Quaderni Corsari - volume 3

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Quaderni Corsari n. 3 Dicembre 2013

Hanno scritto e collaborato Rocco Albanese, Giuseppe Beccia, Michele De Palma, Mariano Di Palma, Fabio Ingrosso, Roberto Iovino, Alessandra Quarta, Claudio Riccio, Claudia Vago, Lorenzo Zamponi Si ringraziano Paolo Gerbaudo, Eugenio Iorio Progetto grafico e impaginazione Filippo Riniolo Correzione bozze Simona Ardito, Sara Corradi in copertina Suso33 a Madrid

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Indice 4 9 29 36 47 73 80 87 94 99 106

Collettivo Quaderni Corsari – Introduzione Pino Ferraris – Politica e società nel movimento operaio e socialista. Appunti per una traccia storica Mariano Di Palma – Identità subalterne dentro la precarietà: ricomporre senza comprimere Lorenzo Zamponi – Forma partito e riforma della politica alla fine della Seconda Repubblica Lorenzo Zamponi, Fabio Ingrosso, Roberto Iovino e Michele De Palma – Il sindacato del futuro: dialogo tra un precario e tre sindacalisti in movimento Alessandra Quarta – Ripensare la democrazia rappresentativa tra costituito e costituente Rocco Albanese – La democrazia non è un pranzo di gala. Appunti su partecipazione e rappresentanza Giuseppe Beccia – Democrazia partecipata e pratiche di governo del territorio Claudio Riccio – Like democracy, reti e organizzazione collettiva Claudio Riccio – Decostruire i falsi miti della rete, coglierne le opportunità. Intervista a Eugenio Iorio Redazione – Attivismo e social media oggi, da Occupy Wall Street al M5S. Intervista a Paolo Gerbaudo

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Suso33

Introduzione Collettivo Quaderni Corsari

«I

l problema non è la caduta, ma l’atterraggio». Così recita la celebre frase de L’Odio, il film di Mathieu Kassovitz sulle banlieues parigine. Ci è ignoto a che punto della caduta siano le nostre vite, la nostra società, ma di certo, nell’epoca del posttutto, alla sensazione di essere «bloccati in un’eterna transizione» – di cui scriveva Vittorio Foa – si è unita quella della caduta perpetua, si precipita così a lungo da scordarsi che a un certo punto arriva il contatto con il suolo, e che fa male. Precipitiamo, tra le macerie, sulle macerie, senza avere gli strumenti adeguati per reggere l’impatto. Assistiamo a un cambio d’epoca (che è cosa ben più drastica di un cambiamento epocale), confrontandoci con la forza del processo storico e con la rapidità con cui il capitalismo senza attrito ne determina la direzione. Subiamo singolarmente e collettivamente gli effetti della crisi, che altro non è che una trasformazione


dell’economia globale finalizzata a perpetuare con maggior vigore il costante saccheggio delle risorse pubbliche, dei beni comuni, in un enorme trasferimento di risorse dal basso verso l’alto. Storicamente, chi sta in basso ha sempre reagito in un modo: organizzandosi. Il privilegio si può difendere in solitudine, mentre il cambiamento ha bisogno di strumenti che diano forma, respiro e forza alla collettività. L’azione collettiva, dalle forme più fluide a quelle più strutturate, è stata lo strumento di qualsiasi processo di emancipazione. Chiaramente in tutto ciò non c’è nulla di lineare, e la critica della delega, della gerarchia e della burocratizzazione fa strutturalmente parte del percorso della sinistra. Ma l’indebolimento, in generale, di tutti i meccanismi di organizzazione collettiva, è un problema che riguarda tutti. La tensione che vive l’Europa, tra la logica dell’austerity e quella del populismo, entrambe ben lontane dai meccanismi della partecipazione democratica, è riprodotta in maniera ancora più accentuata in Italia, dove partiti sempre più deboli si consegnano allo stato d’eccezione permanente del Quirinale e delle istituzioni UE, mentre a contendersi il consenso dell’opposizione stanno i populismi di Grillo e Berlusconi. Ad oggi esiste potenzialmente uno spazio politico per chi ambisce a un cambiamento della società in direzione egualitaria, radicalmente democratica, e per una politica che non neghi il conflitto capitale-lavoro e si schieri dalla parte degli ultimi. Tuttavia, questo spazio, di cui c’è estremo bisogno, è oggi schiacciato: di fronte a politiche tecnocratiche elitarie e conservatrici, i popoli si trovano in mano solo l’arma spuntata dell’urlo demagogico, espulsi dalla storia, ridotti a mero strumento o nemico indifeso dell’azione politica e amministrativa. Mai abbiamo avuto tra le mani arnesi così inservibili. Da un lato ci misuriamo con parole che se pronunciate ci si ritorcono contro: politica, sinistra… parole nobili e dense che si sono infrante contro la realtà, svuotate dal disuso o dal cattivo uso. Ci imbattiamo in parole svuotate dall’inflazione come cambiamento, e in altre sgretolate dai fatti, come democrazia. Serve mettere in campo un lavoro profondo per riscrivere un nuovo lessico, e assumere la consapevolezza che non si tratta di un problema di strategie di comunicazione. La costruzione di una nuova grammatica culturale è oggi imprescindibile per la costruzione di nuove identità e

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processi collettivi, per ogni percorso di conflitto. Se la caduta ci spinge in basso serve organizzarsi, ricostruire spazi di pensiero e azione collettiva e di parte. Serve farlo, ma non per risalire, costruendo nuove piramidi umane in cui si salvi solo chi si trova in cima; serve, invece, organizzarsi per abitare il basso. Non è questo un invito alla rassegnazione, o alla costruzione di spazi residuali di resistenza, di rassegnazione all’esistente. Si tratta invece di definire nuove prospettive sul terreno della soggettivazione, dell’organizzazione politica e della partecipazione democratica, che consentano di ripartire dal basso, non solo dal punto di vista classico con cui viene usata tale espressione in riferimento al metodo, ma intendendo il basso come il luogo di insediamento sociale, tra gli ultimi, tra gli oppressi, come terreno di azione politica. Noi ripartiamo consapevoli del fatto che la crisi della politica, della rappresentanza, dell’organizzazione, ci coinvolge, come coinvolge tutti coloro che non si rassegnano a chiamare democrazia un “mi piace” su Facebook, ma consapevoli anche del fatto che non coinvolge tutti allo stesso modo. Se negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una progressiva desertificazione dei luoghi di partecipazione collettiva in Italia, noi sentiamo l’orgoglio e la responsabilità di essere stati tra quelli che hanno testardamente provato e riprovato a praticare un’alternativa. L’esperienza del sindacato studentesco, come quelle di tanti altri movimenti e associazioni che hanno animato la società italiana negli ultimi due decenni, dal movimento antimafia ai social forum, fino ai 27 milioni di sì per l’acqua bene comune, è stata e continua a essere una faticosa ma preziosa eccezione, uno spazio libero e organizzato di impegno quotidiano per il cambiamento. Pensare che un modo diverso di fare politica sia possibile, per noi, non è un’illusione utopistica, ma una memoria recente, un’esperienza vissuta, una certezza da continuare a sperimentare. È da questo punto di vista che ci prendiamo la responsabilità, nel piccolo del nostro agile vascello corsaro, di provare ad aprire un dibattito, di porre a chi ci sta intorno una serie di domande. C’è ancora spazio, senso e utilità per la democrazia organizzata? Che forme assume in questo contesto la rappresentanza politica


e sociale? Esistono modelli e pratiche alternative a disposizione di partiti a sindacati? Quali forme nuove di soggettivazione e organizzazione possono aiutare la sinistra e, più in generale, chi lotta per il cambiamento, a essere all’altezza della sfida? Come può la difesa della Costituzione essere un rilancio programmatico e non una battaglia di retroguardia? In che modo il web e i social media rimodellano le pratiche dell’azione collettiva? L’obiettivo di questo terzo numero dei Quaderni Corsari è problematizzare queste questioni per aprire un dibattito all’interno dei movimenti e dei soggetti sociali e politici organizzati, nell’ottica di una riflessione collettiva che possa dare respiro alle nostre pratiche quotidiane. Iniziamo riprendendo uno spunto di qualche anno fa di Pino Ferraris, che a partire dalla ricostruzione dell’esperienza storica del Partito Operaio belga provava a mettere in discussione la forma partito così come l’abbiamo conosciuto nel ‘900, e a ipotizzare modi diversi, non gerarchici ma federali e cooperativi, per mettere in relazione il politico e il sociale. Passiamo poi, con Mariano Di Palma, a riflettere sul soggetto dell’azione collettiva e sulle difficoltà e le opportunità della costruzione di identità inclusive e mobilitanti in un mondo sempre più complesso e frammentato. Lorenzo Zamponi sintetizza brevemente lo stato dell’arte della formapartito oggi, ricostruendo l’itinerario della Seconda Repubblica e il dibattito di questi anni. Il Quaderni prosegue con un dialogo sull’altro grande strumento di organizzazione e partecipazione collettiva che abbiamo ereditato dal ‘900: il sindacato. Insieme a tre giovani attivisti impegnati nella rappresentanza sociale dei lavoratori, andiamo in cerca dei nodi problematici della crisi e delle esperienze già in atto per tentare di superarla. La parte successiva è dedicata al rapporto tra partecipazione e rappresentanza, tra innovazione e durata, con tre articoli che partono da tre punti di vista diversi ma convergenti: Rocco Albanese inquadra lo stato della democrazia e della partecipazione nell’Italia di oggi, Giuseppe Beccia riporta alcune buone pratiche di democrazia partecipata a livello territoriale e Alessandra Quarta prova a liberare il dibattito sulla Costituzione dalla strumentale

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dicotomia tra “conservatori” e “innovatori”, identificando i nodi attraverso i quali il testo costituzionale può diventare uno strumento di cambiamento. La terza parte è dedicata, infine, al rapporto tra nuove tecnologie e partecipazione politica: iniziamo con una riflessione di Claudio Riccio sulle opportunità e i rischi legati all’uso dei social media in politica, per poi dialogare con due esperti come Paolo Gerbaudo ed Eugenio Iorio, con l’obiettivo di uscire dallo schematismo tra “apocalittici e integrati” e identificare alcune strade da percorrere. La struttura di questo terzo numero dei Quaderni Corsari rende evidente l’idea che ci ha animato: non una trattazione esaustiva e densa di analisi e conclusioni, come magari è avvenuto in altre occasioni, ma una serie di spunti critici e provocatori, a partire in particolare dalle esperienze di militanza di noi corsari e corsare, con l’obiettivo di stimolare nei prossimi mesi il dibattito dei mondi che viviamo, e con la presunzione di far fare a questi mondi qualche piccolo passo in avanti.


Ozmo, Roma

Politica e societĂ nel movimento operaio e socialista. Appunti per una traccia storica*

di Pino Ferraris

U

na vasta area di raggruppamenti sociali impegnati nella sperimentazione di nuove pratiche sociali (volontariato, cittadinanza attiva), in iniziative di economia solidale (commercio equo e solidale, banca etica, cooperative sociali) e in esperienze di neo-mutualismo e auto-aiuto esprime una rinnovata domanda di storia, va cercando punti di riferimento in un’altra tradizione della sinistra. Questo

avviene

mentre

assistiamo

a

una

gigantesca

e

* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel giugno 2011 in P. Ferraris, Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, Edizioni dell’Asino, Roma 2011 [n.d.R.]

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irresponsabile liquidazione e svendita del patrimonio di memoria dei duecento anni di ricche e tormentate vicende del movimento operaio e socialista europeo. La storiografia elaborata e tramandata da quella che fu la sinistra ufficiale è soprattutto storia dell’azione politica-statuale, storia dei gruppi dirigenti dei partiti politici e, in forma derivata, di quelli dei sindacati. È difficile ricostruire le fila di quella che potrebbe essere definita la “terza dimensione” dell’agire politico-sociale, quella che si manifesta soprattutto come azione positiva e realizzatrice nel basso, come pratica dell’obiettivo e autogestione dei risultati, come espressione delle capacità del far da sé solidaristico, come creazione di spazi e di istituti dell’autonomia della vita sociale1. Si pensi non solo alle società di mutuo soccorso e alle cooperative di produzione e consumo, alle Università popolari e alle Case del Popolo, ma anche alla rete ricca e vasta di servizi e di tutele che i movimenti sociali costruirono interagendo con il comunalismo socialista. La storia del “fare società” che ha coinvolto milioni di uomini e donne, che ha fermentato e umanizzato questo straordinario spazio dell’Europa sociale, oggi messo a repentaglio, è una storia dispersa, svalutata e, in gran parte, abbandonata. Giulio Marcon, che, nel suo libro Le utopie del buon fare2, ha cercato di ricomporre i «percorsi della solidarietà dal mutualismo al terzo settore, ai movimenti», ha fatto un’opera pionieristica e ha incontrato grandissime difficoltà. Belgio, fine ’800: la breve avventura di un welfare senza Stato Lo scorso anno [nel 2010, n.d.R.], in un Master presso l’Università di Roma, che era rivolto a giovani operatori e militanti impegnati nell’area del volontariato e dell’economia solidale, ho concentrato la mia lezione sulla ricostruzione dell’eccezionale esperienza del movimento operaio belga negli anni che vanno dal 1880 al 1914. 1 P. Ferraris, Buone pratiche di cittadinanza e mutualismo, «Almanacco delle buone pratiche di cittadinanza», n. 2, Edizioni Una Città, febbraio 2007. 2 G. Marcon, Le utopie del ben fare. Percorsi della solidarietà dal mutualismo al terzo settore, ai movimenti. L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2004.


Il Belgio di quei decenni è un piccolo Paese di sette milioni di abitanti ma fortemente e precocemente industrializzato e dotato di avanzate strutture di modernità capitalistica. Attorno al 1880 prende avvio, all’interno di una preesistente rete di società di mutuo soccorso, uno straordinario movimento cooperativo militante3 inizialmente promosso dalle prime associazioni sindacali e quindi animato da un vivace e originale Partito operaio belga fondato nel 1885. Le cooperative inizialmente avevano concentrato la loro attività nella produzione e vendita del pane. Il costo del pane allora incideva per il 35 per cento sul bilancio di una famiglia operaia. La cooperativa ne dimezzava il prezzo garantendone la qualità. La Casa del Popolo di Bruxelles nel 1905 produceva e vendeva dieci milioni di kg di pane all’anno ed era la più grande fabbrica di pane del Belgio. La Casa del Popolo Vooruit di Gand, sempre nel 1905, produceva 100 mila kg di pane la settimana. Queste due cooperative negli anni ’80 dell’800 avevano sostenuto lo sciopero di 26 mila minatori del Borinage inviando 30 tonnellate di pane. L’aspetto particolare dell’esperienza belga consiste nella sistematica interazione collaborativa tra le varie istituzioni operaie: le società di mutuo soccorso depositano i contributi accantonati presso le grandi cooperative, le quali li usano per fare nuovi investimenti. Il sistema cooperativo apre farmacie cooperative che, abbattendo i prezzi dei medicinali, agevolano l’assistenza medica e farmaceutica delle mutue. Le cooperative stesse erogano poi una sorta di previdenza integrativa, rispetto a quella della mutualità, la quale viene calcolata sulla durata e sulla quantità degli acquisti fatti presso gli spacci cooperativi. La cooperazione è vista e vissuta dagli operai sindacalizzati come strumento fondamentale di lotta contro il caro-vita e come sostegno agli scioperi. La cooperativa è poi la struttura economica che permetteva la costruzione degli spazi architettonici e sociali della rete delle Case del Popolo, luoghi di confluenza delle diversificate forme dell’associazionismo. La “Nuova Università” di Bruxelles, gestita dai socialisti, non solo laurea medici e farmacisti che operano nel sistema mutualistico e 3 J. Puissant, La coopération en Belgique. Tentative d’évaluation globale, «Revue belge d’Histoire contemporaine», vol. XXI, nn. 1-2, 1991, pp. 31-72.

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cooperativo, ma con i suoi professori promuove corsi decentrati di cultura generale e corsi di istruzione professionale. L’Università di Bruxelles attiva le iniziative letterarie, musicali e teatrali delle Case del Popolo4. Nel Belgio di quegli anni possiamo vedere all’opera una sorta di “welfare senza Stato”, nato dal basso, nel quale sono inserite centinaia di migliaia di famiglie operaie. Alcuni istituti e forme di tutela dei lavoratori scaturiti dall’esperienza belga hanno ancora oggi una vitale operatività. Il cosiddetto “sistema Gand” di gestione della disoccupazione costituisce uno dei più importanti elementi della forza del sindacalismo scandinavo. In Svezia, ad esempio, è il sindacato che definisce l’offerta di lavoro adeguata per il disoccupato, evitando l’insorgere di un doppio mercato del lavoro. Inoltre, la gestione sindacale della mobilità incentiva il lavoratore disoccupato a conservare la sua adesione al sindacato5. Altra originale creatura dell’800 operaio belga che oggi torna di attualità è il cosiddetto sindacalismo ad insediamento multiplo, che si è rivelato particolarmente efficace per la tutela di lavoratori precari e dispersi. Sindacalismo e mutualismo operano in modo congiunto. Il reciproco aiuto per servizi di tipo mutualistico diventa momento di costruzione della solidarietà e della coesione necessaria per esprimere la forza della rivendicazione sindacale. Le Casse Edili, in Italia, sono la realizzazione storica di questo tipo di sindacalismo che, mutualizzando l’instabilità del lavoro edile, costruisce potere contrattuale. Troviamo oggi esperienze di questo genere nel sindacato delle segretarie di Boston e tra i lavoratori della comunicazione in Gran Bretagna. Il mutuo soccorso è poi la base sindacale della Freelancers Union dei lavoratori autonomi di seconda generazione di New York6.

4 J. Destrée, E. Vandervelde, Le socialisme en Belgique, V. Giard & E. Briere, Paris 1898. 5 T. Boeri, A. Brugiavini, L. Calforms (a cura di), Il ruolo del sindacato in Europa, Università Bocconi Editore, Milano 2002, pp. 154-155. 6 A. Curcio, Quel patto di mutuo soccorso per la “classe creativa” è in rete, «Il Manifesto», 14 novembre 2007.


Una diversa politica per fare società L’esplorazione dell’esperienza belga, quando si limita alla mera narrazione di forme di altra-società e di altra-economia, risulta però scarsamente comprensibile. Non si può prescindere dal modo di fare politica e dalla proposta ideale e programmatica del Partito operaio belga che fu protagonista all’interno di quelle vicende associative. G.D.H. Cole, nella sua monumentale Storia del pensiero socialista, segnala l’importanza e l’originalità, nel movimento operaio europeo, della Carta di Quaregnon, approvata nel 1894 dal Partito operaio belga7. Essa, secondo Cole, rappresenta la risposta alternativa al Programma di Erfurt del 1891 della socialdemocrazia tedesca. Con estrema sintesi si può dire che il programma tedesco afferma l’assoluta centralità della costruzione di un partito politico centralizzato e gerarchico, quasi “Stato nello Stato”, come strumento supremo per l’edificazione del socialismo mediante lo Stato. Il progetto del partito belga propone la convergenza del vasto pluralismo delle “libere associazioni” per far emergere “un’altra società” dentro la società, utilizzando “anche” strumenti istituzionali radicalmente democratizzati: i comuni e il parlamento. Le forme dell’esperienza dei movimenti sociali difficilmente possono venire analizzate isolandole dal loro rapporto con gli strumenti della politica. Proviamo a delineare una sorta di traccia dello sviluppo di questa relazione nel lungo periodo, pur rischiando una drastica semplificazione e una temeraria torsione interpretativa. Il binomio mutualità-resistenza Due momenti esemplari e originari della risposta operaia alla “questione sociale” che scaturiva dal nascente industrialismo capitalistico sono senza dubbio, nell’Inghilterra del primo ’800, il movimento luddista e l’owenismo. 7 G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, Laterza, Bari 1967, vol. II, p. 503.

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La prima vicenda, che si colloca tra il 1811 e il 1814, secondo il grande storico inglese E.P. Thompson è troppo denigrata «come immagine di un moto rozzo e spontaneo di lavoratori manuali e analfabeti, che si opponevano ciecamente all’introduzione delle macchine»8. Esso espresse invece un alto grado di organizzazione, contenuti politici e morali molto elevati e può essere considerato la matrice della moderna azione di “resistenza” degli operai nella produzione. L’owenismo, che si può collocare tra il 1824 e il 1833, tende ad affermare un orgoglioso socialismo cooperativo in senso antistatalista e nell’autonomia dei lavoratori dai benefattori9. Esso struttura l’azione sociale come ricerca dei lavoratori di sottrarre la propria esistenza alle spietate leggi del mercato, operando negli ambiti di vita con il mutuo soccorso e la cooperazione. Anche quest’esperienza è stata giudicata dalla storiografia marxista con grande sufficienza come manifestazione ingenua e primitiva di conati utopistici. La fase iniziale dell’autodifesa operaia, in tutta l’Europa industrializzata, è comunque caratterizzata dal binomio resistenza/ mutualità. Queste forme associative sono rette dal principio di solidarietà che sostituisce la fraternità della famosa triade della Rivoluzione francese. La fraternità afferma l’esigenza di un aiuto oblativo e verticale tra diseguali (carità cristiana o filantropia massonica), la solidarietà è invece un principio che si impone soprattutto nel 1848 operaio parigino e che si manifesta come aiuto orizzontale e reciproco tra eguali (uno per tutti e tutti per uno). Il mutualismo è un associazionismo per, esprime una solidarietà positiva: esso non rivendica verso l’alto, tende invece a realizzare nel basso l’obiettivo. La resistenza poggia soprattutto sulla solidarietà negativa, è un associazionismo contro che promuove la lotta rivendicativa verso l’alto. Quando nel movimento operaio prevaleva la coppia mutualità/ 8 E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1969, vol. II, cap. 14. 9 G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, cit., vol. I, cap. 10.


resistenza si realizzava un bilanciamento tra solidarietà positive e solidarietà negative e un intreccio tra azioni di lotta nel lavoro e interventi di tutela negli ambiti di vita. Per comprendere gli sviluppi futuri e le nuove configurazioni di un movimento operaio più strutturato e istituzionalizzato occorre anche aver chiara la distinzione tra associazione e organizzazione. Con il termine associazione si intende un raggruppamento volontaristico all’interno del quale tutti i soci hanno eguale accesso alla gestione e lo stare insieme viene regolato sulla base di vincolanti norme di diritto (statuti). Organizzazione è una struttura cui si aderisce in modo volontario all’interno della quale vige però una divisione di fatto del lavoro tra un apparato che amministra e i seguaci che controllano. All’interno della variegata esperienza dell’associazionismo operaio delle origini, la nascita del partito giunge relativamente tardi ed emerge faticosamente tra le divisioni e i contrasti che tormentano le vicende della Prima Internazionale (1864-1874). Il dibattito all’interno dell’Internazionale non fu solo quello che divise coloro che proponevano la costituzione del partito come strumento autonomo di lotta politica dei lavoratori (marxisti) da coloro che rifiutavano la lotta politica per la conquista dello Stato (anarchici). Vi erano dissensi tra centralisti e federalisti, tra mutualisti e collettivisti. E vi era poi un’importante presenza degli “eclettici”, di coloro che rifiutavano rigide contrapposizioni dottrinarie e operavano per evitare la rottura della Prima Internazionale. Il far da sé solidale Tra gli internazionalisti eclettici si colloca sicuramente César De Paepe10, protagonista della vita e delle battaglie della I Internazionale, teorico e fondatore del Partito operaio belga (1885), ispiratore della Carta di Quaregnon così distante dal quel programma tedesco di Erfurt che trovò larghissimi consensi da 10 Su César De Paepe (1841-1890) si veda B. Louis, César De Paepe. Sa vie, son ouevre, Dechenne, Bruxelles 1909; B. Dandois (a cura di), Entre Marx & Bakounine. César De Paepe, Centre d’historie du syndicalisme Françoise Maspero, Paris 1974.

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Turati a Lenin. Nel pensiero di De Paepe e nell’esperienza belga convergevano l’influenza del far da sé cooperativo anglosassone, gli stimoli francesi del federalismo libertario di Proudhon e del «socialismo integrale» di Malon che dava grande rilievo al ruolo della morale e della cultura nei processi di trasformazione sociale, le istanze marxiane del classismo collettivista e della necessità di organizzare la lotta politica. In Italia si avvicina alle posizioni di De Paepe l’internazionalista Osvaldo Gnocchi Viani11, promotore del Partito Operaio Italiano nel 1882 e, dai primi anni ’90 dell’800, fondatore delle Camere del Lavoro. Nella concezione di Gnocchi Viani erano fortemente presenti il principio del «far da sé solidaristico», il comunalismo federalista, la diffidenza verso l’ideologismo degli intellettuali, la netta distinzione tra il «partito politico» dei borghesi e il «partito sociale» degli operai. Il partito politico è quello che «ha il popolo come mezzo» e la sua «specializzazione» sta nel garantire il dominio dei pochi sui molti. Il partito sociale è quello che ha «il popolo come fine» e la «sua specializzazione è nella massima che l’operaio deve fare da sé»12. Gnocchi-Viani è fortemente critico nei confronti della «scuola della riforma sociale per opera dello Stato» di derivazione bismarckiana. Sostiene invece che le leggi non debbono intervenire per sottrarre spazi, materie, possibilità al «far da sé» degli operai, ma debbono intervenire per «togliere ostacoli», per agevolare l’esercizio dell’autogestione operaia dei problemi e degli interessi degli operai stessi13. La sua battaglia contro Turati, accusato di voler importare in Italia il «partito tedesco», fu molto netta; la sua sconfitta significò anche esclusione e oblio. I primi fragili e piccoli partiti operai e socialisti che tentarono di 11 Su Osvaldo Gnocchi-Viani (1837-1919), oltre al secondo capitolo di questo testo [P. Ferraris, Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, Edizioni dell’Asino, Roma 2011, n.d.R.], si veda O. Gnocchi-Viani, Oltre la politica. Antologia di scritti del 1872 al 1911, a cura di G. Angelini, Franco Angeli, Milano 1989; G. Angelini, Il socialismo del lavoro. Osvaldo Gnocchi-Viani tra mazzinianesimo e istanze libertarie, Franco Angeli, Milano 1987. 12 O. Gnocchi-Viani, I partiti politici e il Partito operaio, Tipografia sociale, Alessandria 1888, p. 15. 13 O. Gnocchi-Viani, La marcia delle fasi, in «Critica sociale», 16 marzo 1896.


emergere negli anni della Prima Internazionale prevedevano quasi tutti l’adesione collettiva (erano federazioni di leghe di resistenza, di società di mutuo soccorso, di cooperative...) e l’esclusivismo operaio (la presenza dei soli lavoratori manuali). Essi furono travolti dalla crisi dell’Internazionale. Nel periodo che va dall’ultimo decennio dell’800 alla Prima Guerra Mondiale si afferma la seconda fase dell’esperienza del movimento operaio europeo: la coppia mutualità/resistenza viene sostituita dalla coppia partito/sindacato, dall’associazione si passa all’organizzazione, declina il mutualismo. Prevale nel movimento socialista la “solidarietà negativa” che caratterizza le organizzazioni di combattimento della classe operaia: il sindacato che rivendica contro i padroni e soprattutto il partito che lotta intorno alla conquista dello Stato. Sta nascendo quello che diventerà il partito burocratico di massa, protagonista indiscusso del Novecento. Le forme del partito di massa Paolo Farneti, che è stato uno dei più acuti sociologi della politica, interpreta la Sociologia del partito politico di Roberto Michels14, che è soprattutto l’analisi della socialdemocrazia tedesca, come una descrizione della transizione «dal livello associativo o solidale (civile) a quello organizzativo-autoritario (politico). Ai rapporti di solidarietà – conclude Farneti – subentrano rapporti di obbedienza e di comando e il passaggio è dovuto alla divisione del lavoro richiesta dalla politica»15. È una “tendenza” reale operante nella genesi del moderno partito di massa. Però questa tendenza non è lineare e univoca come la descrive Roberto Michels. Il campo della politica è sempre sottoposto a un doppio movimento. Pizzorno ci dice dei due volti della politica: da un lato essa si presenta come «un modo di fondare la legittimità e quindi verificare il consenso del nuovo Stato a sovranità popolare», dall’altro lato si manifesta come «modo di lottare, con mezzi che 14 R. Michels, La sociologia del partito politico, Il Mulino, Bologna 1966 (prima ed. Italiana Utet, Torino 1912). Sull’opera del Michels si veda P. Ferraris, Saggi su Roberto Michels, Jovene Editore, Napoli 1993. 15 P. Farneti, Sistema politico e società civile, Giappicchelli, Torino 1971, p.47.

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possiamo chiamare politici, contro le condizioni di disuguaglianza proprie della società civile»16. Il doppio movimento si potrebbe anche descrivere come l’impresa volta alla “statualizzazione” della società civile che si incrocia e si scontra con ricorrenti processi di politicizzazione che partono dalla società civile, come suggerisce Farneti. Inoltre questa tendenza non è univoca. Infatti, si presentano modelli diversi di partiti di massa. Nella costruzione storica del moderno partito di massa vediamo sorgere precocemente il partito socialdemocratico tedesco nel 1875 e, con un certo ritardo, il partito laburista inglese nel 1900. In mezzo, nel 1885, nasce il Partito operaio belga. Essi rappresentano anche tre diversi modelli del partito di massa della sinistra europea. Utilizzando liberamente categorie interpretative elaborate da Paolo Farneti possiamo individuare un modello di partito alternativo alla società civile. È quello che tende a inglobare, a partitizzare, a sottomettere tutte le forme di espressione della società. È l’esperienza della socialdemocrazia tedesca di Kautsky e dei partiti della Terza internazionale. Vi è poi un secondo modello di partito, il vecchio Partito laburista, il quale nasce e vive come emanazione e rappresentanza dei sindacati nel parlamento. Farneti lo definisce come un partito complementare rispetto alle strutture della solidarietà operaia. È necessario aggiungere un terzo modello di partito che potremmo definire come il partito coordinatore delle forme plurime dell’associazionismo operaio. È il Partito operaio belga della Carta di Quaregnon fondato dall’internazionalista César De Paepe. L’esperienza belga: autonomie confederate La ricerca storica e teorica della sinistra ha trascurato l’esperimento belga. Nell’Europa continentale ha vinto il modello della socialdemocrazia tedesca. Sovente i tentativi mancati e le tendenze sconfitte dal processo storico ci dicono molto e aprono interrogativi nel presente. 16 A. Pizzorno, Introduzione allo studio della partecipazione politica, «Quaderni di sociologia», vol. XV, nn. 3-4, 1966.


Il Belgio dell’ultimo quarto del XIX secolo era un paese con notevoli differenziazioni culturali e linguistiche (Fiandra, Brabante, Vallonia). Il non vasto territorio si disarticolava in aree caratterizzate da strutture socio-economiche molto difformi: zone agricole convivevano all’interno di una realtà fortemente industrializzata, i bacini industriali si distinguevano per una loro forte specializzazione (aree minerarie, distretti tessili, concentrazioni dell’industria chimica, metallurgica e del vetro). Nelle diverse regioni del paese prevalevano dei mix particolari di esperienze associative: nelle zone della Vallonia, ad esempio, era forte un sindacalismo di azione diretta che si innestava nelle strutture mutualistiche, mentre nelle Fiandre, a Gand, prevaleva l’esperienza cooperativa originata dal sindacalismo tessile. Il Belgio si colloca poi al crocevia di diverse tradizioni culturali: questo variegato mondo associativo era percorso da culture politiche che provenivano dai paesi più vicini – la Francia, la Germania, l’Inghilterra. Il movimento operaio belga riesce rappresentare la variegata e differenziata articolazione sociale e culturale costruendo una rete federativa che unisce le autonomie senza omologarle. In secondo luogo, il partito operaio non si colloca come vertice gerarchico delle molteplici “libere associazioni”, ma si inserisce come attore di una politicizzazione pervasiva dentro la trama dell’associazionismo, costruendo il senso di una comune appartenenza. La manifestazione più clamorosa dell’anomalia belga, che fece scalpore nel movimento socialista del primo ’900, fu l’imponenza degli scioperi politici di massa (per il suffragio universale) del 1893, 1902 e 1913, realizzati da un sindacalismo accusato di settorialismo e di disarticolato localismo. Rosa Luxemburg ripetutamente parla del fascino dell’esempio belga e, nel 1913, pur criticando alcuni aspetti della gestione dello sciopero generale di quell’anno, seccamente afferma che la potente, centralizzata e immobile macchina sindacale tedesca doveva «provare vergogna» di fronte allo slancio politico-sindacale dei lavoratori belgi17. 17 F: Mehring, R. Luxembourg, E. Vandervelde, L’expérience belge, une vieille polémique autour des grèves générales de 1902 et 1913, Bureau d’éditions, de diffusion et de publicité, Paris 1927 (trad. it. Lo sciopero spontaneo di massa,

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La Luxemburg, pur acuta analista della forma partito, nel cogliere la distanza tra la concentrata e paralizzata potenza dei tedeschi e i decentrati, multiformi poteri attivi della società del lavoro belga, non riusciva a individuare l’origine di queste divaricate esperienze nella diversa visione e struttura dei due partiti e nelle differenti loro relazioni con i raggruppamenti della società civile. Ogni lavoratore belga che diventava socio di una cooperativa, che si iscriveva ad un sindacato o a una società di mutuo soccorso, sottoscriveva un foglio di adesione al programma del Partito operaio. Scriveva nel 1906 Vandervelde che il Partito operaio non è nient’altro che la federazione di questi raggruppamenti economici e sociali: «togliete le mutualità, i sindacati e le cooperative che gli forniscono la maggioranza dei suoi membri e la quasi totalità delle sue risorse e nelle sue federazioni regionali non resterebbero che alcune piccole leghe operaie che non danno segni di vita se non alla vigilia delle campagne elettorali»18. Il partito animava e guidava queste associazioni, ma era anche fortemente dipendente da esse e, quindi, rispettoso delle loro libertà. Il partito socialdemocratico tedesco degli anni ’90 dell’800 aveva superato l’adesione collettiva, e il sindacato appariva formalmente separato dal partito. In realtà il partito, attraverso la penetrazione tra gli iscritti e negli organi dirigenti, controllava il sindacato e le altre forme associative come organizzazioni “collaterali” e gerarchicamente subalterne. L’universo associativo belga era retto dal principio federativo. Un federalismo orizzontale articolava il partito in 26 federazioni regionali con ampie autonomie, alle quali facevano capo complessivamente 500 raggruppamenti sociali e politici. A questo federalismo orizzontale si accompagnava poi un federalismo funzionale che faceva sì che i diversi raggruppamenti (partito, cooperative, sindacati, mutuo soccorso), salvaguardando le loro autonomie, si incontrassero in modo sinergico e collaborativo nella vasta rete delle 172 Case del Popolo, centri polivalenti di vita sociale e nodi essenziali della rete federativa territoriale e Musolini Editore, Torino 1970). 18 E. Vandervelde, La Belgique ouvrière, É. Cornély, Paris 1906, p. 124.


funzionale. Sarebbe inesatto descrivere l’esperienza belga come immune dai processi di istituzionalizzazione che, soprattutto a partire dal primo ’900, coinvolgono l’insieme del movimento. Potenti cooperative, importanti società di mutuo soccorso, grandi Case del Popolo come quelle di Gand nelle Fiandre, di Bruxelles nel Brabante e di Jolimont in Vallonia, solide strutture sindacali locali e di categoria, ponevano imperativi gestionali che non sfuggivano alla divisione tecnica del lavoro e alla burocratizzazione. Ma il principio delle autonomie federate attiva, limitando la concentrazione e la vasta dimensione, la capacità di resistenza democratica allo sviluppo burocratico. La Grande Guerra e la militarizzazione della politica Con l’esperienza della Prima guerra mondiale si può dire che incominci un’altra storia del movimento operaio europeo. Il Belgio, Paese neutrale, viene brutalmente aggredito e occupato dalle armate germaniche. La partecipazione dei socialisti belgi al governo di union sacrée, il coinvolgimento dei sindacati nella mobilitazione industriale, l’attribuzione al movimento cooperativo di funzioni para-statali di approvvigionamento delle popolazioni affamate, travolgono le particolarità dell’esperienza belga. La “guerra civile europea dei trent’anni” (1914-1945) ha brutalmente plasmato e strutturato il conflitto sociale e politico in tutta l’Europa. «La politica ha ormai un volto solo: quello della statualità. Scompare l’idea stessa di una trasformazione della società che possa avvenire attraverso processi di politicizzazione, di produzione di coscienza e di idealità dall’interno dell’esperienza sociale del lavoro e della vita e nel corso dell’azione diretta delle grandi masse»19. La storiografia di sinistra mette in evidenza i solitari e disperati sussulti sociali dell’immediato primo dopoguerra, il mito dell’Ottobre rosso colora di illusioni future un presente che in realtà blocca e chiude la grande ondata democratica e socialista 19 Si veda P. Ferraris, Sul sindacalismo europeo delle origini. Quattro lezioni all’Università di Campinas, in questo testo [Ieri e domani, cit., n.d.R.] a p. 68.

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partita dal 1848. In quegli anni giunge a compimento il lungo, tortuoso e sussultorio processo di “nazionalizzazione delle masse”20 attivato nei cervelli e nella sperimentazione politica delle classi dirigenti europee dal trauma della Comune di Parigi del 1871. Durante la Prima guerra mondiale e negli anni del primo dopoguerra si compie la militarizzazione della società civile come estensione dell’interventismo dello Stato, burocratizzazione delle macchine politiche e sindacali e delle imprese. Richard Sennet descrive in pagine limpide e sintetiche la nascita e la diffusione del «capitalismo sociale militarizzato»21. Contemporaneamente non dobbiamo dimenticare che in quegli stessi anni del primo dopoguerra viene portato avanti il processo di “democratizzazione”, con la concessione del suffragio universale maschile in quasi tutte le nazioni europee (in alcuni paesi si ottiene anche il suffragio femminile). Si stabilizza un sistema di competizione democratica incardinato sullo scheletro d’acciaio della burocrazia militare. Si fa realtà la massima weberiana: «la burocrazia è l’ombra necessaria e inseparabile della democrazia». Partiti di massa e controllo della domanda sociale I partiti di massa, nati nell’esperienza organizzativa del movimento operaio, si sono sviluppati anche in ambito borghese. Partiti di sinistra, partiti conservatori, cristiano-sociali e liberali competono non solo per il consenso elettorale di vaste masse popolari, ma si misurano anche sui grandi numeri degli iscritti attraverso la stabile espansione organizzativa e sub-culturale radicata dentro il tessuto sociale. Nel 1967 Stein Rokkan poteva scrivere che il sistema politico europeo degli anni ’60 del secolo scorso «riflette ancora, con poche eccezioni significative, la struttura delle fratture degli anni venti». E le fratture sociali, i cleavages che avevano strutturato la lotta partitica a partire dai primi decenni del ’900, lo studioso norvegese li individuava nel conflitto tra capitale e lavoro, nella 20 G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, Bologna 1975. 21 R. Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, Bologna 2006.


contrapposizione tra Stato e Chiesa, nell’opposizione tra centro e periferia e nel contrasto tra città e campagna22. Nel mezzo secolo che va dal 1918 al 1968 è stato sospeso e interrotto quello che abbiamo definito il «doppio movimento della politica»? È scomparsa la politicizzazione dal sociale? Ha operato soltanto il volto della politica come statalizzazione? Nel descrivere lo sviluppo e la strutturazione della politica di massa competitiva nei Paesi dell’Europa occidentale Rokkan annota: «Sir Lewis Namier paragonò una volta le elezioni alle dighe di un canale: queste consentono la crescita delle forze socio-culturali per farle poi confluire negli appositi canali del sistema ma consentono anche di arginare la marea e di contenere i flutti»23. Questa metafora idraulica non nega che vi siano dei flussi sociopolitici “montanti” e che essi abbiano anche un’incidenza sulla politica istituzionalizzata, ma essi sono sempre “canalizzati” e, quando si manifestano come “maree”, vengono risolutamente “arginati”. Il periodo precedente la Prima guerra mondiale ci appare, nell’ambito socialista, come una creativa fase “costituente”, i decenni successivi come una stagione di amministrazione del “costituito”. I flussi ascendenti della politicizzazione sociale non generano più invenzione di nuovi “istituti” della sociabilità operaia, ma si proiettano come tensioni inter-burocratiche, scissione e frammentazione delle organizzazioni esistenti. Il partito burocratico di massa, mentre veicola verso il basso la “statalizzazione” della società, per vivere, espandersi e competere, deve anche attivare una giusta dose di socializzazione politica e di mobilitazione controllata. L’uso della risorsa della militanza, la circolazione sociale della comunicazione politica, la costruzione e l’utilizzazione di associazioni collaterali di interessi, le risposte ai problemi di identità e di espressività sono componenti strutturali del tradizionale partito di massa che alimentano e orientano la domanda politica. 22 S. Rokkan, Cittadini, elezioni partiti, Il Mulino, Bologna 1982. 23 Ivi, p. 141.

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Esse, in circostanze di acuto fermento sociale, possono generare conseguenze impreviste di eccesso della domanda sociale. I nuovi movimenti sociali È ciò che è accaduto con la svolta segnata dall’irrompere sulla scena dei movimenti politici di massa nel decennio 1965-1975. Si rompe la mediazione socialdemocratica tra promesse di sicurezza massima e richiesta di democrazia minima, va in crisi lo scambio fordista tra spazi di consumo e dispotismo sul lavoro. I partiti di massa strutturati sui cleavages sociali degli anni ’20 diventano anacronistici: si riconferma, mutata, la frattura capitale/ lavoro, la secolarizzazione attenua le tradizionali tensioni tra Stato e Chiesa, scompare la rottura tra città e campagna mentre riprendono forza i conflitti tra centro e periferia, si dispiega la frattura di genere da tempo latente, insorge con forza la contraddizione tra uso capitalistico della tecnica e natura. I partiti vengono contestati dal basso e sono messi in discussione dall’alto, lungo un arco di tempo che, emblematicamente, potrebbe iniziare con il Manifesto di Port Huron24 della giovane sinistra americana nel 1962 che rivendica forme radicali di partecipazione politica, per giungere al rapporto della Trilaterale sulla Crisi della democrazia del 1975 che invoca invece un’autoritaria governabilità liberata da vincoli sociali25. Paolo Farneti nella seconda metà degli anni ’70 coglie con lucidità il significato dei processi in corso. Egli scrive: «Nella mobilitazione del ‘68-69 c’è la chiusura di un cinquantennio di grandi investimenti ideologici iniziatisi con la prima guerra mondiale […]. La coscienza delle nuove condizioni e delle vecchie strutture di aggregazione e di mobilitazione, dette il via ad un nuovo modo di fare politica e ad una nuova pratica politica e quindi ad una ridefinizione della società politica, quella dei movimenti collettivi, dall’associazionismo intenso, in parte spontaneo, di rifiuto dell’organizzazione come 24 P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988. 25 M. Crozier, S. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale, Franco Angeli, Milano 1977.


forma di divisione del lavoro». Conclude con una considerazione sul lungo periodo: «il partito di massa è stato ed è tuttora un tentativo di equilibrare interessi materiali e ideali, distribuzione di risorse e impegno ideologico […]. Sembra che […] come pilastro della democrazia parlamentare contemporanea stia subendo irreparabili sconfitte. Se ciò è vero, l’immaginazione politologica e sociologica degli anni a venire dovrà impegnarsi anche ad ideare una struttura alternativa a quella società politica che sin dagli inizi del secolo […] sembrava ereditare le grandi ideologie dell’800 e capace di portarle a compimento»26. Recentemente lo storico e sociologo americano Immanuel Wallerstein27 ha riproposto la coincidenza tra il fallimento dei tradizionali movimenti antisistemici (socialdemocrazia, comunismo, movimenti di liberazione nazionale) «orientati verso lo Stato» e basati sulle strategia delle «due fasi» (la conquista del potere statale e poi la trasformazione della società) e quella che egli continua a chiamare «la rivoluzione del ’68» come matrice storica dei nuovi movimenti anti-sistemici. È sbagliato considerare i nuovi movimenti sociali come effimeri “cicli di protesta”. Essi riproducono nel tempo, in modo carsico e con mobilitazioni di massa, quella politicizzazione dal sociale che si alimenta nella rottura dei poteri di fatto dentro la società civile. Le traiettorie di trasformazione del sistema politico in Europa e l’evoluzione dei movimenti sociali tendono a divaricare, aumentano sempre più le distanze che le separano. Non è l’immaginazione sociologica e politologica che orienta l’evoluzione dei partiti politici, ma sono le dure leggi del potere oligarchico e i rudi comandi dell’economia di mercato. Partiti di Stato, partiti senza società Il politologo americano Richard S. Katz, che da decenni studia i sistemi politici europei, ha colto la tendenza fondamentale che regola il mutamento delle organizzazioni partitiche all’interno della 26 P. Farneti, Introduzione, in Id. (a cura di), Politica e società, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1979. 27 I. Wallerstein, Il declino dell’America, Feltrinelli, Milano 2004, cap. 12.

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crisi del partito di massa. Katz sintetizza i risultati delle sue analisi elaborando il nuovo modello del cartel party. Egli colloca l’avvio del processo di trasformazione dei partiti europei nei primi anni ’70 del secolo scorso. Sono gli anni in cui la domanda sociale chiede ai partiti di fare di più mentre essi possono fare sempre di meno. Essi tendono a uscire da questa contraddizione allentando i legami con la società ed entrando in simbiosi sempre più stretta con lo Stato. I partiti europei – sostiene Katz – non sono “vittime” della caduta della militanza e del declino degli iscritti, essi stessi hanno la necessità di scoraggiare la domanda politica che proviene dalla loro base. Le risorse di contributo economico, di comunicazione politica, di mobilitazione elettorale che provenivano dall’attivismo di base ora vengono via via sostituite dalle risorse provenienti dallo Stato (finanziamento pubblico, accesso ai mass media, disponibilità di privilegi e di incentivi materiali che costruiscono dall’alto reti diffuse di cariche pubbliche elettive e non elettive, di catene clientelari). Si passa da una forma di partito ad alta (vasta militanza di base) a un partito ad alta (finanziamento pubblico, lobby, potenza Sostanzialmente il cartel party si identifica cariche pubbliche.

intensità di lavoro intensità di capitale dei mass media). con il partito delle

Le conclusioni di Katz sono improntate a ruvido realismo politico: i partiti non sono più associazioni di cittadini e per i cittadini ma società di professionisti della politica che gestiscono agenzie parastatali28. Non c’è – conclude il politologo americano – un declino dei partiti, ma cresce una sfida esterna alla forza di questi nuovi partiti, anche perché «i cittadini preferiscono investire altrove le proprie energie dove possono svolgere un ruolo più attivo». Questa analisi sul mutamento genetico dei partiti politici rinvia immediatamente ad indagini meno superficiali e contingenti sulla “sfida” che viene dalla società non solo come “movimento” 28 R.S. Katz, P. Mair, Cambiamenti nei modelli organizzativi di partito. La nascita del ‘cartel party’ e anche Idd., Agenti di chi? Princìpi, committenti e politica dei partiti, in L. Bardi (a cura di), Partiti e sistemi di partito, Il Mulino, Bologna 2006.


ma come nuovo associazionismo, come pratiche diffuse e culture emergenti. In Italia prevale l’analisi dei movimenti che fa riferimento a Sidney Tarrow29, il quale li concepisce come picchi momentanei di «azione collettiva disgregante», come isolati “cicli di protesta” regolati da una sorta di legge del pendolo che oscilla tra gruppo in fusione e serializzazione (Sartre), tra stato nascente e istituzionalizzazione (Alberoni). Altri ricercatori, come Touraine, vedono il “movimento” come il punto di emersione di processi di lunga durata e di grande complessità che producono una socialità politica alternativa. Quello che è stato chiamato «movimento dei movimenti» ci ha rivelato una grande crescita di maturità nello sviluppo dell’azione sociale. Esso presenta momenti di convergente mobilitazione pubblica nata da stabili e differenziate sedi di impegno sociale (associazioni pacifiste ed ecologiste, centri sociali, gruppi di volontariato, organizzazioni anti-razziste e in difesa dei diritti umani...). Dall’incontro e dal dibattito di massa fluiscono poi risorse politiche, sociali e cognitive che vanno a irrigare il reticolo delle azioni specifiche quotidiane. Siamo ben oltre il moto di andata e ritorno tra flusso della mobilitazione sociale e riflusso nel privato. Verso nuove forme di cooperazione politica? Da queste esperienze nasce una configurazione socio-politica che è caratterizzata dall’incrocio tra la diversificazione verticale di un “arcobaleno” associativo orientato alla single issue e una tensione orizzontale tra il globale e il locale. Assieme al conflitto, dopo lunga eclissi, riemergono le «solidarietà positive», il far da sé cooperativo, la pratica dell’obiettivo30. Si va oltre il movimentismo, ci si avvicina alla richiesta di un’altra forma di espressione della società politica. Se teniamo presente l’urgenza di invenzione politica e sociale che discende dal mutamento nel sistema partitico e dalla nuova qualità della sfida sociale, si può comprendere perché in queste note di sommaria 29 P. Ferraris, Contro il “disordine” di Tarrow, in Id., L’eresia libertaria. Interventi, polemiche e saggi intorno al biennio 1968-1969, Berta 80, San Severino Marche 1999. 30 P. Ferraris, I movimenti sociali ieri e oggi, «Lo Straniero» n. 58, aprile 2005.

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ricostruzione storica abbiamo dato spazio alla vicenda del movimento operaio e socialista belga tra gli ultimi decenni dell’800 e il primo ’900. Esperienze politiche e sociali così lontane non possono darci ricette per il presente. La loro rievocazione può però aiutare a porre al centro dilemmi che avevamo eluso, problemi che erano stati rimossi; può offrire stimoli a formulare in modo più chiaro gli interrogativi nel presente e per il futuro.La memoria criticamente elaborata si colloca in opposizione alla memoria nostalgica, essa rifiuta l’amnesia e rompe l’ideologia dell’eterno presente. Ha un senso riportare alla luce gli orientamenti ideali e politici della dimenticata Carta di Quaregnon che si distingueva da quel Programma di Erfurt che ebbe grande successo come manifesto della lunga e dominante tradizione del socialismo statalista; ha una sua ragione il rilievo dato alle esperienze di costruzione di elementi d’altra società attorno alle Case del Popolo del Belgio dopo il lungo declino della capacità di realizzare dal basso obiettivi e risultati autogestiti. Ma il punto sul quale la lontana esperienza belga ci invita a una riflessione nell’oggi riguarda soprattutto l’applicazione politica del principio federativo; quel federalismo funzionale che faceva convergere in autonomia e collaborazione sindacalismo e mutualismo, cooperazione e circoli di partito, innestandosi in un federalismo orizzontale, che teneva in relazione i distretti tessili di Fiandra di lingua fiamminga con i bacini minerari valloni francofoni. Quelle lontane vicende mandano echi in un presente nel quale l’urgenza riguarda la capacità di trovare le forme della politica che siano in grado di far convergere, nel rispetto delle diversità, uno spettro arcobaleno di pratiche e di culture sociali; forme che permettano inoltre di governare la tensione tra globale e locale con reti territoriali di cooperanti autonomie. Il vecchio modello del partito di massa, gerarchico e omologante, non serve. Il nuovo modello del partito delle cariche pubbliche va in tutt’altra direzione.


Identità subalterne dentro la precarietà: ricomporre senza comprimere

di Mariano di Palma

R

agionare delle soggettività che vivono e subiscono la crisi vuol dire innanzi tutto affondare le radici nel rapporto tra le forme di dominio, di governance, e l’attuale sistema economico, in un capitalismo con natura più complessa di quella analizzata negli ultimi anni. Bisogna, per cominciare, partire da un fattore: il tempo. La velocità di mutamento e di agilità dei processi di accumulazione di ricchezza è impressionante. Il capitalismo non è più univoco: è, allo stesso tempo, finanziarizzazione ed estrazione di plusvalore dal lavoro vivo, alienazione di fabbrica ed esistenza messa a produzione. Dentro questo processo ad “alta velocità”, è fondamentale costruire l’esodo delle soggettività poste ai margini della storia nei modi di produzione e nei processi della governamentalità neoliberale. Per questo sarà necessario ragionare della precarietà come processo, e dei subalterni come soggetto.

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I subalterni sono le soggettività segmentate inserite in un tempo e in uno spazio governato da un capitalismo divoratore. La forma “famelica” del capitale ha la funzione di dominare tempi e spazi di produzione e di vita, per sussumerli dentro le sue catene disgreganti. La precarietà quindi è, allo stesso tempo, condizione di sfruttamento e assoggettamento: due concetti in apparenza simili, ma che ci sono utili per distinguere due processi diversi. Il primo è quello di alienazione e sussunzione, di erosione della terra e di sfruttamento degli esseri viventi; l’altro è ����������������������������� ��������������������������� quello della schiavitù, ovvero di un rapporto di dominio dell’uomo sulla natura e sull’uomo stesso. Oggi il governo capitalistico si estende e si ramifica dentro la società, perché è la società intera a essere luogo di accumulazione e produzione di valore. Modi di produzione e governance sono due facce dello stesso capitalismo. Da semplice regolatore ed estrattore di ricchezza dal rapporto tra capitale e lavoro, al fine di aumentare la propria rendita, il capitalismo diventa forma di potere generale in grado di assoggettare la vita per sfruttare corpi e pensieri. Queste nella nuova macchina mondiale e complessa si danno in contemporanea e mai l’una senza l’altra, in un rapporto di dipendenza l’una dall’altra. Lo sforzo di ricostruzione complessa di quello che avviene nei processi di accumulazione e in quelli di dominio significa dimostrare come l’economia politica – a partire dalla devastazione delle politiche sociali – e l’intensificazione delle politiche securitarie e del regime d’emergenza siano frutto della stessa scelta, dello stesso processo. Lo sfruttamento diventa quindi assoggettamento, e viceversa. È in questo legame che si evidenzia il processo dell’evoluzione capitalistica e della sua egemonia mondiale. Le soggettività che vivono la precarietà, i subalterni, diventano l’oggetto di un continuo laboratorio di governo politico per garantire accumulazione massima di profitto. Se ogni spazio di vita deve essere sussunto dal paradigma economicista, per garantire tale capacità virale non ci può essere libertà reale, se non indotta. Per costruire una macchina produttiva in grado di precarizzare tutta l’esistenza, occorre il massimo dell’apparente libertà individuale, per cancellare tutti i legami sociali possibili. La “superideologia” del neoliberismo, del resto, è l’ennesimo gioco di maschere con cui il capitalismo si configura nella storia. La retorica del self-made man che pervade la società, diffondendo il credo della libertà individua-


le, slegata da quella collettiva; il lavoro autonomo che non riesce a liberarsi realmente dai meccanismi di subordinazione; la riproduzione sociale stessa come fattore di accumulazione: sono questi gli altari di cartapesta del capitalismo targato occidente. La condizione di assoggettamento è dunque una condizione vasta che, al di là delle condizioni materiali, comprime tempi e spazi di vita sia di chi vive nella City di Londra, sia dell’operaio in Bangladesh: tutti inseriti dentro il moderno capitalismo, con diverse gradualità di rapporto intensivo. Come un vecchio sistema feudale, la macchina capitalista ha i suoi feudatari. Non a caso si è parlato di un “capitalesimo” e cioè di un sistema di potere che tende a costruire un rapporto verticale e unilaterale di servitù all’intera ideologia del sistema, tra chi possiede, decide e comanda il processo di produzione e chi lo subisce. Se l’assoggettamento rappresenta il metodo e la risposta al «come», ���������������������������������������������������������� «con quali strumenti»������������������������������������� , «quali ����������������������������������� modalità»������������������� , «���������������� ����������������� quali nuovi rapporti di forze», lo sfruttamento è la sostanza corposa e non meno complessa del processo capitalista. Il capitalismo, per evolversi in macchina mondiale, ha bisogno di strutturare tempo e spazio come elemento di percezione indotta e omologante, come proprietà. L’utilizzo che fa di questa proprietà sta proprio nel “gioco delle maschere”. Se il paradigma è �������������������������������� l’accumulazione crescente, al��� lora l’erosione della terra e l’immiserimento della vita ne sono le conseguenze inevitabili. Lo sviluppo massimo del capitalismo è sempre più coincidente con la fine del pianeta. La forma storica della piramide ci aiuta a rappresentare meglio il meccanismo di sussunzione e le maschere del capitalismo moderno. Alla base della piramide vi è il nodo della produzione industriale, del lavoro nella sua forma fordista delocalizzato in gran parte e, a oggi, di nuovo oggetto di intensificazione lavorativa in occidente. I soggetti coinvolti per un ventennio in questo processo hanno avuto una chiara collocazione geografica: gli sfruttati, gli operai, gli intoccabili del sudest del mondo: le industrie vengono delocalizzate e, mentre il capitalismo finanziario assurge a dogma, si creano le premesse per un nuovo sfruttamento globale della manodopera. Oggi quel processo torna vittorioso in occidente e vive nelle politiche di diminuzione dei salari e dell’aumento della produttività. Ecco quindi la prima maschera: la produzione fordista non scompare (neanche in occidente tra l’altro), come invece ci hanno voluto far credere con il mito della robotizzazione e della

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fine del lavoro di fabbrica, ma, anzi, aumenta in intensità. Al centro della piramide c’è il processo di finanziarizzazione dell’economia: il gioco speculativo, la moltiplicazione fittizia delle ricchezze, lo sfruttamento delle conoscenze. Qui non sono solo i soggetti del cosiddetto lavoro immateriale a vivere lo sfruttamento. In questa fase dell’accumulazione, l’estrazione di ricchezza non avviene sulla base del rapporto lavorativo, ma del profitto sulla vita, riguarda tutti. Come la crisi ci dimostra, questo processo non si autoalimenta, ma ha bisogno di trovare, in una determinata fase del processo speculativo, nuova linfa per riprendere la speculazione. Non ci sono più ricchezze reali che possano sostenere il gioco finanziario. Se rendiamo questo passaggio un’istantanea di una fotografia, rendiamo visibile tutto il quadro delle politiche di austerity. Il capitalismo da solo, tramite sfruttamento mondiale e finanziarizzazione, non regge la crescita intensiva del profitto. Bisogna quindi trovare il modo di lucrare ulteriormente. Eccoci alla punta della piramide. I subalterni, a questo punto del capitalismo, sono atomizzati, deprivati individualmente e collettivamente allo stesso tempo di ricchezza, diritti, dignità, identità; non solo non riconoscono i propri legami collettivi, ma non realizzano nemmeno la propria identità. Lo Stato, svuotato di senso dentro rapporti economici e sociali sempre più continentali, svolge ancora il ruolo di declinare le politiche di austerity entro un preciso spazio geografico, entro il territorio nazionale. Diventa così strumento del mercato per consentire nuovi sfruttamenti. È la ragion di stato asservita alla ragion economica. L’erosione della terra, del sottosuolo, la precarietà, l’intensificazione della produttività del lavoro, la proprietà privata che diviene monopolio di pochi, sono il terreno nuovo su cui misurare l’opposizione reale al capitalismo e la nuova composizione di soggettività sociale e politica. Perdere questa battaglia politica, innanzi tutto d’insediamento e di costruzione collettiva di soggettività, vuol dire essere destinati alla devastazione intera di vite e territori. Quello che avviene in Campania, rappresentato dalla parola biocidio, è paradigmatico delle conseguenze prodotte da un capitalismo che ha prima sfruttato i lavoratori nella sua forma più fordista possibile, poi ha speculato senza redistribuire ricchezze sul territorio e, una volta esaurite le ricchezze da espropriare al lavoro vivo, tale da aumentare crescita e guadagni, è passato alla devastazione del territorio, provocando danni ambientali e alla vita senza pari.


Come costruire identità dentro un processo così generale e complesso? Ricostruita la frammentazione sociale in questi decenni, la costruzione di nuove soggettività ha bisogno di tentare l’intentato, sapendo che, ad oggi, nessuno può aver alcuna risposta in tasca. Le soggettività sono irriconoscibili nella rappresentazione monolitica di ciò che abbiamo definito «�������������������������������������� ��������������������������������������� classe operaia» durante tutto il Novecento. Fondamentale è individuare le domande in grado di indicare la direzione su cui costruire un pezzo nuovo di pratica politica, pur conservando le buone esperienze. La costruzione di legami collettivi e politici può avvenire ancora soltanto dentro i luoghi del lavoro? Se la produttività investe tutto lo spazio e il tempo della vita, la prassi politica direttamente antagonista a questa forma di dominio vive solo di lotta attorno alle condizioni di lavoro? Se tutta la vita, nei suoi aspetti più intimi, è messa a produzione, bisogna ampliare il perimetro dell’azione politica, pubblica e collettiva? La sfida nel momento della perdita dei luoghi collettivi di lavoro, di massa, deve essere quella di ricostruire il filo dei bisogni collettivi che vivano su uno spazio più ampio di quello del semplice luogo di lavoro. Questo vuol dire misurarsi innanzi tutto sui bisogni materiali. Bisogna individuare i segmenti comuni, i minimi comun denominatori con cui costruire un rapporto nuovo. L’assenza di una casa, di un reddito, di servizi essenziali diventano i segmenti ampi su cui costruire strati sociali frammentati e ormai lontani e diversi tra loro, ma che vivono ugualmente la distanza da una giustizia sociale ad oggi irraggiungibile. Il rapporto, quindi, tra rivendicare e costruire bisogni si assottiglia. Il mutualismo e la cooperazione giocano in questo senso una partita nuova che, fuori dalla lotta necessaria e importante sui temi del lavoro, deve tendere non solo a risolvere il problema materiale, ma a mettere in rete soggetti che altrimenti sarebbero isolati perché in una condizione di lavoro e di sfruttamento completamente diversa l’una dall’altra. Non sarà dunque il reddito di cittadinanza a ricomporre la frammentazione sociale, ma tramite la lotta per il reddito potrà nascere un senso diffuso di un bisogno comune. Del resto la costruzione di coscienza, come ci insegna Marx, vive di condizione materiale. Ma se ogni forma di dominio rivela sempre il suo contrario, se la compressione dei corpi nello spazio comporta un’esplosione di questi nel tempo, allora i subalterni possono essere i soggetti direttamente opposti al capitalismo predatore d’esistenza. Se modi

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di produzione e forme di dominio sono i paradigmi della frammentazione e della liquidità, se all’apice del loro sviluppo ultimano il processo di atomizzazione, allora le soggettività che si determinano non possono essere più le stesse nel tempo. Occorre uno spazio in divenire che ricostruisca identità collettiva con diverse pratiche di composizione e costruzione. Interrogarsi da sinistra su questo vuol dire necessariamente rompere delle dicotomie e costruire una nuova sintesi di teorie e prassi: rottura della dicotomia ortodosso/eterodosso, marxista/femminista, sociale/politico. L’apertura alla valorizzazione delle identità, dentro la condizione di sfruttamento e alienazione, è la potenzialità della liberazione dei soggetti in forma complessiva, sia come classe, sia come donne, uomini, migranti, singolarità diverse, ma connesse tra di loro. Dentro questo quadro, e non senza di questo, possiamo leggere il processo della precarietà. Partire da qui vuol dire riconoscere l’erosione degli spazi di vita e messi a produzione, l’intimità delle esistenze come oggetto di controllo politico. La forma collettiva della subalternità non può più essere quella dell’organizzazione monolitica, com’era nel corso del ‘900. Se, da un lato, la sfida resta di ricomporre un soggetto politico in cui le diverse precarietà si autodeterminano, dall’altro bisogna indagare le potenzialità che emergono da tale frammentazione sociale. La condizione della donna, del migrante, il vivere una determinata condizione nel quartiere, l’assenza di tempo libero, di spazi nelle città, diventano forme diverse, ma necessarie per rappresentare la complessità che è in campo. Non è più sufficiente rappresentare un aspetto dell’umanità (quella immersa nel lavoro) e liberarla dalle condizioni di subordinazione in tale luogo. Bisogna aprirsi alla complessità che donne e uomini rappresentano: precarietà e singolarità. Bisogna chiudere un epilogo nostalgico, per troppo tempo trascinato, della centralità della classe operaia, e lavorare sulla composizione complessiva della soggettività. Se la liberazione non è più solo dai vincoli del lavoro, ma dai vincoli di dominio, se la ragione produttiva diventa la ragione di vita, bisogna sperimentare pratiche politiche nuove, che mantengano su un binario parallelo la materialità dei bisogni e la costruzione di identità e la realizzazione di desideri. Costruire politica, quindi, non solo sulle marginalità, ma anche sul-


le potenzialità. La potenzialità sta proprio in questo “retificare”; in questo mettere in rete identità che emergono dentro questo sistema: l’identità di genere, l’identità migrante, l’identità dentro la cittadinanza, dentro il quartiere. La teoria della differenza, lo studio di genere diventano fondamentali. Così come le culture migranti, le identità ibride possono essere importanti per indagare il rapporto che c’è tra la lotta per l’uscita dalle marginalità del soggetto migrante e le potenzialità di questi nel costruire una nuova società. Linguaggi, narrazione post-coloniale, pratiche politiche, creazione e valorizzazione delle identità, riappropriazione di ricchezza espropriata possono essere dei punti sostanziali di una risposta all’altezza di questa crisi. Del resto, se i subalterni sono i frammenti di uno specchio, marginalità non raccontate dalla storia fatta di dominatori, forse la risposta è proprio non solo ricostruire il nesso di una risposta collettiva, ma gli strumenti con cui le identità diventano valore sociale e non solo produttivo. Mettere in rete queste identità è la risposta vera sul piano dialettico e della pratica politica, è la risposta concreta radicalmente diversa dalle forme del potere omologante e divisorio. Assumere la prospettiva del racconto dalla parte dei dominati e non dei dominanti vuol dire rovesciare la storia per ribaltare il presente; questo processo, che inizia con l›ingresso delle masse nella storia dell’Ottocento, oggi è sicuramente il più bieco dei tentativi di acuire la piramide del potere economico e politico. Al tempo della fine della democrazia e dei diritti collettivi, l’espulsione che i potenti vogliono determinare non è solo dall’università, dai luoghi del lavoro, ma dalla storia. Bisogna rovesciare il tavolo della prospettiva per non finire in soffitta, nel dimenticatoio, per non destinare le nostre vite al controllo e allo sfruttamento, alla perdita di chi deve prendere voce per raccontare e riprendersi la propria vita. Nuove biografie per nuovi mondi.

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di Lorenzo Zamponi

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i crisi dei partiti si parla da almeno trent’anni. Il mondo è cambiato, la politica è cambiata, esistono tanti modi per partecipare alle decisioni collettive senza avere una tessera in tasca, e questa è stata ed è anche l’esperienza individuale di chi scrive. Allora perché la crisi dei partiti è un problema, per la sinistra, per i movimenti, per chi in generale è interessato al cambiamento? Non è questa la sede per un’approfondita rassegna della questione del partito da Lenin all’operaismo italiano passando attraverso Michels e la socialdemocrazia tedesca. Ma una cosa va detta: dal 1944 in poi, i partiti, nel sistema politico italiano, sono stati il principale strumento necessario a far partecipare masse di cittadini a un gioco, quello del parlamentarismo liberale, che era stato costruito per tenerli fuori. Attraverso i partiti, la partecipazione di massa organizzata dalla politica forzava le regole del gioco

Alexis Diaz, Londra

Forma partito e riforma della politica alla fine della Seconda Repubblica


senza farle saltare, salvaguardando il compromesso tra le forze antifasciste e le compatibilità della guerra fredda, ma allo stesso tempo fornendo ai cittadini degli strumenti reali attraverso cui determinare un cambiamento sulle politiche del governo, così come sull’economia o sull’amministrazione locale. Insomma, come recita l’art. 49 della Costituzione, «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Una crisi globale di rappresentanza e governabilità Questo meccanismo è saltato da tempo. E non solo in Italia. La crisi della democrazia rappresentativa è un dato ormai di assoluta evidenza, nell’Europa della troika. L’adozione delle politiche di austerity nell’eurozona, decisa a livello sovranazionale da organismi come la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale, ha accelerato e reso visibili al grande pubblico le tendenze di lungo periodo di «trasformazione verticale della democrazia» che si erano andate sviluppando negli ultimi decenni: «la denazionalizzazione delle interazioni sociali e gli evidenti limiti dell’azione unilaterale da parte di uno Stato; la svolta verso politiche regolatorie e l’integrazione verticale in spazi politici sovranazionali»1. «I recenti problemi nell’eurozona illustrano perfettamente questo punto: i governi degli Stati dell’Europa meridionale sono messi sotto pressione dai propri colleghi di altri Stati membri perché prendano le misure necessarie a salvare la moneta comune. […] Nel caso greco, il governo non solo ha ceduto alla pressione internazionale ed è stato sostituito da un governo tecnocratico nel 2011. Ma ha anche dovuto affrontare la troika – i rappresentanti di CE, BCE e FMI – presente per sincerarsi del fatto che le condizioni domestiche per il sostegno internazionale fossero davvero rispettate»2. È difficile comprendere la reazione popolare alla crisi e il diffuso sentimento anti-rappresentanza in settori della società tradizionalmente integrati in dinamiche moderate e liberal1 S. Lavenex, Globalization and the Vertical Challenge to Democracy, in H. Kriesi, S. Lavenex, F. Esser, J. Matthes, M. Buhlmann, D. Bochsler (a cura di), Democracy in the Age of Globalization and Mediatization, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2013, p. 93. 2 H. Kriesi, Conclusion: An Assessment of the State of Democracy Given the Challenges of Globalization and Mediatization, in H. Kriesi, S. Lavenex, F. Esser, J. Matthes, M. Buhlmann, D. Bochsler (a cura di), Democracy in the Age of Globalization and Mediatization, cit., p. 204.

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democratiche senza fare riferimento a questi processi come l’accelerazione di una tendenza di lungo periodo, in cui «i partiti sono passati da rappresentare gli interessi dei cittadini nei confronti dello Stato a rappresentare gli interessi dello Stato nei confronti dei cittadini»3 e «i governi si trovano ogni giorno di più vincolati da agenzie e istituzioni, e la serie di principi che obbligano i governi a comportarsi in un determinato modo e che definiscono i punti di riferimento della responsabilità si è enormemente ampliata»4. La crisi dei partiti e la crisi della democrazia rappresentativa coincidono, essendo stati i partiti di massa il principale strumento, nel XX secolo, attraverso il quale la partecipazione popolare poteva entrare nei meccanismi rappresentativi del parlamentarismo liberale, che non era di certo stato progettato per la democrazia e il suffragio universale. La funzione di mediazione tra rappresentanza della volontà popolare e governabilità che i partiti ricoprivano oggi è messa fortemente in discussione: «i vincoli all’attività di governo sono diventati molto più grandi, l’abilità di rispondere agli elettori è stata molto ridotta, e la capacità dei partiti di usare le proprie risorse politiche e organizzative per colmare o almeno gestire il conseguente gap è stata fortemente limitata. Le conseguenze per il sistema di governo rappresentativo saranno probabilmente molto gravi»5. Il caso italiano: la Seconda Repubblica tra bipolarismo e plebiscitarismo La crescente insufficienza dei partiti nel colmare la distanza tra le istituzioni rappresentative di governo e la partecipazione popolare è particolarmente accentuata nell’Italia della Seconda Repubblica. Ormai da vent’anni vediamo il susseguirsi di tentativi sempre più plebiscitari di reazione alla crisi del sistema dei partiti: leggi elettorali sempre più distorsive del voto popolare, formazioni politiche sempre più personalistiche, calo costante degli iscritti, scissioni e fusioni sempre più frequenti, proposte programmatiche sempre più tecniciste e post-politiche, nella speranza di forzare attraverso la popolarità trasversale di un leader, attraverso proposte in grado di solleticare paure universali o interessi particolari o attraverso il combinato disposto di premi di maggioranza e sbarramenti differenziati, la formazione di maggioranze parlamentari stabili. 3 P. Mair, Representative versus Responsible Government. MPIfG Working Paper 09/8. Max Planck Institute for the Study of Societies, Cologne 2009, p. 6. 4 Ivi, p. 14. 5 Ivi, p. 16.


Il fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica, per essere correttamente compreso, dev’essere interpretato alla luce della sua origine, e cioè del crollo del modello precedente: la democrazia dei partiti uscita dalla Resistenza e dalla Costituente. Un sistema che era già visibilmente pericolante, quando, tra il 1992 e il 1993, finì sotto i colpi di Tangentopoli e della riforma elettorale. La diagnosi fu effettuata, con una lucidità e una preveggenza che probabilmente superano le sue stesse intenzioni, da Enrico Berlinguer, nella celebre intervista concessa a Eugenio Scalfari nel 1981. Un testo divenuto famoso per la denuncia della questione morale e non, purtroppo, per quello che Lucio Magri ne Il sarto di Ulm definisce «lo spunto per un nuovo sviluppo della riflessione comunista sul tema della democrazia, sul binario di Marx e Gramsci»: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...»6. La sua analisi è talmente impietosa da rendere evidente il carattere debole e propagandistico della soluzione che propone, cioè la «diversità comunista». Un dato soggettivo sicuramente reale, fatto di buona amministrazione e passione militante, ma non certo sufficiente a resistere alla forza di un processo storico e strutturale come quello descritto da Berlinguer, cioè la professionalizzazione dei partiti come macchine per la gestione dell’esistente, privi di quel dato di partecipazione di massa che allo stesso tempo li vincolava nelle scelte e nei comportamenti e ne legittimava la centralità nella democrazia italiana. Oggi riesce quasi impossibile pensarlo, ma chi aveva bisogno di 6 Marziani o missionari?, «La Repubblica», 28 luglio 1981, http://goo.gl/JtjZpY.

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preferenze o di primarie, in un’epoca in cui il partito comunista aveva due milioni di iscritti e Dc e Psi stavano rispettivamente poco sopra e poco sotto il milione? Quella che Berlinguer identificava nel 1981 non era semplicemente una crisi etica, ma una crisi di legittimità e di forza: partiti svuotati e non più capaci di riempire il vuoto di partecipazione democratica che è connaturato alla rappresentanza parlamentare, interpretando correnti culturali e intrecciando bisogni sociali, fornendo all’individuo atomizzato della società occidentale strumenti cognitivi per comprendere la realtà e strumenti materiali per cambiarla. Nel 1981, Berlinguer stava denunciando la fine di quella fase, esattamente come, negli stessi mesi, constatava l’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. I partiti di massa, costruiti sull’Italia degli anni ‘40 e ‘50, non avevano resistito ai potenti cambiamenti prodotti dal boom economico degli anni ‘60, dalla rivoluzione culturale del ‘68 e dalla successiva crisi. Non erano più in grado di tenere insieme rappresentanti e rappresentati, amministrazione e cambiamento, e questo era tanto più grave per un partito come il Pci, che dagli anni ‘40 viveva nella costante tensione tra parlamentarismo e rivoluzione, sintetizzata nella difficile formula della “via italiana al socialismo”. Una situazione resa ancora più grave dalla disgregazione dei soggetti sociali dovuta alla ristrutturazione capitalista e dalla riduzione dei margini di manovra dei poteri pubblici in seguito al taglio dello stato sociale e all’egemonia del mercato. La questione morale, insomma, fin dall’epoca si poneva come una questione democratica: se i partiti non funzionavano più come pilastri della democrazia, che fare? Una domanda a cui il sistema politico italiano nella sua complessità non diede risposta per un intero decennio, autocondannandosi al suicidio collettivo del 1992-93. Allora, le scelte furono diverse: Dc e Psi si arroccarono nella strenua difesa del sistema dei partiti, considerando la corruzione un effetto collaterale inevitabile e denunciando la mancanza di alternative a quel sistema, pena la distruzione della rappresentanza democratica; il Pds, invece, scelse di cavalcare la tigre dell’americanizzazione, allineandosi alla battaglia contro il sistema dei partiti lanciata da Segni, dalla destra neofascista e dalla grande stampa. Maggioritario, bipartitismo e personalizzazione della politica come pilastri di un nuovo sistema di rappresentanza basato sull’alternanza, in cui il problema della partecipazione democratica è, semplicemente, rimosso. E fu questa linea a prevalere.


In questo modo, il male denunciato da Berlinguer fu curato con una dose più massiccia dello stesso veleno. E non solo in Italia, se prendiamo sul serio la tesi sui cartel party proposta nel 1995 dai politologi Richard Katz e Peter Mair7, che questo termine identificavano i sistemi di collusione e dipendenza dalle risorse statali attraverso i quali i partiti, nella democrazie avanzate dell’Europa occidentale, supplivano al declino di partecipazione e militanza. I nodi chiave identificati da Katz e Mair descrivono alla perfezione l’Italia degli ultimi trent’anni: compenetrazione crescente tra partito e Stato; collusione tra partiti; obiettivi politici che diventano talmente autoreferenziali, professionali e tecnocratici che la competizione politica si concentra solo sull’efficienza della gestione amministrativa; campagne elettorali costose, professionali e centralizzate; forte dipendenza dallo Stato per il finanziamento della politica e per benefit e privilegi; tentativo di supplire al calo degli iscritti attraverso strumenti come le primarie; spoliticizzazione di fondo della società. Da questo punto di vista, il dibattito tra i fautori di un modello bipartitico, maggioritario, personalistico e plebiscitario e i sostenitori dalla democrazia dei partiti e del proporzionale, che attraversa in varie forme la sinistra italiana ormai da 20 anni senza mai schiodarsi da queste due polarità (D’Alema contro Veltroni, Bersani contro Franceschini, Cuperlo contro Renzi), è privo di senso. Non è stata la crisi del 1992-93, con il corollario della riforma elettorale, a cancellare il sistema dei partiti di massa. La democrazia dei partiti in senso tradizionale era già finita all’inizio degli anni ‘80, e basta pensare a quanto Bettino Craxi possa essere facilmente considerato il modello politico di Silvio Berlusconi per capire come la seconda repubblica non sia stata altro che l’evoluzione diretta dell’ultima parte della prima, cioè degli anni ‘80. Insomma, chi rimpiange i partiti della prima repubblica sta in realtà rimpiangendo le stesse forze politiche che, a partire dagli anni ‘80, con la fine della partecipazione di massa, costruirono il sistema spoliticizzato e tecnocratico in cui ci troviamo ora.

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R. S. Katz, P. Mair, Changing Models of Party Organization and Party Democracy: the emergence of the cartel party, «Party Politics», Vol. 1, n. 1, 1995, pp. 5-31.

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L’alba della Terza Repubblica e il dibattito sul finanziamento pubblico A vent’anni dal crollo della Prima Repubblica e a trenta dalla denuncia di Berlinguer, non è cambiato praticamente nulla. I partiti sono ben lontani dall’aver recuperato il radicamento e la capacità rappresentativa degli anni ‘50 e ‘60, e si trovano, strutturalmente e irrevocabilmente, in una condizione di subalternità totale sia ai poteri economici (vedi governo tecnico), sia ai media (vedi caso Unipol), sia ai loro stessi signorotti (vedi casi di corruzione che si susseguono uno dopo l’altro, o vedi voto dei 101 contro Prodi). Il tentativo di Pierluigi Bersani e dei suoi sostenitori di restaurare un potere del partito nel campo del centrosinistra, emancipando il Pd dalla tutela di «Repubblica» che ne aveva pesantemente condizionato la nascita, è fallito esattamente come fallì la stessa operazione a Dc e Psi nel 1992: salvare i partiti come unico strumento di democrazia possibile, quando in realtà i partiti sono ridotti a macchine elettorali con poche decine di migliaia di iscritti e nessun radicamento reale. Una linea assolutamente inefficace di fronte all’offensiva che, con la scusa della corruzione e dei costi della politica, mira semplicemente ad abbattere il potere pubblico in quanto tale e quindi la possibilità di una gestione democratica della società e dell’economia, conquistando nuovi spazi all’autoritarismo del mercato. È in questo contesto che va inserita, per essere compresa, la questione del finanziamento pubblico ai partiti. Ovviamente chi scrive è lontanissimo dalla retorica antipartito di Beppe Grillo o dalla demagogia interessata dei liberisti alla Matteo Renzi, che attaccano il finanziamento pubblico per attaccare la democrazia organizzata e aprire la strada alla totale dipendenza della politica dal potere economico. Ma sostenere, come fa gran parte del centrosinistra, che il finanziamento pubblico sia necessario per mantenere i partiti autonomi dai grandi poteri economici, per disincentivare la corruzione e per impedire che siano i miliardari a farla da padrone in politica, è oltre i limiti del ridicolo, in un paese in cui, nonostante un ingente finanziamento pubblico ai partiti, la subalternità al potere economico è trasversale (vedi caso Cancellieri-Ligresti, ma anche la connessione tra gli ingenti finanziamenti versati dalla famiglia Riva a Pd e Pdl e le politiche messe in campo sull’Ilva di Taranto), la corruzione è tutt’altro che debellata e un miliardario domina la politica italiana da decenni. Insomma: esattamente come non si può, nella critica della Seconda


Repubblica, rimpiangere la Prima che la partorì, allo stesso modo è insensato difendere il finanziamento pubblico ai partiti in nome di obiettivi che, oggi, il finanziamento pubblico non raggiunge. Chi ha a veramente a cuore il rilancio di una stagione di partecipazione democratica dovrebbe avere il coraggio di riconoscere che, così com’è, il sistema dei partiti non ha il tasso di credibilità e legittimità necessari a giustificare un sostanzioso finanziamento pubblico, che oggi non limita né la corruzione né la subalternità ai poteri economici, bensì di fatto riempie i conti in banca di partiti in gran parte corrotti e subalterni ai poteri economici. Ciò non significa, chiaramente, che non ci si debba opporre alle campagne demagogiche contro il finanziamento pubblico condotte da miliardari come Beppe Grillo o amici di miliardari come Matteo Renzi. Ma farlo in nome del sistema dei partiti oggi esistente significa semplicemente andare incontro a una sconfitta inevitabile. Qualsiasi proposta in quest’ambito, dal finanziamento pubblico alla legge elettorale, passando per le riforme istituzionali o per eventuali processi ricostituenti a sinistra, deve basarsi su un progetto di radicale riforma dell’organizzazione politica. Per quanto sia malintenzionato chi vuole buttare a mare il sistema dei partiti, non si capisce cosa ci dovrebbe convincere a salvarlo così com’è. Se non si vuole che solo la demagogia plebiscitaria, autoritaria e reazionaria di Berlusconi o dei suoi epigoni genovesi o fiorentini resti in campo, bisogna che, da sinistra e dal basso, arrivi una proposta nuova. Un nuovo patto per la democrazia. La riscrittura di meccanismi e strumenti di partecipazione e organizzazione che siano in grado di mettere in campo un nuovo modello. I movimenti, il cambiamento e il problema del soggetto generale A trent’anni dalla denuncia di Enrico Berlinguer, il problema della rappresentanza democratica resta apertissimo, e i partiti sono, come allora, e forse più di allora, strumenti assolutamente insufficienti a rispondere alla diffusa e crescente domanda di partecipazione e di cambiamento. La Seconda Repubblica sta finendo con la stessa alternativa che chiuse la prima, quella tra la difesa del sistema dei partiti e il suo superamento in senso plebiscitario e anglosassone. La storia ha dimostrato l’insufficienza di entrambe queste prospettive, e sarebbe forse il caso di ripartire

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se non dalle risposte da Berlinguer, quantomeno dalle sue domande: come si esprime la partecipazione democratica sul piano sociale e su quello della rappresentanza politica, in una società complessa? Come possono i soggetti sociali, oggi articolati in maniera ben più frammentata e complessa di qualche decennio fa, trovare un’espressione all’interno e all’esterno del quadro politico parlamentare? Quali strumenti di organizzazione possono tenere insieme soggetti sociali e politici, partiti e movimenti, associazioni e collettivi, cooperazione e mutualismo, in coalizioni pragmatiche ed efficienti? Questioni come queste, per tornare alla domanda che ci ponevamo all’inizio, non riguardano solo i dirigenti e militanti dei partiti, ma anche e soprattutto chi fa politica in maniera diversa. Il tema del rapporto tra movimenti e partiti, tra conflitto e rappresentanza, non è affrontabile se non assumendolo come una tensione irrisolvibile tra due poli, all’interno della quale un sistema complesso di attori in relazione tra loro trova una propria configurazione fatta di avanzamenti, ripiegamenti, cooperazioni virtuose e devastanti rotture, tentando però di mantenere un quadro generale di compatibilità prodotto da un orizzonte comune e condiviso, quello del cambiamento di questo sistema sociale e politico. Oggi questo quadro di compatibilità e questo orizzonte, pur nella differenza dei percorsi, non esistono. Negli ultimi cinque anni i movimenti hanno evitato la questione, in parte con buone ragioni (l’effettiva delegittimazione della rappresentanza politica), in parte per opportunismo (criticare “la politica” nel suo complesso toglie molte castagne dal fuoco, tra le quali il difficile lavoro di discernimento tra il buono e il cattivo delle varie opzioni in campo, che può essere facilmente tacciato di collateralismo), in parte perché le strutture organizzate sono state superate su questo terreno da un sentimento diffuso nella società, e hanno assunto il paradigma del «non ci rappresenta nessuno». Intendiamoci: chi scrive ha strillato quello slogan più volte, nell’autunno del 2008, e non se ne vergogna assolutamente: dietro quelle parole ci sono, come si diceva prima, ottime ragioni. Il problema è che quel paradigma tiene insieme livelli di significato molto diversi: in parte, si riferiva alla ristrutturazione del quadro politico post-governo Prodi, con la virata verso un bipartitismo costruito sull’asse Berlusconi-Veltroni, che pretendeva di limitare il campo della rappresentanza a due sole opzioni, entrambe variazioni sullo stesso tema neoliberista, escludendo ogni proposta radicale o alternativa al sistema dominante; in parte, sottintendeva


un discorso più ampio sulla crisi della rappresentanza, sullo svuotamento di potere e di rappresentatività delle istituzioni della cosiddetta Seconda Repubblica, sulla necessità di assumere obiettivi nella società e in livelli politici diversi, come quello europeo; in parte, alludeva a un ragionamento di fondo, alla critica della delega e al bisogno di partecipazione diretta e senza intermediari che è patrimonio dei movimenti sociali almeno dagli anni ‘70, o addirittura alle proposte di democrazia partecipata di cui tanto si discuteva nei social forum dei primi anni 2000; in parte, riportava l’odio per le forme partitiche, che alcuni avrebbero voluto sostituire con un’autorappresentanza dei movimenti; in parte, testimoniava la critica contro “la casta” dei corrotti; in parte, era solo incazzatura; in parte, si proponeva di cambiare la politica ricostruendola su basi più democratiche e partecipate, ma senza mai mettersi seriamente a discutere di quali fossero queste basi, tanto da alimentare il sospetto per alcuni si trattasse solo di sostituirsi, in termini generazionali, alla “casta” per poter approfittare degli stessi privilegi; in parte, non si poneva proprio il problema di come costruire, in alcuni per gusto del nichilismo e del “deve bruciare tutto”, in altri per mancanza degli strumenti culturali necessari ad affrontare questo dibattito. Cavalcare l’onda della spoliticizzazione è più comodo che scovare nuovi e originali percorsi di ripoliticizzazione. E così abbiamo fatto finta di non vedere che per molti il grido “non ci rappresenta nessuno” era più vicino alle campagne contro gli indagati in parlamento che al rifiuto della delega e del parlamentarismo borghese. Chiaramente c’è una grossa differenza tra il «que se vayan todos» delle proteste argentine del 2001 e quello del V-Day di Beppe Grillo. Mettere ogni protesta contro il sistema politico sotto l’etichetta comoda di “populismo” o di “antipolitica” è un vecchio trucco ideologico dell’establishment per delegittimare la critica. Ma ciò non significa che fenomeni diversi non si muovano, in qualche modo, in un discorso comune, che il pesce della mobilitazione sociale e quello del plebiscitarismo grillino non abbiano nuotato nello stesso stagno, che le parti più organizzate e politicizzate dei movimenti non abbiano giocato in maniera cinica e opportunistica con quest’ambiguità e con quest’equivoco per anni, fingendo di non vedere cosa si muoveva intorno a loro, flirtando con la pericolosissima idea che vi fossero soluzioni semplici a portata di mano, una volta saltato il tappo della rivolta, tanto che ogni tentativo di provare a elaborare proposte alternative era bollato come “riformista”, come se l’elemento vertenziale non fosse

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costitutivo di ogni mobilitazione sociale che non voglia limitarsi all’evocazione di una redenzione messianica. Criticare la rappresentanza parlamentare e prendere atto della crisi dei partiti non può significare rinunciare alla costruzione di soggetti generali. E questa necessità non può essere ridotta alla questione della rappresentanza e al momento elettorale. Gli esperimenti di conversione parlamentarista dei movimenti, come quello predicato negli Usa da Micah White, uno dei promotori di Occupy Wall Street, sono probabilmente destinati a fallire. Essi sono però un segnale, per quanto confuso, del fatto che anche la street politics deve uscire dall’autoreferenzialità se non vuole soffocare. L’accelerazione delle dinamiche sociali impressa dalla crisi e i processi di politicizzazione e radicalizzazione di massa prodotti dalle mobilitazioni contro l’austerity, in alcuni paesi, hanno creato il contesto giusto per la sperimentazione di nuovi percorsi di contaminazione tra politico e sociale, che sappiano buttare l’acqua sporca del partito burocratico statalista salvando il bambino della capacità di tenere insieme pezzi diversi della società in un comune e coordinato progetto di cambiamento. In Italia, probabilmente, la situazione è molto più complessa e difficile. Ma da un certo punto di vista questo ci permette di ragionare con più libertà, almeno sul piano teorico, di come sia possibile ricostruire, nell’epoca della frammentazione assoluta, strumenti politici di aggregazione e ricomposizione. La strada è lunga, ma affrontarla è necessario. Il sistema di democrazia rappresentativa basata sui partiti che ha caratterizzato l’Europa nella seconda metà del ‘900 è in crisi da svariati decenni, così come la cosiddetta Seconda Repubblica in Italia sembra avvicinarsi alla fine. Per gestire una transizione di questo tipo, a prescindere dall’esito, c’è bisogno di soggetti politici generali, indipendenti e radicati nella società. Serve una riforma della politica che sappia assumere l’analisi della fase che abbiamo vissuto e impostare nuovi percorsi su basi diverse, all’altezza dei tempi e delle sfide che abbiamo di fronte. Ragionare sulle forme dell’organizzazione politica, sui modelli di finanziamento dell’attività militante, sul rapporto tra professionalizzazione e burocratizzazione, tra partecipazione e accountability, tra radicalità e radicamento, è un’impresa non più rimandabile.


Banksy

Il sindacato del futuro: dialogo tra un precario e tre sindacalisti in movimento

di Lorenzo Zamponi

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a crisi di fiducia, di credibilità e di efficacia che minaccia oggi la rappresentanza politica non risparmia certo quella sociale. Se la fiducia nei partiti, secondo i sondaggi, è ormai a percentuali da prefisso telefonico, quella nei confronti dei sindacati non supera un terzo della popolazione. E alcuni dei fenomeni politici di maggiore successo degli ultimi messi, da Beppe Grillo a Matteo Renzi, hanno fatto della demagogia antisindacale un punto di forza della loro retorica. Ma anche all’interno dello stesso mondo sindacale non manca l’autocritica: l’8 novembre scorso, il segretario generale della FiomCgil Maurizio Landini ha ammesso apertamente in un’intervista a «La Repubblica» che «il sindacato è in grande difficoltà e se

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vuole avere un futuro deve cominciare a fare i conti con il fatto che si trova all’interno di una profonda crisi di rappresentanza», riferendosi in particolare ai «milioni di precari, giovani ma non solo, che non vedono nelle organizzazioni sindacali un soggetto che li possa rappresentare».1 Nel tentativo di uscire dalla retorica e dalle semplificazioni, e iniziare invece ad affrontare seriamente il nodo della ricostruzione della rappresentanza sindacale, a partire dall’esperienza concreta dei luoghi di lavoro, ci siamo rivolti a tre giovani sindacalisti, che hanno partecipato al progetto dei Quaderni Corsari sin dalla sua nascita, approdati, attraverso un percorso di militanza e attivismo nei movimenti sociali, a esperienze di rappresentanza in settori molto diversi del mondo del lavoro italiano: l’agroalimentare (settore primario), l’industria dell’auto (secondario) e l’università (terziario). Quella che segue è la sintesi di un lungo dialogo tra il sottoscritto, dottorando di ricerca, quindi precario per definizione, e tre sindacalisti “anomali”: Michele De Palma, ex coordinatore nazionale dei Giovani Comunisti, protagonista delle mobilitazioni iniziate con il G8 di Genova del 2001, e ora coordinatore nazionale Fiat-auto della Fiom; Roberto Iovino, ex coordinatore nazionale dell’Unione degli Studenti e portavoce nazionale della Rete della Conoscenza, attivista antimafia con Libera e ora membro dell’Ufficio Legalità e Sicurezza della Cgil nazionale e collaboratore della Flai-Cgil (Federazione Lavoratori dell’Agroindustria); Fabio Ingrosso, tra i fondatori di Link-Coordinamento Universitario e tra i protagonisti delle mobilitazioni studentesche tra il 2008 e il 2011 alla Sapienza, ora segretario dell’Flc-Cgil (Federazione Lavoratori della Conoscenza) Roma Est e componente del coordinamento nazionale precari dell’Flc. Zamponi: Iniziamo da una considerazione generale. In Italia oggi c’è un partito che ha preso il 25% dei voti, è il primo partito tra studenti, disoccupati e operai, e sostiene che il sindacato andrebbe chiuso. Com’è possibile? Qual è in questo momento la situazione della rappresentanza del mondo del lavoro in Italia, e perché secondo voi c’è un sentimento di questo tipo, anche in fasce non certo lontane da quelle che il sindacato rappresenta? 1 Landini: “Il sindacato è morto se non cambia, grave crisi di rappresentanza”, «La Repubblica», 8 novembre 2013, http://goo.gl/UQEnSl.


De Palma: Più che dalle opinioni di leader politici e di formazioni politiche sul tema del tiro al piccione sul sindacato – un tema su cui credo ultimamente ci sia anche una discreta concorrenza, da Beppe Grillo arrivando a Matteo Renzi – penso sia il caso di partire dalla crisi di legittimazione della rappresentanza, che è in atto, e che riguarda tutti: organizzazioni politiche, sindacali e di rappresentanza del mondo dell’impresa. È il sistema della rappresentanza uscita dal ’900 che è in discussione in questo momento. Ed è in atto un tentativo di instaurare un meccanismo di legittimazione reciproca tra le organizzazioni: a fronte della scelta di Fiat – uno dei maggiori gruppi privati nazionali – di uscire da Confindustria e di fare un proprio contratto nazionale, Confindustria tende a costruire con i sindacati delle intese che poi, nella pratica sindacale, le stesse imprese ad essa associate non rispettano. La stessa cosa accade per le organizzazioni sindacali. All’Ilva di Taranto – uno degli stabilimenti al centro della vita nazionale – nonostante l’accordo siglato dalle organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil preveda una rappresentanza proporzionale tra tutti, Fim-Cisl e Uilm hanno aperto le procedure di elezione della rappresentanza sindacale Rsu conservando per se stesse un terzo della rappresentanza, in virtù dell’accordo firmato con Federmeccanica sul contratto nazionale: di fronte alla perdita di rappresentatività si punta a perimetrare la rappresentanza. In Italia ciclicamente si pone il problema della rappresentatività delle organizzazioni sindacali. Ciò che mi stupisce è che nessuno si chieda quanto rappresentino in questo momento le organizzazioni datoriali, visto che stiamo assistendo a una frammentazione della rappresentanza nel mondo delle imprese, con un proliferare di nuove organizzazioni dopo l’uscita di Fiat da Confindustria. Credo che in questo momento il problema sia quello della democrazia, cioè del rapporto tra le organizzazioni e la propria base di riferimento. L’unico sistema che ripristina un elemento reale nel complesso delle relazioni sindacali legittime è quello democratico – una testa, un voto – senza il quale facciamo tutti una brutta fine, e anche noi sindacalisti veniamo percepiti come una casta. Iovino: È difficile ragionare di questo tema se non apriamo una parentesi su quello che è successo negli ultimi 20-30 anni nel mondo

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del lavoro: c’è stato un percorso di graduale frammentazione anche delle identità di lavoro e poi, di conseguenza, anche dei contratti, e la crisi di legittimità del sindacato nasce in primo luogo perché il sindacato è lo specchio del mondo del lavoro. Nel momento in cui si rompe la dimensione unitaria, attraverso l’attacco alla contrattazione sul piano nazionale e all’introduzione di nuove forme, ormai prevalenti, di lavoro precario, è difficile, ma non impossibile, dare una dimensione di rappresentatività unitaria del mondo del lavoro che dia forza e legittimità al sindacato. Quindi, a mio parere, il primo tema è che il sindacato paga un processo ventennale di trasformazione del mercato del lavoro che l’ha visto di fatto impreparato: a questi cambiamenti il sindacato ha spesso reagito in modo quasi conservatore, non ponendosi il problema che l’esistenza di nuovi contratti – che non sono oggetto di contrattazione collettiva – indebolisce molto la capacità di essere pienamente rappresentativi del mondo del lavoro. Paradossalmente c’è stata la difesa di presìdi storici oggi comunque messi in discussione – la grande unità della fabbrica, la grande unità aggregativa dell’ufficio pubblico. Si tratta di presìdi che però diventano sempre più deboli perché emergono sempre più fattori di ribassabilità del costo del lavoro (dumping contrattuale) attraverso l’introduzione di contratti non collettivi, quali tutti i contratti di parasubordinazione. Allo stesso tempo, nei grandi siti industriali, non è da sottovalutare l’impiego sempre maggiore di contratti sostitutivi del contratto di categoria, che rompono la coesione dei lavoratori nell’unità produttiva. Un esempio è rappresentato dall’utilizzo distorto dei contratti di cooperazione, di servizi, di subappalto e dall’utilizzo della somministrazione sostitutiva del lavoro subordinato. Questa frantumazione del mercato del lavoro ha indebolito il sindacato. Non perché di per sé la frantumazione indebolisca il sindacato, ma perché quest’ultimo non si è organizzato adeguatamente e non è riuscito a dare una risposta ad un bisogno di rappresentanza di un mondo del lavoro in continua evoluzione. Di conseguenza, prende sempre più piede sempre più un’idea – a mio parere sbagliata, e che stiamo provando a contrastare – di sindacato di servizi, utile agli occhi del lavoratore solo quando c’è un problema, una vertenza collettiva o individuale, un pericolo di


esubero, una cassa integrazione. Il sindacato viene quindi visto comunque come uno strumento di tutela, ma non come un veicolo di emancipazione collettiva all’interno di un contesto unitario come il mondo del lavoro dovrebbe essere. Anche in un settore come quello dell’agroindustria e dell’agricoltura, che paga di meno la crisi di domanda interna e legata all’export, si diffondono sempre più forme di dumping contrattuale a causa dell’introduzione dei nuovi contratti che, di fatto, rischiano di introdurre nuove forme di sfruttamento e sottosalario. In questo senso stiamo provando, attraverso una strategia di reinsediamento sindacale, a ricondurre a unità e a ricostruire un elemento di solidarietà tra chi storicamente ha dei presìdi sindacali organizzati e oggetto di contrattazione, e chi invece – lavoro sommerso, sfruttato, invisibile (quest’ultimo concetto estendibile a tante categorie di lavoratori) – non riesce ad accedere a diritti e tutele costituzionalmente sanciti. Quando il sindacato prova a dare queste risposte, riesce a smontare il teorema propagandistico secondo cui i corpi intermedi sarebbero inutili. In questo contesto il tema della democrazia, posto in precedenza, si rivela fondamentale, perché configura il sindacato come uno strumento – e non un fine – di partecipazione, di organizzazione e di contrattazione, in grado di cambiare e di migliorare realmente le condizioni dei lavoratori. Solidarietà e democrazia sono i due elementi su cui il sindacato si gioca i prossimi vent’anni, il suo futuro prossimo: se non si riesce a ricondurre a solidarietà il rapporto tra lavoratori, attraverso un percorso partecipativo e di democrazia, il sindacato rischierà di essere sempre più marginale, non solo sul piano della contrattazione ma anche per quanto riguarda la capacità di rappresentare realmente le istanze dei lavoratori e delle lavoratrici. Ingrosso: Io credo ci siano tre temi: la rappresentatività, quanto rappresenta il sindacato, e chi rappresenta il sindacato. Questi tre temi si sono sviluppati in modo anomalo non sempre e solo per colpa del sindacato, ma anche per come è mutato il mercato del lavoro. Ad esempio, nel sindacato si sente spesso dire che bisogna «ripartire dai luoghi di lavoro»; spesso e volentieri ci si trova però a rispondere: «ma quali sono questi luoghi di lavoro?».

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Al di là dei grandi aggregati, oggi la frantumazione non è solo delle forme contrattuali, ma degli stessi luoghi di lavoro: le stesse filiere sono frantumate e non si capisce più dove siano e cosa facciano gli stessi lavoratori. E questo si collega con la seconda questione, cioè quanto rappresenta oggi il sindacato. Oggi, se penso ai luoghi in cui opero, come le università o gli enti di ricerca, do per scontato che oltre il 50 per cento dei lavoratori, tra ricercatori e personale tecnico-amministrativo, non è a tempo indeterminato, quindi non partecipa all’Rsu e, di conseguenza, non è rappresentato, non ha possibilità di eleggere, di discutere, di agire. Lo stesso si può dire della scuola: non partecipano all’Rsu tutti i supplenti, tutti gli insegnanti chiamati annualmente. L’ultima questione è il chi si rappresenta. In questi anni il sindacato ha faticato a dare risposta a una parte della nuova popolazione lavoratrice. Con la consulta delle professioni, la Cgil sta ultimamente iniziando a dare le prime risposte sulle partite Iva. Ma il tema che oggi si pone non è solo la forma contrattuale: i nuovi lavoratori hanno spesso un’alta mobilità, ovvero fanno due o tre lavori contemporaneamente o cambiano continuamente settore, quindi per ognuno è necessario identificare l’attività primaria, l’interesse specifico di rappresentanza, e le modalità con cui ricostruire un processo di sindacalizzazione all’interno dei luoghi di lavoro. De Palma: Mi aggancio al tema della scomposizione. Nel corso di questi anni abbiamo assistito a una scomposizione dei luoghi di lavoro, ed è mancata da parte nostra, ovvero da parte del sindacato, una rilettura del tema della catena del lavoro. Ci siamo trovati per anni a inseguire, e l’esperienza del Nidil Cgil è paradigmatica da questo punto di vista: mentre il capitale scomponeva, noi ci trovavamo a inventare cose come “le nuove identità del lavoro”, per tentare di riaggregare. Ma il problema è che se non si hanno un tempo e uno spazio, ovvero se non c’è la fisicità del rapporto tra quei lavoratrici e lavoratori, è chiaro che non si è in grado di metterli insieme per aprire una contrattazione. In questa fase, oggi, c’è un cambiamento ulteriore: il sistema industriale – a 360 gradi, dall’immateriale al materiale – è sostanzialmente espiantato dal Paese. C’è una ridefinizione della filiera produttiva e della catena del valore in Europa, una riorganizzazione su base europea della produzione, in


cui l’Italia sta pagando a mio parere il prezzo più alto. Tutto il settore manifatturiero rischia di saltare, dalla trasformazione dell’agroalimentare al chimico, passando per il metalmeccanico. La prima cosa che il sindacato dovrebbe dire ai lavoratori è che va creata nuova occupazione e va mantenuta quella che c’è. Per poterlo fare è necessario uno sciopero generale che stabilisca un punto: il sindacato discute con Confindustria delle politiche utili a stabilire un sistema di relazioni, ma a una condizione preliminare, vale a dire il mantenimento in Italia del sistema industriale. Altrimenti, oggi saremo sempre e comunque sotto il ricatto della delocalizzazione. Oggi, negli stabilimenti che visito per fare assemblee, la maggior parte dei lavoratori sono in cassa integrazione e, quindi, sono fuori dallo stabilimento. Li incontro, ma per fare cosa? Per chiedere sei mesi di proroga della cassa in deroga? Qual è la prospettiva, e perché quei lavoratori dovrebbero ascoltarmi? Da parte loro c’è la paura di perdere definitivamente il loro posto di lavoro. La seconda questione è parlare a quelli che un lavoro non ce l’hanno. I dati attuali mostrano una disoccupazione giovanile più alta che mai. Con quel mondo rischiamo di non poter più dialogare, almeno fino a quando in uno sciopero generale ci limiteremo a chiedere di recuperare uno sconto fiscale per chi un rapporto di lavoro ce l’ha – sconto fiscale che, tra l’altro, ammonta a soli 10 euro lordi, come rivelano Banca d’Italia e Istat, e non a 14 euro, come aveva affermato Letta. Dobbiamo provare a ripartire prima di tutto dal mantenimento dell’occupazione, e ragionare di strumenti utili in questo senso, come la riduzione dell’orario di lavoro, e poi parlare con chi è inoccupato. Purtroppo non è con la contrattazione che si risolve il problema della condizione giovanile, perché i giovani non hanno né un contratto né un lavoro. Quindi la questione è: come sottrarli al ricatto? Uno strumento, e sarà oggetto di discussione più ampia, è lo strumento di un reddito. Che lo si chiami reddito di base o reddito minimo, l’importante è che uno strumento di questo tipo ci sia, perché è nella fase della vertenza che si possono avvicinare all’organizzazione sindacale quelle ragazze e quei ragazzi inoccupati e quei disoccupati che oggi sono fuori dal perimetro

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della vertenzialità. Se il sindacato oggi non riparte da questi elementi, finirà, come dice Roberto, a fare il sindacato dei servizi. E in questo c’è qualcuno bravo, che ha costruito delle connection, come la Cisl che in questi ultimi anni – l’ha scritto recentemente «Il Fatto Quotidiano»� – ha messo in piedi un sistema di rendita sul piccolo impiego in particolare, e che intende fare lo stesso anche nel settore privato, con gli enti bilaterali. A mio parere, anche quel modello non è destinato a reggere, in una fase di crisi, perché ci sarà sempre qualcuno in grado di sostituire il sindacato nell’offerta di servizi, in particolare nel privato. Credo piuttosto si debba provare a lavorare in senso contrario rispetto alla frammentazione, cercando di accorpare una situazione contrattuale troppo disgregata. Nello stesso luogo di lavoro abbiamo oggi contratti di tipo diverso, dalla cooperativa all’interinale al tempo indeterminato, mentre dovremmo avere grandi contratti, come nel sistema tedesco, che costringono le organizzazioni sindacali ad essere vincolate a un rapporto democratico con le proprie iscritte e i propri iscritti. La Fim, lo riportava Il Sole 24 Ore2, ha recentemente organizzato un convegno con le più grandi multinazionali presenti sul territorio, in cui ha posto il problema della cosiddetta cogestione. Huber, segretario del sindacato dei metalmeccanici tedeschi, IG Metall, ha affermato che la cogestione è stata possibile in Germania alla luce della presenza di aziende dai duemila dipendenti in su, e che nelle aziende sotto i duemila dipendenti tale sistema non esiste. Non ha perciò senso illudersi che in Italia, con un sistema d’impresa così frammentato, il problema del lavoro e del futuro dell’industria si possa risolvere attraverso il sistema della cogestione. Iovino: Va detto anche che in Germania ciò è possibile perché c’è un peso reale dei lavoratori in termini di democrazia. C’è un’unità sindacale che non è basata sulle sigle ma sulla volontà dei lavoratori. Ben altro rispetto a ciò a cui siamo abituati noi. Rispetto al tema della propaganda contro il sindacato, vorrei capire quali sono le politiche a favore dei lavoratori che mettono in campo coloro che portano avanti questi attacchi alle organizzazioni 2 G. Pogliotti, Partecipazione all’impresa, governo pronto al decreto. «Il Sole 24 Ore», 31 ottobre 2013, http://goo.gl/3qOGDe


sindacali: qual è la proposta politica di chi dice che il sindacato non serve più? A mio modo di vedere, è intollerabile che da un lato si dica «il sindacato ha smesso di avere una funzione, è uno strumento conservativo» – si veda tutta la propaganda di questo tipo, da Renzi a Grillo, per non parlare della campagna ventennale del centrodestra su questo tema – mentre dall’altro lato gli stessi soggetti da vent’anni mettono in campo politiche di fatto contrarie ai lavoratori, come l’articolo 8 del 2011 sulla deroga ai contratti collettivi nazionali3. Il Movimento 5 Stelle introduce in forma di spot degli elementi di novità, come il tema del reddito, ma poi ignora la questione del superamento della precarietà. Non ci si pone il problema di ridefinire una nuova strategia di insediamento industriale per creare nuova occupazione. In sostanza non c’è neanche una dinamica di scambio, per cui si propone di aumentare l’occupazione e, contestualmente, di diminuire il potere contrattuale del sindacato. Niente di tutto ciò, a dimostrazione che si tratta solo di una campagna ideologica nell’interesse esclusivo del profitto delle imprese e, su scala più ampia, delle multinazionali. Sono idee a mio parere intollerabili: in quest’ottica i lavoratori diventano non solo merce, ma anche mero oggetto di propaganda e speculazione politica. Zamponi: Soffermiamoci un attimo sul tema della rappresentanza politica del lavoro. Roberto giustamente si chiedeva quale fosse il modello proposto da chi attacca il sindacato. Nei dibattiti parlamentari, deputati e senatori grillini intervengono spessissimo con interrogazioni su crisi aziendali in determinati territori – lo stesso modello portato avanti dalla Lega per vent’anni e dalla Democrazia Cristiana nei precedenti quaranta, con il deputato del territorio che denuncia in parlamento la chiusura dell’azienda stracciandosi le vesti, con la speranza che lo Stato ci metta i soldi, in termini di cassa integrazione. Insomma: una logica localistica e clientelare, che interpreta la politica come un modo di portare a casa interventi di natura beceramente assistenziale, per tutelarsi dal punto di vista elettorale, mentre il tema del futuro del lavoro viene ignorato. C’è un’alternativa di rappresentanza politica del mondo del lavoro a questa, in cui ognuno si limita a 3 Art. 8 Legge 148/2011, http://goo.gl/UsZtJ0

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portare a casa i soldi per il collegio e, di fatto, a monetizzare la deindustrializzazione? Ingrosso: Come giustamente facevi notare, tutto questo non è una novità. Il meccanismo fiduciario tra un deputato o un senatore e le aziende del territorio si è involuto notevolmente dai tempi della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista ad oggi. Nel tempo quel rapporto è peggiorato, perché oggi il massimo che i partiti fanno è l’interrogazione parlamentare, o farsi riprendere dalla web tv con la magliettina dell’azienda occupata, per dimostrare su Twitter o su Facebook che sono stati lì, mentre prima magari si faceva anche qualcosa di più serio o, comunque, si doveva sicuramente dare maggior conto all’elettorato locale. Il problema di fondo, a mio parere, è che il sistema dei partiti, in Italia, ha smesso di riflettere sul tema del lavoro. La politica industriale in questo paese non esiste più, e non è vero che è così anche in altre parti d’Europa. Purtroppo in Italia troppo spesso assistiamo a un dibattito sul mercato del lavoro polarizzato intorno ad alcuni grandi temi – come l’articolo 18 – e ignoriamo tanti problemi altrettanto rilevanti. Da Treu in poi abbiamo assistito a uno smantellamento totale di tutti i diritti e di ciò che è rimasto della legge 300 del 1970. È in atto dagli anni ’90 un processo disintegrativo di tutte le conquiste degli anni ’70. Mentre discutevamo dell’articolo 18, le nuove forme di indennità di disoccupazione, Aspi e mini Aspi, escludevano gran parte dei lavoratori italiani. Negli stessi anni scomparivano ferie, malattia e diritti di cittadinanza derivanti dal lavoro. Il welfare è stato smantellato, la precarietà è diventata la forma primaria con cui si sta nel mercato del lavoro. E oggi chi osa parlare di Pacchetto Treu o di Legge Biagi fa la figura del nostalgico arroccato su ragionamenti vecchi. I punti sono due. Da una parte c’è il fronte della comunicazione di massa, dove è più facile esprimersi per slogan che entrare nel merito delle questioni – e questo, in particolare, nel contesto di frantumazione dei luoghi di lavoro che abbiamo già descritto, ci mette automaticamente in condizione di svantaggio, vista la difficoltà di ricostruire un terreno di lotta comune. È complesso analizzare tecnicamente tutte le tipologie contrattuali, trovare una sintesi tra le varie problematiche, assumere in termini generali e confederali le battaglie irrinunciabili. Gli slogan alla Beppe Grillo o


alla Matteo Renzi sono sicuramente più facili. Dall’altra parte, c’è il fronte politico, perché gli stessi cittadini che dicono che «il sindacato deve chiudere», dicono anche che «i politici devono morire». È evidente che c’è un problema generale legato alla rappresentanza, che va affrontato nel suo complesso senza pensare, però, che con le generalizzazioni si vince. Assumere il dato che i corpi intermedi oggi non servono più a nulla o devono essere dei comitati elettorali di questo o quell’altro partito comporterebbe la messa in seria discussione del funzionamento stesso del modello democratico vissuto fino ad oggi. Iovino: Provo a rispondere con un esempio concreto. Noi abbiamo stimato che nel settore dell’agricoltura ci sono circa 400 mila stranieri, comunitari ed extracomunitari impiegati in modo irregolare – lavoratori in nero o in grigio. Con un semplice calcolo è possibile quantificare in circa 600 milioni il danno erariale dovuto all’intermediazione illecita dei caporali, a cui va aggiunto il mancato gettito fiscale dovuto all’impiego irregolare di manodopera. C’è mai stata una forza politica che abbia riflettuto sul fatto che questi 400 mila lavoratori – uomini e donne pagati dai nostri imprenditori con salari paraschiavistici (circa 3 euro l’ora!) – porterebbero un grandissimo vantaggio in termini di competitività per le imprese italiane, per non parlare del maggiore gettito fiscale che la loro regolarizzazione potrebbe assicurare? Oppure abbiamo sentito solo una retorica securitaria per cui lo straniero è un pericolo da combattere? Nel momento in cui lo straniero diventa esclusivamente un pericolo, mentre in realtà non è così perché in agricoltura c’è bisogno di manodopera, la politica (e, soprattutto, la sinistra) avrebbe il compito di organizzare un discorso pubblico legato al contrasto di ogni forma di populismo, un contrasto in senso alternativo a quello che è stato il pensiero unico degli ultimi decenni, fortemente restrittivo dei diritti di cittadinanza e del lavoro. Questo esempio per dire che quello che manca realmente è un’alternativa al pensiero unico populista e di destra, che ha contaminato negli ultimi decenni anche chi, storicamente, aveva l’ambizione di rappresentare le istanze del mondo del lavoro. Nel momento in cui la politica smette di avere questa funzione, cioè quella di avere una visione complessiva del mondo e di combattere

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le ingiustizie, allora è evidente che qualcosa non va. Quello che è successo in termini di espressione di voto negli ultimi anni, a mio parere, lo dimostra. La politica è diventata e ridiventata sempre più (forse non ha mai spesso di esserlo) un presidio fortemente clientelare. E negli ultimi anni il clientelismo si sta ulteriormente imbastardendo, perché quando si cura solo il proprio orticello, il proprio interesse particolare, senza una visione d’insieme, si fa solo propaganda. Tutto questo discorso per sottolineare quanto profonda sia ormai la distanza tra politica, società e mondo del lavoro. Per colmarla sarebbe necessaria la forza di un’idea complessiva del mondo, ma non mi pare che ciò non sia all’ordine del giorno della discussione politica che abbiamo davanti. De Palma: Dobbiamo dirci onestamente che sul piano politico, culturale e sociale, la sinistra in Italia non c’è più. Non c’è più un punto di vista autonomo che può confrontarsi senza subalternità e senza dipendenza nei confronti delle controparti. La prima variante che si può aprire nell’arco parlamentare è il grillismo, per certi versi un paracorporativismo: si costruisce il rapporto con questo o quel delegato, lavoratore, situazione di fabbrica, poi si va in parlamento e si fa una sparata, che però non si colloca all’interno di un ragionamento, un criterio, un punto di vista. L’altra variante, nel campo del centrosinistra, è la testimonianza, da Sinistra Ecologia Libertà alle formazioni che oggi sono fuori dal parlamento, o la subalternità manifesta al punto di vista delle controparti, espressa dal Partito Democratico. Un punto di vista alternativo è quello che permetterebbe di giungere a una contrattazione, a una mediazione; ma è sparito il punto di vista della sinistra, basato sulla democrazia e sul lavoro. E poi c’è il tema dell’Europa. Ho la sensazione che nel nostro popolo, cioè il popolo di chi lavora, l’Europa sia diventata un’antagonista, e questo comporta il rischio di un netto spostamento a destra di questo popolo e di un imbarbarimento delle relazioni sociali. Proprio per questo il ruolo del sindacato, in particolare della Cgil, in questa fase è fondamentale. Per quante critiche si possano muovergli, il sindacato resta l’unico soggetto in grado di presidiare uno spazio di resistenza e di costruzione di un’alternativa basata


su democrazia, lavoro ed Europa. Del resto nella tradizione europea spesso è capitato che dal fronte sindacale siano venute le svolte anche nei partiti di tradizione socialdemocratica o laburista. In questo momento in Inghilterra il nuovo segretario del Partito laburista viene da un’esperienza sindacale, e oggettivamente ha delle idee che hanno aperto una nuova discussione in Inghilterra rispetto alle posizioni tradizionali del blairismo e dei suoi cascami. Per ripartire, serve l’incontro tra la componente precaria, non rappresentata, che era in piazza il 19 ottobre, e il mondo del lavoro organizzato. Altrimenti non penso ci possa essere una sinistra o comunque una forza politica che rappresenta o si pone il problema di rappresentare efficacemente la condizione del lavoro e del non lavoro. Il punto è che in questo momento la politica non si pone affatto il problema: basta guardare le cronache dei giornali. È impressionante: mentre in parlamento si discute del voto palese o segreto su Berlusconi, ci rivolgiamo al Ministero dello Sviluppo Economico per le crisi industriali, ci presentiamo al tavolo, e l’unica cosa che il Ministero è in grado di dirci è che forse potrà ottenere altri sei mesi di cassa integrazione in deroga fino alla cessazione dell’attività dello stabilimento. Iovino: Una nota d’attualità rispetto all’ultimo anno. La Cgil, attraverso il Piano del lavoro4, ha proposto alle forze politiche prima delle elezioni una discussione pubblica sulla creazione di nuova e buona occupazione in tempi di crisi. Quello era uno sforzo che andava nella direzione di cui parlava Michele, cioè dare un contributo di merito anche a una crisi di analisi, in cui oggettivamente versano gran parte delle forze di sinistra in Italia. L’errore è stato confidare nel fatto che ci sarebbe stato un cambio di fase, cioè che il Paese sarebbe uscito dal periodo delle larghe intese, dal governo Monti, con un “governo di cambiamento” capace anche di interpretare alcune intuizioni presenti all’interno di quel Piano del lavoro: un approccio timido, che non teneva conto della necessità del sindacato di ritrovare forza nella sua indipendenza dalla politica. Assistiamo sempre di più a un nuovo conflitto tra capitale e lavoro (forse più del capitale nei confronti del lavoro che viceversa): 4 Presentato a gennaio 2013: http://goo.gl/41czXX

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questo resta per me un elemento qualificante, che si esprime in modo diverso rispetto a come l’abbiamo conosciuto nel secolo scorso, ma che è di stretta attualità rispetto a quello che vediamo e facciamo nelle aziende. Secondo la gran parte dei rappresentanti politici, invece, questo è un tema superato, e questo punto di vista racconta un grande limite nella capacità di leggere i processi economici e sociali, qualità imprescindibile per chi è impegnato in politica. Zamponi: Torniamo al tema della rappresentatività. Quali sono gli strumenti per questo processo di reinsediamento sindacale? Mi riferisco sia agli strumenti concreti, operativi, all’interno dei luoghi di lavoro, sia alle proposte politiche che possano facilitare questa ricomposizione, come ad esempio la questione del welfare. Ingrosso: Alla Sapienza due anni fa abbiamo aperto uno sportello dedicato ai precari, per la prima volta, in un luogo di lavoro in cui di fronte a ottomila lavoratori a tempo indeterminato ce ne sono altrettanti precari, tra parasubordinati, autonomi e a tempo determinato. È stato un primo esperimento sicuramente utile, ma senza dubbio parziale da tanti punti di vista. La domanda che fai non ha secondo me una risposta univoca né completa. Intanto c’è il tema degli strumenti: oggi molti lavoratori non hanno gli strumenti di agibilità sindacale classici, come i permessi, tramite cui banalmente è possibile riunirsi, vedersi, discutere. È troppo facile dire che questi diritti dovrebbero essere di tutti, ma nel frattempo dobbiamo organizzarci. È un dovere del sindacato. Come si fa? Nelle forme più svariate, in base ai luoghi di lavoro, in base alle condizioni. Ad esempio l’organizzazione delle camere del lavoro, delle sedi sindacali, della stampa sindacale oggi deve mutare. Spesso e volentieri le sedi non possono più assurgere al ruolo di prima, ma deve essere il sindacato ad andare dal lavoratore, anche perché spesso il lavoratore non ha più neanche un luogo di lavoro ben preciso. Oltre agli spazi, poi, cambiano anche i tempi: capita e capiterà sempre più spesso di tenere, nello stesso luogo, all’interno della stessa filiera produttiva, riunioni, incontri e assemblee in orari e modalità molto diverse tra loro. E poi c’è la paura. Ci sono lavoratori che ci contattano e chiedono


di incontrarci in segreto, perché la natura contrattuale debole della precarietà, insieme al terrore della disoccupazione, crea un meccanismo di ricatto continuo. Dobbiamo inoltre riuscire a ridefinire anche le proposte per i contratti collettivi nazionali. Il tema è complesso, perché da una parte c’è la paura di istituzionalizzare il precariato all’interno dei contratti, e quindi di dare per persa la battaglia per la sua eliminazione, e dall’altra c’è la necessità di sperimentare forme di contrattazione inclusiva, di affermare che, al di là della tipologia contrattuale, tutti devono avere dei diritti, dei minimi, delle soglie di agibilità. La contrattazione va ripensata. Un esempio pratico: il policlinico Umberto I di Roma è il classico contesto in cui insistono tante categorie dello stesso sindacato. Ci sono i lavoratori universitari, quelli della funzione pubblica, dei servizi, i metalmeccanici e quelli dei trasporti. Cinque categorie del sindacato che operano nel medesimo luogo di lavoro, perimetrato dalle stesse quattro mura, e che spesso all’interno di quel luogo di lavoro neanche si parlano. Allora oggi, nella frantumazione dei luoghi di lavoro, dobbiamo provare a dare al lavoro una rappresentanza confederale, vera, seria, in forme molto differenti dal passato. Iovino: Riparto da una suggestione sul tema del reinsediamento sindacale. Nel 1914, Giuseppe Di Vittorio scriveva in una lettera al «Corriere delle Puglie»5, in merito alla sindacalizzazione dei braccianti agricoli del Tavoliere delle Puglie e del Foggiano, che il lavoro agricolo era (ed è) soggetto alle stagionalità agricole e ai flussi dei lavoratori migranti, dunque un lavoro «strutturalmente migrante» – usa proprio questa dizione. Questo ragionamento, a distanza di 99 anni, è ancora valido. Quindi cos’abbiamo fatto sul tema del reinsediamento? Nel caso dei migranti, ci siamo detti: «invece di aspettarli nelle nostre sedi, usciamo, prendiamo dei camper, andiamo nei loro ghetti, andiamo dove sono costretti a vivere in condizioni di schiavitù, e cerchiamo di costruire un rapporto di fiducia tra loro e il sindacato». Ciò ha determinato una nuova strategia d’insediamento, il sindacato di strada, che va oltre la camera del lavoro, che fa le assemblee nei ghetti fatiscenti che ospitano migliaia di lavoratori agricoli, spesso nell’invisibilità totale. 5 G. Di Vittorio, Le strade del lavoro. Scritti sulle migrazioni, Donzelli 2012.

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Il secondo tema è quello della contrattazione di rete e della contrattazione inclusiva, di cui parlava Fabio. Anche nelle aziende di trasformazione, ad esempio, coesiste l’applicazione di diversi contratti: c’è la cooperativa di servizio, ci sono gli interinali, gli operai subordinati e gli impiegati. Dobbiamo sperimentare sempre di più una contrattazione inclusiva, cioè ricondurre la frammentazione a una dimensione di unitarietà e di solidarietà nell’azione contrattuale. Poi il terzo punto: il welfare universale. Ho salutato molto positivamente il fatto che la mia categoria, la Flai, abbia recentemente inserito all’interno di un ordine del giorno del suo organismo direttivo la necessità di aprire una riflessione importante all’interno della Cgil sul tema di un nuovo welfare, inclusivo, espansivo e universale. Si parla di reddito: capiamo in che modo, e se c’è un nesso o no tra il fatto che Italia e Grecia siano gli unici due Paesi che non hanno uno strumento di questo tipo e il fatto che sono i due Paesi che pagano di più la crisi e l’avanzare disarmante di nuove povertà. Secondo me sì. Serve una forma di reddito capace di redistribuire ricchezza e rappresentare una forma di tutela universale. Allora questi tre punti, welfare, contrattazione inclusiva e reinsediamento, li sintetizzo in una parola: confederalità, a maggior ragione in una fase di crisi. I nodi della crisi sono talmente trasversali che oggi non riesco a individuare una differenza tra la difficoltà di avere un posto di lavoro, ovvero il tema della disoccupazione giovanile, e la difficoltà a pagare un affitto, avere una casa, avere un diritto di cittadinanza non direttamente associato alla propria condizione di lavoro. Per me oggi la missione confederale del nostro sindacato è anche questa; avere la capacità di programmare una discussione nuova, in grado di smontare alcuni miti, alcune contrapposizioni ideologiche (tra reddito e lavoro, ad esempio) che non hanno ragione di esistere in seno all’attuale realtà dei fatti. Alcune cose le sperimentiamo già. Penso, ad esempio, che la cassa integrazione in deroga non sia altro che, di fatto, un ammortizzatore secco, un provvedimento antipovertà. Allora perché non immaginiamo invece un’idea di welfare diversa, che non sia solo assistenziale ma capace di generare mobilità sociale a tutti i livelli? Attuare strumenti di tutela universalistici non risolve


certo il ricatto della precarietà, non penso che un reddito minimo garantito sia risolutivo rispetto alla negazione dei diritti e delle tutele nel mondo del lavoro; ma allo stesso tempo è errato pensare che strumenti di questo tipo indeboliscano la contrattazione. Ogni provvedimento espansivo in termini di diritti e tutele nell’esercizio di diritti di cittadinanza universalmente riconosciuti è alleato del mondo del lavoro e non viceversa. È così che io intendo il reddito minimo garantito. De Palma: Il punto da cui partirei io è quello che è sempre stato concepito come un luogo tradizionale, la grande fabbrica, che dal punto di vista sindacale aveva le sue regole e anche le sue liturgie. A un certo punto accade che quella grande azienda, quella multinazionale, cancelli tutta la contrattazione, e decida unilateralmente che se si non riconosce all’azienda il potere di definire gli elementi contrattuali, si perdono i diritti derivanti dalla contrattazione di secondo livello. È il caso emblematico della vicenda Fiat. I nostri delegati e delegate hanno resistito per tre anni, pagando un prezzo salatissimo. Se io dovessi pensare al sindacato del futuro, penserei a ciò che è nato in questi tre anni all’interno degli stabilimenti Fiat. È stata una prova del fuoco, abbiamo anche perso iscritti, ma il consenso tra i lavoratori e le lavoratrici è aumentato, anche se magari per paura ancora non si iscrivono alla Fiom, perché se sei tesserato Fiom ti cambiano di turno, non fai gli straordinari, e così via. In questi tre anni abbiamo sperimentato un sindacato anomalo. Non c’è più diritto ai permessi sindacali, quindi le riunioni si fanno all’una di notte, come alla CNH di Jesi, oppure nazionali e al sabato. Non c’è più diritto all’assemblea, e quindi, come accade a Brescia, quando gli altri sindacati convocano un’assemblea, il funzionario sindacale della Fiom va fuori dallo stabilimento, i lavoratori escono dal posto dove si tiene l’assemblea, vengono sui cancelli e si sta lì fuori a parlare ai lavoratori che stanno dentro, che abbandonano l’assemblea delle altre organizzazioni sindacali. Oppure, quando si devono discutere questioni complicate, si dichiara sciopero e si fanno le assemblee in sciopero col funzionario sindacale fuori dallo stabilimento, con l’azienda che ovviamente verifica la partecipazione, sa quali sono i lavoratori presenti e opera di conseguenza.

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Fino ad arrivare al paradosso più recente: in uno stabilimento Fiat, la Magneti Marelli di Bologna, noi abbiamo fatto sciopero per le condizioni di lavoro. I nostri delegati non hanno tutti i diritti degli altri, i permessi, e così via, ma la credibilità che hanno nei confronti dei lavoratori ha determinato il fatto che la fabbrica si è fermata, e Fim e Uilm hanno dovuto aderire allo sciopero, con il risultato che l’azienda ha applicato sanzioni disciplinari ai delegati di Fim e Uilm, perché a loro viene applicato il contratto collettivo specifico del lavoro, mentre ai nostri no. Se penso al sindacato del futuro, dico che dobbiamo rompere un meccanismo burocratico di organizzazione sindacale. Quanti sono i funzionari sindacali che non fanno un’assemblea, che non vanno sui luoghi di lavoro? Questo è vero anche da noi, anche in Cgil. Sulla confederalità, a mio parere dal punto di vista della contrattazione la titolarità ce l’hanno le categorie. Penso che la confederazione abbia invece tre compiti. Per prima cosa, stabilire delle regole che valgano per le imprese e per le altre organizzazioni sindacali all’interno della confederazione. Poi, il rapporto con le istituzioni e col sistema legislativo, perché non possiamo continuare a subire un’iniziativa legislativa che smonta pezzo dopo pezzo elementi consolidati della nostra legislazione e della nostra contrattazione. Il terzo elemento anche per me è il tema del welfare. Penso a una camera del lavoro di un territorio: poter mettere insieme i lavoratori del pubblico impiego, della scuola, i metalmeccanici, e così via, per contrattare il fatto che il diritto alla casa è un diritto per tutti. Invece purtroppo si sta facendo strada un’ipotesi di contrattazione di secondo livello che sostituisce i diritti universali e il welfare. Il ministro Delrio ha raccontato in un libro6 la sua esperienza di sindaco di Reggio Emilia. Delrio propone che per garantire l’asilo si utilizzino i contratti aziendali, e quindi di fatto il lavoratore metta dei soldi dal proprio salario per avere un servizio che non è più universale, ma solo di chi lavora e ha un contratto; perché le risorse del Comune servono invece a garantire quel servizio a chi quel lavoro e quel contratto non ce li ha. Questo significa che domani, quando i trasferimenti dallo Stato alle Regioni 6 G. Delrio, Città delle persone. L’Emilia, l’Italia e una nuova idea di buon governo. Donzelli 2011.


e ai Comuni si ridurranno ulteriormente, l’accesso a determinati diritti sarà riservato solo a chi lavora, e così chi perderà il posto di lavoro, non perderà soltanto il salario, ma anche l’accesso al welfare. Questa è una proposta in campo, in termini di rapporto tra la cittadinanza e il lavoro, e credo che su questo la Cgil debba produrre uno scatto. Non possiamo pensare che debbano essere solo i movimenti a porre il problema della casa. Il problema della casa per i lavoratori e i disoccupati è un problema del sindacato. Ultimo elemento, se dovessi pensare al sindacato del futuro rifletterei sul fatto che ci sono stati recentemente troppi scandali che hanno coinvolto il sindacato in giro per l’Italia. E questo apre un problema di credibilità. Oggi, purtroppo, se si chiede a un lavoratore qualsiasi, anche tradizionale, che impressione abbia del sindacato, nella stragrande maggioranza dei casi ci si sente rispondere in modo non particolarmente positivo. Dato che il mio problema è invece convincere i lavoratori che il sindacato è una coalizione che costruiamo tra di loro, allora è necessario trasferire risorse dal centro e investirle sulle periferie, per riconquistare quella credibilità persa. È importante ad esempio l’esperienza del reinsediamento che citava Roberto. Il punto è che le risorse dovrebbero servire, piuttosto che a mantenere la struttura, a diffondere le camere del lavoro sui luoghi di lavoro sul territorio. Serve un sindacato di strada e di luogo di lavoro. Noi lo siamo stati per tre anni: dato che eravamo fuori dalla fabbrica Fiat, abbiamo montato le roulotte e i camper davanti allo stabilimento e abbiamo portato lì i servizi del patronato Inca e la presenza fisica dei lavoratori degli altri stabilimenti, che a turno venivano a fare il presidio insieme ai lavoratori Fiat. Questo tipo di azione costruisce una comunità. Cambia la mentalità rispetto anche al rapporto con i delegati. Essere un delegato Fiom oggi significa non essere il delegato di quell’azienda, ma contribuire a una vertenza generale dei metalmeccanici. Per cui se c’è un’azienda in crisi, il punto è come costruire una solidarietà attiva, e questa è una funzione secondo me fondamentale che dovrebbe avere la confederazione. Zamponi: Metto sul tavolo due argomenti diversi. Per prima cosa,

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a partire dalle ultime osservazioni sia di Michele, sia di Roberto sul funzionamento del sindacato, vorrei che riflettessimo su chi sono i quadri del sindacato, da dove vengono, come si formano, sempre nell’ottica della ricostruzione di una rappresentanza. Poi vorrei che ci soffermassimo sul rapporto tra sindacato e movimenti: ci sono state periodicamente delle fasi anche recenti della storia di questo Paese in cui il sindacato, in particolare la Cgil, è riuscito a essere un punto di riferimento per mobilitazioni più ampie della società. È possibile riaprire una fase di questo tipo ora? In che modo? Su che battaglie? Ingrosso: Sulla prima questione, sono perfettamente d’accordo con quanto detto prima da Michele: il tema di come vengono spese le risorse del sindacato all’interno è un tema di interesse generale e strategico. Per me la risposta è una, per dirlo con una battuta: ci dovrebbero essere meno funzionari e più missionari. Il reinsediamento va praticato: i camper, gli sportelli, i gazebo davanti alle fabbriche, le riunioni nei luoghi più impensabili, la sperimentazione di pratiche differenti e un ripensamento totale delle stesse camere del lavoro. O si va in quella direzione o si soccombe. Ma il reinsediamento va anche praticato in ordine all’organizzazione del sindacato stesso. La nostra è l’unica categoria che ad oggi ha un coordinamento nazionale che riunisce tutti i precari. Non ci sarebbe forse oggi la necessità per tutta la Cgil di porsi il problema di come far discutere tra di loro tutti quei lavoratori che oggi vivono la precarietà contrattuale sulla propria pelle? Il quadro sindacale non è assolutamente utile alla collettività, se è solo colui che è un po’ più esperto degli altri perché si è studiato il contratto. Oggi il nuovo funzionario sindacale deve fare di più. Ci sono delle regole che per fortuna in Cgil sono molto chiare: prima della firma di un contratto si deve un’assemblea. Io sostengo che questo dovrebbe avvenire in tutti gli ambiti della nostra attività, e non solo per quanto riguarda i contratti. Proviamo a far partecipare veramente tutti i lavoratori, e non solo gli iscritti. Se un lavoratore non è iscritto alla Cgil, se magari è un precario che non si fa la tessera per paura, io non devo forse provare ad aiutare e rappresentare anche lui?


E poi c’è un aspetto molto importante: la tutela individuale dev’essere sempre ricondotta a quella collettiva. La Cgil non può essere il sindacato della tutela individuale. La Cgil è il sindacato della tutela collettiva. Lavorare in questo senso è fondamentale per rispondere alle questioni che mi vengono poste tutte le settimane allo sportello precario e in Flc nel coordinamento nazionale precari. Dobbiamo avere il coraggio di porre con forza questo tema, perché penso che un precario strapperebbe la tessera se ascoltasse ogni tanto le discussioni che fanno i colleghi a tempo indeterminato sul salario accessorio, la quattordicesima, e così via. Poi c’è il tema del welfare. L’Flc ha lanciato poco tempo fa la campagna «Il lavoro è discontinuo, la vita no», per porre il tema della dignità di quanti oggi vivono una condizione nuova di ricattabilità a tempo indeterminato come gli intermittenti, i parasubordinati, gli interinali, gli autonomi, i vecchi e i nuovi disoccupati. Il tema del diritto alla dignità, dei diritti di cittadinanza, del diritto ad avere diritti è stato troppo spesso affrontato in maniera antica e frettolosa nel sindacato. L’istituzione di un reddito minimo è l’unica indicazione europea che questo Paese non rispetta: negli ultimi anni ci siamo fatti imporre dall’Europa qualsiasi cosa – e su questo punto la sinistra italiana ha una responsabilità storica – e l’unica che abbiamo rifiutato è stata la sola direttiva che andava nella direzione opposta all’austerity. Il sindacato non può perdere quest’occasione. Se pongo il tema della maternità e dico che una ragazza che fa un figlio e non ha un lavoro ha comunque diritto alla maternità, ovviamente nessuno mi risponderà di no. Allora perché si incontrano resistenze quando si estende questo ragionamento ai trasporti, alla sanità, all’istruzione o più in generale ai diritti di cittadinanza? Per il sindacato sarebbe un errore strategico mettere in contraddizione i diritti, e non investire sul tema del reddito, dell’universalizzazione del welfare, di una dignità che non finisce quando finisce un contratto di lavoro. Quanto ai movimenti, il rapporto tra questi ultimi e il sindacato è stato sempre complesso, l’abbiamo vissuto in prima persona. Oggi vanno dette due cose. La prima è che un movimento è tale quando ognuno si spoglia della propria identità di parte e riempie uno spazio più ampio. E questo vuol dire che all’interno dei movimenti, com’è normale che sia, ci sono tante e tanti iscritti della Cgil e tante e tanti

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sindacalisti, che non per forza esibiscono la spilletta. In secondo luogo, il sindacato deve porsi il problema di come organizzare una relazione costruttiva con movimenti importanti e duraturi, come quello per la casa ad esempio, cercando di fare proprie quelle battaglie e di farsi contaminare in termini di pratiche, di contenuti e di elaborazione. Una relazione virtuosa con i movimenti non si costruisce sul tema della solidarietà con i movimenti, ma sulla base dei contenuti che questi pongono. I movimenti possono avere pratiche difformi dal sindacato ma condividere la stessa battaglia. Allora perché fermarsi sempre alle forme e non scendere nel profondo del merito? Perché questo avvenga, però, serve che il sindacato riscopra il primato dell’autonomia sindacale. Troppo spesso la Cgil ha assunto posizioni timide non per una vera volontà politica, ma per sudditanza rispetto ai meccanismi della sfera partitica. Ci vogliamo dire che le riforme degli ultimi vent’anni circa lo smantellamento dell’istruzione pubblica italiana non sono solo colpa di Berlusconi? E che la sinistra italiana, per tatticismo o convenienza, ha svenduto quell’idea per cui i saperi, la conoscenza, la cultura e la ricerca sono oggi “beni” imprescindibili? Negli ultimi anni, anche quando ha governato il centrosinistra, ho solo visto passi indietro. Questi meccanismi, per quanto mi riguarda, sono cose del secolo scorso. Di Vittorio sedeva al comitato centrale del Pci, ma non mi pare che oggi quella situazione esista ancora, e perciò oggi, allo stesso modo in cui decido se firmare o no un contratto, voglio decidere in massima autonomia anche se stare o no al fianco di un determinato movimento. Iovino: Se immagino il sindacato del futuro, come diceva prima Michele, immagino i lavoratori stranieri costituirsi parte civile insieme a noi, per denunciare i caporali e le organizzazioni criminali che li sfruttano. Immagino il rapporto di fiducia che il sindacato sta costruendo con loro attraverso il sindacato di strada. Questo come primo punto, come suggestione, perché credo, per me è veramente importante sottolinearlo, che in questo momento per quanto riguarda la mia categoria il futuro (e il presente) sia lì. Il futuro è lì perché, a proposito di selezione e di quadri dirigenti, dobbiamo ritrovare un elemento di credibilità. Michele ricordava, giustamente, che il sindacato viene spesso visto come un ente burocratico, e se non si ricostruisce un elemento di fiducia con


chi sta nei luoghi di lavoro, rischiamo di non essere più credibili. I funzionari devono fare il proprio lavoro: proselitismo, dare ai lavoratori strumenti per difendersi e organizzarsi nei luoghi di lavoro e difendere i loro diritti. Ritrovare una funzione di strumento e non di fine del sindacato, in questa fase è molto complesso, però penso sia una scelta obbligata. Sul rapporto con i movimenti: noi abbiamo vissuto anche fasi in cui la Cgil ha avuto un ruolo molto importante, ma questo è successo anche perché il sindacato in alcuni casi, come il movimento dei movimenti, ha avuto la capacità di fare autocritica. La Cgil come confederazione non era a Genova, ma dopo i fatti di Genova fu capace di esprimere una riflessione autocritica che ridefinì il rapporto tra quell’enorme movimento e la Cgil in tutte le sue articolazioni. Non vorrei che si ripetesse lo stesso errore, che si arrivasse con un po’ di ritardo, tra qualche anno, a dover fare autocritica sul rapporto con determinati movimenti. I movimenti sono uno specchio della società, fanno emergere bisogni che fino a quel momento magari erano nascosti, sono espressioni di conflitto non convenzionali ma indicative di cosa è oggi la nostra società. Allora credo che in una dinamica costruttiva serva un rapporto tra sindacato e movimenti, nelle istanze più che in termini di rapporti tra strutture. Insomma, per me il grande tema del rapporto costruttivo tra sindacato e movimenti non è legato alla necessità di fare delle alleanze, ma soprattutto alla volontà di avere letture condivise e un’iniziativa politica all’altezza del mondo che cambia, di nuove istanze che spesso e volentieri il sindacato non riesce a intercettare e che si esprimono fuori dal recinto delle organizzazioni. Sono portato a pensare, anche un po’ per mia formazione, che in questo processo il sindacato possa solo crescere e arricchirsi. Purtroppo talvolta c’è un approccio un po’ di chiusura, una reazione conservatrice, legata all’idea un po’ malsana che il sindacato debba solo avere la sua funzione contrattuale nel luogo di lavoro e che tutto il resto attenga alla sfera della politica. Penso invece che la storia del sindacato italiano ci insegni tutt’altro. Un tema su cui ho lavorato tanto, ad esempio, è il rapporto tra sindacato e il movimento antimafia. E su questo tema ritorna la questione della credibilità, perché i casi di corruzione ci sono stati, perché c’è stato

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qualche sindacalista che è stato arrestato, ci sono stati funzionari infedeli che hanno preso le mazzette. Riconquistare una forte credibilità da questo punto di vista è fondamentale per chi vuole riaffermare la funzione sociale del sindacato, che può basarsi solo sulla ricostruzione di un rapporto di fiducia con i lavoratori. De Palma: Per me il primo punto oggi è come ricostruire un movimento dei lavoratori. Il maggiore impedimento, in questo senso, è la separazione tra le organizzazioni sindacali. Com’è possibile, oggi, in una crisi così drammatica, una simile separazione? A mio modo di vedere, la ragione è l’assenza di uno stringente vincolo democratico tra organizzazioni sindacali e lavoratori. Sarebbe altrimenti impensabile che avvengano episodi come quello recente in cui Cgil, Cisl e Uil avevano stabilito insieme di fare quattro ore di sciopero, e due giorni dopo il segretario della Cisl ha dichiarato: «se il governo interviene, smontiamo lo sciopero». Questa è una presa in giro nei confronti dei lavoratori. È chiaro che un simile episodio fa capire ai lavoratori di essere di fronte quasi a una presa in giro. Quindi serve un nuovo vincolo democratico per ricostruire un movimento dei lavoratori, che includa i precari, gli inoccupati, i disoccupati. Il secondo punto da affrontare è il rapporto tra il sindacato e le giovani generazioni. Ha ragione Roberto ha ricordare la fase del G8 di Genova: dopo quel periodo il sindacato ha smesso di percorrere quella strada. E oggi purtroppo c’è una sostanziale incomunicabilità tra le organizzazioni sindacali confederali e qualsiasi manifestazione di conflitto in questo Paese che nasca al loro esterno. Basta guardare alla manifestazione del 12 ottobre scorso, che aveva al centro la questione della Carta costituzionale. Sia chiaro che non credo che quella manifestazione abbia segnato la nascita di un movimento, però mi risulta complicato capire come, di fronte a quello che sta succedendo, e in mancanza di qualsiasi ipotesi alternativa sul tema della difesa e dell’applicazione della Costituzione, la Cgil non ci sia stata. Ma guardiamo anche a quello che sta succedendo in Campania, nella cosiddetta Terra dei Fuochi: la nostra categoria è stata presente alla manifestazione del 16 novembre scorso, ma c’è una sostanziale incomunicabilità tra quel movimento di popolo e la confederazione.


Io penso che in questo momento dobbiamo stare in ogni posto in cui si muova, nella società, un’ipotesi non solo di opposizione, ma di proposta in alternativa, di solidarietà, di relazione, di conflitto. Altrimenti il sindacato rischia di produrre una separazione, un corto circuito definitivo con coloro che vuole rappresentare. Dinanzi a una crisi della rappresentanza politica come quella che abbiamo descritto in apertura della nostra discussione, se vogliamo tenere la porta aperta sul tema complesso di che cos’è la democrazia oggi in Italia, o pensiamo a una grande organizzazione di massa costituzionale che includa il rapporto tra le istituzioni democratiche e il fermento all’interno della società, oppure il rischio è che veniamo tutti fatti fuori dalle tensioni autoritarie e populistiche – il presidenzialismo, da una parte, e il grillismo, dall’altra. Nel rapporto tra società e istituzioni sono successe parecchie cose in Europa nel corso degli ultimi anni. E il problema è che il grande assente, nel confronto con la troika che decide le politiche di bilancio e con la messa in competizione dei lavoratori nello scacchiere europeo, è il sindacato. O il sindacato sviluppa una dinamica europea, un meccanismo di confronto europeo sulle grandi questioni, o il futuro è segnato: in Francia il governo socialista ha stretto l’accordo di competitività che riduce salari e diritti tagliando fuori una delle più grandi organizzazioni confederali, la Cgt; in Spagna, di fatto, i contratti non ci sono più e si deroga a qualsiasi cosa, leggi comprese; in Portogallo e in Grecia la situazione è ancora più grave. In Italia, lo scenario è quello che conosciamo, con il blocco dei contratti nel pubblico impiego, l’Abi che disdice unilateralmente il contratto nazionale di lavoro dei dipendenti di banca, e così via. Non è più pensabile risolvere situazioni del genere nello spazio nazionale. In occasione degli incontri dei coordinamenti europei dell’auto abbiamo proposto di concordare tre riferimenti fondamentali: elementi salariali comuni in Europa, investimenti che tendano a rendere ecocompatibili le produzioni e a salvaguardare l’occupazione, e un orario di lavoro uguale per tutti in Europa. Altrimenti c’è poco da discutere: se a un tavolo di trattativa nazionale mi batto per difendere la contrattazione e il salario, ma nel frattempo quei fattori competitivi sono ridotti in un altro paese europeo, finiamo fuori dalla dialettica reale che le

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nostre controparti stanno costruendo in uno scacchiere un po’ più complicato. Perché la delocalizzazione non è solo in Cina o in Vietnam, ma anche e soprattutto in Europa: intere filiere produttive vengono spostate nella Repubblica Ceca, in Romania, in Polonia, in Turchia, per produrre merci rivolte al mercato europeo. Dobbiamo fare una battaglia per ottenere un sistema salariale, di orario di lavoro, di welfare, di tassazione – sia per le imprese, sia per i lavoratori – che abbia della caratteristiche comuni. Altrimenti possiamo cambiare tutti i governi che vogliamo, ma il pareggio di bilancio resta, e l’esempio di Hollande in Francia mi sembra istruttivo.


I

di Alessandra Quarta

l rapporto tra forme della democrazia e Costituzione si presta a un dibattito particolarmente suggestivo, se lo si indaga alla luce del processo di crisi che lo investe. Benché si registri un’ampia condivisione circa la necessità di ripensare le forme classiche della democrazia rappresentativa, a fronte della inarrestabile crisi dei corpi intermedi (partiti e sindacati), il dibattito diventa più aspro e meno ecumenico quando a salire sul banco degli imputati è la Costituzione. Da questa angolatura, si scorgono due diverse prospettive. Da una parte, i tentativi di modificare la Carta appaiono tanto concreti quanto pericolosi – la banalità del male, verrebbe da dire, considerate le biografie degli artefici del progetto; dall’altra, l’assenza di una progettualità politica di breve e lungo periodo, su cui movimenti e associazioni possano effettuare un investimento politico ampio, individua nella difesa della Costituzione l’affinità elettiva attraverso cui ricreare una condivisione su progettualità

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Escif, Valencia

Ripensare la democrazia rappresentativa tra costituito e costituente


comuni, capace quindi di tenere insieme soggettività diverse, con l’obiettivo di creare mobilitazioni ampie e partecipate. La posizione descritta, in assenza di contenuti che vadano anche oltre la dimensione costituzionale, si presta facilmente a essere etichettata come conservatorismo e percepita come difesa del costituito, in contrapposizione con quei piani di vertenze locali e conflitto che aspirano, invece, a farsi momento costituente, a rappresentare cioè dinamiche politiche nuove – in termini di pratiche di azione e di collocazione teorica complessiva – in grado di determinare trasformazioni significative dell’assetto costituzionale. Questo asserito scontro tra costituito e costituente è, quindi, in realtà molto più profondo di un semplice posizionamento attorno al tema della difesa della Carta costituzionale: il merito della contesa riguarda infatti l’utilità attuale dell’assetto normativo disegnato nel 1948 per la tutela del lavoro, dei soggetti più deboli, del patrimonio pubblico contro le privatizzazioni, del welfare, dei diritti della persona, in un contesto in cui le politiche neoliberiste degli ultimi anni hanno di fatto travolto quanto pur impresso nel marmo costituzionale. In altre parole, l’interrogativo che parrebbe emergere è se la Costituzione sia davvero dietro le nostre spalle, come dicono alcuni, oppure se essa continui a essere uno strumento utile per la costruzione di percorsi di rivendicazione. L’analisi non è affatto scontata, né tanto meno da sottovalutare. Nell’ultimo periodo, la contesa attorno alla Costituzione – o per meglio dire attorno a cosa sia costituzionale e cosa no – si è particolarmente diffusa, generando una discreta confusione; al contempo, molto spesso le posizioni contrapposte non sono così inconciliabili, se si accetta un punto di vista differente. La percezione di inutilità della Carta deve probabilmente molto all’assenza dei suoi interpreti dalla partecipazione alle vertenze sociali, quelle in cui i diritti costituzionalmente tutelati sono messi quotidianamente in discussione. L’incapacità di comunicarne i contenuti e definirne i limiti ha prodotto una radicalizzazione del dibattito e ha spostato la contesa politica sul piano costituzionale. Difficile chiedere un’appassionata difesa della Costituzione, che rischia presto di tradursi in uno stucchevole feticismo, se manca una capacità di interpretazione delle lotte che si muova in quel quadro di valori e sappia proporre uno scatto in avanti in termini di proposta, per tornare a quello che poi resta il problema centrale, ossia la crisi della democrazia rappresentativa.


Ma il discorso si complica, e conviene procedere con ordine. La Costituzione, un reperto archeologico Se la nostra democrazia rappresentativa fosse un museo, la Costituzione sarebbe certamente un reperto in esposizione. Un reperto grondante passione civile e carico di rivoluzioni promesse, di novità giuridiche e sociali, ma pur sempre un reperto. Secondo chi sostiene questa interpretazione, la Costituzione è stata messa all’angolo da almeno tre avvenimenti. Da una parte, l’adesione dell’Italia all’Unione Europea e la conseguente dimensione del diritto comunitario hanno notevolmente condizionato l’assetto delle fonti nazionali e, per certi versi, hanno altresì comportato una inversione dei valori. La nostra Carta costituzionale contiene norme che sono molto di più di un semplice compromesso tra anime diverse dell’Assemblea costituente, e il ruolo che essa riserva alla persona e al principio di solidarietà è senza dubbio centrale. Al contrario, a livello europeo, i dispositivi normativi si muovono attorno al principio della concorrenza e alla creazione del mercato comune, e gli sforzi che pur ci sono stati con il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea non hanno in realtà scalfito una impostazione che permea la stessa architettura istituzionale dell’Unione. Allo stesso modo, la Carta dei diritti fondamentali adottata nel 2001, che oggi ha piena efficacia essendo diventata parte integrante dei trattati europei, rappresenta un semplice catalogo di diritti, privo di una cornice di senso complessivo. Non mancano peraltro i punti di arretramento rispetto alle tradizioni costituzionali nazionali, come ad esempio accade per la definizione del diritto di proprietà il quale, nella nostra Costituzione è collocato all’interno dei rapporti economici e sociali e sottoposto alla funzione sociale, mentre a livello comunitario torna ad assurgere al grado di diritto fondamentale dell’individuo. Un arretramento senza dubbio problematico che, trovando buona compagnia nelle previsione della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, genera conseguenze non da poco in materia, ad esempio, di espropriazione della proprietà privata e ammontare del relativo indennizzo. Altro fattore determinante in questo processo che ha reso la nostra Costituzione un reperto archeologico sarebbe la crisi dei corpi intermedi: partiti e sindacati avevano rappresentato al meglio la contesa politica in ordine all’applicazione dei diritti costituzionali, e la loro attuale condizione vegetativa certamente muta gli equilibri. In ultimo, le stesse trasformazioni del lavoro – dal modello fordista

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alla precarietà – hanno determinato un cambiamento della composizione della forza lavoro, comportando la perdita di un altro motore del cambiamento. Oltre a queste cause che potremmo definire sistemiche, gli interventi di modifica della Costituzione che ci sono stati – vedi la riforma del Titolo V e la più recente l’introduzione del principio dell’equilibrio di bilancio all’art. 81 – hanno inciso sul testo costituzionale che, in sintesi, oggi resta il documento normativo in cima al sistema delle fonti, ma è privo di qualsiasi significato emancipatorio e, in quanto tale, risulta incapace di legittimare le pratiche di conflitto sociale che siano all’altezza dell’evoluzione del capitalismo. La difesa della Costituzione come applicazione Seguendo questa impostazione, viene da chiedersi cosa resti dell’idea di democrazia costituzionale, di una democrazia, cioè, in cui accanto alla legge si colloca la Costituzione con il compito di garantire i diritti fondamentali e i diritti politici e che, pertanto, va tutelata nella sua integrità, pena la sopravvivenza di una democrazia per sottrazione. Ciò significherebbe sminuire il ruolo dei diritti nel nostro ordinamento, prestando il fianco a quanti intendano sottolineare in maniera strumentale la dimensione dei doveri, con il solo scopo di ridurre il sistema di tutele e di mercificare i diritti, retrocedendo verso una sorta di democrazia censitaria. In questo discorso, la Costituzione viene raccontata principalmente attraverso i diritti che essa tutela e che rappresentano quel catalogo minimo – accresciuto dai diritti di nuova generazione (tra tutti, quello all’ambiente) – che dovrebbe orientare le scelte di chi governa in tema di distribuzione delle risorse, soprattutto quando queste ultime sono scarse a causa della crisi economica e finanziaria. Così la Costituzione, più che difesa, meriterebbe di essere applicata, perché soltanto attraverso la politica i diritti non sono deboli, e portata in Europa, in termini di estensione del quadro di tutele. Attorno a questa impostazione, personalità di diversa provenienza (Stefano Rodotà, Maurizio Landini, Gustavo Zagrebelsky tra i vari) hanno costruito una piattaforma, La via maestra, e convocato per il 12 ottobre 2013 una manifestazione nazionale per rivendicare l’applicazione della Carta. Un’iniziativa meritoria se la si considera in prospettiva: il processo di revisione della Carta avviato dal governo Letta arriverà certamente a conclusione e la necessità


di organizzare le forze in vista di un referendum costituzionale si rivela reale. Allo stesso modo, è stata offerta una vera e propria agenda politica a cartelli di gruppi organizzati e non, da tenere insieme in potenziali comitati territoriali. Parliamo di “offerta di un’agenda politica” perché nel momento in cui attraverso la Carta costituzionale sono individuate delle priorità (lavoro, istruzione, salute, ambiente…), i binari lungo cui far viaggiare un percorso politico sono ben chiari. Resta però irrisolto il nodo del mezzo che andrà a percorrerli, e il punto non è di poco conto. Il valore delle pratiche costituenti per ripensare la democrazia Tra il superamento della Costituzione e il discorso attorno alla sua applicazione, si collocano quei movimenti che cercano di creare momenti costituenti, trasformazioni dell’assetto costituzionale attraverso prassi politiche. Il fenomeno è quello delle occupazioni di teatri e spazi pubblici e privati abbandonati che, a partire dal 2011 con l’esperienza romana del Teatro Valle a cui altre sono seguite, ha assunto una nuova dimensione. Infatti, va detto che la prassi dell’occupazione, come modalità di rivendicazione, non costituisce certamente una novità, mentre il quadro di senso costruito ha ambizioni teoriche di più ampio respiro rispetto al passato. Ciò che si è voluto far emergere è l’assenza di un ragionamento politico sulla distribuzione delle risorse, di una critica agli assetti proprietari, per sottolineare il divario esistente e sempre più profondo tra proprietari e non proprietari. Tali contraddizioni rivelano l’insufficienza del riconoscimento di un catalogo di diritti se a mancare sono scelte politiche che tutelino l’accesso alla proprietà, all’istruzione, ai servizi. Far proprio il portato e il linguaggio della Costituzione è stato in questo discorso un passaggio importante: ricordare che in base all’art. 42 la proprietà deve avere una funzione sociale rappresenta uno scudo concettuale per dare forza a pratiche che, legittime dal punto di vista delle rivendicazioni avanzate, si muovono nell’ambito dell’illegalità. Per queste pratiche la Costituzione non è alle spalle, ma è uno strumento per acquisire spessore teorico, da utilizzare in senso controegemonico. Allo stesso modo, la questione non è ridotta alla mera applicazione della Carta, perché a rendere scivoloso il crinale è la dinamica legittimità/illegalità. Queste definizioni negative del fenomeno consentono di sostenere la capacità costituente di quelle pratiche di conflitto sociale che

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sappiano inscriversi in una dimensione teorica che parta dalla persona e dai suoi diritti, in termini individuali e sovraindividuali: le disobbedienze proprietarie – le pratiche, cioè, che rifiutano l’attuale assetto proprietario e a questo si oppongono – possono avere la capacità di determinare trasformazioni significative, facendo emergere questioni scomode che altrimenti non troverebbero spazio in un sistema immobile e cristallizzato e che richiede un gesto di rottura. A guardarle con gli occhi del giurista positivo, l’interrogativo che si apre è quale spazio ci sia per formulare una proposta normativa che accolga le istanze di questi percorsi; a guardarle in una prospettiva più ampia – la stessa da cui siamo partiti – c’è da chiedersi se questi fenomeni possano incidere in qualche modo sulla crisi della democrazia rappresentativa. Ancora una volta, ci si muove su un terreno difficile. I gruppi di persone che hanno dato vita a percorsi di occupazione (tutti originali e non facilmente replicabili) rappresentano dei microcosmi, comunità all’interno delle quali vengono sviluppati i temi della partecipazione politica e della rappresentanza e che rivendicano la gestione dei beni di cui si sono riappropriati. Si tratta di uno dei profili di maggiore complessità nel discorso dei beni comuni perché – una volta composta la di griglia di caratteristiche attraverso cui definirli – è necessario individuare la comunità di riferimento, capire come essa stessa riesce ad essere inclusiva, contemplando l’autonomia dell’individuo, e concepire i metodi decisionali. Il discorso evidentemente meriterebbe ben altro approfondimento, il punto ora però attiene al rapporto tra comunità e democrazia rappresentativa. Senza cadere in inutili manicheismi, queste esperienze possono essere valutate in modo positivo, come un motore di aggregazione e partecipazione, attraverso canali di impegno politico, strumentalmente utile anche in una chiave di rappresentanza. In un sistema che su quest’ultima si basa, sarebbe infatti ingenuo ritenere di potere farne a meno, se ovviamente l’obiettivo sul lungo periodo è quello del cambiamento complessivo. Se così non fosse, se questa autorappresentazione non sfociasse in un discorso più ampio, allora i movimenti avrebbero soltanto abbaiato alla luna. In questo, bisogna trovare con pazienza – che non significa mancanza di determinazione – la giusta dimensione della propria azione, che in questa fase è probabilmente più efficace se ha una dimensione locale e cerca di agire sul cambiamento delle città, ricostruendone il tessuto sociale e politico, proponendo punti chiari di governo che siano realmente inclusivi e inceppino i blocchi di potere;


contemporaneamente, bisogna evitare la burocratizzazione e la perdita della partecipazione, senza la quale la rappresentanza non è più strumento di realizzazione collettiva ma fine di pochi. Adottando questo approccio, che ha l’umiltà di sparare ad un bersaglio forse poco ambizioso ma certamente più raggiungibile, senza rinunciare ad un collante teorico efficace e robusto, si percepisce la ricostruzione della democrazia rappresentativa come un’impresa sostenibile, che non ingabbia le energie in meccanismi partitici poco penetrabili e comunque non agevolmente modificabili dall’interno. La Costituzione torna a essere quello che è, il documento normativo che indica un percorso aperto di normalità democratica, da preservare mettendo a nudo tutte quelle asserite emergenze che consentono di fatto la sovversione delle “regole del gioco”; ma la difesa per sé stessa non può appassionare e divenire punto di avanzamento politico, rischia di blandire buoni sentimenti senza generare energia e pathos, elementi imprescindibili della partecipazione politica. Per questo, la democrazia non può essere vissuta soltanto come procedura nel quotidiano: la qualità della vita democratica non dipende soltanto dal buon funzionamento delle istituzioni ma anche dal livello di dibattito pubblico, che oggi va interamente ricostruito con pratiche che non possono considerare il portato costituzionale come dotato di autoevidenza, dovendolo al contrario interpretare in modo strumentale per sostenere percorsi politici che sappiano sfidare il costituito, anche attraverso azioni illegali che, se compiute alla luce del sole (e in questo l’esperienza del Municipio dei Beni Comuni pisano è particolarmente significativa), sono idonee a farsi atti politici, diffondendo partecipazione.

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Appunti su partecipazione e rappresentanza

di Rocco Albanese

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artecipazione, rappresentanza, istituzioni. Attorno al senso profondo di queste tre parole deve articolarsi quella che si può definire la più importante sfida che tutti noi abbiamo davanti. Più importante della crisi economico-finanziaria e anche della questione ecologica. Una sfida che investe sia gli angoli, apparentemente familiari, dei quartieri che abitiamo, sia le vertigini che lo spazio pubblico europeo o globale potrebbe provocare. Il triangolo partecipazione-rappresentanza-istituzioni crea la principale sfida di civiltà oggi in campo, perché mette in discussione i nostri modi di con-vivere nella dimensione pubblica: riguarda i metodi della vita individuale e sociale e, dunque, la possibilità di costruire le condizioni per uscire davvero dalle crisi che viviamo, inaugurando una nuova epoca.

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La democrazia non è un pranzo di gala


Sarebbe quasi superfluo dare conto dell’agonia, drammatica e a ogni livello, di tutte le istituzioni politiche e sociali. La fiducia degli italiani nel Parlamento e nei partiti è ben sotto il 10 per cento, un dato confermato in modo inquietante dal tasso di astensione registrato in tutte le più recenti tornate elettorali. Durante il suo Tsunami Tour, Beppe Grillo ha potuto urlare che i sindacati dovrebbero essere aboliti. Le politiche economiche dei Paesi dell’Europa mediterranea sono decise dalla troika, vale a dire da soggetti privi di legittimazione popolare che operano al di fuori di qualsiasi minima procedura di garanzia costituzionale. La funzione di governo nel nostro Paese si è ormai risolta nel nauseante spettacolo delle larghe intese, creato e garantito dal Presidente Napolitano. Lo stesso Re Giorgio, secondo Ilvo Diamanti1, ispira fiducia ormai solo al 50 per cento degli italiani, e con la sua dubbia condotta istituzionale – che il ‘vuoto della politica’ non dovrebbe in alcun modo giustificare – somiglia sempre più a quel giocatore d’azzardo che, non accorgendosi del proprio accanimento, concluderà la serata rovinato. Sentiamo, insomma, ripetere praticamente in ogni dove che «la rappresentanza è morta» – una diagnosi non solo profondamente sbagliata, ma anche gravemente pericolosa. La rappresentanza, infatti, è una componente strutturale dei gruppi umani, e ha una dimensione che si potrebbe definire antropologica. Per spiegare una simile lettura del fenomeno-rappresentanza, basterà pensare che quando ascoltiamo parlare una persona e condividiamo pienamente quanto affermato, ci limitiamo a tacere e annuire: questo silenzio significa che qualcuno sta dando forma alle nostre idee, le sta rappresentando. Il punto, allora, non è la fine della rappresentanza. Il problema che abbiamo riguarda, invece, la fine della rappresentatività: oggi quasi non esistono, nella società e nel panorama politico, luoghi e istituzioni in grado di farci identificare in essi, di farci sentire parte di qualcosa. Una simile situazione si concretizza in diverse epifanie: oltre a quelle descritte sopra, altre vicende particolarmente simboliche sono la personalizzazione della politica, la compiuta trasformazione della nostra vita pubblica in quella che Bobbio definiva «democrazia dell’applauso» (tutta fatta di marketing politico, primarie e periodiche liturgie elettorali) o, ancora, il fatto che un personaggio come Matteo Renzi possa essere seriamente considerato l’alfiere della nuova sinistra. 1 I. Diamanti, L’Italia degli spaesati, «La Repubblica», 11 novembre 2013, http://goo. gl/7cyim7.

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In altri termini, occorre riconoscere che le istituzioni, così come i partiti e – in buona misura – i sindacati, non appaiono oggi davvero compatibili con l’obiettivo di promuovere la democrazia. Una significativa radice di tale incompatibilità può essere rintracciata nelle due varianti di significato che ha la parola potere: non solo un sostantivo, ma anche e soprattutto un verbo. Per quanto riguarda il potere-sostantivo, è appena il caso di ricordare ancora a quale livello di autoreferenzialità siano giunti i partiti politici: anche al di là del solito riferimento all’art. 49 della Costituzione2, chiunque abbia esperienze di attivismo politico e sociale potrà testimoniare dello squallore della vita interna ai soggetti partitici, specialmente in fase congressuale. Praticamente privi di un pensiero “forte” e di una visione sociale ed economica di lungo periodo, i partiti si sono ridotti a carrozzoni elettorali, a contenitori contendibili da correnti e leader, a luoghi claustrofobici nei quali il cinismo diventa brodo di coltura anche per la corruzione (così moltiplicando il risentimento e le interpretazioni più sterili della polemica anti-kasta). Giulio Andreotti, in questo senso, non seppe guardare al di là del proprio tempo quando affermò che «il potere logora chi non ce l’ha». A forza di rincorrere un potere del tutto vuoto e fine a se stesso, quando non esercitato in modo clientelare, anche le organizzazioni politiche si stanno logorando sino a scomparire: viene da domandarsi ad esempio, pensando alle scelte di fondo compiute dal PD negli ultimi tre anni, quale sia oggi la funzione storica e sociale di quel partito. Guardando alla gestione del potere-sostantivo, siamo quindi di fronte al frutto marcio dell’autonomia del politico. Si è potuti arrivare a questo punto perché quell’autonomia, forse sensata in altri contesti storici e sociali, è diventata una separazione che ha portato, da un lato, il politico a essere scavalcato da “nuovi sovrani” (tecnocrazia, troika, narrazione dell’emergenza), dall’altro le istituzioni e i partiti a eliminare dal proprio DNA il loro carattere di strumenti per la cura e la promozione della qualità della vita e dei processi democratici. Peraltro, istituzioni e partiti non solo appaiono sempre più deboli e meno credibili, ma attivano anche reazioni difensive che innescano circoli viziosi e aggravano la loro crisi di legittimità: ogni movimento sociale che si sviluppa sui territori è trattato come una controparte e una mera questione di ordine pubblico; ogni forma di dissenso è marginalizzata e definita 2 «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».


«irresponsabile», in nome di un «pilota automatico»3 che non ammette alternative. Nell’attuale quadro di crisi, si assiste dunque al paradosso per cui i luoghi deputati a rappresentare la collettività sono svuotati di senso, oppure lavorano quotidianamente per smantellare la collettività stessa. Un simile paradosso si sviluppa in un contesto che tutti noi viviamo sulla nostra pelle: precarizzazione del lavoro e della vita e accentramento in senso autoritario dei meccanismi decisionali. Chi detiene il potere-sostantivo ripete quotidianamente che loro stanno lavorando per il nostro bene, che si intravede la luce in fondo al tunnel e che dunque non è possibile criticarli proprio adesso che i sacrifici iniziano a dare i propri frutti. Ma il problema sta precisamente in questo: nel fatto che una simile logica nega in radice opzioni democratiche di vita e di decisione; nega, cioè, l’esistenza di quei processi complessi che permettono alle persone, singole e associate, di definire e perseguire il ‘bene comune’ nel modo più autonomo possibile. E ciò anche a prescindere dal fatto che tutte le scelte italiane ed europee di politica economica, negli ultimi cinque anni, sono state scellerate e (davvero) “irresponsabili” per la maggior parte degli economisti (anche mainstream) del mondo. In breve, si può affermare – scoprendo l’acqua calda – che il discorso pubblico italiano ed europeo è oggi caratterizzato da modi di gestione del potere-sostantivo che legano pericolosamente la violenza dell’ideologia neoliberista a un’altra forma di violenza, quella del paternalismo. Questa combinazione – che ha generato negli ultimi trent’anni interazioni complesse sul piano politico, mediatico, culturale ed economico – sta purtroppo portando a compimento la distruzione di un patrimonio delicatissimo e difficilmente “rinnovabile”, vale a dire di quel legame sociale che è precondizione di esistenza delle stesse democrazie. La situazione appare, onestamente, tanto desolante quanto inquietante. Ma se così stanno le cose, non è esagerato affermare che la democrazia odierna “è finta”, o che soffre di una malattia profonda che potrebbe sfociare in esiti imprevedibili. Il ruolo della partecipazione come cura per la democrazia comincia da questa consapevolezza e si può esplicare a patto che la critica all’attuale stato di cose sia davvero radicale, ri-costruttiva. Anche e 3 Così Mario Draghi durante la conferenza stampa seguita all’incontro del consiglio direttivo della BCE; Elezioni, Draghi: “L’Italia prosegue con le riforme, c’è pilota automatico”, «Il Fatto Quotidiano», 7 marzo 2013, http://goo.gl/yh2yzg.

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soprattutto per la sinistra politica e sociale, niente affatto immune da meccanismi di funzionamento violenti e paternalistici. In questo senso, la cura e la riproduzione di legami sociali dovrebbero essere la prima delle priorità di ogni programma di trasformazione della realtà, poiché i legami sociali si reggono sulla solidarietà e su una forma diffusa e concreta di potere, vale a dire il potere-verbo: poter contare; poter accedere alle informazioni; poter essere messi in condizione di discutere davvero e di concorrere alla formazione delle decisioni. Poter fare qualcosa per sé e per la propria vita; poter fare qualcosa per l’altro. Vale la pena di ripensare alla lungimiranza dell’art. 3.2 della nostra Costituzione: «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Già nel 1948 – molto prima che Elinor Ostrom e l’economia alternativa dimostrassero il forte legame tra fruttuosità di partecipazione e cooperazione sociale, da un lato, e uguaglianza nelle condizioni materiali di vita dall’altro – la norma fondamentale della Carta aveva compreso che la partecipazione effettiva costruisce uguaglianza, riproduce legami sociali e solidarietà, promuove una democrazia solida. Più precisamente, si deve dire che i Costituenti, tornando a respirare dopo l’inferno delle guerre e l’infamia del nazifascismo, avevano individuato nella partecipazione non solo una sorta di super-diritto, sottinteso all’intero programma costituzionale, ma anche – da un punto di vista meno giuridico e più “sociologico” – un principio di integrazione di tutte le dinamiche politiche formali (cioè istituzionali e rappresentative) ed informali. È per questo che la Repubblica, nella sua completezza e complessità, assume il compito di mettere tutti in condizione di partecipare: il che significa, in concreto, lavorare in modo rigoroso e costante sull’ampiezza e sulla funzione della delega politica, sulla creazione di meccanismi giuridici e istituzionali innovativi, sulla diffusione delle informazioni, sul rapporto tra tempi di vita e tempi di lavoro delle persone. Gli investimenti del Consiglio d’Europa sulla responsabilità sociale condivisa e sulla cosiddetta metodologia SPIRAL4; le rivendicazioni per una vera legge sulla rappresentanza sindacale e per i diritti 4 Societal Progress Indicators for the Responsibility of All, wikispiral.org.


di partecipazione dei lavoratori; la richiesta di un reddito minimo per sottrarsi ai ricatti della precarietà e dell’esclusione sociale; i bilanci partecipativi nei Comuni5; il “diritto alla partecipazione” accolto nello statuto dell’azienda Acqua Bene Comune Napoli; l’esistenza della Fondazione Teatro Valle e le lotte che ruotano attorno ad accesso e gestione dei beni comuni; le battaglie per il diritto allo studio, la ripubblicizzazione dei saperi e la democrazia negli atenei; i mille percorsi riguardanti il diritto a concorrere nelle decisioni sul futuro delle città e dei territori, dalla vicenda pisana dell’Ex Colorificio al Piemonte che mette in discussione il TAV e si oppone alla privatizzazione del trasporto pubblico, dalla campagna del WWF RiutilizziAmo l’Italia6 alla mobilitazione campana della Terra dei Fuochi; l’austerità messa in discussione dalla crisi di legittimazione delle istituzioni e dalla tensione tra rappresentanza e democrazia diretta: come testimonia questa carrellata di esempi, oggi la partecipazione costituisce il collante di tutte le lotte più avanzate per un’uscita dalla crisi che sia diversa, possibile, concreta e necessaria. Con Marianella Sclavi, «è come se ci fossero due Italie, una al momento ancora parecchio contro-corrente che sta sperimentando queste pratiche di radicale ridefinizione del fare politica e ci riesce in modo eccellente, mettendo a frutto quelle famose doti di creatività e cura del prodotto finale che ci vengono riconosciute a livello mondiale per settori come la moda, la gastronomia, il Design e l’altra Italia al momento dominante nelle camere del potere, profondamente restia a questi discorsi, sorda, cinica nel volerli “raddrizzare” e percorrere. Dentro la prima Italia ci sono, fra l’altro, i nuovi Master e corsi universitari che finalmente anche nel nostro paese offrono a chi lo desideri la possibilità di acquisire i saperi e competenze pratiche richieste da politiche di mediazione creativa dei conflitti e facilitazione di percorsi partecipativi (…). Dentro la seconda Italia ci sta “la casta” e l’“anti-casta”, i trincerati e i rottamatori, i sì-Tav e i no-Tav, ovvero tutti coloro che dalla desolazione della coazione a ripetere sempre le stesse diagnosi e proposte non riescono ad uscire, come dimostra l’assenza di un forte movimento per una legge analoga al Débat Public (presente in Francia dal 2005) e l’assurda discussione che pretenderebbe di restituire trasparenza e inclusività alla politica facendo leva su meccanismi elettorali (…) invece che su meccanismi di democrazia 5 Per il caso di Troia si veda l’articolo di Giuseppe Beccia, Democrazia partecipata e pratiche di governo del territorio, in questo numero dei Quaderni Corsari a p. 87 6 http://goo.gl/YJjlPJ.

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deliberativa, cioè su come dare voce in capitolo ai cittadini non solo e non tanto nel momento del voto, ma nelle decisioni nel corso dei mandati e delle legislature»7. Se si vuole accettare davvero la riflessione per cui la crisi è anche un’opportunità, bisogna scegliere una delle due Italie. Scegliere insomma con concretezza, e senza ingrossare il fiume dei proclami roboanti, da che parte stare. A tal proposito, la totale inadeguatezza dell’attuale panorama politico italiano rende il “centro-sinistra” un aggeggio incomprensibile, culturalmente subalterno e senza futuro, quando non politicista e dannoso. Anche la “sinistra”, allora, può forse ritrovare se stessa abbandonando paternalismo e smanie di potere, e abbracciando con un pizzico d’incoscienza un’etica quotidiana della partecipazione. È necessario, in ultima analisi, avviare una stagione complessa di trasformazione, che metta in discussione le stesse identità dei singoli e dei soggetti collettivi allo scopo di liberarci del neoliberismo e di riconquistare la democrazia: a patto che quest’ultima sia davvero intesa come una faccenda di vita, e non come una messinscena estetica. Ci vuol tempo e nessuno dice che sia facile: ma d’altronde, si tratta di navigare in mare aperto e senza possedere davvero una bussola.

7 M. P. B. Sclavi, La sindrome dell’arto fantasma. I ritardi della sinistra in materia di democrazia partecipativa, in «Italianieuropei», ottobre 2012, http://goo.gl/ vQtlSF.


Mohamed Hanchi - Tunisia

Democrazia partecipata e pratiche di governo del territorio

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di Giuseppe Beccia

na cosa è certa: in Italia la democrazia rappresentativa non funziona più. E questa, si potrebbe dire, non è certo una novità. Il punto è che lo scollamento tra rappresentanti e rappresentati aumenta esponenzialmente e molti indicatori sono lì a provarlo. C’è stata, forse, un’epoca nella quale la democrazia rappresentativa riusciva efficacemente a interpretare i bisogni della società e a farsene carico. Questo succedeva grazie anche a un articolato sistema di corpi intermedi che metteva in connessione l’individuo con il suo rappresentante istituzionale. Oggi la rete capillare di partecipazione e intermediazione politica che esisteva un tempo non c’è più. La partecipazione politica si è ridotta a un fatto effimero, si organizza per le competizioni elettorali e poi scompare. È in atto, da anni ormai, una netta virata del sistema politico italiano verso il modello del caucus americano, ovvero grandi macchine di organizzazione del consenso che si mettono in moto per le elezioni e funzionano come grandi “imprese” del voto: orientano le proprie scelte politiche sui sondaggi, puntano tutto sulla comunicazione, sul branding e sul marketing, intercettano

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l’interesse e il consenso dell’elettore utilizzando le più moderne tecniche commerciali. In altre parole, vendono prodotti. La politica, in questo modo, smette di essere lo spazio del confronto tra diverse idee di società e modelli di sviluppo, per diventare un supermercato dove la proposta politico-commerciale è il risultato di precisi calcoli di convenienza nella raccolta del consenso. Questo fenomeno si accompagna a quello della personalizzazione della politica: si punta tutto su leader mediatici, su comunicatori in grado di vendere meglio il prodotto. Spariscono del tutto i corpi intermedi. In questo contesto, i cittadini non hanno più occasioni né strumenti per incidere sulle scelte politiche, per avanzare le proprie istanze, per esercitare i propri diritti democratici. La partecipazione politica, in sostanza, si riduce al voto. Poi non c’è quasi nulla, non ci sono vere occasioni di partecipazione, non ci sono strumenti per esercitare la sovranità. La politica rappresentativa, insomma, è in crisi. La democrazia basata sulla delega è in crisi. A dimostrarlo sono sia l’altissimo dato dell’astensionismo galoppante, sia il voto a forze politiche che promettono di puntare tutto sulle nuove frontiere della democrazia diretta, sui referendum on line e su altre forme di condivisione tra eletti ed elettori. È un segnale, i cittadini sentono il bisogno di riappropriarsi del potere di scegliere e premiano chi si adopera in questa direzione. Per la verità, la democrazia diretta portata avanti a suon di referendum on line, al di là delle apparenze, comporta in sé un rischio drammatico: quello di determinare l’agire politico sulla base di continui e oscillanti sondaggi di opinione senza, di fatto, adoperarsi per costruire dei modelli di società. Insomma, la deriva della democrazia diretta potrebbe essere proprio quella dei caucus americani. Non è detto, tuttavia, che questo stato di crisi della democrazia sia necessariamente un male. I momenti di crisi possono essere anche delle grandi opportunità per produrre cambiamenti, sono i momenti ideali per innovare. A patto, chiaramente, di saper cogliere gli elementi determinanti della crisi e saper cambiare la rotta scegliendo nuove strade. In questo contesto, la frontiera che potrebbe salvarci è quella della democrazia partecipativa, pensata come un sistema articolato di assemblee, raccolta di proposte, istanze e votazioni che metta i cittadini nelle condizioni non solo di scegliere, decidere e riappropriarsi di pezzi di sovranità ma anche di crescere insieme come democrazia, di approfondire, di confrontarsi. E tutto questo, chiaramente, non può avvenire attraverso un sondaggio on line, se non con molti limiti. Le tecniche


della democrazia partecipativa dovrebbero diventare innanzitutto un patrimonio di ciò che resta dei corpi intermedi, dovrebbero rappresentare il grimaldello che restituisce senso e sostanza ai corpi intermedi. Dovrebbero, in altre parole, caratterizzare un rilancio di partiti, sindacati e associazioni di categoria, diventati troppo spesso spazi autoreferenziali, privi di democrazia sostanziale. E poi, chiaramente, la democrazia partecipativa va sperimentata a livello territoriale, nella vita delle comunità locali. Quanto realizzato a Troia, comune di settemila abitanti in provincia di Foggia, è stato uno degli esperimenti più classici della democrazia partecipativa: il bilancio partecipativo. Un progetto ambizioso, durato ben 18 mesi, grazie al quale i cittadini hanno potuto decidere direttamente come utilizzare una parte del bilancio comunale, ovvero 100 mila euro, attraverso un articolato sistema di assemblee, raccolta di proposte e votazioni. Troia è stata la prima città pugliese a praticare il bilancio partecipativo, e forse l’unica in Italia a farlo non su spinta di un’amministrazione, ma su proposta di una vasta schiera di associazioni, movimenti e partiti. L’idea è partita infatti da un gruppo di organizzazioni e liberi cittadini, convinti che la politica non possa ridursi soltanto a un evento elettorale, ma debba essere responsabilità quotidiana non solo di ogni amministratore pubblico, ma anche di ogni elettrice ed elettore. Questo gruppo di persone ha provato a trasmettere un messaggio: una democrazia matura non può limitarsi ad interpellare i cittadini soltanto nel momento del voto, una volta ogni cinque anni, ma deve invece farlo costantemente per conoscere i problemi, le priorità, le idee e le proposte per una città migliore. Tutto è cominciato nel novembre del 2011, con un appello che invitava l’amministrazione comunale a praticare il bilancio partecipativo seguendo l’esempio di altri enti in tutta Italia. L’appello ha raccolto l’adesione di 16 realtà tra partiti, movimenti e associazioni, ovvero più del 90 per cento di ciò che si muove sul piano politico e culturale sul territorio. L’amministrazione comunale, in una prima fase, pur guardando all’iniziativa con incertezza e diffidenza, non ha sbattuto la porta in faccia ai promotori, ma ha preso tempo, chiedendo di presentare un progetto articolato, con una definizione delle fasi, dei tempi e dei ruoli. Hanno così avuto inizio cinque lunghi mesi di incontri tra i vari soggetti promotori. Cinque mesi difficili, forse i più difficili, perché bisognava definire insieme le regole di questa esperienza di bilancio partecipativo: non esistono infatti formule standard,

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ma ogni comune adotta regole e strumenti diversi. Cinque mesi di studio su esperienze analoghe e di confronto serrato, settimana dopo settimana, con riunioni itineranti per coinvolgere anche fisicamente tutti gli spazi dei soggetti promotori e fare in modo che tutti si sentissero a pieno titolo coinvolti. Alla fine, si è scelto di praticare il “modello Colorno”, un comune della provincia di Parma che fa parte dell’Associazione dei Comuni virtuosi1 e che pratica da tempo il bilancio partecipativo. Era l’esperienza più difficile da praticare, ma si è deciso di adottarla e declinarla a livello locale perché era anche quella che somigliava di più alla realtà di Troia. Questo modello prevede la realizzazione di assemblee di quartiere e poi di assemblee cittadine alle quali possono partecipare tutti i cittadini che vogliano avanzare idee e proposte. A differenza di questo modello, nell’esperienza di Capannori, in provincia di Lucca, per esempio, alla discussione partecipa solo un gruppo “rappresentativo” di 80 residenti (uomini, donne, anziani, migranti) su 40 mila abitanti. Il progetto troiano è stato articolato in sei fasi distinte. La prima (giugno-settembre 2012) è stata la fase informativa nel corso della quale i cittadini sono stati messi al corrente del progetto attraverso tutti gli strumenti possibili: dalle assemblee in piazza, ai gazebo, dai bollettini comunali a manifesti e flyer. La fase due, invece, è stata quella propositiva, ovvero quella delle assemblee e della raccolta delle proposte: è partita nel settembre del 2012, con due cicli di incontri, prima nei quattro quartieri e poi in assemblee cittadine. Nelle assemblee si è provato a sperimentare sin da subito le pratiche partecipative: piccoli gruppi di lavoro elaboravano proposte e idee progettuali, le condividevano in plenaria, le proposte venivano poi ridiscusse ed accorpate con quelle simili, fino ad arrivare ad una sintesi. Ogni assemblea aveva un facilitatore, con l’obiettivo di far rispettare le poche regole condivise a inizio discussione (per esempio, la durata degli interventi, che non dovevano superare i tre minuti) e un rapporteur con il compito di fare la sintesi condivisa delle proposte su grandi tabelloni e poi scrivere il report dell’assemblea, che, di fatto, era già preparato in diretta, in modo che nessuno potesse “interpretare” gli esiti della discussione. Le idee progettuali dei cittadini sono state raccolte in tre categorie: opere pubbliche; servizi al cittadino, progetti. Non ci si è peraltro limitati a raccogliere le proposte durante le assemblee cittadine: dopo aver tenuto sette assemblee, sono stati distribuiti 14 box di raccolta delle proposte nei bar, nelle tabaccherie, nelle lavanderie, 1 www.comunivirtuosi.org.


presso gli uffici comunali, e così via. Chiunque non avesse potuto partecipare alle assemblee, recuperata l’apposita scheda di raccolta proposte (pre-stampata e distribuita in tutte le case attraverso il bollettino comunale), poteva depositare la propria proposta all’interno dei box. In ultimo è stato attivato anche un sistema di raccolta proposte on line attraverso un modulo dedicato sul blog del bilancio partecipativo2, per fornire uno strumento in più a chi non aveva potuto usufruire di nessuna delle due occasioni precedenti. Insieme alle proposte, tutte rigorosamente anonime, sono state raccolte anche le domande aperte che i cittadini desideravano rivolgere all’amministrazione comunale, con l’assicurazione che il sindaco e la giunta avrebbero risposto a tutte, cosa effettivamente accaduta dopo qualche mese attraverso il bollettino comunale e attraverso un momento di confronto pubblico. In tutto, alla fine della fase propositiva sono pervenute circa 600 proposte, sugli argomenti più svariati: dal verde pubblico alla viabilità, dalle politiche sociali alla cultura, dalla mobilità sostenibile alle politiche per il lavoro. A quel punto è iniziata la terza fase: quella della verifica di fattibilità. Le proposte sono state sottoposte agli uffici comunali, che hanno innanzi tutto provveduto a una selezione delle proposte ammissibili e hanno scartato, invece, quelle che non riguardavano atti o servizi di competenza comunale, e quelle che prevedevano una spesa superiore ai 100 mila euro. Per ognuna delle proposte scartate, gli uffici comunali avevano il compito di motivare l’esclusione, illustrando il sistema delle competenze e i costi. Si è trattato, quindi, anche di una grande operazione di educazione civica. Al termine di questa prima selezione si è giunti a definire una lista di circa 200 proposte. Dopo un ulteriore accorpamento delle idee tra loro simili, sono rimaste 58 proposte giudicate “fattibili”. Si è cercato di produrre proposte accorpate dal valore complessivo di circa 100 mila euro, in modo da rendere più semplice la fase del voto. Ciascun cittadino, così, avrebbe potuto votare una sola proposta da 100 mila euro che raccoglieva, spesso, più proposte dello stesso tipo. Per esempio, molti cittadini hanno proposto la risistemazione di marciapiedi, ma ciascun cittadino l’ha proposto per una strada diversa, e alla fine si è prodotta una proposta unica di “risistemazione marciapiedi” che ne raccoglieva diverse. Le 58 proposte così accorpate sono andate a costituire, alla fine di questa fase, un’unica scheda elettorale da sottoporre al voto dei cittadini. Terminata la fase della verifica di fattibilità, ha avuto inizio la quarta 2 bilanciopartecipativotroja.blogspot.it.

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fase, quella della campagna elettorale e del voto. Il 18 maggio 2013, con un’iniziativa pubblica di presentazione delle proposte e della scheda elettorale, si è aperta ufficialmente la campagna elettorale. Molti cittadini a quel punto hanno iniziato a promuovere la propria proposta, o si sono mobilitati per quella che ritenevano più valida. Si è votato dall’1 al 30 giugno, in modo da avere il risultato in tempo per l’approvazione del bilancio di previsione – scadenza poi slittata al 30 settembre e, successivamente, al 30 novembre. Le procedure elettorali sono state gestite dall’ufficio elettorale del Comune di Troia, con qualche novità: rispetto alle elezioni politiche e amministrative, il voto è stato aperto anche a tutti i sedicenni e agli immigrati residenti. Si poteva votare ogni giorno presso il municipio, mentre nei fine settimana sono stati allestiti seggi itineranti, con gazebo in giro per la città. Alla fine hanno votato circa mille persone, ovvero, considerando la media degli elettori in occasione delle scadenze elettorali, un elettore su quattro: molto più delle migliori aspettative dei promotori e molto più della media dei votanti delle altre esperienze di bilancio partecipativo. Dal conteggio sono risultate, per la precisione, 995 schede votate di cui 983 voti validi. Dall’anagrafe dei votanti risulta che, dei 995 cittadini che hanno votato, 498 sono uomini e 497 sono donne: una quasi perfetta parità di genere. Al termine dello spoglio ha vinto, con 173 voti, la proposta n. 4: “creazione parchi per bambini in zona La Fiorita e in piazza Giovanni Paolo II”. Ha prevalso, dunque, l’idea di creare dei luoghi di verde pubblico e socialità nella zona di recente costruzione nel quartiere S. Secondino. Seconda proposta maggiormente suffragata è stata la n. 57 – “rete Wi-Fi gratuita per tutto il paese e in tutti i locali comunali” – con 137 voti, risultato che testimonia positivamente quanto i giovani abbiano partecipato in gran numero alle consultazioni. A seguire, con 116 voti, la proposta n. 5, “creazione Casa dell’Acqua e del Latte con distributori automatici alla spina”. Interessante notare come anche la proposta n. 22 sui “finanziamenti per il sostegno al lavoro giovanile (es. bandi per imprenditoria giovanile)” abbia totalizzato 80 voti, segno che il tema del lavoro giovanile è considerato centrale tra le problematiche cittadine. Le ultime due fasi, ancora in corso, sono quelle dell’inserimento della proposta vincente nel bilancio comunale – l’ufficio tecnico già in settembre ha avuto mandato dalla giunta di predisporre il progetto esecutivo – e dell’analisi e della verifica del percorso fatto, che coinciderà, di fatto, con l’avvio del bilancio partecipativo 2014. Il bilancio partecipativo è stato insomma una grande occasione


per ri-dare sovranità direttamente ai cittadini, affidando loro il potere di decidere. L’iniziativa ha avuto una doppia valenza: da un lato, fare in modo che le idee e le proposte concrete dei cittadini potessero diventare realtà; dall’altro, è servita a riportare tutti alla consapevolezza che il governo della cosa pubblica appartiene a ciascun cittadino. È stato un processo innovativo e sperimentale che ha consentito ai cittadini di Troia di confrontarsi sui problemi del paese, sugli interventi da realizzare e su tante altre “buone pratiche” da introdurre nella vita democratica della comunità. Il limite vero della democrazia partecipativa è organizzativo. Fare un bilancio partecipativo per scegliere insieme come utilizzare una parte del bilancio di un ente è cosa estremamente complessa e richiede tempo, pazienza, sforzi organizzativi notevoli. Si tratta peraltro di un esperimento che si può fare a livello di comunità, in comuni piccoli e grandi (lo ha fatto anche Porto Alegre, in Brasile, che ha un milione e mezzo di abitanti), ma non è fattibile a livello nazionale – non con le stesse modalità di un bilancio partecipativo comunale. Si possono, tuttavia, adottare (o inventare) altri strumenti per consentire ai cittadini, o a determinati segmenti della società, di partecipare con le proprie idee e con le proprie proposte alla definizione delle scelte politiche (consulte, convention tematiche con l’uso di tecniche partecipative, consultazioni on line, forum di progettazione partecipata, etc.). Si possono applicare gli strumenti della democrazia partecipativa all’interno dei meccanismi decisionali di alcune comunità politiche: partiti, sindacati, associazioni, etc. Il cammino fatto finora, comunque, insegna che il livello della comunità cittadina è quello nel quale si può mettere in pratica un cambiamento vero e sostanziale nell’approccio alla questione della democrazia e della partecipazione. È una strada stretta, tortuosa e sicuramente insufficiente, ma è un punto di partenza, un punto di ripartenza. Il tempo della delega, del resto, è finito: oggi è il tempo della partecipazione e delle scelte condivise.

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Speedy Graphito

Like democracy, reti e organizzazione collettiva

di Claudio Riccio

I

nternet non è solo uno strumento di lotta, internet è un terreno di lotta, ed è un terreno sul quale, ad oggi, la sconfitta di chi ambiva a una rete libera e orizzontale è inconfutabile. Quello spazio reticolare partecipativo in cui sarebbe stato possibile sperimentare nuove forme di cittadinanza e partecipazione chiamato web 2.0, se mai è esistito nelle forme che la retorica cyberentusiasta aveva descritto, oggi si può dire morto o, quantomeno, incatenato. Internet oggi è soprattutto uno spazio verticale e chiuso in cui grandi corporation sfruttano le nostre relazioni sociali, le nostre interazioni, la nostra produzione volontaria e gratuita di contenuti per estrarre plusvalore, mettendo al bando l’anonimato, piegando la struttura stessa della rete alle esigenze del profitto. Viviamo in un mondo sempre più ad attrito zero in cui le democrazie occidentali – complici disastrose scelte politiche e un intreccio “criminale” tra istituzioni e mercati – sono sempre più ostaggio della finanza speculativa e di poche e grandi corporation


che condizionano gran parte dell’azione dei governi, indirizzano i processi sovranazionali e controllano in modo quasi assoluto lo spazio del world wide web. In una società disgregata divenuta somma di solitudini, in cui si riducono gli spazi pubblici nelle città, in cui il lavoro è sempre più frammentato e precario, in cui a causa della deindustrializzazione non esistono quasi più i grandi luoghi di lavoro collettivo, il web è diventato uno dei principali luoghi di partecipazione imprescindibile per ogni forma di attivismo. Sono molteplici i motivi della crisi della partecipazione. In questa analisi ci limitiamo a evidenziarne due, estremamente connessi tra loro: identità labili, deboli in cui diventa estremamente difficile riconoscersi, e incapacità della politica e spesso anche dei movimenti di lotta di emozionare, entusiasmare, superare i limiti imposti dalla razionalità del pensiero unico e affermare l’alternativa. Senza eccessive semplificazioni possiamo infatti affermare che i movimenti di massa e le grandi esplosioni di partecipazione avvengono dinanzi a un obiettivo chiaro (immediato o di lungo periodo), quando matura un senso di appartenenza comune e se si trasmette la sensazione che il cambiamento sia possibile e che, quindi, la partecipazione sia utile e necessaria. In una fase in cui l’adesione del singolo a un progetto politico è labile, se non inesistente, sparisce il voto ideologico o di testimonianza e appartenenza e, con esso, vengono meno tutte le forme di partecipazione delegata, ma appassionata: se non è possibile associare un’idea a una categoria, a una parte, o se comunque non ci si riconosce in essa, per testimoniare la propria idea basta scriverla, diffonderla nel mondo, affermarla individualmente. Complici la crisi generale della partecipazione e, soprattutto, la struttura delle reti odierne, il potenziale di partecipazione collettiva è oggi notevolmente ridimensionato, e i social network sono diventati sempre più strumenti di sfogo individuale o di autorappresentazione in cui l’unico processo collettivo rimasto su larga scala è l’onda emotiva, imposta da notizie particolarmente rilevanti o dalle scelte di priorità dell’informazione mainstream. Non a caso Twitter, in particolare, è sempre più usato in funzione di second screen, ovvero di strumento per commentare la notizia mainstream e non, come invece pur si potrebbe, per aiutare i movimenti politici, sociali e d’opinione a dettare l’agenda pubblica. I grandi media, infatti, anche al tempo della rete continuano a essere fondamentali nella formazione del discorso pubblico,

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perché la rete è oggi uno spazio denso, con una miriade crescente di nodi, ma un numero molto ridotto di hub, in cui pesano quasi solo i “grandi”, quasi mai indipendenti: la rete, oggi, è uno spazio verticale. La prima generazione dei mass media, erroneamente accomunata a internet, ha avuto nella televisione il suo ariete di sfondamento nella società, svolgendo un ruolo importantissimo a partire dagli anni ’80 nella trasformazione del dibattito pubblico, smantellando sistematicamente tutti i punti di riferimento culturale, livellando verso il basso l’alfabetizzazione civile. Se la televisione ebbe un ruolo, specialmente nel dopoguerra, nell’alfabetizzazione delle masse e nella diffusione delle lingue nazionali, successivamente ha contribuito a determinare un analfabetismo di ritorno avvelenando le fonti cui si abbeverava il pensiero critico. È divenuta un potente strumento di controllo delle masse che ha agito più promuovendo passività che instillando e attivando forme di partecipazione e interesse per la cosa pubblica. Ben diversa e più pericolosa è l’azione di internet, che ha trasformato radicalmente il tempo e il peso (specifico) del dibattito pubblico. Scrive Lovink in Ossessioni Collettive: siamo diventati «utenti-operai che lavorano per l’ape regina Google. È davvero seducente far parte del mondo della “impollinazione” online, riprendendo il termine coniato dall’economista francese Yann Moulier Boutang, con miliardi di utenti che sembrano tante api che volano da un sito all’altro solo per accrescere il valore dei proprietari dell’alveare»1. Siamo caduti nella trappola di «reti prive di scopo, divoratrici di tempo, veniamo risucchiati sempre più in profondità in una caverna sociale senza sapere cosa stiamo cercando»2. L’enorme mole di informazioni viene oggi diffusa in una quantità e a una velocità tali da rendere quasi impossibile per il cervello umano rielaborare tutti i contenuti con cui viene bombardato; proprio perché riempito a dismisura, il dibattito pubblico viene paradossalmente svuotato. È un processo inflazionistico basato sul multitasking e sulla connettività 24 ore su 24, che invade il terreno del discorso e lo fa franare, lo schiaccia. I tempi con cui si usura un’informazione, con cui questa diventa vecchia, sono sempre più rapidi, al punto che il singolo individuo ha difficoltà a rielaborare e interpretare e si limita spesso alla sola 1 G. Lovink, Ossessioni collettive. Critica dei social media, Università Bocconi Editore, Milano 2012, cap. 2. 2 Ibid.


reazione emotiva, mentre diventa sempre più difficile davanti a un singolo provvedimento, atto, dichiarazione, progettare e mettere in campo una risposta collettiva costruita in modo partecipato e non imposta dall’alto. Evidentemente, la crisi della democrazia e della partecipazione politica e sociale non è frutto di internet, anzi; ma tale trasformazione nei processi partecipativi si innesta proprio su questo terreno, così fluido e insidioso. Si sottovaluta spesso quanto tali nuovi processi e tempi di produzione e diffusione collettiva abbiano trasformato le possibilità di partecipazione politica, e quanto ciò sia insidioso al tempo della struttura liquida e del pensiero debole. I modelli di partecipazione liquida, però, rendono più debole chi è già debole: la favola della partecipazione liquida è un’arma retorica dalla parte di chi ha il potere, di chi è forte, è la proposta organizzativa di chi ha il potere e vuole che nessuno abbia gli strumenti per sottrarglielo. I principali social network, Facebook in modo particolare, rappresentano un modello che sintetizza, in modo complesso e non esplicito, i processi di governance globale contemporanei. È un mondo in cui tutti tendono a partecipare, hanno gli strumenti per esprimere la propria posizione, ma non possono determinare un cambiamento, perché, così come avviene nella crisi delle democrazie rappresentative, il potere è altrove. Nessun processo partecipativo confinato in quello spazio può avere uno sbocco concreto, ma tutti vivono nella convinzione di partecipare: è l’estetica della partecipazione. Sembra paradossale, ma l’attuale struttura del web 2.0 non ha nulla di partecipativo, se non i meccanismi con cui viene prodotto plusvalore, accumulando nelle mani di pochi enormi quantità di informazioni. I social network nella loro attuale forma, piegata agli interessi economici delle corporation proprietarie, sono tutt’altro che social: essi amplificano solitudini. La maggior parte dei contenuti prodotti sulle piattaforme come Facebook vengono visualizzati solo da cerchie ristrette di contatti, tendenzialmente omogenei, come già avveniva nella blogsfera. Su Twitter la maggior parte degli utenti ha un numero di followers così basso da ritrovarsi inconsapevolmente nella situazione di scrivere da solo restando convinto di comunicare al mondo intero. Sui social network contemporanei, inoltre, non esiste lo spazio del dissenso. Com’è noto, su Facebook non esiste il tasto “non mi piace”, e le opzioni per esprimere un parere sono prevalentemente due: like o ignorare, ovvero votare sì o astenersi. Al massimo è

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possibile commentare, purché non ci si dilunghi in considerazioni articolate; più efficace è lo hate speech, la battuta superficiale o polemica. È la like democracy: il modello del pensiero unico che si afferma. Ma nell’evidenziare tale situazione si vuole tutt’altro che assumere un approccio cyberscettico o pseudoluddista: dobbiamo essere consapevoli che internet è una “macchina” e, in quanto prodotto sociale, è legata in un rapporto biunivoco con il mondo e ne riflette i rapporti di forza nella società, nei processi produttivi, nelle relazioni sociali e nella governance globale. Il web ha in sé tanto la potenzialità di renderci più liberi, quanto la possibilità di ridurre gli spazi di partecipazione, di essere strumento al servizio dei conflitti o di anestetizzarli e disinnescarli. L’esito di questa lotta interna al terreno delle reti è incerto e, nonostante la sproporzione di forze, dipenderà dalla capacità, tecnica ma soprattutto politica, di trasformare i social network in reti sociali, piegare le reti, rendendole orizzontali e distribuite, organizzando l’azione collettiva e ricostruendo reti e socialità nelle città, nei luoghi di lavoro e studio, negli spazi pubblici e comuni, sulla rete, contrapponendo alla a-conflittuale like democracy una link democracy, non pacificata e atrofizzata, basata sulla cooperazione, l’azione collettiva e il discorso pubblico, orizzontale.


EpS, Beirut

Decostruire i falsi miti della rete, coglierne le opportunità Intervista a Eugenio Iorio

di Claudio Riccio

O

ggi sembra che nessuna discussione sulle forme di partecipazione possa prescindere dalla rete, ma resta oggettivamente di basso livello sia il dibattito su larga scala sia, spesso, quello tra gli addetti ai lavori: si discute molto di profili tecnici e degli usi possibili di interne, ma raramente si analizza la struttura del web. Proviamo a smontare alcuni miti insieme a Eugenio Iorio, Ceo di Imaginifica1, presidente del comitato scientifico del Centro Studi Democrazie Digitali2, docente presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, da tempo attento al dibattito anche internazionale sulle potenzialità 1 http://www.imaginifica.com/ 2 http://goo.gl/2QLkwq

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della rete e le sue insidie. Cominciamo con il chiedere: la rete è democratica? Promuove o riduce la partecipazione? È un ambiente neutro? Il web 2.0 non ha assolutamente democratizzato la rete: ha solo creato delle false illusioni, minando consapevolezza e soggettività, mutando le forme della politica, che sempre più di rado viene inquadrata come processo fondato su una logica di conflitto tra le parti, come rapporto tra tesi, antitesi e sintesi. Non è aumentata la partecipazione ai processi politici, come dimostra il fenomeno del Movimento 5 Stelle, che nulla ha di democratico e tanto meno ha dato vita a nuove procedure di partecipazione dal basso, ma piuttosto rappresenta un modello totalmente autoritario, top-down, con forti processi di fidelizzazione basati sul leader e propagati dal leader, a cui rispondono coloro che si riconoscono in un brand di tipo commerciale, in un simbolismo da tribù. Se oggi la rete non è democratica dobbiamo però chiederci se è possibile che lo sia. È possibile costruire delle «identità di progetto», come le definisce Manuel Castells, che tendano a innovare la democrazia sulla rete? Le reti, i sistemi di comunicazione, sempre più trasformati dalle logiche di mercato e da dimensioni di controllo legate all’economic warfare, sono uno spazio in cui i grandi top player (Google, Facebook, Apple, Microsoft...) hanno come unica finalità l’utilizzo degli utenti come bacini di consumatori per i propri servizi. Io non credo che la rete sia neutra, e questo sulla base di un concetto molto semplice, esposto anche da McLuhan, Lovink, Formenti: non è come usiamo la rete a determinare l’identità di quel che facciamo. L’identità di progetto della rete è invece determinata dagli over the top, ovvero dai proprietari dei protocolli di funzionamento, che costruiscono un limite gnoseologico della conoscenza, un dominio sui saperi che mira al dumping down, ovvero alla tendenza che spinge l’utente ad utilizzare e accettare frame semplificati e riduzioni semplicistiche della realtà. Viviamo, come sostengono alcuni, un rincoglionimento di massa? Sicuramente Google e Facebook ci hanno imposto logiche di influenza e di dominio impressionanti. Basti pensare al fatto che la realtà ci viene rappresentata dai primi link che appaiono in una ricerca e che tendiamo a classificare gli eventi della nostra vita


secondo la logica binaria del mi piace/non mi piace. Possiamo sicuramente dire che siamo bloccati in queste logiche. Noi pensiamo che le nostre relazioni sulla rete, le nostre ricerche, i nostri scambi, quel che leggiamo e scriviamo possano restituire informazioni sulla realtà che ci circonda, ma evidentemente non è così. Gli over the top hanno generato non solo un sistema di influenza che ha cambiato la nostra soggettività, rendendola sempre più esasperata, sempre più individualistica; l’effetto più rilevante del ruolo di Google, Facebook e altri è il dumping down, una gabbia gnoseologica delle conoscenze dell’utente, il quale si concentra su forme esasperate di self marketing, di autopromozione, sempre più impegnato a raccontare fatti che spesso non interessano a nessuno, diventando sempre più sociopatico, vivendo una routine basata sulla solitudine e su relazioni false, solo percepite, trascorrendo ore in un ambiente sottoposto a controllo e subendo forme elevatissime di influenza da parte dei proprietari di quella “gabbia”. Come un file compromesso, noi apprendiamo la realtà in un processo cognitivo in cui il framing (ovvero l’incorniciatura dei fatti) è totalmente condizionato non solo dal potere di priming3 e di indexing, ma soprattutto dalla codifica sofisticata dei meme informazionali, progettati come virus per diffondersi nella rete, modificandone l’immaginario e provocando il fail di sistema nelle persone comuni. Rispetto agli anni ‘90 i movimenti hanno subìto un notevole arretramento sul terreno delle culture digitali e delle competenze tecniche. Se all’epoca chi sperimentava gli usi alternativi e innovativi della rete spesso lo faceva contribuendo a una causa collettiva, oggi la stessa tipologia di persone ambisce piuttosto ad essere assunta dalle grandi corporation, a vendere loro un proprio prodotto, a realizzare una startup di successo. Cosa è accaduto? Negli anni ’90 grande fu l’influenza sulle controculture di Deleuze e Guattari per i concetti di rizoma, schizofrenia e caosmosi, di Foucault per la sua analisi sui sistemi di controllo e sul concetto di biopolitica, di Pierre Levy sull’intelligenza collettiva connotata di cyberottimismo, o ancora di Hakim Bey per il concetto di zona 3 In psicologia, il priming è un effetto per il quale l’esposizione a uno stimolo influenza la risposta a stimoli successivi. Si veda http://goo.gl/d6sFlp.

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temporaneamente autonoma. Forte era l’idea che si dovessero creare connessioni perché non ci fossero domini nel controllo dei saperi. L’utopia di costruire nuovi meccanismi di regolazione del mercato non risolveva la questione fondamentale, tant’è che negli anni 2000 il mercato ha iniziato a fagocitare tutta la produzione di pensiero critico su internet, a sfruttare la produzione di contenuti dal basso. Nel momento in cui viene fagocitata anche una cultura libertaria – che spesso non era neppure anticapitalista – come quella prevalente delle cyberculture degli anni ’90, l’esito è un approccio anarcoindividualista, che accetta il ruolo dominante del mercato nelle reti ed espelle il conflitto. Conflitto che è invece “sangue”, forma vitale e necessaria della politica, necessaria per mettere in discussione la grammatica egemone e dominante. Ma è possibile mettere in discussione la grammatica culturale egemone con gli strumenti prodotti dal potere egemone? O gli strumenti prodotti dalle grammatiche culturali dominanti, la loro forma e i relativi obiettivi sembrano piuttosto progettati per impedirne un uso finalizzato a sovvertire il potere egemone? La tecnologia si può usare ancora per mettere in discussione la grammatica culturale egemone, ma solo in modalità tattica. Negli anni ’90 non eravamo cyberottimisti sulle libertà in rete, sapevamo che tutti gli strumenti di comunicazione possono essere sottoposti a controllo, sottomessi al potere. Eravamo invece ottimisti sull’impossibilità effettiva di ingabbiare il sapere, che per sua natura non tollera il dominio. Al netto dell’attuale situazione e del fatto che la rete non è mai neutra, è possibile usare una tecnologia “meno condizionata” da forme di controllo attraverso strumenti come i tools del tor project4, Diaspora5, e così via, che permettono di avere relazioni in pieno anonimato e costruire interstizi vitali liberi da controllo. Ma tutto questo non basta. Serve anche organizzare un uso consapevole degli strumenti di massa e tramandare memoria, pensiero critico, strumenti. Serve 4 Tor (The Onion Router) è un sistema di comunicazione anonima per internet, che protegge gli utenti dall’analisi del traffico. Si veda http://goo.gl/UN87kg. 5 Diaspora è un personal web server costituito da software libero che implementa una rete sociale distribuita che offre funzionalità simili a quelle di Facebook. Si veda http://goo.gl/AyQgoN.


consapevolezza: il frameset con cui ragioniamo e interpretiamo il mondo è basato oggi su un algoritmo proprietario, attraverso cui la realtà è costruita dai primi link indicizzati nelle ricerche di Google, che detiene quindi il potere di decidere quale sia la verità oggettiva e di modificare la memoria individuale e collettiva; entrambi strumenti necessari per la convivenza civile, la democrazia e la proiezione del futuro. Citavi la questione della memoria, oggi, dicevi, messa a dura prova non solo dal processo con cui si formano i contenuti, ma anche dal fattore tempo. La velocità delle comunicazioni, dei tempi di reazione a grandissime quantità di informazioni, i tempi con cui una notizia o un evento si “consuma” mettono in moto un processo che trasforma il pensiero, accentua il dato emozionale e lo rende meno profondo e articolato. Quanto incide, questo, sulle possibilità di reagire in maniera organizzata e consapevole a un evento, a una scelta politica presa rapidamente e che altrettanto rapidamente invecchia e diventa obsoleta? E quanto incide sulla democrazia che, come sappiamo, si basa sulla memoria collettiva? Bisogna partire dal funzionamento delle reti. Barabasi ci insegna che le reti devono tenere conto di tre elementi fondamentali: la grandezza del network, la capacità di amplificazione e la capacità del reach, ovvero di far arrivare il tuo messaggio e generare una call to action su di esso. Oggi se non si costruiscono le reti – e se non lo si fa secondo queste tre componenti metriche – è molto difficile, se non impossibile comunicare in modo efficace. La costruzione dell’identità di progetto, inoltre, è fondamentale perché i processi di comunicazione possano avvenire. Oggi, per la conformazione mediologica, su Facebook e Twitter non comunichiamo davvero: da un punto di vista collettivo assumiamo delle routine, che determinano anche le visualizzazioni dei post su Facebook (gli utenti con cui ci relazioniamo maggiormente) o dei contenuti su Google: un meccanismo devastante per il nostro cervello. L’utente medio ignora che, al di là di quelle informazioni, trasformate in punti di vista e opinioni emotive, c’è una realtà più complessa, a volte diversa, sicuramente meno banale, per cui non ha altra scelta che adattarsi all’esistente per esserci. Molti neuroscienziati indagano questo fenomeno, che interessa intere classi anagrafiche che stanno subendo enormi

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trasformazioni, oserei dire antropologiche, dettate dall’information overload. Il digital divide ha infatti determinato sostanziali differenze tra individui: alcuni sono “orizzontali”, altri “verticali”. L’individuo verticale è colui che si è formato anche e soprattutto fuori dalla rete, sui libri, ha un background a prescindere, cui può “rivolgersi” nella formazione di un’opinione. L’individuo orizzontale, invece, non ha una formazione analogica, che presuppone sia l’individuo a costruire connessioni, ma assume l’informazione digitale delegando alla rete il compito di stabilire lo schema concettuale; nell’assumere l’informazione l’individuo orizzontale è condizionato nella formazione delle idee dalla forma della rete da cui la riceve, dagli algoritmi basati sulle routine, dalle reti omofiliache a cui appartiene, creando, abitando e vivendo una propria gabbia gnoseologica, a volte programmata appositamente. La memoria si trasforma, diventa veloce, quindi labile. Il nostro cervello ormai funziona come la RAM: passa informazioni, si lascia attraversare da queste, e la rapidità con cui questo processo avviene – a fronte delle grandi quantità di informazioni a cui siamo sottoposti – determina che a restare impresse siano specialmente le informazioni di natura emozionale. Pur trattandosi di un processo di tipo individuale, esso genera riflessi su una sfera di tipo collettivo.

Nel momento in cui la velocità e la forma del discorso impongono un forte ruolo della dimensione emozionale è possibile fare un salto di qualità nell’azione politica mediante la progettazione dei meme e dell’identità e attraverso strategie di polarizzazione, senza dimenticare la capacità di organizzazione? Io credo che serva fondamentalmente una grammatica culturale legata anche e soprattutto a un nuovo linguaggio. Il linguaggio è importante perché è istituente, perché rende evidenti i caratteri della grammatica culturale; afferma e chiarisce la dimensione valoriale; descrive quella esperienziale e soprattutto consente una proiezione verso il futuro. Il linguaggio può essere iscrivente di pratiche fasciste, così come di pratiche libertarie. Questa è la potenza del linguaggio: noi siamo condizionati dai frame, veicolati proprio dal linguaggio, che ci danno identità e riproducono il dominio, accrescono la forza dell’avversario proprio mentre lo combatti. La parola e, in generale, il segno possono essere il veicolo sul quale chiunque


può salire per farsi trasportare ovunque lo conduca la sua capacità immaginifica, sregolata, liberamente alimentata da spiritualità e sensualità e capace di sfruttare corrispondenze soggettivamente percepite (assunzioni). Per questo serve comporre un nuovo lessico e ridefinire le categorie di interpretazione, costruire modelli di analisi per fondare una nuova grammatica culturale. In un terreno in cui l’emotional sharing (la condivisione emotiva delle opinioni) e il suo linguaggio dominano le relazioni umane, non possiamo pensare di ripristinare tutto con un atteggiamento solo razionale, o senza rotture anche radicali; sarebbe come giocare a rugby in un campo da tennis. Per costruire una grammatica culturale diversa bisogna da un lato nutrire e alimentare consapevolezza, per poter vivere ambienti come Facebook – che è privatizzazione e negazione dello spazio pubblico – e, dall’altro lato, generare un largo utilizzo tattico dei media, che possa dar vita ad aggregazioni, relazioni, network vitali per identità di progetto, che si muovano non solo sul terreno razionale, ma siano capaci di usare le onde emotive per posizionare e sostenere le espressioni collettive del perché stare assieme. Dobbiamo ri-costruire zone temporalmente autonome in cui sia possibile stare insieme; non limitarci a fortezze digitali isolate in genere, ma uscire dalle solitudini, accettando differenza e conflitto, organizzandoci contro i domini che schiacciano la conoscenza, unico strumento di liberazione possibile.

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Intervista a Paolo Gerbaudo

A cura della redazione

P

aolo Gerbaudo, sociologo, insegna Cultura e società digitale presso il King’s College di Londra. È autore di Tweets and the streets. Social media and contemporary activism, libro pubblicato nel 2012 da Pluto Press. Gli abbiamo chiesto di raccontarci il complesso rapporto tra social media e attivismo nel contesto della rivoluzione egiziana del 2011, del movimento degli Indignados in Spagna e di Occupy Wall Street, con un occhio anche all’Italia. Gli attivisti utilizzano i social media come veicolo di contenuti e informazioni e come strumento per organizzare mobilitazioni. Ma sono più rilevanti questi aspetti tecnici, di cui tanto si parla, oppure l’uso dei social per trasmettere immaginario e narrazione e costruire

Sabotaje Al Montaje and SBimBo, Tenerife

Attivismo e social media oggi, da Occupy Wall Street al M5S


meme1? Il cambiamento apportato dai social media non è solamente tecnico e relativo alla loro capacità di distribuire informazioni. Questo aspetto, che ha “ossessionato” la maggior parte dei ricercatori, è infatti secondario rispetto all’elemento centrale del mondo dei social media: il piano emozionale. Sui social media gli attivisti sviluppano nuovi generi di comunicazione (come il tweet, il messaggio di stato su Facebook, e gli internet meme che circolano su diverse di queste piattaforme), che servono non solo a dare informazioni su eventi o problemi, ma anche a catalizzare emozioni collettive e scatenare un’aggregazione emozionale, processo attraverso cui diversi individui possono essere portati dal loro stato di isolamento, che caratterizza l’interazione su internet, a uno stato di aggregazione collettiva attorno a una passione politica comune. L’uso dei social media rappresenta quindi un cambiamento non solo tecnologico, ma anche culturale, sia nelle forme della comunicazione e dell’espressione politica, sia nell’immaginario della comunicazione politica radicale. Il nuovo immaginario, legato a un’azione collettiva basata su collaborazione e partecipazione, trova nell’ideologia dei social media, con la sua enfasi sulla condivisione (vedi il pulsante share), un’idea della cooperazione collettiva, un vocabolario con il quale immaginare una politica radicale. La costruzione di identità collettive attorno alle quali gli individui possano aggregarsi anche solo temporaneamente si esprime, ad esempio, nell’utilizzo di nomi collettivi come Anonymous, Occupy, Indignados. Sono etichette onnicomprensive e molto aperte e, al tempo stesso, identità, che possono agire come una sorta di calamita sociale attorno a cui gli individui possano aggregarsi, per sentirsi parte di qualcosa di più grande e per stabilire un legame di solidarietà con altri individui che partecipano a questa identità. È a questo processo di costruzione simbolica di uno spazio pubblico che fai riferimento quando parli dei social media come di un mezzo per «coreografare il raduno»? La terminologia della «coreografia del raduno», che uso nel mio 1 Un fenomeno di internet (o internet meme) si ha quando qualcosa diventa improvvisamente celebre tramite la propagazione di informazioni attraverso il web (http://goo.gl/h1u8y2).

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libro, indica che il processo centrale, nell’uso dei social media, è stato l’uso, da parte degli attivisti, di pagine Facebook e canali Twitter per trasformare raduni virtuali, ovvero aggregazioni di opinione pubblica, in raduni fisici. In questo senso, l’aspetto fondamentale dell’uso dei social media è la costruzione di eventi e di un immaginario attorno ad essi: quello che vediamo ad esempio con la funzione evento di Facebook, o nei tweet con hashtag che dagli eventi prendono il nome, come nel caso della rivoluzione egiziana (#Jan25), del 15 ottobre 2011 (#15O), o del 15 maggio spagnolo (#15M). Qual è impatto reale sull’azione collettiva di tutta l’attività che avviene su Twitter e Facebook al culmine delle mobilitazioni? È veramente quello lo strumento attraverso cui avviene il coordinamento, o è solo il più visibile? Hai osservato differenze in termini di impatto dell’utilizzo dei social media tra contesti diversi, come Occupy Wall Street e la rivoluzione egiziana? È indubbio che i social network siano diventati il principale veicolo di mobilitazione; sono il media più importante e quello che ha la maggiore capacità di raggiungere il pubblico. Ciascun social media è caratterizzato da un proprio pubblico e da un proprio tipo di interazione, e attrae uno strato sociale differente. Facebook e Twitter sono due social media profondamente differenti, che consentono agli attivisti interazioni differenti con il pubblico di simpatizzanti, sostenitori, partecipanti. Per motivi piuttosto ovvi, è Facebook che stato usato come mezzo principe di mobilitazione di massa: ha una penetrazione molto più alta di quella di Twitter (circa 10 volte superiore) e vi si utilizza un linguaggio molto più accessibile, anche per via dell’uso molto maggiore del linguaggio visuale rispetto a quello verbale. Quindi, gli attivisti usano Facebook per lo più come mezzo di reclutamento e mobilitazione, con cui dalla leadership del movimento si cerca di abbracciare nuove fasce della popolazione, per mobilitarle in occasione di proteste. Twitter si usa invece più per il dibattito interno al nucleo del movimento, e per la comunicazione interna ad esso, in quanto si tratta di uno spazio molto più marcato di più alto livello intellettuale, più progressista e con un pubblico molto più benestante. Nel tuo libro affermi che non è vero che i movimenti degli ultimi anni siano stati spontanei o senza leader, e che, al contrario, ci sono attivisti


molto presenti su Facebook e Twitter che diventano influencer con un ruolo chiave nella costruzione di uno spazio in cui si sviluppi l’azione collettiva. Si tratta però di una leadership diversa, con figure che restano un passo indietro. Quanto c’è di artificiale e forzato in questo tipo di leadership? È un elemento vincente o alla lunga ha pesato nella riuscita di alcuni di questi movimenti? E questi influencer sono poi anche quelli che hanno maggior peso sul campo oppure alcuni di loro hanno una percezione del movimento soltanto attraverso il web? Nell’epoca dei social media ma anche prima, l’idea della leaderlessness, l’assenza di leader, secondo cui tra coloro che partecipano ai movimenti sociali c’è perfetta uguaglianza e non ci sono differenze tra livelli di potere, è una grandissima mistificazione. In realtà i movimenti sociali sono sistemi complessi con diversi livelli di partecipazione: chi partecipa a tempo pieno, chi per poche ore, chi ha tanta esperienza, chi poca, chi ha tanto carisma, chi poco, chi ha i giusti contatti e chi non ne ha. Questa è la realtà dei movimenti sociali e della società in generale (i movimenti sociali non sono completamente diversi dalla realtà di cui sono parte). Il concetto di leaderlessness è legato all’idea tecno-libertaria, o tecno-utopista, che internet possa costituire uno spazio privo di quelle disuguaglianze che caratterizzano la nostra società al di là dello schermo. Anche questa è una mistificazione: dati e statistiche dimostrano che internet è uno spazio molto gerarchico, in cui esistono logiche di potere, in cui le cosiddette reti non sono affatto reti distribuite come alcuni tecno-hippy si ostinano a pensare, ma hanno in realtà un alto livello di centralizzazione. In The wealth of networks2, Yochai Benkler descrive le logiche di potere delle reti, in cui alcuni nodi diventano centrali e tendono ad attrarre sempre più connessioni e a diventare centri sempre più nevralgici delle reti. Credo sia necessario smascherare questa bugia della leaderlessness, che diventa per i leader, per coloro che fanno un lavoro importante e quotidiano per sostenere i movimenti sociali, una sorta di alibi per essere deresponsabilizzati e per non discutere della questione della leadership e della direzione dei movimenti, problema da sempre cruciale, che purtroppo spesso ha portato alla loro autodistruzione. Per esempio il movimento femminista degli anni ’70, descritto da Jo Freeman, aveva deciso, come tanti altri nel post-1968, di abbandonare ogni struttura formale. Ma al posto 2 Yale University Press, New Haven 2006, disponibile in download gratuito al link http://goo.gl/SbQJF3; ed it. La ricchezza della rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Università Bocconi editore, Milano 2007.

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delle strutture formali erano sorte gerarchie informali, formate da gruppi di amiche e compagne, che avevano un’influenza determinante sull’andamento del movimento. Si creavano quindi nuove forme di potere, tanto più problematiche quanto invisibili. Forme di leadership informale come queste sono ineliminabili. Non si può tornare completamente indietro alla leadership burocratica in cui si elegge un leader o un comitato centrale. I movimenti sociali, per loro natura, sono strutture fluide in cui forme di leadership carismatica tendono ad emergere. Il problema non è tornare indietro, ma smettere di negare l’evidenza, ovvero l’esistenza di tali forme di leadership. Quanto alla relazione tra leadership online e sul terreno, c’è una certa continuità tra i due livelli: ci sono molti leader digitali, amministratori di pagine Facebook o persone popolari su Twitter, che poi sono anche leader sul campo e hanno una forte influenza sull’azione del movimento sul territorio. Ma c’è anche una contraddizione tra questi due piani: nei movimenti del 2011 la leadership o avanguardia digitale ha spesso perso il controllo del movimento, una volta avvenuto il passaggio dalla rete alle piazze, anche per il diverso tipo di competenza attivistica che i due piani necessitano. C’è qualcosa che l’utilizzo dei social media ci racconta delle differenze tra i movimenti di questi anni e quelli del decennio precedente? Quello che l’utilizzo dei social media ci racconta sui movimenti attuali è il passaggio da un’identità controculturale a un’identità popolare: mentre i movimenti del decennio precedente, e in particolare il movimento no global, mettevano l’accento sulla necessità di costruire mondi alternativi e nuove forme di cultura, i movimenti attuali vogliono occupare il mainstream. Non sono interessati a costruire mondi alternativi; vogliono occupare la cultura dominante e fare uso di quelle piattaforme che ne sono parte. Guardiamo alla politica delle piattaforme di questi due movimenti: il movimento anti-globalizzazione creava le proprie piattaforme di comunicazione, e riteneva che solo in questo modo la comunicazione di movimento potesse essere autentica. Questo approccio è condensato nello slogan di Indymedia: «non odiare i media, sii i media». Indymedia, probabilmente la forma di comunicazione digitale più avanzata del periodo no global, era


un progetto molto ambizioso di creare un sito di informazione completamente alternativo ai media corporate. Un altro esempio era rappresentato dallo sviluppo, nel periodo no global, di server e sistemi di mailing list alternativi ai servizi commerciali, come Autistici/Inventati in Italia e Riseup e Activix nel mondo anglosassone. Nel caso dei movimenti del 2011-13, c’è una visione profondamente differente: invece di creare media alternativi per veicolare messaggi alternativi, gli attivisti occupano le piattaforme mainstream, piattaforme commerciali di società tra le più ricche e con il più alto tasso di profitto nelle Borse mondiali, come Facebook e Twitter, quest’ultima recentemente quotata. Gli attivisti non utilizzano queste piattaforme commerciali a cuor leggero, conoscono i possibili rischi per la comunicazione di movimento, ma sanno anche che esse permettono di raggiungere un pubblico molto più ampio di quello che si potrebbe raggiungere su piattaforme alternative come Lorea in Spagna, o Diaspora, che arrivano solo a comunità molto minoritarie. In questa transizione vediamo quindi un grandissimo cambiamento culturale tra queste due ondate di movimento, da un atteggiamento più controculturale a uno più popolare. Cosa c’è di vero a tuo parere nella visione cyber-pessimista di Morozov3, secondo cui Facebook e Twitter danno l’illusione di partecipare alle mobilitazioni attraverso la sindrome dell’attivismo da tastiera, che secondo Micah White4 ha fatto sì che si sia persa per strada un’intera generazione di attivisti? Ritieni che tale fenomeno abbia contribuito alla mancanza di un vero movimento di grossa portata negli ultimi anni in Italia? Secondo me sia le visioni tecno-ottimiste sia quelle tecno-pessimiste sono entrambe visioni essenzialiste, ovvero tecno-deterministe: hanno una visione estremamente semplificata del mondo, in cui la tecnologia determina tutto, in maniera positiva o negativa, come se da sola avesse in se stessa tutte le conseguenze del suo utilizzo. Sappiamo, invece, che la tecnologia può essere usata in modi 3 Evgenij Morozov è un sociologo e giornalista bielorusso, esperto di nuovi media e noto per le sue opinioni critiche e in controtendenza rispetto alla comune visione ottimistica e trionfalistica che caratterizza il dibattito sulle potenzialità democratizzanti e anti-totalitaristiche di Internet (http://goo.gl/nUSHHW). 4 Micah White (http://goo.gl/Sz0B5R) è ritenuto uno degli ideatori del movimento Occupy Wall Street.

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radicalmente diversi: per esempio, la bomba atomica e il nucleare usato a scopi civili sono entrambi criticabili, ma tra questi due usi dell’energia atomica c’è una bella differenza. I tecno-pessimisti, che parlano di clicktivismo, hanno la tendenza a ridurre l’azione politica ai suoi strumenti: dicono che l’attivismo su Facebook non potrà che riflettere la superficialità e il narcisismo che caratterizzano l’interazione su Facebook, o che l’attivismo sostenuto da Twitter non potrà che riflettere e amplificare l’attitudine molto banale e superficiale che accompagna le comunicazioni su Twitter. E, così facendo, dimenticano che l’attivismo e i movimenti sociali in generale sono sempre un processo trasformativo, ovvero non riflettono semplicemente le condizioni della realtà, ma trasformano esperienza sociale e condizione individuale in forme di azione collettiva. Quindi, quando gli attivisti utilizzano Facebook e Twitter per mobilitare le persone, fanno qualcosa che non corrisponde alla funzione iniziale ideata da chi ha creato quei social media, e ne sovvertono la struttura d’uso. Uno degli strumenti più popolari tra gli attivisti, ovvero la Facebook fan page, non esisteva su Facebook ai suoi albori perché, all’epoca, Zuckerberg e i suoi programmatori vedevano Facebook semplicemente come un sito di social networking individuale, dove le persone avrebbero gestito le proprie vite individuali, cercato amici e fidanzatini/e, mentre chi ha cominciato a usare quella rete sociale ha dimostrato il desiderio di avere anche strumenti in grado di dar vita a forme di organizzazione collettiva: gruppi, pagine Facebook e così via. Quindi penso che sì, esiste un clicktivismo liberale, che invita la gente solo a firmare petizioni, o a scrivere un tweet, con l’illusione che questo sia sufficiente a imprimere un cambiamento alla società, ma questo non vuol dire che l’utilizzo dei social media per una politica radicale si debba ridurre a quelle forme. Il compito degli attivisti è di saper attingere a quella cultura di partecipazione digitale anche nelle forme più banali, e saperla trasformare in forme di azione collettiva che possano veramente avere un impatto forte sul sistema politico e sociale. Guardando più in dettaglio al contesto italiano, come ritieni che Grillo/ Casaleggio abbiano sfruttato il fenomeno dell’attivismo da tastiera per creare una grande illusione di partecipazione e democrazia, la cui presa sull’elettorato è stata enorme? Credi che questo fenomeno si sgonfierà e assisteremo a un’inversione di tendenza o che ormai in


Italia il processo sia irreversibile? Casaleggio e Grillo sono stati i principali venditori ambulanti del tecno-utopismo in Italia. In loro l’assurdità dell’idea della leaderlessness appare in tutta la sua evidenza. Casaleggio scrive che lui e Grillo non sono assolutamente leader del M5S, sono puramente dei padrini che devono accompagnare questa povera creatura e che un giorno la lasceranno a se stessa, quando sarà finalmente cresciuta. Sappiamo che questa è una grandissima mistificazione, e che dire che non esistono leader è solo una scusa per non discutere la questione della leadership e, quindi, del potere dentro quella organizzazione. La storia estremamente contraddittoria del M5S evidenzia come questa idea della democrazia della Rete, che ha delle fortissime potenzialità e apre spazi per la partecipazione e per nuove forme di democrazia, possa essere invece utilizzata come una narrativa di mistificazione, per depotenziare le nuove forme di comunicazione che si aprono in questi spazi. Il M5S arriva ad approssimare una sorta di organizzazione settaria, religiosa, una sorta di Scientology con a capo due guru e i partecipanti intenti a praticare un culto tecno-politico le cui contraddizioni sono estremamente evidenti. Credo che il nostro atteggiamento verso Grillo debba essere prima di tutto di curiosità per le grandi innovazioni che sta portando nella politica, anche di rispetto per alcune pratiche che hanno un loro valore, ma soprattutto di critica profonda rispetto alle bugie che vengono raccontate per quanto riguarda il potere nel M5S. Ritengo si debbano portare alla luce le contraddizioni enormi tra slogan come «uno vale uno» e una realtà in cui quel movimento è più tirannico di qualsiasi altro partito che si sia mai visto in anni recenti in Italia, persino più del PdL, in cui abbiamo visto emergere anche forme di dissenso. Insomma, non è sicuramente quella la democrazia della rete che vogliamo, quella del M5S, e tifiamo rivolta nel M5S, come dicono i Wu Ming5.

5 Wu Ming, Perché «tifiamo rivolta» nel Movimento 5 Stelle, Giap, 27 febbraio 2013 (http://goo.gl/97Y5G3).

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