampata di calore. Mi girai. La casa aveva preso ad ardere, come se anche lei avesse voluto seguire il destino dei suoi proprietari, diventando null’altro che polvere. Cercai di alzarmi e lentamente ci riuscii. Iniziai a camminare, ma ogni passo mi costava una fatica immensa e più mi avvicinavo alla mia destinazione, più i miei piedi sembravano di piombo. Tenevo gli occhi fissi a terra. Non riuscivo a sollevare lo sguardo. Non volevo vedere. Non potevo. Non l’avrei sopportato. Mi costrinsi a farlo. Deam era steso con il viso rivolto verso l’alto. Gli occhi chiusi, la bocca leggermente aperta. Le braccia, appena divaricate verso l’esterno abbandonate lungo il corpo. La gamba sinistra piegata, con la caviglia sotto il ginocchio dell’altra. Crollai con un gemito di dolore al suolo e le lacrime annebbiarono completamente la vista. Strinsi gli occhi, poi alzai lo sguardo verso il cielo, ovunque, in cerca di un appiglio, in cerca di aiuto. Respiravo affannosamente. Feci due respiri profondi e pian piano strisciai carponi fino ad arrivare accanto a lui. Lo guardai in volto. Due ciocche di capelli gli ricadevano scomposte sulle palpebre. Con mano tremante gliele spostai e la lasciai poi scorrere sulla sua pelle, accarezzandolo, seguendo la linea del suo viso. Fui scossa dai singhiozzi e mi piegai sul suo petto, gridando di dolore. Tra i singhiozzi però a un certo punto sentii qualcosa. Aprii gli occhi di scatto e smisi di respirare. Appoggiai un orecchio sul suo torace. Era lievissimo, quasi impercettibile, ma c’era. Un piccolo palpito all’interno del suo corpo. Un cuore che ancora batteva. Sollevai la schiena e mi guardai la mano sinistra. Avevo ancora l’anello infilato all’anulare. Ebbi un fremito all'interno. Il suo colore era quello del legno, ma a intervalli regolari compariva una piccola striatura colorata che si ingrandiva e si ritirava, pulsando come i battiti di un cuore. Deam stava ancora combattendo. Lottando per non perdere. Per non perdere me. Eica si era sbagliata, c’era ancora tempo. Barcollando riuscii a mettermi in piedi. Mi avvicinai alla casa che ardeva e sfilai la fede dal dito. Mi fermai un secondo a osservarla, rigirandola tra i polpastrelli, ma avevo già deciso. Sollevai il braccio sopra alla testa e la lanciai tra le fiamme. Quindi tornai da Deam e mi lasciai andare accanto a lui, con le mani nell’erba e le unghie conficcate nella terra. Trattenendo il respiro. In attesa. Pregando di aver fatto la cosa giusta. Di non avere appena commesso il più terribile errore della mia vita.
Improvvisamente sulla pelle di Deam iniziarono a disegnarsi spire di fuoco, che si annodavano e turbinavano tra loro. Era come se il suo corpo le stesse assorbendo dall’etere. Riuscivo a vederle anche attraverso i suoi vestiti tanto erano luminose. Si muovevano, danzando, verso un punto preciso: il centro del suo cuore. Quando lo raggiunsero sparirono e io avvertii il cambiamento. La volta precedente né io né lui ci eravamo accorti di quello che era accaduto. Poteva essere capitato in qualsiasi momento, ma questa volta lo sentii chiaramente. Il mio cuore saltò un battito e il momento successivo prese a palpitare con un ritmo nuovo, diverso, più forte, che non era solo mio, era nostro. Il legame si era ricreato. Deam fece un profondo respiro e aprì le palpebre. Iniziò a tossire e si mise lentamente seduto. Una volta che l’accesso di tosse si fu calmato, si guardò intorno con espressione confusa, passandosi una mano tra i capelli scompigliati. Osservò l’abitazione in fiamme e i pagliai a terra ormai inoffensivi. Si voltò a guardarmi. «Aili, co...», iniziò a dire qualcosa, ma poi, fu come se i suoi occhi riuscissero finalmente a vedermi davvero e si bloccò. Sul suo viso si dipinse un’espressione di stupore. «Oh!», riuscì semplicemente a commentare, sollevando le sopracciglia. Fu un comportamento così da lui, che mi scaldò immediatamente il cuore, sciogliendo tutta la tensione accumulata, lasciando posto solo al sollievo. Iniziai a ridere e piangere allo stesso tempo, finendo poi per mettermi a singhiozzare rumorosamente. Deam mi prese tra le braccia, stringendomi forte a sé. Cullandomi dolcemente sul suo petto, con il viso posato sulla mia testa. Baciandomi tra i capelli. «Aili, amore. Grazie, grazie, grazie… Perdonami». Ripeté quelle due ultime parole un’infinità di volte, mentre io cercavo, senza successo, di calmarmi. Così alla fine mi lasciai semplicemente andare. Piansi di sollievo perché Deam era ancora vivo, perché eravamo ancora insieme, per i suoi ricordi ritrovati. Piansi di tristezza per Alect, per Eica e la loro famiglia. Non so quanto rimanemmo in quella posizione. Il tempo di nuovo non era più così importante. Quando ci staccammo e ci alzammo da terra, il cielo era ormai un firmamento di stelle, oscurate solo dalla luminosità del fuoco che ancora consumava la casa. Ci prendemmo per mano e iniziammo a scendere dalla collina.
Capitolo 10
Non avevamo idea della direzione da prendere per tornare al castello, per cui ne scegliemmo una a caso, finché non scoprimmo che stavamo andando esattamente nella direzione opposta. Impiegammo tre giorni per tornare a palazzo. La prima notte non dormimmo affatto, la passammo a camminare. Anche se era già da due giorni che non chiudevo occhio, non sarei mai riuscita ad addormentarmi, troppo sovreccitata. Parlammo per tutto il tempo. Riempii le lacune di Deam su quanto era accaduto negli ultimi giorni e gli narrai la storia del mago e della sua famiglia. Come mi aspettavo, ne rimase profondamente scosso. Lo sommersi di domande per accertarmi che non ci fossero falle nei suoi ricordi. Rammentava tutto. Forse anche troppo. Quando con il suo sorrisetto furbo scese nei particolari del nostro primo bacio, parlando del sapore che avevano le mie labbra, non potei fare a meno di assumere una tonalità scarlatta. Ci chiedemmo se fosse stato possibile, distruggendo l’anello, sovvertire l’incantesimo fin da subito. Non trovammo una risposta. Probabilmente non lo avremmo mai saputo. Da quello che mi aveva detto la savia, i ricordi che man mano la vera perdeva sarebbero dovuti svanire per sempre, ma Deam era riuscito a recuperare non solo quell’unico frammento a cui la sua anima era rimasta aggrappata, ma tutti, anche quelli che sarebbero dovuti essere irrecuperabili. Non glielo dissi, ma pensai che a renderlo possibile fosse stata l’intensità del suo amore per me. Un amore dove, già una volta, due cuori si erano aggrappati l’uno all’altro con talmente tanta forza da diventare una cosa sola.
Il giorno seguente trovammo un passaggio sul carretto di un contadino che trasportava fieno. Divise delle mele con noi e io riuscii ad assopirmi un po’ sul morbido tappeto, cullata dal traballante incedere del carro e con la mano di Deam intrecciata alla mia. Non ci eravamo ancora lasciati da quando eravamo scesi dalla collina. La seconda notte dormimmo in una stalla. Puzzava, ma almeno la presenza degli animali, con i loro grossi corpi, regalava un piacevole tepore all’ambiente. Quando fece giorno riprendemmo il cammino. Nel primo pomeriggio riuscimmo a strappare un altro passaggio. Ci caricò un piccolo commerciante di vini, che trasportava una trentina di botti verso la città del sud. Gliele avevano commissionate dal palazzo, disse compiaciuto, per le nozze e l’incoronazione dei nuovi reali, che, come sicuramente sapevamo, sarebbero avvenute da lì a due giorni. Io e Deam ci guardammo, ci eravamo completamente dimenticati che il matrimonio fosse così vicino. All’imbrunire la strada che stavamo percorrendo si intersecò con una che già conoscevo. Quando vidi l’albero sotto il quale ero svenuta, esausta, dopo una notte passata a cercare Deam lungo il fiume, lui chiese al commerciante di fermarsi perché potessimo scendere. Dopo averlo salutato, ci dirigemmo a piedi verso la roccaforte delle milizie nella quale Deam aveva passato le notti seguenti alla nostra brutta esperienza nel bosco. Nella rocca trovammo due guardie che, riconoscendo Deam, ci fecero subito entrare. Passammo lì l’ultima notte. Il giorno seguente avuti dei destrieri in prestito dai cavalieri, cavalcammo fino al tramonto per raggiungere il castello. Al nostro arrivo dovevamo avere un aspetto spaventoso o almeno, io di sicuro lo avevo. La mia balia, anche con le lacrime agli occhi per il sollievo di vederci sani e salvi, evitò di abbracciarmi, limitandosi a darmi qualche buffetto in testa. La regina invece non si fece alcun problema, quando vide Deam lo stinse forte a sé piena di gioia. Anche se, dovevo ammettere, a differenza mia lui pareva solo un po’ trasandato. Per la prima volta dopo tre giorni io e Deam ci separammo, ognuno diretto nella sua camera. Sentii la sua mancanza un secondo dopo averlo lasciato.
Dopo aver sbocconcellato qualcosa e fatto un lunghissimo bagno che mi fece sentire rinata, mi buttai sul letto. Indossavo una lunga camicia da notte bianca e una vestaglia color avorio con i risvolti ricamati. Ero davvero stanca, tanto che sarei potuta crollare immediatamente. Tuttavia trovai ugualmente la forza per alzarmi e rimandare il riposo. C’era ancora una cosa che dovevo fare. Mi infilai delle pantofole, presi una lanterna e uscii dalla mia stanza. Il castello era già avvolto dal torpore della notte e non c’era un solo suono, a parte i miei passi, che spezzasse il più assoluto silenzio. Percorsi i lunghi corridoi fino all’ala in cui si trovavano le camere della servitù. Arrivai davanti alla stanza di Eica ed entrai. Era esattamente come l’avevo lasciata qualche giorno prima. Sull’angolo del letto c’erano ancora le pieghe sulle coperte dove Alect si era seduto. Respirai profondamente, poi mi avvicinai allo scrittoio. Vi appoggiai sopra la lanterna e aprii il cassetto in basso a destra. Presi in mano il suo contenuto. La prima volta che lo avevo visto non potevo sapere di cosa si trattasse, ma la notte precedente, mentre cercavo di prendere sonno, ormai a conoscenza della storia della famiglia del mago, avevo iniziato a maturare l’idea che potesse trattarsi proprio di quello e avevo avuto ragione. Passai la mano sulla copertina del manoscritto. L’incisione dorata era quasi del tutto sparita, ma ancora leggermente visibile. Ebbi la tentazione di aprirlo e quasi lo feci, ma poi desistetti. Ripresi la lampada e me ne andai con il libro in mano. Scesi nell’androne, aprii il grande portone intagliato e uscii nel parco. C’era un leggero alito di vento e la luna crescente tagliava come una lama il buio manto del cielo. Scendendo dalla gradinata mi portai sul vialetto di ghiaia che percorreva tutto il giardino da ambedue i lati. Rimossi il coperchio di vetro della lanterna, lo appoggiai sul penultimo gradino della scalinata e sollevai il libro sopra alla fiamma della candela rimasta senza protezione. Le pagine iniziarono subito a scurirsi e ad arricciarsi, prendendo fuoco. Quando non potei più tenerlo in mano per il troppo calore, lo deposi a terra e lo osservai bruciare, finché non ne rimase più niente.
Alect lo aveva definito un libro di magia oscura. Ma la magia non era né buona né cattiva, la differenza stava solo in come veniva usata. Con il libro in cenere ai miei piedi però, mi sentii meglio. Nelle mani sbagliate avrebbe potuto provocare ancora più dolore di quello che gli uomini riuscivano già a infliggersi l’un l’altro da soli, anche senza le arti magiche. Sentii dei passi dietro di me. «Mia signora, cosa fate fuori a quest’ora?». Iane e Rimet stavano scendendo dalla gradinata. «Stavo per rientrare. Voi siete di guardia?», domandai mentre risistemavo il cappuccio di vetro sopra il lume. «No, ci hanno appena dato il cambio», rispose Rimet. «Capisco. Allora vi auguro buonanotte», dissi loro con un sorriso. Poi mi avviai su per la scalinata. «Mia signora, aspettate». Mi fermai e mi voltai verso di loro. Si scambiarono uno sguardo, poi si inchinarono. «Noi non conoscevamo niente di voi prima del viaggio che abbiamo intrapreso insieme», disse Iane, «ma siamo stati molto felici di averlo fatto, ora sappiamo quale grande regina sarà per il nostro regno. Volevamo porgerle i nostri omaggi». Le sue parole mi colsero impreparata, non sapevo se erano meritate, ma mi infusero grande fiducia. Li ringraziai un po’ imbarazzata. I due cavalieri si alzarono e aspettarono che io varcassi il portone, prima di girarsi e inoltrarsi nel parco.
Quando tornai in camera vidi un rigonfiamento sotto le coperte del letto. Sorrisi. Appoggiai la lanterna sul comodino e con un soffio spensi la fiammella. Appena mi infilai sotto alle lenzuola, un braccio si allungò e mi attirò a sé. Deam mi avvolse in un caldo abbraccio. La sua fronte appoggiata alla mia. «Non ti sembra un po’ inappropriato intrufolarti nel mio letto, non siamo ancora sposati. Che dirà la servitù se ci scopre?», chiesi. «Mhmm...», mugugnò. «Non mi importa, mi mancavi», disse. «Dov’eri? Va tutto bene?», domandò. «Adesso sì», risposi. Restammo in silenzio per un momento, poi Deam disse: «Domani c’è il nostro matrimonio». «Sopravvivremo, abbiamo affrontato di peggio», commentai. Deam mi tirò un pizzicotto sul braccio. Io ridacchiai. Lui si fece ancora più vicino. «Da domattina sarai mia per sempre», sussurrò. Anche se non mi poteva vedere, io arrossii. «Lo sono già», risposi. «Sai cos’è stata una cosa buona di questi ultimi giorni?», chiese. «Perché ce n’è stata una?», domandai. «Sì. Mi sono potuto innamorare di te un’altra volta. Dovessi perdere la memoria altre cento, mille volte, mi innamorerei sempre di te. Sceglierei sempre te». Deam aveva la capacità di dire certe cose senza imbarazzo, con la più assoluta naturalezza. Mi chiesi se un giorno ci sarei riuscita anch’io. «Cerca di non dimenticarti mai più di me», dissi. «No, mai più, sei la mia vita». Mi voltai verso il soffitto. «Già, sei quasi morto per esserti scordato di me», dissi, sentendomi stringere lo stomaco al solo ricordo. Lui si alzò leggermente su un braccio. Nel buio cercò il mio viso con la mano, lo girò verso di sé e si chinò fino a sfiorare le mie labbra con le sue. «Non intendevo questo, è che non potrei vivere senza di te. Ti amo così tanto», sussurrò a un millimetro dalla mia bocca.
Premette le sue labbra sulle mie e io intrecciai le mani tra i suoi capelli. Il cuore batteva forte ed ero sicura lo potesse avvertire anche lui. Quella sera ci addormentammo avvinghiati l’uno all’altra. Il giorno seguente ci aspettava un nuovo inizio, ma non avevo alcun timore, perché ero sicura lo avremmo affrontato insieme.
Capitolo 11
Chiaramente quando sei certa di una cosa, tutto va esattamente nella direzione opposta a quella che ti saresti aspettata.
Fui svegliata da un bagliore. La lanterna sul comodino era accesa e illuminava debolmente la stanza. Dalle finestre invece non entrava nemmeno una flebile luce. Non era ancora giunta l’alba. Deam, seduto sul letto al mio fianco, le gambe sotto alle coperte, i capelli scarmigliati e gli occhi gonfi di sonno, fissava il vuoto davanti a sé. «Deam?», lo chiamai, mentre mi mettevo a sedere anch’io. Lui si girò verso di me, con gli occhi non più grandi di due fessure. «Perdonami, ti ho svegliata», si scusò. «Cosa succede? È tutto a posto?», domandai, preoccupata. Lui tornò a osservare la stanza e dopo un momento rispose: «Sì, mi era parso di sentire qualcosa. Ma probabilmente stavo sognando». Si lasciò ricadere sul morbido materasso. «C’è forse qualcosa che ti turba?», chiesi. «No, affatto. Torniamo pure a dormire», disse. «Vuoi che spenga io il lume?», domandai. «Grazie», rispose con gli occhi chiusi, mentre si girava su un fianco, già mezzo addormentato. Mi fermai a osservare per un secondo l’espressione innocente sul suo viso. I capelli che gli ricadevano disordinati sulla fronte. Le mani appoggiate vicino al volto. Mi si imporporarono le guance e, agitata, cercai di riscuotermi, allungandomi verso la lampada per spegnerla. Mi domandai se a tutte le ragazze innamorate capitasse di essere pervase dallo stesso dolce struggimento che si impossessava di me ogni volta che posavo gli occhi su di lui. «Aspetta!», disse rialzandosi di scatto e facendomi prendere uno spavento. «L’hai sentita?», domandò. Non avevo sentito nulla. «Di cosa parli?», chiesi. «Quella voce. Qualcuno mi sta chiamando». «Ne sei sicuro? Io non ho sentito niente». Lui scostò le coperte. Fece scivolare le gambe giù dal letto e si alzò in piedi. Indossava dei morbidi pantaloni blu scuro e una larga maglia azzurra, che per assurdo ne metteva in risalto la perfetta muscolatura. «Eccola di nuovo», disse. Io non avevo udito alcunché. «Deam, io non ho sentito nessuna voce». Cominciavo a sentirmi inquieta. Lui si chinò per indossare le scarpe. «Vado a dare un’occhiata». Mi alzai in fretta dal letto, gettando le lenzuola di lato. «Vengo con te», dissi, infilandomi le pantofole. Non lo avrei lasciato andare da solo. Sentire voci che altri non possono udire di solito non è un buon segno. Seguii Deam fuori dalla stanza con la lanterna in mano. Il castello era avvolto nell’oscurità e i suoi abitanti sembravano ancora tutti addormentati, perché, mentre percorremmo i lunghi corridoi verso il piano inferiore, non incontrammo anima viva. «Proviene dall’esterno. Ora si sente più chiaramente», esclamò.
Io continuavo a non udire niente ed ero sempre più turbata. Uscimmo nel parco. Lo spicchio di luna era ancora visibile nel cielo e il vento aveva preso a soffiare con maggiore foga. Quando scendemmo dalla scalinata che portava al vialetto di ghiaia, presi Deam per un braccio e mi parai davanti a lui. «Deam, fermati. Dici di sentire una voce, ma io non sento niente. E anche ammesso che tu possa avere un udito più sviluppato del mio, se qualcuno ti avesse chiamato dal giardino, come avresti fatto ad avvertirlo dalla mia camera da letto e per di più con le finestre chiuse? È troppo distante», dissi concitata, cercando di farlo riflettere. «Hai ragione. Eppure io l’ho sentita così chiaramente», rispose, guardando verso il folto degli alberi. All’improvviso il suo viso assunse un’espressione di stupore e alzò una mano a indicare qualcosa alle mie spalle. Mi voltai. Alla fine del tappeto erboso, dove iniziavano le piante ad alto fusto, una figura stava in piedi, immobile. Era la savia. Quando fu sicura che l’avessimo scorta, ci fece segno di raggiungerla e si inoltrò nel boschetto. Deam sollevò le labbra nel suo sorrisetto sghembo e alzò un sopracciglio. «Allora, ancora convinta che sia diventato matto?». Gli sorrisi imbarazzata e lui mi diede un colpetto con il gomito, prendendomi la lanterna di mano e avviandosi per il prato. Quando lo raggiunsi, portandomi al suo fianco, mi cinse le spalle con il braccio libero e mi diede un bacio sulla testa. «Chissà perché sarà venuta?», si chiese a voce alta. «Da quello che mi avevi detto, avevo capito fosse una specie di veggente, non avevo idea potesse anche comunicare direttamente con la mente delle persone». ‘Non lo sapevo nemmeno io’, pensai. Mentre camminavamo nell’erba umida e il vento si insinuava gelido sotto la camicia da notte, mi rammaricai di non avere preso con me la vestaglia. Arrivammo in uno spiazzo circondato da magnifici salici. La savia ci aspettava nel centro, accanto a una vecchia statua raffigurante una giovane ninfa. Io e Deam ci separammo e ci avvicinammo a lei. «È un piacere vederla in salute. Involontariamente abbiamo attirato su di lei le ire di una maga, me ne rammarico, ma a quanto sappiamo è riuscita a fronteggiare il pericolo», disse Deam. Lei ci osservava con un sorriso enigmatico. « È stata una cosa da poco», disse. «A cosa dobbiamo questa visita?», chiesi. Per non essere scortese non feci riferimento all’orario inusuale, ma lo trovavo alquanto strano, anche per una vecchietta bizzarra come lei. «Sono venuta per aiutare il principe», rispose. «Aiutarmi, in cosa?», domandò Deam, aggrottando le sopracciglia, confuso. «A diventare quello che dovresti essere». «Non riesco a capire». «Lo so, ma tra poco ti sarà tutto chiaro». All’improvviso mi sentii afferrare per le braccia e strattonare violentemente all’indietro. Caddi a terra e venni trascinata a grande velocità per diversi metri, perdendo le pantofole e strappandomi la veste. Mi ritrovai al margine della radura. I rami di un salice mi stringevano i polsi, tenendomi le braccia divaricate e sollevate verso l’alto; con i piedi riuscivo a fatica a toccare il terreno. Impaurita, cercai Deam con gli occhi. Era a una ventina di metri da me, anche lui prigioniero delle fronde di un albero. Questi non erano semplici trucchetti, questa era magia, la savia mi aveva mentito. «Cosa significa tutto questo? Sei una maga», gridò Deam, adirato. Lei con passo lento si portò davanti a lui. «Sì, sono una naturale». «Una naturale…?». «Una maga di sangue. Il potere magico di un naturale viene trasmesso al suo primogenito, allo stesso modo di qualsiasi altra informazione, come il colore degli occhi o dei capelli. Non abbiamo niente a che vedere con quelle scadenti imitazioni che apprendono un po’ di magia attraverso i libri. Non abbiamo bisogno di catalizzatori di legno a cui legarci per veicolarla. Possiamo averli, se vogliamo, ma li usiamo per
assorbire l’energia altrui, per rinforzarci, e la loro rottura non ci comporta alcun danno. Non veniamo consumati dalla magia. Noi siamo la magia». Deam era furioso. «Che cosa vuoi da noi?», chiese. «Te l’ho già detto, voglio solo aiutarti». «Non mi serve il tuo aiuto». «Lo pensavo anch’io, ma se ci troviamo qui stanotte, a quanto pare mi ero sbagliata. Certo, la signorina ha fatto del suo meglio per essere un ostacolo, invece di dare l’aiuto che speravo», disse girandosi nella mia direzione. Deam seguì il suo sguardo fino a me. Vidi nella sua espressione l’aspetto che dovevo avere: il viso angosciato, i piedi nudi, la veste sporca di erba e terra, con un lungo strappo che lasciava scoperta tutta la gamba sinistra fin quasi alla vita. I suoi occhi divennero di fuoco. «Se provi a farle del male…». «Non ti preoccupare, lei non sarà un problema». Lo interruppe. «Chi sei davvero, perché ci stai facendo questo?», domandò Deam a denti stretti. «Il mio nome è Eisetel Leimeren. Discendo da una lunga stirpe di potenti maghi. Nel corso della storia alcuni di loro scelsero di appartenere all’oscurità, racchiudendo il proprio cuore in un guscio di tenebra, rifuggendo i sentimenti; altri invece li abbracciarono, scegliendo la luce. Io appartenevo a questi ultimi. Optai per una vita semplice, che fosse di aiuto agli altri, grazie alla mia capacità di veggente, un dono inusuale anche tra i maghi e mi guardai bene dal rendere nota la mia vera natura. Raccontai solo a una persona chi fossi davvero: l’uomo di cui mi innamorai». «Perché tutto questo dovrebbe interessarci?», chiese Deam. «Lo capirai a breve», gli disse, fissandolo negli occhi. In quella donna non era rimasto più niente della gentile vecchietta che avevo conosciuto sulla cima della montagna, il suo volto era duro, severo. Pure la sua statura ora pareva più elevata. Dopo una breve pausa riprese a parlare. «L’uomo che amai era un grande condottiero, veniva spesso a trovarmi per avvalersi della mia capacità. Gli raccontai tutto di me. Un giorno mi confidò che la sua signora non poteva dargli un successore e che lui invece bramava ardentemente un erede. Mi chiese di concepire un figlio insieme a lui. Il bambino avrebbe avuto la sua prestanza, i suoi nobili natali e il potere magico del mio lignaggio nelle vene. Per una naturale però la prima gravidanza è un momento molto delicato. Il figlio non trae solo il nutrimento dal corpo della madre, ma ne assorbe anche l’essenza magica. Questo è molto debilitante, tanto che, durante la gestazione e dopo il parto, lei rimane quasi completamente priva della sua magia per molti anni. Lui mi promise che si sarebbe preso cura di me. Gli credetti. Avrei potuto vedere le sue vere intenzioni nel suo cuore, ma ero giovane e ingenua e l’amore mi aveva reso cieca. Così acconsentii. Il giorno del parto eravamo da soli nella mia piccola casa. Quando il bambino venne alla luce lui lo prese tra le braccia, pieno di orgoglio. Ero ebbra di felicità. Povera stupida. Dopo aver posato il piccolo nella culla, lui venne da me e mi trafisse con la sua spada. Incredula e disperata, con la magia che mi era rimasta riuscii a muovermi nelle ombre e a scappare. Con pochi passi arrivai su una strada di campagna, sul limitare di un villaggio. Non avevo idea di dove mi trovassi. Senza forze mi accasciai al suolo, convinta che sarei morta su quella via, sola e affranta. Ma il destino volle diversamente. Un pover’uomo, notata la mia presenza, mi venne in soccorso. Mi portò a casa sua e mi curò. Lottai fra la vita e la morte per diversi giorni, ma poi le mie condizioni migliorarono. Pian piano mi ristabilii. L’uomo, un semplice falegname, si innamorò di me e mi chiese in moglie. Io non avevo nessun altro posto dove andare. Privata della mia magia ero debole, indifesa e non avevo dubbi sul fatto che il mio assalitore non si sarebbe dato per vinto finché non avesse visto il mio cadavere. Avevo bisogno di restare nascosta, così accettai di sposare quell’uomo. Un mese dopo ero nuovamente incinta, nove lune più tardi partorii una bambina e l’anno successivo ebbi un altro figlio maschio.
La vita con loro era per me un grosso peso di cui non vedevo l’ora di liberarmi. Non amavo mio marito e quei bambini per il mio cuore non avevano valore, perché erano dei semplici umani senza alcuna magia nelle loro vene. I miei pensieri andavano al vero erede della mia stirpe, il mio primogenito. Passai in quella casa cinque anni. Mi legai a un catalizzatore, la mia fede nuziale, una piccola vera in legno. Con quella potei assorbire l’energia dei miei familiari e la magia in me tornò a riprendere un po’ di forza. Poi lui mi trovò. Come avevo sospettato aveva sguinzagliato spie in ogni dove alla mia ricerca. Timoroso del mio potere e di una mia possibile vendetta, armò un esercito, deciso a mettere fine alla minaccia che rappresentavo e caricò alla volta del villaggio. Il paese dove mi trovavo era esattamente sul confine tra il regno del nord e quello del sud. Era da giorni che sentivo parlottare la cittadinanza circa una disputa tra i reami per arrogarsi il possesso di quel piccolo pezzo di terra, senza che riuscissero a giungere a un accordo. Non avevo compreso il motivo di quell’improvviso interessamento. Non avrei mai pensato che la ragione di uno dei due contendenti fosse proprio la mia presenza in quel luogo. La fortuna comunque fu dalla mia parte. Il suo rivale, saputo delle truppe in marcia, si mobilitò a sua volta con un’armata, per fermarne l’avanzata sul territorio che rivendicava sotto il proprio dominio. Quando si scontrarono alle porte del paese e mi resi conto di quello che stava accadendo davvero, ne approfittai per creare un diversivo che mi permettesse di fuggire. Infiammai con la magia la freccia di un soldato, che, preso alla sprovvista, la scoccò spaventato. Bastò poco perché il villaggio iniziasse ad ardere tra le fiamme». Una goccia di sudore mi corse giù per la tempia destra. Avevo la gola secca. Osservavo la vecchia, stupefatta, incredula. Conoscevo già quella storia. Guardai Deam preoccupata. Sul suo viso la rabbia era scomparsa, ora era solo una maschera di angoscia e sconcerto. La savia proseguì. «Scappando tra le fiamme mi si presentò un’occasione propizia per liberarmi della mia famiglia. Inscenai la mia morte grazie a un carro trainato da dei cavalli imbizzarriti. In quel modo, almeno loro, non mi avrebbero più cercato. Consegnai il catalizzatore a mia figlia, dicendole di tenerlo come ricordo. Sapevo che avrebbe conservato la fede e questo mi avrebbe permesso, anche a distanza, di continuare ad assimilare la loro energia vitale. Quando si furono allontanati, sparii nelle ombre e me ne andai. Ma presto la loro misera vita tornò ad attirare la mia attenzione. Attraverso l’anello sentivo crescere la pazzia e il desiderio di vendetta dell’uomo che avevo sposato, un odio viscerale nei confronti dei due re rivali, che riteneva colpevoli della mia morte. Decisi dunque di aiutarlo. Il compimento della sua vendetta poteva tornare utile anche a me, liberandomi del mio inseguitore. Tornai nella mia vecchia casa, che non vedevo da così tanti anni. Era tutto come lo avevo lasciato. I vincoli magici che la proteggevano erano ancora intatti. Se avevano provato a distruggerla o a trafugare parte del suo contenuto, non c’erano riusciti. Presi un vecchio manoscritto dei miei antenati e lo portai nella nuova dimora della mia famiglia, perché lo trovassero. Poi, siccome la mia magia era ancora molto debole, passai l’anno seguente vagando di luogo in luogo…». «Stai mentendo». La interruppe Deam. «Io non ti credo». A discapito delle sue parole, il corpo gli tremava visibilmente. Io avevo un nodo in gola. «Te ne darò la prova. Ora posso anche abbandonare questo misero aspetto illusorio che ho scelto per incontrarti». Le sua figura iniziò a mutare, come se un’immagine che era stata sovrapposta a un’altra, di colpo, sparisse. Gli arti le si allungarono. I capelli che prima erano bianchi e raccolti, ora scendevano lunghi e scuri in morbide ciocche lungo la schiena. In pochi secondi il vecchio aspetto della savia lasciò il posto a un’avvenente donna di mezza età. La somiglianza con Deam era impressionante. Gli stessi lineamenti eleganti. Gli stessi occhi di smeraldo. Gli stessi capelli scuri e folti. Lei gli prese il viso tra le mani. «Figlio mio, sei stato una grande delusione per me fino a oggi, sei la vergogna dei tuoi antenati, ma ti aiuterò a riscattarti», disse. Deam la guardava sconvolto. «Non volermene per averti lasciato alla mercé di mio marito e dei suoi figli. Sei un naturale, confidavo che avresti trovato un modo per contrastare la loro magia e così è stato. Per ben due volte il tuo cuore si è legato a quello della
principessa per sfuggire alla morte». Mi colse impreparata e la notizia mi ferì come una lama. «Avevi creduto che fosse stata solo la forza dei vostri sentimenti a salvarti, non è vero?». Rise «Sei così ingenuo. Ho lasciato che anche la principessa lo credesse, ma l’amore non ha alcun potere, non poteva mutare da solo l’incantesimo che ti aveva fatto mio marito. Non le devi niente. Quello che conta è il sangue dei tuoi antenati che ti circola nelle vene e non preoccuparti, il vostro legame è facilmente scindibile, l’amore che l’ha veicolato può creare solo un’unione labile, così come lo sono tutte le emozioni a lui legate. Alla morte di uno dei due semplicemente sparirà. La dipartita di uno non comporterà la fine anche dell’altro. Non ti fossi innamorato di lei e non avessi unito i vostri cuori, sono certa avresti trovato un altro modo per combattere il sortilegio e restare in vita, ma se non ci fossi riuscito, significava semplicemente che non valevi il sangue dei tuoi avi ed era un bene che tu fossi morto. Fortunatamente almeno in quel frangente non hai disatteso le mie aspettative e mi hai fatto sperare che per te ci fosse ancora speranza». Poteva anche essere vero che il legame si sarebbe sciolto, ma il mio amore per Deam non era certo un sentimento effimero. Tutto questo non cambiava quello che provavamo l’uno per l’altra, sperai che Deam lo comprendesse. «Per tutto questo tempo ho confidato che le avversità ti fortificassero», continuò lei. «Invece ti hanno reso debole. Il dolore è stato un freno che ti ha impedito di accedere alla tua magia, ma se rinnegherai i sentimenti, se racchiuderai il tuo cuore in un guscio di tenebra, nulla potrà più ferirti, sarai libero. Devi solo lasciarti andare. Smetti di lottare e smetterai anche di soffrire. Non fare lo stesso errore che ho fatto io. Non permettere che stupidi sentimentalismi incatenino le tue vere capacità». Il cuore mi martellava nel petto. Provai a divincolarmi, cercando di rompere i rami che mi tenevano bloccata, ma inutilmente. Chiamai Deam. Urlai il suo nome, sperando si riscuotesse. Lui cercò di voltarsi verso di me, ma lei non glielo permise e riprese a parlargli con voce suadente. «Tu sei la causa della morte di tante persone. Se tu non fossi mai nato, molto dolore sarebbe stato evitato. Tuo padre, i sovrani del sud, mio marito, i tuoi fratellastri, tutti legati da un triste destino che ha preso l’avvio alla tua nascita. Sei riuscito ad attirare così tanto odio. Non sei nemmeno un principe degno di questo nome, sei debole e patetico. Per anni hai lasciato il tuo popolo nelle mani di un pazzo pur di non perdere, uccidendolo, l’unica persona che amavi, quella che credevi fosse tua madre e che invece era solo una bugiarda». Deam era sempre più pallido e stravolto. «Basta! Lascialo stare», gridai, ma lei non si degnò nemmeno di guardarmi. «E vogliamo parlare della principessa?», continuò. Deam ebbe un sussulto. «Dici di amarla, ma quante volte hai messo in pericolo la sua vita? Tu sei quello che odi di più, sei un mago, finirai per ucciderla, così come muoiono tutte le persone che ti circondano. Stai trascinando anche lei in una spirale di odio e morte». ‘Maledetta’, pensai. Si era guardata bene dal dire che, se non fosse stato per Deam, io non avrei mai nemmeno vissuto. Ero furiosa. «Deam, perché la ascolti, reagisci!», gridai ormai completamente in lacrime. Lo stava facendo a pezzi. «Perché vuoi continuare a soffrire? Speri che le cose possano andare meglio? Avere un po’ di pace, di amore?», domandò. Deam non rispose, troppo sconvolto per riuscire a parlare. «Tutto questo è penoso figlio mio, l’amore è solo una limitazione e se è questo quello che ci vuole, allora sia, guardala morire», disse. Voltò il viso di Deam nella mia direzione. Lui sgranò gli occhi e spalancò la bocca in un’espressione di puro orrore. Ma qualsiasi cosa stesse vedendo, stava succedendo solo nella sua testa. Provai a gridare, ma delle fronde mi si attorcigliarono intorno alla faccia, chiudendomi la bocca, impedendomi di dire a Deam che era solo un’allucinazione, che ero ancora viva. Vidi con esattezza il momento in cui si spezzò, in cui smise di lottare. Il momento in cui si arrese. Una luce si spense nei suoi occhi, un secondo dopo venivano attraversati da un manto di oscurità e lui svenne. Le fronde degli alberi si allungarono e lo posarono a terra privo di sensi.
«È fatta», disse sua madre con un sorriso di trionfo. Si allontanò dal figlio e iniziò a camminare nella mia direzione. I rami dell’albero mi liberarono il volto. «Maledetta, maledetta, cosa gli hai fatto?», urlai, singhiozzando. Lei si mise davanti a me. «Non ho nessun motivo per ucciderti. Mio figlio avrà bisogno di una compagna con cui procreare un discendente. Se lui ti vorrà ancora, sono sicura che sarai una buona consorte. Il tuo amore per lui ti impedirà di nuocergli». Si interruppe per un secondo, poi continuò. «Voglio essere sincera con te. Visto che mio figlio era impossibilitato ad accedere alla sua magia, ti ho incitata come potevo, senza darti troppe informazioni per non farti insospettire, perché ti scontrassi con Eica. Avevo letto nella tua mente che avevi dei sospetti su di lei, ti sarebbe bastato parlare con mio figlio per averne la conferma e così è stato. Quando siete arrivati da me, Deam, anche se non si ricordava di te, si stava già innamorando una seconda volta. Così potevo sperare che, se tu fossi riuscita a fargli abbassare le difese con cui si difendeva, rendendolo vulnerabile e se Eica nello scontro ti avesse uccisa, lui, per sottrarsi a quel dolore, avrebbe abbracciato le tenebre col suo cuore e, una volta liberato dai sentimenti, avere finalmente accesso alla sua magia. Ma sfortunatamente le cose non sono andate in questo modo. Non ti ho mentito quando ti ho detto che i maghi sono per me come dei buchi vuoti che non riesco a vedere. Con i miei figli però, grazie al vincolo di sangue, le loro menti non mi restavano completamente oscure, soprattutto quella di Deam. Sebbene tu l’abbia aiutato distruggendo la vera, ho percepito che, per rimanere in vita, si è aggrappato ai sentimenti che prova per te, come se tu fossi la sua ancora di salvezza. Questo mi ha dato la conferma di quello che già sapevo e ormai, stanca di aspettare, mi sono decisa a fare quello che dovevo in qualità di madre. Non l’avrei mai aiutato contro i suoi fratellastri. Se un naturale non riesce a sopravvivere a dei semplici umani, dotati di tali ridicole capacità magiche, era meglio vederlo morto, ma se ci fosse riuscito, come speravo, allora anche umiliando sia lui che me stessa, fornendogli il mio aiuto, avrei fatto in modo che diventasse il mago che sarebbe dovuto essere. Dovresti ringraziarmi, grazie alle mie capacità illusorie non sei dovuta morire davvero per permettere che ciò avvenisse». Se avessi potuto l’avrei aggredita. «Perché? Potevi impedire tutto questo. Salvare Deam, tuo marito, i tuoi figli sin dall’inizio e non hai fatto niente. Li hai lasciati tutti cadere nell’odio e nella disperazione. Perché? Perché?», strillai. «Ragioni proprio come una misera umana. L’unico di cui mi importa è Deam, in qualità di mio erede, tutti gli altri erano esseri privi di valore. Ora Deam sarà libero dalla piaga dei sentimenti, la tenebra gli impedirà di accedere al suo cuore, non avrà limiti e la magia potrà scorrere libera nelle sue vene. Non desideri anche tu che sia forte, che non debba più soffrire?». Ormai piangevo a dirotto. «Non così. Non così», singhiozzai. «Gli avrei dato tutto il mio amore», dissi con il sapore salato delle lacrime in bocca. Lei sorrise prendendomi il mento con una mano. «Sopravvaluti i sentimenti, bambina mia». Un movimento attirò la nostra attenzione. Deam si era ripreso e si stava alzando in piedi. Sua madre lasciò ricadere il braccio e si incamminò nella sua direzione, fino a portarsi davanti al figlio. Deam alzò lentamente una mano e da questa si diramarono volute di fiamme che composero una spada di fuoco. «È fantastico», esclamò Eisetel. «Riesci già a dominare così bene gli elementi. Sei davvero il degno erede dei tuoi a…». Non riuscì a portare a termine la frase, Deam fendendo la spada in aria, con un colpo netto le stacco la testa dalle spalle, decapitandola. Sgranai gli occhi, il cuore mi si fermò e per un secondo smisi di respirare. Lui rimase in piedi a guardare il corpo di sua madre che si afflosciava al suolo e la testa che rotolava sull’erba. «Deam?», sussurrai, incredula. Lui si girò nella mia direzione. Non avevo mai visto sul suo viso occhi così freddi e privi di espressione. Sembrava un corpo senz’anima. Si mosse lentamente verso di me, trascinando la spada di fiamme sul terreno. Quando mi fu dinanzi, l’accorciò, trasformandola in un piccolo pugnale. Avevo il corpo scosso dai tremiti.
«Sei viva. Ti avevo visto ridurre a brandelli da questa stessa pianta. Dunque mi ha ingannato», disse. «Deam!». Piangevo senza controllo con i suoi occhi di ghiaccio fissi nei miei. Alzò il pugnale e me lo appoggiò sulla guancia sinistra. Pensai mi avrebbe bruciata, invece era freddo e duro come il marmo. Lo scorse sulla mia pelle e sentii con sconcerto quando le gocce di sangue presero a scorrermi dalla ferita fino al mento. «Sai è strano, fino a qualche minuto fa sarei morto per te, ora non riesco nemmeno più a ricordarne il motivo, non sento più niente, c’è solo il vuoto», disse. Serrai i denti e strinsi le palpebre con forza. Sentii il cuore che mi si dilaniava dal dolore. Spostò il coltello sul mio collo e lo premette fino a inciderne la pelle. Respiravo affannosamente. Terrorizzata. Il petto si alzava e abbassava velocemente, senza che i polmoni riuscissero a trovare ossigeno. Lui avvicinò il suo viso al mio, fin quasi a sfiorare le mie labbra con le sue. Potei sentire il profumo della sua pelle. Così inebriante. Così familiare. La mente vacillò e credetti sarei impazzita perdendo la ragione. «Sono quasi tentato di farti a pezzi, per vedere se la cosa mi potrebbe suscitare la minima sensazione, ma mi limiterò a tagliarti la gola», sussurrò. Iniziò a spostare la lama sul mio collo, ma questa, invece di uccidermi, si dissolse. Deam si guardò la mano confuso. In quel momento una freccia passò tra di noi e lui arretrò di due passi. Iane e Rimet stavano sopraggiungendo al galoppo, brandendo due balestre ciascuno. Dopo aver preso nuovamente la mira, scoccarono altri due dardi in direzione di Deam, ma quest'ultimo, impassibile, scomparve nel nulla solo un secondo prima di essere trafitto. I cavalieri mi raggiunsero e mentre Rimet si guardava intorno, agitato, Iane tranciò con la spada i rami che mi tenevano prigioniera. Appena le mie gambe dovettero sorreggere il mio peso, si piegarono, ma prima che potessi cadere a terra, Iane mi passò un braccio intorno alla vita e rapidamente mi sollevò, issandomi in groppa al suo destriero. Quindi, dopo aver fatto girare il cavallo, si lanciò a tutta velocità fuori dalle mura del castello, seguito dal compagno. Nella mia mente continuavo a vedere gli occhi freddi e senz’anima di Deam. Il dolore fu troppo e tutto si spense.
Capitolo 12
Da quel momento, per qualche giorno, solo ogni tanto la mia mente si riconnetteva alla realtà e riuscivo a percepire sprazzi di discorsi e qualche immagine confusa.
«Iane, fermati, siamo abbastanza lontani, rallenta. Lei come sta?». «Non lo so, ha perso i sensi. Dio mio è gelata! La copro con la mia giacca, spero che basti a riscaldarla». «E ora che si fa?». «Non ne ho davvero idea». «La mia famiglia risiede a poche ore di viaggio da qui, potremmo andare alla loro fattoria. Non ci cercheranno lì, non ho mai detto a nessuno dove abitano».
«Attiriamo un po’ troppo l’attenzione». «Due cavalieri con una ragazza svenuta, ferita e mezza nuda, non mi dire». «Meglio se aggiriamo il villaggio passando per il bosco».
«Rimet che bella sorpresa, perché non ci hai comunicato che saresti tornato a casa, ma cosa…».
«Lunga storia, mamma, ci serve una camera libera».
«È molto bella. Chi le avrà fatto questi tagli?». «Non lo so, di sicuro una persona molto cattiva». «Le faranno male?». «Secondo me sì. Quella volta che mi sono tagliata il dito, affettando le carote, è stato dolorosissimo». «Ma se ti eri fatta solo un minuscolo taglietto». «Beh, faceva malissimo e poi…». «Riza, Reime, cosa ci fate qui? Uscite subito da questa stanza». «Non facevamo niente di male mamma». «Lo so, ma la signorina ha bisogno di riposo e non lo può fare con il vostro cicaleccio nelle orecchie». «Perché non si sveglia?». «Vedrai che prima o poi si desta. Adesso fuori».
«Iane, qui la situazione si fa brutta». «Lo so». «Abbiamo bisogno di lei. I nobili sarebbero già pronti alla rivolta, ma senza una figura sotto cui unirsi, non c’è speranza che riescano ad accordarsi tra loro». «Credi che non lo sappia? Vuoi che la scuota finché non dà segni di vita?». «Scusa, è solo che… Inizio a pensare che non si riprenderà più… E se morisse?». «Non succederà, è più forte di quel che sembra. Diamole solo un altro po’ di tempo». «In verità mi chiedo se avremmo anche solo una minima possibilità di riuscita. Hai visto quello che è successo al porto, quello che è in grado di fare». «Dobbiamo tentare. Faremo il possibile. La sua magia è forte, ma il suo corpo è fragile quanto il nostro». «Non riesco quasi a credere che siamo arrivati a questo. Voglio dire…». «So cosa vuoi dire, ma non è più la stessa persona, se avrai l’occasione di farlo la tua mano non dovrà tremare». «Lei lo accetterà?». «…». «Se non lo farà, salta tutto, i nobili…». «Lo farà. Dovrà farlo». «Spero tu abbia ragione».
«Vi prego, svegliatevi. Reagite. Non posso nemmeno immaginare come quello che è successo vi abbia sconvolta, ma non potete cedere. Ho imparato a conoscervi almeno un po’, so che siete molto più forte e coraggiosa della fragile ragazza che la vostra giovane età e il vostro aspetto lascerebbero intendere. All’inizio ne sono stato ingannato anch’io, ma ho visto la determinatezza che anima il vostro cuore. Rimet è sempre più sfiduciato, non lo dice apertamente, ma glielo leggo negli occhi. Non possiamo perdere anche voi. Il popolo, ora che lui… Se non reagite morirete e noi non potremmo fare niente per impedirlo. Non voglio credere che vi lascerete andare così. Vi supplico trovate la forza per continuare a vivere. C’è ancora speranza. … Maledizione…».
Ci misi un po’ per mettere a fuoco la camera. Le pareti erano in legno scuro e il soffitto, decisamente basso, era un intrico di travi. Il letto su cui mi trovavo occupava quasi tutta una parete per la sua lunghezza.
Su quella opposta c’era una porta, un catino dipinto con un motivo floreale e accanto un cassettone sormontato da un vecchio specchio. In mezzo all'ambiente una poltrona dal gusto discutibile era posata su un tappeto che aveva visto tempi migliori. Sul muro alle mie spalle si apriva una piccola finestra, coperta in parte da una tenda pesante dalla trama fitta. Scostai le coperte e mi misi a sedere con i piedi poggiati a terra. Indossavo una lunga camicia da notte, di molte taglie più grande della mia. Guardai all’esterno. Vidi solo campi. Dovevamo essere in aperta campagna. Non sapevo da quanti giorni mi trovassi in quel posto. Mi alzai e andai allo specchio. Le ferite sulla guancia e sul collo erano solo delle linee rosse in via di guarigione. La fronte si increspò e il mento iniziò a tremare. Coprii con le mani gli occhi e cercai di fare dei profondi respiri. Sbarrando la strada ai ricordi. Concentrandomi solo sul presente. Pian piano mi calmai. Quando abbassai le braccia mi accorsi che sul comò era posato un abito color oro e sotto di esso un paio di stivaletti marroni. Li indossai. Il vestito era un po’ largo, ma, una volta legata la fascia in vita, sembrava solo un po’ arricciato. Fortunatamente le scarpe erano della misura giusta. Una volta aperta la porta mi trovai davanti un piccolo pianerottolo, dal quale scendeva una stretta scaletta che rasentava sulla destra un muro di pietre. Dal piano inferiore sentivo provenire delle voci. Iniziai a scendere i gradini. La scala portava diritta in una grande sala da pranzo. Un lungo tavolo occupava buona parte del centro della stanza. Sulla parete in fondo c’era la zona cottura. Su quella di destra si apriva un enorme camino. Su quella di sinistra la porta d’ingresso e due grandi finestre, sotto le quali si trovava una lunga credenza. Piatti e tegami erano posati un po’ ovunque. Alcune casseruole pendevano addirittura dal soffitto. Seduti al tavolo, uno davanti all’altro, c’erano Iane e Rimet, mentre una signora grassoccia dai capelli corvini si muoveva per la stanza con un mestolo in mano, alzando i coperchi di alcune padelle e rimestandone energicamente il contenuto. Quando si accorse di me si bloccò di colpo. I due cavalieri si girarono nella mia direzione e quasi fecero cadere le loro sedie alzandosi in piedi di scatto. Presi la gonna con una mano, sollevandola leggermente di lato. «Ho pensato che fosse per me», dissi. La signora ci mise un momento a riprendersi, poi agitata disse: «Sì, certo, eccellenza, vostra grazia, illustrissima». Cercò di risistemare il coperchio che aveva in mano, ma mancò la pentola per ben due volte. I due cavalieri mi fecero un inchino e io scesi gli ultimi gradini della scala fin sul pavimento di pietra. Ci guardammo tutti senza sapere cosa dire. Rimet pareva un po’ imbarazzato. Iane invece mi scrutava con occhi penetranti dei quali non riuscii a reggere lo sguardo. All’improvviso Rimet volle spezzare il momento di disagio, scegliendo la domanda più sbagliata. «Mia signora come vi sent…». Iane lo fermò, sovrapponendo la sua voce a quella del compagno. «Avrete fame. Vi prego, sedete». Mi accomodai sulla sedia che avevo davanti, era accanto a quella di Rimet e lui, prima di sedersi, spinse la sua un po’ di lato, per mettere più distanza tra di noi. La signora continuava a osservarmi imbambolata. «Mamma?», la chiamò Rimet, cercando di farla riprendere. La signora si riscosse. «Oh, sì, certo», disse, mettendosi ad aprire tutte le padelle e a riversare parte del loro contenuto dentro alcune ciotole. Iane mi passò un boccale e lo riempì d’acqua, posando poi la brocca accanto a esso. Lo ringraziai senza riuscire ad alzare lo sguardo. Presi il bicchiere e lo svuotai in pochi secondi. Prima che lo potessi riappoggiare sul tavolo, lui risollevò la caraffa e me lo colmò nuovamente. I nostri occhi si incontrarono. Sembrava che i suoi volessero scavarmi nell’anima. Tornai a fissare il boccale e ne bevvi un’altra metà. La signora arrivò con piatti stracolmi di cibo: pane, polenta, funghi, verdure cotte di ogni tipo. Dopo giorni di digiuno non sarei mai riuscita a mangiare niente di tutto quello. Iane dovette capirlo, perché si alzò e da sopra la credenza prese un cesto pieno di frutta che poi posò sul tavolo alla mia sinistra. Imbarazzata
afferrai un grappolo d’uva gialla e presi a mangiarne lentamente gli acini. In compenso Rimet si servì generosamente di un po’ di ogni pietanza, facendo quasi scomparire il suo piatto sotto una montagna di cibo. «Da quanti giorni sono qui?», domandai. «Tre giorni», rispose Iane. «Cosa ci facevate…». «Nel parco in piena notte?». «Sì». «Tornavamo dalla città, eravamo stati a… festeggiare il vostro ritorno». Si interruppe per un attimo. «Non abbiamo compreso subito quello che stava accadendo. Avevamo alzato un po’ troppo il gomito. Quando abbiamo capito che la situazione era fuori controllo siamo andati alle scuderie a prendere i cavalli e le armi, ma eravamo decisamente alticci, ci abbiamo messo più di quello che avremmo dovuto. Avessimo fatto più in fretta… Mi dispiace», concluse. «Non c’è niente di cui dobbiate scusarvi», dissi. Nella stanza cadde il silenzio. Pure Rimet aveva smesso di mangiare. Cercai di porre la domanda che più mi premeva. Aprii la bocca, ma non ne uscì niente. Alzai gli occhi su Iane e incontrai i suoi. Capì al volo quello che volevo sapere. «È salito al trono, com’era programmato, ora è il re», disse. «È…?». «Completamente privo di sentimenti? Decisamente pericoloso? Sì». Feci segno di aver compreso con la testa e tornai a guardare le mie mani che stringevano l’uva. Cercavo di controllarmi, ma tremavano leggermente. Il cuore sembrava volermi perforare il petto e la stanza pareva ondeggiare visibilmente. Avevo bisogno d’aria. Mi scusai, lasciai il grappolo sul tavolo e dopo essermi alzata, traballante e un po’ instabile sulle gambe, uscii dalla porta d’ingresso. Mi allontanai di qualche passo dalla casa, su una stradina sterrata che conduceva all’abitazione. Poi mi fermai. Avevo il respiro accelerato. Provai a rallentarlo facendo dei lunghi respiri, ma era come avere qualcosa fermo in gola che impediva all’aria di raggiungere veramente i polmoni, mandandomi in carenza di ossigeno. Il cielo era azzurro e il sole splendente mi solleticava la pelle, eppure io sentivo solo freddo, perché il mio di sole si era spento. Deam era andato in pezzi. Il suo cuore ferito aveva ceduto. Credere di aver perso anche me e di non essere riuscito a proteggermi gli era stato fatale. Aveva preferito rinunciare ai sentimenti piuttosto che dover affrontare un simile dolore, finendo per smarrire anche se stesso. Ero sicura non fosse consapevole di cosa questo avrebbe realmente comportato. Probabilmente aveva solo desiderato che tutto finisse. Quello che avevamo scoperto, in modo così brutale, circa le sue origini, aveva profondamente turbato anche me. Non solo aveva scoperto di non avere legami di sangue con quella che pensava essere sua madre, ma di essere nato da un doppio tradimento; di discendere dell’unica categoria di persone che il suo cuore aveva preso in odio e inoltre, se tutto questo già non bastasse, di essere un mago di sangue lui stesso. Il fato continuava a giocare con la sua vita e io non ero riuscita in alcun modo a essergli di aiuto, finendo invece per diventare il suo punto debole. Arrivare al suo cuore e rimuovere le barriere con cui si proteggeva lo aveva reso vulnerabile e alla fine il dolore lo aveva mandato in frantumi. Strinsi le mani a pugno lungo i fianchi. Avevo i palmi umidi di sudore. Dentro al petto sentivo una morsa che stritolava il cuore e temetti che se solo avessi osato cedere alla disperazione anche solo per un secondo avrebbe finito col dilaniarmi. Udii dei passi che mi si avvicinavano alle spalle. Iane si portò al mio fianco. Io tenni gli occhi dritti davanti a me. «Non ho la presunzione di sapere come vi sentiate, ma se provate il bisogno di piangere, allora forse dovreste farlo, magari vi aiuterebbe almeno un po’. Non ci sarebbe niente di male», disse. Le sue parole allentarono il nodo che sentivo in gola, abbattendo in un sol colpo le mie resistenze a lasciarmi andare, timorosa che, se lo avessi fatto, avrei iniziato a piangere e non sarei mai più riuscita a smettere. Portai le mani al viso e feci esattamente come mi aveva detto: piansi, lasciai uscire le lacrime e con
loro se ne andò anche un po’ dell’angoscia che mi opprimeva. Iane rimase in piedi accanto a me senza dire una parola, finché, molti minuti dopo, non mi calmai. Mi sentivo esausta, ma ero riuscita a scaricare anche un po’ di tensione. Quando mi sentii pronta mi voltai lentamente per rientrare in casa e Iane mi seguì. La signora era ancora indaffarata tra le padelle e Rimet era seduto al tavolo, con il piatto ormai vuoto. All’improvviso avvertii uno strattone al vestito. Abbassai lo sguardo. Una bambina di circa dieci anni, mi osservava con la mia gonna tra le mani. «È vero che sei una principessa? Che devo darti del voi e chiamarti eccellenza illustrissima?», chiese. «Riza, lascia subito la sua veste». Intervenne sua madre, prendendola per un braccio e scostando la bambina da me. Io la fermai e mi chinai verso la ragazzina. «Puoi chiamarmi con il mio nome, Aili e darmi del tu». Mi rialzai. «In verità mi sentirei molto più a mio agio se lo faceste tutti», dissi. La signora si guardò intorno incerta sul da farsi, ma quando Iane e Rimet mi sorrisero lo fece sollevata anche lei. Passammo quel che rimaneva del pomeriggio nella grande cucina. Riuscii a mangiare ancora qualcosa a piccoli bocconi. Riza era una gran chiacchierona e questo mi permise di distrarmi. Quando il sole iniziò a calare il resto della famiglia di Rimet rincasò. Conobbi suo padre e i suoi tre fratelli: Reime, poco più grande di Riza; Ruin e Redolt, più o meno della mia età. Impossibile non notare la propensione dei genitori per i nomi che iniziavano per R. In principio la mia presenza sembrò metterli a disagio, ma pian piano si sciolsero, fino a riprendere quelle che immaginavo fossero le loro usuali consuetudini domestiche. A sera inoltrata i genitori e i figli più piccoli si accomiatarono per andare nelle loro stanze. I due cavalieri invece si trovavano all’esterno dell’abitazione, seduti intorno a un falò di sterpaglie da bruciare, così, una volta rimasta sola nella grande cucina, decisi di raggiungerli. Forse avrei trovato la forza di porgere loro qualche domanda e iniziare ad affrontare la situazione. Uscii dal portone e il freddo pungente mi trafisse il corpo come una miriade di piccoli spilli, facendomi fermare poco oltre la soglia. Rimet, vedendomi, alzò una mano e mi fece segno di avvicinarmi. Richiusi l’uscio dietro di me e mi avviai nella loro direzione. «Sono già andati tutti a dormire?», chiese quando gli fui dappresso. «Sì», risposi, mettendomi a sedere accanto a loro. «Bene, così abbiamo un po’ di tempo per parlare senza rischiare di essere disturbati». Rimanemmo per un secondo tutti e tre a osservare il fuoco, incerti su come iniziare la discussione. Il calore delle fiamme, per la vicinanza eccessiva, sembrava scottarmi la pelle e seccarmi gli occhi, ma non mi scostai. Trovai che concentrarmi su un dolore fisico mi aiutasse a tenere sotto controllo quello che invece provavo dentro. Sembrava una cosa sbagliata, ma scacciai quel pensiero. Alla fine fui io a rompere il ghiaccio. «Cosa possiamo fare? Ci deve essere un modo per aiutarlo a tornare in sé», dissi. «Tu ne conosci qualcuno?», chiese Rimet. Scossi la testa. «Abbiamo bisogno di aiuto». «A volte ciò che si rompe, non può più essere aggiustato», disse. Sentii una fitta al petto. «Non parlare così. Non di lui». Dopo un momento di silenzio Rimet riprese la parola. «I nobili erano scontenti già sotto il regno della regina. Tutti speravano che le cose sarebbero cambiate una volta che il principe fosse salito al trono e lo sono, ma in peggio. Gli aristocratici sono tutti spaventati. Il re sembra non guardare in faccia a nessuno. Se tu sarai dalla loro parte, saranno pronti a mettere insieme le loro armate e muovere guerra al castello. Anche alcuni cavalieri si uniranno a noi. Dobbiamo fermarlo adesso, prima che qualche innocente ne paghi le conseguenze», disse.
Restai pensierosa per un secondo. «Si può spostare e viaggiare in un modo che noi nemmeno comprendiamo. L’ho visto imbrigliare la potenza del fuoco. Come possiamo fermarlo senza fargli del male?», domandai. Mi guardarono in silenzio, poi Iane disse: «Non possiamo. Dovremmo cercare di ucciderlo». Lo guardai spalancando gli occhi. «Cosa?». «Non abbiamo altra scelta», sentenziò. Il cuore impazzì nel petto e il sangue affluì velocemente al cervello. Parlavano seriamente di assassinarlo? Non glielo avrei mai permesso. «No!», gridai. «Come potete solamente pensarlo?». Mi alzai di scatto. Si misero in piedi anche loro. «Cosa dovremmo fare? Limitarci a pregare perché ritrovi un po’ di umanità? Andare alla ricerca di aiuto da chi? Dove?», disse Iane con voce alterata. «Una volta terminata la cerimonia di incoronazione ha distrutto la basilica con tutte le persone ancora dentro, solo per far capire ai nobili e ai religiosi a chi appartenesse il potere. Due giorni fa ha incenerito il porto della cittadina di Istaled per un dissidio con i mercanti. Non ci sono stati morti finora per puro miracolo. È completamente fuori controllo. Quanto tempo passerà prima che ci siano delle vittime?». Mi afferrò per le braccia. «Non puoi farti influenzare dai sentimenti. Devi fare ciò che è giusto per il tuo popolo», disse. Con uno strattone mi sottrassi alla sua stretta. «Non puoi chiedermi di ucciderlo. Non puoi!», gridai fuori di me. «Aili, ragiona», disse Rimet. «Se fosse ancora la persona di prima, non credi che sarebbe lui il primo a voler morire, piuttosto che fare del male a qualcuno?». «No», sussurrai, sconvolta. «No!», urlai. Corsi verso la casa e una volta entrata, mi diressi subito nella mia stanza. Chiusi la porta alle mie spalle e mi ci appoggiai con la schiena, lasciandomi poi scivolare fino al pavimento. Strinsi le mani a pugno e me le premetti sugli occhi. «Deam, Deam!», mormorai. Non avevo neanche lontanamente immaginato che programmassero di ucciderlo. Non volevo nemmeno pensare che ciò potesse accadere davvero. Avevo già creduto di averlo perso soltanto pochi giorni prima, non l’avrei sopportato un’altra volta. Lasciai ricadere le braccia lungo il corpo e appoggiai la testa all’uscio. Quello che mi avevano detto di lui non mi riusciva difficile da credere. Avevo visto i suoi occhi di ghiaccio posseduti dalla tenebra. Ne portavo i segni sul volto e sul collo, ma non potevo rinunciare a lui. Deam mi aveva detto che ero la sua vita, ma la verità era che lui era la mia. Mi sentivo emotivamente esausta. Da quando lo avevo conosciuto era stata una lotta continua. Una parte di me si domandava per quanto tempo ancora avrei trovato la forza di andare avanti. In cuor mio però sapevo che, finché avessi avuto anche una minima speranza di riaverlo indietro, non mi sarei data per vinta. Anche se il destino continuava a sfidarci mi sarei sempre rialzata in piedi. Per lui. Per noi. Non potevo averlo perso per sempre.
Capitolo 13
Il giorno seguente, quando mi svegliai, Iane e Rimet non erano alla fattoria. In parte fui contenta di non dovermi subito confrontare con loro, dall’altra temevo quello che la loro assenza potesse significare. La signora era indaffarata in cucina, aiutata da alcune domestiche. Riza invece si stava preparando per recarsi in paese, dopo essersi proposta volontaria per fare un paio di commissioni per la madre. Mi offrii di andare con lei. Poche persone conoscevano il mio volto, non avrei avuto problemi a passare inosservata tra la
folla. Volevo vedere con i miei occhi quale fosse il morale dei cittadini. La signora cercò di convincermi a restare, ma alla fine non poté che lasciarmi andare. Il paese distava parecchi chilometri e Riza decise di tagliare per i campi invece di seguire la via principale. Per tutta la strada saltellò gioiosa, dondolando il cestino di vimini che aveva in mano. Era una bambina davvero molto vivace. Arrivammo al villaggio. Era un centro di modeste dimensioni che si estendeva lungo il corso di un piccolo fiume dalle acque quiete. Le abitazioni erano per lo più edifici in legno, costruiti uno a ridosso dell’altro, così che, a volte, le strade non erano più ampie di uno scarso metro di larghezza. Mi ero aspettata di incrociare molte persone, invece il paese sembrava deserto. Anche Riza pareva sorpresa. A un certo punto, mentre svoltavamo da una piccola via per immetterci su quella maestra che costeggiava il fiume, sentimmo delle voci. Mi bloccai di colpo. Il cuore balzò in gola prendendo a battere all’impazzata e un crampo attanagliò lo stomaco per la tensione improvvisa. A pochi metri da noi c’era Deam insieme a dei militari. Era girato dalla parte opposta alla nostra, ma anche di spalle avrei riconosciuto la sua figura tra mille. Nessuno si accorse di noi. Fermai Riza prendendola per un braccio e la costrinsi a retrocedere, portandomi un dito sulle labbra per farle segno di tacere. Fortunatamente la bambina obbedì senza porre domande. Una volta tornate dietro l’angolo, le misi le mani sulle spalle e mi chinai verso di lei. «Riza, devi tornare a casa di corsa, ti prego, non discutere, vai e basta». Lei mi guardò un po’ incerta, ma poi si girò e si mise a correre nella direzione da cui eravamo venute. Io mi addossai con la schiena alla parete. Dovevo provare a parlare con Deam. Forse in qualche modo sarei riuscita a scuoterlo e a risvegliare i suoi sentimenti sopiti. Sembrava un tentativo azzardato anche a me, ma con Iane e Rimet che tramavano per togliergli la vita, non mi restava che tentare il tutto per tutto. Forse un’occasione così non mi sarebbe ricapitata. Presi un profondo respiro e mi staccai dal muro. Girai la curva e mi accorsi di quello che prima mi era sfuggito. Davanti a Deam c’era un signore di mezza età, inginocchiato. Il primo alzò leggermente un braccio e dalla sua mano si estesero delle fruste di fuoco. In un secondo queste avvinghiarono il collo dell’uomo, stringendolo in una morsa. Sobbalzai. Un secondo dopo le spire sollevarono da terra il malcapitato, mentre questo si dibatteva per liberarsi, con il viso congestionato. Quindi, con uno scatto, le volute scaraventarono con furia l'individuo addosso a una finestra dell’abitazione accanto alla quale mi trovavo e dunque sparirono, lasciando l’uomo a terra ricoperto di vetri, semi svenuto e dolorante. Sentii un singulto alle mie spalle. Mi voltai e trovai Riza con gli occhi sbarrati. La afferrai e la trascinai al riparo nel vicolo. «Perché sei tornata?», chiesi, ma non rimasi ad ascoltare la risposta, in quanto udii dei passi venire nella nostra direzione. Dovevo mettere al sicuro la bambina. Mi guardai intorno e vidi una porta. Pregai perché non fosse chiusa a chiave. Tenendo Riza per mano, mi fiondai sull’uscio e provai ad aprirlo. Si spalancò immediatamente. Tirai la ragazzina dietro di me all’interno dell’edificio e richiusi la porta, cercando di non fare rumore. Lo stabile doveva essere una specie di magazzino, ma al momento era completamente vuoto e non c’era nessun posto dove nascondersi, né un’altra uscita da cui scappare. Presi Riza tra le braccia e mi accucciai con lei in un angolo. I passi si avvicinarono. Quando furono davanti alla porta si fermarono e io trattenni il respiro. Vidi la maniglia scendere lentamente e strinsi Riza più forte. Poi sentii qualcuno parlare. «Mio signore siamo pronti a partire». Dopo un momento di esitazione udii la voce di Deam rispondere. «D’accordo, andiamo». La maniglia si rialzò e i loro passi si allontanarono. Ritornai a respirare, chiusi gli occhi e mi lasciai andare contro la parete. Dannazione. Avevo perso la mia occasione. Nel petto prese ad allargarsi una voragine. Cercai di domarla. Aspettai un paio di minuti per essere sicura che si fossero allontanati a sufficienza. Riza tremava tra le mie braccia. Le accarezzai i capelli e lei si voltò a guardarmi piena di paura e confusione. Le sorrisi per tranquillizzarla. «Non ti preoccupare, va tutto bene. Sono andati via. Ora ti riporto a casa», le dissi.
Facendomi coraggio mi alzai in piedi e tenendo la bambina per mano, aprii l’uscio e uscii in strada. «Davvero credevi che a così breve distanza non potessi avvertire la tua presenza?». Deam chiuse la porta di scatto dietro di noi. Mi si mozzò il fiato e d’istinto mi spostai davanti a Riza. Deam in un secondo formò una lunga spada di fiamme e la calò con forza su di me. Lo fissai a occhi sgranati, mentre sudori freddi mi ricoprivano la pelle. Mio Dio, non avrei avuto nemmeno la possibilità di dire una singola parola. Sarebbe finita così. Invece, appena la spada raggiunse la mia spalla, al posto di dilaniarmi, scomparve. Deam corrugò la fronte. Le gambe rischiarono di cedermi, ma riuscii miracolosamente a rimanere in piedi. «Allora non è stato un caso, la mia magia viene meno quando cerco di ucciderti. Che sia per via del nostro legame?», si domandò, meditabondo. Non riuscivo a dire una parola, né a muovere un solo muscolo, troppo sconvolta. Tutta la mia fiducia era evaporata. Mi afferrò per una spalla e mi sbatté brutalmente contro alla parete. Mi scappò un gemito dalla gola per la botta. Riza scoppiò a piangere e iniziò a prendendolo a calci e pugni. Deam portò la sua attenzione su di lei. Subito delle spire uscirono dalla sua mano. Ghermirono la bambina per il busto e la alzarono in aria, per poi, un attimo dopo, schiantarla al suolo con estrema violenza. «Riza!», gridai stravolta. La bambina non si mosse. Deam si voltò verso di me. «Deam!». Non riuscii a fare altro che invocare balbettando il suo nome, tremando coma una foglia. «Voglio che mi ascolti attentamente», disse. «Per me tu sei un problema, ma visto come stanno le cose, ti darò una possibilità. Vattene, sparisci e non farti rivedere. Se proverai a reclamare il trono, se solo oserai metterti contro di me, esistono miriadi di modi in cui posso toglierti la vita anche senza servirmi della magia. Farò in modo che di te non resti più niente. Spero di essere stato abbastanza chiaro». Appena finì di parlare scomparve nel nulla, lasciandomi terrorizzata e incapace di colmare i polmoni. Appena riuscii a ritrovare un minimo controllo del mio corpo, vacillai barcollante fino a Riza e mi inginocchiai accanto a lei. Era priva di conoscenza, ma respirava ancora. Provai a scuoterla leggermente. «Riza?». La piccola non diede segno di riprendersi. Non sapevo cosa fare. Sentii delle voci, mi alzai e uscii sulla strada principale. Delle persone stavano soccorrendo l’uomo percosso da Deam. Implorai il loro aiuto. Alcuni di loro conoscevano la bambina e in breve tempo si organizzarono per trovare un carretto su cui trasportarla a casa.
La piccola non si riprendeva da ore. Un medico era passato a visitarla, ma non aveva potuto fare niente per aiutarla, se non dirci di aspettare e sperare per il meglio. Iane e Rimet erano rientrati da pochi minuti e tutta la famiglia, più il cavaliere, si erano riuniti nella stanza della bambina, aspettando un segno di miglioramento. Io mi trovavo in giardino, seduta sotto un grosso albero dalle lunghe fronde, con le gambe strette tra le braccia e la fronte appoggiata alle ginocchia. Cercavo di nascondermi. Mi sentivo responsabile. Se Riza non fosse stata con me questo non sarebbe mai successo. Non ero nemmeno riuscita a proteggerla. «Aili?». Sollevai leggermente il viso e vidi Iane che si chinava per passare sotto i rami spioventi. Si avvicinò e mi si sedette accanto, appoggiandosi al tronco della pianta. «Non si è ancora ripresa», disse. Mi sentii stringere il petto. «Mi dispiace, è colpa mia, se non ci fossi stata io con lei…». La voce tremava leggermente. «Non sarebbe cambiato niente. Anche se si riprendesse sarebbe ancora in pericolo, lo sono tutti». Con la coda dell’occhio lo vidi scostarsi con la schiena dal fusto, appoggiare una mano tra di noi sull’erba, e
piegarsi verso di me. «Puoi mettere fine a questa minaccia o almeno ci puoi provare. Basta una tua parola. Sii la principessa di cui hanno bisogno». Le mie labbra si aprirono da sole. «D’accordo. Va bene. Farò tutto quello che serve». Pronunciai quelle parole senza nemmeno rendermene conto, cercando di nascondermi il significato che contenevano. Restammo sotto l’albero senza parlare per lungo tempo. Avevo la mente completamente vuota. Non riuscivo a pensare a niente. Quando il sole cominciò a calare, sentimmo uno dei fratelli di Rimet chiamarci e gridare dalla porta di casa che Riza si era svegliata. Il sollievo mi avvolse con tale potenza da rilassare i muscoli in tensione e sciogliermi in lacrime. Iane mi prese tra le braccia, accarezzandomi i capelli, sussurrandomi qualcosa che non riuscii a capire. Mi aggrappai all’immagine di Deam, chiamando mentalmente il suo nome, più e più volte, come se questo potesse in qualche modo cambiare la realtà in cui il destino ci aveva precipitato, sommergendoci, mentre io cercavamo goffamente un modo per riportarci a galla. Dal giorno seguente avrei partecipato a un complotto per assassinare l’amore della mia vita.
Capitolo 14
Attraverso la loro rete di contatti, costituita dai cavalieri fedeli ai vari aristocratici, Iane e Rimet erano riusciti a organizzare un incontro tra i vari signori, che si sarebbe svolto di lì a tre giorni, in una vecchia magione nascosta a occhi indiscreti, perché collocata al centro di un piccolo bosco che si estendeva a ovest della capitale. Cercarono di farmi memorizzare i nomi dei nobili che avrebbero presenziato e il numero dei soldati di cui disponevano. Anche tutti insieme non arrivavano nemmeno a un quarto delle forze armate su cui poteva contare il palazzo e senza considerare le capacità magiche di Deam. «Non arriveremo nemmeno alle mura del castello», sentenziai. «No, se li affrontiamo direttamente e a viso scoperto, ma il nostro interesse non è conquistare il palazzo a colpi di spada. Ci serve solo un’azione diversiva che ci permetta di infiltrarci e arrivare al re. Eliminato lui, tu subentrerai al comando come nuova regina e immediatamente le ostilità cesseranno», spiegò Iane. Ogni volta che si faceva riferimento all’uccisione di Deam, mi sembrava che il cuore, per un momento, smettesse di battere. Avevo detto a Iane che avrei fatto tutto il necessario per riportare la pace ed era quello che avevo intenzione di fare. Ma gli avevo anche taciuto che se l’epilogo fosse collimato con la morte di Deam, non sarei sopravvissuta nemmeno io. Non per via del legame magico che univa i nostri cuori, sua madre ci aveva già spiegato che la morte di uno non avrebbe comportato la morte anche dell’altro, ma perché ormai mi era chiaro che non avrei potuto continuare a vivere senza di lui. Speravo ancora di riuscire a riportarlo indietro dalle tenebre, ma se non ci fossi riuscita ce ne saremmo andati insieme. Se necessario l’avrei seguito anche all’inferno. «Aili, mi stai ascoltando?», mi riprese Iane. «Perdonami, dicevi?». «Noi andremo avanti, tu resterai al sicuro nelle retrovie, protetta da un gruppo di cavalieri. Quando tutto sarà finito entrerai al castello», disse. «D’accordo». Mentii spudoratamente. Non potevo permettere che qualcuno raggiungesse Deam prima di me. Sarei stata in prima linea. Per ora decisi di tenere Iane all’oscuro delle mie vere intenzioni, ero sicura che se le avesse sapute si sarebbe opposto, ma avevo un paio di assi nella manica per fare in modo che tutti appoggiassero i miei piani. Li avrei tirati fuori al momento opportuno.
Il giorno dell’incontro partimmo di buonora in groppa a tre destrieri. Il tempo prometteva pioggia, tanto per cambiare, ma fortunatamente iniziò a piovigginare solo quando giungemmo a destinazione.
Il casolare dove avrebbe avuto luogo l’appuntamento era un grande edificio in legno, comprendente di un solo ampio stanzone, con un altissimo soffitto a due falde. Nell’arredamento si potevano contare esclusivamente un grande tavolo che occupava tutto il centro della stanza e le sedie che lo contornavano. Per il resto era completamente spoglio. Arrivammo per primi. «A chi appartiene questo posto?», domandai a Rimet. Iane era sparito insieme ai cavalli, inoltrandosi nel bosco, dicendo che li avrebbe portati in un luogo sicuro. «Al re in verità. Apparteneva ai sovrani del sud. Nei tempi indietro qui avevano luogo gli incontri non ufficiali con i nobili, ma è da molto che non viene più usato, non credo ne conosca l’esistenza». Mi fece segno di seguirlo. «Vieni, ti mostro una cosa». Mi portò vicino al grande tavolo e mi disse di chinarmi, indicando qualcosa sotto di esso. Sul pavimento c’era una botola con sopra impresso lo stemma della mia casata. «Se guardi bene vedrai che il tavolo è composto da due pezzi separati che si possono dividere, aprendolo giusto nel mezzo, permettendo l’accesso a quella botola. Da lì partono diverse gallerie, che si diramano per chilometri sotto terra in tutte le direzioni. Una possibilità di fuga, in caso di un attacco a sorpresa», spiegò. Si rimise dritto e si lasciò poi ricadere su una sedia. Io feci altrettanto. «Speriamo non ci serva», dissi. Lui rimase pensieroso per un attimo poi aggiunse: «Se non te la senti di parlare davanti a tutti, lascia che sia Iane a esporre il piano». «I nobili non si faranno problemi se a tenere il discorso sarà un cavaliere di rango a loro inferiore?», domandai. «Questo non sarà un problema, anche Iane appartiene alla nobiltà. Tra i signori che incontrerai stasera ci sarà anche suo fratello maggiore». La notizia mi stupì, anche se, visto il suo modo di fare autoritario, la cosa non mi avrebbe dovuta meravigliare più di tanto. «Perché è entrato a far parte dei cavalieri del palazzo?», chiesi. «È il secondogenito di un vecchio casato. Il primogenito è succeduto al padre e Iane, anche se i suoi genitori gli hanno lasciato in eredità alcuni possedimenti, ha deciso comunque per la carriera militare. Credo che in verità, vista lo situazione non proprio felice che imperversa nel nostro reame, avesse voluto semplicemente stare al centro dell’azione e nel qual caso agire per il bene del popolo, proprio come sta facendo adesso». «Perché non ha mosso una rivolta quando ancora governava la regina? Le cose non era poi tanto migliori rispetto a ora». «In una parola? Deam. Non sei la sola a essere rimasta affascinata da quel ragazzo. Lo siamo stati tutti. Non credere che quello che stiamo facendo adesso contro di lui sia una cosa facile anche per noi. Io e Iane avevamo tutti e due quattordici anni quando iniziammo l’addestramento a palazzo. Il principe era un undicenne che sbaragliava in bravura anche quelli più grandi di noi in tutte le categorie. La sua abilità e destrezza lasciava tutti noi cavalieri senza fiato. A tredici iniziò a prestare servizio al sanatorio della città, seguendo il medico del palazzo, che si occupava anche di curare le ferite che noi cavalieri finivamo inevitabilmente per farci durante gli allenamenti. A quattordici girava già per il regno impedendo agli ufficiali preposti di riscuotere i tributi dai paesi più poveri. Se non stava studiando o facendo qualcosa di utile per aiutare qualcun altro, passava il tempo ad allenarsi. Sembrava sempre animato da un fuoco e un’energia fuori dalla nostra portata, ma allo stesso tempo lacerato da un dolore che non potevamo comprendere. Era sempre gentile con tutti, ma non si è mai lasciato avvicinare veramente da nessuno e credimi se ti dico che le occasioni non gli sono mancate anche col gentil sesso. La prima volta che vi ho visti insieme sono rimasto davvero stupito. Sembrava totalmente senza difese, finalmente in pace. Pensai che avesse trovato l’anima gemella in grado di arrivare al suo cuore». Rimet si bloccò quando si accorse che avevo gli occhi lucidi. Ogni volta che pensavo alla vita di Deam, non potevo non vergognarmi di come avessi trascorso la mia: nella tranquillità della mia casetta in
campagna, tra le mille premure della mia balia. Una vita senza sfarzo e ricchezze, ma priva di tutte le lotte che lui aveva dovuto affrontare completamente da solo da quando aveva appena sei anni. Che avesse scelto me per stare al suo fianco mi sembrava un miracolo immeritato, ma se ero io la persona che desiderava avrei fatto qualsiasi cosa per renderlo felice. Invece alla fine il destino gli aveva sottratto anche questo, relegandolo in un mondo privo di sentimenti, privo di amore. «Perdonami, non volevo turbarti», disse Rimet. «Non preoccuparti. Sto bene». Cercai di ricacciare indietro le lacrime, mentre Rimet mi scrutava serio. «Se Iane si è deciso a prendere in mano la situazione non è solo per il bene del popolo, lo fa anche per te. Credo ti si stia affezionando molto. Lui è di rango più elevato del mio ed è pure il mio superiore in comando, ma è anche il mio migliore amico. È troppo onesto per notarlo, ma io vedo che stai macchinando qualcosa. Non gli spezzare il cuore con qualche azione avventata». Rimet era più intuitivo di quanto avessi immaginato, ma prima che potessi dire alcunché, Iane entrò dalla porta abbassandosi il cappuccio del mantello bagnato. «Stanno arrivando», disse.
Nel giro di pochi minuti giunsero tutti e ci sedemmo intorno alla grande tavola. I nobili erano scortati da una o due guardie ciascuno, che si posizionarono dietro al rispettivo signore, lungo il perimetro della sala. Rimet si mise alle mie spalle, mentre Iane si sedette accanto a me. I nobiluomini, una quindicina in totale, avevano un’età compresa tra i sessanta e i trent’anni. Individuai subito il fratello maggiore di Iane, si somigliavano come due gocce d’acqua, solo che uno era la versione più matura dell’altro. Il clima era di forte tensione e più di un’occhiata indagatrice cadde nella mia direzione. Sperai che le cose andassero come avevo programmato. Iane mi guardò e io gli cedetti la parola con un cenno del capo. Dopo pochi preamboli iniziò a illustrare il piano nel dettaglio, svolgendo sul tavolo una mappa della città del sud. La strategia era molto semplice: sarebbero entrati in città a piccoli gruppi, in giorni differenti per non attirare l’attenzione. Nella mezzanotte della data prestabilita per l’attacco ognuno si sarebbe portato davanti a una delle due entrate del castello a lui assegnata, dove, dei cavalieri alleati interni al palazzo, avrebbero fatto in modo di far trovare aperti gli ingressi. Una volta dentro le mura non sarebbe passato molto prima che le guardie, notata l’intrusione, facessero partire l’allarme. Da quel momento sarebbe stata battaglia. I nostri alleati si sarebbero dovuti mischiare il più possibile durante lo scontro con gli avversari, così da evitare che il re potesse colpirli senza danneggiare anche le sue milizie. Non era una garanzia che non lo avrebbe fatto ugualmente, ma sarebbe stata una mossa avventata da parte sua, perché in quel caso anche i cavalieri che gli erano ancora fedeli gli si sarebbero rivoltati contro, lasciandolo privo della loro protezione. La battaglia sarebbe stata un diversivo che avrebbe impegnato l’attenzione e le forze avversarie, per permettere a Iane, Rimet e altri quattro fidati, di introdursi di nascosto, scalando uno dei bastioni, prima nel cortile del castello e poi attraverso un’entrata di servizio, nel palazzo stesso, alla ricerca del sovrano per ucciderlo. Non avrebbero avuto molto tempo per riuscire nell’impresa, perché presto sarebbero arrivati al castello altri rinforzi e il nostro piccolo esercito non sarebbe mai riuscito a contrastarli. Quando Iane iniziò a spiegare che ruolo avrei avuto io, lo interruppi. «Mi introdurrò nel castello insieme ai cavalieri designati a trovare il re», affermai. Vidi con la coda dell’occhio che Iane si voltava di scatto nella mia direzione, ma prima che potesse dire qualcosa, uno dei nobili prese la parola. «Che apporto potrebbe dare la vostra presenza all’azione? Rischiereste solo di essere uccisa», chiese. «Il re è impossibilitato nell’usare la sua magia contro di me allo scopo di togliermi la vita. Le sue capacità in questo caso vengono meno. Ho un vantaggio che a nessun altro sarà concesso». Questo era vero. «Quando gli sono abbastanza vicino inoltre può avvertire la mia presenza. Il suo desiderio di eliminarmi come rivale al trono lo tratterrà a palazzo, ma per farlo, non potendo ricorre ad arti magiche, dovrà venirmi fisicamente
dappresso. Sarà un’ottima occasione che i cavalieri potranno sfruttare per cercare di ucciderlo». Questo era probabile, ma non sicuro, ci sono una miriade di modi per assassinare qualcuno senza doversi necessariamente avvicinare. Sperai non ci riflettessero sopra troppo a lungo. «In più sono un’ottima spadaccina, in caso di bisogno saprò difendermi». Questa invece era una bugia colossale, non sapevo praticamente impugnare una spada. «Volete fungere da esca?». No, volevo arrivare a Deam prima di chiunque altro e avere la possibilità di risvegliarlo, ma risposi: «Sì». Si guardarono tutti tra loro e dopo un momento il fratello di Iane disse: «Stiamo facendo tutto questo per restituire un po’ di pace al regno, affidandoci a voi come futura regina. Se voi doveste perire nell’attacco le nostre speranze sarebbero infrante. Nessuno potrebbe mettere fine alle ostilità e moriremmo tutti sotto le lame delle milizie reali a noi molto superiori di numero. D'altronde se i cavalieri non riuscissero nella loro impresa, gli eventi volgerebbero esattamente nello stesso modo e dunque, forse, la vostra presenza potrebbe essere preziosa». Ci fu un coro di assensi e vidi Iane stringere forte i pugni. Io invece mi rilassai, perché lessi sui visi dei nobili che la decisione era ormai presa. La discussione continuò per elaborare piccoli dettagli e decidere il giorno dell’attacco. Sarebbe avvenuto di lì a dieci giorni. Per tutto il tempo Iane evitò deliberatamente di guardarmi. Doveva essere furioso. A un certo punto, quando l’incontro volgeva ormai al termine, di colpo sentimmo una forte scossa. Le finestre andarono in frantumi e le pareti della casa presero ad ardere. Ci alzammo tutti in piedi di scatto. Rimet si portò vicino a un’apertura per guardare all’esterno, ma senza avvicinarsi troppo, per non rischiare di bruciarsi. Sbiancò in volto. «Maledizione, c’è il re», esclamò. Il mio cuore fece un balzo. Deam era lì, fuori da quella casa. Avanzai di un paio di passi verso la porta, ero tentata di provare ad aprirla anche se stava bruciando, pur di poter andare da lui. Iane mi afferrò per un braccio, trattenendomi. All’improvviso sentimmo Deam urlare qualcosa e tutti si zittirono all’istante. «Signori, questa è la fine che fanno quelli che si mettono contro di me. Ringrazio messer Letoian per la soffiata e gli auguro la morte che si merita», disse. Iane saltò sopra al tavolo, attraversò di corsa la stanza e piombò addosso a uno dei nobili, sfoderando la spada e puntandogliela al collo. Le guardie dell’uomo si mossero per impugnare le loro armi, ma si ritrovarono subito con i ferri degli altri cavalieri alla gola e non poterono far altro che sollevare le braccia in segno di resa. «Cos’altro gli hai detto? Parla!», gridò Iane. «Giuro che non gli ho rivelato niente. Solo che avremmo fatto questo incontro», balbetto l’uomo, terrorizzato. «Perché non ti dovrei infilzare immediatamente?». «Pensavo che se glielo avessi confidato mi sarebbe stato riconoscente». «Mandandoci tutti a morte? Che tu sia maledetto, Letoian». Gli occhi di Iane scintillavano pieni d’ira. Qualcosa che brillava nella mano dell’uomo attirò la mia attenzione. Aveva estratto un piccolo pugnale, che velocemente alzò verso il petto di Iane. Sgranai gli occhi e portai le mani alla bocca. Di colpo mi sentii girare dalla parte opposta e mi ritrovai con il viso premuto contro il petto di Rimet. Alzai lo sguardo scioccato su di lui, che ricambio il mio, scuro in volto. Passò qualche interminabile secondo dove l’unico rumore che potevo udire era quello del mio respiro affannoso, del cuore che mi batteva frenetico nel petto e del fuoco che consumava la casa. Poi sentii un gran trambusto alle mie spalle e quasi urlai, presa alla sprovvista, tanto avevo i nervi tesi. Mi girai incerta e Rimet non me lo impedì. Le guardie stavano spostando i tavoli per poter accedere alla botola e consentire a loro stessi e ai propri signori di fuggire.
Cercai con gli occhi Iane. Stava rinfoderando la spada, accanto a lui c’era suo fratello, ai loro piedi giaceva il corpo inerme del nobile. Alla sua vista il sangue mi si gelò nelle vene, ma il sentimento preponderante fu di sollievo. Sollievo che Iane stesse bene e non fosse ferito. «La botola è aperta andiamo», disse Rimet tirandomi per un braccio, ma io dopo un secondo feci resistenza. «Aspetta, non posso, se me ne vado ora Deam se ne accorgerà. Dicevo il vero quando ho detto che può percepire la mia presenza. Se la sentisse sempre più flebile, fino a scomparisse, ma con la casa ancora in piedi, saprebbe del passaggio segreto e che ci siamo salvati», dissi. «Maledizione», imprecò. «Dovrò aspettare ad allontanarmi fino all’ultimo momento. Imputerà la mia sparizione con la morte». Ci rifletté su un secondo. «Ok, d’accordo, aspettami qui». Andò a parlare con i nobili, che dopo averlo ascoltato fecero un segno di assenso e iniziarono a scendere rapidamente per la via di fuga. Poi si accostò a Iane. L’interno del casolare era sempre più caldo e il fumo iniziava a bruciarmi gli occhi e i polmoni. I fratello di Iane diede a quest’ultimo una stretta fraterna su una spalla, poi si affrettò a seguire gli altri signori, mentre i due cavalieri venivano nella mia direzione. «Ci porteremo nei tunnel, restando nei pressi della botola. Quando la magione cadrà ci allontaneremo più in fretta che potremo lungo le gallerie», suggerì Iane. Mi sembrò una buona idea. Ci avvicinammo all’ingresso del passaggio. Sotto la botola c’era una scaletta in legno. Rimet la discese, riapparendo subito dopo con una torcia in mano, la passò a Iane che si avvicinò a uno dei muri in fiamme e l’accese. Poi scendemmo tutti e tre per i gradini e Rimet richiuse il battente sopra di noi. Il cunicolo, scavato nel terreno e nella roccia, non era più ampio di un metro di larghezza e alto due. Odorava di terra e muschio ed era saturo di umidità. Sul muro vicino a me potevo vedere alcune gocce scendere lungo la parete, fino a formare delle pozze sul pavimento irregolare. Al di là del bagliore della torcia invece non riuscivo a scorgere che la più totale oscurità. «È la verità che il re non può usare la magia per ucciderti», mi chiese Rimet. «Così sembra», risposi. «E quella storia dell’abile spadaccina?». «Hai dieci giorni per istruirmi e renderla vera». Rimet scosse la testa. «Fantastico!», commentò sarcastico. Mi dispiaceva vederlo così contrariato e sapevo di non avere nessuna possibilità in uno scontro con Deam, ma non avrei rinunciato. «Perché mi hai tenuto nascosto le tue vere intenzioni?», chiese Iane all’improvviso. La sua voce era carica di amarezza. Lo guardai negli occhi. «Perché hai ucciso quell’uomo?», domandai a mia volta. «A parte il fatto che stesse cercando di pugnalarmi? Non potevamo fidarci. Avrebbe fatto la spia e ci avrebbe impedito di portare a compimento il nostro piano», rispose con durezza. «Già, ci avrebbe impedito di portare a compimento il nostro piano», dissi e lasciai che capisse da solo l’antifona. Iane aprì la bocca per dire ancora qualcosa, ma si bloccò quando sentimmo sopra di noi un forte boato. La magione doveva essere crollata. Ci guardammo tra noi. «Via, presto», esclamò Rimet. Iniziammo a correre per la galleria, allontanandoci il più velocemente possibile. Trovammo diversi bivi, ma i cavalieri sembravano sicuri della direzione da prendere. Rischiai più volte di inciampare, non era facile tenere quella velocità con una visuale di solo pochi metri davanti a noi. Improvvisamente la luce della fiaccola, separando le tenebre, rivelò di fronte a noi una figura. Ci arrestammo di colpo. Deam era in piedi al centro del tunnel. Sembrava ci stesse aspettando. Mi ritrovai il cuore in gola e feci un passo nella sua direzione, ma i due cavalieri sguainarono le spade, parandosi davanti a
me. Un sorriso beffardo increspò le sue labbra. Lentamente si chinò, fino a posare una mano a terra. Passò i polpastrelli sulla superficie, come se volesse accarezzare il suolo. «Sotto di noi, esattamente in questo punto», disse, «un fiume sotterraneo attraversa la roccia con tutta la sua potenza. Si trova solo a mezzo metro di distanza dai nostri piedi. Riesco a sentire l’impeto delle sue acque, così come posso vedere il terrore sui vostri volti». Posò gli occhi su di me. «Io ti avevo avvisata». Dalla sua mano si estesero miriadi di finissimi filamenti traslucidi che bagnarono il terreno, penetrandolo e sparendo dentro di esso. Iane alzò la spada pronto ad attaccarlo, ma non riuscì a fare nemmeno due passi che il terreno sotto di noi iniziò a franare, disintegrandosi in minuscoli frammenti. Si aprì una voragine e con niente che potesse più sorreggere il nostro peso cademmo nell’oscurità. Mi ritrovai nell’acqua gelata e fui travolta dalla forza della corrente. Cercai di riemergere per respirare, ma con la testa sbattei contro la pietra. Il flusso doveva avermi già trascinata all’interno della roccia, lungo il suo corso sotterraneo. Fui presa dal panico. Cercai di aggrapparmi alle pareti, ma invano. Venivo trascinata via. Privata della vista e in balìa della corrente, urtai con violenza una spalla e per l’impatto mi sfuggì di bocca la poca aria che conservavo. Cercai di impedirmi di respirare, ma i polmoni presero a bruciarmi atrocemente nel petto e a reclamare ossigeno. A fatica cercai di portare le mani e il viso verso l’alto nella speranza di trovare un pertugio, ma incontrai solo roccia e acqua. Il terrore invase ogni centimetro del mio corpo. Era finita. Sarei affogata. Sentii un doloroso colpo alla gamba destra e senza volerlo inspirai. I polmoni si infuocarono quando si riempirono del fluido ghiacciato invece della tanto agognata aria. Il mio ultimo pensiero prima di perdere i sensi andò a Deam. Non ero riuscita a riportarlo indietro. Poi non ci fu più niente.
Capitolo 15
Il dolore e il senso di soffocamento tornarono a impossessarsi di me con forza. Avevo il corpo scosso da un accesso di tosse e a ogni respiro che facevo trovavo i polmoni bloccati dal liquido che cercavano di espellere. Cercai di girarmi sulla spalla destra, ma ero troppo debole. Delle mani mi aiutarono dolcemente a voltarmi, prendendo poi ad accarezzarmi la schiena. In quella posizione andò meglio e riuscii pian piano a buttare fuori tutta l’acqua. I polmoni mi facevano malissimo, ma mai l’aria mi era sembrata tanto buona in vita mia. Aprii gli occhi e rimasi accecata dalla luce del sole. Appena si abituarono alla luminosità, vidi Iane inginocchiato accanto a me. Non avevo nemmeno la forza di alzare la testa. «Ci hai fatto prendere un bello spavento», disse con un sorriso tirato. Non lo avevo mai visto così scosso. Sembrava sul punto di mettersi a piangere. Rimet doveva essere alle mie spalle, perché vidi il suo braccio allungarsi sopra di me e dargli un paio di pacche amichevoli su una spalla. «È andata bene, sei stato bravo», disse. Dopo qualche minuto cercai di mettermi a sedere e i due cavalieri mi aiutarono, sorreggendomi. Mi guardai intorno. Eravamo ancora all’interno del bosco, sulle rive di un piccolo lago. Una cascata di una decina di metri si tuffava nel bacino sgorgando dalla roccia. «Cos’è successo?», domandai. «Siamo caduti dalle gallerie nel torrente sotterraneo, ricordi?», chiese Rimet e io feci di sì con la testa. «Beh, lì a quanto pare è dove il torrente finisce di essere sotterraneo», disse indicando la cascata. «Siamo stati scaraventati dalla corrente nel lago. Dobbiamo ringraziare la nostra buona stella, pochi secondi ancora e saremmo affogati tutti quanti… Quando ti abbiamo tirato fuori dall’acqua non respiravi e il tuo cuore aveva smesso di battere. Eri morta, Aili». «Allora come…?». I due cavalieri si guardarono.
«Diciamo che Iane ti ha riportata indietro». Spostai gli occhi su quest'ultimo. «Grazie», dissi. «Non c’è di che», rispose accennando un sorriso. Rimanemmo seduti sull’erba per diversi minuti, senza parlare, cercando di ritrovare le energie per muoverci. Iane mi sosteneva tenendomi tra le braccia. Avevo freddo e il calore del suo corpo era l’unica cosa che mi impedisse di iniziare a tremare. Dopo un po’ Rimet si alzò, intenzionato ad andare a prendere i cavalli, che, a quanto pareva, fortunatamente non erano molto distanti. Infatti poco dopo il cavaliere tornò con i tre destrieri. Provai a mettermi in piedi, ma non ci riuscii, ero completamente senza forze. Non sarei mai riuscita a cavalcare. Iane passò un braccio intorno alla mia vita, l’altro sotto alle gambe e mi sollevò da terra. «Non è necessario, ce la faccio», asserii. «Non è vero, non riesci nemmeno ad alzarti in piedi». Mi issò sul suo cavallo, poi salì dietro di me. Rimet legò il mio destriero al suo e ci avviammo al passo nel folto del bosco. Forse perché mi rendevo conto di cosa avesse voluto dire Rimet dicendo che Iane mi aveva riportata indietro o perché ero rimasta colpita nel vederlo così sconvolto per la mia morte; oppure perché sentivo provenire da lui qualcosa di diverso, soprattutto nel modo in cui mi toccava, ma di colpo fui consapevole del suo corpo a contatto con il mio. Della mia spalla appoggiata al suo petto. Del suo braccio che mi sorreggeva la schiena. Della sua gamba accanto alla mia. Eravamo stati anche più vicini di così, ma questa volta mi avvamparono le guance per l’imbarazzo. Mi sembrava una cosa sbagliata, un tradimento nei confronti di Deam. Fino a quel momento era lui l’unica persona di cui avessi avvertito così fortemente la fisicità. Anche un semplice sfioramento delle sue mani sui miei capelli, significava un batticuore assicurato. Se ne fossi stata in grado sarei scesa subito dal destriero per allontanarmi immediatamente da Iane. Invece non potei fare altro che restare dov’ero, con il cuore che accelerava i suoi battiti nel petto. Arrivammo a casa dei genitori di Rimet a notte fonda. Iane mi aiutò a scendere da cavallo, ma appena potei, mi scostai dalla sua persona. «Ce la fai ad andare in camera da sola?», chiese. «Sì, grazie», risposi. Non riuscii nemmeno a guardarlo in faccia, ma se lui se ne accorse, non lo diede a vedere. «D’accordo, allora noi andiamo a portare i cavalli nella scuderia». Aspettarono ch’io ebbi varcato la soglia prima di avviarsi verso la stalla. Un po’ traballante raggiunsi la mia stanza. Tolsi i vestiti, li ammucchiai in un angolo e riempii il catino riversandoci dentro l’acqua contenuta nella brocca sottostante. Mi diedi una ripulita come meglio potei, aiutandomi con un morbido panno. Sulla spalla destra e sulla gamba sinistra c’erano due brutti ematomi violacei che avrebbero impiegato un bel po’ di tempo a sparire. Tempo che forse non avrei mai avuto. Scacciai certi pensieri funesti e dopo aver indossato la camicia da notte mi distesi con cautela sul letto, esausta. Avevo il corpo dolorante un po’ ovunque. Le magia di Deam era davvero incredibile. Questa volta avevo rischiato davvero grosso. Ero morta sul serio. Se non fosse stato per le mani di Iane sul mio petto, che avevano costretto il mio cuore a tornare a battere e il suo respiro nei miei polmoni, che mi aveva riportato alla vita, adesso non sarei stata lì. Sperai che le mie sensazioni su di lui fossero errate. Che non provasse per me quello che temevo. Ne avrebbe sofferto inutilmente. Il mio cuore apparteneva a Deam, sarebbe stato suo per sempre. Anche adesso, anche così, continuava a cercarlo per potersi ricongiungere a lui. Come se io non fossi altro che un prolungamento di Deam o lui un’estensione di me. Ripensai al giorno in cui ci eravamo incontrati, a come il mio corpo aveva risposto con naturalezza al contatto con il suo, al modo in cui lo avevo subito reclamato come mio. Probabilmente queste sensazioni scaturivano dal fatto che un pezzo del suo cuore risiedeva in me, ma più tempo passavo con lui e più queste emozioni avevano finito per amplificarsi, fino a travolgermi a tal punto che la sola idea di restare senza di lui mi lasciava senza fiato. Non era più solo il mio cuore ad appartenergli, lo era anche la mia anima.
All’improvviso sentii bussare. «Aili, sei ancora sveglia?», disse Iane dietro alla porta. ‘Oh no!’, pensai. Meditai di non rispondere e fingere di dormire, ma temetti sarebbe entrato ugualmente per controllare che stessi bene, così alla fine mi alzai a sedere sul letto e gli dissi di entrare. Si era cambiato i vestiti. Indossava una maglia celeste di un colore molto simile a quello dei suoi occhi e dei pantaloni grigi. Aveva sciolto i capelli, che erano di una tonalità più fredda dei miei, lasciandoli ricadere lunghi e morbidi fino a sfiorare le spalle; le punte erano talmente chiare da sembrare quasi bianche. Era un ragazzo davvero molto attraente. Mi odiai per averlo notato. Entrò nella stanza, chiudendosi poi la porta alle spalle. Bruttissimo segno. Cercai di calmarmi pensando che forse era tutto frutto della mia fantasia; che mi immaginavo le cose e che mi stavo agitando per niente. In mano aveva una tazza fumante. «Tieni, ti farà sentire meglio», disse, porgendomela. La presi con entrambe le mani e la portai vicino al viso. Profumava di fiori e frutti di bosco. Ne bevvi un sorso e un tepore confortante si diffuse in tutto il corpo, allentando un po’ la tensione. Era squisita. «È buonissima, grazie», dissi alzando gli occhi su di lui. Lo trovai che mi fissava serio in volto. La tensione risalì alle stelle, passando immediatamente al panico. Abbassai subito lo sguardo e cercai di dissimulare, portando la tisana alle labbra, ma mi si era chiusa la gola. ‘Ti prego, ti supplico, ti scongiuro, vai via’, pensai. Invece lui si chinò sulle ginocchia per potermi guardare in faccia, spostando per un momento lo sguardo sull’ematoma alla mia spalla destra. «Durante l’attacco resterai nelle retrovie», disse, prendendomi completamente alla sprovvista. «Cosa? No, scordatelo», farfugliai concitata, appoggiando per terra la tazza. Si scurì in volto e si rialzò in piedi, prendendo a camminare per la stanza. «Oggi abbiamo avuto una chiara dimostrazione di cosa è capace il re. Sei quasi morta per questo. È un miracolo che tu sia ancora viva. Non ti permetterò di mettere a rischio la tua vita in quel modo». «È una mia scelta». Cercai di controllare il volume della voce. Ero più spaventata che arrabbiata, timorosa potesse impuntarsi e impedirmi di fare come desideravo. «No, tu devi pensare a cosa è meglio per il popolo», ribatté fermandosi rigido davanti a me. «Io devo pensare a cosa è meglio per Deam», replicai. Il mio vero pensiero mi sfuggì dalle labbra prima che potessi rendermene conto e riuscissi a fermarmi in tempo. Iane spalancò gli occhi e un secondo dopo aggrottò la fronte adirato. «Di cosa parli?». Mi prese per le braccia, sbilanciandomi all’indietro per costringermi a guardarlo. «Cosa ti passa per la testa?», gridò. Aprii la bocca, ma non seppi cosa dire per riparare al danno che avevo appena fatto dichiarando le mie reali intenzioni. Adesso sì che mi avrebbe impedito di entrare al castello insieme a lui. «Non hai la più pallida idea di come aiutarlo a tornare in sé, né se è possibile, ma ci vuoi provare lo stesso buttandoti allo sbaraglio. È così?», domandò. Il mio silenzio gli fornì la risposta che cercava. «Questo non è un piano, questa è una pazzia. Finirai per farti ammazzare da lui». «Iane…». Il suo nome mi uscì con voce stridula e implorante. «No, maledizione non te lo lascerò fare», gridò, rafforzando la stretta sulle mie braccia fino a farmi male. Il cuore quasi mi uscì dal petto quando mi spinse di schiena sul letto, chinandosi sopra di me, bloccandomi con il suo peso, premendo con forza le sue labbra sulle mie. Il suo corpo era pesante e le sue forti braccia, posate sul materasso, mi avvolgevano fino alle spalle, impedendomi qualsiasi movimento. Non che provai davvero a spostarmi, ero troppo sbigottita per riuscire a pensare di muovere anche un solo muscolo. Il cervello si era svuotato di colpo appena le nostre bocche si erano toccate. Il suo fu un bacio triste, disperato. Come se volesse con quel contatto cancellare Deam da me e farmi invece diventare sua.
Separò di scatto il suo viso dal mio e ci guardammo negli occhi a pochi centimetri l’uno dall’altra. Lessi nei suoi che era scioccato per quello che aveva appena fatto almeno tanto quanto me. Si alzò sul letto portandosi una mano alla bocca. Poi si rimise rapidamente in piedi e si fiondò fuori dalla stanza, lanciandosi giù dalle scale. Sentii i suoi passi correre veloci sul pavimento al piano inferiore e un secondo dopo la porta della casa che si richiudeva. Mi circondai il busto con le braccia, mi girai su un fianco con il volto verso il muro, raggomitolandomi, con il cuore che martellava nel petto, cercando di respirare. Temetti sarebbero stati dieci lunghi giorni.
Capitolo 16
La mattina successiva Iane non era alla fattoria. Non riuscii a non pensare di essere io il motivo della sua assenza. Rimet invece stava armeggiando nel prato posteriore alla casa. Indossavo alcuni dei vestiti che sua madre era riuscita a trovarmi nei giorni scorsi, frugando negli armadi alla ricerca di qualcosa che potesse andarmi bene. Erano dei vecchi abiti di Ruin e Redolt. Una camicia bianca, di cui avevo rinsaccato le maniche e un paio di pantaloni neri che non mi cadevano solo grazie alla cintura allacciata ben stretta sui fianchi. Ero un po’ ridicola, ma non me ne preoccupai. «Buongiorno», mi salutò Rimet, quando mi vide sbucare dall’angolo della casa. Aveva i capelli ancora più scompigliati del solito e il viso sudato. Stava finendo di compattare la terra intorno a un grosso tronco piantato verticalmente nel terreno. A una decina di metri di distanza, degli stretti e lunghi pagliai legati con delle corde si alzavano dal suolo allo stesso modo. Non potei fare a meno di rabbrividire alla loro vista, ricordando la mia scorsa esperienza con dei cumuli di paglia animati. «Buongiorno», dissi. «Cosa stai facendo?», domandai, indicando con gli occhi quello che restava del fusto del povero albero. «Non avevi detto che volevi allenarti con la spada?», chiese. Alzai sorpresa le sopracciglia. «Proverei anche a insegnarti a tirare con l’arco», continuò, «almeno con quello potresti restare a distanza di sicurezza, ma è meglio che lo faccia Iane, io sono una frana, non prendo il centro di un bersaglio nemmeno a un metro di distanza». Quando parlò di Iane sentii le guance avvampare e la cosa non gli sfuggì, perché mi scrutò con occhi indagatori. «Stamattina se n’è andato all’alba, farfugliando qualcosa di poco comprensibile circa qualcosa che doveva fare… È forse successo qualcosa tra di voi?», domandò. Maledizione a lui e al suo intuito. «Dì la verità, ti ha forse baciata?». Le sue labbra si incurvarono in un sorriso, come se già si aspettasse una risposta affermativa. Andai letteralmente a fuoco. Come diavolo poteva pormi domande tanto imbarazzanti in quel modo? Scoppiò a ridere. Per un momento pensai di girare sui tacchi e scappare in casa, ma subito si riprese e mi appoggiò una mano su una spalla, forse proprio allo scopo di trattenermi. «Scusami, non volevo, non ti arrabbiare», disse, vedendo la mia espressione tesa. «Ogni tanto si lascia travolgere dalle emozioni, ma di solito ritrova presto il controllo. Vedrai che tornerà l’affidabile Iane di sempre. Non ti farebbe mai del male, lo sai, non è vero?», aggiunse con più compostezza. Feci di sì con la testa, ma non era quello a darmi pensiero. In verità ero preoccupa per lui. Rimet si allontanò di qualche passo alla mia sinistra, afferrò qualcosa da terra e me la lanciò. La presi al volo. Era una spada di legno. Quando lo guardai nella mano ne impugnava una uguale anche lui, solo che era più lunga e più grossa della mia. «Animo ragazza, con il mio allenamento in nove giorni potresti arrivare anche a durare due secondi in un combattimento contro il re, invece degli zero di adesso, ma chissà, potrebbero essere i due secondi che faranno la differenza tra la vita e la morte», disse roteando l’arma in aria.
Sollevai la spada tenendola con entrambe le mani. Rimet mi si avvicinò a lunghe falcate, la afferrò, la girò sotto sopra, quindi me la riporse. «Incominciamo bene se non capisci nemmeno da che parte si impugna. Forse sono stato troppo ottimista», commentò, scuotendo la testa. Diventai paonazza e la ripresi imbarazzata. «Forza cominciamo», disse, dandomi un buffetto in testa. Anche se avevo il corpo che chiedeva solo riposo, pesto e malandato com’era, mi allenai con Rimet tutto il giorno senza lamentarmi nemmeno una volta. Era un maestro esigente e paziente al tempo stesso. Con il suo aiuto forse avrei davvero avuto quel poco tempo che chiedevo con Deam per cercare di risvegliarlo e riportarlo indietro dalle tenebre in cui era caduto il suo cuore. Quella notte Iane non tornò alla fattoria.
La sera seguente, dopo un’altra mattina e un altro pomeriggio passati a fare pratica con la spada, cercavo di rilassare i muscoli doloranti con un bagno caldo, nella grande tinozza, più alta che larga, che la famiglia teneva in una stanza alla quale si accedeva dall’esterno, sul retro dell’abitazione. Era un piccolo ambiente molto accogliente, interamente costruito in legno, così come la vasca. Il soffitto era davvero basso e i vapori che salivano verso l’alto formavano una leggera nebbiolina che impediva quasi di vedere i muri più lontani. Rimet invece era ancora nel giardino ad allenarsi, probabilmente sarebbe andato avanti a esercitarsi da solo finché il sole non fosse completamente tramontato. Me ne restavo in ammollo con gli occhi chiusi, le braccia intorno alle gambe e l’acqua che mi lambiva quasi il naso. Era una fortuna che dopo l'esperienza traumatica che avevo appena vissuto, non mi fosse venuta una qualche fobia nei suoi confronti e riuscissi al contrario a stare tranquillamente con la bocca sotto la superficie. All’improvviso sentii Rimet parlare. «Ti stavo dando per disperso». «Già». Udii la voce di Iane rispondere. Il cuore fece un balzo nel petto e mi sollevai leggermente per cercare di origliare la loro conversazione. «Dove sei stato?». «Ho contattato i nobili tramite altri cavalieri e da qualcuno sono stato di persona. Volevo assicurarmi che, dopo quello che è accaduto al nostro incontro, nessuno volesse tirarsi indietro». «E allora?». «E allora si va avanti. Sono ancora più convinti di prima che sia la cosa giusta da fare». «Ottimo, vedo che non sei rimasto con le mani in mano». «Perché mai avrei dovuto?». «No, niente, sono solo contento che sei tornato». «… Lei dov’è?». Il mio cuore saltò un battito. «Credo si stia facendo il bagno… Vuoi raggiungerla?». Percepii una nota divertita nel timbro della sua voce. Dannato Rimet, ma che diavolo di suggerimenti gli dava? «… Sembra che il re in questi ultimi due giorni stia perlustrando tutto il regno. Credo la stia cercando, in qualche modo deve sapere che è sopravvissuta al suo tentativo di ucciderla». Sentii un crampo alla base dello stomaco. «Vorrà portare a termine il lavoro? Perché tutta questa fretta?». «Non ne ho idea». «Beh, qui dovrebbe essere abbastanza al sicuro, siamo lontani dai centri. Difficile che venga a cercarla in un posto del genere». «Speriamo sia così… Io sono a pezzi, vado a buttarmi sul letto prima di addormentarmi in piedi». «D’accordo. Ti faccio trovare qualcosa da mangiare nel caso ti svegliassi più tardi». «Grazie».
Sentii i passi di Iane allontanarsi. Deam mi stava cercando. Perché? Aveva davvero tutta questa fretta di eliminarmi? Che minaccia tanto grave potevo mai rappresentare per lui per cercarmi con tale impegno? Scesi con tutta la testa sotto la superficie dell’acqua calda per qualche secondo. Cercai di riordinare i pensieri e le emozioni contrastanti che si agitavano nell’anima, ma non riuscivo nemmeno a capire bene cosa provassi davvero. Da una parte bramavo trovarmi faccia a faccia con lui, dall’altra temevo il fallimento e quello che avrebbe comportato. Se non riuscivo a riportarlo indietro e lui mi uccideva, probabilmente sarebbe stato smarrito per sempre. Se invece fosse stato lui a perire, ucciso dai cavalieri, avrei perso tutto ugualmente, prima Deam e poi la mia stessa vita per andarmene con lui. Non potevo pensare che il destino volesse continuare ad accanirsi così duramente contro di noi. In più avevo iniziato a comprendere cosa sentissi per Iane e perché scoprire quello che provava per me mi avesse fatta sentire così scombussolata e impaurita. Senza accorgermene si era insinuato nel mio cuore, ma solo quando i suoi sentimenti mi si erano palesati, ero riuscita a riconoscerne l’esistenza anche dentro di me. Non mi avrebbero fermata dai miei propositi, ma erano abbastanza per farmi preoccupare per lui. Che riportassi indietro Deam o morissi per mano sua o mia, non avrebbe mai avuto quello che desiderava. Sperai che i suoi sentimenti nei miei confronti non fossero così forti da farlo soffrire a lungo. Rimasi nell’acqua finché non diventò quasi fredda, poi uscii dalla tinozza. Mi asciugai il corpo e tamponai i capelli con un panno. Indossai dei vestiti puliti: una gonna e una maglia bianca a cui effettuai un nodo basso sul davanti, prendendo le due estremità che penzolavano lunghe dopo l’ultimo laccio, cercando in questo modo di farla aderire un po’ di più ai fianchi, poiché era decisamente troppo larga. Una volta fuori dalla stanza in legno, lasciai la porta aperta così che l’umidità potesse uscire e feci il giro dell’edificio per rientrare dalla porta principale dell’abitazione. In casa la famiglia era già radunata intorno alla tavola. Iane non c’era, doveva essere nella stanza che divideva con Rimet a dormire. Mi sedetti accanto a Riza, che prese subito a versarmi nel piatto un po’ di ogni pietanza, facendosi riprendere dalla madre, perché perdeva, nel percorso con i cucchiai, metà del cibo sulla tavola. Terminata la cena e dopo aver finito di aiutare a riordinare, andai in camera mia e mi distesi sul letto. Sentivo il bisogno di parlare con Iane e cercare un chiarimento con lui. In questi ultimi giorni senza la sua presenza e il suo supporto, mi ero resa conto di quanto affidamento avessi finito per fare su di lui. Non potevo non ammettere che mi fosse mancato. Senza accorgermene passai dai miei pensieri a un sonno profondo, che fu interrotto qualche ora dopo, quando fui svegliata da dei rumori che provenivano dal piano inferiore. Qualcuno parlava lievemente. Guardai fuori dalla finestra, era ancora notte fonda. A un orario del genere non potevano che essere Iane e Rimet. Mi feci coraggio, andai alla porta, l’aprii e iniziai a scendere le scale. I due ragazzi stavano seduti, appoggiati agli schienali delle sedie, uno davanti all’altro, con in mano dei boccali mezzi pieni di un liquido ambrato. Iane sollevò gli occhi seri e penetranti su di me e io ressi il suo sguardo. Rimet si girò nella mia direzione e capì al volo che volevo restare sola col suo amico. Si alzò dalla sedia e, adducendo a un sonno improvviso con un grosso sbadiglio, ingurgitò in un unico sorso quello che restava della bevanda e si dileguò nella sua stanza. Io arrivai alla fine delle scale. Iane si appoggiò con i gomiti al tavolo, posando un po’ distante da sé il suo bicchiere. Fu lui il primo a parlare. «Ti prego, siediti. Giuro che non mi avvicinerò, ma ho bisogno di parlarti». Mi invitò con un gesto della mano ad accomodarmi sulla sedia lasciata libera da Rimet. Mi fece male sentire che pensava potessi avere paura di lui. Invece di andare dove mi indicava, feci il giro del tavolo, scostai la sedia accanto alla sua e mi sedetti lì. Lo vidi rilassarsi un po’ e abbozzare un sorriso di ringraziamento. Dopo un momento disse: «Ci ho riflettuto. Faremo come vuoi tu. Capisco perché lo devi fare, perché ci devi provare». «Lo amo», dissi.
«Sì. Lo so. Ecco perché ti aiuterò. Se fossi al posto tuo probabilmente mi comporterei nello stesso modo. Qualsiasi cosa hai in mente ti appoggerò; almeno fin dove mi sarà possibile». Mi sentii riscaldare il cuore, colmo di sollievo e gratitudine. «Grazie», dissi, ma non bastava neanche lontanamente a esprimere quello che provavo in quel momento. «Però da adesso in poi niente più bugie. Affronteremo questa cosa come si deve, insieme, come una vera squadra, d’accordo?». «D’accordo», risposi. Restammo un attimo in silenzio, guardandoci negli occhi, sigillando il nostro patto. Finché lui non distolse i suoi dai miei, lasciandoli scorrere per la stanza. Aprì la bocca per parlare, ma si interruppe, come se quello che doveva dire gli costasse un certo sforzo. Sapevo già quello di cui voleva parlare. Pensai di bloccarlo prima che potesse dire qualsiasi cosa, ma non feci in tempo. «Quello che è successo due notti fa…». «Non c’è bisogno…». Lo interruppi, ma non sapevo esattamente come continuare la frase. Non c’era bisogno che mi spiegasse le ragioni del suo gesto? Di parlarne? Ma ne ero sicura? Saremmo riusciti a stare senza apprensione l’uno alla presenza dell’altra se non avessimo affrontato quella conversazione? Sicuramente no, per cui anche se la cosa mi imbarazzava terribilmente e il cuore aveva preso a battermi velocemente nel petto, lo lasciai parlare. «Mi dispiace», disse con gli occhi nei miei. Questa volta fui io a fuggire il suo sguardo, abbassandolo sulle mie mani strette in grembo. «Non so cosa mi sia preso… No, è una bugia. Lo so perfettamente. Vederti senza vita mi ha fatto andare fuori di testa. Quando ho pensato che l’avresti messa ancora a rischio ho perso il controllo. Avrai capito che i miei sentimenti per te sono andati ben oltre quello che sarebbe stato lecito provare, ma non intendo scusarmi per questo, non era mia intenzione, ma non è una cosa su cui potessi avere il controllo, è successo e basta. Dovrei invece riuscire a dominare i miei impulsi. Per quello mi scuso, non mi sarei dovuto lasciare trasportare dalle emozioni. So che questo non può bastare a riparare al danno, ma spero che prima o poi riuscirai a perdonarmi». Il cuore adesso martellava nel petto. Me la sarei potuta cavare con un cenno di assenso della testa, ma non volevo lasciarlo così. Lui era stato più che sincero con me, si meritava che io lo fossi altrettanto con lui. Tuttavia non sapevo bene come esprimere, senza creare equivoci o false speranze, quello che sentivo. Alla fine lo dissi e basta, sperando mi avrebbe compresa. «Mentirei se dicessi che non provo niente per te. Mi sei entrato nel cuore anche tu», confessai. Lo sbirciai con gli occhi e vidi che inarcava le sopracciglia, assumendo un’espressione stupita. Non si era aspettato una simile risposta. Continuai a parlare prima che potesse fraintendere le mie intenzioni. «Però, io amo Deam. Non potrei mai amare qualcun altro come amo lui. È tutto per me». Iane sollevò leggermente le labbra in un sorriso dolce, ma allo stesso tempo un po’ triste. «Avevo già intuito che la vostra non fosse un’unione combinata per interesse, ma ne ho avuta la certezza durante il viaggio che abbiamo fatto insieme… Anche così però, anche se lo sapevo, non sono riuscito a non innamorarmi di te». Dovevo già avere il volto scarlatto, ma lo sentii accendersi ulteriormente. «Sei stata molto chiara e io non mi aspettavo niente di diverso. Se pensi di poterlo aiutare a tornare quello di prima, allora devi tentare. Se hai bisogno di me, io sarò al tuo fianco». Allungò una mano e scorse le dita sulle mie guance, prima su una, poi sull’altra, per asciugarmi delle lacrime che mi erano corse lungo il viso. Non mi ero nemmeno accorta di stare piangendo. Che impiastro. «Adesso è meglio se andiamo a dormire», suggerì, alzandosi, «Rimet ha detto che domani ti devo insegnare a tirare con l’arco, perché come spadaccina fai pena». Sorrise. ‘Maledetto Rimet’, pensai. A me aveva detto che non me la cavavo poi così male. Mi misi in piedi anch’io. Iane si avviò verso la sua camera e io mi portai in direzione della scala che conduceva alla mia «Buonanotte», disse voltandosi verso di me. «Buonanotte», risposi guardandolo negli occhi mentre appoggiando una mano sul corrimano in legno. Poi ognuno andò nella sua direzione.
Rientrata in camera indossai la camicia da notte e mi infilai sotto alle lenzuola, coricandomi con il cuscino stretto tra le braccia. Mi sentivo pervasa da una piacevole sensazione di fiducia e sicurezza che non provavo da ormai chissà quanto tempo. Ero felice che fosse tornato.
Capitolo 17
I giorni seguenti li passammo sempre insieme, io, Iane e Rimet. Quest’ultimo mi aveva consegnato le armi che usava per allenarsi quando era poco più che un ragazzino. Un arco leggero che non avevo difficoltà a tendere e una spada, non troppo lunga e leggera, che riuscivo a sollevare facilmente. Mi insegnarono a tirare con l’arco. Era vero che Rimet non riusciva a centrare un bersaglio anche a breve distanza. Iane invece non sbagliava un tiro. In quanto a me... diciamo che miglioravo. Con la spada iniziavo a prendere più confidenza ed ero in grado di brandirla ogni giorno che passava con maggiore agilità, anche se vedevo che i due cavalieri mi osservavano spesso con occhi inquieti, spaventati che potessi in qualche modo tagliarmi da sola con la lama affilata. Sospettavo mi stessero allenando più per tenermi indaffarata con qualche attività che non perché credessero davvero che sarei riuscita a difendermi in battaglia. Non potevo dargli torto. Quando non erano impegnati a istruirmi si esercitavano insieme. Ogni tanto, dopo una giornata passata a menar fendenti e scoccare frecce, mi sedevo esausta sull’erba, con il sole ormai al tramonto e li osservavo. Guardavo affascinata i loro movimenti fluidi, la loro forza. In ogni singola azione riuscivo a vedere quanto fossero in armonia tra di loro e quanto dovesse essere profonda l’amicizia e il rispetto che li legava. Mi sentivo onorata di averli al mio fianco. Anche se avvertivo la mancanza di Deam come se mi mancasse l’aria, la loro presenza era per me l’ossigeno che mi permetteva di continuare a respirare. Per tutto il tempo io e Iane cercammo di mantenere una certa distanza fisica tra di noi, ma nei momenti in cui non potevamo evitare il contatto, come quando mi spiegava come impugnare correttamente l’arco o come assumere determinate posizioni del corpo, mi era impossibile mantenere sotto controllo il battito del cuore e percepivo lo stesso tipo di tensione provenire anche da lui. Se le giornate le passavamo esercitandoci, le serate le trascorrevamo invece chiacchierando e scherzando, seduti intorno a un fuoco sul davanti dell’abitazione; nel giardino posteriore, sdraiati sull’erba rimirando le stelle; intorno al tavolo della grande cucina della casa, sgranocchiando frutta secca o sorseggiando l’ottimo sidro che preparava la madre di Rimet. Anche circondati dalla sua famiglia, avevamo finito col creare un piccolo angolo di mondo solo per noi tre. Discorrevamo di tutto. Mi aprii con loro come non avevo mai fatto con nessun altro, a parte che con Deam. Non avevo mai avuto dei veri amici con cui poter parlare liberamente, per me era una cosa nuova. La mia balia mi aveva in tutti i modi scoraggiato nell’avere relazioni troppo intime con altre persone, timorosa che in qualche modo potessi svelare la mia identità e finissi per cacciarmi involontariamente in qualche guaio. Avevo conosciuto solo amicizie superficiali con alcune delle ragazze che abitavano nel paese vicino alla mia residenza, ma le bugie che dovevo raccontare per non lasciare trapelare la verità erano un freno a qualsiasi reale confidenza. Se loro fantasticavano trasognate del tipo di uomini con cui speravano di sposarsi un giorno, io cosa dovevo dire? Che mi auguravo solo che la mia morte fosse rapida e indolore? Un po’ difficile relazionarsi con qualcuno in questo modo. Inoltre, a estraniarmi dagli altri, c’era anche il fatto che vivere con una data di scadenza ti faceva vedere le cose in modo un po’ diverso, rispetto a chi viveva nell’illusione di avere davanti a se un tempo infinito, facendoti avere priorità e desideri differenti. Eppure la verità era che camminavamo tutti su una corda tesa a parecchi metri dal suolo e che sarebbe bastato appena un colpo di vento per farci precipitare nel vuoto. Una realtà questa che pochi percepivano meglio degli altri, intuendo profondamente quanto fosse prezioso ogni singolo istante e ogni singolo respiro. Ora che non dovevo più mentire su niente potevo semplicemente lasciarmi andare e Iane e Rimet sembravano capirmi al volo su tutto. Era incredibile il senso di pace che questo riusciva a conferirmi.
Il posto dove ero cresciuta non era poi tanto dissimile da quello dove si trovava la casa di Rimet: nella tranquillità della campagna, lontano da tutte le regole dell’alta società. Noi due avevamo avuto un’infanzia abbastanza simile, famiglia numerosa a parte. Iane invece era stato cresciuto come tutti i figli dei nobili: etichetta e rigidità. Non mi sorprendeva che si trovasse così a suo agio con Rimet, con lui poteva abbandonarsi ed essere semplicemente se stesso. Le confidenze più personali vennero fuori una sera in cui sospettai, quando ormai fu troppo tardi, che Rimet avesse corretto il sidro con qualcosa di un po’ più forte. Iane mi raccontò di essersi sottratto a un matrimonio combinato tre anni prima. I suoi genitori, che gli erano molto legati, non erano contenti della sua scelta di seguire una carriera militare e avevano cercato di incastrarlo perché lasciasse il palazzo, si sposasse e si trasferisse ad amministrare di persona i possedimenti che gli avevano lasciato in eredità. Si era rifiutato persino di conoscere la sua promessa sposa, ma i preparativi per le nozze erano continuati ugualmente. Speravano che alla fine si sarebbe piegato ai voleri della famiglia. Il giorno delle nozze l’avevano letteralmente trascinato in chiesa, ma una volta lì, lui si era semplicemente scusato con il sacerdote e con la futura sposa e se ne era andato nello sconcerto generale. Suo padre non gli aveva rivolto la parola per mesi, ma alla fine si erano riappacificati e da allora i suoi familiari avevano rinunciato a fargli qualsiasi tipo di pressione, lasciandolo libero di decidere della sua vita. Scoprii, con mia grande sorpresa, che Rimet invece era stato fidanzato almeno una mezza dozzina di volte con ragazze disperse per tutto il paese. Immancabilmente però, alla fine, troncava tutte le relazioni quando queste diventavano troppo serie. Non lo avevo fatto un simile dongiovanni. Appena iniziò a elencarle come se fossero trofei di battaglia e a fare la lista dei loro pregi, che avrebbe voluti riuniti in una sola donna, mi accasciai con la testa sul braccio destro che avevo disteso lungo la tavola, perché non ero più in grado di tenerla sollevata. Iniziai a osservare il bicchiere che avevo nella mano sinistra, facendolo roteare lentamente. Mi pareva che le palpebre fosse diventate di piombo. In quel momento persi completamente il filo del discorso, la mente iniziò a vagare in un guazzabuglio di pensieri incoerenti e non ebbi più alcun dubbio che, quello che avevo appena bevuto, non fosse del semplice sidro. Maledetto Rimet… A un certo punto, non saprei dire se fossero passati pochi secondi o molte ore, mi sentii sollevare e lo udii scusarsi con Iane, circa il non sapere che non avrei retto qualcosa di leggermente più alcolico, ma dal tono della voce sembrava decisamente più divertito che dispiaciuto. Per quel che riuscii a connettere meditai di fargliela pagare il giorno seguente o quanto meno di tenergli il muso. Iane mi portò in camera mia. Sapevo che era lui, perché anche se avevo gli occhi chiusi e non riuscivo ad aprirli, lo riconoscevo dal suo profumo. Mi faceva pensare all’incontro perfetto tra l’odore di un bosco dopo la pioggia e la freschezza della sera. Mi adagiò delicatamente sul letto e toltemi le scarpe mi coprì con le coperte. Pensai che se ne fosse andato, ma mentre sprofondavo sempre più nell’incoscienza sentii il materasso cedere vicino al mio viso sotto il peso di qualcun altro e, un attimo dopo, le sue morbide labbra che si posavano sulla mia fronte, trattenendosi per qualche secondo su di essa. Dopo essersi risollevato lasciò la stanza, chiudendo la porta dietro di sé. Il giorno seguente mi sarei sentita scombussolata almeno per un paio di motivi. Di tutte le cose di cui parlammo, sebbene fosse sempre ben presente nella mia mente e a volte faticassimo a girarci intorno, non lo facemmo mai apertamente di Deam, né della battaglia che ci attendeva. Quel giorno sarebbe arrivato ugualmente. L’ultima sera che passammo alla fattoria, la consapevolezza dell’imminente scontro ci tenne alzati fino a tardi. Come se volessimo, restando svegli, rimandarne l’arrivo. Restammo seduti in cucina, finché Iane, mettendosi in piedi, non ci convinse che era meglio andare a riposare. Mi alzai dalla sedia, tuttavia le gambe non vollero saperne di muoversi. Ero troppo agitata. Non volevo restare da sola. Rimet si diresse verso la sua stanza seguito da Iane, ma io rimasi ferma, con gli occhi fissi sul pavimento. Poco dopo Iane tornò indietro, portandosi davanti a me. Mi prese per mano e senza dire niente mi trascinò dietro di sé nella loro camera. Nella stanza c’erano due letti a una piazza e mezzo, separati da un alto comodino e da un tappeto ricamato. Sulla parete di destra era posato un grosso armadio in legno massiccio. Su quello di sinistra una
cassettiera dello stesso stile. Ai lati dei letti ricadevano da delle aste, appese poco al di sotto del soffitto, due lunghe tende dorate, che probabilmente nascondevano la presenza di altrettante finestre. Quando Rimet mi vide sollevò le sopracciglia scrutando Iane in modo interrogativo. «Resta con noi ancora per un po’», gli disse quest’ultimo. Ero terribilmente imbarazzata, ma Rimet, sedendosi ai piedi del letto di sinistra, batté una mano sul materasso, invitandomi ad accomodarmi con un sorriso. Iane mi lasciò e io andai a sedermi, appoggiandomi con la schiena alla testiera, mentre lui si sistemava allo stesso modo dalla parte opposta alla mia. I ragazzi presero a raccontare aneddoti, cercando di distrarmi e man mano che il tempo passava i nostri corpi stanchi scivolarono sempre di più lungo il letto, finché la conversazione non si fece sempre meno brillante. Non saprei dire in che momento esatto mi addormentai. Quando mi svegliai la stanza era debolmente illuminata dalla luce che filtrava attraverso le pesanti tende. Ero sdraiata sulla spalla destra. Iane era addormentato, adagiato su quella sinistra davanti a me. Il nostro viso a pochi centimetri di distanza. Con un braccio mi cingeva il busto, mentre dell’altro, piegato tra di noi, gli tenevo la mano con le dita intrecciate alle mie e il dorso appoggiato al mio petto. Rimet invece era sdraiato dietro di me, con la fronte contro la mia schiena. Mi resi conto di quanto avessimo tutti bisogno del conforto che il contatto fisico riusciva a donarci, ma soprattutto di quanto intenso fosse diventato il mio affetto per loro. Ero terrorizzata dall’idea della battaglia e del pericolo che rappresentava per la loro vita. Avrei voluto solamente tenerli lontani, al sicuro, protetti da qualsiasi minaccia. Pensai di alzarmi e partire alla volta del castello da sola, ma sapevo che non me lo avrebbero mai perdonato. Iane aprì lentamente le palpebre. Sul primo momento sembrò sorpreso di trovarmi davanti a sé, ma poi si rilassò. Rimanemmo sdraiati, guardandoci negli occhi, senza dire una parola. Comunicandoci attraverso i nostri sguardi quello che le bocche non sarebbero mai state sufficienti per esprimere. Strinse sulla mia mano le dita della sua, che gli tenevo stretta vicino al mio cuore e ci perdemmo uno negli occhi dell’altra, consci che, comunque andassero le cose quella notte, un momento così non si sarebbe mai più ripetuto. Poi Rimet si svegliò, bofonchiando qualcosa di poco comprensibile. Io e Iane sorridemmo. Il momento era passato. Ci separammo, alzandoci dal letto. Era giunto il momento di prepararsi per la battaglia. Era giunto il momento per me di riprendermi Deam o morire nel tentativo.
Capitolo 18
Nei giorni precedenti, la madre di Rimet era riuscita a procurarmi, secondo le istruzioni del figlio, dei vestiti con cui potessi muovermi agevolmente e di una tinta adatta a spostarsi nella notte. Una maglia, una giacca a collo alto, dei pantaloni e degli stivali che arrivavano sotto al ginocchio, tutti completamente neri. Mi sembravano un brutto presagio di lutto, ma li indossai. Legai i capelli in una lunga treccia perché non mi fossero d’impiccio. Misi a tracolla la faretra con le frecce e l’arco. Infine allacciai il fodero contenente la spada alla vita. Tutte quelle armi addosso mi parevano un po’ d’intralcio, ma, anche se non sapevo se avrei mai avuto il coraggio di usarle, le avrei comunque portate con me. Lasciai la mia stanza e scesi in cucina. Iane e Rimet mi stavano già aspettando davanti all’ingresso. Indossavano degli abiti identici ai miei. Iane venne verso di me ed estrasse da una custodia un piccolo pugnale con una gemma rossa incastonata nell’impugnatura. «Vorrei che lo portassi con te. Potrebbe servirti». Lo rimise nel fodero e, inginocchiandosi, me lo infilò nello stivale destro. «Non si sa mai», disse, rimettendosi in piedi. Io gli sorrisi. «Bene, diamoci una mossa», esclamò Rimet. Uscimmo dalla casa. Riza e sua madre aspettavano vicino a tre cavalli sellati e pronti per partire. Le salutai e le ringraziai dell’ospitalità. Riza mi abbracciò forte e io ricambiai la stretta. Iane si congedò a sua volta e Rimet fu preso in ostaggio dalle braccia della madre, cosa che lo mise visibilmente in imbarazzo. Dal
resto della famiglia ci eravamo già accomiatati la sera precedente, così, una volta terminati i saluti, saltammo in sella e ci avviammo lungo il sentiero al galoppo. Avevamo appuntamento con gli altri quattro cavalieri, che si sarebbero introdotti con noi all’interno del palazzo, in una piccola cascina abbandonata, sul limitare della città del sud. Visto che non potevamo sapere con esattezza da che distanza Deam potesse avvertire la mia presenza, saremmo entrati nella capitale solo quando fosse giunto il momento dell’azione. Arrivammo nel luogo dell’incontro nel tardo pomeriggio. Gli altri cavalieri erano già lì ad attenderci. Avevano più o meno la stessa età di Iane e Rimet ed erano abbigliati in modo simile al nostro, nello stesso colore cupo. Passammo le ore successive definendo gli ultimi particolari del piano, intorno a un tavolo tarlato e traballante. Non furono contenti quando Iane comunicò loro che, una volta trovato il re, non avrebbero potuto attaccarlo subito perdendo il vantaggio dell’effetto a sorpresa. Avrei avuto qualche minuto per parlare con lui. Ciononostante, se Deam avesse provato solo ad alzare un dito, qualsiasi tentativo sarebbe stato perso e i cavalieri gli si sarebbero scagliati contro. Mi sentivo sempre più agitata. Stavo puntando tutto sulla vaga possibilità di poter raggiungere il suo cuore attraverso delle semplici parole. Se non ci fossi riuscita la colpa sarebbe stata soltanto mia, ma il mio fallimento avrebbe decretato la morte di Deam o quella dei miei amici e dei loro compagni. Quando mancava solo un’ora alla mezzanotte la tensione ormai mi attanagliava le membra. Iane incitò tutti a mettersi in marcia. Saremmo saliti al castello a piedi, cercando di passare il più possibile inosservati. Le strade della città erano buie e quasi completamente deserte. Lungo le vie incrociammo solo un paio di avventori che uscivano da un’osteria completamente ubriachi. L’aria di festa, che aveva animato la capitale nelle settimane precedenti a quello che sarebbe dovuto essere il giorno del mio matrimonio, era completamente sparita. Più ci avvicinavamo al palazzo, più mi capitava di scorgere altre figure, che, come noi, si muovevano cercando di mantenersi nell’ombra. Dovevano essere i soldati dei nobili intenti a radunarsi nei pressi delle porte del castello. Una volta giunti alle mura, camminammo rasentando l’alta parete di pietre, fino ad arrivare sotto a uno dei quattro bastioni. «Ora aspettiamo che si aprano le danze», disse Iane. Non dovemmo attendere molto. Poco dopo sentimmo delle grida provenire da quello che doveva essere il cortile che conduceva all’accesso principale del palazzo e ben presto si levò una vera baraonda di urla, accompagnata dallo stridio metallico prodotto da lame che cozzavano tra di loro. Era iniziata. Avevo il cuore che batteva frenetico nel petto. La situazione mi sembrava completamente irreale. Dovevo cercare di rimanere concentrata, altrimenti avrei finito per credere di trovarmi solo in un brutto sogno. Aspettammo ancora qualche minuto, poi Iane disse: «Ormai, se tutto è andato secondo i piani, saranno riusciti a entrare anche dalla porta ovest. Le forze del castello saranno tutte concentrate per fermare gli attacchi, ma non abbiamo molto tempo prima che arrivino i rinforzi dall’esterno. Dobbiamo fare in fretta». Chiamò per nome due dei cavalieri, che prontamente puntarono verso l’alto delle balestre, caricate con degli arpioni assicurati a delle lunghe corde. Li scoccarono e questi si levarono nell’aria srotolando le funi dietro di loro, facendo sparire le cime sopra il bastione. I cavalieri tirarono le funi finché queste non si bloccarono e le strattonarono un paio di volte con forza, per assicurarsi che fossero ben fissate. Iane gli rivolse un cenno col capo e i due cavalieri presero a scalare le alte mura. Quando furono arrivati all’apice, anche i loro due compagni iniziarono l’ascesa. Conoscevo il piano molto bene, ma una cosa era pensare di scalare una parete di venti metri, un’altra era farlo davvero. Ogni volta che la guardavo mi sembrava sempre più alta. Come se d’incanto le si aggiungessero file e file di mattoni, facendola svettare sempre di più verso il cielo. Ero così tesa che temetti non sarei mai riuscita a convincere i muscoli ad assecondarmi. Iane dovette notare quanto fossi spaventata, perché mi girò verso di sé, mettendomi le mani sulle spalle. «Non ti preoccupare, ti aiuteremo noi. Non avere paura. D’accordo?», disse.
Annuii e lui dopo un attimo, presa una corda, si issò con agilità sopra il bastione. Arrivato in cima si sporse verso di noi e Rimet mi legò una delle due corde intorno alla vita, porgendomi quindi l’altra. «Tieniti con questa e mantieni i piedi ben puntati sulla parete. Per il resto ci penseranno loro. Sarai in cima prima che te ne accorga». Feci come aveva detto e subito mi sentii sollevare, mentre dall’alto tiravano la fune. Cercai di arrampicarmi, facendo forza anche con le mie braccia, per non gravarli di tutta la fatica. A tre quarti della salita improvvisamente sentii delle grida e Iane si sporse con la corda tesa tra le mani. «Aili, tieniti, dobbiamo mollare la presa», urlò. Strinsi forte l’altra fune, comunicandogli che avevo capito con un cenno della testa. Quando fu sicuro che mi stavo reggendo, lo vidi lasciare la corda e, girandosi di scatto, sfoderare la spada, portandola sopra alla testa per parare un colpo all’ultimo momento. Per il forte impatto, a cui non si era preparato, si trovò di schiena sul bordo del cornicione, sovrastato dalla lama dell’avversario che premeva sulla sua. Riuscì a spingere lontano il rivale e a rialzarsi, sparendo poi alla mia vista. Come avevano fatto a scoprirci tanto presto mi domandai? La corda legata alla mia vita, che ora pendeva mollemente dall’alto, iniziò a scivolare attirata dalla forza di gravità. Le diedi uno strattone per accertarmi che l’arpione fosse ancora agganciato. Fu una pessima idea. Non lo era affatto e un secondo dopo lo vidi rovinare verso di me. Cadde e mi passò esattamente tra le braccia e le gambe, sfiorando la mia testa per un soffio. Quindi la fune, completamente aggrovigliata, rimase a penzolare ingarbugliata, trattenendo l’arpione in aria, come un peso morto che mi tirava verso il basso. Tenendomi con una mano sola provai ad allentare il nodo che la ancorava al mio corpo. Pian piano cedette. Riuscii a scioglierlo e questa precipitò con il suo pesante pendente, liberandomi del suo carico. Sentii Rimet gridarmi qualcosa e guardai a terra, cercandolo con gli occhi. Mi si mozzò il fiato. Deam era alle sue spalle. «Rimet, dietro di te!», gridai. Cercò di voltarsi, portando nel contempo una mano sull’elsa della spada, ma non fece in tempo, Deam lo scaraventò violentemente contro il muro. Lui batté duramente la testa contro la pietra e si accasciò a terra privo di sensi. Ecco perché avevano saputo di noi tanto in fretta, Deam era riuscito ad avvertire la mia presenza anche a quella distanza. Il piano era fallito quasi prima di cominciare. All’improvviso Deam scomparve, per riapparire un secondo dopo in cima al bastione, vicino alla corda a cui mi sorreggevo per impedirmi di sfracellarmi al suolo. Lo vidi sgomenta afferrare la fune e, sollevandola, sganciare l’arpione. Pensai che l’avrebbe lasciata andare per farmi cadere. Con il cuore in gola cercai velocemente un appiglio con la mano destra sulle pietre. Percepii con le dita un piccolo scanso e mi ci aggrappai. Trovai subito anche un appoggio con le punte dei piedi. Spostai il peso sulla parte destra del corpo e appiattendomi contro il muro lasciai la presa sulla corda anche con la mano sinistra. Tastai per trovare un punto dove sorreggermi pure con quella, ma la parete sembrava completamente liscia. Adesso non c’era più niente che mi impedisse di non schiantarmi dopo un volo di quindici metri. Premuta contro il muro alzai il viso. Deam doveva aver lasciato ricadere l’arpione ai suoi piedi, perché la corda pendeva ancora dall’alto, ma lui era impegnato a parare un fendente con la sua spada di fuoco. La fune distava ora più di un metro da me. Non c’era modo ch’io potessi scalare la parete, né ridiscenderla. Ero bloccata. Chiusi gli occhi con il viso appoggiato alla dura roccia, cercando di calmare il respiro concitato e non andare in iperventilazione per il terrore. Prendendo coraggio mi girai verso la corda. Non potevo essere sicura che l’arpione si fosse riagganciato stabilmente e forse era troppo lontana perché riuscissi a raggiungerla, ma ci dovevo provare ugualmente, era la mia unica possibilità. Allungai una mano verso di lei, tendendomi più che potevo. Serrai i denti. Poi un piede scivolò facendomi perdere aderenza anche con l’altro. Urlai, trovandomi appesa con una mano sola. Cercai disperatamente di ritrovare un appoggio, uno qualsiasi, mentre nel panico sentivo le dita della mano destra scivolare lentamente. 'Dio, sto per cadere', pensai.
«Aili, la corda!». Guardai verso di lei, la fune ora era più vicina. Rimet si era ripreso e la teneva tirata dal basso, cercando di portarla più prossima a me. Al secondo tentativo riuscii ad afferrarla, giusto un secondo prima che la mano destra scivolasse del tutto. Mi aggrappai forte con entrambe le mani, stringendo la corda anche con le gambe e rimasi un momento appesa, ansante, tentando di calmare i battiti accelerati. Poi portai l'attenzione verso l’alto. Non vedevo nessuno, ma potevo sentire i rumori dello scontro. Pensai a Deam. Tutto il piano sembrava ormai perso, ma potevo ancora raggiungerlo. C’erano solo cinque metri a dividermi dall’apice del bastione. Dovevo farcela assolutamente. Aprii le gambe, puntai i piedi sul muro e iniziai a sollevarmi, facendo forza sulle braccia. Udii Rimet gridarmi qualcosa dal basso, ma non capii cosa stesse dicendo, nelle orecchie sentivo solo il pulsare frenetico del mio cuore per lo sforzo e la tensione. Era più faticoso di quanto sembrasse, soprattutto con il peso delle armi che mi appesantiva. Mentre portavo un piede verso l’alto, l’altro, con cui mi tenevo appoggiata, scivolò e io finii addosso al muro sbattendo la faccia, le braccia e il petto. Dopo un secondo di scoramento cercai di rimettermi in posizione per riprovare a salire. Riuscii lentamente ad arrampicarmi. Il corpo ricoperto di sudore. A un metro dalla cima vidi Iane sporgersi trafelato dal cornicione. Quando mi scorse il sollievo gli percorse il viso. Allungò una mano verso di me e io l’afferrai. Mi aiutò a issarmi fino alla vetta. Una volta posati i piedi al di là del cornicione sentii le gambe venire meno e mi ritrovai seduta a terra col fiatone e un leggero tremore che mi percorreva tutti gli arti. Iane si chinò accanto a me, e mi appoggiò sulla schiena la mano con la quale non brandiva la spada. «Aili, mi dispiace. Stai bene?». «Sì», risposi. Non lo guardai in faccia, con gli occhi scrutai il bastione alla ricerca di Deam, ma non lo trovai da nessuna parte. Vidi gli altri quattro cavalieri. Erano radunati intorno all’accesso, impegnati a fermare l’avanzata delle guardie che cercavano di salire per la stretta scala che, dalle stanze interne, conduceva alla cima sulla quale ci trovavamo noi. A terra, constatai con sconcerto, c’erano alcuni soldati immobili. Sperai fossero ancora in vita. «Riesci a rimetterti in piedi?», mi chiese Iane sollevandosi. Non feci in tempo a rispondere, perché di colpo Deam ci apparve davanti. Lui e il cavaliere alzarono in contemporanea le loro lame, che cozzarono violentemente sopra le loro teste. Deam spinse Iane con uno strattone facendo forza sulla spada e quest'ultimo dovette indietreggiare di un paio di passi prima di ritrovare l’equilibrio. Bastarono quei pochi secondi per permettere a Deam di chinarsi verso di me e afferrarmi per le spalle. Appena mi toccò tutto intorno a noi iniziò a ondeggiare, come se ogni cosa fosse composta solo di fumo o acqua increspata, offuscata da un velo di oscurità. Sapevo cosa stava accadendo. Mi ero già spostata nelle ombre insieme ad Alect. Per Iane invece dovevamo essere spariti nel nulla.
Capitolo 19
«Alzati», disse Deam. Non riuscii a muovere un solo muscolo, troppo scioccata di averlo improvvisamente così vicino a me. Ero incapace di staccare gli occhi dal suo viso. Passò un braccio intorno alla mia vita e mi sollevò da terra. Fece un semplice movimento con i piedi e ogni cosa prese a oscillare vorticosamente. Durò solo un istante, poi tutto si fermò e vidi che eravamo all’interno del castello, in cima a una delle torri dell’ala settentrionale. Deam mi lasciò andare, si girò e si allontanò da me. L’ambiente era un'unica grande stanza circolare completamente spoglia, con il pavimento in marmo e il tetto coniforme che svettava altissimo sopra le nostre teste. Vi si accedeva attraverso una porta
che lo collegava alla vicina torre gemella, oppure da uno stretto ingresso che portava a una lunga rampa di scale. Una parete del corridoio di accesso era interamente composta da grandi archi, che si aprivano sull’esterno su un minuscolo balcone di appena cinquanta centimetri di larghezza, contornato da una balaustra troppo bassa per fornire una reale protezione dal vuoto sul quale si affacciava. La sala era illuminata da diverse torce agganciate ai muri da dei montanti in ferro. Anche da lassù si poteva sentire il suono della battaglia che imperversava dentro la cinta del palazzo. Deam si portò al centro della stanza, quindi si voltò verso di me. Avevo il cuore che martellava nel petto. Anche se potevo vedere la sua espressione fredda e distaccata, mi era difficile mantenere il controllo e non correre da lui per buttandogli le braccia al collo e stringerlo a me. «Se sei venuta qui con lo scopo di uccidermi, devo darti una brutta notizia», disse. «Ma prima dimmi, dieci giorni fa il mio tentativo di eliminarti era andato a buon fine, non è vero? Sei morta, ma in qualche modo poi sei tornata in vita». «Come fai a saperlo?», domandai, sorpresa. «Perché a quanto pare mia madre si sbagliava. Il nostro legame non si spezza affatto con il decesso di uno dei due. Dopo averti fatto cadere nel fiume sotterraneo sono tornato immediatamente a palazzo, ma una volta lì il mio cuore si è fermato. Mi sono risvegliato a terra qualche minuto più tardi, con il cuore che batteva nuovamente. Se uno di noi due muore, sembra che lo stesso destino tocchi anche all’altro». Rimasi senza fiato. Lui continuò a parlare. «Dopo aver realizzato cosa fosse accaduto, ti ho cercato per giorni, ma poi ho pensato che, visto quell’incontro con i nobili per cospirare contro di me, prima o poi saresti stata tu a venire al castello. Questo però cambia un po’ le cose, no? Volevamo eliminarci a vicenda per avere il trono, ma ora…». «Di cosa stai parlando? Io non l’ho mai voluto e tu dovresti saperlo», ribattei. «Ah no? E allora cosa ci fai qui stasera con questa ridicola armata? Sappi che non lascerò in vita nemmeno uno dei tuoi compagni». Il cuore saltò un battito e strinsi le mani a pugno lungo i fianchi. «Se quello che dici è vero, perché prima hai cercato di farmi precipitare dal bastione?», chiesi. «C’è stato un fraintendimento, volevo solo issarti per metterti al sicuro… Beh per mettere me stesso al sicuro, in verità. Capirai che con questi nuovi sviluppi non posso permetterti di mettere a rischio la tua vita, né tanto meno di andartene da qui». «Cosa vorresti dire?». «Che da ora in poi resterai a palazzo. Ti soggiogherò. Così potrò controllarti a mio piacimento e allo stesso tempo tenere al riparo il nostro cuore, almeno finché non scoprirò se c’è un modo sicuro per liberarmi di te senza morire io stesso». «Vuoi farmi la stessa cosa che il mago ha fatto a tua madre?», chiesi, con una fitta allo stomaco. «Se con mia madre ti riferisci alla vecchia regnante, allora sì, è esatto», rispose. Niente più di questo avrebbe potuto mostrarmi quanto il cuore di Deam fosse avvolto dalla tenebra. L’asservimento di sua madre al mago era il motivo principale che gli aveva fatto odiare con tutto se stesso la magia e chi la usava. E ora lui progettava di assoggettare me. Deam era la persona più altruista che avessi mai conosciuto, se continuava su questa strada la sua stessa anima avrebbe finito col lacerarsi. Pregai di riuscire a trovare le parole per arrivare fino al suo cuore e riportarlo indietro. Mi spostai al centro della stanza. Deam mi osservava diffidente, con gli occhi ridotti a due fessure. Quando gli fui davanti lo presi per le mani, anche se le mie tremavano leggermente per la tensione e lo guardai negli occhi. Dentro ero un miscuglio di sentimenti che faticavo a contenere: angoscia per la paura di fallire, terrore all’idea di perdere tutto per sempre e amore sconfinato per quel ragazzo così giocato da un avverso destino. Non ero brava con le parole come lo era lui, ma provai a comunicargli tutto quello che sentivo. «Ti amo. Ti ho amato praticamente dal primo momento che ci siamo incontrati. Mi manchi da morire. Ti prego torna da me. Sono sicura che puoi scacciare la tenebra che avvolgono il tuo cuore. Non lasciarti andare
alla disperazione. Reagisci. Non è troppo tardi. Qualsiasi cosa ti spaventi ci sarò io con te, l’affronteremo insieme». Per un momento nei suoi occhi vidi accendersi una luce e sperai di essere riuscita a fare breccia fino al suo cuore, ma un secondo dopo furono avvolti da un velo di oscurità. Deam aggrotto le sopracciglia e prima che potessi dire altro, liberandosi dalla mia presa, mi afferrò il volto con una mano e me la premette sulla bocca. «Cosa credi di fare?». Mi spinse all’indietro, scaraventandomi a terra. L’impatto col pavimento fu doloroso. Sbattei la testa e per un momento rimasi intontita. Alla schiena sentivo una fitta lancinante, perché ero caduta sull’arco e sulla faretra che portavo a tracolla. Cercai di girarmi sul fianco destro e mi issai con le braccia, mettendomi seduta. «Non posso ucciderti, ma niente mi impedisce di farti del male se provi a ostacolarmi», disse. Sentii il panico e la disperazione dispiegare freddi tentacoli dentro di me. «Deam, ti scongiuro», implorai. «Avevi detto che mi amavi, allora dimostramelo. Lotta per me. Reagisci per me», gridai. Deam mi tirò uno schiaffo talmente potente che mi rimandò distesa a terra con metà faccia in fiamme e per poco non persi conoscenza. Avvertii in bocca il sapore del sangue e ne vidi alcune gocce cadere al suolo. Il labbro inferiore pulsava e bruciava, doveva essersi spaccato. Non riuscivo a crederci. Non stava funzionando. Non stava funzionando per niente. Cos’altro potevo fare? Dovevo pensare a qualcosa, cercando però di evitare che nel frattempo lui mi riducesse a pezzi. Ansante mi rimisi in piedi. Tamponai la bocca con una manica, ma non servì a molto, un secondo dopo percepii il sangue scivolare dal labbro, giù, lungo il mento. Sfoderai la spada e la impugnai davanti a me, brandendola con entrambe le mani. Provai a escogitare qualche buona idea, ma trovai solo il vuoto. 'Dio, ti prego', innalzai una supplica, angosciata. Deam fece una versione crudele e distorta del suo sorriso sghembo. «Prima parli di amore e poi mi punti addosso un’arma?». Nella sua mano destra apparve la sua lama di fuoco. La alzò e la calò con forza sulla mia. Strinsi più che potei le mani sull’elsa, ma quando le due armi impattarono, non riuscii a reggere il colpo. La spada sfuggì alla mia presa, volando in aria e atterrando a parecchi metri di distanza. La guardai costernata, con i polsi doloranti. Pensai a Rimet. Era stato davvero ottimista, non ero durata nemmeno un secondo, figuriamoci due. Indietreggiando da Deam cercai, agitata, di prendere velocemente l’arco. Lo afferrai e incoccai svelta una freccia, ma non ebbi il tempo di esercitare la trazione per tendere la corda, perché lui con un gesto repentino me lo strappò dalle mani. Mi sottrasse anche la faretra e lanciò il tutto lontano da noi. Ora non avevo più nulla con cui riuscire a tenerlo a distanza. Tutto il mio allenamento non era servito a un bel niente. «Abbiamo finito di giocare?», gridò. Sobbalzai, quindi, spaventata, scattai verso sinistra con l'intenzione di scappare, ma Deam mi agguantò per un braccio e con uno strattone mi sbatté contro il muro. Per il colpo scivolai con i piedi e mi ritrovai seduta a terra. Lui si chinò davanti a me e mi prese con forza il viso tra le mani, bloccandomi. «Sarà questione di un attimo. Poi non sentirai più niente. Ti sembrerà di vivere in un sogno da cui non ti potrai svegliare», disse. «Adesso guardami bene negli occhi». «No!», gridai terrorizzata. Provai a respingerlo agitando le braccia e le gambe con movimenti scomposti. Deam mi sbatté violentemente lil capo contro il muro e per un momento vidi tutto nero. Poi la vista tornò, offuscata solo da un velo di lacrime. Ma rimasi frastornata, con un accenno di nausea alla bocca dello stomaco e incapace di comandare a dovere il mio corpo. Avevo fallito. Fallito. Fallito miseramente, mi ripetei più volte. Mi avrebbe soggiogata e ci saremmo smarriti tutti e due. «Deam, non farlo. Io ti amo», sussurrai in modo appena percettibile. «È la tua sfortuna», disse lui. «Ora lasciati andare».
Non riuscii a non guardarlo negli occhi e i suoi incatenarono i miei. Sentii subito la mia mente ottenebrarsi, come se pian piano venissi cancellata. Rilegata in un angolo. Reclusa in una cella ovattata per la mia coscienza. Nell’intorpidimento generale però all’improvviso vidi un’immagine: il pugnale di Iane con la gemma rossa incastonata nell’impugnatura. Tentai di alzare la mano destra. Ci riuscii sebbene sembrasse pesantissima e cercai la lama con le dita all'interno dello stivale. Ne sentii l’elsa con i polpastrelli dell’indice e del medio. Lo afferrai e lo sfilai lentamente. Deam, troppo concentrato a impossessarsi della mia mente, non si accorse di nulla. Una volta estratto, strinsi il pugnale nella mano tremante, che quasi non percepivo più come mia. Pensai a quello che Deam aveva fatto a una bambina indifesa come Riza. Alla morte che progettava per i miei amici, al dolore che avrebbe potuto infliggere a tanti altri innocenti. Rimet aveva ragione, se Deam fosse stato in sé sarebbe morto piuttosto che essere un pericolo per altre persone. Alla fine non ero riuscita a essergli di nessun aiuto. Il tempo che avevamo avuto per stare insieme era durato solo un battito d’ali, eppure per me aveva significato tutto. Gli dovevo tutto. La mia stessa vita gli era appartenuta dal primo respiro che avevo preso in questo mondo. Se non potevo risvegliarlo, per lui potevo fare almeno questo e sottrarre la sua dolce anima dalla distruzione verso cui la stava portando. Avevo desiderato con tutte le mie forze riaverlo indietro. Aprii la bocca per cercare aria, mi sembrava di soffocare. Avvertii una lacrima scorrere lungo una guancia. Poi, prima che fosse troppo tardi e non fossi più padrona di me stessa, sollevai la lama e con tutte le forze che avevo me la conficcai nel petto fino al cuore. Il dolore divampò, dirompente, impossessandosi di tutte le mie membra come fuoco vivo che mi divorava dall’interno. Deam sgranò gli occhi, esterrefatto, e un secondo dopo vidi in loro sparire ogni traccia di tenebra. ‘Che ironia’, pensai, ‘presi in giro dal destino fino alla fine’. Mentre il mio corpo scivolava con la schiena sulla parete, fino a trovare con la spalla e la testa il pavimento, lo vidi accasciarsi dalla parte opposta alla mia. Chiamai nella mente il suo nome un’ultima volta. Poi tutto sparì.
Capitolo 20
Aprii gli occhi. Sul soffitto a volta che mi sovrastava vedevo danzare delle luci dorate. C’era un dolce profumo di fiori e di quello che sembrava cera bruciata. Girai la testa. Accanto al mio viso erano posati dei crisantemi bianchi. Appoggiai le mani accanto al corpo e toccai qualcosa di soffice. Perplessa, mi sollevai per mettermi seduta. Indossavo un lungo abito bianco finemente ricamato e delle scarpe dello stesso colore. Sotto di me, il piano su cui mi trovavo era interamente ricoperto di candidi garofani, crisantemi e altre specie che non riconoscevo. Mi guardai attorno, c’erano candele accese ovunque. Non ci misi molto a capire, con un certo sconcerto, che mi trovavo in una cripta, seduta sopra una tomba funeraria. Guardai alla mia destra. Deam era sdraiato con gli occhi chiusi e le mani conserte sul corpo, in un letto di fiori rossi, su un alto sarcofago con delle intricate decorazioni in rilievo. Indossava un completo nero, dalla giacca a collo alto con la bordatura bordeaux e dei cordoncini dello stesso colore che, tesi tra i bottoni, la tenevano chiusa sul davanti. Lo osservai smarrita e disorientata. Finché non mi ricordai di colpo quello che era successo. Portai velocemente una mano sul cuore. Batteva regolarmente. Scostai il vestito per guardare il punto dove mi ero trafitta con la lama. La pelle era liscia e intatta. Non c’era nemmeno un piccolo segno. Mi misi in piedi e mi avvicinai a Deam. Il suo petto si alzava e abbassava a intervalli regolari. Gli posai una mano sul cuore e sentii il suo confortante palpitio. Eravamo sopravvissuti. Mi domandai come fosse stato possibile. Gli accarezzai la fronte, passando poi le dita tra i suoi capelli.
Lentamente lui schiuse le palpebre. Io trattenni il respiro. Sembrava solo spaesato e confuso, la tenebra pareva davvero averlo abbandonato. Spostò lo sguardo sul mio viso e avvertii sciogliersi dentro di me ogni tensione. Brillavano della luce che solo il suo animo possedeva. Non avevo idea di come fosse successo, ma era di nuovo in sé. Era di nuovo il mio Deam. «Ciao», lo salutai cercando di sorridere, mentre una lacrima mi rigava una guancia e mi trattenevo a stento dallo scoppiare in singhiozzi. «Ciao», disse lui. «Perché stai piangendo?». Mi osservò per un momento, poi all’improvviso spalancò gli occhi e si alzò di scatto a sedere stringendosi il petto. Si guardò intorno agitato, quindi posò gli occhi su di me, sgranati e pieni di angoscia. Allungai una mano verso di lui per cercare di calmarlo, ma si scostò lanciandosi giù dal sarcofago dalla parte opposta alla mia e si addosso alla parete. Portò le mani alla bocca, dunque si coprì il volto e si piegò in due. «Cos’ho fatto, cos’ho fatto», esclamò con la voce rotta dalla disperazione. Sentii una fitta al cuore e temetti potesse nuovamente rifugiarsi nelle tenebre per fuggire dal dolore e dal senso di colpa. Corsi da lui e gli posai le mani sulle spalle. Appena lo toccai si drizzò sussultando, finendo per sbattere la testa contro il muro. Era in affanno. «Deam, respira, è finita, è finita», dissi, prendendolo per le braccia. Lui mi guardò sconvolto, bianco come un cadavere. «Cosa ti ho fatto…», mormorò. Le gambe gli cedettero e crollò, scivolando lungo la parete fino al pavimento. Mi inginocchiai davanti a lui e lo abbracciai. Stringendolo a me. «Va tutto bene», dissi. «Ti prego, calmati». Lo baciai più volte tra i capelli. «Sono qui con te, sistemeremo tutto insieme», sussurrai, cullandolo dolcemente. Le braccia gli ricadevano inerti con il dorso delle mani appoggiato al suolo, come se non avesse più la forza o la volontà di muovere anche un solo muscolo. Dopo un po’ però lo sentii portarle intorno al mio corpo, prima toccandomi lievemente e con incertezza, poi con più decisione, fino a stringermi con forza a sé, affondando il viso sul mio petto. Chiusi le palpebre e ringraziai il cielo, forse il peggio era passato. Rimanemmo così a lungo, mentre io gli accarezzavo e baciavo il capo, con le lacrime che mi rigavano il viso. Finché, dopo molti minuti, pian piano il suo respiro si calmò, i tremori che gli scuotevano appena il corpo si placarono e sembrò tranquillizzarsi. Mi scostai leggermente e gli baciai la fronte, scendendo poi, seguendo la linea del suo viso, a baciargli una tempia, lo zigomo, la guancia; cercando contemporaneamente di sollevargli con una mano il volto verso il mio. Premetti le labbra vicino alla sua bocca e mi separai per guardarlo negli occhi. Erano socchiusi, arrossati e lucidi. Chiusi i miei e lo baciai sulle labbra. All’inizio fu un bacio dolce e delicato, ma poi inaspettatamente crebbe d’intensità, travolgendoci. Passai mani tra i suoi soffici capelli, sul suo collo, sulle sue spalle. Per un momento mi sembrò impossibile che tutto ciò fosse reale, che fosse davvero lì con me. Deam si sollevò senza staccare la sua bocca dalla mia e tenendomi per la vita mi fece sdraiare a terra, mettendo il suo corpo sopra al mio. Ci avvinghiammo sul pavimento di pietra, stingendoci l’uno all’altra, come se da questo dipendesse tutta la nostra vita. Avrei voluto poter fondere la mia anima alla sua per non doverlo mai più sentire in alcun modo lontano e tenerlo sempre con me. Quando separammo le nostre labbra, restammo a fissarci, ansanti. «Stai bene?», chiesi. Lui annuì lievemente. Chiuse le palpebre e appoggiò la fronte alla mia. Dopo un momento si sollevò in piedi e mi porse le mani per aiutarmi a fare altrettanto. Una volta alzata, il suo corpo distava dal mio soli venti centimetri, ma mi sembrarono già troppi. Dovette pensarla così anche lui, perché subito mi ristrinse a sé. «Come puoi perdonarmi?», domandò con il viso tra i miei capelli. «Ti amo», risposi. Mi baciò sulla testa. «Lo sai che siamo in una cripta funeraria?». Doveva essersi finalmente guardato bene intorno.
«Sì», risposi con il viso premuto contro il suo petto. C’erano delle domande alle quali non riuscivo a trovare risposta. «Come sei riuscito a tornare in te? E com'è possibile che siamo sopravvissuti?», chiesi, scostandomi per guardarlo. Deam mi afferrò per la vita, mi sollevò e mi fece sedere tra i fiori rossi, lasciando le sue mani sui miei fianchi. Divenne per un momento pensieroso. «I desideri e i sentimenti che si hanno, quando si ha a che fare con la magia, possono cambiare completamente il risultato finale delle azioni», affermò. «Cosa vuoi dire?», domandai. «Quando ti sei pugnalata nel tuo animo desideravi dissipare la tenebra che avvinghiava il mio cuore e così e stato. La punta della lama l'ha trafitta, dissolvendola, ma prima di sparire ha opposto resistenza, finendo per fare da barriera e impedendo al pugnale di uccidermi. Il tuo gesto non ha avuto esiti mortali su di me, il mio cuore è rimasto intatto, mentre il tuo no. Uno stesso cuore però non può essere sia una cosa che l’altra. Si è creata una dissonanza. Il mio si è fermato, ostacolato dalla lama conficcata nel tuo petto. Ma appena questa è stata rimossa, ha potuto riprendere a battere e ricominciando a pulsare in me, l’ha fatto anche in te, ristabilendo la natura del nostro legame, riportando in vita entrambi e risanando il tuo corpo per permettere che ciò avvenisse. Se ti fossi pugnalata provando odio verso di me e desiderando la mia morte, allora probabilmente ci avresti uccisi entrambi, perché le tenebre non avrebbero fermato la lama e il nostro cuore sarebbe stato trafitto sia in te che in me». «Ma io non ho nessuna capacità magica, come ha potuto solo un mio desiderio avere questo effetto», chiesi. «Sei legata a me da essa, o forse è bastata la forza dei tuoi sentimenti. La magia non è una scienza esatta. Viene condizionata da quello che proviamo, lasciando spazio a una miriade di variabili», rispose. Gli sistemai una ciocca di capelli dietro a un orecchio. «Alla fine il nostro legame non si rompe affatto con la morte di uno dei due. Tua madre si sbagliava». «Mhmm… Credo avesse sottovalutato quello che proviamo l’uno per l’altra e l’amore in generale. In verità ritengo si stesse mentendo su tante cose». «Di cosa parli?». «Ricordi quando ha detto che la mia magia ha unito il mio cuore al tuo per permettermi di sopravvivere e che non era stato l’amore a farlo, perché non aveva questo potere?». Annuii. Me lo ricordavo bene. La cosa in parte mi aveva ferito, perché io mi ero convinta del contrario. «Ora che comprendo meglio la magia e i suoi meccanismi, non penso affatto avesse ragione. Il mago stesso ce lo disse poco prima di morire. I sentimenti hanno davvero la capacità di interferire con lei e io comunque non ero assolutamente in grado di accedere ai miei poteri per farlo. Mia madre ha preferito credere in quello che voleva. Sperava fosse un segnale della magia dentro di me, ma si stava solo ingannando. Quello che è successo lo abbiamo fatto noi, insieme, perché ci amiamo». Abbassai la testa. «Però quello che provi per me non è stato sufficiente a riportarti indietro dalle tenebre», asserii mestamente. Doveva essere solo un pensiero, ma lo dissi a voce alta e quando me ne accorsi era ormai troppo tardi. Deam, mettendomi una mano sotto al mento, mi sollevò il capo per fare in modo che lo guardassi negli occhi. «Non ci sarei mai riuscito da solo e non perché non ti amo abbastanza, ma perché senza di te semplicemente mi mancano le forze. Quando mi hai parlato dei tuoi sentimenti sulla torre ho sentito la tenebra allentarsi, per questo ti ho impedito di parlare. Probabilmente, se non lo avessi fatto, saresti riuscita a risvegliarmi. Inoltre sebbene non potessi provare alcun sentimento consapevole nei tuoi confronti, il nostro legame, tramite il tuo cuore, ha dato forza al mio perché si opponesse ai miei tentativi di ucciderti. Potevo anche volerti morta, ma lui non mi permetteva di portare a compimento i miei propositi. Prima non ero in grado di capirlo, ma lo comprendo adesso». Mi accarezzò una guancia. «Non esistono parole per dirti quanto
mi dispiace». Misi la mia mano sulla sua e gliela spostai sulla mia bocca per baciargli il palmo. «La nostra vita continuerà a essere condizionata dalla magia. Questo non ti spaventa?», chiese. «No, io esisto grazie a lei, grazie a te». «Davvero non ti faccio nemmeno un po’ di paura per quello che sono… per quello che ti ho fatto?». Detestavo vedergli sul viso quell’espressione tormentata e colpevole. Avessi potuto, avrei fatto qualsiasi cosa per aiutarlo a sentirsi un po’ meglio, ma spettava a lui riuscire a perdonare se stesso. «Non ho paura di te», risposi, «ma ho un po’ di paura per te». Gli presi il viso tra le mani e lo baciai. Deam rispose con trasporto al mio bacio, ma quando mi accorsi che stavamo perdendo nuovamente il controllo, lasciandoci travolgere l’uno dall’altra, staccai con fatica le mie labbra dalle sue. Era giunto il momento di sapere cosa fosse successo al castello. «Dobbiamo far sapere che siamo vivi», dissi. Pensai a Iane e a Rimet, dovevo assicurarmi che stessero bene. «D’accordo». Si scostò e io mi rimisi in piedi. Poi, prendendoci per mano, andammo alla ricerca dell’uscita. Non ci mettemmo molto a trovarla. La cripta aveva il suo ingresso nel parco, vicino a una piccola cappella, lungo la stradina di ghiaia che delimitava il giardino sui due lati. Una volta fuori, fatti pochi passi, Deam si fermò guardando verso il folto degli alberi. Tra di loro riuscii a scorgere una parte della statua raffigurante la giovane ninfa nello spiazzo circondato dai salici. «Deam?», lo chiamai preoccupata. Lui rimase un attimo in silenzio con lo sguardo perso tra la vegetazione. «L’ho fatta seppellire nel cimitero del castello. Non per pietà. Non avevo idea nemmeno di cosa fosse. Ma solo per far togliere dal giardino il suo corpo. Non ho provato niente per la sua morte, non potevo, ma sai qual è la cosa più triste? Che a parte il rimorso per la mia azione, non provo niente nemmeno adesso. Non so come mi dovrei sentire». Non avevo idea di cosa rispondergli. Così non dissi niente, mi limitai ad abbracciarlo. Lui intrecciò le mani dietro alla mia schiena e posò il viso sulla mia testa. Dopo un minuto mi separai leggermente e lo guardai negli occhi. «Stai bene?», chiesi. «Sì», disse, mi baciò la fronte. «Andiamo a casa». Mi prese per mano e ci avviamo verso il castello. Mentre mi voltavo feci in tempo a notare di sfuggita che gli alberi sopra alla cripta erano pieni di boccioli. La cosa mi sorprese, perché ci stavamo avviando verso l’inverno e non era proprio stagione per la fioritura, ma lì per lì non ci feci caso più che tanto, perché venni subito distratta dal bagliore del sole che, superando le alte mura del palazzo, sorgeva luminoso su un nuovo giorno.
Capitolo 21
Scoprimmo che era l’alba di due giorni consecutivi alla notte della battaglia. Ci trovavamo in un salotto privato. La mia balia continuava a piangere e la madre di Deam, sebbene cercasse di controllarsi maggiormente, non era da meno. Il dolore per la nostra presunta perdita sembrava le avesse sfiancate, regalando a tutte e due qualche ruga e capello bianco in più. Quando eravamo entrati a palazzo la servitù, che era già sveglia, ci aveva guardato spaventata come fossimo due fantasmi, ma subito si era riscossa e avevamo incaricato una cameriera di svegliare le due donne, di modo che ci raggiungessero subito. L’attacco al castello si era concluso in fretta, con molti feriti, ma incredibilmente nessun morto. Vi avevano messo subito fine i rinforzi giunti dall’esterno, che avevano costretto gli assaltatori, di molto inferiori di numero, a deporre le armi e ad arrendersi. Non potei che tirare un sospiro di sollievo a questa notizia e avvertii che anche Deam si rilassava al mio fianco.
Le guardie ci avevano ritrovato riversi al suolo, seguendo sulla torre un piccolo gruppo che era riuscito a introdursi all’interno del palazzo. Con quattro di loro si erano scontrati lungo la rampa di scale che portava alla vetta. Erano riusciti a disarmarli e catturarli, ma quando erano giunti sulla cima, altri due, che erano loro sfuggiti, erano stati trovati prostrati al suolo accanto ai nostri cadaveri. Pensavano fossero stati questi ultimi a ucciderci, sebbene non ve ne fosse stata la certezza, perché i due non avevano pronunciato una singola parola da quando erano stati presi agli arresti. Non avevo dubbi su chi fossero quei due cavalieri. Mi si strinse il cuore. Non avevo pensato alla possibilità che fossero proprio Iane e Rimet a trovare per primi i nostri corpi esanimi. La madre di Deam aveva fatto incarcerare i nobili che avevano guidato l’attacco, in attesa di prendere una decisione su come fosse meglio agire. Aveva predisposto un campo per prestare le prime cure a chi avesse riportato delle ferite nello scontro e allestito la nostra camera ardente nella cripta funeraria. L’ultima parte la raccontò iniziando a singhiozzare e Deam si sedette accanto a lei, mettendole un braccio intorno alle spalle. Nei giorni precedenti lui l’aveva rinchiusa nelle sue stanze. Era stata una fortuna che non avesse visto in lei una possibile minaccia, limitandosi così a confinarla nei suoi alloggi privati. Se le avesse fatto del male non se lo sarebbe mai perdonato. Incaricammo dei cavalieri perché si recassero nelle varie città del regno a parlare alla popolazione per tranquillizzarla. Avrebbero raccontato che il re era stato assoggettato a un maleficio, dal quale si era ora liberato. Non avevano bisogno di sapere la verità, sarebbe stato troppo difficile da spiegare, l’unica cosa importante era fargli sapere che il principe che avevano tanto amato e nel quale avevano riposto le loro speranze, era tornato a essere se stesso. Ordinammo anche la scarcerazione dei nobili, ai quali sarebbe stata raccontata la stessa versione dei fatti. Oltre, chiaramente, al rilascio immediato dei miei amici. Deam, con gli occhi fissi a terra, a un certo punto accennò alle circostanze della sua nascita. Sua madre rivelò di essere stata a conoscenza di chi fosse in verità la sua vera madre, ma di averla creduta solo una veggente. Suo marito non le aveva mai raccontato che fosse in verità una maga, né tanto meno della caccia spietata che le aveva riservato dopo aver portato al castello il bambino in fasce. Sapeva solo che da quel momento in poi ogni contatto con lei era stato troncato e il re non si era più avvalso delle sue capacità. Aggiunse inoltre che mi aveva mandato apposta da lei, mentre Deam era privo di conoscenza sotto l’influsso dell’anello, pensando che non si sarebbe rifiutata di usare il suo dono per aiutare il figlio «Avrei dovuto dirtelo. Ho pensato tante volte di farlo, ma poi...», concluse, chinando la testa. Fu chiaro che Deam e sua madre avessero bisogno di un po’ di tempo per restare da soli, così io e la mia balia uscimmo dalla stanza, lasciandogli l’intimità di cui necessitavano. Prima di chiudere la porta li vidi girarsi l’uno verso l’altra e prendersi per le mani. Sorrisi. Sarebbe andato tutto bene. Rimasi per un po’ nella mia camera, seduta sul letto con la mia balia che non riusciva ancora a smettere di piangere e teneva il viso affondato in un fazzoletto completamente madido delle sue lacrime. Le accarezzavo la schiena cercando di calmarla, ma ormai l’urgenza di vedere Iane e Rimet stava diventando incontrollabile. Dovevo assicurarmi che fossero incolumi. Appena sembrò quietarsi, la obbligai a sdraiarsi sul letto, dicendole di riposare. Quindi uscii dalla stanza e richiusi piano l’uscio dietro di me. Corsi lungo il corridoio e giù dalle scale. Nel momento in cui stavo per svoltare nella seconda rampa, per arrivare al piano terra, udii delle voci. «Non possiamo lasciarvi passare, non è permesso ai cavalieri l’accesso al piano superiore, signore, lo sapete anche voi. Ci metterete nei guai». Girai l’angolo. Iane e Rimet stavano cercando di superare delle guardie alla fine della scalinata. Sentii un tuffo al cuore. Mi fermai e loro alzarono gli occhi verso di me. Il sollievo che vi lessi doveva essere la copia esatta di quello che c’era nei miei. Le guardie si fecero da parte e io azzerai la distanza che c’era tra di noi. Non aspettai nemmeno di arrivare all’ultimo gradino. Quando Iane aprì le braccia verso di me, gli lanciai le mie al collo. Mi prese al volo e tenendomi sollevata da terra mi strinse forte a sé. Non riuscivo nemmeno a immaginare cosa avesse provato trovandomi trafitta dalla stessa lama che mi aveva dato perché la usassi per proteggermi. «Sono stanco di vederti morire. Basta, non lo fare mai più», sussurrò tra i miei capelli.
«Mi dispiace», dissi, avvolta dal profumo dei suoi. «Perdonami. Non sono stato in grado di proteggerti». «Non lo dire nemmeno». Lo strinsi più forte. Restammo così ancora un momento, incapaci di separarci, poi lentamente mi rimise a terra e appena i miei piedi toccarono il suolo fui catturata dalle braccia di Rimet. «Questa ragazza ha sette vite come i gatti». Mi stritolò sul suo petto, fin quasi a farmi mancare il fiato. Pensai che sette vite mi sarebbero state effettivamente davvero comode. Una l’avrei persa nei seguenti due secondi, se non mi avesse permesso di tornare a respirare normalmente allentando la presa. Quando ci separammo li guardai. Sembravano distrutti, con i volti pallidi e gli occhi arrossati e stanchi. «Avete un aspetto orribile», dissi. «Grazie, per colpa di chi secondo te?», protestò Rimet, strofinandosi un occhio. «Mi dispiace di avervi fatto preoccupare». «Preoccupare è un eufemismo», disse Iane, «Stai bene davvero?». Mi sfiorò un braccio con le dita di una mano. Come se avesse avuto bisogno di assicurarsi che ero davvero reale e l’abbraccio di prima non gli avesse fornito prove a sufficienza. «Sì e voi?», domandai. «Solidi come una roccia», rispose Rimet con un largo sorriso. Avevo il cuore gonfio di gioia. Uscimmo nel parco e il sole ci scaldò nel suo tiepido abbraccio. Ci sedemmo sul prato e ci raccontammo quello che era successo da quando ci eravamo separati. Dopo che io ero sparita, Rimet aveva raggiunto i compagni ed erano riusciti a sbarrare l’ingresso al bastione, impedendo così alle guardie di arrivare alla cima, ma precludendosi in questo modo anche quella che sarebbe dovuta essere la loro unica via di accesso all’interno della cinta. Alla fine non era rimasta loro altra possibilità che calarsi nel parco, utilizzando le stesse corde con le quali si errano issati sulle mura, visto che, fortunatamente, Rimet aveva avuto la presenza di spirito di prendere con sé, prima di arrampicarsi, anche quella che io avevo lasciato ricadere al suolo. Una volta a terra erano stati costretti a ingaggiare nuovamente battaglia contro le guardie, ma erano riusciti a fuggire e a raggiungere la porta di servizio che i cavalieri alleati, secondo gli accordi, avrebbero dovuto far trovare loro aperta. Questi avevano portato a compimento l’incarico, perché la trovarono socchiusa, riuscendo così a penetrare nel palazzo. Gli chiesi come avessero saputo dove trovarci. Dissero che fu un’intuizione, da quando abitavano al castello non avevano mai visto quell’ala del palazzo illuminata. Si erano diretti lì, sperando che il loro presentimento fosse giusto. I loro quattro compagni erano rimasti indietro per rallentare le guardie, mentre loro erano corsi su per la lunga scalinata fino alla cima della torre. A quel punto Iane tagliò corto il racconto. Capii che il giorno precedente doveva aver rivissuto quella scena già fin troppe volte e non se la sentisse di farlo nuovamente, nemmeno adesso che la sua conclusione non si era rivelata così tragica come aveva creduto. Rimet indicò con un cenno del capo qualcosa alle mie spalle. «Allora, quanti secondi sei durata in combattimento contro di lui?». Mi voltai. Deam stava scendendo dalla gradinata del palazzo. Sentii subito il mio cuore volare nella sua direzione. «Perdonami, nemmeno un secondo», risposi con un sorrisetto di scuse. Rimet scosse la testa contrariato, portandosi una mano sulla fronte. «Lo dicevo che come spadaccina fai pena». «Veramente mi avevi detto che non ero poi male», replicai con voce lamentosa. «L’ho fatto solo per incoraggiarti, ma non ti preoccupare, possiamo sempre darti qualche altra lezione». Mimò con un braccio il movimento per effettuare una stoccata. Sorrisi, ma sperai che in vita mia non mi dovesse mai più capitare di dover impugnare una spada. Quando Deam fu quasi vicino a noi ci alzammo in piedi. «È tutto a posto con lui? Voglio dire: è tornato veramente quello di prima?», chiese Iane.
«Sì», risposi. Non avrei più permesso a Deam di cedere alla disperazione. Se ce ne fosse stato bisogno avrebbe sempre avuto me al suo fianco, pronta a sorreggerlo. Poi un giorno, sperai il più lontano possibile, avremmo lasciato questo mondo insieme, così come doveva essere, mano nella mano. «Sono felice per te». Lo disse con un sorriso gentile sulle labbra e io vidi che era sincero, ma non potei non scorgere, con una stretta al cuore, una punta di tristezza nei suoi occhi. «Grazie», dissi, guardando verso i miei piedi. Deam ci raggiunse e Iane spostò lo sguardo su di lui. «Sarai anche il re, ma se provi a farle del male un’altra volta, io ti uccido», dichiarò con durezza. «E io gli do una mano», aggiunse Rimet con assoluta leggerezza. Deam li scrutò per un secondo serio in volto. «Ci conto», rispose. Nessuno badò al fatto che se Deam fosse morto sarei perita anch’io, ma capii quello che volevano dire in realtà. Restarono a fissarsi finché Rimet non mise un braccio intorno al collo di Iane, spezzando la tensione. «Bene, noi ora abbiamo delle cose da fare. Per cui se volete scusarci…». Arretrò tirando l’amico con sé. I miei occhi e quelli di Iane si incontrarono e lui mi sorrise prima di essere trascinato via dal compagno. Li guardai allontanarsi nel parco. Vidi Iane dare una spinta a Rimet per staccarlo da sé, ma lui ritornò subito alla carica, mettendo un braccio a penzoloni sopra le spalle dell’amico e alla fine Iane lo lasciò fare. Sapevo che quello era il modo di Rimet per cercare di tirargli su il morale, ma in verità non avrei saputo dire chi dei due si sentisse più rincuorato dalla presenza dell’altro. Pensai che fossero davvero molto fortunati. Un’amicizia come la loro era un dono raro e prezioso ed era un sollievo sapere che Rimet non avrebbe permesso a Iane di essere troppo triste per me, né di esserlo troppo a lungo. «Ti sei fatta dei buoni amici… e forse anche qualcosa di più», disse Deam. Mi girai verso di lui. Li osservava con un’espressione indecifrabile sul viso. «Quando mi sentirò pronto ad affrontarlo, mi racconterai come hai passato queste ultime settimane?». Intrecciai una mano a una delle sue e lui mi guardò. «Sì, magari tra un po’», risposi. Lui fece un cenno di assenso con la testa. «Stavo andando al campo che hanno allestito davanti al castello, per vedere se hanno bisogno di aiuto con i feriti». «Posso venire con te?», domandai. «Certo», rispose. Non lo avevo ancora visto sorridere da quando era tornato se stesso. Mi chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto prima che il suo animo si alleggerisse almeno un po’. Sul prato antistante il palazzo avevano tirato diversi tendaggi come protezione dalla pioggia e dal sole e sotto di essi collocato molte brande e qualche giaciglio improvvisato. Erano diverse le persone rimaste ferite nella battaglia, ma fortunatamente nessuna di veramente grave. Se fossero stati curati a dovere e le ferite non si fossero infettate, sarebbero guariti tutti nel giro di poche settimane. Deam passò molte ore successive a controllare tagli, cambiare fasciature e preparare medicamenti. Io, che non ero pratica di medicina, mi limitai a passargli l’occorrente che gli serviva, quando me lo chiedeva. All’inizio, visti gli ultimi suoi trascorsi, alcune persone sembrarono in tensione per la sua presenza, ma ben presto si rilassarono e pian piano, affascinata, vidi medici e pazienti iniziare a gravitare attorno a lui, attirati dalla sua persona come astri intorno al loro sole. Mi chiesi se quel ragazzo si rendesse conto, anche solo vagamente, dell’attrazione che esercitava su chiunque gli stesse accanto. In più, con sollievo, mi accorsi che col passare del tempo anche lui sembrava rinfrancarsi dal poter essere di aiuto a qualcun altro. All’imbrunire ormai stanchi dopo una lunga giornata, io e Deam ci guardammo negli occhi e finalmente lui abbozzò un tenero sorriso.
Capitolo 22
Quella sera, dopo aver indossato una lunga camicia da notte dalle spalline sottili e una vestaglia, sgattaiolai fuori dalla mia stanza per andare in quella di Deam. Non volevo passare la notte lontana da lui, così percorsi il corridoio che divideva la mia camera dalla sua. Arrivai alla sua porta, l’aprii e mi infilai dentro di soppiatto, felice di non essermi imbattuta in qualche domestico nel tragitto. Mi guardai intorno e constatai con delusione che Deam non c’era. Il mio sguardo venne attirato dal suo scrittoio ingombro di libri. Spesso vi avevo visto posati sopra diversi testi di anatomia, medicina, storia e le più svariate discipline. Mi accorsi però che adesso tra di loro c’erano anche diversi manoscritti di magia. Mi avvicinai e presi a sfogliarne qualcuno. Erano molto antichi e tutti scritti a mano. Le pagine sottili erano fitte di caratteri e disegni abbozzati. Deam nei giorni precedenti doveva essere stato a casa della madre per prenderli. Ne avevo distrutto uno e ora nel castello ce n’erano almeno una dozzina. Non potevo evitare di sentirmi leggermente angosciata dalla loro presenza. Mi sembrava un rischio troppo grande. Non dovevano finire nelle mani sbagliate. Udii un rumore provenire dal balcone. Lasciai i libri sul tavolo. Andai verso la portafinestra e l’aprii. La luna era un grande disco circolare nel cielo e la sua luce illuminava ogni cosa, regalando riflessi argentati. Deam era seduto con una gamba leggermente alzata sul parapetto della grande terrazza che si affacciava verso il parco. Lo sguardo assorto, i capelli agitati da una leggera brezza. Sopra la sua mano destra, aperta verso il firmamento, un piccolo vortice faceva mulinare delle foglie, che scendevano e salivano, turbinando in un movimento rotatorio ipnotizzante. Avevo sempre pensato che Deam sarebbe stato un ottimo sovrano per il suo popolo, ma ora osservandolo, mi resi conto, non senza un po’ di soggezione, che con il suo animo e le sue capacità sarebbe potuto diventare il più grande re di tutta la storia. Quando si accorse di me, il vortice sparì e le foglie, non più sorrette dal vento, planarono silenziosamente a terra. Abbassò il braccio, lasciandolo ricadere lungo il fianco e si mise in piedi, rimanendo però appoggiato alla balaustra. Gli occhi gli si addolcirono e le labbra si incurvarono leggermente verso l’alto. Sentii una sensazione di vuoto nello stomaco e il cuore saltò un battito. Come riusciva con un solo sguardo a farmi sentire in questo modo? Come se il mio corpo fosse diventato di colpo non più pesante delle foglie che, pochi istanti prima, roteava nell’aria, dandomi l’impressione di essere io stessa sollevata a qualche centimetro da terra. Mi portai davanti a lui e intrecciai le mani dietro alla sua schiena per cercare di ancorarmi al suolo. Lui mi posò le sue sulla vita. «Stavo pensando di venire io da te», disse. «Ti ho preceduto». Sorrisi. «Allora riesci a usare la magia ancora adesso». «Sì, una volta che sono stato libero di accedervi e ho compreso come fare… Ora è semplice, mi sembra solo una cosa naturale che fa parte di me. I sentimenti rendono solo più complesso governarla». Mi avvicinò di più a sé. «Deam, quei libri di magia nella camera, non credo dovrebbero stare qui. Non mi sembra prudente». Lui ci pensò un momento. «Va bene, li riporterò nella casa di mia madre. A quanto sembra la magia di un naturale non si interrompe con la morte. Le difese dell’abitazione sono ancora intatte, a parte me, nessun altro potrà toccarli. Lì saranno al sicuro». Si chinò verso di me e cercò di baciarmi, ma io mi curvai leggermente all’indietro per sfuggirgli. «Tu continuerai ad andarci per studiarli?», domandai. «Sì, ci sono tante cose che voglio capire e imparare. Tu sei contraria?», chiese, sollevando le sopracciglia. «No, solo sii cauto», dissi, un po’ preoccupata per lui. «D’accordo». Si fece serio in volto. I suoi occhi profondi fissi nei miei. «Non ti ho ancora ringraziato». «Per cosa?», inclinai la testa, incuriosita. «Per tutto». Fece un piccolo sbuffo. «Non so se esiste una singola cosa per cui non ti debba ringraziare».
A parte aver provato a ucciderci entrambi, non mi pareva di aver fatto granché. Lui mi vide pensierosa e sorrise alzando il viso verso il cielo, prima di tornare a guardare verso di me. «Aili, vita mia, io sarò anche parecchio incasinato, ma tu a volte sembra proprio che non ti renda conto dell’importanza delle tue azioni». Adesso ero confusa. Deam, mettendomi una mano dietro alla nuca, mi baciò sulla fronte, restandoci poi appoggiato con una guancia. «Allora te lo dico io», disse. «Grazie per non esserti mai arresa. Per aver creduto in noi fino all’ultimo. Per riuscire a perdonarmi e non essere disgustata dalle mie debolezze. Per amarmi in questo modo, facendomi sentire completo e non il rottame che mi sentirei altrimenti. Per rendermi così felice, da farmi quasi un po’ paura». Il cuore aveva preso a galoppare nel petto e gli occhi si erano inumiditi Non sarei riuscita a trattenere le lacrime se avesse detto anche solo un’altra parola. Alzai un braccio e con la mano gli accarezzai i soffici capelli che gli scendevano sul collo, ci intrecciai le mie dita, poi mi scostai quel tanto che bastava per attirarlo verso di me. Quando le nostre labbra si toccarono, lui strinse il mio copro al suo e il mondo intorno a noi sparì. Mi persi completamente tra le sue forti braccia, sulla sua bocca, nel suo profumo. Ogni pensiero e preoccupazione svanì dalla mia mente e mi sembrò di bruciare dall’interno per quanto fosse intenso l’amore e il desiderio che sentivo per lui. Esisteva solo Deam e io non ero che una fiamma che ardeva avvinghiata a lui. All’improvviso però avvertii una dolce fragranza che permeava l’aria intorno a noi. Mi separai leggermente per cercarne la fonte; mi guardarmi intorno e rimasi senza fiato. Gli alberi del giardino, che fino a un momento prima si stavano preparando ad abbandonare la loro veste estiva, erano ora interamente ricoperti di candidi fiori. Guardai Deam a occhi spalancati. Per la prima volta fu lui ad arrossire, facendo il suo mezzo sorriso sghembo e assumendo un’aria imbarazzata. «Mi dispiace, adesso capisci perché ho bisogno di quei libri. Devo imparare a controllarmi, anche solo per non far sapere a tutti i fatti nostri», disse. Ero senza parole. Esterrefatta di fargli un effetto simile. Mi ristrinse a sé, sprofondando il viso tra i miei capelli. Dopo un momento lo posò sul mio collo, che prese a percorrere lentamente con le sue labbra. Sentii un brivido che scese lungo tutta la spina dorsale. Quello che provava lui mi fu chiaro un secondo più tardi, perché il profumo di fiori intorno a noi si intensificò, fino a saturare completamente l’aria. Non riuscivo a crederci. Deam si bloccò e appoggiò la fronte sulla mia spalla. Quando sollevò il capo, stava ancora sorridendo con le guance arrossate. «Tutto ciò è piuttosto imbarazzante», disse, lasciando vagare lo sguardo alla sua destra e prendendo a mordicchiarsi il labbro inferiore. Gli girai delicatamente il volto per costringerlo a guardarmi. «Ora spetta a me ringraziarti per questo regalo inaspettato», sussurrai. Deam si illuminò in un sorriso così dolce e radioso da togliermi il respiro, poi, prendendomi il viso tra le mani, mi baciò con ardore. «Oh, al diavolo», disse all’improvviso, sollevandomi da terra tra le sue braccia. Mi aggrappai alle sue spalle e lui premette con forza le labbra sulle mie. Tenendomi in braccio, stretta a sé, senza staccare la sua bocca dalla mia, avanzò verso la stanza. Non so come, ma capii subito le sue intenzioni. Pensai che il cuore mi sarebbe esploso nel petto e sentii lo stomaco stringersi per la tensione. Una volta varcata la portafinestra si fermò e ci guardammo negli occhi. I suoi interrogarono i miei, chiedendomi il permesso di oltrepassare quel confine che non avevamo mai superato e io dopo un attimo, con le pulsazioni ormai incontrollabili, gli diedi la mia tacita risposta, allungandomi per dare con una mano una spinta alla porta a vetri, perché si richiudesse dietro di noi. Deam sorrise con le sue labbra a pochi centimetri di distanza dalle mie e io lo feci a mia volta, di sicuro arrossendo un po’, prima di ricominciare a baciarci nuovamente. Il giorno seguente l’intero regno si sarebbe svegliato, credendo di essere in primavera.