IL BARLUME
Anno 1 Numero 9– Settembre 2007
EDITORIALE Ritorno, per chi è partito. Ritorno anche per chi è rimasto. Agosto si presenta irreale, Firenze e le nostre città si dipingono di luce, i cadaveri tornano in vita per trenta piccolissimi giorni. I Vostri affezionatissimi si sono diretti presso mete legate alle personali stimmate patologiche: Emidio in Grecia con la paziente e dolce Vera, meta illusoria, etica e irraggiungibile, Costanza a Pistoia nelle nostre rispettive dimore, unione simbiotica con mura, bar notturni e fuga inconsapevole da quanto non si può fuggire, Denni in una piccola casetta di montagna a cercarsi una individualità troppo diffusa, ormai e fortunatamente più bisognosa di calore che di specchi. Come comporre un piccolo puzzle, scoprire chi addobba più o meno dignitosamente le pagine virtuali che mensilmente sfogliate. Agosto ci ha consegnato la solita pletora di immagini e parole, invece di lasciare spazio al silenzio del sentire e al rumore della vita; uno schermo onnipresente ci ha informato delle bassezze degli eroi estivi, apologia della stupidità. Anche per quest'anno è finita, ricomincia autunno. Autumn leaves, ascoltate Eva Cassidy, "Live at Blues Alley", di valore di poco inferiore alla Bibbia. Torniamo al suolo e passiamo al nostro piccolo gioco: il primo pezzo arriva da Torino, dal nostro neobarlumista Matteo De Simone, giovane scrittore che potrete apprezzare pienamente nel suo libro "Tasca di Pietra” edito dalla casa editrice Zandegù. La particolarità creativa e psico(pato)logica consiste nella copertina del libro, completamente bianca, che attende qualcuno che si prenda cura di lei: leggete e inviate la vostra copertina, la migliore sarà scelta per la seconda edizione del libro. Seconda particolarità: la Zandegù è una casa editrice piccola, spocchiosa e bisognosa di conferme affettive, tre umani motivi per interessarsi alle sue pubblicazioni. Questo il sito www.zandegu.it Il pezzo successivo è un brandello di speranza irrisolta, di sogno caduco, autobiografia di uno e forse di molti. L'autore lo conoscete, è uno di noi. Il terzo pezzo è di Riccardo Tronci, che avete già assaporato su queste pagine, che ci consegna la prima parte di un rilassante racconto che non delude. Potete trovare Riccardo anche su www.lulu.com. Finiamo con una non recensione che questo mese, eccezionalmente, cambia di penna: andiamo a toccare il mito, la divinità, l'iperuranio. Keith Jarrett, umanissimo, come umane sono le sue idiosincrasie. Questo è tutto signori, anche per questo mese, i giochi sono fatti (per essere vissuti, se non ricordiamo male). DePiCo
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LA SOSTANZA DELL’ALBA Matteo De Simone
Un tempo era il Dottor Sax. Il primo locale a Torino che pensò di tenere aperto fino all’alba. La gente usciva sconquassata da Giancarlo, sul lato destro dei Murazzi, e passando sul lato sinistro, poteva riposarsi le orecchie infilandosi in un covo di black music, placando la fame post alcolica con cornetto e cappuccino. L’alba a Torino è stata a lungo un privilegio dei Murazzi. Poi, prima lentamente, poi sempre più in fretta, la città ha cominciato a rispondere all’esigenza di soddisfare centinaia di nuovi nottambuli incarogniti dalla movida barcellonese. E i capisaldi di un’alba come si deve (ovvero di chi non ne ha mai abbastanza), a meno che non ce la si voglia godere pavesianamente dal Monte dei Cappuccini o da qualche punto isolato della collina, con o senza l’ultima cannetta, con o senza l’ultima birretta, sono tre: trovare ancora un posto aperto per mangiare – trovare ancora un posto aperto per bere – trovare ancora un posto aperto per ballare. Nell’ultimo caso la risposta è generalmente una sola: da Giancarlo, ai Murazzi. Quello è l’unico posto dove è possibile trovare decine e decine di persone ancora pressate in pista, o al bancone del bar, o svaccate fuori, in riva al fiume una canna dopo l’altra anche alle sei del mattino. E quello è l’unico posto che non conosce differenze sociali. Da Giancarlo, circolo arci gestito per l’appunto da un ormai sessantenne, di nome, appunto, Giancarlo, che esibisce dietro il bancone foto ricordo con Abatantuono, Troisi e molti altri, nonostante sia stato insignito ben presto della nomea di “posto dei marcioni” (al che ci si immagina orde di anarcocomunisti con le kefie, i cani, ciloni lunghi tre metri e il ricordo dell’ultima doccia molto lontano. Ma non è così), ci puoi incontrare il tamarro di periferia che viene in centro il sabato sera. Ci puoi incontrare il fighetto della collina che si deve laureare in giurisprudenza da tre anni. Ci incontri lo squatter incazzato, il liceale vestito da rapper, il rocchettaro coi pantaloni a sigaretta e i capelli alla Brian Molko, il giovane intellettuale, o il giovane politico (sinistra giovanile). Gli spacciatori marocchini, e quelli che si guadagnano la vita cuocendo alla griglia spiedini e bistecche che vengono da un giro di carni loro speciale... O la ciellina che esce per la prima volta con il cugino più grande che l’ha portata, guarda caso, in quel postaccio di marcioni. Ma il fatto è che marcia è la sostanza dei frequentatori dell’alba. Il primo caposaldo lo puoi soddisfare in tre modi: il paninaro, il kebabbaro, il briosciaro. Sono parecchi i forni in città aperti fino alle sei del mattino, così come i paninari, disseminati ovunque. Sono loro, in fondo, ad aver portato l’alba su tutta la città. Capannelli di affamati coi denti su enormi panini da 3,50 pieni di salsiccia, cotolette surgelate o hamburger, conditi con crauti, peperoni, formaggio, ketchup e maionese. Li puoi trovare all’uscita dalla tangenziale, attaccati ai Murazzi, al Parco del Valentino, dove d’estate è facile trovare ancora qualcuno con chitarre e jambé a suonare sul prato (e a combattere contro le zanzare che salgono dal Po), vicino allo stadio o al tribunale. I paninari sono ovunque. Spesso, nelle zone di periferia, sono l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con una prostituta o un trans, in pausa o al termine della sua notte di lavoro, o in compagnia di due o tre tamarri palestrati coi capelli a spazzola, probabilmente reduci dall’ultima striscia, appena scesi da un’Opel Tigra o da una Fiat Brava. E ci trovi qualche tossico che ha radunato due spiccioli, un matto che avevi già visto parlare da solo qualche volta, per le vie del centro, e due o tre studenti, che stanno arrivando ora da Giancarlo o si sono storditi di new wave e indie rock allo Spazio 211, che ha ormai affiancato con un certo peso lo storico Hiroshima Mon Amour in fatto di concerti e djset. Le cose non sono troppo diverse dal briosciaro, ovvero retrobottega di panetteria aperti (illegalmente) dalle tre alle sei del mattino. Un euro la focaccia bianca e le brioches. 1,50 la pizza farcita. Quasi sempre calda, appena sfornata. E’ un piacere più sano, capace di riconciliarti con la notte e con te stesso. Anche in questo caso, l’alba arriva più o meno ovunque, anzi, ancora più facilmente dei paninari, i briosciari aperti li trovi in zone decentrate. Sul lungo Dora, vicino a Porta Palazzo, a Mirafiori dietro la Fiat e il lingotto, all’uscita dall’Hiroshima Mon Amour. Ma se davvero ancora il tuo corpo può reggere una grandissima dose di piacere pericoloso, sceglierai un falafel, o peggio ancora un kebab e andrai da Horas, in pieno San Salvario. Lì ci puoi trovare i kebab più grandi della città, secondo alcuni i può buoni, secondo altri i più marci, ma sicuramente i più economici. Il gestore è l’ormai celebre Bibo, un egiziano che si vanta di essere stato il cuoco di Del Piero, Pippo Inzaghi e Maradona. Il the scorre gratis che è un piacere e il buon Bibo, aiutato da uno stuolo di collaboratori instancabili, ha ormai imparato a sfornare anche ottime pizze. E se invece il tuo pallino è il secondo caposaldo e alle sei di mattina, dopo fiumi di doppio malto e gin lemon ancora non sei riuscito a sbronzarti, puoi prendere qualche birra dai paninari (i muslims kebabbari alcol non ne vendono), che non servirà a niente, e buttarti sugli scaloni di Palazzo nuovo, o tra le Il Barlume - Anno 1 - Numero 9 - Settembre 2007
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quattro fontane di Piazza Castello, o sulle panchine del Quadrilatero, dalle piazze ormai deserte, o in qualche parcheggio sfigato, in macchina, con il tuo migliore amico, perché tra un posto e l’altro, c’è sempre la città, e l’alba arriva anche lì. E questa è probabilmente la conquista migliore della Torino degli ultimi dieci anni. L’alba per strada, nelle piazze, sotto i portoni, in mezzo a un prato, sul primo tram che ti riporta a casa.
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AUTOBIOGRAFIE Denni Romoli
Un’ombra sul marciapiede, una luce stringe il campo e la pupilla. Marta chiude gli occhi e guarda, la sua vita. Mattina, il profumo del lino si insinua tra le finestre e l’armadio, corre il piccolo scoiattolo sul davanzale, il verde illumina e rischiara l’anima, è la primavera beata di sole. Il bambino attraversa il corridoio, la palla in mano, semplici gesti nella preparazione della colazione, latte, odore, profumo di buono, lino dolce e morbido come la carezza di un amante, pensosa Marta controlla le bollette, un sospiro, come ogni mese, ogni mese di vita, piccoli ostacoli, niente di preoccupante. Marta sorseggia il suo caffé come ogni mattina, con lo stesso profumo di lino bianco e candido, la goccia di sudore sul volto del marito, la doccia, la camicia, i gemelli, l’ufficio, blanda ambizione e meritoria umiltà negli occhi di Marta, il bambino beve il suo latte, bianco come il lino steso alla finestra, bianco come il cuore di un bambino e puro come il lino e bianco, un giorno di sottile placidità, la scuola a pochi passi, il sole illumina il lino, esce con il suo bambino Marta, piano blanda verso la scuola, segreti di una crescita, il suo bambino, nove mesi di felicità pianificata, di sogni dolci come il lino bianco steso alla finestra, corroborante latte materno nel pensiero di Marta, il suo bambino, il suo seno ed il suo latte, bianco come il lino e puro e dolce. La mattina di sole, il rientro a casa, il marito è uscito, il biglietto sulla madia, il biglietto bianco come il lino e dolce, parole di ogni giorno, mi aspetti per cena? Ti amo. Certo che ti aspetto per cena, Marta sussurra tra sé con il sorriso eterno e intatto, la casa, i panni stesi, il profumo del lino bianco, il lento divenire del mezzogiorno affacciato sul suo terrazzo, la presenza che protegge, il sole e il mezzogiorno, il bambino. La tavola, alcuni coperti, odore di cibo e di lino bianco, seduti, occhi negli occhi e i discorsi piani, i sorrisi rassicuranti, l’eterno che aleggia nell’aria e si sposa con il profumo di lino bianco, un pomeriggio da venire, matite e fogli di carta, righe e quadri, cornici di un pomeriggio di sole blando e accecante, il sorriso sussurrato, la carezza dell’amante. Sera, il profumo del lino incontra le stelle, incontra quell’uomo che si fa chiamare marito, l’uomo che si veste di lino bianco e puro e dolce, il profumo che incontra le stelle, il bambino disteso sul divano, il marito che dolce e puro lo solleva come piuma e lo accarezza, il cuscino, buonanotte angelo mio. Il marito che accoglie e abbraccia, sorride, è bianco e puro come il lino, Marta si appoggia al suo cuore, un sussurro di sorriso eterno e intatto, il corpo e l’altro che si incontrano con le stelle, il sorriso, il cibo caldo e il lino dolce e bianco e puro, la luna che stringe il campo e la pupilla e lascia i due corpi così vicini da crederli eterni e intatti. Marta apre gli occhi e guarda, la sua vita. Un’altra ombra sul marciapiede, una luce di lampione stringe il campo e la pupilla, un bianco ruvido del lino dell’uomo che le si avvicina, un altro uomo che si avvicina. Marta prende un fazzoletto, si pulisce lo sperma che le scivola su una gamba, un altro assassino pensa. Il Barlume - Anno 1 - Numero 9 - Settembre 2007
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I TRENTACINQUE PIANI Riccardo Tronci
E’ iniziato tutto un anno fa, giorno più, giorno meno. Me ne stavo, come spesso in quel periodo, con la testa fra le mani, accucciato sul divano a cercare tra i cuscini un qualsiasi sostegno morale, trovando solamente l’assopimento proprio della stanchezza cerebrale. E del divano. Solitamente non ricordo i sogni, come succedeva, invece, sempre da bambino. Da piccolo mi ricordavo tutto per filo e per segno, nei minimi particolari: i colori, le sensazioni e i dialoghi, sempre che ce ne fossero. Poi, improvvisamente, ho iniziato a credere di non sognare più, di dormire, cioè, un sonno senza sogni, dovuto forse a una piccola usura, o semplicemente alla lenta e costante lacerazione della memoria. Mi sveglio ogni mattina con l’impressione di lunghe e noiosissime ore di buio completo, talvolta con qualche sfumatura opaca. Come se i miei pensieri ed i miei sogni rimanessero a fissarmi dall’orlo del cuscino, con la paura di scomparire sotto le lenzuola. Nell’accogliente e desolato tepore del divano, all’improvviso venne a farmi visita un pensiero, tempestivo come un colpo di fulmine, mi prese alle spalle. Mi capita a volte, di essere preso in contropiede da un mio pensiero, di trovarmi a scivolare in frasi ed immagini che non avevo stabilito, come se una procedura “random” del mio hard disk cerebrale scegliesse casualmente per me il programma intellettivo. Così mi apparve Seneca, nella sua lucente tunica bianca, con la sua altezza statuaria e il braccio teso a spiegare il senso della vita, con voce quasi impercettibile, di chi sa di essere ascoltato e con molta attenzione. Seneca. Morì lentamente, per suicidio, dicono, usando la sua fine come manifestazione della vanità della vita. Questo almeno si ricorda la cartella sul desktop mentale a nome Seneca. Mi è capitato spesso di discorrere con amici sul senso della vita e sulla sua futilità, e l’esito delle discussioni è sempre stata un “tutto è vano”, quasi programmatico. Dall’inerzia del divano, sorse un nuovo vigore: se non puoi davvero adattarti a nuotare nella merda, visto che nessuno ti ha insegnato a nuotarci, puoi sempre ritirarti dal gioco. E’ come un passo a poker. O forse è più come un “cip”, vediamo cosa hai tra quelle carte e chi si prende il piatto. Sempre che dopo la vita un piatto ci sia. Seguii il mio primo impulso, quasi con il sorriso sulle labbra, gonfio di orgoglio di aver preso la decisione che in quel momento sembrava palesemente giusta ed utile, anche perché unica. Decisi però per un evento mondano, un suicidio pubblico. Non di massa, solo e solamente il mio suicidio pubblico. Trovato l’obbiettivo da raggiungere si deve fare un punto della situazione ed un programma per raggiungerlo, come ci insegnano i manager in carriera. Per cui presi un foglio e cominciai ad annotare alcune cose, come il termine di decorrenza della mia vita, un anno a partire da quel momento, e tutte le persone da avvertire e da invitare. Comprai una risma di carta e delle buste piccole e gialle, tutte uguali, e cominciai ad intestarle, scrivendo ad ognuno qualche riga. Cominciai dalla mia ex moglie, e fu molto facile tirare fuori un po’ di egocentriche prese per il culo accompagnate da razionalissimi sfoghi, continuai con mio fratello, a cui mi limitai a scrivere la data l’ora ed il giorno, per paura di trovare motivazioni inconcludenti che mi facessero indietreggiare sulla decisione, e seguirono tutti gli altri. Al mio carissimo amico dai tempi delle medie scrissi che purtroppo non gli avrei reso tutti i soldi che mi aveva prestato, ringraziandolo, ugualmente, del perdono che, ero certo, mi avrebbe donato. Scrissi anche a persone che non conoscevo, se non di vista, giusto per manifestare la mia antipatia spontanea e ormai libera da ogni vincolo di civile rispetto formale. Come avevo già dedotto da un libro dei miei preferiti, la libertà è propria solo dei condannati a morte, solo loro sono capaci di slacciare tutti i vincoli che la società impone, donandosi un nuovo viso, con l’aspetto più conosciuto a loro stessi. Una specie di ribaltamento dei ruoli al tramonto della vita, o forse solo uno sfogo di consapevole brevità. Non scrissi a mio figlio Luca. Sarebbe stato troppo semplice cavarsela in quel modo. Mi proposi di affrontare il problema in seguito su come spiegargli cosa avrei fatto, perché e come. Spedite tutte le lettere mi rilassai nuovamente sul divano, ma questa volta sentendo come il lieto acquietarsi dopo aver svolto il proprio lavoro, ed esserne orgogliosi. Ho sempre pensato che non sia tanto il lavoro ad uccidere l’uomo, quanto la sua tipologia. Voglio dire, è il modo in cui comprimiamo, bilanciamo ed indirizziamo i nostri sforzi, e, alla fine del giorno, ciò che ne abbiamo ricavato. Il Barlume - Anno 1 - Numero 9 - Settembre 2007
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Un seminare ed un raccogliere che, forse, ad oggi, è stato vagamente dimenticato. Ma non è per questo che mi ucciderò. Non perché la mia vita faccia schifo, e credetemi, lo fa davvero, ma non posso certo risparmiarmi perché “c’è qualcuno che tiene a te”. La stessa parola “qualcuno” è riduttiva e generica per sua stessa complice ed implicita definizione. A dire il vero non so perché mi ucciderò. Forse perché è doveroso fare un gesto teso a svegliare i bigotti che credono ancora nell’aldilà, o forse solamente perché il solo pensiero mi fa stare meglio. Mettiamola così: mi ucciderò punto e basta, ognuno veda nel mio gesto ciò che vuole, che molto spesso le poesie più belle sono create involontariamente ed inconsciamente. Non ci volle molto per decidere come farlo, avevo bisogno di un gesto plateale, di un palcoscenico degno di un uomo che si eleva sopra l’uomo dopo aver alzato un dito contro il cielo, pur sapendo di averlo fatto solo e solamente contro il cielo. Decisi per il Palazzo Firinelli, il più alto della città. Trentacinque piani. Circa quarantadue metri di altezza. Un bel volo. Una corsa tra me e il vuoto, senza l’ossessione di voler battere la forza di gravità, ascoltando la pelle cullata dall’aria che si infrange in onde contro tutto il corpo. Ho i brividi al pensiero, è per quello che so di aver preso la decisione giusta, per quello so di non essere mai stato così ostinato su di un punto. Le voci si spargono rapidamente. La gente per strada cominciava a guardarmi parlottando sommessa. Ero un singolare vip in città. Sembra strano, ma basta fare una qualsiasi cosa che ti distingua per vivere qualche attimo di celebrità, fosse anche solo andare nudo a messa o votare alle tue prime elezioni il partito pensionati, dicendo di essere previdenti. In un anno la mia celebrità conquistò prima tutta la città, e, come olio, cominciò presto a spargersi per tutta la nazione. I quotidiani iniziarono a chiedere interviste, ed i telegiornali si interessarono sempre più al mio caso, coprendo le reti nazionali con collegamenti in diretta e posizionando webcam in tutto il mio appartamento. Presto in molti iniziarono a seguire la mia vita da vicino, a dire il vero molto noiosa, ma che sembrava appassionare un po’ tutti. Immagino i bambini e le nonne insieme a fissare lo schermo, come una telenovela o un nuovo reality, con quel piccolo gusto voyeur che caratterizza l’uomo da sempre. Succedeva a volte che io stesso accendessi la televisione e mi ritrovassi a fissarmi mentre guardavo me stesso su di uno schermo, quasi aspettando che facessi qualcosa. Era una sensazione strana, quella. Avete presente Charlie Chaplin? Una volta partecipò ad un concorso come sosia di Chaplin, e si classificò terzo, se non sbaglio. Comunque non vinse, venne scartato. Ecco, vedermi sullo schermo, piatto e bidimensionale, mi faceva apparire meno sicuro di quello che non fossi, come tediato o preso da pensieri, che in realtà non avevo. Pensai a mio figlio, a cosa avrebbe chiesto a sua madre a vedermi così, e sapendo che lei avrebbe detto di lasciar perdere, che ero un completo idiota, decisi finalmente di parlargli. Mio figlio ha sette anni, e una fantasia spaventosa. Una persona con un tale bagaglio di sogni nemmeno la vita riuscirà ad abbatterlo, o almeno lo spero. In realtà, quando suonai al campanello di casa, quella che era anche casa mia, non sapevo bene cosa avrei detto. Potevo dire che lo facevo per lui, sarebbe sembrata una cosa mistica e tragica, senza contare, però, che sarei passato da vittima ai suoi occhi. Da eroe volevo passare, ai suoi occhi, come quelli che amava tanto osservare sui fogli di china in bianco e nero. Non avendo un costume, se non gli stessi abiti di sempre, e non avendo neppure un qualsiasi superpotere, si figurava come necessaria una qualche spiegazione razionale, anche solo vagamente futuribile, giusto per non guastare un futuro pieno di sogni. E forse anche perché quel giorno lui potesse guardare in alto e fiero dire “quello è mio padre”. Suonai di nuovo, nessuno doveva essere in casa, o sfortunatamente mia moglie aveva sentito con largo anticipo il ronzare della mia vecchia lancia, ormai nemmeno più rosso fiammante. Decisi che gli avrei parlato in seguito, magari riflettendo sulle parole da dirgli, pesandole e scegliendole su misura, cucendo un vestito di frasi, millimetro per millimetro, con la stessa abilità di un sarto di altri tempi. Tornato a casa decisi di dedicarmi alle public relations, sul mio sito web, creato da qualche giorno da un programmatore di Torino che sosteneva di essere cambiato dopo aver conosciuto la portata del mio gesto. Hai dato un senso alla mia vita, mi disse. E’ incredibile come la gente possa trovare un senso in cose che semplicemente non ce l’hanno, o che forse lo hanno, ma solo per chi riesce a scavare di strati e strati, e per farlo, è pur necessario conoscere a fondo il terreno e possedere una vanga. Già, una vanga. Ho sempre pensato che con una vanga in mano, a sondare e rigirare la terra, tutte le mie riflessioni intellettualoidi e snob avrebbero trovato una giusta quiete. Ritornare alla terra, si chiama. Il Barlume - Anno 1 - Numero 9 - Settembre 2007
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Ritornare, come un figliol prodigo perso tra i meandri del traffico, spintonato dai frettolosi agenti in carriera in attesa della prossima metropolitana, perso tra i saldi del vestiario e quelli del proprio ego, costretto ad accettare pi첫 compromessi di quanti ne possano reggere due spalle, anche se forti e forgiate sul duro lavoro di coscienza di chi non abbassa mai la testa.
Continua...
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KEITH JARRET E LA COCA-COLA Mr Torrance
Quando arriviamo in platea e ci sediamo ai nostri posti il senso di tensione per l’attesa è grande. Sono anni che sogno di ascoltare dal vivo Keith Jarrett, e stasera finalmente potrò farlo. Un ritardo di appena mezz’ora e il pianista è sul palco, accompagnato da Gary Burton e Jack DeJohnette. Il pubblico accoglie il trio con un’ovazione, e io sono fra quelli che applaudono più forte. Jarrett dà una rapida occhiata alla platea commossa e si avvicina al microfono. “Io non parlo italiano” – dice – “per questo spero che chi fra voi conosce l’inglese si prodighi per tradurre il discorso che sto per fare. Vorrei dire a tutte le teste di cazzo (“assholes”) con la loro fottuta macchina fotografica accesa di spegnerla immediatamente (“right now” con quel “now” pronunciato “neaooooou” con un tono che fa tanto John Wayne – ndr). Al primo dannato flash, io, Gary e Jack ci riserviamo il diritto di alzarci e andarcene da questa città del cazzo (“ fucking town ”)”. E qui finisce la predica. Qualcuno fra il pubblico fischia, ma più che il disappunto è una sorta di stordimento incredulo che si fa strada nella maggior parte di noi. Abbiamo pagato fior di quattrini per ascoltare un artista che amiamo e quello sale sul palco e mentre lo applaudiamo ci insulta urlando al microfono. Il clima di tensione è tangibile, e Jaco, che è seduto accanto accanto a me, controlla ossessivamente di aver spento il cellulare, per il terrore che gli possa squillare durante il concerto. A questo punto penso di non essere più in grado di godermi il concerto. Jarrett si siede al pianoforte, di spalle al pubblico, e inizia a suonare. Al secondo pezzo, senza neanche rendermene conto, sto piangendo. Me ne accorgo quando mi passo una mano sulla faccia e trovo le mie guance bagnate. Incredibile, mr. Jarrett. L’incantesimo si ripeterà in occasione di altri due brani: una ballad lenta, costruita insieme ai suoi compagni, e una versione sublime di Django di John Lewis. Una magia. Jarrett è capace di prenderti per mano e portarti a passeggiare in Paradiso. Peccato che alla fine di questa passeggiata ci aspettasse un altro calcio in culo. Quando il trio torna sul palco per i bis, infatti, un cretino seduto in platea scatta una foto. Jarrett si abbandona ad un commento laconico: “Ok, questo vuol dire che abbiamo finito qui.” Il trio abbandona il palco e Perugia. Amareggiati e delusi, Jaco ed io ci avviamo alla macchina parlando della musica ascoltata, di una formula ormai cristallizzata, ma in grado di dare ancora grandi emozioni. Ma anche questo non giustifica un atteggiamento del genere. Jarrett pensa di essere Beethoven, e non è così. E comunque, anche se fosse Beethoven, non dovrebbe permettersi di rivolgersi in questo modo al suo pubblico. Penso agli altri grandi del Jazz, come Miles o come Mingus, anche loro irascibili e violenti, ma rispettosi del loro pubblico. Chi non rispetta il pubblico difficilmente è un grande artista. Nel frattempo, stamattina leggo su Repubblica che Umbria Jazz ha deciso di rompere i rapporti con Jarrett. Il direttore della rassegna confida al quotidiano di essere stanco delle bizze del musicista e dice di Keith Jarrett che “il musicista è sublime, l’uomo molto discutibiIl Barlume - Anno 1 - Numero 9 - Settembre 2007
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le”. Concordo e ripenso a quello che mi è stato detto, a fine concerto, da un fan infastidito dal mio disappunto: “Jarrett è così, prendere o lasciare”. “Lascio, lascio molto volentieri”, penso, sulla strada del ritorno a casa. Poi, però, mi dico che se mai Jarrett dovesse tornare a Perugia, io lo ricomprerei il biglietto. Organizzerei una campagna per finanziare tutti gli spettatori dell’altra sera, convincendoli a tornare, per il bene dell’arte e della musica. Un’ora prima del concerto andrei al supermercato e comprerei 10.000 bottiglie da due litri di Coca-Cola. Mi metterei all’ingresso e le distribuirei a tutti, una ad una. Come d’accordo, aspetteremmo tutti Jarrett, in un composto e serioso silenzio. Anche gli applausi, sobri ed educati. Più o meno a due brani dalla fine, inizieremmo a bere dalle nostre bottiglie. Molto avidamente. Attenderemmo con pazienza l’inchino del nostro sul proscenio, a fine concerto. E, al momento della sua massima prostrazione, ci alzeremmo in piedi liberando i nostri ventri della nostra pazienza, con un meraviglioso rutto all’unisono. Per te Keith, la nostra poesia sonora, direttamente dai nostri stomaci, direttamente da questa città del cazzo.
Le foto di questo numero sono state scattate da Costanza Maremmi
Il Barlume
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Mensile fondato e diretto da Costanza Maremmi
c.maremmi@barlumismo.org Denni Romoli
Anno 1 Numero 9 Settembre 2007
Il Barlume - Anno 1 - Numero 9 - Settembre 2007
d.romoli@barlumismo.org Emidio Picariello
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