IL CORPO 1/12 “… un agglomerato di eterogenei”
Lupus in lectore Luciano Liboni inseguito da Valerio Callieri Può suicidarsi una nazione? Enrico Pozzi sull’ultimo libro di Ian Kershaw
PELLE, PSORIASI E FANTASMI DELLA NATURA di Cristina Cenci e Enrico Pozzi NEL WEB 2.0
PELLE IMPURA FIN DE SIÈCLE Corpo e immaginario: un libro di Nicola Porro
Diario paranoico-critico: il corpo di Obama LIBRI DA NON LEGGERE Abstracts/résumés
rivista IL CORPO, n° 1, settembre 2012
ISSN: 2279-929X © ilcorpoedizioni
IL CORPO, rivista online nuova serie, anno I, n. 1, settembre 2012 SITO WEB: www.ilcorpo.com REDAZIONE: Cristina Cenci, Francesco Dimitri, Matteo Borsacchi, Enrico Pozzi CONTATTI: 0688816950, redazione@ilcorpo.com DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE: Body & Society Lab, Via Ombrone 14, 00198 Roma. ISSN: 2279-929X Š ilcorpoedizioni
“ un agglomerato di eterogenei, corpo, appunto ….” Nel 1965 nasce a Milano una rivista autogestita, IL CORPO. Pubblica 6 fascicoli che influenzano in modo duraturo lo spirito di una generazione. Uno dei suoi protagonisti, il poeta Giancarlo Majorino, la descrive come « un agglomerato di eterogenei, corpo, appunto; un piccolo campo spostato ». Nel 1993 abbiamo ripreso la logica e l’etica di quell’esperienza. Poetico, erotico, psicoanalitico, sociale, politico, filosofico, estetico, il corpo è la nostra area di lavoro prevalente. Ma è anche la metafora di una ricerca sistematica delle contaminazioni tra categorie e campi del sapere, contro la chiusura difensiva delle varie scienze sociali e delle loro corporazioni professionali. Sempre « agglomerato di eterogenei », i 14 numeri de IL CORPO 2nda serie pubblicano saggi sul corpo e sulle sue vicissitudini sociali; ma anche scritti su situazioni-limite del sociale (i suicidi collettivi), sui fondamenti paranoici della socialità e dell’ideologia, sulla leadership carismatica e sul simbolismo politico. E ancora: il delirio geloso, i corpi sociali dei potenti e dei divi, le logiche narrative del caso clinico, il pensiero visivo ... L’ultimo fascicolo della 2nda serie esce nel 2006. La talpa scava ancora. IL CORPO rinasce, non più solo rivista, ma campo plurimo: libri, materiali, forme, diari di lavoro, notizie. Il palinsesto è diverso, lo strumento è nuovo. Quello che non cambia è il rifiuto degli oracoli e di ogni modalità di pensiero iniziatico o totalizzante. Ci ripugna chi cerca la verità nelle origini o in sacri testi, chi vuole rifondare la presunta purezza di qualcosa che è stato, chi si sente al suo giusto posto in un ruolo, in una visione del mondo, in una corporazione professionale, in una disciplina, o nel proprio corpo. L’ibrido e lo straniero interno sono il nostro sguardo e il nostro metodo. Solo l’impuro è fertile, nelle menti come tra i corpi, nelle società come nel discorso.
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Lordare i puri, distruzione creatrice, produrre l’informe: questa la visione e la missione de IL CORPO. Solo in questo modo, forse, « a poco a poco si rivelano in tutte le cose i segni contraddittori della servitù e delle rivolte » (G. Bataille, Le Jeu lugubre).
Lupus in lectore. Archeologia di Luciano Liboni come anti-eroe di VALERIO CALLIERI
Un uomo entra in un bar di un piccolo paese. La signora che gestisce il locale, insospettita da una faccia poco raccomandabile e dall’aspetto trasandato, chiede l’intervento di una pattuglia dei carabinieri. Un agente sopraggiunge e procede al controllo. L’uomo lo invita a seguirlo, i suoi documenti sono custoditi nella moto parcheggiata fuori. L’uomo apre il bauletto della moto, estrae una pistola e uccide il carabiniere con due colpi. Nonostante i posti di blocco in tutta la zona circostante, riesce a fuggire e fa perdere le proprie tracce. È il 22 luglio del 2004, a Pereto di Sant’Agata Feltria (Marche), e l’uomo in fuga si chiama Luciano Liboni, pregiudicato e latitante da due anni. Il 24 luglio, a Roma, vicino alla stazione Termini, due agenti della polizia fermano un uomo che sembra assomigliare al fuggitivo. È Luciano Liboni, che ingaggia una sparatoria e fugge un’altra volta, sequestrando un’automobile e facendosi portare dal conducente alla vicina stazione della metropolitana. Il dispositivo di controllo messo in piedi dalle forze dell’ordine è ingente: posti di blocco sulle strade della capitale e in tutto il centro Italia, controlli nella metropolitana e alle fermate degli autobus, elicotteri, pressione sui confidenti della malavita romana. Queste misure non danno risultati. Le foto segnaletiche sui giornali e in televisione producono solo un’ondata di falsi avvistamenti. Le immagini di Liboni occupano per una settimana gli schermi mediali, e diventano decisive il 31 luglio. Una signora riconosce il fuggitivo che passeggia vicino al Circo Massimo a Roma e contatta le forze dell’ordine. Liboni vede avvicinarsi una coppia di carabinieri
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in motocicletta e dopo una sparatoria fugge per qualche decina di metri. Prende in ostaggio una turista francese e le punta la pistola alla testa minacciando di ucciderla. Inizia una contrattazione a voce tra Liboni e un carabiniere mentre il secondo lo aggira e gli spara alla nuca. Liboni viene ammanettato e un’ambulanza lo porta all’ospedale dove morirà poco dopo. Il desiderio non è mai ingannato. L’interesse può essere ingannato, misconosciuto o tradito, non il desiderio. Donde il grido di Reich: no, le masse non sono state ingannate, hanno desiderato il fascismo, ed è questo che bisogna spiegare... Capita che si desideri contro il proprio interesse: il capitalismo ne approfitta, ma anche il socialismo, il partito e la direzione del partito. Come spiegare che il desiderio si lascia andare a operazioni che non sono misconoscimenti, ma investimenti inconsci assolutamente reazionari? 1
La storia di Liboni scuote l’immaginario e convoca archetipi più o meno cristallizzati nel sentire sociale. Non possiamo valutare scientificamente l’immaginario. Crediamo che lo specchio dell’immaginario siano le storie. L’immaginario è rasserenante e angosciante allo stesso tempo: deposito simbolico di narrazioni funzionanti come modelli narrativi greimasiani, ma anche fabbrica simbolica che interagisce con un corpo sociale in divenire. Una produzione di desiderio e di paura che agisce alchemicamente arricchendo e spostando in là il limite emotivo della compagine sociale. Immaginario e inconscio, visibile e invisibile come vorrebbe il senso comune. In realtà come un sogno vive solo nella sua narrazione, anche queste due forze si dispiegano in dispositivi discorsivi atti ad esprimerli. La narrazione di Liboni viene raccolta e ri-prodotta da tutto il metaterritorio mediale mainstream e narrowstream: giornali, scritte murali, televisioni, internet, cori da stadio e un film 2. Noi abbiamo analizzato prevalentemente la copertura mediale fatta dalla stampa nazionale selezionandone il testo e l’apparato iconografico. Ciò che emerge è un dispositivo di cattura dove il piacere e il potere della visione producono un vero campo di battaglia semiologico, e dove è decisiva la produzione di senso. « Queste immagini sono proiezioni del desiderio, in cui il collettivo cerca di eliminare o di abbellire l’imperfezione del prodotto sociale, come pure i difetti dell’ordinamento sociale della produzione » 3.
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La narrazione mediale del fatto suscita un piacere molto simile alla lettura di un romanzo popolare, di un noir o di un mito. Attrae come un romanzo popolare a puntate, possiede al suo interno i topoi semantici del noir e viene raccontata come una favola mitologica. Joseph Campbell ha tentato una classificazione del percorso narrativo dei protagonisti del mito nel suo L’eroe dai mille volti. Nella nostra analisi seguiremo sintatticamente l’itinerario classico del mito, analizzando il livello immaginario/semantico durante le tappe narratologiche descritte. Le domande che accompagneranno l’analisi del testo saranno: perché Liboni viene narrato come un mito? Perché catalizza a sé l’intero metaterritorio mediale? Perché è oggetto di una volontà di sapere sociale? Perché fa paura? Perché affascina? Come funziona l’evento di Liboni nel con/testo sociale? Di certo c’è che il caso Liboni diventa una questione nazionale da cui i media di massa ricavano un’audience eccezionale per il periodo in questione. Liboni sarà uno spettro che si aggira sull’informazione nazionale, una persona simbolo di paura e di disordine. Sarà una variazione sul tema del topos mitico del folk hero, un solitario capace di trasformarsi, di assumere mille forme per celarsi agli occhi del nemico che lo controlla, il mito del ribelle che si dà alla macchia e combatte contro i poteri che lo circondano, un mito archetipico diffuso in tutte le società fin dal Ramayana indiano e pronto a riattivarsi in determinate situazioni. Vedremo come Liboni sia stato un innesco della macchina mitologica dei media di massa. L’itinerario della comunicazione di massa è progressiva colonizzazione del disordine, il territorio della paura. Sennett 4 ripercorre la distinzione medievale tra le due città: quella della dimora senza territorio dell’anima, e quella della dimora fisica del corpo e dei poteri mondani. Lo spazio sacro della civitas garantiva l’immunità alle persone ma lasciava che la civitas del mondo secolare continuasse ad essere amorfa, violenta, uno spazio di amnesia morale. Il paradigma foucaultiano del governo preliberale: « lasciar vivere » i corpi del volgo fino a quando non intacchino il corpo del potere sovrano e divino. I media di massa hanno progressivamente dato visibilità al mondo sensibile espulso dalla civitas Dei di Agostino: il trivio, e con esso il caos, non può più essere arginato simbolicamente dai confini del castello e della chiesa. Nelle forme espressive della modernità si uniscono
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le due città della civiltà occidentale; il discorso simbolico dello spazio pubblico mediato dissolve gli argini territoriali, supera la contesa tra potere sacro e profano per la definizione della realtà del territorio. Lo spazio esterno della diversità e del caos, la zona dell’interdetto, viene lentamente colonizzato, illuminato. I luoghi dell’ordine e del disordine saranno introiettati e resi visibili nella cornice controllata di forme della comunicazione di massa: « La comunicazione sociale è appunto la forma espansiva che ha realizzato la progressiva trasformazione del disordine del mondo esterno […] dei misteriosi delitti del trivio, dei pericoli fisici e morali di chi vi si avventura o di chi ne proviene » 5. Liboni e il corpo sociale sono gli attori conflittuali della narrazione. L’eroe della nostra storia è un’entità sociologica: il corpo sociale. Liboni è l’antagonista dotato di un programma narrativo opposto. Quella che andremo a leggere è la maniera in cui un evento violento diventa una macchina mitologica nel metaterritorio mediale. Un mito che assume le forme narrative del « viaggio dell’eroe » 6.
1. Il Mondo Ordinario Campbell descrive il mondo ordinario come l’inizio del viaggio, il luogo da cui l’eroe parte per avventurarsi in una regione di meraviglia soprannaturale. Il corpo sociale affronta il percorso partendo da questo ambiente quotidiano. Il mese di luglio 2004 nel nostro itinerario rappresenta il territorio cronologico da cui muovono gli eventi. È una sezione storica di immaginario caratterizzata da varie onde emozionali che muovono lo stagno dell’opinione pubblica italiana. Picchi d’iceberg che mostrano ciò che si agita all’interno del corpo sociale e al di là della sua consapevolezza. Lo schermo mediale è bianco, intarsiato appena da sterili significanti. Nessun Dpef da commentare, nessun mondiale di calcio da consacrare, né verbali di intercettazioni da pubblicare. Nessuna strage contro l’enduring freedom occidentale, le bombe di Madrid distano diversi mesi e quelle di Londra esploderanno l’anno successivo; emergono
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però alcune tracce che, se collegate tra loro, mostrano il rovescio del quadro dell’opinione pubblica, impegnata a dibattere singolarmente e stancamente questi eventi di prima pagina:
... la Francia concede l’estradizione per Cesare Battisti, folk devil sineddoche della generazione anni ’70 italiana, che fugge facendo perdere le sue tracce nel cuore dell’Europa… Inizia il processo a Saddam Hussein in diretta tv nel tentativo di risignificare il capo carismatico di un popolo in capro espiatorio di una guerra. Benché lontana geograficamente, l’immagine del ‘re nudo’ rappresenta il crollo del suo doppio corpo nazionale e delle proiezioni che il sociale vi scrive sopra. Saddam Hussein illuminato dai media come mostruoso tiranno si pone dall’alto al di fuori della comunità umana, negli stessi termini in cui un mostruo-
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so criminale viene posto dal basso. Con la sua eliminazione la società viene purificata dal sacro male che ora rappresenta. Saddam non è Luigi XVI e viene processato, ma in una sorta di limbo giuridico internazionale in cui è evidente l’extra/ordinarietà dell’attore… Muore Marlon Brando, ‘il selvaggio’, ribelle senza causa che si muove in moto, icona mitologica della brutalità e del desiderio, un orco meraviglioso che rappresenta l’ombra della political correctness maccartista; l’oscurità di Apocalypse Now, la natura che irrompe nella cultura di Ultimo tango a Parigi, l’ipnotico Padrino carismatico di una comunità criminale. È la caduta di una divinità nel panorama immaginario occidentale… Al Qaeda minaccia esplicitamente l’Italia come bersaglio di un futuro devastante attentato…
In Iraq viene decapitato un ostaggio bulgaro e per la prima volta un marine americano. Una barbarie che insegue la barbarie di Abu Ghraib, video e immagini narrowstream che mostrano il rimosso dei media mainstream sulla guerra, non più videogioco dalla cloche di un aereo, né scintillanti scie verdi nella notte mediorientale della prima guerra del Golfo. Barbarie appunto nel senso di una grammatica visiva sconosciuta o dimenticata nel mediascape brillante, del corpo in salute, della cultura del narcisismo; stavolta però
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è l’Occidente che ‘balbetta’ di fronte al corpo dilaniato, ‘fatto morire’; lo splendore dei supplizi mette in ombra il corpo docile e amministrato 7… Annamaria Franzoni, mostro di Cogne, viene condannata a 30 anni di carcere con rito abbreviato e riappare nella luce mediale il rovescio osceno della figura materna in grado di dare vita ma anche di frantumare l’atomo stesso del sociale 8. È l’ennesima puntata del feuilleton che seduce e fa dibattere milioni di italiani, mossi dalla paura che le particelle elementari del corpo sociale lo facciano implodere dal basso…
La società liquida, del rischio, della crisi, di controllo, dell’incertezza, come l’hanno definita alcuni teorici dotati di facile immaginazione sociologica, è caratterizzata dalla flessibilità post-fordista dei mercati occupazionali e dei rapporti giuridici di lavoro, dall’internazionalità dei mercati finanziari e dei capitali multinazionali sempre meno regolamentati dalle leggi nazionali, dalla disgregazione crescente dei nuclei familiari. Queste alcune delle coordinate su cui si installano le politics of anxiety che caratterizzano la quotidianità individuale e collettiva. È un terreno fertile su cui possono attecchire facilmente i processi di panico morale e la parallela costruzione del folk devil. Una paura generalizzata della contaminazione, dell’attentato, dei licenziamenti, dell’aggressione, del caos, dell’incidente, della catastrofe naturale, dell’abbandono, in cui tutto si confonde, e il cui unico
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rimedio sembra l’eliminazione definitiva del tragico e l’instaurazione della sicurezza assoluta nel territorio privato. Come ha evidenziato Bauman 9, i « cittadini » mostrano un qualche interesse collettivo, attraverso mobilitazioni che sfiorano il fanatismo, solo in presenza di un possibile « nemico pubblico », cioè di qualcuno che semplicemente rimanda ad una presenza altra all’interno dei nostri mondi. Un ‘altro’ visto attraverso il frame mediale della paura, della minaccia incombente « Simili alla propaganda, i messaggi sulla paura sono ripetitivi, come stereotipi di minacce esterne e soprattutto si riferiscono al sospetto e agli altri come ‘cattivi’. Questi messaggi risuonano di panico morale, con la conseguenza che si deve far qualcosa non solo per sconfiggere un nemico specifico, ma anche per salvare la civiltà » 10. Insicurezza nei canovacci narrativi moderni, crisi del nomos, paura, sono lessemi e formule racchiuse nel vocabolario motivazionale e diagnostico del nostro momento storico. In realtà una parola spesso ignorata ci sembra rispondere meglio alla situazione del sociale: angoscia. Una situazione di paura generalizzata senza oggetto. Effettivamente nessun evento di quelli sopra descritti mantiene la ‘prima pagina’ dell’agenda mediale per troppo tempo. Sono notizie carsiche destinate alla spirale del silenzio dopo uno o due giorni, oggetti mediali evanescenti in grado però di diffondere semi di panico sociale. L’angoscia non fa più insorgere un simile perturbamento. È attraversata piuttosto da una quiete singolare. Certo, l’angoscia è sempre angoscia di..., è sempre angoscia per..., ma non è per questo o per quello. Tuttavia, l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo non è un mero diletto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza 11.
L’impalpabilità degli eventi descritti sopra suscita questo sentimento. L’angoscia come tensione indefinita en attendant Godot, un deus ex machina risolutore dell’indeterminatezza. Un oggetto concreto e simbolico come un corpo che assuma in sé la polivocità dei segni, un corpo sopra il quale scrivere il rimosso. Angoscia come attesa di qualcosa o di qualcuno.
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2. Richiamo all’Avventura Al corpo sociale si presenta una sfida o un’avventura da intraprendere, non può più rimanere nel suo mondo ordinario, nel suo guscio confortevole. L’anti-eroe Liboni fa il suo ingresso nella narrazione. « La Repubblica » titola in taglio basso « Montefeltro, controllo di routine. Caccia a un pregiudicato umbro Carabiniere ucciso due colpi a bruciapelo »
« La Repubblica » in cronaca pone una grande foto interpretativa dove i due carabinieri di spalle osservano fermi e impotenti il corpo del collega. Accanto una piccola foto-documento che mostra il volto dell’appuntato scelto dei carabinieri Alessandro Giorgioni.
« Il Messaggero » in cronaca mette un box esplicativo che ricostruisce schematicamente le fasi dell’accaduto. Le immagini segnaletiche di Giorgioni e di Liboni, adiacenti, danno un volto ai deuteragonisti iniziali della vicenda.
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3. Il Rifiuto e l’accettazione dell’Appello Il corpo sociale esprime riluttanza nei confronti dell’appello. Non ha ancora completamente deciso se intraprendere il viaggio. Occorre un altro fattore, un’ulteriore offesa all’ordine naturale delle cose che dia una motivazione forte.
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È Liboni ciò che fa paura. Questo individuo, che attende ancora una chiara definizione dal sociale, diviene figura della paura, un archetipo del disordine in grado di scuotere come un terremoto la città e di gettare nel terrore i suoi abitanti.
La città e le forze dell’ordine sono attaccate. L’istituzione è attaccata, l’istituzione come forma sociale che trascende le singolarità atomizzate e come forma di difesa che incamera e rende accettabile l’angoscia individuale nella razionalità di un’organizzazione. L’attacco e la fuga dal contrappasso punitivo istituzionale portano dis/ordine soprattutto quando, come in questo caso, l’illegalità di un assassinio viene amplificata nelle forma seducente della merce mediale. Il megafono dei media connette le emozioni della comunità dei singoli individui 12. I carabinieri vengono colpiti, la polizia sbeffeggiata, Liboni fugge. Nei titoli dei giornali Liboni è un killer. Negli articoli di spalla che partono dalla prima pagina però inizia già ad emergere con forza la sua seconda natura ferale, quella di « Lupo ».
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Lo chiamano il Lupo « È pericolosissimo »
La fuga: L’INCREDIBILE CORSA DEL “LUPO” ASSASSINO La città: L’ONDA DELLA PSICOSI Il racconto: UNA TRANQUILLA MATTINATA DI PAURA
Il « lupo » fugge e inizia ad assumere una natura ibrida tra l’umano e il bestiale. Sotto l’ombrello istituzionale la società può finalmente liberarsi dall’insicurezza e trovare/creare il responsabile della sua angoscia, il colpevole. La violenza è l’atto fondante del mito comunitario sociale, anche se l’occhio politico liberale ne rimuove le forme più brutali. Essa riattiva « la guerra indefinita come fondo della storia e il rapporto di dominazione come elemento precipuo della politica » 13. Le istituzioni (e il corpo sociale da esse rappresentato) riscrivono quotidianamente e silenziosamente il rapporto di forza sociale e la loro vittoria storica. Di fronte al disordine violento esse rendono visibile il loro dispositivo costitutivo e aggregano il sociale contro un nemico finalmente visibile. Gli estranei lì accanto sono il bersaglio più ovvio; gli avamposti vicini, visibili e tangibili di tutte quelle forze elusive, misteriose, difficili da individuare, impenetrabili, e soprattutto imprevedibili, che distruggono tutte le routine abituali, frustrano i piani della vita e ostacolano il tentativo stesso di pianificare 14.
« Il Messaggero » ci mostra al suo interno questa serie di foto con didascalia. I luoghi della paura, ma anche i luoghi del transito quotidiano di migliaia di persone. Iconografia fortemente patica che ricorda molto i servizi sul terrorismo che colpisce persone inermi nelle metropolitane, negli autobus, nelle strade. Liboni può fuggire anonimo nelle reti di trasporto cittadino e può colpire le persone che incontra dinnanzi a sé. Questo il messaggio che lasciano trasparire nell’immaginario italiano la sempre presente “minaccia” di Al Qaeda
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e le possibilità di fuga del folk devil Battisti nelle città anomiche della contemporaneità. Liboni inizia ad essere un testo aperto su cui il corpo sociale scriverà i suoi timori profondi.
In questa fase emergono le modalità tramite le quali verrà reso il fenomeno. Da una parte Liboni, dall’altra il Lupo. Liboni avrà un’età, una carriera sociale e criminale, una psicologia, una malattia. Il Lupo sarà indefinibile, o meglio aperto a un’ambivalenza di significato, la natura selvatica che invade le relazioni controllate della metropoli, qualcosa di mostruoso e mutaforme. La codificazione sociale tenta la territorializzazione del fuggiasco ma fa emergere una forza simbolica difficilmente controllabile, capace di sottrarsi alla dittatura del segno e di assumere una valenza trascendente. « Il Giornale » in un articolo interno dà voce al discorso di costruzione identitaria delle forze dell’ordine. L’etichetta usata è un evidente ossimoro: « Passano le ore. Gli investigatori tracciano il profilo psicologico dell’uomo, descritto come un “lucido folle” che non lascia nulla al caso ». « La Repubblica » titola « La vita sciagurata di Luciano Liboni: ragazzo terribile, piccolo rapinatore, infine killer spietato / La follia del bandito solitario “Ma ormai è alla fine della corsa” », e utilizza un discorso carico di figure retoriche enfatiche producendo l’immagine di una fiera e imbastendo un abito bestiale addosso al fuggiti-
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vo: « Faceva quello che voleva, quello che gli passava per la testa, dicono in paese. A scuola va male in condotta, da adolescente irrequieto qual è, fa scoppiare risse e poi finisce dentro al “minorile” di Firenze, per aver rubato un’auto », « Non ce la fa proprio ad impegnarsi in un lavoro, come quello di falegname. È proprio il carattere riottoso, selvatico che lo fa lentamente diventare un solitario, allontanato da tutti ». In un altro articolo interno del quotidiano: « È uno che si sa nascondere, Liboni, che se si sente braccato trascorre settimane intere nei boschi, dorme nelle grotte, mangia quello che trova ». Il corpo sociale si difende dalla possibilità della sua crisi, dalla condizione animale ‘disordinata’ che conosce come sfondo. Teme l’irruzione di qualcosa che precede la distinzione tra ragione e follia, e che sfugge alle categorie disciplinari atte a collocarla. Una minaccia di indifferenziazione che, ben prima della tarda modernità, l’umanità ha espulso in una sfera animale, divina, sacrale. Alcune definizioni come quella di « lucido folle » sono contraddittorie e forse esprimono un’eccedenza di significazione. Liboni sconcerta la ragione e sconvolge suscitando stati emotivi quali la meraviglia, lo stupore, lo sbigottimento di fronte a ciò che appare come ‘completamente altro’. Qui sta la sua valenza sacrale: il mysterium, nel senso che la contraddittorietà degli aggettivi esprime un limite di definizione e un limite della ragione lineare; tremendum per il timore inquietante che il mistero eccita nella coscienza individuale e collettiva. « Il Messaggero » interpreta la sensazione dei cittadini del paese nativo di Liboni: « A Montefalco, il suo paese d’origine, in molti hanno paura. La piccola delinquenza della zona, i pochi amici che ragionavano con il Lupo solitario, ora lo hanno scaricato e temono la sua vendetta ». Il titolo d’apertura di un articolo interno contiene una dichiarazione dell’infermiere alla guida della macchina sequestrata da Liboni, dichiarazione che diventa pars pro toto del corpo sociale:
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Su « Il Giornale »:
Un mysterium, nelle forme del terrore, che mostra anche l’altro lato descritto da Rudolf Otto ne Il Sacro: la valenza fascinans. Liboni attrae, affascina, attira a sé, e questa imprescindibile forza attrattiva si intreccia con la spinta repulsiva generata dal suo essere tremendum. Liboni è seducente come Marlon Brando, catalizza le prime pagine di giornali e si espande nell’immaginario come un divo, un protagonista ‘altro’ di una pellicola hollywodiana, un selvaggio. Come se la comparsa di Liboni fosse andata a stimolare la necessità del sacro nell’anima umana, come se avesse attualizzato una potenzialità del sociale, dei singoli individui e della collettività tutta. In effetti « il folk devil ci appare inaspettatamente, come se provenisse dalle tenebre o da un luogo misterioso ». Nonostante l’oscurità dalla quale proviene sia molto intima perché in realtà « lo conosciamo ben prima che appaia. È l’immagine rovesciata, l’alternativa a tutto ciò che conosciamo: la negazione. Il pericolo latente nella nostra sicurezza, l’ombra che tenta la nostra Virtù ». Un mistero e una polimorfia che è sempre stata collocata nell’ambito divino o sacrale, in un totem pregno di significato, utile catalizzatore delle forze negative, utile perché « quando le cose minacciano di disgregarsi, il folk devil non solo diviene il catalizzatore di tutta la nostra ansia, ma gli volgiamo contro tutta la rabbia della nostra indignazione » 15. La prima risorsa che il corpo sociale utilizza è quella della catalogazione dell’atto e dell’attore nelle etichette mediche delle scienze sociali. Si tenta di illuminare con un riflettore questa figura dell’oscurità. Il riflettore prima del fuoco.
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4. L’Incontro con il Maestro A questo punto nella storia entra un mentore che dà una vera e propria spinta al corpo sociale per avviarlo all’avventura. La funzione narrativa dei mentori è quella di preparare l’eroe ad affrontare l’ignoto, dare consigli, direttive o doni magici.
Liboni, il cattivo del feuilleton informativo, è in grado di generare un’ondata di panico morale e una reazione forte da parte dei vari attori che hanno avuto voce nell’ordine del discorso mediale. Un uomo, un promemoria di ciò che non deve essere fatto, un rafforzamento della norma e dell’identità dominante mediante la messa in vetrina di un’immagine esagerata. Quello che emerge è il potere costituente del linguaggio giornalistico, la capacità di produrre, di far vivere, più che il potere dell’interdetto e della censura. Un’emergenza molecolare, una forma della paura, un’alterità irriducibile, una belva in libertà, queste sono alcune locuzioni cui potremmo ricorrere per descrivere, scorgendo appena i giornali, la persona in questione. Poco importa che in realtà la minaccia sia un criminale di terz’ordine colpevole di un assassinio. La costruzione mediale dell’esperienza, tramite alcune cornici ad hoc, fa emergere l’immagine di un superlatitante dalle indefinibili capacità mimetiche. Da un’altra parte il ‘riflettore mediale’ ha illuminato il pas-
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sato di Liboni, la sua famiglia, i suoi affetti, la sua psiche, le sue caratteristiche corporee e morali; l’attenzione si è focalizzata più sul personaggio che sugli eventi. È attraverso questa attenzione alla vita che lo sguardo bianco del potere ha classificato il soggetto, lo ha trasformato in oggetto di indagine, con la pratica del discorso occidentale utile sia per un’operatività esterna sull’indigeno da civilizzare, sia per una interna con l’indigente, il marginale, il criminale, da disciplinare. Il Maestro che soccorrerà in primis il corpo sociale è la scienza sociale con i suoi doni in forma di pratiche di assoggettamento e di definizione. « Il Tempo » in prima pagina pubblica la diagnosi di un esperto, uno psichiatra:
Sicuramente, ha rilevato l’esperto, si tratta di un soggetto con un « grave disturbo della personalità »: non ha difficoltà ad infierire in « modo freddo » e sembrerebbe « non provare alcun senso di colpa ». Un atteggiamento tipico, ha spiegato Tonino Cantelmi, di quei soggetti con un « forte senso di rabbia » ed una pulsione alla vendetta diretti alla società nel suo insieme, in quanto ritenuta colpevole delle proprie sofferenze e problemi. Soggetti, come nel caso di Liboni, tutt’altro che impulsivi, « Al contrario » – ha aggiunto lo psichiatra – « sono individui di solito molto accorti, freddi, che teorizzano il proprio agire e stanno attenti ai propri passi ». « Pronto ad uccidere ripetutamente », dunque, anche se ciò significasse mettere a rischio la propria vita. Per questo, lo psichiatra Cantelmi invita alla massima prudenza. « Il Messaggero » scava nel passato personale di Liboni, oggettivizza la sua anormalità e, come in prima pagina, riutilizza un tropo retorico per caratterizzare la devianza come naturale; un linguaggio biopolitico: « La moglie Susanna prende le sue cose, il bambino, e se
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ne va: capisce che Luciano non sarebbe mai cambiato, che non cesserà mai di cadere, ogni volta, negli abissi della sua ira, nell’impossibilità di condurre una vita normale ». La produzione di anomalia nel discorso giornalistico continua con il parere di una psicologa. Il titolo:
Il testo è un crogiuolo di espressioni fortemente cariche di pathos che tentano una definizione allo stesso tempo scientifica e iperbolica dell’anomalia sociale in questione, una diagnosi completa del “male” incarnato in una persona sola: Si è già alberi senza radici, alberi neri dai rami troncati i cui frutti, caduti a terra, avvelenano il tempo. Così, piegarsi al male e diventare criminali invece che lottare per non esserlo e, anzi, per impedire ad altri di diventarlo, è un modo per scrivere una lettera d’odio al mondo. […] Povero alla ricerca di un’immediata impossibile ricchezza da ottenere rapinandola con una violenza capace di esaltare nel furto, proprio l’ingovernabile misfatto che sequestra l’anima del potere quando è latrocinio. […] Il criminale non ha collocazione. La cerca mentre delinque intimorendo il mondo con la sua paura. È il simbolo della deriva abnorme che può essere raggiunta da una personalità malata, sadica, ossessiva.
La luce gettata sulla figura del deviante dall’identità dominante della città legittima e dal suo ordine del discorso costruisce un’alterità. Un linguaggio della nostra morale e del nostro corpo che enfatizza,
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alla maniera di un’antropologia ottocentesca, la diversità e la distanza da Liboni, individuo senza morale e corpo indisciplinato, paradigma del ‘loro’, dell’‘altro’. Nella cornice mediale appaiono i segni del corpo come esempio di degrado sociale, gli stereotipi lombrosiani del criminale producono il corpo deviante. « Il Giornale » a p. 2, con figure retoriche dalle tonalità enfatiche, titola così:
L’articolo costruisce l’ambiente di una patologia familiare in cui ogni membro è affetto da qualche forma di devianza. Il testo dell’articolo è attraversato da un disprezzo ironico con cui l’autore naturalizza il frame tramite il quale inquadra l’oggetto/soggetto Liboni. Questo l’incipit: “Mamma, stavolta cambio”. L’unica normalità di Luciano Liboni, il balordo di Montefalco classe ’57 e terza media in tasca, assume le forme del legno. Utensili da cucina, quadri, statuette e persino sculture. Con una bancarella girava i mercati dei borghi umbri. Occasioni a buon prezzo, troppo buono per far soldi subito. Ma lui, cocciuto, selezionava i legni in montagna, li coricava in uno sgangherato furgone e poi a casa sotto gli occhi di mamma Giuliana con scalpello e seghetti a sagomare i pezzi. Eravamo nel 2001. Un periodo d’aria – vent’anni passati in carcere negli ultimi trenta – di relativa calma.
L’articolo prosegue sul filo dell’imprinting iniziale e tenta di ricreare una sorta di dialogo tra Liboni e i suoi primi compagni di bravate. Si mette bene in evidenza la soglia di inclusione/esclusione del discorso della norma:
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« Come gli altri duri di Montefalco. Tutta gente senza perché. Prima ti spaccano la testa e poi ti spiegano il motivo. E nascono i problemi. Risse soprattutto per noia. Troppo dura la terra per star lì a far soldi lentamente come tutti gli altri. “E mica siamo normali noi, no? – pare sentirli – Mica siamo fessi!” »
L’epilogo stigmatizza, con tono « strafottente » (come scrive l’articolista), la figura di Liboni e le possibilità di un suo possibile cambiamento. Come dire che criminali si nasce: « Certo, in paese temono che possa tornare. Perché per Liboni la vita nulla vale, a iniziare dalla sua. Ma verrà catturato. E quando lo prenderanno ripartirà il disco rotto. Strafottente ripeterà: “stavolta cambio”. C’è da scommetterci ».
Anche su « La Repubblica » il discorso assume il frame della norma/ patologia, Liboni viene definito in un climax delle tappe del deviante patologico: « La caccia al “Lupo”, al balordo della porta accanto, prima ladro, poi tossico, poi rapinatore, poi killer, sembra svolgersi in un altro mondo ». Poi l’illuminazione della situazione della famiglia, che riprende esattamente alcune metafore e locuzioni usate da « Il Giornale » della stessa giornata, con un linguaggio patemico. Lo spettacolo delle anomalie e delle istituzioni prescelte per sanzionarle: « A Montefalco, dove tutti si conoscono perché tutti crescono insieme, pochi riescono a parlare del killer che uscendo dal carcere disse “non ho più niente da perdere e la prossima volta che mi prenderanno, mi prenderanno morto” senza parlare della sua famiglia: degli stenti della madre che si è spezzata la schiena per allevare sette figli, e del padre che affogava le difficoltà del tirare avanti con lo stipendio da operaio nel bicchiere. Una situazione disperata nella quale il Tribunale dei Minori ravvisò l’impossibilità di crescere per due dei figli, che furono dati in affidamento. “È da quell’affidamento che la mamma di Luciano ha cominciato ad essere depressa e a finire spesso in ospedale”, raccontano. Quasi come se dietro a quelle persiane chiuse ci sia la spiegazione di tutto ».
Un altro articolo interno il cui testo è la descrizione del personaggio da romanzo Liboni, con figure retoriche emozionali e una classificazione psicologica di Liboni:
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« Come tutti i solitari ha imparato, nel tempo, un secondo trucco: ha nascosto un altro uomo dentro se stesso. È un’illusione speciale, non può essere inscenata nei circhi di provincia, aspetta la ribalta del gran teatro. È allora che l’impiegato di terzo livello, il bandito da ufficio postale o il signor nessuno tirano fuori da sé quello che avevano dentro: l’inafferrabile, perché è stato fin così prevedibile da sapere esattamente che cosa non fare più. I grandi fuggitivi sono stati uomini banali. La fuga fa scattare quella serratura segreta. Libera l’altro che era sempre stato prigioniero del ruolo ordinario. Fa affiorare risorse e scatena energia. L’improvvisa iniezione di una droga per cui non si è sviluppata dipendenza. Crea esaltazione, lucidità, ferocia. Non ha un padre, non torna verso casa. Non ha un amore, niente più grande della sua vita che possa farlo esitare. Ha un appuntamento con la morte, ma non ha messo la data ».
Il Maestro fornisce al corpo sociale i suoi doni per affrontare l’avversario. Le scienze sociali oggettivizzano nelle loro pratiche discorsive il soggetto Liboni. Non solo le voci degli ‘esperti’ ma anche quelle dei giornalisti e dei testimoni hanno sanzionato Liboni secondo un’ottica medico-biologica e non giuridica. La spettacolarizzazione mediale illumina e oggettivizza la storia personale di Liboni dentro un percorso di devianza, mantenendo implicito il modello normativo di riferimento; si mette in moto la relazione tra apparati di potere (le istituzioni disciplinari) e campi di sapere (le scienze sociali), una relazione che produce la verità come meccanismo di esclusione, di oggettivazione, di creazione di una patologia da rimuovere dal corpo sano della società. Non siamo di fronte a una volontà repressiva, quanto a un’esigenza di economia e di distribuzione dei ruoli all’interno di una gerarchia normalizzatrice implicita. Il criminale viene illuminato, utilizzato e ‘fatto vivere’. Solo dopo arriva il paradigma del ‘far morire’, quando già è stato assoggettato all’interno di una pratica sociale e discorsiva razzista (e qui per razza intendiamo con Foucault non solo un confine etnico), una biopolitica come dispositivo di oggettivazione e spettacolarizzazione dell’anomalia, da integrare o rimuovere. È una guerra semiologica e culturale che precede l’atto bellico concreto, guerra tanto più semplice e tanto più aperta nel momento in cui si determinano situazioni di emergenza il cui protagonista è l’homo sacer della città illegittima: senza voce ed escluso dall’ordine del discorso.
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Questa violenza catalogatrice del paradigma disciplinare risponde sia a ragioni governamentali sia alla paura di una violenza maggiore. La territorializzazione identitaria ha consentito alla società di sottrarsi al mancato riconoscimento delle differenze, al caos della polimorfia. Il sociale vuole disgiungere Liboni da possibili oscillazioni di senso. Si tratta di un’operazione violenta e di un meccanismo platonico. Il dispositivo mediale illumina la sua figura, la oggettivizza, la fa vedere, vuole un concetto, un’idea che strutturi un’equivalenza di segno. Ma d’altra parte Liboni viene creato come una figura limite tra la natura e la cultura, un oggetto che sfugge e non si lascia trattare con i metodi della scienza; scivola in un luogo che sta al di là del conflitto con cui la ragione si emancipa dalla follia, un luogo antecedente nel quale può assurgere a simbolo compositore di forze diverse. Il meccanismo che si attiva dopo la catalogazione scientifica è mitologico, simbolico; l’eroe diviene un simbolo gravido, un totem che muove magicamente forze sociali. O meglio, forse Liboni è un segno che fallisce, un’interpretazione che apre ad un’ambivalenza di significato, un testo che i media non chiudono né tramite definizioni primarie giornalistiche, né mediante quelle secondarie degli esperti autorizzati a illuminarne la figura con gli strumenti di potere-sapere delle scienze sociali. Come se Liboni fosse portatore di un’eccedenza di senso, come se la luce illuminista abbagliasse così tanto da equivalere al buio. E con l’oscurità emergono anche le sue figure.
5. Varco della soglia Il corpo sociale entra nel mondo straordinario, decide di attraversare un limite per affrontare la sfida e giungere nel mondo magico. Liboni diviene mito. Il corpo sociale mediante l’aiuto del Maestro si avventura nel mondo straordinario. L’effetto generale di regressione che caratterizza il legame di massa come forma totalitaria del legame sociale sembra generarsi nelle pagine mediali che andiamo scorrendo. La metafora medico-biologica era un sofisma particolare con cui gli stati totalitari affrontavano e creavano il
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nemico interno: l’ebreo e il comunista diventavano il virus e il parassita, disfunzioni biologiche della società sana. L’identificazione collettiva verso il leader è un tessuto connettivo tanto forte quanto l’odio per la sottorazza, situata in una posizione liminale tra la comunità umana e ciò che ne è escluso. La normalizzazione che trasforma Liboni in anomalia non chiude il cerchio, la sua figura appare dentro un orizzonte simbolico non definibile completamente dalle scienze umane, l’alterità morale prodotta diviene alterità inumana. La sua vicinanza e il suo essere escluso dalla produzione del discorso lo differenziano, in termini di potere, dalle altre ‘barbarie’. La madre mostro di Cogne, Franzoni, viaggia in una specie di limbo d’opinione, mai completamente all’inferno mai in paradiso; la guerra asimmetrica e mediale che manda in onda
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la barbarie di decapitazioni e sgozzamenti è lontana e soprattutto difficile da decifrare dal momento che il nemico è qualcosa di invisibile, non territoriale: una lotta in nome della civiltà, dell’oleodotto, degli ingranaggi finanziari? Il dittatore Saddam Hussein mostra lo sfacelo collettivo di una guerra civile provocata dalla perdita di un capo carismatico ma entra nell’ordine del discorso capovolgendo le accuse del tribunale. Questi esempi ‘tremendi e affascinanti’, bagliori nell’immaginario di luglio, mostrano come le compagini sociali siano irrimediabilmente attratte da eventi e personaggi rivestiti di magia sacrale, misteriosi e resistenti a una decodifica razionale. Il corpo sociale accumula energia che deve in qualche modo portar fuori di sé, su qualcosa che sia insieme visibile e metaforico. Qui l’alterità inumana di Liboni entra in gioco e assume una rilevanza politica. Può assumere i segni della mostruosità, volatili nell’immaginario, può diventare il responsabile della paura sociale e il capro espiatorio in grado di espellerla. Il mostro, una creatura mitica scaturita dall’unione della specie umana con quella animale. Il sospetto di mostruosità al fondo della sua criminalità diviene certezza, il «egno anomalo Liboni» creato dalle etichette disciplinari non colma la necessità del corpo sociale di trovare il «simbolo mostruoso Lupo», oggetto totemico su cui proiettare la violenza dell’immaginario. Non è più un criminale comune, si possono decodificare i segni della mostruosità dalla sua vita, dal suo fisico, dalle sue azioni, dalle sue relazioni. « Il Messaggero » in prima pagina fa emergere dal corpo di Liboni la sua vera natura ferale e la sua appartenenza alla ‘cultura’: « se il Lupo che aveva già dentro usciva fuori, erano guai seri. Poteva stare per ore in compagnia a ridere e scherzare. non era un solitario come oggi. Trascorreva le ore anche a giocare a scacchi e dama, sua grande passione insieme alle motociclette, da vero campione scaltro e lucido. È veramente isolato, senza alcun tipo di appoggio e per questo non avrà alcuno scrupolo a comportarsi come un animale braccato. Morde, scalcia, sputa. Spara. Calpesta la vita mentre avvicina e si fa amica la morte, quella degli altri ma anche la sua. Si abbrutisce, lascia che il suo aspetto conosca il degrado fino ad assomigliare a quello di una bestia feroce. Raggira chi vuole prenderlo. Proprio come un lupo, fiuta il pericolo e nel fitto del bosco riesce a sfuggire ai fucili dei cacciatori ».
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Continua a descriverlo con verbi che lo connotano così: « Poi, improvvisamente se solo pensava che aveva subito un torto reagiva e ruggiva, violento, irascibile, pericoloso, picchiava ».
Costruisce la figura di un animale con locuzioni e lessemi di questo tipo: « Oggi che Liboni è un lupo ferito, latitante da almeno cinque anni, malato e pericoloso rintanato chissà dove, a Montefalco nessuno, compresi i suoi fratelli, parla troppo. Si mette in società con un amico e apre un bar. Dopo un mese il lupo che ha dentro esce fuori, l’amicizia termina, finisce a botte. La fame insomma potrebbe spingerlo, come un animale, ad uscire dal bosco della latitanza per trovare una “radura” dove fare il pieno ».
In un altro articolo interno sempre nel frame della feralizzazione propone un contenuto enigmatico che non trova spiegazione nell’articolo stesso: « Belva con la pietà per gli animali torturati e abbandonati perché razza affine destinata come lui a morire all’angolo di ogni strada, sotto ogni macchina veloce che non si ferma ». Sulla prima pagina parte un fondo titolato: « La voragine del mostro qualunque Solo insieme alla sua furia distruttiva, un’ira che non conosce pietà, una rabbia immane, più importante di qualsiasi avvenimento, qualsiasi sopruso, qualsiasi dolore. È uno che non si è integrato mai. Che dal profondo di se stesso, delle sue viscere si è opposto da sempre alla sola idea di arginare la violenza che sentiva montargli dentro. Ecco chi è ».
Una dichiarazione del capo dell’anticrimine di Perugia:
Tramite le dichiarazioni di un investigatore, « La Repubblica » connota Liboni in un frame disumanizzante con una metafora cinematografica:
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« Sul cruscotto ci sono due foto del super ricercato. In una ha occhiali e pizzetto e sembra un professore di liceo. In un’altra molto recente ha un aspetto da povero diavolo, da barbone, come quando ha ucciso. “È un uomo pronto a tutto, un vero fuorilegge”, ripetono gli investigatori parlando del lupo detto anche il cinghiale per la sua abilità di sfuggire agli inseguitori, scomparendo nei boschi come un terminator ».
In un altro articolo interno utilizza un discorso carico di figure retoriche enfatiche producendo l’immagine di una fiera, imbastendo un abito bestiale attorno al fuggitivo: « Si conquista il soprannome di “lupo” perché è solitario e di “cinghiale” un po’ per l’aspetto possente, un po’ per l’abitudine a passare lunghi periodi in luoghi impervi, dove fa perdere le tracce, dormendo in casolari abbandonati, in grotte o sotto gli alberi e mangiando quello che trova e bevendo negli abbeveratoi come le bestie ».
La voce dell’Arma: “No. La nostra non sarà una vendetta. C’è un criminale in giro, bisogna prenderlo, punto”. “Abbiamo messo nel conto che anche stavolta forse qualcuno di noi resterà a terra… Lo sappiamo, Liboni è braccato lo stesso”. È come un guerrigliero somalo, senza niente. Uscirà quando ha fame”. Come il Lupo.
« Il Giornale » in prima pagina titola:
In un articolo interno prosegue sulla linea della prima pagina. Il discorso del titolo e del testo si confonde benissimo con la cronaca di un qualche animale fuggito da uno zoo:
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Il Lupo ha una tana: “È fuori Roma” Anche ieri decine di avvistamenti. Ma gli inquirenti sono sicuri: “Ormai è in trappola” Luciano Liboni si trova in una tana, in attesa. Magari proprio nella sua regione. Del resto non potrebbe più spostarsi dopo la diffusione a livello nazionale delle foto che lo ritraggono e del suo identikit.
Nella dinamica che si sviluppa intorno a Liboni è interessante non tanto la funzione repressiva da parte di un potere morale/istituzionale quanto l’adesione acritica molecolare, il produttivo legame di massa che si crea tra soggettività atomizzate volontariamente unitesi contro qualcosa. Il Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in maniera quasi divinatoria per il periodo in cui scrisse, si interrogava sull’essenza del totalitarismo, luogo politico ma anche evento psico-sociale in cui singoli individui perdono la propria funzione critica e i loro sentimenti di rivalità, per cementificarsi in un legame di massa asservito all’Ideale collocato nella posizione di un oggetto di fascinazione collettiva: il capo, al tempo stesso oggetto del desiderio, oggetto dell’identificazione, oggetto di un transfert verticale e collettivo. Una folla di singoli individui diventa concorde e gregaria grazie all’intervento di un individuo straordinario in grado di suggestionarla. In un passo di Freud leggiamo « Pensiamo allo stuolo di donne e ragazze entusiasticamente innamorate che fanno ressa intorno al cantante o al pianista dopo ogni esecuzione [...]: originariamente rivali, hanno potuto in forza del medesimo amore per lo stesso oggetto, identificarsi l’un l’altra ». Nasce un sentimento collettivo di adorazione totemica che dà luogo a uno spirito comunitario. La socialità nasce con questa magia che capovolge l’ostilità in accordo, e tramite cui si passa dalla discordia alla concordia. Il totem Lupo Liboni non è sicuramente un leader, però è in grado di render finalmente solido un corpo sociale liquido e angosciato. Perché? Le ragazze di cui scriveva Freud non si odiano più ma omaggiano il loro oggetto fascinans « con gli stessi gesti », « lietissime di spartirsi magari una ciocca dei suoi capelli » 16. Nella ‘aggressività’ verso una persona caricata di valenze simboliche e sacrali, come nel sacrificio di un capro espiatorio o in un pasto totemico, si forma un legame di massa. Se l’ordine sacrificale ha una potenza connettiva pari all’ordine dell’identificazione,
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allora la vittima dell’espiazione è il rovescio del leader di massa. Il corpo del folk devil diviene un testo sul quale la collettività cementificata scrive le proprie paure e insicurezze, e si libera finalmente dall’angoscia trovandone una causa concreta. Il mostro può trasformarsi in corpo espiatorio. Può esser posto al di fuori della comunità umana, al di là delle sue leggi e del contratto sociale, non più recuperabile poiché indisciplinato e resistente ai meccanismi di correzione quali quelli del carcere e delle comunità di recupero. È il momento ‘magico’ in cui il riflettore mediale e i doni scientifici delle scienze sociali lasciano posto al fuoco.
6. L’Avvicinamento alla Caverna più Segreta Il corpo sociale giunge ai confini di un luogo pericoloso dove si cela l’oggetto della ricerca. Si fanno preparativi prima di affrontare il pericolo. « Il Messaggero » tematizza la contrapposizione frontale tra Liboni e forze dell’ordine, e titola in maniera enfatica:
« ‘i numeri’: 45000 poliziotti e carabinieri mobilitati nel centro sud. 150 gli uomini del gis dei carabinieri. 70 gli uomini dei nocs e della polizia di stato. 1500 carabinieri impegnati nella provincia di Roma ».
Pone anche due piccole foto con didascalie « elicotteri notturni » e « telecamere spia » che rafforzano ancor di più il frame della caccia all’uomo e delle tecnologie del controllo adoperate. Il testo è dello stesso tenore: « controllo delle strade e dei cieli, controllo dei telefoni di possibili contatti del Lupo e in più sono state attivate tutte le fonti confidenziali: un universo misterioso ma sempre efficace, dal quale potrebbe arrivare la soffiata giusta per la cattura di un lupo solitario che finora ha evitato la trappola del telefonino cellulare ».
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« La Repubblica », in un articolo interno e in alcuni box a centro pagina che riassumono altri articoli, mette in evidenza schematicamente gli strumenti con i quali Liboni riesce a rimanere latitante.
Liboni non è più il nome scritto sui faldoni della questura. Liboni è il Lupo. Come nel Medioevo la chiesa definiva licantropo chi professava una verità diversa, Liboni diviene adesso un eretico mostruoso nel cui corpo deviante si perde la linea liminale che divide la natura dalla cultura. Come vediamo nel testo mediale, Liboni è lucido, capace di adoperare strumenti tecnologici, ed è belva magica che eccede il senso e il segno. In quale scaffale dell’erbario delle patologie collocarlo? Quando si tenta di definirlo, rimane sempre un residuo di senso. Rifiuta il controllo della carta d’identità, resiste ai tentativi di rieducazione/ punizione delle comunità di recupero e del carcere, fugge nel cuore
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della città di controllo, uccide un carabiniere, tiene in scacco la polizia, ha mille volti come un trickster, come un Luther Blissett criminale. Spezza le catene di individuazione fisica e linguistica. È invisibile, è ovunque ma inafferrabile; è un folle benché lucido, è un animale ma vive nella metropoli, porta addosso i segni antropometrici di devianza lombrosiana ma riesce a mutarli quotidianamente. È una sorta di natura inesprimibile e vendicativa nei confronti delle istituzioni di controllo sociale. È una fascinazione collettiva. Più si tenta l’analisi più il mistero riemerge come una forma in grado di contenerne sempre altre. Un’alterità sacrale nelle reti della disciplina e del controllo, oggetto di euforia da parte della città illegittima dei writers, degli ultras, delle bande di quartiere, degli anarchici, dei fascisti, opera aperta in cui il lavoro semiotico della città legittima legge i plurivoci significanti della propria angoscia.
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7. La Prova Suprema Non si è mai tanto vivi quanto lo si è guardando in faccia la morte. Il corpo sociale affronta la sua paura più grande e combatte contro la forza ostile, l’antagonista.
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8. Il Ritorno con l’Elisir Il corpo sociale ritorna nel mondo ordinario e conferisce ad esso nuovo senso portando con sé un elisir, una lezione appresa durante il percorso. La strategia mediale mainstream è stata duplice: il ‘far essere’, che tende a far accettare all’enunciatario il fatto che il semiotico sia ontologico; e il ‘far fare’, che mira a dettare all’enunciatario programmi per l’azione, a prescrivere la giusta posizione cognitiva nei confronti del testo mediale. In questo caso la posizione assunta era fortemente disforica nei confronti del soggetto in questione. La morte del Lupo ci consegna l’elisir della sicurezza, della momentanea fine dell’emergenza. Il lupo ha la forza primigenia del mito e i significati metaforici impressi dalla Storia. Liboni-mito scardina i significati del codice sociale con la sua eccedenza di senso: da una parte trascende i dispositivi canonici di controllo linguistico (logici e disciplinari), dall’altra entra in relazione con il sentire profondo della società italiana, catalizza i significati del presente storico. Liboni-metafora porta fuori (metà-forein) dalla cronaca e inaugura una dinamica del sociale. Liboni come archetipo in fieri su cui la Storia e la cronaca inscrivono il proprio rimosso. Da una parte le paure dell’identità dominante (terrorismo, folk devil, autorità madre che uccide, il selvaggio osceno), dall’altra il desiderio degli assoggettati comparso su media quali internet, volantini, scritte murali, striscioni da stadio.
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Liboni convoca l’immaginario euforico e disforico delle due città occidentali, norma e devianza, potere e resistenza. Raffina l’armamentario discorsivo disciplinare mostrandone il limite. La luce patologizzante del controllo produttrice di anomalie non cattura il mito-mostro (già la comunità di recupero, la scuola, il lavoro, le agenzie di socializzazione insomma, falliscono) per il quale c’è il ‘razzismo di stato’: il lupo viene posto al di fuori della comunità umana come un germe da un organismo sano, un germe da debellare. Liboni eliminato definitivamente dalla comunità assume quindi le valenze bibliche di un capro espiatorio, insieme a lui vengono simbolicamente trascinate fuori dal perimetro sociale le impurità che mettevano in crisi il sociale. Per qualche giorno l’aria sarà più serena. La tragedia si è conclusa con una catarsi. Liboni come una politica di salute pubblica, il teatro mediale come riattivazione dei meccanismi aristotelici del teatro tragico.
La locandina del film Il lupo di Stefano Calvagna (2007).
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Gli avvenimenti dell’estate 2004 sono un frammento compiuto di totalitarismo nella maniera in cui il mito totalitario, come scriveva Erich Fromm in Fuga dalla libertà, riesce a salvare l’uomo dalla condizione lesa della sua esistenza, dall’angoscia di fronte non tanto alla « libertà da » (versione ancora infantile della libertà), ma alla « libertà di » (dimensione autenticamente etica della libertà). In questo caso l’esagerazione delle potenzialità nefaste di un individuo ha portato ad identificare un corpo nudo del male a cui far indossare le vesti delle contraddizioni sociali, delle angosce che attendevano qualcosa su cui fissarsi. L’elemento sacrale, fonte di dolore e fallimento semiotico, viene espulso e il naturale orizzonte simbolico è momentaneamente ristabilito; gli abiti del selvaggio, della minaccia terrorista, del folk devil, in definitiva del mostro e del caos, saranno forse indossati in futuro dal prossimo nemico pubblico. Ora però l’ordine simbolico è salvo grazie a questo Lupo ‘omeostatico’. L’eliminazione del mostro è solo l’illusione dello enduring freedom thinking, che forse necessita di mostri e di catastrofi per giustificare le proprie emergenze/esigenze. Non che i mostri siano ‘nati’ oggi nella loro valenza simbolica espiatoria, ma in un momento in cui i grands récits, e gli Ideali dell’io con essi, sembrano crollati, in cui il Sacro vela soprattutto gli oggetti vetrinizzati del consumo, il mostro è probabilmente in grado di svolgere una funzione di tessitura sociale più connettiva di qualsivoglia leader carismatico. Gramsci si chiese nei suoi Quaderni « Perché è diffusa la letteratura poliziesca? È un aspetto particolare del problema più generale: perché è diffusa la letteratura non-artistica? ». La sua risposta contrasta gli strali di Marx sul feuilleton: « C’è sempre stata una gran parte di umanità la cui attività è sempre stata taylorizzata, fortemente disciplinata, ed essa ha cercato di evadere dai limiti angusti dell’organizzazione esistente, con la fantasia e col sogno » 17. Liboni non è stato un sogno ma un incubo diffuso del sociale, una forma del caos che i media hanno illuminato e che ha saputo rispondere a particolari esigenze del sociale, Liboni è stato anche milioni di spettatori sintonizzati per seguire le sue vicende. Brecht scrisse: « Nella vita noi facciamo le nostre esperienze in forma catastrofica. È dalle catastrofi che dobbiamo dedurre il modo in cui funziona la nostra convivenza sociale ». Liboni è in qualche modo una catastrofe che si è verificata: « Chi è dunque colui che ha fatto questo qualcosa? Dietro gli avvenimenti che
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ci vengono resi noti sospettiamo che ce ne siano altri che nessuno ci rende noti. E questi sono gli avvenimenti che contano. Soltanto se li conoscessimo saremmo in grado di capire » 18. La storia in questione, anche per il suo portato simbolico, mette al lavoro il lettore che vuole ricavarne la inside story, ciò che c’è dietro. Questo romanzo mediale, per dirla con Umberto Eco, è una macchina pigra passibile di diverse interpretazioni. Il ‘lavoro’ dei media in questo caso risulta un po’ più chiaro se andiamo a contestualizzarlo nella situazione di insicurezza del luglio 2004, come se l’immaginario aiutasse questa macchina pigra completandola con i significati di « barbarie, mostruosità, minaccia » ai quali il protagonista viene rimandato come un significante dispotico. Il Lupo, ben prima del suo avvento, viveva già nella mente e nelle attese del lettore. NOTE 1 2 3 4 5 6 7 8
G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 293-294. S. Calvagna, Il lupo, Poker Film, 2007. W. Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995, p. 147. R. Sennett, La coscienza dell’occhio, Milano, Feltrinelli, 1992. A. Abruzzese, Lo splendore della tv, Genova, Costa & Nolan, 1995, p. 77. J. Campbell, L’Eroe dai mille volti, Milano, Feltrinelli, 1984. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1977. E. Pozzi, Morire in paradiso: il delitto di Cogne e l’immaginario sociale, in « Psiche », 1/2005, Milano, Il Saggiatore. 9 Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002. 10 D. L. Altheide, Creating Fear. News and the Construction of Crisis, New York, Aldine De Gruyter, 2002, p. 34. Trad. mia. 11 M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Milano, Adelphi, 1987, p. 67. 12 Z. Bauman, La società individualizzata, Bologna, Il Mulino, 2002. 13 M. Foucault, Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 186. 14 Z. Bauman, K. Tester, Società, etica e politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Milano, Cortina, 2002, p. 98. 15 S. Hall et al, Policing the crisis, London, Macmillan, 1978, p. 29. Trad. mia. 16 S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Roma, Newton Compton, 1995, p. 66. 17 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 140. 18 B. Brecht, Sulla popolarità del romanzo poliziesco, in Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino, Einaudi, p. 290.
Valerio Callieri, sociologo della comunicazione e esploratore di discorsi filmici, ha appena scritto e diretto I nomi del padre. A quel Mosè non sappiamo cosa sia accaduto
Due libri da leggere Ian Kershaw, The End: Hitler’s Germany, 1944-45, London, Allen Lane, 2011, 566 pp. Il 1 maggio 1945, le truppe russe raggiungono Demmin, una cittadina di 15mila abitanti nell’ovest della Pomerania. Seguono i consueti saccheggi, gli incendi delle case, il « Frau komm » degli stupri di massa. Niente di più e niente di meno di quanto stava accadendo su tutto il fronte Est della guerra. Ma a Demmin nei tre giorni successivi oltre 900 abitanti si suicidano, talvolta dopo aver ucciso i familiari. Un uomo uccide la moglie e i tre figli, lancia un panzerfaust contro i sovietici e si impicca. Una famiglia di 13 persone si uccide. Seguita da un ragazzino in bicicletta, una madre spinge una carrozzina con due bambini verso una quercia al confine del borgo, avvelena i tre figli e tenta di impiccarsi a un ramo dell’albero. Altri si annegano nei due fiumi locali, oppure si sparano, si buttano dai tetti. 50 anni prima, in quello straordinario classico della sociologia nascente che è Le suicide (1897), Durkheim aveva affrontato brevemente i suicidi collettivi, citando tra gli altri il caso di Masada raccontato da Giuseppe Flavio nelle Guerre giudaiche. Li aveva classificati come una variante estrema del suicidio altruistico, la terza e la meno approfondita modalità sociologica del suicidio dopo quello anomico e quello egoista. Nel suicidio altruistico non agisce l’ipertrofia dell’io rispetto al vincolo sociale indebolito, ma piuttosto la sua irrilevanza: l’eroe in guerra va a morte certa perché il suo io ridotto alla quasi inesistenza è trasparente al volere del gruppo, e si sottomette ai suoi imperativi anche a costo di morire. Il suicidio collettivo – che Durkheim chiama anche suicidio obsidionale - porta all’estremo questa logica di dissolvimento dell’individuo nel legame sociale, attraverso quello che Freud avrebbe chiamato « sentimento oceanico » in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921): sentirsi goccia dispersa nell’oceano sociale. Siamo di fronte a situazioni microsociali: 900 morti di Demming, i 3-4mila giapponesi di Saipan quando sbarcano i Marines, i quasi mille
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morti del People’s Temple di Jim Jones nel novembre 1978. Ma che dire quando un’intera nazione sembra pronta all’autodistruzione? Questo il problema di fondo posto da Ian Kershaw nel suo ultimo, bellissimo, The end. Hitler’s Germany, 1944-1945. Nei primi mesi del 1944 era già chiaro a qualsiasi tedesco dotato di razionalità residua che la guerra era perduta. Eppure la Germania ha continuato a combattere duramente fino al maggio del 1945 pagando un prezzo spaventoso. Dal luglio del 1944 alla fine del conflitto, sul solo fronte occidentale sono morti 400mila civili e altri 800mila sono stati feriti gravemente dai bombardamenti a tappeto sulle città e dalle peggioramento drammatico delle condizioni di vita dal gennaio 1945. Ovvero in 11 mesi più di tutti i morti e i feriti dei 4 anni precedenti. A questi vanno aggiunti gli oltre 500mila morti civili del fronte orientale, più le enormi sofferenze e gli altri morti legati alla deportazione di masse importanti di cittadini tedeschi da parte dei sovietici. Peggio ancora per la Wehrmacht. Degli oltre 5milioni di morti dell’esercito tedesco, il 49% si concentra nei mesi che vanno dall’attentato fallito a Hitler nel luglio 1944 alla resa del maggio successivo. Di questo 49% 1,5 milioni morirono in quei mesi sul fronte russo. Va poi anche aggiunti i 2 milioni circa di prigionieri di guerra tedeschi trasferiti in URSS, e in buona parte scomparsi nel nulla. Cosa impedì alla Germania di evitare questo massacro insensato? Per nostra fortuna Kershaw non è uno scienziato sociale ma fa lo storico. I modelli concettuali nomotetici non sostituiscono mai nel suo volume la lenta progressiva ricostruzione ideografica dei molti fili che hanno intessuto l’autodistruzione della società e dello stato tedeschi. Capitolo dopo capitolo, Kershaw racconta i denominatori comuni e i modi diversi della fissità della risposta della Germania di fronte ad un crollo via via più apocalittico, e malgrado sofferenze gravissime. Emerge una narrazione multifattoriale in cui nessun fattore unico o prevalente riesce a dare una risposta sufficiente. La resa incondizionata chiesta dagli Alleati è stata spesso accusata di aver favorito il quasi-suicidio storico della resistenza a oltranza. Kershaw respinge questa tesi con argomenti convincenti. Tutti i materiali disponibili dimostrano che lo Stato Maggiore tedesco – per non dir nulla del potere nazista o di Hitler– non ha mai preso in seria considerazione non solo la resa incondizionata, ma l’idea stes-
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sa di resa. « Benché la ‘resa incondizionata’ sia stata indubbiamente un fattore dell’equazione, non può essere considerata come un elemento decisivo o dominante nello spingere i Tedeschi a continuar a combattere » (p. 387). Il militarismo come stile, cultura e sistema di valori è stato senza dubbio un’altra componente parziale. Kershaw descrive a lungo le reazioni dei militari – e, per quanto può dirsene, dell’opinione pubblica – di fronte all’attentato fallito di Stauffenberg e colleghi. Non solo e non tanto strumentali prese di distanza per salvare la pelle, quanto una autentica indignazione per un tradimento impensabile da parte di alti ufficiali dell’esercito tedesco: osar attentare alla vita del Comandante supremo, rompere il vincolo del giuramento. Questo militarismo implicava l’incapacità della disobbedienza anche a ordini palesemente catastrofici sul piano tattico-strategico, l’impossibilità del colpo di stato, la difficoltà della critica, e anche l’adesione a aspetti centrali dell’ideologia nazista. Ma era pur sempre la caratteristica di una élite dotata di grande potere nella situazione bellica, tuttavia minoritaria e indebolita per il cittadino tedesco dall’evidenza percepibile della sconfitta. Anche il consenso sociale a Hitler era ormai diventato, secondo Kershaw, un fattore debole, limitato a settori sempre più ristretti della società tedesca. In calo dall’inverno 1941, già nella seconda metà del 1944 appariva « in caduta libera ». L’andamento della guerra faceva venir meno la ‘prova’ del carisma, gli eventi intramondani che devono verificare con regolarità le « virtù straordinarie » (Weber) del capo carismatico, il suo rapporto privilegiato con la Potenza. Per traslazione, la crisi radicale di legittimità investiva anche il Partito Nazista e il suo apparato, coinvolti nella percezione crescente della catastrofe. Ma buona parte del volume descrive la varietà delle strategie messe in atto dalla élite nazista per mantenere al partito il suo ruolo di tessuto nervoso e collante della società tedesca: la mobilitazione per la « guerra totale », il Volkssturm ecc. Messi di fronte all’angoscia di una disgregazione radicale del vincolo sociale, i cittadini tedeschi non potevano rinunciare all’unica struttura che serviva da scheletro e da pelle al corpo sociale. Il Partito – ma questo è il linguaggio di chi scrive e non di Kershaw – rimaneva il garante di un contenimento del panico anomico.
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Altrettanto poco convincente attribuire alla propaganda e al controllo totale della informazione la irrazionalità oggettiva della resistenza tedesca. Kershaw descrive a lungo le strategie di Goebbels e del Partito: quelle depressive (Dresda, verranno e ci uccideranno tutti, le belve russe dalle steppe ecc) e quelle maniacali (le armi segrete in arrivo, le riserve nascoste della Wehrmacht, il Führer sta preparando in silenzio il colpo segreto risolutivo, gli Anglo-americani si stanno accorgendo del pericolo comunista e sono pronti ad allearsi con la Germania contro Stalin ecc). Ma lo stesso Kershaw riporta la massa di documenti interni e i diari della élite nazista che registrano il fallimento crescente della propaganda. Del resto i bambardamenti quotidiani delle città tedesche che la Luftwaffe non riusciva più a contrastare e i racconti dei rifugiati dall’Est non lasciavano dubbi. Solo chi non poteva non delirare continuava a delirare allucinando la realtà. Ma perché tanti dovevano delirare fino al suicidio altruista di massa? C’era poi il terrore, la spirale della repressione feroce di tutti i segni di cedimento e di dissenso sia nell’esercito che tra i cittadini. Kershaw insiste a lungo su questo aspetto: la delazione, le corti marziali volanti, le esecuzioni immediate, le uccisioni dei pochi dissenzienti anche qualche ora prima dell’arrivo delle truppe alleate, l’incendio delle case e l’assassinio di chi esponeva bandiera bianca all’ingresso del nemico, la creazione di strutture clandestine di guerriglia – i Werwolf derivati dalla mitologia germanica, i Freikorps ‘Adolf Hitler’ - che uccidevano i collaborazionisti anche dietro le linee dell’occupazione anglo-americana. Questo terrore atomizzava la società civile, la riduceva ad un aggregato di individui isolati cui era impossibile pensare e mettere in atto azioni collettive organizzate, e dunque condannati all’impotenza. Detto non con il linguaggio di Kershaw: il terrore produce un intollerabile aumento del panico anomico, cui il Partito, Hitler e i simboli della Germania cercavano di proporsi come la cura, in questo caso letteralmente il pharmakon. Ma lo stesso Kershaw non crede che il terrore diretto sia stato decisivo. In un paragrafo esemplare del suo approccio duttile (p. 391), scrive: « la grande maggioranza [dei soldati] non disertò e neanche prese in considerazione l’idea di farlo. Continuarono a combattere, spesso fatalisticamente, talvolta con riluttanza, ma molte volte anche nelle ultime settimane disperate, con grande impegno, addirittura con entusiasmo. Questo non può essere spiegato con il terrore ».
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Entrava in gioco qui il simbolo per eccellenza, la matrice, la Germania: terra madre da difendere ad ogni costo, incarnazione territoriale del corpo sociale. La sua invasione equivaleva alla dissoluzione di questo corpo, alla perdita del Noi e di tutte le funzioni cognitive, emozionali, affettive e simboliche che il Noi svolge per gli individui che ne fanno parte. Ma in questo caso difendere il Noi implicava difendere il regime nazista e le sue struttura, aggrapparsi alla logica militare dell’esercito. Con una torsione tipica delle situazioni belliche, l’angoscia della catastrofe anomica si traduceva nella elevata probabilità della morte. Per proteggere l’io dal crollo della sua matrice sociale, lo si esponeva alla certezza della distruzione totale. A questo punto Kershaw introduce nel sistema delle variabili il gruppo dirigente politico e militare della Germania nazista e Hitler. Tutto diventa più confuso, meno convincente. Da un lato egli riconosce l’indebolimento carismatico del Führer e la perdita di consenso del Nazismo. Dall’altro si scontra con un dato di fatto: fino alla fine praticamente tutta la élite politica e militare del regime, a Berlino come nei Gau, rimase assoggettata al carisma teoricamente indebolito di Hitler, incapace di qualsiasi convinta iniziativa autonoma, lucida magari (come Goebbels) ma non per questo in grado di rompere una fascinazione quasi illimitata. Ancora negli ultimi giorni e nelle ultime ore il pur furbo Speer si spone a rischi gravissimi per non scontentare il Fuhrer e ottenerne riconoscimento, vorremmo dire: amore. E solo di fronte alla ‘necessità’ di morire con Hitler una parte di questa élite fu capace di scappare via – ma molti si suicidarono, come Kernshaw ricostruisce con precisione, e non solo intorno al bunker di Berlino o ai vertici del sistema di potere nazista. Qui lo storico è costretto a un gioco di prestigio concettuale. Scrive nelle ultime righe della sua conclusione: « Given overall responsibility and feeling free from his oath of loyalty to Hitler, Dönitz saw the need to bow to military and political reality and looked immediately to find a negotiated end to a lost war. This sudden reversal of his stance by Dönitz underlines as clearly as anything how much the fight to the end, down to complete defeat and destruction, was owing not just to Hitler in person, but to the character of his rule and the mentalities that had upheld his charismatic domination.
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Of the reasons why Germany was able and willing to fight on to the end, these structures of rule and underlying mentalities behind them are the most fundamental. All the other factors […] were ultimately subordinate to the way the charismatic Führer regime was structured, and how it functioned, in its dying phase. Paradoxically, it was by this time charismatic rule without charisma. Hitler’s mass charismatic appeal had long since dissolved, but the structures and mentalities of his charismatic rule lasted until his death in the bunker. [ …] That [corsivo di Kershaw] was decisive ». (p. 400)
Che vuol dire « charismatic rule without charisma »? Messo così, è solo un gioco di parole, e indica una debolezza generale non della narrazione di Kershaw ma di alcuni riferimenti concettuali cui ricorre sin dalla Introduzione, in particolare il concetto di leadership carismatica o di comunità carismatica. Kershaw usa termini come carisma, potere carismatico ecc, cita en passant Max Weber, ma il tipo ideale weberiano gli è estraneo, non struttura la sua narrazione, si limita a ‘condirla’ superficialmente. Se avesse letto Weber, avrebbe avuto un filo conduttore ben più complesso e solido della « charismatic rule without charisma » per spiegare le vicissitudini del potere carismatico nelle sue varie articolazioni mentre si avvicinava il crepuscolo degli dei: la sua forza inspiegabilmente perdurante, la identificazione tra corpo del Fuhrer e corpo della nazione, il collante della « charismatic community », la natura anti-economica e dissipatoria del carisma, la sua estraneità al calcolo razionale. Se avesse approfondito il dibattito sociologico intorno alla leadership carismatica, avrebbe incontrato sviluppi concettuali utili, come il “carisma diffuso” di E. Shils. Soprattutto, se avesse letto Weber, avrebbe incontrato una domanda cruciale che Weber (si) fa en passant: perché la gente riconosce al capo carismatico virtù straordinarie? Perché gli crede? Perché gli dà consenso? Quale è la natura, quali le dinamiche e le componenti di questo consenso? Sarebbe arrivato dalla storia a sociologia, e dalla sociologia alla psicologia sociale. Si sarebbe imbattuto in Freud, e magari poi anche in Money Kyrle che analizza un discorso di Goebbels a Berlino nel 1936, e in Bion. E magari di lì sarebbe arrivato anche in altri territori più lontani, come ad es. la « fraternità-terrore » di Sartre: come creare le fraternità più potenti tramite il terrore di tutti verso
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tutti. Sarebbe arrivato al Durkheim del suicidio obsidionale, e forse anche a come e perché un gruppo riesce ad autodistruggersi volontariamente, and es. il People’s Temple di Jim Jones. A volte Kershaw, con la finezza percettiva dello storico di classe, sfiora i punti chiave di quello che le scienze sociali avrebbero potuto dargli. A p. 218 cita Bormann: « Anyone seeking to save his life is with certainty, also through the verdict of the people, condemned to death.There is only one possibility of staying alive, the readiness to die fighting and thereby to attain victory ». Chi muore vive per sempre, e dunque vince. Jim Jones che spinge i suoi 900 seguaci al suicidio con il cianuro nella giungla della Guyana lo dirà con altrettanta chiarezza: « se moriamo viviamo ». Morire tutti insieme volontariamente significa dimostrare a se stessi, al mondo e alla storia che si è un gruppo perfetto, dunque un gruppo immortale. Il suicida non crede alla propria morte ma la usa per immaginarsi eternamente vivo nella memoria di chi gli sopravvive. Anche le sette come il People’s Temple, anche i gruppi estesi, anche le nazioni possono coltivare questa negazione delirante della morte attraverso la propria morte. Alle storico Kershaw le scienze sociali – o per lo meno, siamo onesti, angoletti di scienze sociali ora fuori dal mainstream delle loro corporazioni – avrebbero potuto dare molto altro ancora. Ad es., un articolo di Edward Shils e Morris Janowitz sul perché la Wehrmacht non si è disgregata (Cohesion and Disintegration in the Wehrmacht in World War II, « Public Opinion Quarterly », 12 (1948), pp. 280–315), oppure lo stesso American Soldier di Stouffer et al. avrebbero potuto fargli capire meglio che i soldati combattono fino alla morte per potersi proteggere dalla angoscia intollerabile del combattimento tramite il gruppo dei pari, il buddy system. Ma queste sembrano ormai punzecchiature corporative, mentre sono un appello ad una ancora più ampia e approfondita interdisciplinarietà. Rimane questa narrazione intensa, a volte quasi intollerabile nella sua fatale progressione verso la fine. Rimane la ricchezza di una lettura che non cerca scorciatoie e variabili uniche ma conserva alla realtà la sua irriducibilità a spiegazioni semplici. Rimane la serietà di una ricerca approfondita condotta su un sistema di fonti varie e estese. Rimane la scrittura potente di chi fa storia per raccontare storie: come nelle pagine sui trasferimenti e le marce della morte degli internati dei lager
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e dei campi di sterminio. Rimane l’inquietudine che lascia nel lettore la domanda che anima queste 600 pagine: anche le società complesse possono conoscere la tentazione della propria morte, uccidere per farsi uccidere. (enrico pozzi) Nicola Porro, Corpi e immaginario. Memoria, seduzione e potere dal Milite Ignoto al Grande Fratello, Acireale-Roma, Bonanno, 2010, pp. 239. Tra molto ciarpame, finalmente un contributo della sociologia italiana che rende giustizia alla eccedenza del corpo rispetto alle categorie che pretendono di inglobarlo e risolverlo. Sociologia del corpo? Giriamo il problema ai guardiani delle discipline. Per noi semplicemente un libro bello da leggere, intellettualmente avventuroso, e naturalmente anche criticabile. Nicola Porro si occupa da sempre di corpo, ma nella forma particolare del corpo sportivo, che è uno stato-limite della costruzione e rappresentazione sociale del corpo. Ora finalmente si è deciso ad uscire extra moenia, verso il corpo politico e il corpo spettacolo: un esito che lasciavano prevedere sia alcuni saggi sparsi, sia gli spostamenti progressivi di prospettiva nei suoi volumi di sociologia sportiva. Corpi e immaginario è organizzato intorno allo spartiacque delle Grandi Narrazioni, termine che Porro deriva da Lyotard, e che si contrappone al simmetrico delle micronarrazioni. Nella Prima Parte, si esibiscono alcune Grandi Narrazioni corporee della 1a metà del secolo scorso, tre corpi sociali che sono ineluttabilmente anche corpi politici: il Milite Ignoto, Padre Pio, e Mussolini. Il Milite Ignoto rielabora un saggio già pubblicato anni addietro, e produce le pagine più ricche e avvincenti del volume: la narrazione segue il filo conduttore cronologico di una vicenda che è per così dire un ready made narrativo, con tutte le componenti di una ’fiaba’ esemplare di Propp: l’Eroe, il Viaggio, il Riconoscimento ecc sullo sfondo di una drammatica vicenda collettiva di corpi sopravvissuti e di corpi morti, di corpi individuati e di corpi anonimi: una sorta di dialettica corporea tra il dissolversi dell’individuo nell’anonimato del sociale, e il tentativo dello stesso individuo di tornare ad una identità propria
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attraverso il ripristino visibile del suo corpo/Io. Qui Porro introduce la maggior parte dei concetti-chiave del suo discorso: il rapporto tra memoria, immaginario e rito; il mnemotopo; la religione politica corporale; la “comunità immaginata” di Anderson; il mito; il Leib freudiano (e dunque il desiderio); il corpo collettivo; la costruzione sociale del corpo. Torneremo più oltre su questo apparato concettuale, che non ci convince fino in fondo. Ma qui ‘funziona’ bene. Con un limite: negli ultimi due anni il corpo di quel povero cristo è tornato ad essere moneta simbolica e politica sonante, spendibile e usata senza pudore: altro viaggio del treno, commemorazioni varie, riesumazione mediatica nell’ambito del 150nario, benedizione istituzionale di Governo e Presidente ecc (vedi ilcorpo/diario-paranoico-critico/1921-2011-90-anni-dopo-litaliaha-ancora-bisogno-di-quel-cadavere/). Porro avrebbe dovuto spingersi fino a quest’ultima ‘resurrezione’, esplorarne le differenze, verificare cosa ha da dirci sullo stato della coesione identitaria del nostro paese ora, e verificare se i concetti usati per quella cerimonia collettiva si adattano bene a quest’ultima recente messa in scena della invenzione della tradizione e di un uso politicamente disperato della memoria. Più sofferti gli altri due corpi. Padre Pio non è il Milite Ignoto, non gode di quella imponente legittimazione di “corpo collettivo” elaborata da una cerimonia/Nazione. Corpo più circoscritto, meno esemplare, chiuso tra mura più anguste, protagonista immaginario significativo solo per alcuni segmenti del corpo sociale. Difficile leggerlo fino in fondo come sartriano “universale particolare”, contrazione sintomatica di una società e delle sue dinamiche in una vicenda individuale. Detto semplicemente: parla meno, esprime meno ricchezza cognitiva. Diverso il caso del corpo di Mussolini, che è ‘il’ corpo della società italiana del ‘900. Qui francamente l’analisi è troppo rapida, a grandi categorie e su fonti secondarie. Ben altro c’è nel corpo del Duce che non i tre corpi di cui ci parla Porro; e, aggiungiamo, ben altro c’è rispetto al volume di Luzzatto, che ancora attende la critica dura che merita, e non le critiche rosee alla De Luna. In quanto corpo politico e sociale, e in quanto protagonista ancora attivo della memoria corporea e dello schema corporeo della società italiana di oggi, il corpo di Mussolini ancora aspetta di essere cognitivamente disseppellito, e dunque più definitivamente sepolto.
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Nella Seconda Parte entrano in scena le micronarrazioni, Com’è (forse) giusto, la relativa unità e coerenza categoriale e narrativa – ma questa distinzione ha veramente senso? - della Prima Parte viene meno. Navighiamo tra eventi di massa eppure minori, configurazioni fruste del sociale e dell’immaginario che non aspirano più alla storia e si contentano della scena. Radiocronache sportive, figurine di calciatori, gli alieni di Orson Welles, le maggiorate del cinema italiano del dopoguerra, Liza Lyon, Moana Pozzi, la body art, una breve e poco convincente incursione dalla parti della leadership politica nell’età dello spettacolo. A far da tentato filo conduttore alcune categorie nuove: seduzione, desiderio. Già, nuove. Ma viene da chiedere a Porro: sicuro che queste categorie non fossero presenti, insieme ad altre che non ha usato, anche nelle Grandi Narrazioni precedenti? Se le avesse introdotte, con altre su cui torneremo, anche per il Milite Ignoto, Padre Pio e Mussolini, la sua analisi sarebbe andata in direzioni impervie per un sociologo, eppure straordinariamente fertili. Viene poi il capitolo clou sul Grande Fratello come panopticon corporeo della ipermodernità. Divertente, ben scritto (come del resto tutto il libro, e questo è complimento non da poco se si pensa alla prosa “sorda e grigia” da chierici-burocrati che caratterizza la nostra sociologia). Utile in alcune belle sottoanalisi, come ad es. là dove Porro usa Elias e il problema delle buone maniere come grimaldello euristico. Stimolante quando la casa trasparente per individualità diafane diventa microcosmo sociale esemplare. A tratti iperinterpretativo, ma in fondo la ipermodernità se lo merita… Attento a sottolineare i corpi dei protagonisti come corpi integralmente prevedibili, e dunque come modalità nuove di corpi collettivi. Insomma, con il Milite Ignoto, il capitolo più bello del libro. Qualche osservazione critica. La più importante riguarda il sistema delle categorie. Porro ne menziona poche: rappresentazione sociale, carisma, costruzione, memoria, per fermarci alle più importanti e ripetute. Su nessuna si ferma seriamente e il risultato è una vaghezza concettuale che non aiuta le narrazioni interpretative. Qualche esempio. “Rappresentazione sociale” è un concetto chiave della psicologia sociale europea, tra l’altro uno dei pochi in grado di controbilanciare la smania sperimentalista dell’influenza anglo-sassone, e in grado di restituire il sociale alla psicologia sociale. Ma poi Porro la definisce
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così: « Una r.s. è prodotta dall’intreccio fra immagini mentali che riproducono aspetti e funzioni del corpo e icone (Farr e Moscovici 1989). Queste ultime denotano rappresentazioni esplicite, concrete e tangibili. Capaci di fissarsi nell’immaginario di massa, come il corpo macchina ecc ecc » [p. 13]. Siamo lontano dalla complessità di questa categoria, per altro niente affatto ancorata in partenza al corpo, e che ben altra ricchezza euristica avrebbe potuto dare alle analisi del volume. Lo stesso può dirsi per “costruzione” e “carisma”. “Costruzione” è una categoria povera perché lineare e deterministica (del tipo: “la società costruisce il corpo”), e dopo averla criticata nel 1994 ho proposto di sostituirla, sempre a proposito del corpo sociale, con “costrutto”, termine euristicamente ben più articolato, non lineare e fecondo. Poi anni dopo R. Stella ha scritto (male) di sociologia del corpo usando “costrutto” ma intendendo la ben più banale “costruzione”. Porro ha fatto la stessa scelta un po’ pigra. “Carisma” pone un problema più ampio. Innanzitutto dopo Weber il concetto di carisma ha avuto un percorso accidentato ma arricchente, in particolare quando ha dovuto fare i conti non con le grandi leadership carismatiche, ma con i microcarismi quotidiani, compresi quelli legati allo star system grande e piccolo. L’apporto più utile è stato il “carisma diffuso” di Edward Shils (Charisma, Order, and Status, « American,Sociological Review », Vol. 30, n. 2/1965, pp. 199-213), che qui sarebbe risultato particolarmente utile. Ma il punto chiave è un altro. Già Weber aveva posto quasi en passant un interrogativo fondamentale: la credenza nelle virtù straordinarie del personaggio carismatico non è ovvia ma va a sua volta indagata. Occorre chiedersi, con gli strumenti adatti, di cosa è fatto il consenso interiorizzato alla leadership carismatica, grande o piccola, concentrata in un ‘capo’ o diffusa tra microrappresentanti frusti. La sociologia non dispone di questi strumenti, e dovrebbe andare a prenderli in prestito da altre corporazioni disciplinari: la storia, il diritto, la psicologia sociale ecc. Diciamo eufemisticamente che non pare molto disposta a farlo, e neanche il sociologo Porro. Il risultato è un punto cieco del libro, in due direzioni. Cecità psicologica: come ‘funzionano’ i corpi che Porro analizza? È vero che parla di Leib o di ‘seduzione’ ecc. Ma di cosa è fatto il Leib? Come, attraverso quali processi e dinamiche, agisce la seduzione? Occorreva
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un modello psicologico-sociale del vincolo capo-folla, star-audience, santo-discepolo. Il modello non c’è, neanche per allusione. Poi, la cecità rispetto alla storia. Porro fa qualche scarsissima allusione a Marc Bloch o al Kantorowicz de I due corpi del Re, ma non li recupera come modelli euristici. Peccato, perché sia il modello di Kantorowicz sia la lunga discussione critica e storica che gli è seguita avrebbero potuto essergli molto utili nell’organizzare intorno a un tipo ideale e lungo un filo rosso coerente il leader politico come la star, il Milite ignoto come lo pseudo-martire, gli smandrappi de Il Grande Fratello e la Voce narrante del corpo sportivo ecc. Penso per es. a quanto le analisi dei riti di passaggio e di detronizzazione della regalità (Ralph Giesey, ma anche Bertelli e Grottanelli: vedi sotto) avrebbero potuto fornire griglie euristiche potenti ai riti del povero cristo ignoto ma anche a quelli, in apparenza così distanti, della casa del Grande Fratello. Ed è giunta l’ora di quello che Giordano Bruno chiamava lo “sterco dei pedanti”. Porro ha fatto una carriera accademica, e dunque non può sfuggire alle regole del gioco dell’accademia, perché, magari controvoglia, non possono non essere le sue. Molte delle (poche) cose valide della sociologia italiana intorno al rapporto corpo/società non stanno nelle note e in bibliografia (per tutti, i volumi di Boni, direttamente pertinenti ai temi del libro). Su alcuni dei temi toccati mancano fonti importanti (ad es. per il Milite ignoto: V. Labita, Il Milite ignoto. Dalle trincee all’Altare della Patria, in S. Bertelli – C. Grottanelli (a cura di), Gli occhi di Alessandro. Potere sovrano e sacralità del corpo da Alessandro Magno a Ceausescu, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990); ma anche almeno una parte della letteratura francese e inglese; o ancora – così mi espongo all’ovvia accusa di meschinità personale – una cosa mia di quasi 15 anni fa, quando ancora frequentavo le riviste di sociologia: E. Pozzi, Il Duce e il Milite ignoto: dialettica di due corpi politici, « Rassegna Italiana di Sociologia », n. 3-1998, pp. 333-358). E certo avrebbero dovuto esserci almeno il S. Bertelli de Il corpo del Re, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995; il Bourdieu dei vari scritti sul corpo; o i testi ancora fondamentali di Featherstone et al., di B. Turner (sono citate solo cose minori); o il Michael Feher curatore dei Fragments for a History of the Human Body, 1989, Cambridge (Mass.), MIT Press, 3 voll. Oppure il lettore andava avvertito che il bellissimo Männerphantasien di Theweleit è fatto in realtà di due volumi, di cui solo il primo
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(quello citato da Porro) tradotto in italiano con esiti incerti, mentre il secondo ancora aspetta. E ancora: virgolette necessarie per « metafora politica incorporata », dato che viene da Lakoff. Ecc ecc. Sterco di pedanti: ne do atto. Ma forse indica due cose fondamentali. La prima: come aveva ben scritto Marcel Mauss, impossibile tenere a bada il corpo dentro un approccio disciplinare, perché deborda da tutte le parti e ogni sforzo di ricondurlo in una camicia – e in una bibliografia – stretta espone l’incauto alla irrimediabile incompletezza di fonti, categorie, libri citati e peggio libri letti. La seconda: Porro ha scritto un bel libro, diciamo pure: un bel saggio. Però per motivi suoi ha voluto/dovuto metterlo sul letto di procuste dell’accademia e delle sue regole formali. Il saggio brillante ha cercato di farsi testo per/di una corporazione, e così è diventato qualcosa che non poteva riuscire ad essere. Buon per il libro e per il suo autore, che lo si legga spontaneamente per quello che è in realtà: un bel saggio, interessante, stimolante e divertente. Buono per chi si occupa a vario titolo di corporeità dover capire che la scrittura congrua a quel suo particolarissimo oggetto polimorfo implica libertà. (enrico pozzi)
Diario paranoico-critico Il corpo di Obama (2009-2011) 5 febbraio 2009. Paranoia ipocondriaca e potere politico. Obama, il vaccino e l’autismo Anche quando si pretende illuminato e progressista, il populismo non può fare a meno di cavalcare la paranoia. Obama ha fatto propria la tesi di una epidemia di autismo collegata al vaccino MMR, quello contro il morbillo, gli orecchioni e la rosolia. Per esempio il 21 aprile dell’anno scorso, durante la campagna per la nomination contro Hillary Clinton, ha dichiarato: « Abbiamo appena avuto una esplosione del tasso di autismo. Qualcuno pensa che sia collegata ai vaccini. Finora la scienza non ha dato una risposta conclusiva, ma io penso che occorra indagare la cosa a fondo ».
l’epidemia di autismo e il vaccino
OBAMA dixit
La “scienza” ha risposto e come, mostrando prima la gravi debolezze metodologiche della indagine che aveva avanzato l’ipotesi, e poi mostrando l’inconsistenza della correlazione tra vaccino MMR e autismo infantile. Il vero pericolo del vaccino MMR sta nel non farlo, e nelle possibili conseguenze di orecchioni, morbillo ecc per alcuni bambini. Il punto è un altro: perché Obama ha dovuto pagare questo omaggio ad una fantasia paranoica di avvelenamento medico di massa? Neanche consola il fatto che Hillary Clinton negli stessi giorni sia stata appena più misurata, e che McCain invece sia andato molto oltre.
un avvelenamento medico di massa
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In un articolo di qualche anno fa, Claude Lévi Strauss ha descritto la trasfusione di sangue come un trapianto. Prendo un pezzo del corpo di un altro e lo metto nel mio, ibridando la mia identità e i confini del mio Io. Le resistenze alla trasfusione e le sue rappresentazioni nell’immaginario collettivo nascono da questa intrusione attraverso la quale l’altro mi invade e si impianta in me: la Cosa esterna ha superato la pelle e si impadronisce di me.
Cl. Lévi Strauss fantasmatiche del trapianto
L’immaginario del vaccino segue la stessa logica. Ne è pieno di esempi Il favoloso innesto. Storia sociale della vaccinazione, di Baroukh Assael e Barouk M. Assael, Bari, Laterza, 1995. Il Male che si pretende sia stato addomesticato - il morbillo ecc - mi viene messo dentro, superando le mie barriere e difese. Letteralmente sono abitato da questo Male esterno che dovrebbe curarmi e che invece può avvelenarmi: la solita contraddizione del pharmakon, cura e veleno, che governa il nostro uso e la nostra percezione delle medicine. Ottimo terreno per la vasta e redditizia area di magia chiamata “medicine alternative”. Il Nemico, l’Estraneo, ciò-che-è-fuori vuole entrare nel mio corpo e nella mia mente: « body snatcher » assoluto da « invasione degli ultracorpi », una delle più belle rappresentazioni di una fantasia paranoica di fine del mondo che il cinema ci abbia saputo dare. Se ci riesce, diventiamo degli zombie posseduti dalla Cosa, appunto autistici. Questa configurazione delirante accomuna milioni di persone, ai quali vanno aggiunti i dubbiosi soft, quelli che non ci credono fino in fondo ma un po’ sì. È comodo prendere la propria sofferenza interna e trasformarla in un persecutore esterno. L’angoscia dentro è invisibile e non gestibile. Se diventa un Nemico fuori, non è più roba mia: eccola visibile, tangibile, la posso gestire e di-
il pharmakon
L’invasione degli ultracorpi, regia di D. Siegel, 1956
esportare il Male interno
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struggere distruggendo quel Nemico. Me ne difenderò difendendomi da ciò che, da fuori e non più da dentro, mi aggredisce. Riposante. C’è solo un problema: per un poco l’angoscia si acquieta, ma io non posso annientare veramente il Male che mi perseguita. Se lo vinco, ripiombo nella mia angoscia, e dunque sono condannato a tenere sempre in vita ciò di cui ho il terrore. Tutto questo è servito anche a Obama. Il potere populista non può rinunciare all’uso delle enormi energie emotive che la paranoia riesce a organizzare e dirigere verso bersagli chiari: un Capo salvifico cui affidarsi, alcune forme del Male contro cui NOI possiamo sentirci noi, compatti, e preservati dal negativo. Il « cristallo di gruppo » di cui parla splendidamente Canetti in Massa e potere. In questo caso poi la paranoia si innesta sul corpo e sulla traduzione ipocondriaca delle nostre paura: vive del capovolgimento perverso del nostro centro vitale.
OBAMA e il « cristallo di gruppo »
Di fronte a queste forze demoniache, si perde ogni speranza che si realizzi il sogno di una filosofia politica illuminista e forse liberale: passare dal potere come Potenza al potere come razionalità ragionevolmente condivisa.
5 aprile 2009. Il corpo di Obama (1). Il fallo del leader carismatico e Michelle incinta Come ha scritto Max Weber, il leader carismatico deve dimostrare continuamente che la potenza del carisma sta ancora in lui, e che è ancora il portatore di doni straordinari.
la prova del carisma
Nei periodi di crisi, questa dimostrazione è al tempo stesso più difficile e più necessaria. Quando la realtà non aiuta, occorre un sovrappiù di immaginario, e bisogna ti-
fallo e Potenza
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rare in ballo le forme più primitive della potenza, quelle legate al corpo e alla sessualità. La prima voce che Michelle Obama fosse incinta si è diffusa il 25 agosto dell’anno scorso. La sera la moglie di Obama doveva parlare davanti alla Convention Democratica di Denver che stava investendo il marito come candidato alla Presidenza, e al mattino ecco il rumour: da qualche giorno porta vestiti un po’ larghi perché è incinta. Sullo sfondo della unzione popolar-mediatica di Obama come possibile Re, arriva la prima manifestazione della Potenza per antonomasia, quella sessuale: il fallo dell’aspirante Re dà buona prova di se stesso fecondando l’aspirante Regina. Questo nel pieno di una sfibrante campagna per la nomination, con ritmi da paura, e con una donna di 44 anni. La seconda voce è esplosa il 29 gennaio di quest’anno, dieci giorni dopo l’incoronazione formale. Il contesto era quello di una crisi economica catastrofica, con una squadra di governo che non riusciva a farsi, e sullo sfondo di un quadro globale ingovernabile. Un neopresidente giovane e nero, senza esperienza, senza un team stabile e rodato, deve affrontare milioni di disoccupati, il crollo di Wall Street e di tutte le borse mondiali, il quasi fermo dell’attività economica in settori chiave, l’ulteriore incancrenirsi della crisi medio-orientale e afghana. Con in più il peso del ruolo planetario degli USA e la trappola delle aspettative messianiche da lui stesso scatenate con le sue parole, i suoi comportamenti e il suo stile politico populista. È il momento giusto per mobilitare l’immaginario sociale a sostegno dell’azione politica. La potenza incerta del leader politico Obama ha bisogno della potenza arcaica del fallo divino. Giù da settimane l’erotismo mediatico aveva investito di nuovo la coppia regale: il corpo nudo, glabro e forte di Obama in vacanza alle Hawaii rimbal-
la Regina fecondata
la crisi, un Re giovane e fragile ...
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zato nel mondo intero, Michelle Obama che rompe il protocollo con le bracca e le spalle nude. Ci vuole altro, la forza della virilità provata del Re e della fecondità provata della Regina, l’infante divino come garanzia del futuro contro il crollo catastrofico. Ecco allora la seconda ondata di voci: Michelle è incinta, potrebbe nascere un bambino alla Casa Bianca. La voce è lanciata da uno dei più noti celebrity bloggers USA, Perez Hilton. La ha raccolta a Washington, commenta dicendo che « la moglie del Presidente è “America’s momin-chief” », e che se è vero ci si augura che il bambino sia un maschio. Come nei migliori fantasmi dinastici....
La seconda ‘notizia’
La voce è ripresa da tutti i media internazionali, spesso in prima pagina, e rimbalzata o commentata da oltre 120mila blog in meno di 24 ore negli USA. Google la conta in 13 milioni di pagine. Vengono diffuse foto che mostrerebbero il gonfiore evidente della pancia di Michelle Obama, con tanto di freccia e di bambino disegnato al posto giusto. Altri ricostruiscono l’evoluzione dell’abbigliamento della First Lady in una direzione premaman. Naturalmente qualche commentatore maligno se la prende con gli effetti della cucina della Casa Bianca, notoriamente pessima.
... e il Bambino divino
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La smentita formale della coppia Obama arriva dopo molte ore: il Presidente e sua moglie non hanno intenzione di avere un altro figlio. Ma la nebulosa dell’immaginario è stata attivata, e diventa l’indizio visibile di un lavorio sotterraneo intorno al corpo e al carisma dell’uomo più potente del mondo. Ce la fa? Ce la farà? La Potenza è con lui, oppure siamo preda del disordine incontrollato del mondo, che nessun Re Divino può tenere sotto controllo? Girano improvvisamente altre foto, sul cranio di Obama improvvisamente incanutito in pochi mesi: il pelo bianco del capo branco consolidato e esperto, o il segno dell’indebolimento della forza vitale del corpo del capo? Se lo chiede in prima pagina persino il serio New York Times.
un Re invecchiato e impotente ?
La foto del New York Times
L’immaginario sociale non si ferma, e si appresta a fare a meno della Regina. Per ‘gioco’ e per ‘scherzo’, come sempre quando si devono gestire i fantasmi più profondi, comincia ad emergere un Barack Obama transgender e ermafrodito, uomo e donna insieme. Da quasi subito gli aspetti ‘femminei’ di Obama candidato e presidente erano stati una parte importante della sua rappresentazione sociale, e usati sia contro che a favore, tanto da costrin-
il carisma ermafrodito
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gere il candidato a ripetute dimostrazioni simboliche di gusti e pratiche virili nel confronto col maschio Hillary Clinton prima e con l’eroe di guerra McCain dopo. Ora la torsione è diversa: Obama non è più uomo o donna, ma uomo-e-donna. Come tale, non ha più bisogno di una appendice femminile, non ha più mancanza, basta a se stesso e si completa da solo. L’androgino del Simposio di Platone come figura del potere politico. E dunque incinto di se stesso, o incinta di se stessa, nelle singolari immagini che girano sul web e sulle mura di New York.
autismo della Potenza: il Re incinto
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L’androgino è l’alfa e l’omega, comprende in sé, nella forma sessuale, tutti i gradi e configurazioni possibili della realtà. Nell’androgino si realizza concretamente, come corpo, il Capo che contiene in sé tutta la folla, il Re che contiene in sé tutto il suo popolo, lo uno-nessuno-centomila del frontespizio del Leviatano di Hobbes, o della teoria freudiana del capo carismatico in Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Ma l’androgino è anche colui a cui nulla manca e che non ha bisogno di nulla o di nessuno, compos sui, la rappresentazione perfetta del potere totale e della Potenza che si conferma e giustifica da sola, in una sorta di pienezza assoluta. E ancora: l’androgino ordine compiuto e immobile, perché solo dall’essere o maschio o femmina, e dunque privo di una parte perduta di sé, viene il disordine della nostalgia della metà mancante di noi stessi. Il disordine indotto dal desiderio di ciò che non c’è, il disordine della realtà costretta a muoversi affannosamente alla ricerca dell’altro pezzo di se stessa. A questo deve ricorrere il sociale quando l’ombra del bisogno estremo e della disgregazione dell’ordine del mondo lo sprofonda nell’angoscia, e gli fa sperare che non ci sia più bisogno di nulla, e che non ci sia più movimento o cambiamento nelle cose.
10 aprile 2009. Paranoia, nemico e riti di fertilità. Michelle Obama e l’orto di guerra della Casa Bianca Ieri Michelle Obama ha avviato il nuovo orto della Casa Bianca piantando spinaci, lattuga, origano, rosmarino, cipolle, cetrioli, peperoni, piselli e erba cipollina. Tra tre settimane pianterà anche i pomodori. L’hanno aiutata 25 bambini che si occupano di un orto analogo nella loro scuola.
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Un manifesto per gli orti di guerra USA nella 2a Guerra Mondiale
L’ultima volta era stato con un’altra First Lady, Eleanor Roosevelt, durante la 2a guerra mondiale. Allora era chiamato Victory Garden, o Liberty Garden, che probabilmente si pensava fosse la stessa cosa. Era il classico orto di guerra, che doveva spingere la popolazione a usare tutti gli spazi possibili per la produzione autarchica di cibo.
il precedente di Eleanor Roosevelt
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Lo hanno fatto allora un po’ tutti gli stati coinvolti. L’Italia fascista si era già allenata durante l’autarchia in risposta alle « inique sanzioni » demo-pluto-giudaico-massoniche dopo l’invasione dell’Abissinia. Durante la guerra parchi pubblici, giardini e giardinetti di ogni genere diventarono orti, e i prodotti venivano poi accumulati e trattati nelle grandi piazze e nei luoghi più simbolici delle città.
Trebbiatura del grano a Piazza Castello, Torino, luglio 1942.
Torinesi piantano patate al Parco del Valentino. Luglio 1942
autarchie di guerra
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Sul piano economico e alimentare gli orti di guerra non sono mai serviti a nulla. Contano qui le funzioni latenti, non quelle manifeste. Un orto di guerra alla Casa Bianca significa che Obama ha bisogno di uno stato di guerra per garantirsi un consenso popolare duraturo e una buona coesione sociale. Tutti hanno bisogno di nemici per vivere, ma i leader populisti ne hanno bisogno più degli altri. Un nemico è la crisi economica, e l’orto di guerra rappresenta la risposta dal basso alla minaccia della penuria, il passaggio dal valore di scambio al valore d’uso e alla subsistence, dall’economia monetaria al baratto e al dono. Michelle Obama annuncia che i prodotti dell’orto della Casa Bianca serviranno a nutrire i suoi figli, finiranno nei piatti degli ospiti, e la parte eccedente verrà donata a organizzazioni caritatevoli.
contro Babilonia
populismo e stato d’eccezione
mangiare sano per la Patria
Un altro nemico è il corpo obeso degli americani. Guerra al grasso e al junk food, come Blair in Inghilterra. Michelle Obama lo ha detto esplicitamente: vuole che i bambini americani, e gli adulti tramite loro, imparino a mangiare meglio, sano, fresco e locale: “locavores”, secondo un divertente neologismo. È lo stato etico in forma alimentare, che si occupa dei corpi dei sudditi come garanzia della salute del corpo sociale. Un terzo nemico sono i valori consumistici di Babilonia. Il rapporto con la terra è l’anti Wall Street, l’anti finanza staccata dalle cose, l’anti lusso e spreco. L’orto di guerra diventa l’appello alla natura naturans come fondazione della Potenza, al mito di una cultura contadina basata sulla frugalità, sull’autosufficienza, sul rapporto diretto e produttivo con la propria terra: il subsistence life style come modello. E su questo ecco i mitologemi di contorno dell’immaginario USA: i pionieri, il Midwest rurale
tornare alla Terra
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come heartland, la Walden Pond di Thoreau e la sua variante paranoica, la log cabin di Unabomber nel Montana... Qui lo stato è pienamente e irrimediabilmente etico, perché mira a costruire il nuovo Americano adatto ai tempi nuovi tramite il fantasma di un simbolico “ritorno alla terra” già caro al nostro Ventennio.
la Natura, la Frontiera e la Potenza
Ma la forza dei populisti carismatici alla Obama sta altrove, nella loro capacità di utilizzare componenti arcaiche della vita sociale e dell’inconscio collettivo di un gruppo. Michelle Obama, la parte femminile della Coppia divina, ha messo in atto un rito di fertilità nel periodo canonico dei riti di questo tipo: marzo e aprile. La primavera cerca di rifecondare la terra desolata, e la Mom della First Family rifeconda e rende fertile il locus del potere che è anche il locus della nazione. Notoriamente, Aprile è il mese più crudele, e ad aprile la Regina divina genera dalla terra morta non lillà ma più anticongiunturali pomodori e cetrioli. Con il salvifico contorno di bambini che esprimono la fecondità riuscita. Il cerchio si chiude. Il re divino Obama feconda la regina, che a sua volta rende fecondi il mondo e la terra. Il carisma passa anche da queste cose: paranoia, nemico, uso della paura, uso dell’inconscio collettivo, ripristino di miti e riti primitivi, ecc. « Yes, we can », forse, ma al solito modo, secondo le logiche più arcaiche della politica, aggrappandosi ai livelli più inconsci delle emozioni e dei corpi. Al servizio del cambiamento, del « change »? Può darsi, ma ai paranoici orti di guerra preferiamo il « cultiver notre jardin » dell’anti eroe Candide.
riti di fertilità per la primavera della Nazione
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21 maggio 2009. La pelle del Sovrano e la pelle del Nemico. Obama, le Hawaii e le foto censurate di Abu Ghraib
In alto una delle foto dei torturati di Abu Ghraib che Obama ha cercato di censurare. A sinistra il Presidente Barack Obama alle Hawaii.
Il Re è nudo. Denudato dalla Ragion di Stato. Cambiare (vestito) si può.
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23 maggio 2009. La pelle del Sovrano e la pelle del Nemico (2). Dorso a dorso per Obama
In alto il Nemico torturato a Abu Ghraib. La schiena (foto su cui Obama ha mantenuto la censura. Fonte: http://www.afterdowningstreet.org/node/10502) A sinistra il Presidente Obama sulla spiaggia alle Hawaii. La schiena.
Dietro alla Ragione di stato.
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4 luglio 2009. Obama signore delle mosche, ovvero Belzebu alla Casa Bianca. Il potere merita il delirio paranoico. 53 milioni di pagine Google per “Obama kills a fly”, accaduto il 16 giugno. La voce del popolo non mente. Ha sentito che quel modestissimo evento nasconde una verità terribile. Cerca risposte, ma non le trova. Io ho capito, e voglio dire quello che ho capito. Il nero Obama /Amabo, seduto nel cuore bianco di una casa bianca, uccide con la mano destra una mosca nera posata sulla sua mano sinistra.
la mosca nera
Perché lo ha fatto? Come ha potuto una mosca entrare nello spazio asettico e metafisico del potere massimo? Perché stava lì durante una intervista televisiva? Cosa cercava di far capire a noi impotenti mortali? Da tempo le mosche cercano di farci capire qualcosa su Obama. Un’altra volta, sempre in quei giorni, interrompe una intervista perché delle mosche gli girano intorno alla faccia. “Ci sono troppe mosche qui”
troppe mosche
Cosa ci vogliono dire queste mosche? La risposta sta nel Libro, Luca 11.14-20: «14Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle rimasero meravigliate. 15Ma alcuni dissero: “È in nome di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni”. 16Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. 17Egli, conoscendo i loro pensieri, disse: “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. 18Ora, se anche satana è diviso in se stes-
BEELZEBÙL
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so, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni in nome di Beelzebùl. 19Ma se io scaccio i demòni in nome di Beelzebùl, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. 20Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio».
Chi è Beelzebùl, o più semplicemente Belzebu? È il braccio destro di Satana, il numero due nella gerarchia infernale. Attenzione, il braccio destro. Belzebu, da Ba’ al zebub, dal dio fenicio Baal. Vuol dire alla lettera « Signore delle Mosche ». C’è dunque un legame diretto tra Satana e le mosche, via Belzebu, il principe del Male che governa le mosche. È il primo tassello della verità. Il secondo tassello è una immagine. Viene dal Dictionnaire infernal, di Collin de Plancy, uscito nel 1818, ma le straordinarie figure demoniache sono nell’edizione del 1863: ogni praticante del metodo paranoico-critico e dell’inconscio dovrebbe averlo. Eccola, la Mosca:
La vera Mosca, non addomesticata
Il Signore delle Mosche
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È la Mosca, non la mosca degli adulti che fingono di non sapere, e che dicono: le mosche sono sporche, cacciatele. La vera Mosca, quella di cui i bambini e gli adulti hanno così intensa paura istintiva, e cercano di farsene ragione descrivendola come il ricettacolo di tanto male spicciolo: le malattie, cioè lo sforzo positivista di ridurre il Male a mediocri vicende di batteri e di igiene. La Mosca demoniaca. I bambini sanno. I bambini del Signore delle Mosche sanno chi è la Mosca, chi è Belzebu signore delle Mosche, e in quali rapporti stretti sta con il Potere. Il gruppo dei ragazzi che vuole il Potere sull’isola è anche il gruppo che adora la testa di maiale coperta di mosche, appunto Belzebù, signore delle mosche. Lo ho letto in The Lord of the Flies di William Golding. L’ho visto e rivisto ne Il Signore delle Mosche di Peter Brook (1963), e lasciate perdere, voi aspiranti cultori del metodo paranoicocritico, il remake a colori del 1990 (Satana a colori! la Mosca a colori!).
il Bambino e la Mosca W. GOLDING
È un altro tassello: la Mosca e il Potere politico, la Mosca venerata come un Sovrano. Guardiamo con occhi da bambino la testa di Belzebù coperto di Mosche, nel pieno del suo fulgore sacro:
P. BROOK, 1963
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mysterium tremendum et fascinans
L’origine delle Mosche
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La Mani che si protendono verso Belzebù, folla adorante di Mosche verso il Signore delle Mosche, forma e figura del Potere che sta in alto sui palcoscenici della Sovranità, l’eterno Re taumaturgo che si nasconde dietro la star e il potente. Un altro tassello ancora. Una immagine che mi ossessiona da sempre. Tanzio da Varallo, San Carlo comunica gli appestati, 1616. Ovvero gestisce il Male a colpi di Bene. L’ostia bianca al centro del quadro, ovviamente. Ma sotto ai piedi del santo, ineliminabile contrappunto al bianco del Bene, una stupenda falena notturna, il Male che sorveglia e attende, pronto a riprendersi la scena. La Falena come la Mosca, segno di Satana.
La bianca banalità del Bene
La paziente Falena notturna. Il Male sa aspettare
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La Mosca vola, e si posa ovunque. Si nasconde nei dettagli, e poi all’improvviso provoca con la sua inattesa visibilità. Vuole il bianco come forza del suo nero. Musca depicta, ombra dell’immaginario, come il Mefistofele faustiano, nega e capovolge il senso di ciò su cui si posa. André Chastel ha inseguito le sue tracce nella pittura occidentale. Il libro è quasi introvabile, ma non se ne può fare a meno.
André Chastel, Musca depicta, Parma, FMR, 1984
Il metodo paranoico critico ha lavorato. Ora sappiamo. Nulla è stato casuale nella vicenda di Obama e della mosca. Innanzitutto la mosca - la Mosca - non è entrata nella Casa Bianca (come avrebbe potuto?). Essa è emanata dal Signore delle Mosche che nel bianco di quella casa si è insediato grazie alla follia delle folle. Girava intorno alla Sua testa come le mosche girano intorno alla testa del maiale Belzebù nel Signore delle mosche. Essa stava venerando il suo padrone. Ma in questo modo lo stava rivelando nella sua vera identità: braccio destro di Satana, angelo dell’Anticristo. Omaggio dovuto, e pericoloso. Il tempo non è ancora giunto. Così Obama/Amabo ha ucciso la mosca, per salvare la Mosca. Con il braccio destro del suo potere, sul braccio sinistro della sua identità nascosta. Gesto da sovrano, che dispone come vuole delle mosche che gli sono
la nera Mosca nella Casa Bianca
il nero Servitore dell’Anticristo
l’inganno
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suddite, e può indicarne trionfante il cadavere al popolo ignaro. Gesto luciferino, perché da padrone della luce sottrae alla mosca la capacità di gettare luce su ciò che egli è. Gesto satanico, perché si finge gesto del “dito di Dio” (Luca) che caccia Satana e la Mosca dal mondo. Ma anche gesto ‘politico’ così confortante e quotidiano, vicino alla gente e ai gesti quotidiani della gente. Non Belzebù signore delle mosche, ma uno di noi, con le piccole noie che abbiamo tutti, ma determinato ed efficace nel gestirle. Come ci si aspetta da un leader in un’epoca di crisi. Un unico neo: il suo sorriso trionfante. Troppo denso, con troppi denti di fuori. Per lo spazio di qualche secondo, si è tradito: gli piace uccidere. Non le mosche, ma chi si metterà di traverso sulla strada dell’arrivo trionfale di Satana. Si era già tradito un’altra volta, il 16 aprile, a Città del Messico, quando aveva stretto la mano a Solis, Direttore del Museo di Antropologia, e questi era morto di febbre suina, la febbre del maiale, Belzebù signore delle mosche. Lì era stato facile nascondere tutto. Ma la nera Mosca nella Casa Bianca, e quel sorriso trionfante: troppo esplicito, troppo rivelatore. E poi sempre il 16: di aprile in Messico, di giugno alla Casa Bianca. Cosa accadrà di terribile e rivelatore un giorno 16 di un mese a venire? Orrore orrore, per il bianco Kurtz che rubava bianco avorio nel cuore di tenebre dell’Africa nera. “Horror horror” per il nero Obama Belzebù che si insedia al cuore del bianco per donare il mondo a Satana. Questo hanno sentito milioni di persone con orrore senza capire l’orrore. Appagati perché una mosca è stata uccisa, eppure inspiegabilmente così inquieti. Messi di fronte all’efficacia di un esercizio della sovranità, eppure così turbati da qualcosa che di quella sovranità produce terrore nelle ossa.
gli piace uccidere
ha già ucciso, con la febbre del maiale
il 16 che verrà
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A me rimane solo la certezza di aver prodotto un delirio paranoico-critico congruo al delirio paranoico che costituisce ogni potere, e ogni rapporto suddito-sovrano, inevitabilmente demoniaco. Un delirio a specchio, che traduce e rivela ciò su cui si esercita. L’Angelus di Millet è in ultima verità la mantide omicida. La quartina di Nostradamus sul monaco nero in grigio a Varennes ha predetto l’arresto di Luigi XVI in fuga. Per salvarci (forse) dobbiamo addestrarci a delirare con metodo, aderenti al nostro inconscio. Aiutiamoci con tre testi chiave: A sinistra un manuale esemplare della sovra interpretazione tipica del discorso paranoico A destra la straordinaria interpretazione dell’Angelus di Millet, e la prima teorizzazione del metodo paranoico-critico Gerhard Ritter, Die Dämonie der Macht, Betrachtungen über Geschichte und Wesen des Machtproblems im politischen Denken der Neuzeit, 1947, 1a ed. di questo testo essenziale. Purtroppo la trad. italiana ha un titolo magniloquente e facile Il volto demoniaco del potere - e Il Mulino non la ristampa da anni
paranoia e potere la Mosca, la Mantide e il Monaco nero
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26 marzo 2010. Obama e l’hamburger. Ovvero i dilemmi alimentari del corpo populista. Obama ha due corpi, ma questa volta Kantorowicz quasi non c’entra.
i due corpi di Obama
Il primo corpo è quello del leader populista che incarna lo schema corporeo ideale di un popolo perfetto: magro, slanciato, muscoloso, agile, levigato, glabro, jogging, nuoto, basket. Quasi uno si dimentica il colore della pelle.
il corpo sublime delle élite …
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Il secondo è il corpo del popolo, cioè dell’americano medio e dei suoi riti alimentari: hamburger, patatine fritte, cocacola, hot dog, fagioli, e pure la sigaretta di nascosto. Vediamolo in azione, questo secondo corpo:
… e il corpo ‘basso’ del popolo
Ecco il dilemma. Da un lato il corpo dello Stato Etico, il corpo-modello per i corpi dei sudditi e per l’organismo sociale: non deve forse ogni americano, e l’America stessa, essere il corpo calvinista ma vitale del suo Presidente? Dall’altro il corpo nazionalpopolare dello junk food e dell’obesità di massa. In mezzo la figura alimentare del Male, il colesterolo. Obama ha bisogno di tutti e due i corpi. E ha bisogno di mediatori che lo aiutino a tenerli insieme. Il primo mediatore è lo Sciamano, il medico. E i medici, in particolare il suo medico personale, garantiscono che il suo corpo è sano: pressione 60-90, peso perfetto, colesterolo totale 173, muscolatura senza grassi, indicatori neurologici senza pecche, stile di vita attivo, capacità mentali top. Il corpo sano della nazione si rispecchia e riconosce nel corpo del suo capo. Il secondo mediatore sono due. La Moglie Michelle rivela gli sgarri alimentari del marito, rari, misurati, ma ci sono: mangia di nascosto ogni tanto cose che non dovrebbe, tipo il pollo fritto. Peggio: ha quasi del tutto smesso di fumare, anche perché lei - brava solida moglie americana - glielo ha messo come condizione per il loro
lo Sciamano e il corpo divino
la Regina e il corpo carnale
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rapporto. Ma quasi... e ogni tanto lui... Ovvero il divieto in nome del corpo perfetto, e la trasgressione maternamente perdonata. L’altro mediatore nazionalpopolare sono i Media: filmano e diffondono Obama che mangia ciò che l’altro Obama si nega, Obama che si lecca il dito grasso di hot dog, Obama che ordina il suo cheeseburger medium well done e senza ketchup, ma con la mostarda piccante, Obama che frequenta noti templi del junk food ecc. Ovvero il teatro del quotidiano corporeo ‘basso’, una sorta di inversione carnevalesca alla Bachtin, il potente che si “ingaglioffisce” alla Macchiavelli e mette in scena la vicinanza del Potere, la possibilità per tutti di identificarsi con la vita del corpo del Capo. Fumo, colesterolo, sei noi, siamo te. Ma la narrazione politica è più sottile. Se Obama mangia quello che mangia, fuma ecc, e però ha quel corpo perfetto e perfettamente sano, allora Obama è un Re taumaturgo. Come i Re di Francia e d’Inghilterra con la scrofola nel giorno dell’incoronazione, Obama prende il male nazionalpopolare del corpo sociale - il colesterolo, il fumo, l’obesità - e lo bonifica nel e tramite il proprio corpo senza male. La sintesi dei due corpi nel suo corpo unico diventa la prova provata della Potenza purificante che lo abita, l’ulteriore verifica del carisma. Obama mangia hamburger ed è magro, dunque è santo. O almeno così si spera, per la salvezza e salute del corpo della nazione. Tensione irrisolta tra i due corpi, che lascia l’ombra del dubbio nel suddito impaurito, il suddito perfetto.
i Media e il corpo-audience
il Capo e la Folla
bonificare il Male
il nero Re taumaturgo
Pelle impura fin de siècle La galleria mostra dieci tavole dermatologiche della seconda metà dell’Ottocento tratte dai volumi Photographs (Colored from Life) of the Diseases of the Skin del dermatologo britannico Alexander Balmanno Squire, e Photographic Illustrations of Skin Diseases di George Henry Fox. Il primo testo è stato pubblicato nel 1865 e raccoglie fotografie scattate alla St. Mary’s Hospital Medical School di Londra. Per visualizzare meglio lo stato della malattia, le fotografie furono sovra colorate. Il manuale di Fox, pubblicato nel 1889, contiene una numerosa serie di fotografie scattate da O. G. Mason al Bellevue Hospital di New York (il volume è consultabile integralmente online). La storia sociale della riscoperta e gestione della pelle nell’800 è ancora tutta da scrivere.
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Lupus Exedens, in Alexander Balmanno Squire, Photographs (Colored from Life) of the Diseases of the Skin, London, John Churchill and Sons, 1865
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Maculae Nevus Vascularis, in Alexander Balmanno Squire, op. cit.
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Papulae, in Alexander Balmanno Squire, op. cit.
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Squamae, in Alexander Balmanno Squire, op. cit.
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Cutaneous Tubercular Syphilis, in George Henry Fox, Photographic Illustrations of Skin Diseases, nearly one hundred photographic cases from life, colored by hand, New York, E. B. Treat, 1889
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Dermatitis Exfoliativa, in George Henry Fox, op. cit.
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Eczema Erythematosum, in George Henry Fox, op. cit.
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Lepra Maculosa, in George Henry Fox, op. cit.
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Psoriasi Annullata, in George Henry Fox, op. cit.
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Psoriasi Diffusa, in George Henry Fox, op. cit.
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La pelle della carne sociale Psoriasi e fantasmi della natura nel web 2.0 di CRISTINA CENCI e ENRICO POZZI
1. La pelle In quanto organo sociale per eccellenza, la pelle condensa, incarna e traduce in segni corporei la dialettica irrisolvibile tra individuo e società. Questa sua funzione o condanna la rende un testimone privilegiato del rapporto tra corpo e Umwelt sociale. Scegliendola come punto di osservazione, veniamo portati al centro del campo di forze in cui avviene la costruzione sociale della carne umana, la nostra biosocializzazione. Nelle pagine che seguono, la natura sociale della pelle e le sue conseguenze vengono esplorate intrecciando due prospettive ‘laterali’: una grave e diffusa malattia della pelle – la psoriasi; e le rappresentazioni di questa malattia nei blog, forum, social network del web 2.0, il cosiddetto web sociale. La scelta di partire da una malattia deriva da una consapevolezza epistemologica consolidata: il patologico è spesso il grimaldello euristico di accesso al normale e alle sue leggi o strutture 1. Oppure, se vogliamo dirla in altro modo, il complesso è la chiave di accesso al semplice 2. La scelta del web 2.0 deriva invece dalla sua caratteristica di formazione sociale nuova e per certi versi ancora ingenua: un sociale che non ha ancora tutta la pienezza, l’inerzia e l’autoevidenza del sociale tradizionale, e che dunque consente ancora la sorpresa, la smagliatura delle categorie, l’imprevedibilità dei percorsi e degli esiti, forse la freschezza dei linguaggi e delle rappresentazioni. Sullo sfondo, un altro problema – la natura, i fantasmi del ‘naturale’ – cui tutto ciò che riguarda il corpo non può non rimandare. Cosa sta avvenendo alla ‘natura’ nelle nostre società? Quali sono le sue rappresentazioni, le sue funzioni e il suo immaginario quando diventa bio-natura, la natura che afferisce alla nostra carne? In che modo la
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dialettica natura/cultura si intreccia alla tensione tra l’individuo necessariamente incarnato, e il suo sociale? E in che modo la fantasmatica del ‘naturale’ si esprime, si traduce in percezioni, in atteggiamenti e in comportamenti quando deve affrontare la malattia, per di più una malattia sociale e socialmente visibile come la psoriasi? Il corpo come costrutto sociale La pelle come organo sociale rimanda alla più generale qualità sociale del corpo in quanto tale. Detto in modo semplice: il corpo è una entità biologicamente compiuta che subisce ex post influenze marginali del sistema sociale, oppure il corpo è plasmato, costituito e costruito dal sociale in cui nasce e diventa corpo? Con poche eccezioni, le scienze sociali hanno cominciato a porsi il problema all’inizio degli anni ‘90: dopo oltre un secolo di neoplatonismo imbarazzante, solo da quel momento l’attore sociale finora disincarnato si è ritrovato la carne addosso 3. L’esplosione modaiola di libri e ricerche intorno al corpo nel sociale è riuscita raramente a far uscire il dibattito dalle secche di un doppio riduzionismo. Gli uni, costruttivisti battaglieri di diversa origine, hanno affermato la natura fondamentalmente sociale del corpo fin nelle sue fibre e anfratti più organici. Gli altri hanno visto con ostinazione il sociale soprattutto come un epifenomeno delle leggi, vicende, strutture ed evoluzioni degli organismi viventi complessi: con accenti diversi, dalla biosociologia al darwinismo sociale. Le due posizioni hanno un punto comune, l’essenzialismo. Esse pretendono di dire cosa è il corpo. Pretesa rifiutata dall’approccio neo-kantiano proposto da chi scrive nel 1994. Chiedersi cosa è il corpo non ha senso, e appartiene all’ordine del noumeno. Se rimaniamo umilmente al livello del fenomeno, noi vediamo ciò che le griglie che scegliamo di volta in volta ci fanno vedere. Se abbiamo bisogno di capire in che misura il sociale può essere visto come bio-sociale, sceglieremo e metteremo sul naso occhiali euristici – cioè modelli – che ci faranno vedere quella dimensione di una società determinata. Se invece dobbiamo cogliere la storicità e socialità (per es. di genere) scritte nella nostra carne, inforcheremo occhiali costruttivisti. Ma sempre di
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occhiali e di modelli si tratta, e solo gli euristicamente ciechi possono credere che stanno vedendo la cosa in sé, come è. In questa ottica neo-kantiana fu proposta nel 1994 per le scienze sociali la tesi del corpo come costrutto 4, cioè come atto euristico consapevole, limitato, operativizzabile, costruito secondo un modello linguistico, accessibile alla verifica empirica e collegato in modo pragmatico ad una intenzione conoscitiva specifica. Questa tesi è l’ipotesi che serve da sfondo alla indagine sulle rappresentazioni della pelle. La pelle della carne sociale Ci occorre ora un costrutto di pelle orientato a vederla come un organo sociale. Il punto di partenza? Merleau-Ponty, quando affronta il problema della natura del sociale prendendosela sia col Durkheim della presunta « cosa sociale » sia con la riduzione della società a semplice addizione di interazioni. Interrogandosi su « l’être société d’une société », scrive: « Ce tout anonyme... cet Ineinander que personne ne voit, et qui n’est pas ... âme du groupe, ni objet, ni sujet, mais leur tissu conjonctif... » 5. Estrapolando: tessuto connettivo della carne del sociale, ovvero pelle. Organo particolarissimo che ha senso in quanto limite e funzione del limite, in quanto entre-deux e appunto Ineinander. Non esiste se non in quanto sta tra A e B senza essere né A né B, e senza poter neanche esistere e vivere se non ci sono A e B tra cui stare. Come il sociale, isomorfa al sociale, la pelle è mediazione e connessione, è legame e non le cose che col-lega, senza le quali però non si ha possibilità di legame, e dunque di pelle. La pelle della « carne del sociale » è il sociale stesso. In questo senso pieno e forte, la pelle è l’organo sociale e del sociale. Questo suo esistere-tra condanna la pelle a servire da spazio dialettico dove si esprime la tensione tra individuo e gruppo, tra lo sforzo costante del sociale per impossessarsi di questa carne individuale che gli sfugge, e lo sforzo del zoon ineluttabilmente politikon per opporsi a questa presa di possesso. Sulla pelle si gioca in prima istanza la partita conflittuale della socializzazione e dell’identità, del noi sociale che vuole sostituirsi all’Io e dell’Io che cerca di conservare il proprio confine invalicabile. A questo si aggiunge una partita anche più ampia: in
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quanto confine della carne individuale, la pelle è frontiera della natura rispetto all’artificiale umano della cultura che la assedia attraverso il sociale. Sulla pelle e tramite la pelle le rappresentazioni e i fantasmi della natura e della cultura negoziano la spartizione dei loro territori e delle loro zone di influenza. Vedremo che questo interverrà in modo decisivo nella percezione e gestione della psoriasi. Dal sociale al soggetto. Qui la pelle cambia accento. Alla dicotomia individuo/sociale si sostituisce l’antinomia dentro/fuori. La pelle diventa la superficie sdoppiata scritta simultaneamente dal Sé e dal mondo, dal soggetto e dal suo Umwelt. Ciò che accade nel dentro del corpo va ad esprimersi sulla sua superficie, e tramite essa accede ad una possibile visibilità esterna: si erutta come segnale, segno, sintomo, sensazione, domanda di sensazioni, bisogno o paura di toccare e essere toccati, emozione, affetto, ferita e ulcera. Simmetricamente, tramite la pelle ciò che accade fuori e nel mondo esterno cerca di accedere all’interno: dall’Umwelt vengono a sua volta segnali, segni, sensazioni, percezioni, emozioni, stimoli, ferite che sperano di essere tradotte dalla pelle verso l’interno del corpo, o che vogliono forzarla aprendosi un varco. La pelle è perciò il luogo euristico di una intensa e reciproca attività interpretativa. L’Umwelt e il Mitsein – l’Altro – cercano di decodificare e capire i segnali incerti, involontari e/o manipolati che affiorano dal dentro invisibile del corpo, per capire quanto più possibile cosa accade in quello spazio inaccessibile allo sguardo diretto. Ma il soggetto/ corpo cerca a sua volta di filtrare, gerarchizzare, riconoscere, interpretare il flusso costante di informazioni semplici e complesse, sensoriali e percettive, piacevoli e repulsive, casuali o finalizzate ecc., che ad ogni momento, giorno e notte, senza tregua, si abbattono sulla sua pelle. La condizione di questa incessante attività interpretativa è quella stessa che genera sempre ogni interpretazione, ovvero la non trasparenza. Ciò che è trasparente non ha bisogno di essere interpretato, a meno che non ci venga il sospetto che si tratta di una falsa trasparenza. Per come è fatta e per la sua funzione, la pelle è il contrario della trasparenza, è forma e figura principe dell’ostacolo, di ciò che nasconde e rende non osservabile quanto accade sotto la pelle. La storia della medicina può essere ricondotta allo sforzo di far parlare la pelle, oppure di andare oltre la pelle, indagando il dentro tramite gli orifizi del corpo, oppure tramite tecnologie sempre più sofisticate e transdermi-
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che, oppure ancora attraverso la ferita nel corpo vivo o la dissezione del corpo morto. L’opacità e il segreto sono la condizione dell’esistenza del Sé, e dunque dell’individualità. Il bambino che dice la prima bugia e chiude per la prima volta la porta di un suo spazio compie il gesto della nascita dell’Io. L’Io diafano, l’Io casa di vetro trasparente allo sguardo altrui, caratterizza lo psicotico o l’essere umano terrorizzato, scuoiato vivo, da se stesso e volontariamente (come nelle dinamiche più perverse di rinuncia alla privacy su alcuni social media) o dalla violenza sociale dei gruppi: famiglie, gruppi dei pari, comunità ipercoese, istituzioni e stati che – in nome della sicurezza e dell’emergenza – stanno realizzando modalità sempre più capillari di controllo sociale totale delle vite individuali. La pelle è il contenitore ultimo del corpo e la figura della non trasparenza del soggetto, la sua corazza. Dunque doppiamente forma somatica dell’Io. A questa intuizione si deve uno scritto fondamentale per chiunque si occupi della pelle e di vicende dermatiche: Le Moi-Peau di Didier Anzieu 6. Ma prima di Anzieu Freud aveva proposto una radicale identità tra la pelle e l’Io, inteso come la funzione chiave del suo modello tripartito del Sé. In una pagina celebre de L’Io e l’Es, Freud definisce l’Io come un Grenzwesen, un « essere del confine », e aggiunge: « […] la proiezione di una superficie [...] una proiezione psichica della superficie del corpo » 7. Confine, superficie: pelle. E poiché gestisce i confini e ciò che vi passa attraverso, è al tempo stesso traduttore e traditore: traduce e tradisce sulla sua superficie ciò che accade dentro, traduce e tradisce sulla sua superficie ciò che viene da fuori. Ritorna la intrinseca doppiezza della pelle. Forma dell’Io, certamente, ma anche inestricabilmente contenitore visibile della persona sociale. Serva di due padroni, per riprendere un’altra metafora usata da Freud in riferimento all’Io, e costretta a giocare d’astuzia tra le richieste spesso divergenti del dentro e del fuori, dell’individuo e del sociale. Serva costretta strutturalmente a una reciprocità che non può evitare: vale per la pelle quanto Merleau-Ponty scrive del tatto, l’unico senso biunivoco, perché non si può toccare senza essere in qualche modo toccati da ciò che si tocca. Povera pelle, sociale malgrado se stessa, anche quando aspirerebbe al riposo transitorio di una assenza (di un vuoto) del mondo e degli altri 8.
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Strategie epidermiche e tensioni euristiche Le zone di confine sono raramente luoghi tranquilli. La pelle non fa eccezione. I dispositivi sociali non possono fare a meno di occuparsi della pelle. Non possono lasciarla in pace con se stessa – pelle placidamente autistica –, così come non possono non sottoporre a un processo di socializzazione permanente gli individui che fanno parte di quel sistema sociale. Devono impadronirsi della pelle come strategia per impossessarsi pienamente dei loro membri. Questa colonizzazione – con l’ovvio riferimento alla Colonia penale di Kafka – usa una straordinaria varietà di modi e di strumenti. Tutte le società conosciute scarificano la pelle, la bucano, mutilano, colorano, coprono, disegnano, marchiano, tracciano, modellano. Tutte le società conosciute elaborano sistemi di regole su come la pelle deve essere, quanto può denudarsi o vestirsi, quanto vale (ad es. se un incidente la deturpa), se e quanto deve avere cicatrici o evitarle, se può esporsi al sole o evitarlo con cura, qual è il suo colore giusto, quando è malata o sana, quando è repellente o attraente, quanto merita la seconda pelle dell’abbigliamento, quanto questo abbigliamento deve quasi farsi dimenticare sulla pelle o deve invece ergersi come una contro-pelle, artificio totale per tenere a bada la sua naturalità eccessiva (per esempio nell’alta moda) 9. Dal canto suo, l’individuo risponde a questa colonizzazione socializzante di una molteplicità di gruppi diversi ricorrendo all’unica potente arma di cui dispone: la pelle è carne cioè natura. È organo, e dunque struttura vitale del corpo. Al tentativo di conquista della cultura e dell’Umwelt, lo zoon politikon oppone lo zoon, l’animale di cui siamo irriducibilmente fatti, e il richiamo simbolico alla natura naturans che ci dà vita. Tutto si può fare alla pelle, ma il limite è dettato dalla ‘natura’: se non si rispetta la ‘natura’, ovvero la garante della ‘vita’ della carne, la pelle non può più svolgere le sue funzioni ‘naturali’ di pelle, soffre, si ammala. La malattia diventa il segnale di una ipertrofia di cultura e di sociale che ha intaccato la naturalità della pelle, e dell’Io-pelle. A volte strategie ibride si inseriscono in questa dialettica. Ad esempio, si può aggredire da soli la propria pelle, automarchiandola o automutilandola in molti modi. In questo caso il persecutore non è più
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esterno, emanazione del sociale, del gruppo e dell’ordine della cultura. È diventato interno, fatto proprio dall’Io, che diventa per così dire l’agente interno e ‘spontaneo’ della colonizzazione sociale della pelle, l’interprete diretto dell’antinatura. Ma non possiamo fermarci qui sulla complessità di queste strategie. Questa duplicità della pelle « serva di due padroni » (come l’Io per Freud) – ovvero la natura e il sociale –, si traduce in tensioni euristiche. Dobbiamo ‘leggere’ la pelle come uno specchio in cui si riflette fedelmente il suo contesto sociale, interattivo, storico ecc? La pelle come atlante sociologico? Oppure dobbiamo ‘leggerla’ come la narrazione somatica di vicende invisibili del corpo, dove ‘corpo’ vuol dire non il mero organismo ma l’individuo intero come Io totale? La pelle come atlante dell’Io e sedimento di una biografia? Come disvelamento del Sé profondo o della qualità dell’integrazione tra le sue parti? Ancora, più radicalmente: se la pelle è il Grenzwesen, un elemento di confine; se si definisce nello stare tra il dentro e il fuori, tra l’individuo e il sociale, tra la natura e la cultura, di chi è la pelle? A cosa, a chi, rimanda ciò che avviene alla pelle? L’interrogativo investe concretamente i modelli sociali di lettura delle patologie della pelle. Il discorso sociale intorno a queste patologie, e in parte quello medico, condensa i paradossi euristici che abbiamo delineato. Le ‘malattie’ della pelle nascono dall’interno del corpo o lo aggrediscono dall’esterno? Appartengono alla dimensione della natura, oppure a quella del sociale? Alla situazione o all’Io? Alla medicina, alla sociologia o alla psicologia? Come entra la natura nella cura? E cosa diventano allora sia la rappresentazione sociale della cura che la cura stessa? L’indagine sulla psoriasi nel discorso sociale del web 2.0 permetterà di percorrere questi labirinti di frontiera.
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2. La rappresentazione della psoriasi nel social web Perché la psoriasi La psoriasi è una malattia cronica auto-immune a larga diffusione: in Italia tre milioni di malati e nel mondo più di 100 milioni. La psoriasi ci interessa per la sua gravità e incidenza, ma anche perché le sue rappresentazioni sociali, i dispositivi medicali e di cura che la investono, l’autopercezione dei malati delineano un insieme ambivalente di vissuti e comportamenti che rispecchia il paradosso della pelle come carne sociale, come entre-deux. Ecco alcune contraddizioni evidenti: la psoriasi non è una malattia contagiosa, ma lo diventa nello sguardo impaurito e distanziante degli altri; quasi più della sofferenza provoca vergogna, perché il soggetto si colloca da solo nella categoria del ‘mostro’ repulsivo; non guarisce ma può andare in remissione, eppure il ricorso a medici e cure è ridotto. In Italia, la rete Psocare – 156 centri specializzati all’avanguardia in Europa – ha pochissimi pazienti ed è a rischio chiusura. Per una volta non mancano le strutture, ma chi voglia utilizzarle, con un costo economico e sociale significativo. Questo accade perché la psoriasi, come altre malattie che ne condividono la logica, si manifesta sulla pelle e rivela i fantasmi della carne sociale: viene dall’interno di me, oppure è il fuori che mi aggredisce? Mi rivela o mi nasconde? È una malattia della natura o della cultura? Dell’Io-corpo o dell’Io-psiche? Il corpus Per capire i contenuti e le specificità di questi fantasmi, abbiamo analizzato le conversazioni spontanee dei malati nel web 2.0. Il web 2.0 presenta una serie di vantaggi euristici e metodologici: 1) sempre più anche in Italia, l’online è un campo significativo del discorso sociale sulla salute. Come mostrano i dati del Bupa Health Pulse 2010 elaborati dalla London School of Economics, il web è un canale privilegiato per cercare consigli e aiuto per
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malattie, problemi, farmaci. In Italia, l’80% degli intervistati dichiara di usare internet per cercare informazioni sulla salute, un dato in linea con la Germania e superiore a Francia, Spagna e Regno Unito. Più del 40% degli italiani usa internet anche per una prima autodiagnosi; 2) offre le rappresentazioni della malattia così come emergono spontaneamente nella conversazione sociale, senza la mediazione diretta delle categorie del medico e del ricercatore; 3) grazie all’anonimato e al second body virtuale facilita la relazione e l’espressione del disagio e delle difficoltà; 4) rispecchia bisogni e vissuti di chi è più colpito dalla psoriasi. L’età di chi scrive nel web 2.0 è infatti in linea con la fascia d’età più esposta (tra i 20 e i 39 anni); 5) consente l’emergere di comunità di pazienti che diventano vere e proprie comunità di pratica terapeutiche. Il corpus è costituito dalle conversazioni più significative in forum, blog e social network apparse tra novembre 2009 e agosto 2010. Si tratta in totale di 1.698 messaggi di soggetti affetti da psoriasi. Il 54% appare su Facebook, il 44% nei forum. Marginale la presenza nei blog (2%). L’intero corpus è a disposizione di chi voglia analizzarlo da punti di vista diversi. Può essere scaricato qui. Il metodo di analisi Il testo non è ancora un fatto, e ancora meno un risultato. Spesso l’analisi dei social media regala l’illusione di avere i fatti sociali immediatamente disponibili. Si crede che sia sufficiente attivare un sistema di spidering, scaricare i contenuti ed avere così a portata di mano il discorso sociale. Senza la fatica delle griglie di intervista, senza la fatica della relazione con l’oggetto di studio, senza il dolore di dover ridurre il campione. Milioni di lemmi sono scaricabili quasi solo con un click. Quello che in realtà si ottiene è un flusso di conversazione che va interpretata e organizzata perché diventi rappresentazione sociale del
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fenomeno. I soli testi non parlano, sono opachi. Il testo/corpus diventa un fatto euristico solo attraverso l’applicazione di un frame, di una griglia, di un tipo ideale weberiano. Il corpus delle conversazioni sulla psoriasi è stato analizzato a partire da una mappa sintetica a priori (fig. 1), una griglia semantica ottenuta dall’incrocio tra un modello interpretativo e l’analisi lessicale dei testi che fornisce al modello i suoi nodi. Come il tipo ideale weberiano, la mappa sintetica a priori applicata al corpus consente di identificare coincidenze e scarti rispetto alle reti lessicali effettive e produce così il fatto euristico. 10 La mappa sintetica a priori non è ancora un’analisi del testo, non esprime frequenze lessicali, è una riscrittura formalizzata del testo perché diventi un fatto euristico: in sostanza, una griglia semantica. I lemmi del corpus sono stati rappresentati in categorie e nodi che rispecchiano la struttura delle elaborazioni fantasmatiche della psoriasi associate al vissuto ambivalente della pelle. In pratica il flusso della conversazione viene organizzato in categorie semantiche a priori, derivate da ciò che viene effettivamente detto, ma organizzate dal modello interpretativo della pelle come entre-deux. La mappa si organizza in 4 aree: 1) il corpo della psoriasi I territori del corpo psoriasico: la pelle ma anche gli organi correlati (unghie, capelli, viso..), gli organi interni, i livelli di sofferenza, le manifestazioni e i sintomi. 2) Il fantasma esterno – L’elaborazione paranoica In questa prospettiva, l’entre-deux della pelle è risolto dai soggetti a favore di un fantasma esterno persecutore. La “mia” vera pelle è pura. L’impuro, la macchia, sono contaminazioni del fuori. La pelle non esprime l’Io, lo attacca. Le declinazioni di questo ‘fuori’ non sono univoche. Il fuori è la società patogena: il lavoro, le difficoltà, l’alimentazione, lo sguardo di esclusione degli altri. Il fuori è il corpo stesso: l’eredità genetica come destino familiare ineludibile, la sindrome autoimmune che aggredisce dall’interno ma come un agente alieno.
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3) Il fantasma interno – L’elaborazione depressiva L’entre-deux della pelle è riportato all’Io-corpo e all’Io-psiche. L’agente invisibile che aggredisce la pelle è l’Io stesso. La pelle rivela l’identità, le macchie sono le cicatrici della mia storia, del mio mal di vivere, del mio corpo-cloaca, intossicato dall’interno. Dall’alimentazione sbagliata allo stress fino ai problemi psicologici, la ‘causa’ della psoriasi abita l’Io, non lo perseguita dall’esterno. 4) La cura Si articola nella molteplicità dei dispositivi terapeutici, spesso costruiti in modo antitetico. I rimedi naturali vs i farmaci, la comunità di pratica online che orienta e cura vs l’anonimato spersonalizzante dell’istituzione medica. Il farmaco biologico che fonda sul suo ossimoro costitutivo cura/veleno la sua efficacia simbolica se non terapeutica. La psoriasi nel social web L’applicazione della mappa sintetica a priori al corpus lemmatizzato e alla distribuzione delle frequenze ci consente di costruire la mappa effettiva del vissuto della psoriasi emerso nel social web. L’idealtipo ricostruiva il testo come sistema di nodi semantici, organizzandolo secondo diverse ipotesi interpretative. La distribuzione delle frequenze (fig. 2), ci segnala lo schema interpretativo effetivamente prevalente. I lemmi della cura hanno il peso lessicale maggiore (50%): il gruppo online è in primo luogo una comunità terapeutica in cui trovare consigli e soluzioni. L’elaborazione paranoica ha un’importanza marginale (4%). La causa percepita della psoriasi ruota intorno all’elaborazione depressiva (21%): il male viene da dentro e ne sono responsabile.
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Lo schema corporeo La pelle macchiata e sofferente domina le conversazioni online (fig. 3). Il vocabolario medico/specialistico è quasi del tutto assente. Chi scrive non distingue tra le diverse classificazioni della malattia (il discorso medico ne differenzia almeno 6 forme), e anche il lemma dermatite ha una frequenza bassa. Lo schema corporeo del malato è sovradeterminato dalla pelle macchiata, dalla pelle-stigma, dall’impronta di un agente fantasma che non si associa ad organi interni (del tutto marginali nel discorso). Emergono solo le correlazioni metonimiche della pelle: unghie, capelli, braccia, viso, gambe, mani. Il rifiuto della classificazione e delle rappresentazioni mediche sottrae la psoriasi all’area della malattia e la colloca in quella dell’identità. La psoriasi è uno stato, sostanza e non accidente. Si è la psoriasi, non si ha la psoriasi. Resta la sofferenza a richiamare la malattia, e la psoriasi allora diventa nella percezione la « malattia delle persone sane » (definizione spontanea in un forum): fa soffrire come le malattie ma è senza ragione e interpretazione medica. Chi ha la psoriasi non si sente malato, si sente ‘intaccato’, ‘aggredito’. La causa percepita Il peso dell’elaborazione paranoica è molto basso. Prevale nettamente l’elaborazione depressiva (fig. 4). Nella percezione dei soggetti, la pelle della psoriasi non è una corazza nemica che un persecutore mi impone, è la mia pelle, è la pelle che mi rivela, è la pelle che sono. In questo risultato convergono probabilmente una serie di componenti diverse: a) il processo di crescente esibizionismo identitario della pelle: la pelle esposta, la pelle tatuata, la pelle levigata, lisciata, carezzata, trasformata in vestito trasparente che mi esprime senza mediazioni; mi fa vedere come sono. Agli antipodi quindi della pellearcano, sepolta da stratificazioni di seconde pelli, quasi mai accessibile al tatto, che ha caratterizzato altre epoche; b) la tendenza a psicologizzare il disagio sociale. Non è la società patogena che mi ammala, è il mio ‘stress’. Lo stress diventa un agente polifunzionale del male, che deresponsabilizza il sociale e interiorizza la crisi;
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c) la centralità del corpo orale nel negoziato tra interno ed esterno. Nello schema corporeo del psoriatico, la bocca è un organo fondamentale nel regolare il benessere del soggetto. La bocca e l’introiezione di ciò che fa bene o di ciò che fa male rimandano ad azioni volontarie, e dunque rafforzano il vissuto depressivo: ho la psoriasi perché fumo, bevo, mangio le cose sbagliate. La psoriasi è colpa mia. Intermittente ma interminabile, la psoriasi rivela una rottura dell’equilibrio dell’Io, che si tratti dell’Io-psiche e/o dell’Io-bocca. Essa diventa il barometro incarnato dello stato di benessere del soggetto, della sua ‘normalità’. L’emergere della psoriasi segnala all’Io che qualcosa non va, che l’equilibrio interno è alterato. La psoriasi è il segno di uno squilibrio e di una tensione interni. cryssy ha scritto: lo so il problema è che al giorno d’oggi è difficile stare in pace con se stessi per parecchio tempo! arriva sempre qualcosa che fa alterare il tuo stato d’animo, e avendo la psio in agguato sotto pelle lei fuoriesce subito!..vero pure questo. Poi parlando d me sn una persona moooooooolto sensibile perchè sn anche parecchio profonda e a volte mi accorgo che prendo la gente troppo sul serio, che gli altri magari dicono delle cose così per dire, invece dovrei essere + superficiale è brutto da dre ma è così cmq e’ vero siamo + sensibili agli stress emotivi secondo me. ciao ragazzi, sono appena uscita da un periodo molto negativo, dove lo stato psicologico ha avuto la peggio sulla mia psio, di solito, mi fermo a riflettere sui relativi problemi che devo affrontare, risolvendoli uno alla volta, ma questa volta non riuscivo ad uscirne,vedevo solo montagne una dietro l’altra, senza vedere il sentiero per raggiungere le vette,.... e piu’ non risolvevo i problemi e piu’ mi arrabbiavo..... questa situazione psicologica faceva impazzire me e la mia psio,... ma e’ stata proprio la psio che mi ha fatto fermare e riflettere su quello che mi stava succedendo!! e si perche’ il suo eccessivo sfogo mi ha bloccato facendomi capire che stavo impazzendo senza venirne a capo di nulla!! e cosi’ piano piano sono riuscita a rimettere insieme i pezzi ed a affrontare le situazioni in modo diverso, ora qualche problema l’ho risolto altri no, ma la mia psio si e’ letteralmente calmata e la mia mente e’ piu’ libera!! devo dirle grazie!!bhe forse è esagerato ma il campanello di allarme di sicuro è suonato!!
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Emerge un dispositivo di rappresentazioni e di emozioni simile a quello descritto da Le Breton nell’analisi delle autoblessures 11, anche se di segno opposto. Nel caso delle piccole ferite quotidiane e quasi inconsapevoli prodotte sulla pelle, il soggetto usa la pelle come tela per esprimere il suo disagio. Disegna la sua ferita interna e la rende evidente all’esterno. Nel caso della psoriasi, è invece la pelle che rende visibile al soggetto il suo squilibrio interno. Gli fornisce « il campanello d’allarme» che il soggetto può leggere e interpretare per ridurre il disagio. Attraverso la reiterazione del ciclo di eruzione, cura, remissione, nuova eruzione, il soggetto si rigenera e ripristina un’integrità fantasmatica. La psoriasi e la pelle sembrano quindi al centro di un rituale periodico di taumaturgia del sé che va dall’intossicazione alla purificazione. mi escludo dal vostro peggioramento, dicendo che la mia psio riesco a tenerla sotto controllo!, sì ho passato 15 gg di fuoco con nuove macchiette fuoriuscite dalla mia pelle, ma era anche un periodo molto stressante che non riuscivo a gestire, per cui il mio corpo ha avuto il suo sfogo, ma è anche vero che riuscivo ad idratarla molto bene, oggi posso dire che le macchie sulle gambe non si sono fatte ancora vive, ed in più quelle nuove che sono uscite sono rientrate nei loro abissi, (ovviamente il periodo nero è passato)! quello che più mi dà fastidio è il prurito sulla mia testa! ma in generale non mi posso lamentare!! come l’adoro quando si comporta in questo modo!! io e lei facciamo una coppia perfetta!!! d’altronde c’è ed insieme si collabora!! :D ragazzi vedrete che i periodi neri della psio passeranno anche per voi!!
Ma qual è l’agente taumaturgico in questo processo? La cura Per chi soffre di psoriasi, curarsi significa attuare strategie di ripristino dell’equilibrio alterato, di cui la psoriasi è la traccia incarnata. Per far questo, attinge al repertorio simbolico dell’equilibrio, che nella contemporaneità trova nella natura il suo nucleo primario di rappresentazioni (fig. 5). La natura aiuta a pensare e a vedere l’equilibrio. Con uno slittamento semantico non ovvio, il naturale sfocia nel giusto e in ciò che fa bene. Lo racconta bene Gianfranco Marrone in Addio
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alla Natura: chi si mette dalla parte della natura si sente ed è percepito dalla parte della ragione e del bello. Questa valenza estetica attribuita al naturale è importante nel caso della psoriasi. La Natura si fa portatrice di valori sociali come il volemose bene, il peace and love che dépliant turistici e marketing del benessere spacciano come ritrovamento della felicità, dell’armonia perduta, dell’equilibrio interiore che è bello e buono non foss’altro perché naturale, genuino, ancestrale 12.
Nella psoriasi, queste rappresentazioni diventano un dispositivo taumaturgico che fonda la sua efficacia su assi oppositivi: la ‘mostruosità’ della psoriasi slitta tacitamente in ciò che è contro-natura (il bello è naturale) e che solo la natura stessa può sconfiggere, riportando l’equilibrio. Lo slittamento narrativo dallo squilibrio al mostro alla natura costruisce il farmaco e l’istituzione medica come opposti cura, trasformandoli in agenti patogeni da evitare. Emergono tutte le rappresentazioni del farmaco come pharmakon che mi ammala perché rafforza lo squilibrio. In questa rappresentazione purezza, armonia e bellezza sono dal lato della natura, contaminazione e pericolo dalla parte di tutto ciò che è artificiale, come i farmaci. Fattori tossici. Provo a rispondere io, visto che soffro di psoriasi, nell’attesa che arrivino risposte dai più esperti. È una questione che mi sono sempre posto e a cui oggi mi rispondo così: Il grosso equivoco è proprio il sistema immunitario. Abbassandolo artificialmente coi farmaci (di cui la ciclosporina è tra i più pericolosi), si toglie , provvisoriamente, la spia. Come se in un’automobile, anzichè rifornirla di carburante, si cercasse di spegnere la spia della riserva.
Nella rappresentazione della psoriasi emergono nodi percettivi che sono il risultato di una risposta culturalmente e storicamente determinata (e quindi variabile) alla gestione della pelle come mediatore di identità tra l’Io e il mondo. Il dispositivo percettivo che abbiamo individuato può essere sintetizzato in questo modo: a) la psoriasi, malattia della pelle, è l’indicatore di uno squilibrio del soggetto, di qualcosa che non va, la traccia che rende visibile una perturbazione dello schema corporeo e dell’Io;
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b) questa contaminazione dell’ordine viene vissuta come qualcosa che viene dall’interno e non dall’esterno e che trasforma il soggetto in ‘mostro’ non solo per gli altri ma prima ancora per sé. Intendendo per ‘mostro’ ciò che turba ed altera le categorie della normalità. Tra i Nuer raccontati da Mary Douglas, le malattie della pelle rivelano una violazione del tabù dell’incesto 13. Spesso il soggetto non sa di aver avuto una relazione incestuosa, è la pelle che lo dice. Nel caso dei Nuer, la pelle rivela sempre la rottura di un ordine, ma morale e sociale. Nel caso della psoriasi c’è invece una psicologizzazione del disagio, senza connotati morali espliciti; c) per ripristinare l’equilibrio e curare la psoriasi si attinge al ‘naturale’ come bacino di ordine, eleganza, armonia, purezza, bellezza; d) il riferimento al naturale che cura porta con sé, implicitamente, la riappropriazione della pelle come Io naturale vs l’Io sociale e artificiale. La pelle è natura e, come tale, è sana. È l’Io in quanto luogo dello stress e della psiche che la turba e la macchia. Con una geniale intuizione del vissuto profondo della psoriasi, in una pubblicità del 2010 le Terme del Trentino traducono il significante/simbolo natura direttamente nel significato percepito e, invece di mostrare l’acqua o il setting naturale delle terme, mostrano una coppia bella ed elegante che balla, con il pay off: « si stanno curando la psoriasi », rendendo immediata l’equivalenza natura=bello. Oltre alle terme, tra i rimedi naturali più citati c’è il “metodo pagano” ispirato dal libro di John O. A. Pagano 14. Il modello interpretativo di Pagano è piuttosto semplice: tutte le malattie della pelle sono il riflesso di uno squilibrio, prevalentemente metabolico. L’origine della psoriasi è nelle tossine dell’intestino. La guarigione richiede un’autodisciplina alimentare e di stile di vita molto rigorosa per liberare la pelle dalle tossine interne che la intaccano. Il |regime alimentare| ha un ruolo centrale.
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Le terme del Trentino
Così scrive il gruppo su Facebook che si aggrega intorno a questo metodo:
Psoriasi - fattori scatenanti: l’alternativa naturale è un gruppo facebook in cui si scambiano consigli e opinioni sulla malattia autoimmune Psoriasi. Il problema è affrontato dal punto di vista di un approccio “naturale”, basato soprattutto sul controllo dell’alimentazione.
Nel metodo Pagano la bocca diventa l’organo primario di interazione tra esterno e interno, e l’agente che filtra tra puro e impuro. Il soggetto si riappropria del suo equilibrio attraverso un rituale quotidiano di selezione alimentare basato su un sistema di proprietà dei cibi rigidamente codificato. Questo dispositivo ha un impatto importante sui comportamenti: scarso ricorso al farmaco ma anche al medico. Nella rappresentazioni, come il farmaco, anche il medico si situa nel versante opposto al
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polo della natura e dell’armonia: manipola il corpo, sperimenta pratiche pericolose, « accoglie » in strutture anonime, respingenti, spesso « brutte ». Ancor più che per altre patologie, per la psoriasi anche il setting spaziale e relazionale svolge un ruolo fondamentale nella legittimazione sociale della cura. Rispetto a questa rappresentazione profonda e radicata, l’apparato medico-farmaceutico ha elaborato nel tempo una risposta che è un ossimoro: il farmaco biologico. Il processo di naturalizzazione e biologizzazione che investe progressivamente tutti gli oggetti del quotidiano, dagli indumenti alla frutta, regala anche ai farmaci una nuova legittimità. Opposto al farmaco, il farmaco biologico si richiama all’organico in una logica di “simpatia/contatto” che era propria in passato del dispositivo taumaturgico della magia: il corpo guarisce il corpo. L’operazione sembra efficace: dopo i rimedi naturali, i farmaci biologici sono quelli più accettati dai malati e percepiti con minori effetti collaterali. Un ultimo paradosso. I malati rivivono il mito della comunità taumaturgica delle origini nel sociale tecnologico e disincarnato della rete. Nelle narrazioni, la comunità online diventa la forma sociale dell’armonia naturale che il soggetto ha perso. Il gruppo sociale online è dominato dallo scambio e dal dono disinteressato di tempo e interesse, aiuta e accoglie, al contrario della società che respinge, quantifica, monetizza. È un sociale allo stato nascente, senza discriminazioni e gerarchie: come tale, vicino ad uno stato di natura. Anche se questo non viene mai detto in modo esplicito dai soggetti, la Gemeinschaft virtuale si propone come cura implicita della patogena Gesellschaft reale. Per alcuni, la psoriasi si rivela un male della società contemporanea, impossibile nelle società delle origini, vicine al naturale. dicono che gli esquimesi non ce l’abbiano!!! ci credo con quella pace chiusi negli igloo e fuori dalla tecnologia e lo stress...come possa venirgli non lo so... poi olio di fegato di merluzzo a palla mentre a noi l’olio ce lo fanno fare dal fegato per lo stress e le inc4224ture quotidiane!!! ciao ciao...
Lo stress si conferma male dell’Io prodotto dall’artificio e contrapposto alla bellezza della pelle dell’Io e del NOI delle origini.
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Di molte patologie-vergogna, come ad esempio l’impotenza, si parla soprattutto nei forum o nei siti medici, protetti da nickname. Nel caso della psoriasi si parla invece molto anche su Facebook, utilizzando nome e cognome. Visibile sulla pelle, la psoriasi marca la propria identità personale e sociale, non si può nascondere più di tanto. Quella che si cerca quindi online non è tanto una relazione nascosta ma una rifondazione della relazione sociale, resa accogliente e buona grazie alla riscrittura virtuale del corpo. La pelle della carne sociale online può guarire dalla psoriasi: come una comunità eschimese, la comunità di pari online mi cura avvolgendomi in un legame sociale coeso e indistinto.
Cristina Cenci è antropologa. Ha creato Body & Society Lab, un osservatorio sulle rappresentazioni sociali del corpo. Si occupa dei corpi del potere e dei leader carismatici, del corpo di genere, della costruzione del corpo e della salute attraverso i social media, di antropologia della sessualità. È tra i fondatori della rivista IL CORPO e attuale redattore della serie online. Enrico Pozzi è docente universitario, psicologo sociale e psicoanalista (SPI/IPA). Si occupa di tutto ciò che sta alla frontiera tra individuo e sociale. Ha diretto la 2a serie de IL CORPO. Sito: www.enricopozzi.eu
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Le mappe semantiche
orecchio
viso
candida
dermatite sale pane caviglia pizza zucchero rosso bocca pasta lesione mangiare_male peso sfogo bianco crosta regime_alimentare chiazza alcool guttata
fegato
acidità stomaco
bocca
tossina
dito
spalla
mani
soffrire
pelle
dormire
dolore
organi_interni
la_malattia_sono_io ritornare
vivere guarire
peggiorare
articolazione
io_psoriasi
Psoriasi
psicologico
sparire
io_colpevole stile_di_vita stress
casi_in_famiglia genetico
paura
ereditario
gene
il_corpo_aggressore
dermatologo
Casarotti diagnosi ospedale analisi visita ricerca_medica
ELABORAZIONE_PARANOICA autoimmune
CURA
istituzione
reumatologo
paziente medico
ciclosporina
farmacia acido cortisone crema mtx arginina
sito internet aiuto raccontare
sperare
comunità_taumaturgica
il_farmaco_naturalizzato
farmaci_pharmakos farmaci_biologici Humira biologico Enbrel
Remicade
immunitario autoimmuni
combattere
il_dispositivo_medico
unguento effetti_collaterali terapia soldi farmaco
camminare grave
ELABORAZIONE_DEPRESSIVA IL_CORPO_AGGREDITO
controllo
Psocare
prurito
male
cronico
remissione
centro
fastidio
letto
dolore
migliorare
gamba
unghia
organi
macchia
sangue
sono_quello_che_mangio
passare
ginocchio
testa
gomito cuoio
cloaca
intestino
piede
schiena
braccio polso
fumare
carne_rossa
condividere
la_naturaintegrale
acqua
difficoltà_sul_lavoro
consigliare
lavoro
farsi_forza
ricerca_internet forum amici
frutta
fototerapia
società_patogena
coraggio
testimonianza
estate cibo
bere reazione_alcalina carne_bianca mangiare_bene latte olmo integratori_alimentari Colonix erboristeria succo zafferano olio lampada Metodo_Pagano naturale sano oliva pesce mare vitamina verdura sole aloe
gruppo
probiotici
Fig. 1 - La mappa sintetica a priori
contatto difficoltà vergogna amici_disagio rovinare contagio
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C. CENCI e E. POZZI, La pelle della carne sociale
organi
macchia
pelle dolore organi_invisibili
cloaca
IL_CORPO_AGGREDITO
bocca
sono_quello_che_mangio
alimentazione
Psoriasi
contatto società_patogena
ELABORAZIONE_DEPRESSIVA
ELABORAZIONE_PARANOICA
io_psoriasi io_colpevole
la_malattia_sono_io
difficoltà_sul_lavoro
CURA
IL_CORPO_AGGRESSORE autoimmune ereditario
comunità_taumaturgica il_farmaco_naturalizzato
la_natura
farmaci_biologici
dispositivo_medico istituzione
farmaci_pharmakos
Fig. 2 - La mappa della psoriasi nel social web
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prurito
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fastidio
dormire camminare
male
soffrire grave
articolazione
dolore
letto
organi_invisibili
IL_CORPO_AGGREDITO gomito
caviglia
ginocchio
testa
dermatite
pelle
chiazza rosso
macchia
dito
organi
orecchio
lesione
braccio
cuoio_capelluto
bianco sfogo guttata
piede
spalla
unghia
viso
sangue
polso
mani
schiena
gamba
Fig. 3 - Il corpo aggredito
crosta
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C. CENCI e E. POZZI, La pelle della carne sociale
mangiare_male pizza carne_rossa pane zucchero
regime_alimentare peso
fumare
bocca
candida
pasta
fegato acidità
sale
stomaco
alcool
cloaca
intestino
sono_quello_che_mangio
ELABORAZIONE_DEPRESSIVA io_psoriasi ritornare stress
io_colpevole
controllo
la_malattia_sono_io
paura
remissione
stile_di_vita psicologico
sparire
peggiorare cronico
passare
guarire
viveresparire
Fig. 4 – L’elaborazione depressiva
migliorare
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aiuto internet forum ricerca_internet condividere sito raccontare gruppo
ospedale analisi ricerca_medica Casarotti Psocare paziente reumatologo visita
sperare
coraggio
Remicade biologico Enbrel
farsi_forza
diagnosi
dermatologo
centro
medico
prodotti_biologici
amici
testimonianza
istituzione
Humira
comunitĂ _taumaturgica consigliare
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il_farmaco_naturalizzato
CURA
dispositivo_medico terapia ciclosporina
latte
oliva aloe
estate reazione_alcalina
frutta
acqua
vitamina probiotici
sole
pesce
la_natura
mangiare_bene
zafferano carne_bianca
Metodo_Pagano
Colonix
mare
fototerapia
lampada integratori_alimentari
succo
olmo
verdura
naturale
cibo
sano
erboristeria
regime_alimentare olio
integrale
Fig. 5 – La mappa della cura
farmaci_pharmakos
effetti_collaterali acido mtx cortisone crema unguento farmacia
soldi
arginina
farmaco
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NOTE Questo scritto riprende e amplia la relazione presentata dai due autori al Congresso della Association Française de Sociologie, Grenoble, 5-8 luglio 2010. 1 Cfr. per tutti G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, Parigi, PUF, 1966 [trad. it.,
Il normale e il patologico, Torino, Einaudi, 1998, Introduzione di Mario Porro, Postfazione di Michel Foucault riprodotta dalla trad. statunitense]. 2 La non dimenticata lezione di K. Marx nella Einleitung: « L’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia della scimmia », in Introduzione alla critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 84. 3 E. Pozzi, Per una sociologia del corpo, in « Il Corpo », I, n. 2, marzo 1994, pp. 106-144; ora in http://www.ilcorpo.com/it/rivista/marzo-1994_33.htm 4 Il modello del corpo come costrutto è stato introdotto da E. Pozzi nello scritto del 1994. R. Stella lo ha utilizzato poi nel 1996, ma con una accezione molto impoverita, in Prendere corpo: l’evoluzione del paradigma corporeo in sociologia, Milano, Franco Angeli, 1996. 5 M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Parigi, Gallimard, 1964, p. 228. Sul legame sociale nel pensiero del fenomenologo francese, cfr. Xavier Guchet, Théorie du lien social, technologie et philosophie: Simondon lecteur de Merleau-Ponty, « Les études philosophiques », 2001/2, 57, par. 1, La théorie merleau-pontyenne du lien social, pp. 221-225. 6 D. Anzieu, Le Moi-peau, Parigi, Dunod, 1985 [trad. it. L’io-pelle, Roma, Borla, 1987]. 7 S. Freud, L’Io e l’Es, in Opere, Torino, Bollati Boringhieri, 1977 (1923), vol. IX, p. 488. 8 Sulla pelle dal punto di vista psicodinamico vanno segnalati almeno due volumi recenti: J. Ulnik, El psiconálisis y la piel, Madrid, Sintesis, 2004 [trad. it.: La pelle in psicoanalisi, Roma, Astrolabio, 2011]; A. Lemma, Under the Skin: A Psychoanalytic Study of Body Modification, London, Routledge, 2010, [trad. it.: Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2011]. Entrambi i volumi dispongono di ampie bibliografie. 9 Non possiamo citare qui neanche una piccola parte della letteratura antropologica, sociologica (scarsa) o storica sulla pelle. Alcune arbitrarie scelte personali: A. Montagu, Touching: the human significance of the skin, New York, Harper&Row, 1971 (un libro ingiustamente sottovalutato dagli antropologi accademici per il suo successo, per la singolare personalità e per i coinvolgimenti istituzionali del suo autore, che cambiò pelle – cioè nome – tre volte nel corso della sua vita); un altro outsider: Ted Polhemus (ed.), Social aspects of the human body, New York, 1978; C. Benthien, Pelle. Una superfice simbolica tra il Sé e il mondo, Roma, Il corpoedizioni, 2012 (2a ed.); O. König, Pelle, in C. Wulf (a cura di), Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 438-447; « Micrologus », XIII (2005), n. monografico: La pelle umana/The human skin. 10 Si veda l’analisi della morte di Michael Jackson per un altro esempio di applicazione di una mappa sintetica a priori: C. Cenci, E. Pozzi, M. Borsacchi, Autopsia semantica di un corpo mistico. La morte di Michael Jackson sulla stampa italiana e su YouTube, JADT 2010, 10th International Conference on Statistical Analysis of Textual Data. 11 D. Le Breton, La Peau et la Trace. Sur les blessures de soi, Parigi, Métailié, 2003 [trad. it., La pelle e la traccia. Le ferite del sé, Roma, Meltemi, 2005]. 12 G. Marrone, Addio alla Natura, Torino, Einaudi, 2011, p. 6 13 M. Douglas, Natural Symbols, Londra, Routledge, 1996, p. 99. 14 J. O. A. Pagano, Guarire la psoriasi. Un metodo naturale, Forlì-Cesena, Macro Edizioni, 2003
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Libri da non leggere P. Flores D’Arcais, Macerie. Ascesa e declino di un regime. 1986-2011: il populismo italiano da Craxi a Berlusconi passando per D’Alema, Reggio Emilia, Aliberti, 2011, pp. 537, € 18 V. Magrelli, Il Sessantotto realizzato da Mediaset. Un dialogo agli inferi, Torino, Einaudi, 2011, pp. 72, € 13 U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Bari-Roma, Laterza,2011, pp. 116, 12 € M. Viroli, L’intransigente, Bari-Roma, Laterza,2012, pp. 171, 15€ M. Viroli, La libertà dei servi, Bari-Roma, Laterza, 2011, pp. 144, 15€ R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 336, 25 € G. Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino, 2011, pp. 165, 10€ J.-A. Miller, Vita di Lacan, scritta a beneficio dell’opinione pubblica illuminata, Macerata, Quodlibet, 2011, pp. 61. 7€ R. Saviano, Vieni via con me, Milano, Feltrinelli, 2011, 160 pp., €13. R. Saviano, La bellezza e l’inferno. Scritti 2004-2009, Milano, Mondadori, 2010, 252 pp., € 10. Libri da leggere A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Roma, manifestolibri, 2010, pp. 158, 18€ M. L. Prevost (a cura di), Casanova : La passion de la liberté, Paris, Seuil, 2011, pp. 239, 45,90€ F. Bucci, Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale. Teoria e pratica di “copia e incolla” filosofico, Roma, Coniglio Editore, 2011, 14,50€
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Abstracts/Résumés V. Callieri
Lupus in lectore. Archeologia di Luciano Liboni come anti-eroe Lupus in lectore. An archeological inquiry into the killer Luciano Liboni as an antihero Lupus in lectore. Archéologie du meurtrier Luciano Liboni en tant qu’anti-héros.
Il 22 luglio 2004 Luciano Liboni, un piccolo criminale di provincia, sceglie di diventare un anti-eroe uccidendo inutilmente un carabiniere nelle Marche. 9 giorni dopo viene ucciso da un altro carabiniere a Roma. Tra queste due date si sviluppa la costruzione sociale e mediatica di Liboni come folk hero negativo. L’autore la indaga utilizzando il percorso, le fasi e i topoi della invenzione dell’eroe mitico sulla base del modello proposto da Joseph Campbell. In questo caso l’eroe – chiamato il Lupo nei media e nel discorso sociale - si configura come mostro sul confine tra natura e cultura, belva anomica che oppone il zoon al politikon, contenitore in cui il sociale colloca ciò che rimuove e nega dentro di sé. On July 22, 2004 Luciano Liboni, a petty criminal, decided to become an antihero by unnecessarily killing a policeman in the Marches. 9 days later he was killed by another police officer in Rome. Between these two events the social and media construction of Liboni as a negative folk hero unfolds itself. The author investigates it by using the overall pattern, the phases and the topoi of the invention of the mythical hero according to the model proposed by Joseph Campbell. This hero – dubbed “the Wolf” in the media and the social discourse – is build up as a ‘monster’ on the border line between nature and culture, an anomic wild beast which plays the zoon against the politikon, a projective container for inner contents which society cannot work through and must deny. Le 22 Juillet, 2004 Luciano Liboni, un petit délinquant de la province, choisit de devenir un anti-héros en tuant inutilement un policier dans les Marches. 9 jours plus tard, il est mis à mort par un autre agent de police à Rome. L’intervalle entre ces deux événements voit le développement et la construction aussi bien sociale que médiatique du folk hero Liboni comme un folk devil, un héro négatif. L’auteur étudie cette élaboration collective en utilisant le cheminement, les étapes et les topòi de l’invention du héros mythique à partir du modèle proposé par Joseph Campbell. Dans ce cas, le héros – dénommé “le Loup” par les médias et le discours social - est configuré comme un ‘monstre’ à la frontière entre nature et culture, une bête sauvage anomique opposant le zoon au politikon, le conteneur projectif des contenus internes que le social n’arrive pas à élaborer et qu’il est contraint de denier brutalement.
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Diario paranoico-critico. Il corpo di Obama (2009-2011) The Paranoiac-Critical Journal. Obama’s Body (2009-2011); Journal paranoïaque-critique. Le corps d’Obama (2009-2011) Il metodo paranoico-critico di Dalí applicato al corpo di Obama fa emergere i contenuti magico-sacrali che riempiono di senso e consenso il corpo del Re divino post-moderno. Gli aspetti ‘innocenti’ e demoniaci del potere come Potenza traspaiono dalle rappresentazioni immaginarie di Obama come fallo fertilizzante, corpo esemplare, re taumaturgo, Signore delle Mosche, angelo di violenza assoluta, Sovrano illimitato. Il carattere ‘mostruoso’ di questa condensazione numinosa lascia al presunto cittadino una sola identità – quella del suddito -, e una sola azione possibile: l’autoasservimento entusiasta. When applied to Obama’s body, the paranoiac-critical method introduced by S. Dalí elicits the sacred-magical content and consensus which impregnate the body of the post-modern Divine King. The ‘innocent’ and demonic aspects of authority (Herrschaft) as sheer Power (Macht) lurk below the imaginary representations of Obama as a fertilizing phallus, a model body, a thaumaturgic King, the Lord of the Flies, an angel of wrath exerting absolute violence, an unbridled Sovereign. The ‘monstrosity’ of such a numinous condensation leaves the so-called citizen with just one identity left– being a subject – and one path of action: enthusiastic self-subdual. La méthode paranoïaque-critique introduite par S. Dalí permet de traquer les éléments magiques et sacrés qui construisent la signification et le consensus du corps du Roi Divin post-moderne. Les aspects ‘innocents’ et démoniaques du pouvoir (Herrschaft) en tant que Puissance (Macht) condensent la filigrane des représentations imaginaires d’Obama en tant que phallus fécondant, corps idéal, Roi thaumaturge, Seigneur des Mouches, l’ange du Dies Irae de la violence absolue, le Souverain illimité. Le caractère monstrueux de cette condensation numineuse ne laisse au citoyen qu’une seule identité possible – se faire sujet – et un seule démarche: s’asservir avec enthousiasme. C. Cenci, E. Pozzi La pelle della carne sociale. Psoriasi e fantasmi della natura nel web 2.0 The skin of the social flesh. Psoriasys and the phantasies of nature in web 2.0 conversations La peau de la chair sociale. Le psoriasis et les fantasmes de la nature dans le web 2.0 La pelle è il luogo geometrico corporeo del negoziato tra corpo e sociale, tra l’artificialità della cultura e la pretesa naturalità della natura. La psoriasi è un incidente della pelle. Il discorso sociale sulla psoriasi condensa la dialettica natura vs artificialità che inerisce a quest’organo.
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I dati epidemiologici segnalano il rifiuto della medicalizzazione della psoriasi, una patologia di cui non si vuole che sia una malattia. Le rappresentazioni sociali sottese da questo rifiuto vengono esplorate tramite un corpus web 2.0 che campiona le conversazioni sociali italiane intorno alla psoriasi. Metodologie: l’analisi del discorso e la network analysis applicata ai testi. Le conversazioni sociali del web seguono due percorsi: a) la psoriasi è una aggressione eteronoma proveniente dalla società; b) la psoriasi è una eruzione autonoma proveniente dall’interno del corpo (l’Io colpevole: “non so vivere”). I due percorsi convergono nel rifiuto generalizzato della dimensione bio-fisiologica della malattia. Il fantasma rappresentativo sottostante rimanda al modello della rottura dell’equilibrio. La psoriasi testimonia/tradisce una rottura dell’equilibrio tra natura e cultura, una eccedenza patogena di cultura e di artificialità che disgregherebbe la naturalità della pelle. La cura esige il ristabilimento dell’equilibrio naturale perduto, e l’abbandono del campo della medicina: solo la natura può restaurare la natura. La risposta del dispositivo medico utilizza il mirroring semantico del fantasma dominante: il “farmaco bio”, opposto all’antibiotico, che nasconde un vertice di artificialità tecno-biologica. The skin is the locus of an ongoing negotiation between body and society, between the artificiality of culture and the supposed naturalness of nature. Psoriasis is an accident of the skin. The social discourse on psoriasis condenses the dialectic “nature vs artificiality” which is embedded in this organ. Epidemiological data show a widespread rejection of the medicalization of psoriasis, a pathology that ought not be a disease. The social representations underlying this refusal are explored by means of a corpus which samples the Italian web 2.0 conversations dealing with psoriasis. Methods: discourse analysis, and network analysis applied to texts. The conversations follow two paths: a) psoriasis is an outside aggression originating from society, b) psoriasis is an eruption bursting out of the inside of the body (the guilty Self: “there’s something wrong with my life”). Both paths converge into the overall refusal of the bio-physiological dimension of psoriasis. The underlying representational phantasy refers to the imbalance model. Psoriasis witnesses / betrays a rupture of the balance between nature and social culture, a pathogenic excess of artificiality that disrupts the naturalness of the skin. The treatment requires the restoration of the natural balance that was lost, and the refusal of the medical approach: only nature can heal by restoring nature. The response of the medical players mirrors semantically the dominating phantasy: here comes the supposedly nature-friendly “bio-drug”, as opposed to “anti-biotic”, which conceals a climax of techno-biological artificiality. La peau est le lieu géométrique corporel de la négociation entre le corps et le social, entre l’artificiel de la culture et le prétendu naturel de la nature. Le psoriasis (ps.) est un accident de la peau. Le discours social autour du ps. condense la dialectique de la nature et de l’artificiel qui est intrinsèque à cet organe.
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Les données épidémiologiques signalent le refus de la médicalisation du psoriasis: il s’agit d’une pathologie dont on ne veut pas qu’elle soit une maladie. Les représentations que sous-tend ce refus sont explorées en utilisant un corpus Web 2.0 qui échantillonne les conversations sociales italiennes autour du psoriasis. Méthodes: l’analyse du discours et de réseau. Deux filières: a) le psoriasis est une agression hétéronome venant de la société; b) le psoriasis est une éruption autonome venant de l’intérieur du corps (moi fautif, “je ne sais pas vivre”). Ces deux perspectives convergent vers le déni généralisé de la dimension biophysiologique de la maladie. Le phantasme représentatif sous-jacent renvoie au modèle de la rupture de l’équilibre. Le psoriasis témoigne/trahit une rupture de l’équilibre entre nature et culture, un surplus pathogène de culture et d’artificiel qui désagrège la naturalité de la peau. La cure exige le rétablissement de l’équilibre naturel perdu, et l’abandon du champ médical: seule la nature peut restituer la nature. La riposte du dispositif médical utilise le mirroring sémantique du phantasme dominant: en opposition à l’antibiotique, le soi-disant “médicament bio” veut cacher un climax d’artificialité techno biologique.