Il Barlume A2 N6

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IL BARLUME

Anno 2 numero 6 - Giugno 2008


EDITORIALE Che bella cosa na jurnata 'e sole, n'aria serena doppo na tempesta… Arriva a passi timidi la piena primavera, e con essa il profumo del gelsomino in fiore. La televisione ci informa che, nel migliore dei mondi possibili, la preoccupazione di stagione va riservata alle creme necessarie per favorire la termofissione abbronzante, alle mete vacanziere dei noti, arcinoti e meno noti volti dello show-biz, alla dieta vegetariana che fornisce la snellezza necessaria per rifletterci con sicumera nello specchio degli occhi altrui.

Pe' ll'aria fresca pare gia' na festa Che bella cosa na jurnata 'e sole… Com’è confortante sapere che questi sono i veri problemi della vita.

Ma n'atu sole cchiu' bello, oi ne'. Peccato che alcune informazioni tendano a distoglierci dalla rassicurante idiozia pre-estiva. Napoli, ad esempio, dove lùcene 'e llastre d''a fenesta toia e 'na lavannara canta e se ne vanta. Ma non solo. Si canta e si lavora sopra e sotto ai rifiuti, agli scarichi tossici, alla diossina, alla polizia violenta e alla folla strumentalizzata ed esasperata.

Quanno fa notte e 'o sole se ne scenne, me vene quase 'na malinconia… Orgogliosi di tanta italianità e tanta italica virtù, abbiamo deciso di dedicare un numero del Barlume a Napoli, con i contributi di tre autori campani: Emidio si dedica ai rimbalzi di vita precaria con il suo Napolitalia, Vera ci conduce nell’impotenza delle infanzie abbandonate, Emilia ci racconta di legami che non si possono recidere. In conclusione, potrete accomodarvi sulla sdraio di Denni e Emidio. Il tutto, come al solito, arricchito dalle fotografie di Costanza, ma anche dall’apparizione di due nuovi collaboratori alle immagini, Giorgio Violino e Francesco Cicconardi, ai quali porgiamo il nostro benvenuto tra i barlumisti. Buona lettura DePiCo

Foto di Giorgio Violino Il Barlume - Anno 2 - Numero 6 - Giugno 2008

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NAPOLITALIA Emidio Picariello Carlo sale sull'autobus. E' stanco, pur essendo solo lunedì mattina. Il suo capo lo chiama di nuovo, lo sta tempestando di telefonate. Non risponde. Il suo capo non gli vuole rinnovare il contratto Co.Co.Pro. e sta cercando di farlo andare via. Venerdì si è arreso alla dodicesima chiamata non risposta. E' stanco. Solo lunedì mattina. Guarda il display del telefonino illuminarsi, schiaccia il tasto mute e lo rimette in tasca. Squilla il telefonino di Giulia, stesso autobus, una fila più avanti. Dalla parte di là della cornetta c'è la signora Assunta. La signora Assunta affitta alle ragazze la stanza dove vivono per studiare. Giulia cerca di spiegarle che quella riparazione che ha anticipato va scalata dalla quota di affitto - a nero che pagano tutti i mesi. Trecento euro la singola, duecento la doppia. La signora Assunta le dice che la caldaia l'hanno rotta loro, e che quei cento euro in più li devono pagare. Giulia pensa come fare a chiederli a suo padre. La signora Assunta pensa che quei cento euro sono una goccia nel mare. Nel mare di guai in cui si trova suo genero, Beppe. Beppe ha studiato legge si è laureato con 110 e lode alla Federico II, e il giorno della laurea era pure contento. Poi ha fatto “cinquanta concorsi, novanta domande e duecento ricorsi” e alla fine si è aperto un negozio. Ma ha chiesto i soldi alle persone sbagliate nel posto sbagliato e ora non passa sera che non si addormenti piangendo. Prima o poi qualcuno verrà a fargli visita e non sarà una bella cosa. Qualcuno tipo Salvatore, per esempio. Suo padre l'hanno ammazzato che lui aveva 7 anni, stava uscendo dal carcere. La mamma di Salvatore ha fatto di tutto per tirare a campare lui e i suoi fratelli. Tutto, e pure quello, ma non diteglielo perché Salvatore vi ammazza. E' solo il modo che ha per non morire. Mentre Salvatore va a trovare Beppe, perché c'è da dargli un avvertimento, urta Carlo che cammina su via Roma. Il suo telefonino squilla ancora. Carlo non abita qui, lui abita nel Centro Italia. Qui ci viene qualche volta, per lavoro. E si guarda sempre intorno perché è di Napoli, ma non può fare a meno di odiarla. Così come non può fare a meno di amarla. Il suo telefonino squilla ancora.

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Ma stavolta è Marco, che sta mandando un messaggio. Vuole ricambiare quella birra che Carlo gli ha offerto. Marco è ancora più precario di Carlo. Fa qualunque lavoro pur di salvaguardare quello che si è conquistato: vivere per conto suo, con la sua ragazza. Carlo non vorrebbe farsi offrire quella birra, per non sballare il bilancio di Marco che immagina molto risicato, ma ha paura che non farsela offrire lo umilierebbe, invece Marco ha dignità da vendere. Da vendere per esempio al suo capo, De Girolami. De Girolami ha un’agenzia di lavoro interinale. La maggior parte delle volte che manda qualcuno a lavorare in qualche posto dopo un mese l'azienda si mette d'accordo direttamente con quello che lui gli ha mandato, e così De Girolami ha fatto selezione per le due lire che gli sono toccate il primo mese, e poi picche. E De Girolami pensa a come fare per non chiudere. Carlo si ferma in pizzeria per pranzo. Si siede. Alla televisione, il portavoce del Governo annuncia che è stata trovata l'intesa sulla legge elettorale con l'opposizione. Carlo pensa che questo vuol dire che si voterà presto, fra un anno e mezzo, e che nel frattempo il Governo non farà nulla. E forse dopo toccherà all'opposizione governare e l'opposizione non farà nient'altro che l'interesse personale del suo leader. Non farà nulla per lui e per quelli come lui. Nessuno farà nulla. Il telefonino squilla ancora. Carlo guarda il numero, apre il coperchio del suo bicchiere di cola alla spina e ce lo lascia scivolare dentro.

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APPUNTAMENTO AI PIEDI DEL VUCLANO Emilia Dattilo Sei stata mia madre.

La donna che mi ha nutrito. La radice che mi ha abbandonato. Sei stato mio padre.

L’uomo che mi ha insegnato. Il pugno che mi ha rotto il naso. Sei stato mio fratello. Il compagno di giochi. Sei stata mia sorella. La custodia di ogni segreto. Sei stato l’uomo che ho amato alla follia per tutta la vita. Il fardello più grande di un’apolide testarda che non esiste più. Ti spio di nascosto quando tu non sai che ti sto osservando. Ti leggo sui giornali che ti vogliono deceduto, decaduto, divorato dalle lotte del potere. Ti seguo nella voce di ogni sconosciuto che intercetto per strada, solo perché mi ricorda la tua. Ti mangio ogni giorno illudendomi che a imbastire il pasto che mi hai insegnato, mi ritorni nelle viscere anche il tuo calore. Ti saluto ogni mattina quando guardandomi allo specchio ritrovo il tatuaggio genetico che mi hai lasciato. Ti sogno di notte grondante di pioggia, carico di sole, disteso indolente a farti passare addosso gli anni. Non un giorno da quando sono partita ho cessato di pensarti. Sei attaccato alle viscere e brancoli nella mente. Sei nel sangue che spargo ogni mese e nel sudore che disperdo. Sei sotto la pelle a ruggire salvezza. Sei stata la rabbia che chiede servi. Oggi sei la pace che mi fa libera. Voglio riconoscerti. E voglio che tu riconosca me. Mi trovo davanti alla tua porta di mare a chiederti di lasciare nell’acqua quel patto di nascita. Sono qui, alle tue falde, a dirti che quel contratto col sangue è stato veleno smaltito. Sono qui con la mani aperte a chiederti di aprire le tue. A cercarti per sentire se posso essere per te e tu puoi essere per me.

Emilia. Napoli.

Tra di noi un punto da ridefinire.

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Foto di Francesco Cicconardi

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IL PRIMO GIORNO Vera Aquino E’ Pasqua, c’è il sole per fortuna. Infilo un maglioncino leggero, un paio di jeans, scarpe comode. Tra poco saranno qui. Anche lui. L’appuntamento è alla 9, ma c’è sempre il ritardatario della domenica, quello che il sabato non può fare a meno di bere e far tardi con gli amici. Almeno il sacro sabato. In macchina sono tutti gentili, fanno mille domande: cosa studio, cosa penso, cosa sogno. Mi piace questo gruppo, particolarmente eterogeneo. La prima cosa che mi colpisce è l’intonaco del palazzo, sgretolato qua e là, poi il silenzio. Strano, mi dico, generalmente i bambini sono molto rumorosi, 20 insieme poi dovrebbe dare una rappresentazione abbastanza fedele al concetto di caos. Al citofono una vocina flebile e lamentosa dice “Attendere, verranno ad aprirvi”, dopodichè veniamo investiti da un odore di muffa e cucina, odore di ospedale, in ogni caso nauseante. Aspettiamo nell’atrio. Non ci è permesso entrare nelle stanze dei bambini. Nel frattempo, chiacchieriamo del nostro sabato sera, guardando le foto appese al muro, tante foto. Si sente un vociare indistinto e poi eccola, sulla porta, una suora, piccola piccola, in grigio, ci dice “Non vi conosco ancora, la responsabilità è mia e i bambini non possono uscire”. Andiamo in cortile, propone qualcuno. I più autonomi hanno già occupato le altalene, i più timidi attendono un cenno di assenso della madre superiora. Andrea di sicuro è tra i più spigliati, ha lentiggini sul volto e strane macchie sulla pelle. Mi accorgo che i bambini non sono vestiti in modo adeguato: fa troppo caldo e in pochi minuti i loro maglioni di lana, arrotolati al gomito, grondano di sudore come le loro fronti. Ermelinda ha qualcosa in braccio da cui proprio non vuole allontanarsi, Nicolina le dice che Enza è anche sua sorella e chela più grande è lei ed è capace di decidere, ma Ermelinda non cede. Cerchiamo di distrarre le bambine e spontaneamente le chiediamo “Quanti anni hai?” Ermelinda, serafica, risponde “Ventuno”, ma non mi mandano via perché qui ho Enza, Antonio e Nicolina. Che siano tutti figli suoi è escluso. Le assistenti mi vedono in difficoltà e mi raccontano la loro storia, una tra tante, inutilmente triste. Un ragazzino, appena arrivato, dicono, è alquanto irrequieto. Cerco di giocare con lui, ma dopo un po’ mi ritrovo sanguinante su una panchina del cortile. Non sapevo che Alessandro non ama il contatto fisico; come premio mi ha graffiata e morsa. Certo, penso, servirebbe una preparazione a questo. Ora di pranzo. Solo alcuni dei “bambini”, possono essere portati a pranzo in una “famiglia vera”. Questa settimana mi toccano Giacomino e Mariangela, dicono che sono i più tranquilli, loro hanno solo subito violenze dai genitori, o da chi per essi, ma “non hanno malattie”, mi rassicura la madre superiora. A casa c’è aria di festa. Appena i miei ospiti riescono a sedersi a tavola, dopo aver toccato tutto e chiesto il funzionamento di ogni cosa fosse a loro portata, gli altri, il resto della mia numerosa famiglia, si alzano commentando “Noi non riusciamo a mangiare con quelli a tavola, puzzano e toccano tutto, fanno schifo”. Giacomino e Mariangela, ignari di quanto avviene alle loro spalle, continuano a sbocconcellare fette di pane che poi lasciano andare sulla tavola. Lascio che finiscano il loro pasto e, delusa, li riporto dalla madre superiora. Li saluto e un pensiero mi lascia immobile davanti al portone d’ingresso: “Cosa posso fare per loro adesso?”

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LA SDRAIO Emidio Picariello e Denni Romoli Game over. Finisce sempre così, o almeno dolorosamente troppo spesso. Da bambini, i videogames costavano 200 lire ed erano innocui, con buona pace dei moralisti. Oggi costano vite umane e milioni di euro. Stiamo parlando dell’attualissimo gioco virtuale, prodotto da Made in Italy, Napoli Super Thrash, dove potrete trovare e scegliere, tra innumerevoli figuri, i vostri personaggi preferiti, i quali dovranno occuparsi di debellare la piaga dei rifiuti nella città di Napoli. Ed ecco che potrete diventare il presidente-netturbino Silvius, il vittimista Bertolaso, l’imbonitore Fede, il cerebro-assente Rutelli, l’inconcludente UdS (Uomo di Sinistra). Naturalmente, il vostro personaggio preferito dovrà lottare non solo contro le difficoltà legate allo stoccaggio e al riciclaggio dei rifiuti, ma anche contro l’altra anima di Napoli, l’anima becera, disinteressata, che guarda solo al proprio orticello, fatta d’ignoranza, camorra, amoralità. Nel caso assai probabile di fallimento, la Made in Italy ha però previsto un eccezionale finale: il vostro personaggio, nonostante tutto, si salverà senza nessuna ammenda o censura, potendo continuare indisturbato a percepire soldi e protezione politica, mentre si staglieranno sullo sfondo apocalittiche immagini di guerriglia urbana e desolazione civile. Comprate, comprate, comprate. Il primo consiglio dei Ministri si è tenuto a Napoli. Ciro, il nostro opinionista, ha così commentato: "Stevam' scarz' a munnezza".

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SALUTI DA‌

‌ Francesco e Paolo dal meraviglioso panorama serale napoletano

Le foto di questo numero, tranne quelle di pagina 2 scattata da Giorgio Violino e quella di pagina 5 scattata da Francesco Cicconardi, sono di Costanza Maremmi

Il Barlume

info@barlumismo.org Anno 2 Numero 6 Giugno 2008

Il Barlume - Anno 2 - Numero 6 - Giugno 2008

Mensile fondato e diretto da Costanza Maremmi

c.maremmi@barlumismo.org Denni Romoli

d.romoli@barlumismo.org Emidio Picariello

e.picariello@barlumismo.org

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