IL BARLUME
Anno 2 Numero 5 - Maggio 2008
EDITORIALE Lasciateci i nostri giochi
E un giorno ti svegli stupita e di colpo ti accorgi che non sono più quei fantastici giorni all'asilo di giochi, di amici e se ti guardi attorno non scorgi le cose consuete, ma un vago e indistinto profilo (…) il mondo là fuori t'aspetta e tu quasi ti arrendi… Francesco Guccini
Cari lettori, permetteteci di chiarire quello che vogliamo dirvi. Saremo cattedratici, trasparenti, lapalissiani. Per questo mese l’editoriale sarà l’essenza dell’editoriale, la sua amalgama. Anche da queste parti, come in altre d’Italia, siamo senza parole. Però, frugando bene in fondo alle nostre tasche, ci sono rimasti i giochi. Di parole. Le parole non si cercano, sono venditori ambulanti che vengono a bussare alla tua porta, chiedono il permesso di lasciarsi dire ed udire, le parole sono di fogge e vesti distinte, di bel nuovo variopinte, poco distinte, d’intanto intinte nel cuore tintinnante. Le parole dei poeti sono dipinte sull’anima, rivoli di seta vellutata o sciamanti come api amanti, stanno sulle labbra e frugano nelle pieghe del volto, ingresso nei pori, sussulto coinvolto. Scivolano sul collo, collana di fiori di benvenuto o stretta soffocante, a tratti ansante, il loro incedere utopico come le voci bianche dei bambini. Le nostre parole sostano un poco sulle mani, quel tanto da farti capire che non si può possedere l’amore, noi umani possiamo solo accarezzarlo. Ancora abbiamo parole adulte, le ultime residuate dalla disfatta delle nostre immagini, le parole con le cravatte intrecciate, le parole complicate della menzogna, rinserrate, marziali e marcianti. Le parole adulte stasera sono rimaste nascoste, certamente tramando vendetta, stan di vedetta e torneranno sulla scena, presto o tardi. Perdoniamole, a volte ci salvano la vita. Sono parole d’avvocatura, di iattura, di paura, di sciagura, di cultura. Torniamo alle mani, da esse saltano parole fanciulle, le parole dimenticate, grulle, citrulle, cittine, gattine, topine, le parole ghirlande, con le parole bambine ci facciamo compagnia alla sera. Dovreste venire a trovarci più spesso. Come? Avete ragione, spesso non siamo in casa. Bussano, le parole. Toc toc? Benvenute a voi. Cosa ci avete portato questo mese? Dite, dite… allora, l’amico di Denni se ne sta seduto da troppo tempo, cosa volete farci, qui in Italia le poltrone sono comode. Alessandro Pagni ci regala vetro e paura, lo chiameremo al cellulare per complimentarci con lui. C’è uno nuovo? Come forse? Marcio I. Del Pielio, sicure che non sia un giocatore di calcio? Beh, allora benvenuto anche a lui. Adesso andiamo, care amiche, andiamo sulla nostra sdraio. Ci aspetta un bimbo dagli occhi marini che ha molte domande in serbo per noi adulti. Buona lettura DePiCo
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SONO SEDUTO Denni Romoli L’eco di un film romantico, la televisione non mostra segni di cedimento. “Ti ho sempre aspettato”, sussurra l’uomo abbracciando la donna. E ancora altre voci, ma mi giungono solo quelle dei film d’amore del tardo pomeriggio. Ogni addio, speranza, alito di vita. Sono seduto, capirete che questa affermazione è paradossale. Il tavolo nero straborda di oggetti, qualche libro, sigarette, una piccola birra innocua e cenere, cenere ovunque. Mi piace la cenere, qualcosa che scompare e riappare, soffiata e rinnovata. Ho letto da qualche parte che chiesero ad un tizio, credo inglese, di stimare il peso del fumo: questi prese un sigaro, lo accese e lo terminò, lasciando cadere la cenere su di un piattino. Alla fine, sottrasse il peso della cenere a quello del sigaro, ed ecco il peso del fumo. Geniale. La cenere è fondamentale nella mia vita, ogni mattina la ritrovo, mi accompagna, mi riempie la vita. Sono seduto, dicevo. Sono dieci anni che sono seduto. Mi stavo tuffando, sulle colline toscane, nel piccolo anfratto di un fiumiciattolo. Il caso, o forse più probabilmente la mia proverbiale goffaggine, mi fece scivolare su una roccia, facendomi perdere l’equilibrio. Il mio collo colpì un masso affiorante, ed eccomi seduto. Tetraplegia incompleta. Non che sia cambiato molto da prima, ero un tetraplegico ante litteram. Ecco, la televisione si è spostata su un programma sportivo, si riconosce dalle urla e dai fischi del pubblico. Voce di donna, presumibilmente valletta: mi sono sempre chiesto quanto si debba umiliare l’anima femminile per sottoporsi ad un martirio simile. Soldi, direte voi, soldi. L’anima, però, non ha un prezzo, e prima di addormentarsi torna a farsi sentire, a battere cassa. Scusate, sto divagando. Troppo semplice giudicare le vite altrui, stavolta è la mia anima che batte cassa. Ecco, è arrivata Cinzia, la ragazza che si prende cura di me. Cinzia è stata ingaggiata da mia sorella. Cinzia si sta per sposare, ha conosciuto un ragazzo che fa il magazziniere, mi parla, è incredibile quante parole riesca a produrre. Se le dessero un tanto a parola sarebbe infinitamente ricca. Cinzia arriva alle nove circa, mi lava, mi cambia, mi prepara la colazione. Lo stesso si ripete per pranzo e per cena. Tre volte al dì, come dicevano i medici di famiglia a proposito di certi sciroppi alla fragola. Chissà se vanno ancora di moda. Mi accende una sigaretta e me la passa, appoggiandola sul mio speciale bocchino. Stasera pollo al curry, le dico come cucinarlo, le dosi necessarie, il tempo di cottura. Cinzia mi chiede come faccio a sapere tante cose. A volte si sofferma a guardare la mia libreria, mi fa l’effetto di un bambino che osserva le bestie esotiche rinchiuse in gabbia. Un giorno le chiesi quanti libri avesse letto, mi rispose che ad essere generosi erano 5 o 6. Credo che, in una vita, ne siano necessari molti meno. Io invece continuo a leggere, pur sapendo che non serve a niente. Sapete, stando sempre seduti si ha molto tempo a disposizione da sprecare. Cinzia mi serve la cena, mi imbocca, mi pulisce le labbra. Una volta mi ha perfino baciato, arrossendo come una scolaretta al primo appuntamento, con piccole lacrime che le rigavano il volto. E poi ha sussurrato: “mi scusi dottore, non avrei dovuto, ma lei mi fa tanta tenerezza”. Le ho ricordato che il mio nome non è dottore. Da allora mi dà del tu, una mia piccola e orgogliosa conquista. Stando sempre seduti le conquiste si riducono al minimale: quando riesco ad afferrare la sigaretta al primo tentativo, quando dalla finestra riesco a notare, tra le pieghe delle tende della casa di fronte, una donna che si toglie il cappotto o un bambino che corre a spalancare le imposte, nelle giornate di sole. Cinzia se n’è andata, non dopo avermi messo a letto ed accarezzato; in un impeto di infantilismo, le ho chiesto di rincalzarmi le coperte. Ci mancava solo che la chiamassi mamma. Adesso sono disteso, il buio della stanza mi fa da coperta. Vi dicevo del tuffo, una bellissima giornata quasi estiva. Poi la solita trafila, ospedale, casa, servizi sociali. Lacrime, amici, familiari pazienti e atterriti, non ho mai visto così tanta gente attorno a me. Ognuno con il suo carico di speranza ottusa, di buone parole opache, ma cos’altro possono dire di fronte all’antefatto della morte, al suo spettro più prossimo? Vivevo tutto questo quasi con compiacimento, sapevo le loro parole prima che le pronunciassero, era un film di seconda visione. Per non sciupare il copione, tacevo la mia felicità. Finalmente, le mie preghiere si erano avverate. Potevo restare immobile senza dover almanaccare scuse, senza accampare baldacchini di giustificazioni. Non è propriamente vero che gli esami non finiscono mai; piuttosto, gli esami sono sempre gli stessi. Nuovamente, mi sono trovato a fingere di essere addolorato, per sostenere il ruolo dello sventurato al quale un destino punitivo o un dio impregnato di castigo (dipende dalle tifoserie ideologiche) aveva negato ogni felicità. Per fortuna, dopo breve tempo il susseguirsi di volti si è interrotto, e sono rimaste le persone. Il Barlume - Anno 2 - Numero 5 - Maggio 2008
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Dopo di loro, le anime. Quand’esse vengono a farmi visita, posso esistere e confessarmi. I primi tempi era difficile arrendersi all’immobilità, eppure poco a poco sono riuscito a riconoscerla; in fondo, l’unica differenza rispetto a prima era il suo carattere di totale irrimediabilità, la coscienza profonda di aver scientificamente sprecato ogni raggio d’esistenza. Ma sto parlando della mia vita passata, e non vorrei perdermi in troppa dietrologia. Sto ricominciando a usare parole eccessivamente polisillabe: quando ve ne accorgete fatemi un cenno, vuol dire che sto fuggendo dal mio cuore. Non riesco a prendere sonno, questa sera ho voglia di pensare. E di fumare, ma non posso certo allungarmi a prendere le sigarette. No, non vi preoccupate, non sono umiliato, lo accetto abbastanza serenamente. Anzi, fumando meno posso vivere più a lungo. Lo dicono i medici, lo strombazzano ad ogni angolo. Come se vivere più anni fosse necessariamente un bene. Vi racconto di un sogno che faccio da sempre, il mio sogno ricorrente. Siamo diventati amici, col tempo. Lui si presenta con alcune varianti, camuffato, ma lo riconosco sempre. È giorno, ci troviamo di volta in volta nei luoghi più disparati, l’ultima volta eravamo in un posto che richiamava l’ambiente dei film western. Tutto intorno un deserto, con in mezzo un piccolo cancello a protezione di una casa. Mi trovo in compagnia di altri tre uomini, con i quali dobbiamo assaltare e impadronirci dell’edificio. Ad aspettarci ci sono altri quattro uomini, uno a testa. Quello che mi si para di fronte è nerboruto, possente, lo sguardo fermo, pacificamente pronto alla battaglia. Di rimando, dentro me sento una paura crescente, la coscienza di essere sopraffatto ancor prima di iniziare a combattere. Tento di atteggiare i miei occhi, di dar loro la luce della sfida, ma è tutto inutile. So che sarò sconfitto, non tanto per il risultato della lotta, quanto dalla consapevolezza della mia inettitudine, della mia codardia. Perdonate, sto diventando sentimentale, lo sono sempre stato. Velleitariamente sentimentale. Prima di restare seduto, un giorno lessi l’articolo di un critico su di un film di Hitchcock, La finestra sul cortile, con James Stewart e Grace Kelly. Definiva la pellicola “un piccolo trattato sull’impotenza”. Questa piccola, piccolissima recensione non l’ho mai dimenticata: avevo riconosciuto qualcosa che parlava di me, anche se ancora non lo sapevo. Eppure, non è l’unico peccato realmente deplorevole quello di abiurare la nostra vita sacrificandola all’eccesso di prudenza, alla valutazione glaciale, alla paura incarnata? Per parte mia, mi dichiaro colpevole.
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L’ULTIMA ESTATE Alessandro Pagni Curva dopo curva, la casa di Manuel è ormai prossima. È notte fonda e l’asfalto trasuda un umido e soffocante presagio di tempesta. Manuel abita in un piccolo borgo in alta collina che nessuno consoce, proprio sotto l’ombra della montagna. Saranno dieci case e un piccolo BAR, neppure la Chiesa è arrivata quassù. Curva dopo curva, fisso i riflessi dell’asfalto e una lenta pioggia di foglie colora il blu cupo della tenda della notte. Cristiano guida, ognuno è solo e concentrato nei propri pensieri. Abbiamo con noi tre birre, perché parlare senza qualcosa da assaporare è come crocifiggere un rito antico secoli. Mi vengono in mente tante assurdità, non riesco a non pensare all’espressione di Samu quando, pochi giorni fa, ha abbracciato il palo di un cartello stradale a novanta chilometri orari cadendo dalla moto e riducendosi la milza in poltiglia. La milza, il cimitero dei globuli rossi… dicono. Manuel è stato lasciato ieri dall’unica donna con cui avrebbe accettato seriamente di passare il resto della sua vita. Sono cose che fanno riflettere, non c’è dubbio. Samu e Manuel si conoscono poco, ma credo che in questo preciso istante abbiano la stessa smorfia sul viso. È un’atmosfera strana. Cristiano continua a guidare in silenzio. Mentre l’aria gonfia e umida ci sferza le braccia, tu sei anni luce da me, addormentata in una stanza che dà su un bosco fitto e rigoglioso e hai visto la luce fino a poche ore fa. Il tempo che è passato tra noi sembra immenso. Anche se è retorico, non riesco ad evitare il luogo comune “che è come se fossero secoli che ti conosco”. Cristiano guida, curva dopo curva, e lo sentiamo tutti il presagio imminente d’autunno. Per alcuni più doloroso di altri, ma per tutti vicino. Ci spaventa doverci imbarcare una volta ancora nel caos di settembre con le sue inevitabili novità. Almeno, a me spaventa. Curviamo e curviamo ancora. Cristiano vorrebbe fermarsi un minuto alla prossima piazzola sterrata per contemplare la luminaria della pianura, viva e pulsante con la sua infinita distesa di lampadine brillanti. L’idea mi piace e sgancio già la cintura. Così fa anche Cristiano. Da lontano si vede una macchina posteggiata sul lato della montagna che si getta a picco nella valle. Una BMW nera ha occupato il nostro Belvedere. Ci avviciniamo rallentando per vedere se è rimasto un po’ di spazio anche per noi, a meno che la BMW non stia ospitando una coppia nel pieno del divertimento. I tre uomini che vediamo sono fuori dalla macchina, neppure ci notano da quanto andiamo piano: la BMW è accesa, in folle, con i fari puntati sulla strada. Il rumore del motore è così forte da coprire il nostro. Sembrano affaccendati con qualcosa proprio dietro la macchina, probabilmente stanno cercando di inserire il cric per cambiare una gomma. Andiamo ancora avanti per vederli meglio e Cristiano tira giù il finestrino: - sono aggeggi terribili quelli! – dice sorridendo e io allungo la testa dalla sua parte: - avete bisogno di una mano? – Siamo abituati ormai, nelle nostre scorribande notturne, a dare una mano agli sconosciuti in difficoltà. La storie che le persone pericolose girano soltanto di notte mi è sempre sembrata un tantino eccessiva. I tre si voltano di scatto all’unisono, quello quasi totalmente nascosto dall’auto ha il viso tormentato da tagli e graffi, ma lo ritrae immediatamente tornando a trafficare per terra, dietro la portiera. Gli altri due ci fissano senza nascondere una smorfia di impazienza e ci congedano stizziti: - Non abbiamo bisogno di niente, grazie.Li guardiamo ancora un attimo, quell’attimo di troppo. Nel continuo armeggiare dell’uomo sfregiato, dal niente spunta dalla ruota anteriore un braccio bianchissimo. E di lì a poco un grosso sacco nero. Il braccio sembra morbido e delicato, un braccio femminile pieno di grazie e sensualità, ma la carne come latte è stuprata da tagli trasversali irregolari. Rimaniamo tutti in silenzio, sembra che il tempo si sia immobile. Non provate mai a togliere il cibo dalla bocca di un cane affamato. Il Barlume - Anno 2 - Numero 5 - Maggio 2008
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Loro fissano noi, anche l’uomo sfregiato adesso mostra il suo viso deturpato, noi fissiamo il lembo del sacco nero da cui spunta parte di quella donna che doveva avere la pelle bianca come la neve. È come l’attimo prima del balzo, quando i lupi e la preda si studiano. E nessuno azzarda un passo. Cristiano, come scosso dalla trance in cui è affondato, schiaccia il pedale dell’acceleratore e sgommando ci allontaniamo dal quell’orrendo miraggio. Ecco il balzo. Quello che ci ha parlato estrae dalla tasca posteriore dei pantaloni una pistola e ci spara contro due colpi, senza riuscire a forarci le gomme. Mi volto mentre Cristiano impreca e vedo il primo lampo della pistola. Abbasso il capo d’istinto, rialzandolo vedo gli altri due uomini sollevare il grosso sacco nero e gettarlo giù dal fianco della collina. Il secondo tuono della pistola frantuma il parabrezza e una pioggia di vetri mi colpisce il viso ferendomi. Mi abbasso coprendomi gli occhi con le mani. Li riapro spaventato, ma ci vedo. I vetri non mi hanno compromesso gli occhi, ma il viso deve essere una maschera di sangue, lo capisco dall’espressione di Cristiano ogni volta che si volta a guardarmi. Sono saliti in macchina, i lupi sono scattati in avanti per sbranarci, è solo questione di minuti. Cristiano accelera e continua a bestemmiare tornante dopo tornante, curva dopo curva. La casa di Manuel è superata ormai da un pezzo, squilla il cellulare una volta sola, un messaggio per dire che si sta stancando di aspettarci. Provo a chiamare la polizia, ma il campo va e viene, cerco le reti, poi mi incazzo e lascio perdere. Le gomme fischiano sull’asfalto bagnato, ricoperto di una poltiglia di foglie fradice e tritate. C’è il rischio di sbandare. Continuo a tenere le mani sul viso, ogni volta che le allontano dagli occhi le ritrovo zuppe di sangue. Non ho il coraggio di tirare giù il parasole e guardarmi nello specchietto. Un colpo di frusta mi riporta alla realtà, la BMW nera è alle nostre spalle e ci sta speronando. È vicinissima e non sembra che i lupi abbiano intenzione di mollare la preda. Una scarica di adrenalina forte come una scossa elettrica mi paralizza momentaneamente, riesco a malapena ad articolare qualche suono. Poi mi scuoto e piego l’adrenalina a mio vantaggio: mi volto di scatto e vedo uno di loro sporgersi dal finestrino allungando un braccio. Prendo il volante con una mano, reggendomi con l’altra al poggiatesta del sedile e do una sterzata brusca e inaspettata anche per Cristiano che mi grida:- Che cazzo fai? – Il terzo tuono colpisce il vuoto a fianco a noi, Cristiano capisce e mi accenna un sorriso, che scompare subito alla curva successiva. Un’auto ci sta per venire addosso, ci rendiamo conto in tempo di essere sulla corsia opposta e con un altro colpo di sterzo secco la evitiamo per un soffio. L’auto urta quella dei nostri predatori, non è un frontale, una semplice collisione laterale, ma ci fa guadagnare tempo e strada. Ci troviamo ad esultare per la disgrazia di un altro, questa è la portata della nostra disperazione. Finalmente dietro di noi il buio. Provo di nuovo con il cellulare ma non c’è ancora campo: sembra che peggiori la situazione salendo. Dai tornanti dietro di noi non arrivano luci, proseguiamo rapidi cominciando a scalare la montagna. Ancora non ci sentiamo di tirare un sospiro di sollievo, ma forse siamo quasi in salvo. Ad un certo punto un ronzio sempre più vicino ci annuncia un quarto tuono, questa volta a segno. La ruota sinistra posteriore è squarciata e la macchina comincia a sbandare a zig-zag. La BMW nera è dietro di noi a fari spenti, come un demone ci bracca e ci sperona ancora e Cristiano ormai non è più in grado di controllare l’auto. D’un tratto si gioca l’ultima carta. Inchioda vicino alla curva e la potenza dell’urto con l’altra auto fa girare la macchina a centottanta gradi: schiaccia l’acceleratore ripercorrendo la strada a ritroso. L’auto nera rimane qualche secondo ferma. Forse hanno perso conoscenza. Di colpo l’auto riaccende i fari. Un brivido mi corre lungo la schiena.Il nostro veicolo sbanda e non riesce a superare i quaranta chilometri orari. Praticamente stiamo viaggiando sul cerchione che stride come una maiale sgozzato. Cristiano ha gli occhi che brillano dalle lacrime,ma non dice più niente da alcuni minuti, a me brucia il viso dai profondi tagli dei frammenti di vetro. Il Barlume - Anno 2 - Numero 5 - Maggio 2008
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I solchi non andranno mai via. Senza guardarmi allo specchio ho tolto i pezzi più grossi, altri ormai sono entrati sotto la pelle, ci vorrebbe un ago, un coltello appuntito… qualcosa per estrarli. Siamo solo noi nel mondo stanotte… il vento si è alzato di nuovo… solo noi e le belve… un vento caldo e soffocante… le belve affamate che ci alitano sul collo. C’è tanfo di morte e paura. Ormai Cristiano tiene premuto l’acceleratore per disperazione. Si affiancano a noi, grido a Cris di abbassarsi ma sembra non sentire più niente, allora gli schiaccio la testa giù insieme alla mia, sulle sue gambe. Con il sangue non si vede ma sto piangendo come un bambino. L’ultimo colpo del caricatore frantuma il finestrino del conducente, ma la pioggia di vetri questa volta scivola dietro la schiena senza fare danni. La BMW comincia a colpirci per farci andare fuori strada, alzo gli occhi mentre Cris è ancora abbassato per prendere in mano il volante. Mi volto un attimo verso di loro, sono vicinissimi, rabbrividisco, stanno ridendo in modo sadico. Ci stringono verso il precipizio, mi distraggo ancora a guardali ed è un attimo: proprio nel punto in cui hanno gettato il cadavere, l’auto urta contro il bassissimo muretto di sicurezza e vola giù dalla scarpata capovolgendosi in aria. Non riesco a fare niente, non abbiamo più neppure le cinture di sicurezza, veniamo sballottati da una parte all’altra dell’auto come le palline di un flipper. Cris cerca di afferrarmi mentre la macchina rotola e il mondo si capovolge e torna normale più e più volte, grida il mio nome, poi non sento più la sua voce. Sento l’acido di un fortissimo conato scalare prepotente le pareti della gola, per un secondo mi manca il respiro, non riesco a trattenermi, provo a inghiottire ma mi brucia dannatamente la gola. Tra le lacrime e il vomito che si sparge ovunque come in un frullatore, mentre continuiamo a rotolare, dalla bocca riesce solo a uscire un biascicato – Aiuto… aiuto cazzo. – Sembra interminabile questa discesa, poi ad un tratto inspiegabilmente tutto si ferma con un urto pazzesco. Ho la testa schiacciata contro il cruscotto sulla vela afflosciata dell’airbag e a pochi centimetri dai miei occhi una superficie di cemento e pietra. Uno dei tanti muretti di confine che dividono le vecchie proprietà lungo la collina deve aver arrestato l’eterno rotolare. Mi volto verso Cristiano sorridendo per la fortuna di non essere morto. Anche lui sta facendo una specie di sorriso, ma è immobile. Lo chiamo – Cris? – lo chiamo ancora – Cristiano? – Provo a muovere il braccio ma sento una fitta profondo all’osso, sicuramente è rotto. Mi libero a fatica l’altra mano e mi avvicino al suo viso. Scosto una ciocca di capelli che gli copre gli occhi. Per un attimo interminabile vorrei morire. Sento le voci lontane dei tre uomini: - Non è finita bambini! Non è finita. – Rimango immobile davanti a qualcosa che non avrei mai pensato di vedere in vita mia. Le voci lontane, lo sono sempre meno: - Bambini sveglia è l’ora del castigo! – Un occhio, un solo occhio di Cristiano fissa il volante, vuoto, spalancato, come di vetro; l’altro è schiacciato con il resto della parte sinistra della sua testa contro il muretto che ci ha salvati dall’infinito rotolare. Cola sangue, cervello e una cascata di pensieri che Cristiano teneva cari come antichi gioielli di famiglia. Tutti quei pensieri sbrodolati contro il muretto infame che ci ha fermati, e sul parabrezza, o almeno quello che ne rimane; e poi giù, tutti colati giù sulla spalla, dietro l’orecchio accartocciato e sul tettino. Sul tettino che fa da pavimento perché siamo capovolti e in trappola. Sono in trappola. Mentre Cristiano gocciola via con tutti i suoi ricordi e non riesco a muove le gambe dallo shock qualcosa succede nella mia testa. Pensavo che certe cose fossero esagerazioni dei film. Pensavo che nella vita non ci fossero situazioni del genere. Immagini del genere. Per un attimo realizzo, mi trasformo. Non sono più un uomo, in un paese civile ed evoluto, non sono più un cittadino con diritti e doveri. D’un tratto realizzo, e l’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento su tutto, mangia tutto come se non contasse più niente. Il Barlume - Anno 2 - Numero 5 - Maggio 2008
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L’involucro di Cris a cui mi ero affezionato per tutta una vita, non è che un corpo vuoto senza significato. Ci sono solo io, e conta solo quello che pulsa dentro. Realizzo di essere la preda. Sento quelle voci più vicine, ma non capisco le parole, sento che stanno scendendo la collina a passi cauti ma svelti; mi divincolo dall’abbraccio del sedile e mi insinuo come un verme nel piccolo passaggio rimasto libero tra il finestrino e la lamiera. Riesco a uscire con il braccio che non si muove e una gamba che fa male ma si può ancora utilizzare. Mi spingo tra i cespugli e vedo le sagome nere stagliate contro il cielo ormai sgombro e stellato per il forte vento, e mi acquatto cercando di rannicchiarmi e in qualche modo rimpicciolirmi per quanto può essere possibile ad un uomo. Se la situazione fosse diversa potrei anche dire di essere buffo e ridicolo. L’erba bagnata rilascia un forte odore di vita che quasi mi rigenera, a quattro zampe mi trascino a fatica dietro un gruppo di cespugli spinosi molto folto. Tra i rovi vedo il sacco nero, il motivo di quella improvvisa virata della nostra vita verso un buco nero ignoto. Fa capolino anche la massa di riccioli rossi della ragazza che, adesso posso dirlo, era bellissima, e si vedono accesi come fari due occhi spalancati e una bocca distorta in un’espressione di terrificante sorpresa per la novità che ci lega in questa notte di fine estate. Vorrei urlare, una volta per tutte, urlare fino a morire di arresto cardiaco, fino a morire dalla paura. Ma non esce niente dalla mia bocca, solo il sibilo strisciante di una tortura a piccole dosi, protratta per ore allo scopo di farti desiderare di morire. Mi faccio coraggio e comincio a strisciarci dentro il cespuglio più grande lasciando che le spine mi aprano la pelle in tante striscioline di sangue sulle braccia e sul viso ancora infetto dei frammenti di vetro. Rimango in silenzio. Sento le loro voci: - Bambino, il tuo fratellino è già crepato, adesso scuoiamo anche te. – Mi trovo a singhiozzare senza riuscire a controllarmi. Stringo tra le mani un ramo di spine ma non sento niente, perché ormai troppe parti del mio corpo stanno gridando di dolore. Un’ombra mi passa davanti, si fermano le gambe di uno dei tre uomini proprio davanti al grosso cespuglio, ma sono completamente dentro ed è buio, se non faccio rumore non riusciranno a vedermi. Non hanno neppure le torce ma si muovono veloci nella notte come gatti. Le gambe ferme davanti ai miei occhi sfoggiano un lungo coltello da macellaio che ondeggia contro l’aria all’altezza della coscia destra, vedo brillare la lama con i riflessi della notte. Il secondo ha la pistola. Il terzo non so. Ruoto la testa a scatti brevi per non far rumore tra gli sterpi, vedo poco lontano il secondo fermo in piedi alla mia destra. Mi sta fissando. O almeno è quello che sembra dalla posizione in cui sono; probabilmente sta guardando il suo compagno o il cespuglio, è troppo buio, non può vedermi. Sento ridere alla mia destra, è il terzo. Non si capisce cosa ha in mano, ma guarda gli altri divertito. Sono circondato e di sicuro mi hanno visto. Hanno capito. Non possono non aver capito. Sento qualcosa di duro premermi contro la coscia, mi tasto i pantaloni pensando che sia un sasso, ma trovo il cellulare che nel caos credevo perduto. Lo porto piano vicino al mio viso senza aprirlo, potrebbero notare la luce. Sempre che non mi abbiano ancora notato. Il terzo ha qualcosa in mano, sembra un groviglio d’erba, una corda, non capisco… capelli? Ride ancora, e ridono piano anche gli altri, di quel riso da bambini che ne hanno combinata una grossa. Sono di nuovo immobilizzato dalle violente scariche di adrenalina, la paura mi sta completamente anestetizzando, il formicolio si è diffuso dalle gambe lungo la schiena, rendendomi totalmente perduto alla mercè del fiuto dei lupi. Vedo ancora il riflesso della lama troppo vicino per non pensarci. Il Barlume - Anno 2 - Numero 5 - Maggio 2008
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Non voglio quel lungo coltello a dilaniarmi le carni, non voglio sentire dentro i mie organi squarciarsi al passaggio di quella nave affilata. So di essere perduto. Mi resta solo il desiderio del condannato. Morire in fretta, morire subito, senza provare alcuna sensazione. Devo avvicinarmi all’uomo col la pistola, devo far si che sia lui il primo ad avermi sotto tiro. I tre sembrano adesso muoversi all’unisono in direzione di quello che sta ridendo, e si allontanano lievemente dal mio campo visivo. Allungo il collo per cercare le loro sagome e li vedo allontanarsi. Non ci credo e guardo meglio. Sono vicinissimi, ma si stanno allontanando, stanno cercando altrove; lascio uscire l’aria dai polmoni che si sgonfiano dandomi un sollievo troppo spesso sottovalutato. Mi sento di nuovo in forze ma cerco di non fare passi falsi, prendo con la mano il telefonino, ora che sono voltati e lo apro. C’è campo. Bacio il cuscino di erba bagnata sotto il mio viso, è ancora presto per chiamare aiuto, sono ancora a un passo da me, ma se ne stanno andando. Li sento borbottare, la loro voce non è più un ghigno diabolico, sembrano preoccupati di trovarmi al più presto, sento piano che si allontanano, sembra che stiano litigando sottovoce… si allontanano. Si accende un minuscolo flash davanti ai miei occhi, il telefono prende vita e comincia a squillare. Squilla a volume altissimo per il silenzio di quella notte maledetta. È Manuel che si è stancato una volta per tutte di aspettarci. I lupi di colpo drizzano le orecchie e annusano l’aria. - Bambinooo...-
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SOLO QUELLO Marcio I. Del Pielio Posso scrivere i versi, Pablo, avevi proprio ragione. Potevi scrivere i versi più tristi del mondo. Anche io stasera, lo sai vecchio, che posso scrivere versi tristissimi. I versi che mi fanno stare peggio, perché tu, mio vate, l’avevi avuta, io l’ho soltanto sognata. Quanto tristi possono essere i versi che scrivi P.? Io non so scrivere versi, io non so scrivere. Io non sono nemmeno capace di vivere come puoi pretendere che sappia venire e raccontarti, raccontarti come sto male adesso che sento il flusso del cibo che mi scorre in cima, deborda come male e io, e io che sono dio, per questa notte soltanto, e il cibo lo vedo in frantumi vomito sul fondo della tazza di un qualunque cesso – chissà se questa casa mia o casa di chi – forse è un bordello, posso aver cercato solo uno psicologo o una puttana stasera che poi alla fine raggiungono lo stesso risultato, di farti sentire potente quando non lo sei. Preferisco un sano e dignitoso silenzio che le parole della sconfitta. Dove sei, Dio? Dove sei, parola, frase poesia, prosa romanzo, dove sei ispirazione, dove finiscono gli angeli che piangono? Uno strumento è questo, fa sentire le corde. Passo un’ora mi minore tricorda. Solo quello. Solo io.
Il Barlume - Anno 2 - Numero 5 - Maggio 2008
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LA SDRAIO Denni Romoli e Emidio Picariello C’era una volta la Sinistra… mio nipote chiede, con l’aria intenta e pensosa dei bambini che si rivolgono ai grandi, “Zio, che vuol dire di sinistra?”. Rispondo che è quella parte politica che occupava il ramo sinistro del parlamento, famosa per le battaglie civili e la tendenza progressista verso idee come libertà, uguaglianza, democrazia. Famosa, spero se ne ricordi mio nipote, per l’autolesionismo, la vocazione alla lamentela, l’incoercibile dedizione all’opposizione, al rancore vacuo. Quelli di sinistra sono bravi a far satira, come chiunque si ritrovi all’opposizione fin dalla nascita. Contenti loro. C’era una volta la Sinistra… mio nipote, poco soddisfatto dalla risposta troppo invischiata di rabbia, mi chiede “Zio, che cos’è la Lega Nord? Noi siamo dentro la Lega Nord?”. Rispondo che è un partito politico fondato da gente che si riunisce in riva ad un fiume, prega attorno ad un bicchiere di carta pieno d’acqua del Po e che utilizza il tricolore italiano per nettarsi il deretano. Arrabbiati contro gli sprechi e gli abusi quelli della Lega Nord, intransigenti verso lo scialacquio economico e le dispense paternalistiche al Sud improduttivo, spero se ne ricordi mio nipote, ma assai pronti ad allargare le maglie del portafoglio quando scendono a Roma e fanno il loro ingresso in Parlamento. C’era una volta la Sinistra… mio nipote, divertito dal riferimento al fondoschiena, mi chiede maggiori informazioni, stavolta di ordine civico. “Zio, che differenza c’è tra democrazia e dittatura?”. Rispondo parafrasando Bukowski, anche se lui non lo sa: “In Italia, angelo mio, non vi è molta differenza. Comunque, in dittatura una persona ha tutto il potere nelle sue mani. In democrazia, prima si vota e poi una persona ha tutto il potere nelle sue mani”. Spero se ne ricordi, mio nipote. “Ma non è giusto zio” salta su mio nipote. “Possibile che nessuno si renda conto che le cose vanno decise tutti insieme?”. Forse di questo si dimenticherà facilmente mio nipote, ma io spero se ne ricordi: “Amore mio, c’era una volta la Sinistra…”.
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SALUTI DA‌
‌ Federica che saluta dal bagno della casa di Andrea a Lecco.
Le foto di questo numero sono state scattate da Costanza Maremmi
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Il Barlume - Anno 2 - Numero 5 - Maggio 2008
Mensile fondato e diretto da Costanza Maremmi
c.maremmi@barlumismo.org Denni Romoli
d.romoli@barlumismo.org Emidio Picariello
e.picariello@barlumismo.org
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