Le pagine che seguono sono un’analisi critica e puntuale del contratto di governo tra Movimento Cinque Stelle e Lega. Come ogni contenuto de Il Corsaro si tratta di una riflessione indipendente, ma di parte. La parte di chi ha bisogno di conquistare diritti sociali e civili per una vita degna e che, in differenti contesti, prova a impegnarsi quotidianamente per farlo. Il programma di governo è di fatto realizzato mettendo insieme proposte molto differenti, in una giustapposizione di nodi programmatici anche in contraddizione tra loro. Vi sono pertanto punti ritenuti condivisibili e altri profondamente distanti dalle idee e dalla cultura politica che ci anima da anni. L’auspicio è che possa essere uno strumento utile per una riflessione critica più approfondita di quella proposta dai principali media. Di più: una cassetta degli attrezzi per coloro che nei prossimi mesi si porranno l’obiettivo di non fare sconti all’iniziativa del nuovo governo, semmai di organizzare tante battaglie per cambiare realmente questo Paese.
Hanno collaborato: Edoardo Baldaro, Federica Borlizzi, Paolo Brugnara, Martina Carpani, Raffaella Casciello, Alice Checchia, Guido Cioni, Francesca Romana D’Amico, Luca Dell’Atti, Alessandra Di Bartolomeo, Mariano Di Palma, Federico Esposito, Simone Fana, Eugenio Galioto, Stefano Kenji Iannillo, Andrea Incorvaia, Roberto Iovino, Danilo Lampis, Marco Marrone, Giuseppe Montalbano, Nunzio Nardulli, Lorenzo Paglione, Francesca Picci, Claudia Pratelli, Nicola Quondamatteo, Claudio Riccio, Francesco Santimone, Marco Trotta, Lorenzo Zamponi, Giacomo Zolezzi.
1. Il funzionamento del governo e dei gruppi parlamentari La parte sul “funzionamento del governo e dei gruppi parlamentari” è di fatto il tentativo di strutturare la coalizione tra M5S e Lega. Non è un tema nuovo, dato che tutti i governi della storia repubblicana sono stati, almeno nella maggioranza parlamentare che li sosteneva se non sempre nella composizione dell’esecutivo, governi di coalizione. La litigiosità delle coalizioni e l’alto tasso di competizione tra i partiti che le componevano sono stati tra i motivi più forti di impopolarità della Prima Repubblica e anche, per lunghe fasi, della Seconda, nonostante dal 1994 in poi le coalizioni si siano presentate compatte, con un unico leader e un unico programma, già prima delle elezioni. M5S e Lega hanno il problema di essere una coalizione vera, post-elettorale, formata da forze politiche che sono state in competizione fino a ieri e lo saranno probabilmente in futuro, ed è quindi normale che cerchino una maniera di regolare i rapporti reciproci. Non è la prima volta che succede: nella Prima Repubblica si tenevano regolarmente “vertici di maggioranza” tra i leader delle forze politiche; successivamente, è stato introdotto un “Consiglio di Gabinetto” come versione ristretta del consiglio dei ministri, ma senza i leader di partito. Il “Comitato di Conciliazione” previsto dall’accordo M5S-Lega sembra essere una via di mezzo, da convocare in caso di dissensi e questioni da risolvere. Rispetto alle prime bozze dell’accordo, è però sparita la sua composizione, cosa un po’ preoccupante. Se già mettere per iscritto, e in qualche modo formalizzare l’esistenza di un organismo parallelo a governo e Parlamento, con ministri e leader di partito, rappresentava una forzatura del meccanismo costituzionale (anche se le grida di scandalo al golpe e al “Gran Consiglio del Fascismo” dei giorni scorsi rasentano il ridicolo), farlo senza neanche dire ai cittadini chi vi parteciperà sembra davvero poco trasparente. I cittadini hanno il diritto di sapere chi e come prenderà le decisioni che li riguardano, soprattutto se ciò accade fuori dal luogo deputato a questo compito, che è il parlamento. E soprattutto in un contesto piuttosto complicato da gestire, magari con un Presidente del Consiglio debole e due leader forti come Di Maio e Salvini a tenere costantemente in tensione l’esecutivo. Per quanto riguarda il coordinamento dei gruppi parlamentari, il testo è piuttosto fumoso e con poca sostanza, e rischia di essere davvero poco vincolante per i partiti. Ben più stringenti erano le norme previste dalla carta d’intenti del centrosinistra a guida Bersani nel 2013, in cui si vincolava addirittura ogni decisione dei singoli partiti a un voto a maggioranza qualificata dei gruppi parlamentari congiunti e si impegnavano i partiti ad “appoggiare l’esecutivo in tutte le misure di ordine economico e istituzionale” legate ai vincoli finanziari europei, una delega in bianco che nell’accordo M5S-Lega è sparita, sostituita da vaghi richiami al coordinamento tra i ministri quando si tratta di trattare con l’Europa. Per il resto, il codice etico si limita a riprendere la Legge Severino e a invitare alle dimissioni i rinviati al giudizio, e la parte sulla valutazione ricorda la classifica “verifica di maggioranza” vecchio stile. In sintesi: poca trasparenza sul “Comitato di Conciliazione”, poca sostanza sul resto. Nessun golpe, ma una certa confusione nella costruzione di un meccanismo trasparente di rapporti tra partiti e istituzioni. Emerge una grande paura, da parte di M5S e Lega, di finire a litigare tutti i giorni, omologandosi così al triste spettacolo che tanto ha allontanato i cittadini dalla politica in questi anni. E, si sa, per chi ritiene che ci sia una soluzione unica e semplice per tutto, discutere è un segno di debolezza. Meglio nascondere i dissensi dietro a contratti e comitati, nella speranza che i cittadini non li vedano. Non sarebbe più semplice, per una volta, seguire il manuale d’istruzione (la Costituzione) e confrontarsi sui temi pubblicamente in Parlamento, davanti ai cittadini?
2. Acqua pubblica Il tema dell’acqua e del suo ritorno alla gestione pubblica nel rispetto dell’esito del referendum del 2011 rappresenta un segnale importante, coerente con le posizioni storiche del M5S in materia. Lo è molto meno con le posizioni della Lega che, nel 2011, non solo non aveva dato indicazione di voto, ma faceva parte del governo Berlusconi che aveva varato la legge pensata dal ministro Ronchi di Alleanza Nazionale e oggetto del referendum. Tuttavia dietro i termini “gestione pubblica” e “referendum” c’è poco altro. E quello che c’è è molto ambiguo. Non si parla ad esempio della tariffa e dell’impegno a togliere il “profitto” dal suo calcolo. Questo nodo era la vera cifra politica del referendum del 2011. Di conseguenza non c’è nessun accenno all’ARERA (ex Aeegsi), ovvero l’autorità che ha reintrodotto il profitto nella tariffa sotto altro nome aggirando il divieto imposto dal referendum, come denunciato il Forum per l’Acqua Bene Comune che ne era promotore. Il comitato, invece, chiede che il tema “tariffa” sia gestito dal Ministero dell’Ambiente. C’è infine un generico riferimento a “società di servizi a livello locale” che non affronta il nodo di quale assetto giuridico debbano avere questi soggetti per rispettare la volontà popolare e che, dunque, possono essere anche le attuali multiutility quotate in borsa. Ricordiamo inoltre che gli enti locali governati da Lega e Cinque Stelle non hanno messo in campo politiche coerenti con l’attuazione del referendum a differenza ad esempio di quanto accaduto a Napoli.
3. Agricoltura e pesca Sul comparto agricolo il contratto di governo parte da una premessa giusta che però è in forte contraddizione con quanto fatto – in particolare dalla Lega nord – negli ultimi decenni. Serve ridiscutere le riforme strutturali che hanno coinvolto il settore alimentare decise in ambito comunitario (zucchero, tabacco, latte, grano, etc) e che hanno portato alla dismissione di interi comparti produttivi e ad una vera e propria emorragia occupazionale. Le riforme del mercato comune dei diversi settori decise in ambito comunitario, hanno visto negli ultimi decenni un atteggiamento troppo remissivo da parte dei diversi Ministri dell’Agricoltura, a partire proprio dalle compagini governative che hanno coivolto la Lega Nord, con i vari ministri tra cui Alemanno, Zaia, Di Girolamo e Galan, tutti espressione del centrodestra. Difficile dunque immaginare che alle parole seguano i fatti. Le riforme OCM dovevano portare alla crescita dei paesi in via di sviluppo e al rafforzamento dell’intero spazio comunitario nel confronto con un mercato sempre più globale e competitivo. Tali riforme hanno solo favorito atteggiamenti speculativi delle multinazionali – tanto in Europa come nel Resto del Mondo – garantendo una posizione dominante solo ad alcuni paesi europei come la Francia e la Germania. Serve dunque cambiare passo per davvero. Per fare ciò l’Italia in Europa dovrebbe avere davvero un ruolo guida di un fronte più ampio (con la auspicabile partecipazione di paesi come Spagna, Portogallo e Grecia) che si deve porre l’obiettivo di rivedere la PAC per riportarla su alcuni pilastri fondamentali: sviluppo rurale compatibile con la biodiversità, tutela della sicurezza alimentare e creazione di nuova e buona occupazione. Stride dunque l’assenza totale a ogni riferimento all’ampliamento della legge 199/2016 (contro il caporalato) votata convintamente dal M5S sia alla Camera che al Senato. L’attuazione di tale legge (ancora non stati redatti diversi decreti applicativi) è fondamentale per la tutela del made in Italy e la valorizzazione degli oltre ottocento marchi di qualità Dop, Doc, Docg e Igp, infangate dall’immagine di nuove forme di schiavitù in agricoltura inaccettabili in un paese che si definisce civile. Solo attraverso la trasparenza delle produzioni e la legalità del lavoro, contrastando senza remore ogni forma di illegalità economica nel settore agroalimentare, si può davvero puntare su un modello di agricoltura sostenibile a livello ambientale e sociale, produrre occupazione di qualità e competere in un mercato globale che vede l’Italia in una potenziale posizione di forza solo se il nostro paese decide di puntare sulla qualità e la sicurezza alimentare. Per fare ciò serve anche costruire davvero la banca della terra e destinare ad un riuso produttivo i milioni di ettari incolti, garantendo una nuova leva per lo sviluppo e l’occupazione.
4. Ambiente, green economy e rifiuti zero Il testo del contratto recita “uomo e ambiente sono facce della stessa medaglia”, Questo nodo è una questione su cui Cinque Stelle hanno tanto hanno puntato nella costruzione dell’identità del loro movimento politico, al punto da attribuire all’ecologia una delle cinque stelle del loro simbolo. Fin dalle premesse teoriche però qualcosa non torna: nel testo si legge che bisognerebbe portare al centro della discussione politica la questione ecologica e a tal fine basterebbero l’innovazione e la tutela del territorio. Peccato non ci sia nel contratto una sola parola di critica al modello di sviluppo e alcun riferimento a una programmazione di lungo periodo sulle politiche energetiche e ambientali. Difficile che “innovazione” e “territorio” non siano nè più nè meno che parole vuote se non si specifica cosa si pensa relativamente alle grandi opere inutili e ad alto impatto ambientale come il Tav Torino - Lione, il Tav- Terzo Valico, il gasdotto Trans-Adriatico (TAP) e il passaggio delle Grandi Navi nella Laguna di Venezia. Peccato non serva a nulla evocare principi senza una critica al modello di produzione e consumo che sta distruggendo il pianeta e i nostri territori. Anche se volessimo tralasciare le proposte in positivo, anche tra quelle in negativo molte cose non sono chiare. Il tanto osteggiato e criticato SbloccaItalia non è neanche citato e nè si fa menzione della sua abrogazione. Uno dei testi più pericolosi in tema di devastazione ambientale e del territorio sparisce completamente dalle priorità politica dei pentastellati. Eppure i 5 stelle sono stati tra i sostenitori del SI allo scorso referendum sulle trivelle e si sono caratterizzati in giro per l’Italia per battaglie contro la costruzione di nuovi inceneritori (il famigerato art.35 dello Sblocca Italia prevede invece la costruzione di 11 nuovi inceneritori in 10 regioni). Si alleano invece con una delle forze che in questi venti anni ha sostenuto tutti i governi responsabili dei commissariamenti sui rifiuti e della promozione di nuovi inceneritori in tutto il Paese. In merito alla gestione delle discariche citano come un mantra Rifiuti Zero, ma manca qualsiasi riferimento normativo sui provvedimenti per realizzare tale strategia. In Parlamento ad esempio giace una proposta di legge di iniziativa popolare a nome delle più importanti associazioni ambientaliste che dal 2013 è ancora in attesa di approvazione. Nel contratto di ciò non vi è traccia. L’accordo di Parigi - dopo la rottura da parte degli Stati Uniti - non è materia del contratto: mai citato testo: nessun impegno concreto sulla riduzione delle emissioni di CO2, nessun impegno sulla decarbonizzazione (addirittura Galletti e Calenda ne avevano fissato uno) e nessuna volontà esplicita di ridurre i finanziamenti alle fonti fossili. Vaghe sono anche le parole sul tema della riconversione dell’Ilva di Taranto: non è chiaro se la fabbrica dovrà essere chiusa durante il periodo della bonifica, se e come verrà gestito il rapporto con i Riva. Colpisce l’assenza di qualunque riferimento alla “Terra dei Fuochi”. Nonostante in quei territori il Movimento abbia incassato percentuali plebiscitarie, nonostante ne abbia fatto bandiera, leggendo il contratto tra Di Maio e Salvini sembra che la bonifica di quei territori sia scomparsa dalle priorità. Nonostante il “Patto per la Terra dei Fuochi” del 2013 tra diversi enti locali, la regione Campania e il Ministero dell’Interno, in questi anni non è stata attuata alcuna politica strutturale di prevenzione nazionale.
E a quanto pare neanche al prossimo governo interessa l’intervento straordinario di bonifica di quei territori così inquinati. Di conseguenza gli obiettivi promessi di adeguamento ambientale previsti per i 90 comuni di Terra dei Fuochi (realizzazione delle isole ecologiche, mappatura dei siti con la presenza di amianto e di rifiuti pericolosi, dichiarazioni alle istituzioni pubbliche da parte dei cantieri edili dei siti di sversamento legali per gli scarti industriali) restano una chimera. E non si tratta di casi isolati. In giro per l’Italia sono tante le situazioni simili. Le disposizioni contenute nel Patto sono disposizioni di buon senso. Ma anche qui non c’è alcun riferimento a politiche nazionali su queste disposizioni. Le famigerate bonifiche ambientali insomma non hanno alcun riferimento specifico rispetto ad impegni economici per la realizzazione delle stesse. Non viene neanche citata neanche la legge sugli ecoreati, votata anche dagli stessi 5 stelle nel 2015. Sarebbe uno degli strumenti legislativi, attraverso il principio del “chi inquina paga”, per attuare un piano di bonifiche non solo per il Mezzogiorno ma anche per tantissimi distretti industriali del Nord Italia. Sarebbe stato bello poter leggere nel contratto il riferimento all’educazione ambientale ed ecologica nelle scuole di ogni ordine e grado. Ma anche di questo, nemmeno l’ombra. Complimenti dunque per il copia-incolla della solita sequenza di buone intenzioni su green economy, economia circolare, rifiuti e consumo di suolo. Il punto sull’ambiente, cavallo di battaglia dei cinque stelle, nell’accordo con la lega diventa di fatto una scatola vuota.
5. Banca per gli investimenti e risparmio Il capitolo dedicato alla banca degli investimenti e per il risparmio sorprende per la sua aleatorietà e capacità di sfuggire alle grandi questioni che legano assetti finanziari, sviluppo economico e benessere. Già dalle prime righe del contratto si intuisce che l’istituzione di una banca per gli investimenti rischia di essere una grande operazione di marketing politico. Infatti, non è chiaro come sia possibile parlare di banca degli investimenti e allo stesso tempo indicare che si intendano utilizzare esclusivamente le risorse e le strutture esistenti. L’unica possibilità - che pare abbastanza concreta - è che il nuovo istituto non avrà alcuna funzione di rilancio degli investimenti, ma si limiterà a garantire al sistema delle imprese agevolazioni finanziarie funzionali a generare nuovi profitti. Insomma, sarebbe forse stato più giusto chiamarlo: banca per le imprese. L’assenza di una strategia industriale capace di collocare il nostro Paese nella competizione globale, rafforzando i suoi asset strategici con un forte ruolo di guida pubblico, appare la cifra di una misura nata con l’unica intenzione di salvaguardare i bilanci delle imprese in un sistema produttivo fragile e frammentato. La Banca degli investimenti dovrebbe invece occuparsi dei problemi strutturali della nostra economia, rilanciando un piano di investimenti pubblici, con particolare riferimento al Mezzogiorno, oggetto sostanzialmente assente dal testo del contratto. Dovrebbe misurarsi seriamente con l’impoverimento del nostro tessuto produttivo, con i suoi limiti dimensionali, con la sua eterna ricerca di credito non come motore ma come surrogato degli investimenti, con la provvisorietà dei rapporti tra ricerca, sviluppo e innovazione. L’Italia è un paese segnato da profonde diseguaglianze nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze e da una divisione sempre più accentuata tra nord e Sud. La banca degli investimenti poteva essere una soluzione al crescente divario economico e sociale, se fosse stata ispirata ad una strategia di sviluppo che unisse il Paese, a partire dal rilancio della domanda pubblica, con investimenti mirati a potenziare lo sviluppo sociale e civile. Di tutto questo non c’è neanche l’ombra. È un istituto che nasce come supporto a specifici interessi, quelli di una piccola e media borghesia del Nord che vuole liberarsi dai vincoli solidaristici e redistributivi che la nostra Costituzione individua come centrali nella tenuta democratica e civile del Paese.
6. Conflitto d’interessi Dopo il passo indietro di Berlusconi che ha consentito l’accordo Lega - Cinque Stelle in molti ambienti vicini ai grillini c’è stata grande polemica proprio sul nodo del conflitto d’interessi. A spingere perché Forza Italia desse il semaforo verde c’era, infatti, l’ala più legata alle “aziende di famiglia”. Il punto sul conflitto d’interessi è di fatto una scatola vuota, e pare scritto più che altro per spegnere le polemiche di chi diceva che era stato accettato un compromesso di non belligeranza sulle aziende del gruppo Mediaset.
7. Cultura La voce “cultura” risulta tra le più vaghe del documento: non si può certo definire un documento operativo dal quale intendere il senso dei provvedimenti che si vogliono adottare. Vengono, semmai, affermati principi generali non meglio declinati, come la valorizzazione, la promozione, la crescita del turismo (possibilmente ad investimento zero), riferendosi soprattutto ai siti storico-artistici più importanti. All’interno di un documento oggettivamente lacunoso, tuttavia, emerge prepotentemente una concezione del settore che non presenta nemmeno una promessa discontinuità con la guida del MiBACT del tanto (giustamente) criticato Franceschini. Durante la campagna elettorale appena trascorsa, il Movimento 5 Stelle aveva inserito spunti anche positivi per affrontare i problemi legati al nostro Patrimonio storico-artistico. Si parlava di passi indietro sulla riforma Franceschini, del ruolo importante dei professionisti del settore e dell’investimento (reale) che lo Stato avrebbe dovuto fare sul fronte culturale. Il contratto, invece, risulta addirittura in linea con l’operato di Franceschini, le cui riforme non vengono nemmeno timidamente criticate, forse sotto l’influenza leghista: Matteo Salvini in più occasioni ha espresso un giudizio duro - concordando, peraltro, con diversi esponenti del PD renziano - sulle Soprintendenze, mortificandone la fondamentale funzione di tutela del Patrimonio e richiedendo maggiori libertà di intervento per gli attori privati. Il Patrimonio culturale viene presentato, in primo luogo, come uno strumento da valorizzazione economicamente: i beni culturali (e chi lavora per la loro conservazione) sono presentati esclusivamente come risorse in grado di attrarre il turismo internazionale e di stimolare la crescita economica. Viene, pertanto, affermata una generica intenzione di una maggiore interazione tra enti pubblici e soggetti privati nella valorizzazione del patrimonio. Nessuna parola sull’enorme spazio già riconosciuto ai privati attraverso il sistema delle sponsorizzazioni, nessun accenno alla necessità di approvare prima possibile un piano straordinario di assunzioni (a fronte di una pianta organica ministeriale ridotta all’osso), nessuna attenzione alle condizioni lavorative degli operatori e dei professionisti del settore, sempre più messi in concorrenza con un utilizzo improprio del volontariato come lavoro gratuito. Solo qualche critica ai tagli lineari sul settore e un’attenzione specifica per lo spettacolo dal vivo: decisamente troppo poco, potenzialmente molto male.
8. Debito pubblico e deficit Fatto salvo per il fine esplicitato di “ridurre il debito pubblico non già per mezzo di ricette basate su tasse e austerità [...] bensì per il tramite della crescita del PIL”, il testo appare piuttosto vago e lacunoso riguardo al modo di realizzare tale obiettivo. Indubbiamente, si vuole lanciare un segnale di discontinuità rispetto alle ricette monetariste e ordoliberali finora prevalenti negli orientamenti di governo degli ultimi decenni. Si recupera nelle intenzioni un certo keynesismo: ad esempio sottolineando la necessità di accrescere la “domanda interna e con investimenti ad alto moltiplicatore e politiche di sostegno al potere d’acquisto delle famiglie”. Tuttavia, non è chiaro quale sia il ruolo dello Stato in qualità di investitore e quali siano i campi e le attività su cui concentrare gli interventi finalizzati alla crescita della domanda aggregata. Si evidenzia, inoltre, la necessità di “scorporare la spesa per investimenti pubblici dal deficit corrente in bilancio, come annunciato più volte dalla Commissione europea” e, per quanto riguarda le politiche sul deficit, “si prevede una programmazione pluriennale volta ad assicurare il finanziamento delle proposte” del programma di governo oggetto del contratto “attraverso il recupero di risorse derivanti dal taglio agli sprechi, la gestione del debito e un appropriato ricorso al deficit”. Non vi è traccia, però, di alcuna specificazione riguardante come tutto ciò si dovrà realizzare (ad es. su quali sprechi si vuole intervenire, in quale modo si intenda gestire il debito e ricorrere a politiche in deficit, ecc.). La proposta più significativa, però, è quella riguardante l’esclusione dei titoli di Stato di tutti i Paesi dell’eurozona, già acquistati dalla BCE con l’operazione draghiana del quantitative easing, dal calcolo del rapporto debito/PIL. È stata derisa da PD e dai media. In realtà sarebbe un’ottima proposta, se non fosse che nelle ultime ore Di Maio e Salvini se la sono rimangiata in una rapida ritirata cedendo alla pressione dei mercati. Ci si chiede, in ultima analisi, se questi buoni propositi sulla carta, seppur vaghi e privi di specificazioni, non siano destinati a restare sulla carta, in quanto destinati a infrangersi contro le mura della Troika (Banca centrale europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione europea) e dei trattati UE. Che il limite della proposta non risieda proprio nel prospettare una soluzione “sovranista” e “nazional-centrica”, anziché nel tentativo di tessere delle alleanze (o quanto meno dei ponti) con gli altri Paesi dell’area euro che soffrono le stesse problematiche dell’Italia in merito alle questioni del debito e dei vincoli di Maastricht?
9. Difesa La sezione sulla difesa è alquanto generica, tuttavia traspare una impostazione bellicista e a tratti paranoica. Il miglioramento dell’impiego delle Forze Armate è letto esclusivamente in un’ottica securitaria, letteralmente “per la protezione del territorio e della sovranità nazionale”. Un’ottica che viene confermata dall’annuncio dell’assunzione di nuove unità per la costruzione di un nuovo corpo - non meglio specificato nelle sue funzioni - definito “Carabinieri per la Difesa”. Si conferma l’investimento nelle missioni militari all’estero solo se “di rilievo per l’interesse nazionale”, senza specificare i parametri di interesse e soprattutto senza esprimere alcuna considerazione morale e di principio: per interesse nazionale le bombe sono ammesse. Un cenno generico viene posto attorno alla razionalizzazione delle spese militari e del riutilizzo del patrimonio immobiliare dismesso. Riguardo alle priorità di spesa si pone l’accento sulla necessità di implementare gli investimenti sul comparto della ricerca e delle nuove tecnologie, forse l’unica cosa necessaria, considerato che siamo totalmente sprovvisti di mezzi rispetto a potenziali attacchi informatici. Anche se come insegna la nostrana vicenda Carrai e la ben più grande questione NSA, ci sono modi molto diversi di approcciarsi alla questione. In un mondo in guerra, M5S e Lega scelgono di non ripudiarla, come richiederebbe la nostra Costituzione. Non si fa cenno all’implementazione cooperazione internazionale, alla possibile istituzione dei Corpi civili di pace, alla riconversione dell’industria e della produzione militare, alla progressiva e necessaria riduzione delle servitù militari sul territorio nazionale, al rispetto della legge 185/90 sulla limitazione dell’export bellico. Risulta inaccettabile un aumento della spesa generale, già pari a 25 miliardi di euro per l’anno corrente (rapporto Milex). Andrebbero tagliato i programmi militari, l’acquisto di cacciabombardieri F-35 e di armamenti in generale. Ma soprattutto servirebbe una seria opera di razionalizzazione, smettendo di inseguire gli interessi dell’industria bellica: il 60% delle spese è assorbito da una struttura del personale elefantiaca e squilibrata fino al paradosso di avere più comandanti che comandati, più anziani ufficiali e sottufficiali da scrivania, che graduati e truppa giovane operativa. Quasi il 30% del totale viene invece speso per l’acquisto di armamenti tradizionali: missili, bombe, cacciabombardieri, navi da guerra e mezzi corazzati. Su questo nel contratto non si dice nulla.
10. Esteri Una pagina e mezzo (quasi): questo è quanto il contratto di governo sottoscritto tra Lega e Movimento 5 Stelle dedica ai temi della difesa e della politica estera, che dovranno essere attuate dall’ormai prossimo esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Di questa pagina e mezzo, quasi un terzo è dedicato a questioni definite in maniera estremamente vaga (come la tutela dell’industria italiana del comparto difesa) o il cui potenziale impatto appare essere minoritario, se non decisamente residuale (è il caso ad esempio della riforma degli organi di rappresentanza del consiglio degli italiani all’estero, o il diritto al ricongiungimento familiare per il personale delle Forze Armate). Al netto di questo curioso mix di superficialità e micro-specificità, è tuttavia possibile individuare alcuni punti, che sembrano caratterizzare il pensiero della coalizione di governo in ambito internazionale: - La centralità da attribuire all’interesse nazionale e alla (probabilmente correlata) sovranità nazionale. In termini meramente accademici, questo primo punto non significa nulla. L’interesse nazionale può essere visto come il risultato di un complesso intreccio di rapporti di forza politici, sociali, economici ed istituzionali, la cui finalità è quella di produrre un’azione nell’arena internazionale, capace di garantire quantomeno la salvaguardia della sicurezza e del benessere interni, in un momento specifico e contingente. In altre parole, l’interesse nazionale è ciò che i governi - o i gruppi sociali meglio rappresentati, o le classi dominanti (si lascia alla sensibilità del lettore la decisione) – hanno individuato essere di volta in volta la priorità principale dello stato. In tal senso, affermare (in un italiano zoppicante) che “l’impegno è realizzare una politica estera che si basi sulla centralità dell’interesse nazionale e sulla promozione a livello bilaterale e multilaterale”, significa limitarsi a una vuota dichiarazione da campagna elettorale. Provando a spingere un po’ più in là l’analisi, dietro questa affermazione si potrebbe leggere in filigrana una volontà di affermazione nazionale riassumibile in uno slogan del tipo “Italy first”. E in questo caso, se in un mondo caratterizzato dall’interdipendenza complessa, le scelte isolazioniste e di ispirazione autarchica appaiono essere di difficile attuazione per il colosso americano, sollevano ancora più dubbi quando applicate al caso di una potenza media - e in declino - quale è l’Italia. - Rifocalizzare l’attenzione sul fronte del Sud. Già la scelta del linguaggio evoca echi vagamente guerreschi. Tuttavia è il passaggio successivo che merita di essere citato per intero: “Non costituendo la Russia una minaccia militare, ma un potenziale partner per la Nato e per l’UE, è nel Mediterraneo che si addensano più fattori di instabilità quali: estremismo islamico, flussi migratori incontrollati, con conseguenti tensioni tra le potenze regionali. Nell’area, l’Italia dovrebbe intensificare la cooperazione con i Paesi impegnati contro il terrorismo”. Rimandando la questione Russia all’ultimo punto di questa analisi, ciò che deve essere sottolineato qui è il pericolosissimo cortocircuito compiuto mettendo in un unico calderone terrorismo e flussi migratori. In primo luogo, il terrorismo viene chiaramente messo in connessione con una religione (l’Islam), un luogo (la sponda sud del mediterraneo) e i suoi abitanti, rilanciando una narrazione (razzista) degna della peggiore propaganda elaborata durante la “Guerra Globale al Terrore” di George W. Bush. Presentare inoltre i flussi migratori come una delle principali minacce alla nostra sicurezza, aggiungendo un non dimostrato e fino a prova contraria fittizio legame col terrorismo, diffonde (in maniera volontaria e criminale) paura nella nostra società. In questo caso non ci troviamo di fronte a una proposta concreta di policy, quanto piuttosto all’affermazione di una specifica narrazione di carattere securitario e razzista, che apre le porte all’adozione di politiche che minacciano di essere ben peggiori, in termini di rispetto della vita, delle libertà e dei diritti umani, anche in confronto a quelle adottate dall’ormai ex ministro Minniti. Date queste premesse, l’invito ad intensificare la cooperazione con i paesi impegnati contro il terrorismo risveglia terribili fantasmi. In epoche recenti dittatori quali Ben Ali e Mubarak, di cui abbiamo salutato con entusiasmo la caduta a seguito delle Primavere Arabe, erano stati tra i nostri principali campioni nella lotta al “terrorismo”; mentre così oggi lo scettro è passato, tra gli altri, all’Egitto di al-Sisi, massacratore di Giulio. - La Russia, un partner privilegiato. Non è sorprendente constatare il totale ribaltamento di prospettiva proposto dalle due forze politiche italiane più vicine al regime di Vladimir Putin. La Russia è l’unico paese esplicitamente citato nel programma, ad esclusione degli Stati Uniti, vagamente definiti “partner privilegiato”. La Russia viene presentata come un partner economico e commerciale di estrema rilevanza (anche in questo caso, sfidando abbastanza apertamente dati e statistiche), verso il quale andrebbero eliminate le
sanzioni, quest’ultime in realtà decise a livello europeo e di alleanza atlantica. In questo caso, è evidente la volontà di soddisfare una determinata clientela politica interna (le piccole e medie imprese che con la Russia commerciano e che votano principalmente Lega), ma è altrettanto evidente il rischio di causare un forte isolamento dell’Italia presso i suoi alleati (segnali in tal senso sono già giunti sia dai paesi europei che persino dall’America di Trump), a fronte di un ritorno economico la cui portata appare essere quanto meno dubbia. Sono tuttavia i due passaggi successivi ad allontanarci completamente dalla realtà, e a trasportarci in un iperuranio dalle tinte rosso-brune, abitato dalle notizie dell’agenzia Sputnik, dalle analisi di Giulietto Chiesa e dalle immagini di Putin a torso nudo che cavalca un orso. Nel giro di tre righe, la Russia diventa “potenziale partner per la Nato e la UE” e “interlocutore strategico” in teatri quali la Siria, la Libia e lo Yemen. Secondo questo wishful thinking, lo stesso paese che ha invaso l’Ucraina ed annesso la Crimea (da lì le sanzioni) a causa dell’avvicinamento di questa all’alleanza atlantica, sarebbe pronto, a distanza di quattro anni, a diventarne un credibile partner (si immagina, continuandosi comunque a tenersi la Crimea). Stesso discorso dovrebbe valere anche per l’Unione Europea, di cui almeno dieci membri (quelli più a Est) vedono la Russia come la principale minaccia alla propria esistenza. Se da questo punto di vista siamo più sul lato della farsa, si entra invece nell’ambito della tragedia quando si parla dei conflitti in corso in Medio Oriente. Le guerre in Siria e Yemen stanno creando nuove fratture che attraversano il sistema internazionale, penetrano nella regione, e finiscono anche per toccare anche le nostre società, prima di tutto a causa di una campagna di (dis-)informazione che ha abbandonato ogni velleità di obiettività in nome di una polarizzazione fortemente partigiana. Sarebbe impossibile attribuire il ruolo di buoni e di cattivi all’interno di conflitti, in cui l’unica cosa certa è l’altissimo numero di vittime innocenti fra i civili. Detto ciò, la Russia in questi contesti non si sta ponendo né come bilanciatore “dell’imperialismo americano”, né come campione contro l’Isis, né come garante della stabilità regionale. Putin sta semplicemente cercando, in maniera spregiudicata ed aggressiva, di trarre più vantaggi possibili da una situazione estremamente complessa, in cui vuoti di potere (a partire dalla perdita di influenza americana) e ridefinizione delle alleanze (tra tutte, l’improbabile asse tra Israele e Arabia Saudita) hanno creato nuovi margini d’azione. Qualsiasi azione in Medio Oriente e Nord Africa meriterebbe una riflessione estremamente approfondita, che ragioni sia sul ruolo sia sugli obiettivi che il nostro paese vorrebbe provare ad ottenere. Se rimettere in discussione alcuni aspetti dell’alleanza atlantica può apparire persino legittimo in determinati teatri, la soluzione non può comunque essere l’appiattimento sulle posizioni del salvatore del macellaio Assad, gigante dai piedi d’argilla impegnato a inseguire l’improbabile recupero di uno status perduto. Tirando le somme, la breve parte dell’accordo dedicata alla politica estera e di difesa non può essere definito un “programma di governo”, non contenendo in praticamente nessun passaggio indicazioni precise o piani di azione. Questo va visto piuttosto come una dichiarazione di intenti, e come la vaga espressione di una determinata visione del mondo e del sistema internazionale attuale, da parte delle due forze politiche che hanno vinto le elezioni. Al suo interno sono contenuti anche spunti interessanti: l’invito a rivalutare la partecipazione italiana alle missioni internazionali potrebbe ad esempio suggerire la volontà di aprire un utile dibattito su utilità e legittimità delle missioni di peacekeeping e/o di stabilizzazione internazionali. Ma c’è comunque un filo rosso che unisce i vari punti trattati, e permette di emettere un – primo e parziale – giudizio sulla futura azione del governo a livello internazionale. Un’azione che sembra essere destinata ad essere ispirata dalla paura, dall’ossessione securitaria, dalla volontà di rottura con alleati storici, per inseguire un rampante campione autoritario. Una politica estera sovranista e passivo-aggressiva. Una politica estera di destra.
11. Fisco: flat tax e semplificazione Quella contenuta nel contratto non è una flat tax vera e propria, ma un tentativo, a danno delle fasce più povere, di aggirare il vincolo costituzionale affiancando a due aliquote, del 15% e del 20%, un sistema di deduzioni legate al reddito familiare per simulare una progressività che, di fatto, scompare. Misure di riforma rivoluzionarie, vengono definite nel testo. In realtà si tratta di misure fortemente reazionarie, che garantirebbero enormi vantaggi fiscali ad una ristretta minoranza di ricchi, discreti risparmi per una parte della popolazione già benestante e nessun miglioramento diretto e un altissimo rischio di conseguenze indirette per la maggioranza degli italiani che, in nome della semplificazione, potrebbero veder anche scomparire le attuali detrazioni, sostituite da un’unica deduzione fissa. Un sistema che, salvo l’attivazione di clausole di salvaguardia, potrebbe portare il 75% dei contribuenti (i 30 milioni circa con reddito inferiore a 26.000 euro annui) a veder aumentare fino ad oltre mille euro le tasse dovute, mentre crescerebbero all’aumentare del reddito i vantaggi (arrivando anche a decine di migliaia di euro di risparmio e ad oltre il 50% di riduzione delle tasse attualmente dovute) per chi arriva a fine mese senza grosse preoccupazioni. Viene esclusa qualunque forma di tassazione patrimoniale, per rendere chiaro che le disuguaglianze fossilizzate tali dovranno rimanere, mentre l’immancabile enunciato sulla lotta all’evasione si traduce nell’inasprimento delle pene, senza alcuna proposta sul fronte dei controlli o dell’incentivo all’utilizzo di sistemi di pagamento tracciabili. Oltre alla condivisibile sterilizzazione delle clausole di salvaguardia contro l’aumento IVA e la proposta dell’eliminazione delle componenti anacronistiche (aggettivo interpretabile in vari modi) delle accise sulla benzina, il capitolo sul fisco si riduce di fatto ad una proposta fortemente regressiva, che, dato il mancato gettito dell’ordine dei 50-60 miliardi, potrebbe avere effetti devastanti sulla tenuta dei livelli dei servizi pubblici, già pesantemente provati dalle politiche di austerità ed incidere quindi in maniera ancora più pesante sulle fasce di popolazione con reddito più basso. Una visione dell’economia di fatto ispirata alle teorie degli anni ‘80 in cui i benefici alle fasce più ricche gocciolerebbero verso il resto della società, in cui la precarietà e lo sfruttamento non vanno combattuti (scomparsa ogni critica al Jobs Act) ma stimolati se permettono a qualcuno di arricchirsi.
12. Giustizia rapida e efficiente Le forze stipulanti il contratto si propongono di riformare il Consiglio Superiore della Magistratura, specialmente rispetto al “sistema di elezione, sia per quanto attiene i componenti laici che quelli togati”, allo scopo di “rimuovere le attuali logiche spartitorie e correntizie in seno all’organo di autogoverno della magistratura” e, si legge, consentire all’organo di “operare in maniera quanto più indipendente da influenze politiche di potere interne o esterne”. In ottemperanza al principio di separazione dei poteri, il Costituente ha sottratto tutte le questioni che riguardano la carriera dei magistrati (assunzione, mobilità, scatti, procedimenti disciplinari) al ministero della Giustizia, affidandole ad un organo indipendente dal Governo, il Consiglio Superiore della Magistratura. Lo scopo, evidente, è quello di sottrarre i giudici dalla possibile invadenza delle forze politiche di maggioranza e, quindi, di garantire l’imparzialità e la terzietà della loro funzione: la garanzia dei diritti dei cittadini. Il principio, sacrosanto, è in realtà già fortemente garantito dal sistema vigente: ben i 2/3 del CSM sono infatti magistrati eletti dagli stessi magistrati, mentre il restante terzo è eletto dalle Camere fra accademici e avvocati di lungo servizio. Tale ultima previsione non costituisce un’ingerenza del potere politico negli affari del corpo giudiziario poiché i membri “laici” del CSM (ossia il terzo di elezioni parlamentare) è eletto dal Parlamento in seduta comune con una maggioranza tanto elevata (i 3/5 dei componenti) da impedire alle sole forze di maggioranza (e quindi di governo) di selezionarli in solitudine. Si tratta, inoltre, di una forma di “controllo” del Parlamento sul giudiziario assolutamente indiretta, poiché il primo si limita ad eleggere una parte di quei soggetti che andranno a comporre l’organo di governo del secondo; tanto più ove si consideri che sussiste incompatibilità assoluta fra tale ufficio ed ogni altra carica pubblica. Inoltre, la presenza nel CSM di soggetti estranei al corpo giudiziario, e non da questo eletti direttamente, garantisce un riequilibrio nei rapporti fra i tre poteri dello Stato che, altrimenti, penderebbe eccessivamente verso il completo autogoverno di un corpo dello Stato - il giudiziario - dotato di poteri in grado di intaccare diritti costituzionali primari: su tutti, la libertà personale. Ogni sistema democratico complesso e plurale, com’è il nostro, esige che i poteri siano autonomi l’uno dall’altro ma, ad un tempo, che non siano completamente separati: l’esercizio armonico delle funzioni pubbliche e, soprattutto, la necessità di evitare soprusi e usurpazioni di un potere sull’altro, esigono un adeguato sistema di “pesi e contrappesi”. Anzi, l’analisi comparata degli ordinamenti della civiltà giuridica occidentale segnala l’unicità del caso italiano, quanto all’indipendenza del potere giudiziario: nessun altro ordinamento appartenente alla famiglia degli Stati democratico sociali di derivazione liberale conosce un assetto che rende la magistratura così autonoma nella gestione delle questioni che riguardano i suoi membri. Procedere ad ulteriori forme di affrancamento del potere giudiziario dal controllo - limitatissimo - dell’unico organo espressione della diretta volontà dei cittadini è un rischio per la tenuta del delicato equilibrio fra poteri, potendone scaturire conflitti in grado di mettere a repentaglio la tenuta democratica del sistema. Un interrogativo serio - ma sul punto il contratto tace sonoramente - riguarderebbe invece le condizioni di effettiva terzietà rispetto al Governo dei giudici amministrativi (TAR e Consiglio di Stato), chiamati ad amministrare la giustizia in ambiti fondamentali della vita di una società complessa post-moderna, attinenti alle prestazioni garantite dall’amministrazione ai cittadini, da un lato, e al complesso rapporto fra imprese e amministrazione, dall’altro. Scorrendo ulteriormente si ritrova la proposta leghista di estendere la legittima difesa, facendo riferimento all’importanza della proprietà privata e alla tutela del domicilio. Questa proposta sembra strizzare l’occhio all’idea importata dagli Stati Uniti per la quale ognuno possa farsi giustizia da sé. Il testo si richiama alla retorica della paura, che i due partiti hanno sostenuto. Questa visione viene alimentata da un aumento delle pene per reati che vengono definiti “odiosi”, come il furto in abitazione, il furto aggravato, il furto con strappo, la rapina e la truffa agli anziani; un elenco che fa quasi sorridere, se non fosse tremendamente serio nell’evidenziare in questi reati quelli che andrebbero colpiti maggiormente. Viene prefigurato un massiccio ricorso alle pene detentive a discapito di quelle alternative alla costrizione in carcere, un’enunciazione programmatica che appare contrastante tanto con il richiamo costante di una tutela più efficace del diritto alla sicurezza dei cittadini, quanto con l’intento di risolvere l’annoso problema del sovraffollamento delle carceri. Difatti, la sostituzione delle sanzioni sostitutive della detenzione è considerato il principale strumento di politica criminale per perseguire il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della popolazione carceraria (con riferimento sia ai detenuti che agli operatori di sicurezza),
nonché per ridurre su larga il scala il potenziale criminogeno della sanzione penale. Gli studi più avanzati in merito alle politiche carcerarie e di sicurezza giungono unanimemente all’assunto secondo il quale ad un tasso di carcerazione (rapporto tra numero di detenuti e numero di abitanti) più elevato corrisponde un maggiore tasso di recidività dei soggetti sanzionati ed un generale aumento del numero di crimini commessi. Inoltre, i medesimi studi dimostrano come il fenomeno di sovraffollamento dei penitenziari costituisca la principale causa di malessere e peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli operatori di sicurezza nei luoghi di detenzione. L’intero documento reitera la retorica secondo la quale le riduzioni delle pene, le depenalizzazioni, gli indulti ecc siano regali immeritati a chi è colpevole, voluti da uno stato troppo debole per assicurare giustizia. Dimenticando che, in particolare le depenalizzazioni, si sono concentrati sui reati societari favorendo i «colletti bianchi». Questa retorica, distorta e fallace, nega che il carcere, nel nostro paese, sia strumento di esclusione sociale e che crei altissimi tassi di recidiva, lontano quindi da essere strumento rieducativo, come la Costituzione invece definirebbe la pena. Questo testo riprende l’idea della pena come vendetta, tramita l’utilizzo anche di frasi come “chi sbaglia torni a pagare”. Discutibile, ma perfettamente in linea con la prospettiva vendicativa della pena, è la volontà di voler aggravare le pene per i minorenni, che chiaramente dimentica la possibilità di trasformare, proprio per il basso numero degli interessati, gli istituti penitenziari per minori in strutture che garantiscano servizi di inclusione e formazione. Il discorso politico securitario e repressivo enunciato ha il suo climax nel paragrafo sull’ordinamento penitenziario, che prospetta di eliminare la questione del sovraffollamento carcerario costruendo nuove carceri in una visione semplicistica e molto lontana dalle necessità dell’amministrazione penitenziaria e dalle esigenze dei detenuti. Interessante la parte in cui si afferma la volontà di procedere con un piano speciale di assunzioni di Polizia Penitenziaria, una necessità che andrebbe integrata con l’assunzione di assistenti sociali, mediatori, educatori e che dovrebbe essere accompagnata da una convinta formazione dei poliziotti e una revisione dei comportamenti usualmente adottati. Sempre sul carcere il contratto non riconosce la possibilità che avvengano trattamenti differenziati tra i detenuti, si sofferma invece sui detenuti stranieri facendo la proposta, assolutamente discutibile in termini politici e praticamente irrealizzabile in termini giuridici, che questi scontino la pena nel paese d’origine. Ancora una volta il testo del contratto sembra guardare il dito e non la luna, non chiedendosi perché il tasso di detenuti stranieri sia così elevato e come risolvere strutturalmente la questione. Il testo si conclude con un riferimento al 41-bis sostenendo che deve ritornare ad essere un carcere “veramente” duro, rinnegando anche in quest’ambito la realtà dei fatti. Questo paragrafo, quindi, non considera il lungo dibattito sul 41-bis, rispetto soprattutto alle osservazioni dell’Onu sulla possibile lesione dei diritti umani. Infine il testo disconosce il dato della continua riduzione degli omicidi. Unica eccezione del trend nazionale è quella dei femminicidi, che invece aumentano. In questi casi, però, spesso l’assassino è un soggetto conosciuto, (ex)coniuge o (ex) fidanzato. Quindi, i dati nel loro dati complesso ribaltano la retorica securitaria alla base del discorso politico leghista. Al riguardo,è interessante la volontà di formare maggiormente gli agenti pubblici sui reati a sfondo sessuale, stalking e maltrattamenti. Il tutto, però, rimane sempre finalizzato ad un aumento delle pene per questi reati,non cogliendo quindi la caratura strutturale della violenza di genere. Un capitolo a parte di approfondimento lo merita il capitolo sul contrasto alle mafie, dove sorprende l’impostazione di tipo esclusivamente securitario. Il paradigma di riferimento è di tipo legalitario-repressivo e non si preoccupa di analizzare le mafie nel loro complesso. L’accento è posto prevalentemente sulla repressione delle condotte politico-mafiose, dimenticando la rilevante dimensione sociale ed economica in cui i gruppi e le famiglie di mafia si generano e riproducono. Le mafie non sono solo un problema quando diventano costitutive o colluse col potere politico: lo sono sempre. Da questo punto di vista è grave la mancanza di riferimenti allo sviluppo di politiche tese alla costruzione di una sensibilità “antimafiosa”: nessun cenno al ruolo della scuola, delle politiche pubbliche, delle reti di impegno sui territori. Una scelta che è conseguenza di una visione limitata che pone il legalitarismo come obiettivo principale e che dimentica colpevolmente di affrontare il fenomeno nell’ottica della giustizia sociale: ad esempio, politiche di contrasto alla povertà e alle diseguaglianze e un nuovo modello di sviluppo economico sarebbero importanti strumenti di prevenzione e contrasto. Così come sarebbe importante un’azione sul fronte delle legalizzazione delle droghe leggere, anche questa assente nel testo, per indebolire le mafie sottraendo loro capitali e allo stesso tempo ridimensionando il mercato illegale. Forte è l’accento posto sulle misure di aggressione patrimoniale. Il contratto vuole mettere in atto una “seria politica di sequestro e confisca dei beni e di gestione dei medesimi” dimenticando tuttavia che la legislazione italiana in materia è modello di riferimento per gli stati europei, anche grazie alla recente approvazione del nuovo Codice Antimafia (fine scorsa legislatura). Misure che hanno segnato un notevole passo in avanti. Non
si spiega, quindi, quale sia il vantaggio di intervenire su un aspetto sicuramente migliorabile ma comunque di gran lunga all’avanguardia. Colpisce inoltre la mancanza di riferimenti al riutilizzo sociale dei beni, previsto dalla legge 109/96 e dell’estensione del sequestro e della confisca dei beni ai corrotti recentemente approvata dal Parlamento nelle parte sulle modifiche del Codice Antimafia. In tal senso, il rischio è che una serie di elementi ideologici possano condurre a scelte inefficaci e pericolose. L’esempio è quello del Comune di Roma, in questi giorni impegnato nell’approvazione del nuovo regolamento in materia di riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi: tra le tante specifiche, è prevista in bozza la destinazione dei beni a scopo di lucro - uno dei metodi con cui i capitali mafiosi possono tornare ad impossessarsene con facilità – e mancano invece destinazioni di riuso per agricoltura sociale e accoglienza migranti.
13. Immigrazione: rimpatri e stop al business Per quanto riguarda le politiche relative all’immigrazione, il contratto per il governo si inquadra in un’ottica del tutto repressiva, perfettamente sovrapponibile al programma del Carroccio. Sin dalle prime righe del paragrafo dedicato al tema possiamo leggere che l’immigrazione attuale è considerata del tutto insostenibile per il nostro Paese, posizione propria della destra (che però ha già ampiamente condizionato tutto l’arco parlamentare, pensiamo soltanto ai provvedimenti di Minniti) che non vede nessun fondamento nella realtà. Si citano a proposito i costi che l’Italia sostiene per l’accoglienza e, per rafforzare la tesi, i casi opachi di business che si sono verificati sulla pelle dei migranti. Esiste un’oggettiva necessità di superare e destrutturare l’attuale sistema di accoglienza, ma bisogna farlo superando la logica emergenziale, puntando su percorsi di reale inclusione e rafforzando le esperienze positive che già esistono; denunciare solamente il business senza preoccuparsi di come migliorare la vita delle/dei richiedenti asilo è solamente un alibi dietro cui si nasconde l’ostilità xenofoba di ha ingaggiato ormai da anni una guerra ai più poveri della nostra società. In quest’ottica, appare evidente come la difesa delle frontiere assume un ruolo centrale negli intenti di governo, in continuità con quanto già iniziato e realizzato dall’ex Ministro dell’Interno Marco Minniti. In particolare si mette in discussione, in barba a ogni logica umanitaria e al diritto internazionale, l’approdo per imbarcazioni cariche di esseri umani in difficoltà nel porto sicuro più vicino. Possiamo inoltre registrare proposte barbare e muscolari come quelle incentrate sui rimpatri, sull’edizione della forza contro chi, sprovvisto di documenti, è intrappolato nella spirale della clandestinità. Proporre 500.000 deportazioni, anche se irrealizzabile, è comunque un segno del carattere inequivocabilmente razzista del governo che sta per nascere. Ci sarebbe al contrario necessità di un piano strutturale di regolarizzazione di chi è presente nel territorio nazionale. Sono i “fantasmi” che ogni giorno lavorano, nell’agricoltura come nell’assistenza domestica, supplendo in questo caso alle mancanza di welfare pubblico che non sarà di certo implementato da chi si propone di mandare in malore le casse dello Stato con una detassazione record dei ricchi e dei privilegiati. Come sappiamo da quanto ci ha detto la ricerca accademica più avvertita, il punto non sono le deportazioni in sé ma il rischio di deportabilita’ che condiziona pesantemente le condizioni di vita e di lavoro. Una maggiore condizione di deportabilita’ favorisce lo sfruttamento estremo nei luoghi di lavoro; non a caso la prima proposta della lotta dei braccianti di Rosarno è proprio quella dei documenti per tutt*. A proposito di espulsioni e rimpatri, si parla di riaprire nuovi Cie in ogni regione. Preoccupante e demagogica è anche la proposta di esaminare le richieste di asilo nel paese di origine: come è possibile per un eritreo in fuga dal proprio regime piuttosto che per chi sceglie di migrare per motivi di discriminazione di orientamento sessuale da un paese dove l›omosessualità è reato? Registriamo inoltre che il documento confonde deliberatamente immigrazione e terrorismo di matrice islamista, proponendo una stretta anche sulla costruzione di luoghi di culto per musulmani nel nostro paese in contrasto con la libertà di culto garantita dalla nostra costituzione: il Movimento 5 Stelle, che di certo non aveva posizioni così regressive sul tema, ha anche qui avallato l’egemonia delle proposte politiche storicamente avallate dalla Lega.
14. Lavoro. Il capitolo sul lavoro del contratto di governo appare in molti casi oscuro, denso di retorica sulle nuove tecnologie (significativa è però l’assenza di un capitolo dedicato alle modalità con cui si intende promuovere tale ambito) e privo di una reale efficacia nel cambiare le politiche economiche degli ultimi anni. Nella prima parte, viene proposta una legge sul salario minimo orario ‘nei casi in cui la retribuzione minima non sia fissata dalla contrattazione collettiva’. Una prospettazione piuttosto ambigua - oltre che una riedizione dell’analoga delega rilasciata dal Jobs Act e lasciata cadere dal Governo Renzi - a fronte dell’interpretazione data dalla giurisprudenza all’articolo 36 della costituzione, la quale permette, da quasi 70 anni, di utilizzare come riferimento per una ‘retribuzione equa’ il ccnl più vicino al lavoro svolto, decretando di fatto una validità erga omnes per i minimi salariali. È necessario quindi farsi qualche domanda su quale sia il reale obiettivo della proposta e quale sia l’impatto nel contrasto alla precarietà e al lavoro povero. Piuttosto, in assenza di una inversione di tendenza sulle forme contrattuali e sul mercato del lavoro rischia di agevolare le richieste degli industriali che mirano a limitare gli effetti della contrattazione collettiva sui salari. Inoltre, pur se appare di buon senso la proposta di abolire la gratuità degli apprendistati professionali, non viene esplicitato alcun tipo di criterio da adottare nello stabilire l’ammontare delle retribuzioni. Anzi, la limitazione della proposta all’ambito de solo apprendistato professionale lo fa apparire come un intervento del tutto parziale nel contrastare il fenomeno del lavoro gratuito che appare diffuso ben oltre tali confini. Il riferimento alla riduzione strutturale del cuneo fiscale appare invece in totale continuità con gli incentivi fiscali del governo Renzi, nonché un evergreen delle proposte di governo degli ultimi 35 anni. Una politica che, quando non rimasta solamente nei programmi, si è tradotta con il trasferimento ingenti risorse dalla popolazione alle imprese - senza apportare alcun tipo di effetto nei confronti della creazione di un’occupazione di qualità – piuttosto che a una reale riduzione della pressione fiscale sui lavoratori. Ritornano, inoltre, le razionalizzazioni, e le semplificazioni di berlusconiana memoria, condita da un futuristico e vago riferimento alla ‘digitalizzazione’ che nel programma non viene mai davvero chiarito. La proposta più significativa è, però, sicuramente il rilancio dei voucher. Un istituto nato con la riforma Biagi, progressivamente liberalizzato da governi di ogni colore, fino a giungere alla sua liberalizzazione totale proprio nell’ambito della riforma Fornero. Tale scelta ha provocato una sua diffusione a macchia d’olio nei settori produttivi, producendo solo in parte l’emersione del lavoro nero. Questo perché non solo esso sino alla sua abolizione appariva maggiormente diffuso nelle regioni storicamente meno colpite dal lavoro nero, come Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto (piuttosto che nel mezzogiorno del paese), ma anche perché l’emersione che produceva vedeva ben pochi benefici per i lavoratori stessi, riservandoli piuttosto ai ‘beneficiari’ della prestazione lavorativa, rendendo così possibile l’impiego di manodopera al di fuori dei vincoli della legislazione nazionale sul lavoro e della contrattazione collettiva. Anche qua il riferimento all’uso di una piattaforma digitale per monitorarne l’impiego al fine di evitare gli abusi, appare poco chiaro in quanto già nei Prest.O l’attivazione veniva prevista esclusivamente per via telematica. Il piano delle politiche attive appare invece particolarmente condizionato dalla proposta di reddito di cittadinanza. L’idea è dunque quella di affiancare all’introduzione del reddito una riorganizzazione dei centri per l’impiego, la cui iscrizione è obbligatoria per accedere allo strumento, ai quali verrà affidato il compito di offrire opportunità di impiego ai beneficiari del programma. Per il resto, il capitolo appare condito da retoriche che appartengono alle indicazioni europee già dagli anni ’90, e che fanno delle politiche di attivazione la ‘cenerentola’ delle politiche del lavoro in Italia (definizione di uso corrente tra gli studiosi per indicare l’asimmetria tra le aspettative riservate e la loro reale efficacia). Anche il campo della formazione professionale appare un crogiolo di retoriche sulla digitalizzazione e l’industria 4.0, con riferimenti a non ben specificate nuove tipologie professionali, che rendono così difficile comprendere realmente quale direzione si è inteso intraprendere. L’elemento dell’innovazione tecnologica viene così agitato come una rivoluzione sul terreno del lavoro che si compirà da sè, una sorta di avvento messianico che porterà benefici senza correggere la rotta delle politiche economiche degli ultimi anni. Una visione che trascura dunque la complessità delle conseguenze economiche e sociali delle nuove tecnologie, rischiando così non solo di essere del tutto inefficace, ma di sottovalutare i rischi che tale sviluppo comporta.
16. Ministero per le Disabilità. A una prima lettura il punto sulla Disabilità del contratto di governo può apparire abbastanza avanzato, e in linea con le più attuali riflessioni europee. Ad una lettura più accurata, tuttavia, emergono i soliti nodi problematici legati a una visione della disabilità ancora legata al concetto di integrazione, un modello ancora “individuale” con cui relazionarsi al problema della disabilità. Emerge quindi dal contratto una confusione di fondo creata dall’uso di parole innovative, come inclusione, a proposte che però non sono altrettanto avanzate. Infatti, nonostante ci sia un richiamo esplicito alla Convenzione sui diritti delle persone disabili delle Nazioni Unite del 2006, manca poi totalmente la filosofia alla base di quella convenzione, ossia il passaggio da un modello individuale a una visione sociale della disabilità, in cui questa si configura come i limiti alla partecipazione in un mondo costruito sulle persone tipiche. Non è la persona in sé ad essere disabile, ma il mondo costruito intorno a chi ha dei problemi di funzionamento (motorio/psicologico/sensoriale) a creare la disabilità, in quanto costituisce dei limiti alla loro partecipazione attiva. Volendo dedicare un ministero esclusivamente alla disabilità, è evidente come non ci sia spazio ancora per un approccio veramente sociale al tema della disabilità che faccia dell’inclusione, e non dell’integrazione, la vera meta da raggiungere. Se infatti l’obiettivo fosse una società realmente inclusiva non avrebbe senso un ministero a parte per la disabilità, ma ogni ministero dovrebbe legiferare per tutti gli aspetti della vita dei cittadini tenendo presente la società nel suo complesso, e quindi anche le persone con disabilità. Per chiarire la differenza tra integrazione e inclusione, pensiamo a un esempio concreto legato all’architettura. Se applichiamo una passerella per eliminare una barriera architettonica è integrazione, ma se noi costruiamo direttamente delle strutture che siano già in partenza veramente per tutti e per ciascuno, in cui ci siano metodi di accesso che garantiscano a tutti di entrare nel modo che preferiscono, dove gli spazi sono pensati per le esigenze di tutti i livelli di funzionamento motorio, abbiamo creato una struttura inclusiva, in cui nessuno vivrà l’esperienza della disabilità. Infine, leggendo il punto sulla scuola e la disabilità, appare con evidenza come chi ha scritto questo contratto non abbia assolutamente idea dei veri problemi che le docenti e i docenti affrontano quotidianamente per costruire una scuola realmente inclusiva capace di garantire il successo formativo per tutti e per ciascuno. Nel contratto si propone maggiore formazione per gli insegnanti di sostegno e la loro “implementazione in classe”. Cosa voglia dire questa frase non si sa. Sulla formazione, più che aumentare quella degli insegnanti di sostegno che sono già ampiamente formati sul tema, sarebbe il caso di fornire già nel percorso di formazione iniziale nozioni di pedagogia speciale e didattica inclusiva anche ai docenti curriculari. Ciò che invece si dovrebbe fare domani è un grande piano di assunzioni nella scuola pubblica di docenti, e in particolare di docenti di sostegno a prescindere dal numero di studenti certificati 104 nelle classi. Il ruolo del docente di sostegno infatti non è quello di stare nel corridoio con il ragazzo, aumentando quindi di fatto la sua disabilità se consideriamo questa come conseguenza del limite alla partecipazione attiva in un ambiente, ma quello di essere un mediatore tra le varie esigenze che ci sono in classe. Dal 2012 infatti nelle nostre classi è entrata anche la categoria dei BES, bisogni educativi speciali, in cui rientrano tutti gli alunni che vivono una situazione di difficoltà (anche momentanea). Rientrano in questa categoria gli studenti certificati 104, i DSA, e chi si trova in una situazione di svantaggio socio-culturale. Se allora lo scopo è costruire una scuola inclusiva, come per altro scritto addirittura anche nella famigerata legge 107, bisogna costruire un impianto che tenga insieme difficoltà e potenzialità di tutti. La più grande emergenza su cui intervenire subito è quindi evitare che i ragazzi con disabilità siano esclusi dall’apprendimento e facilitare la permanenza in classe di tutti. Come farlo? Innanzitutto bandendo le “classi pollaio”, limitando il numero degli studenti a 20 per classe, costruendo scuole con classi più ampie in cui ci siano degli spazi dedicati al lavoro individuale, e implementando tutti gli strumenti metodologici che la pedagogia sociale e la didattica per l’inclusione forniscono. In una parola, per costruire una scuola realmente inclusiva, ci vogliono risorse sulla scuola pubblica.
17. Pensioni: stop legge Fornero. La modifica della Legge Fornero, che ha costretto milioni di lavoratori a subire il ricatto di dover allungare la propria vita lavorativa dopo anni di sacrifici e di contributi versati, è certamente una buona notizia. Altresì, la quota 100 tra contributi versati ed età lavorativa è una misura che allevia la condizione di molti lavoratori e lavoratrici. Tuttavia, il rischio che la riforma pensionistica non intervenga realmente sugli squilibri del sistema previdenziale italiano è molto alto. In primis perché il meccanismo contributivo, che non viene messo in discussione dal nuovo governo, è legato indissolubilmente ad una dinamica dei salari ferma da oltre due decenni. La perdita delle retribuzioni di fatto nel nostro Paese è il vero punto di crisi che rende il capitolo pensioni particolarmente delicato. Se non si interviene in politiche espansive, che stimolino la domanda aggregata e i salari, gli assegni pensionistici riprodurranno le diseguaglianze interne al mercato del lavoro. Andare in pensione con un reddito da 780 euro al mese, come prevede il contratto di governo con l’inserimento della pensione di cittadinanza, porterebbe una massa enorme di pensionati a dover accettare un nuovo lavoro come forma di integrazione al reddito, costretti a vivere in una condizione di ricattabilità senza fine. Le forze di governo non sembrano neanche interessate ad intervenire sul bilancio dell’Inps, che conosce uno squilibrio forte tra la quota di contributi versati dai lavoratori dipendenti e pensionati e quella versata dai dirigenti. Oggi sono i lavoratori dipendenti e i pensionati a doversi far carico di una parte delle pensioni dei dirigenti, determinando un ulteriore elemento di ingiustizia sociale. Tutto questo è inaccettabile, anche se non sembra interessare il nuovo governo. Inoltre, nel nostro Paese crescono i lavoratori poveri, ovvero coloro che hanno carriere contributive discontinue e precarie. Per questi lavoratori la via della pensione rischia di essere un calvario. Tuttavia, neanche su questo tema si intravedono interventi strutturali. La promessa di tagliare le pensioni d’oro, insieme alla flat tax è un grande inganno, dato che come confermano diversi studi quanto verrebbe tagliato dal lato pensionistico verrebbe ampiamente recuperato sul versante fiscale con il regalo ai ricchi rappresentato dal nuovo sistema di aliquote. Resta poi da aggiungere che il sistema pensionistico regge solo se non si continua a tagliare la spesa sociale. Infatti, non è sufficiente agire sugli assegni monetari se il complesso della spesa sociale diminuisce (casa, assistenza, sanità, scuola), e quindi i nuovi pensionati si troveranno costretti a dover restituire parte della pensione per pagare le prestazioni sociali. Di questi interventi non c’è l’ombra nel contratto di governo, lasciando molti dubbi che l’abolizione della legge Fornero sia uno specchietto delle allodole, che anziché ridurre le diseguaglianze diventi un’ulteriore misura di riproduzione delle stesse.
18. Politiche per la famiglia e natalità. Nessun riferimento a politiche di genere o lotta alla discriminazione: le donne sono considerate solo nel contesto familiare e viene dato per scontato che ogni lavoro di cura debba ricadere su di loro. La proposta sul welfare famigliare, con l’esempio della gratuità degli asili nido limitata alle sole famiglie italiane, rende evidente un’impostazione razzista ed escludente. La previsione di innalzamento dell’indennità di maternità, senza riferimento ad una sua estensione a chi ha contratti atipici e senza alcun intervento sulla paternità e sulla genitorialità condivisa, unita agli immancabili sgravi per le imprese che, bontà loro, non licenzieranno le madri dopo la nascita dei figli, sottolinea l’assoluta ignoranza sulle profonde discriminazioni che le donne vivono dentro e fuori il mercato del lavoro.
19. Reddito di cittadinanza e pensione di cittadinanza. Come nelle attese, la proposta di reddito di cittadinanza (che tecnicamente è un reddito minimo dove la parola cittadinanza viene apposta sul solco di “prima gli italiani”, ossia riservando la possibilità di accedere all’istituto ai soli cittadini italiani) è la parte più dettagliata del programma. Non siamo infatti lontani dalla proposta già presentata in Parlamento dai pentastellati nella scorsa legislatura, in linea con quanto accade nel resto d’Europa. L’ammontare è infatti di 780 euro, che corrisponde così alla soglia di povertà assoluta fissata da OCSE. In questo senso, dunque, pur con cifre significativamente più consistenti, il reddito di cittadinanza si pone in continuità con l’obiettivo del REI di contrastare la povertà piuttosto che configurarsi come un sistema in grado di sollevare gli individui dal ricatto della precarietà. I criteri di accesso, infatti, vengono stabiliti sulla base del reddito familiare (considerato come redditi da lavoro e patrimoni) rischiando così di escludere i milioni di giovani incastrati nell’economia dei lavoretti che continueranno così a dover far riferimento alla protezione familiare nei casi di discontinuità di reddito. L’erogazione del reddito di cittadinanza viene inoltre legata a un impegno attivo dei beneficiari nella ricerca di un impiego, i quali non solo devono provvedere a un’iscrizione obbligatoria ai centri per l’impiego, ma potranno rifiutare al massimo fino a 3 offerte di lavoro nell’arco di due anni. Una volta superata questa soglia decadono i requisiti di accesso e i beneficiari perdono così la possibilità di partecipare al programma. Inoltre, di fianco alla ricerca attiva di un impiego, vengono previsti dei piani formativi obbligatori in grado di incrementare la professionalità degli individui, nella prospettiva di acquisire le competenze richieste dal territorio. Il rischio di tali condizionalità, in particolare in una fase economica caratterizzata da bassi salari e occupazioni precarie anche per lavori ad alta professionalità, è però quello di incrementare il mismatch tra le competenze degli individui e il lavoro svolto. Non vi è infatti alcun tipo di riferimento alla congruità del lavoro offerto con il percorso formativo svolto, un’assenza che rischia di fare delle condizionalità un elemento di distorsione del mercato del lavoro in particolare al sud. Gli autori del contratto, inoltre, sono consapevoli che un tale sistema richiede un potenziamento dei centri per l’impiego che, al momento, sono responsabili di circa il 3% delle attivazioni di rapporti di lavoro. Il contratto prevede così anche l’erogazione di circa 2 miliardi di euro per il potenziamento dei centri per l’impiego (che sarebbe la cifra più significativa erogata a questo scopo), che vengono così posti al centro della riorganizzazione del sistema di protezione del reddito. A loro verrà infatti affidato non solo il compito di favorire il reinserimento lavorativo degli individui, ma anche la verifica dei requisiti, richiedendo così anche un aggiornamento delle competenze degli stessi operatori del centro per l’impiego. La misura si aggirerebbe così a un costo totale di circa 20 miliardi di euro, provenienti per la maggior parte dall’impiego del 20% del Fondo sociale europeo, che verrebbe così interamente destinato all’introduzione del reddito di cittadinanza. Ciò comporta anche un coinvolgimento della Commissione Europea nel monitoraggio della misura che però solo in parte graverà sulla fiscalità generale. Inoltre, una volta superata l’età pensionabile, il reddito di cittadinanza si trasforma nella pensione di cittadinanza, che va così a integrare le pensioni minime fino a raggiungere i 780 euro mensili. In questo caso non vengono però previste condizionalità di alcun tipo.
20. Riforme istituzionali, autonomia, democrazia diretta. La parte sulle riforme costituzionali è perfettamente in linea con il quadro generale del contratto di governo: in gran parte, le solite cose “di buon senso” post-ideologiche che ogni governo ha sempre promesso, più una misura politica di peso sostenuta dalla Lega, e qualche misura ornamentale dal repertorio del Movimento Cinque Stelle. Gran parte delle proposte contenute in questa sezione, infatti, sono quelle che abbiamo letto mille volte, sia in termini di riforme istituzionali (taglio del numero dei parlamentari e abolizione del Cnel, tutto giustificato in nome del taglio dei costi della politica) sia di gestione della pubblica amministrazione (fine dei tagli agli enti locali, introduzione dei costi standard, semplificazione amministrativa, razionalizzazione della pubblica amministrazione, cittadinanza digitale). Chi non vorrebbe una pubblica amministrazione più razionale ed efficiente ma allo stesso tempo adeguatamente finanziata? Normalmente, però, di tutti questi buoni propositi restano solo i tagli, e a pagarne lo scotto sono lavoratori pubblici e cittadini. Vedremo stavolta. Di certo, sul tema principe del Movimento Cinque Stelle, cioè il rapporto tra stato e cittadini, la montagna sempre aver partorito un topolino. Sul tema delle riforme istituzionali, trova qualche spazio l’idea grillina della democrazia diretta, anche se fortemente depotenziata. Si parla di eliminazione del quorum per i referendum abrogativi (forse un po’ eccessiva, normalmente si proponeva di ridurlo, commisurandolo all’astensionismo), di introduzione di “referendum propositivi” (già proposti dalla riforma Renzi-Boschi, e dalla natura nebulosa) e di calendarizzazione delle leggi d’iniziativa popolare (e questa sarebbe un’ottima cosa). Diciamo che siamo ben lontani dall’idea di Grillo e Casaleggio dei cittadini che rottamano il Parlamento e decidono da casa su ogni tema con un click, ma qualche tentativo di ampliare e ammodernare - magari confusamente - gli strumenti di democrazia diretta oggi esistenti c’è. Fa capolino, inoltre, il tema del “vincolo di mandato” dei parlamentari, anche se in realtà quella che si propone è una semplice norma anti-trasformismo sul modello portoghese, che impedirebbe a un parlamentare eletto in un partito di iscriversi a un gruppo diverso o di formarne uno nuovo. Niente può impedire, in ogni caso, a un parlamentare di votare in dissenso dal proprio gruppo, o di spostarsi nel gruppo misto. L’abolizione della libertà di mandato sarebbe ben altra cosa, e richiederebbe un radicale ripensamento della rappresentanza parlamentare per non essere semplicemente una norma autoritaria (prevedendo magari la revocabilità degli eletti). Il limite al trasformismo, però, è una norma che incontrerà facilmente vasti consensi tra i cittadini, visto lo spettacolo indegno offerto in parlamento negli anni del berlusconismo. Piccole misure, di facile popolarità, mentre l’unica riforma davvero significativa che l’accordo prevede è quella più cara alla Lega, e cioè l’attribuzione della “maggiore autonomia” prevista dall’articolo 116 della Costituzione a “tutte le regioni che motivatamente lo richiedano”. Al di là dell’ambiguità di quel “motivatamente”, si tratta di una promessa di peso enorme. Lombardia e Veneto hanno già richiesto maggiore autonomia con i referendum dello scorso ottobre, e c’è da immaginare che non saranno le ultime regioni. L’accordo M5S-Lega parla di un “percorso di rinnovamento dell’assetto istituzionale” che “dovrà dare sempre più forza al regionalismo”. Una promessa assolutamente necessaria perché Salvini non perda il suo grande serbatoio di voti nel Nordest, ma davvero molto difficile da mantenere. Come si possano finanziare le misure redistributive che il M5S ha proposto, e che tanta popolarità hanno riscosso nell’elettorato, soprattutto in quello meridionale, in un contesto in cui si tagliano le tasse, si rispettano i vincoli europei e si permette alle regioni più produttive di tenere sul proprio territorio gran parte delle tasse versate dai loro cittadini, rischia di essere davvero un mistero. Un mistero che può minare facilmente la stabilità di un governo.
21. Sanità Rispetto al punto “sanità”, la prima cosa che risalta è l’uniformità del testo. Non ci sono sottoparagrafi, è tutto un unico elenco di temi. La sezione inizia con un giusto riferimento alla legge 833 del ‘78, la legge fondativa del Servizio Sanitario, che appunto si basa sui principi di università dell’accesso, gratuita ed equità nelle cure. Stona la parola “prevalentemente”, che si trova tra le parole “finanziamento” e “pubblico”. Questa singola parola meriterebbe ad esempio, da sola, un approfondimento che invece nel testo non compare, e il solo dichiarare la fonte del finanziamento non è garanzia di servizio pubblico (come accade ad esempio in Lombardia, dove la Regione funge praticamente solo da committente e pagante, e pochissimo da erogatore). Nei successivi capoversi vengono ribadite una serie di questioni che vengono ripetute da anni, significanti vuoti che negli anni sono stati agitati come spauracchio ed hanno spesso generato mostri: il riconoscimento dell’attuale modello federalista, che pure ha contribuito a generare disuguaglianze e quasi quattro anni di differenza nell’aspettativa di vita tra nord e sud Italia; il separare la sanità dalla politica, che ha giustificato ad inizio anni ‘90 l’aziendalizzazione; la lotta agli sprechi e alla corruzione, usate solo per tagliare orizzontalmente i servizi; l’informatizzazione, che ha portato a meccanismi perversi di controllo sulle scelte dei medici di medicina generale; il superamento dell’ospedalocentrismo, che è servito per chiudere i presidi periferici senza fornire alternative. Non scontato è invece tutto il passaggio sull’integrazione socio-sanitaria, che presenta sicuramente degli avanzamenti, specialmente per quanto riguarda la partecipazione degli enti di prossimità, cosa che di fatto già è prevista per legge, ma applicata solo in alcuni contesti. Il passaggio successivo è invece il più interessante, il legare liste di attesa alla carenza di personale, nel contesto attuale italiano, non è proprio scontato, e leggere dei passaggi che riguardano la formazione medica e specialistica in cui si parla di superamento del numero chiuso, aumento delle borse di specializzazione, analisi dei fabbisogni assistenziali, non può fare che piacere per chi sostiene queste cose da anni. Tutto questo finisce malissimo quando viene rievocato il fantasma dell’art. 22 del Patto per la Salute del 2014, con le sue pericolose aperture a doppi canali di formazione specialistica e creazione di figure ibride e iperprecarie. Chiaramente condivisibile (ma estremamente generica) la parte riguardante gli anziani, altrettanto condivisibile la conclusione sui vaccini, che ammette la necessità di raggiungere le coperture di popolazione efficaci, superando il conflitto tra diritto alla salute e diritto all’istruzione (ma ovviamente non viene scritto come). In generale questa parte risulta nel complesso disomogenea e incompleta, in alcune parti esaustiva, ma in molte altre generica. Non vengono affrontati i nodi della sanità privata e convenzionata, non si parla di regolare il mercato assicurativo e delle mutue, non si parla di prevenzione (viene nominata più volte nella parte sullo sport, come se fosse solo quello a permettere di prevenire patologie), si parla pochissimo di promozione della salute (e solo nell’ottica di risparmiare). Non vengono nemmeno citati gli organi di consulenza del ministero, non si parla di precarietà e forme legalizzate di sfruttamento, a partire dalle esternalizzazioni e dalle Partite IVA. Ma soprattutto, tranne un generico passaggio iniziale sull’equità, mancano completamente riferimenti alle disuguaglianze di salute tra le Regioni e soprattutto tra le classi sociali, manca ogni riferimento ai determinanti sociali di salute. Manca un indirizzo, una direzione, ma sicuramente si tratta di una scelta politica precisa.
22. Scuola Sia pure in modo sintetico il contratto individua correttamente alcuni degli aspetti più problematici che sconta il nostro sistema di istruzione: la mortificazione del corpo docente, malpagato, precarizzato e sottoposto a vere e proprie prove di coraggio e abnegazione per svolgere il proprio lavoro; l’esigenza di ridurre il numero degli alunni per classe; di favorire processi di inclusione; la ferita rappresentata dalla c.d. “buona scuola” (legge 107/15) del Partito Democratico che ha prodotto una torsione autoritaria della scuola e introdotto meccanismi distorti come un’alternanza scuola lavoro spesso squalificata e squalificante; la necessità di una formazione continua e di qualità per i docenti. Non è chiaro, tuttavia, in che modo si intenda intervenire sulle questioni individuate. Sono assenti riferimenti a risorse da destinare alle retribuzioni dei docenti (questione non secondaria considerando che è previsto il rinnovo della parte economica del ccnl nel triennio 2019-2022); non sono neanche nominati i bambini e le bambine migranti o di seconda generazione laddove viene posto il tema dell’inclusione, cosa che desta quantomeno qualche sospetto considerato che sono quasi un milione gli alunni stranieri e moltissimi i giovani stranieri in età scolare da recuperare ai percorsi formativi (Istat) e che quella dell’incontro tra studenti di diverse origini rappresenta una delle sfide principali che la scuola sta affrontando in questa fase storica; non è chiaro in quale direzione debba avvenire il “superamento” della legge 107 rispetto al governo della scuola e ai processi di partecipazione delle diverse componenti, né come si intenda intervenire sull’alternanza scuola lavoro. Insomma se sulla pars destruens si individuano correttamente alcuni nodi di sostanza, molto più fragile appare la proposta alternativa. Altrettanto nevralgico, assieme al tema delle classi pollaio e della dispersione scolastica, risulta essere per la scuola di oggi, quello dell’edilizia scolastica. Un tema spesso utilizzato in ottica propagandistica e su cui ancora non si individuano soluzioni efficaci, se non il semplice spot mediatico. Pur individuando tra i problemi della scuola pubblica italiana le conseguenze della legge 107, non si parla della sua abolizione. Su uno dei temi maggiormente dibattuti negli ultimi tre anni dall’approvazione, ovvero l’alternanza scuola-lavoro, si palesa un’inesattezza laddove si dice che la Buona Scuola ha “ampliato le ore obbligatorie” e non invece estese a tutte le scuole di ogni ordine. Tuttavia nell’accordo si individuano le vere falle del sistema di alternanza scuola- lavoro, ovvero l’assenza di un controllo sulla qualità dei percorsi e la loro incongruenza rivelatesi dannose per gli studenti stessi. Resta, in ogni caso, da chiedersi come vorrà il prossimo governo rispondere a tali falle se con l’abolizione del provvedimento o con un ripensamento dello strumento stesso. Tale domanda sarà centrale per il futuro prossimo della scuola e dovrà necessariamente aprire una grande riflessione sulla concezione della didattica e della valutazione, come strumenti per il progresso della scuola italiana e non, come sono oggi, di controllo e disciplinamento. Soprattutto, pare essere assente una “visione” della scuola: di cosa deve insegnare e come deve essere articolata, dell’obbligo scolastico e quindi della funzione sociale di questa istituzione della conoscenza. Non trova spazio nel testo il tema dell’accesso al percorso educativo e di istruzione e quindi della potenziale gratuità dell’accesso. Nè si rintraccia la consapevolezza che il percorso di istruzione deve partire dai primissimi anni di vita: con asili nido statali e scuola dell’infanzia pubblici statali per tutte e tutti i bambini a qualsiasi latitudine abitino e da qualsiasi paese provengano. Non si rintraccia dunque un’ottica complessiva di un percorso formativo che accompagni le persone per tutta la vita, individuando la conoscenza come chiave per combattere le diseguaglianze e creare uomini e donne libere.
23. Sicurezza, legalità e Forze dell’Ordine Le “politiche sulla sicurezza” possono essere orientate o verso il modello del “diritto alla sicurezza” o verso il contrapposto modello della “sicurezza dei diritti”. Nel nostro Paese, oramai da anni, le stesse forze politiche progressiste hanno scelto di abbracciare pienamente la prima declinazione, con una deriva iper-securitaria e provvedimenti che hanno il sapore di mera rassicurazione simbolica rispetto ad aumento della solo insicurezza percepita, a fronte di un oggettivo calo dei reati. Così, i capitoli dedicati al tema della sicurezza sono ben prevedibili e presentano provvedimenti che risultano, in alcuni casi, in piena continuità con quelli messi in campo dal Governo Gentiloni e dall’ex Ministro dell’Interno Marco Minniti. Procediamo seguendo i punti del testo.
FORZE DELL’ORDINE
Emblematica in tal senso risulta la volontà di aumenti dei finanziamenti per le forze dell’ordine, con un potenziamento degli organici, nuove assunzioni e rinnovo dei contratti. Questa misura, già prevista nell’art.36 della legge di bilancio 2018, ha sancito un aumento del personale tra forze di polizia e vigili del fuoco di ben 7.394 unità per i prossimi cinque anni. Nel contratto si precisa, inoltre, la necessità di aumentare e potenziare anche le “dotazioni” delle forze dell’ordine: autovetture, giubbotti anti-proiettili per affrontare i rischi collegati all’allarme terrorismo, ma anche armi non letali come taser e key defender. Con riferimento proprio alle pistole taser purtroppo, anche in questo caso, non si fa che potenziare l’esistente. Infatti, già dal marzo di quest’anno in ben 6 città, grazie ad una circolare firmata dal capo della direzione anti-crimine che fa riferimento ad una normativa - legge n.146/2014 - in realtà dettata per gli stadi (da sempre laboratorio di pratiche repressive), è partita la sperimentazione di quest’arma che, in una seconda fase, verrà estesa su tutto il territorio nazionale. Forse è il caso di precisare che il taser è un’arma propria in grado di immobilizzare, attraverso scariche elettriche, il soggetto colpito. È bene sottolineare, inoltre, che quest’arma, sebbene rientri nelle classificazioni come “arma non letale” è stata causa di più di 500 morti negli Stati Uniti, secondo quanto dichiarato da Amnesty International e non a caso è stata inserita dall’Onu nella lista degli strumenti di tortura. Il chiaro riferimento a tale strumento nel contratto di governo giallo-verde desta sicuramente non poche preoccupazioni perché ci parla di un mezzo che sembra voler diventare sempre più ordinario nella gestione dell’ordine pubblico nel nostro Paese. Proprio rispetto alla gestione dell’ordine pubblico ed in particolare con riferimento agli agenti che svolgono compiti di polizia su strada, il contratto di governo menziona la necessità di prevedere “videocamere sulla divisa, nell’autovettura e nella cella di sicurezza, sotto il controllo e la direzione del Garante della Privacy, con l’adozione di un rigido regolamento, per filmare quanto è accaduto durante il servizio, nelle manifestazioni, in piazza e negli stadi”. Interessante notare come, su questo punto, sono riprese perfettamente le proposte del segretario di polizia Sap ed oggi deputato della Lega, Gianni Tonelli, che ovviamente si è detto - per contro - sempre ostile all’introduzione dei numeri identificativi sulle divise dei poliziotti, misura non a caso non menzionata nel contratto. Le videocamere sulla divisa sono già state sperimentate in alcune città italiane (Torino, Milano, Roma e Napoli) ed il Garante delle Privacy aveva fornito il suo parere positivo sull’utilizzo di questo nuovo sistema di ripresa. Sicuramente ciò che desta maggiori perplessità sono le sue modalità di gestione: nella prassi è sempre stato il funzionario a capo del reparto mobile ad impartire l’ordine di attivazione dei dispositivi e di cessazione delle riprese. Una discrezionalità quest’ultima che non può passare inosservata e che potrebbe essere fonte di numerose distorsioni nell’utilizzo di tale strumento. Rispetto sempre alla gestione dell’ordine pubblico, bisogna infine ricordare come le altre proposte repressive inerenti all’utilizzo del Daspo e al reato di flagranza differita per le manifestazioni di piazza sono state ampiamente accolte nella legge sulla “pubblica sicurezza” dell’ultimo Governo.
POLIZIA LOCALE
Il contratto di governo rispetto alla polizia locale menziona una serie di proposte, in realtà, già largamente previste dalla legge n.48/2017 sulla “sicurezza urbana”. Infatti, l’accesso per la polizia locale alle banche dati SDI (sistema di indagine) è già ampiamente disciplinato dall’art. 10 comma 6 e 6 bis della suddetta legge; la previsione di tavoli regionali per il coordinamento della sicurezza urbana e della Polizia Locale sembra invece scimmiottare il sistema di “sicurezza integrata” già adottato sempre con la legge n.48/2017. L’unica novità appare la volontà di “scomputare le spese relative al settore dai vincoli di bilancio”, per il resto gran parte del programma sul punto sembra proprio essere stato già attuato da Minniti.
CONTRASTO AL BULLISMO
Il fatto che il tema del “contrasto al bullismo” sia stato posizionato nel capitolo destinato alla “sicurezza” è grave ed implica già una impostazione fallace e pericolosa su una questione delicata come questa. Trattare solo in un’ottica repressiva questa problematica tradisce una mancata comprensione del fenomeno e non permette di combatterlo attraverso mezzi positivi e propositivi, aumentando il divario tra vittima e carnefice, già difficile da definire. Inasprire le misure repressive per i “bulli” e prevedere delle misure premiali (borse di studio) per chi denuncia è un gioco perverso che rischia solo di essere controproducente. Il bullismo può e deve essere affrontato principalmente in chiave di prevenzione ed è un tema che attiene le politiche educative e non può essere oggetto di derive securitarie. Non sarà una telecamera in una scuola ad aiutare a costruire una società inclusiva e accogliente.
OCCUPAZIONI ABITATIVE
C’è chi ha evidenziato come mai in un programma di governo si andasse a sancire la volontà di sgomberare le occupazioni abusive, cosa sicuramente vera. Ma, purtroppo, bisogna constatare come la deriva repressiva rispetto alle occupazioni sia cosa già datata, tanto per fare qualche esempio possiamo citare l’articolo 5 del c.d. decreto Lupi che ha introdotto l’impossibilità per chi occupa uno stabile di chiedere la residenza e l’allacciamento ai pubblici servizi ed, ancora, l’articolo 11 della legge Minniti sulla “pubblica sicurezza” che ha potenziato gli strumenti in capo al Prefetto per lo sgombero delle occupazioni. Normativa, quest’ultima, che ha subito una lieve attenuazione con la circolare del Ministero dell’Interno del 1 settembre, la quale ha previsto la necessità, prima di procedere agli sgomberi, di operare un censimento degli occupanti con particolare riferimento a casi di “vulnerabilità” ed una predisposizione di adeguate soluzioni alloggiative. Proprio per tale fine è stata istituita, con la suddetta circolare, presso il Ministero dell’Interno una Cabina di Regia che avrebbe dovuto effettuare una ricognizione dei beni pubblici e privati inutilizzati compresi quelli confiscati alle mafie, offrendo un’alternativa reale alle persone sgomberate. Peccato che in otto mesi questa Cabina di Regia nulla sembra aver effettuato e, sicuramente, il nuovo Governo non inizierà tale lavoro. Anzi, le indicazioni previste nella circolare, che stabiliscono minime garanzia rispetto alle procedure con cui si devono effettuare gli sgomberi di occupazioni abitative, sembrano destinate ad essere presto superate. Nel contratto di governo è ben evidenziato come “le sole condizioni di difficoltà economica non possono mai giustificare l’occupazione abusiva” ma, per le persone che vivono in uno stato di povertà (ben 5 milioni sono i poveri assoluti secondo l’ultimo rapporto Istat) occupare un immobile è spesso l’unica alternativa. Inoltre il problema della casa oggi riguarda fette sempre più consistenti di popolazione: persone sole, nuclei familiari mono-genitori, giovani coppie, lavoratori precari, immigrati, anziani. Il problema risiede nella sempre maggiore difficoltà a pagare un canone d’affitto o un mutuo. Per questo risulta vergognoso il dover constatare come il contratto di governo giallo-verde non spenda una riga sul disagio abitativo, sul tema degli sfratti per morosità incolpevole, sull’edilizia popolare ma si preoccupi solo di invocare procedure più rapide per procedere allo sgombero delle occupazioni. Aspettiamoci, dunque, una nuova fase di guerra ai poveri e agli ultimi e non alla povertà. CAMPI NOMADI I tentativi di superamento dei “campi” rom all’interno del contratto di governo giallo-verde si fondano tutti su presupposti e prospettive completamente sbagliati, portati avanti da chi pretende di conoscere l’argomento e si nasconde dietro la propria intolleranza. È bene ricordare poi che le popolazioni rom e sinthi sono da sempre vittime di odio razziale, basti pensare ai Porrajimos nazifascisti. Per questo è necessario trattare con attenzione questo argomento, lontano da ogni deriva xenofoba e razzista. Sugli insediamenti rom il testo del contratto è profondamente razzista ed etnicista: pretende infatti di parlare e seguire le direttive europee (che prevedono programmi di inclusione sociale) senza però voler avviare un reale confronto con le comunità.
Prima di tutto parliamo dei numeri reali: il testo del contratto non è veritiero. Si parla di 40mila insediamenti, con circa il 60% di residenti. Questo è un falso già sfatato dall’UNAR (Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali) ad aprile, con l’insediamento del nuovo presidente. In Italia la popolazione rom e sinthi si aggira intorno ai 180mila abitanti, ma solo circa 26mila persone vivono nei cosiddetti “campi nomadi”, cioè un numero pari allo 0,04% della popolazione italiana. Non sorprende, inoltre, il fatto che tali insediamenti siano ancora chiamati “campi nomadi”, definizione che ci ricorda come in materia di politiche di inclusione sociale siamo rimasti indietro di vent’anni. Ritorna ancora una volta la retorica securitaria e degli sgomberi, questa volta abbellita anche da un non troppo velato messaggio di pulizia etnica. Andando nel merito e leggendo tra le righe ci rendiamo conto che si tratta di politiche che andrebbero contro i diritti umani che in Europa non si vedevano dal mandato di Sarkozy al Ministero dell’Interno francese. Insomma, in materia di sicurezza il ritornello è: sgomberi, rimpatri forzati, pulizia etnica e repressione.
24. Sport “L’attività sportiva e motoria è sicuramente una nuova modalità operativa, forse l’unica a basso costo, per fare una corretta prevenzione e per contrastare alcune malattie croniche soprattutto di natura cardiovascolari.” La parte conclusiva della sezione dedicata allo Sport esplica al meglio la visione giallo-verde riguardante lo sport che verte attorno a due punti cardine: lo sport come prevenzione e, d’altro canto, lo sport come strumento di aggregazione e integrazione. Due i paragrafi dedicati al tema che, seppur in forma snella, chiariscono i 4 campi di intervento in cui vuole muoversi il Governo: impianti sportivi; rapporto del Governo con C.O.N.I. e C.O.N.I. Servizi; sostegno alle Associazioni e società sportive dilettantistiche; lo sport nella scuola, con particolare attenzione alla scuola primaria. Gli impianti sportivi hanno un’importanza strategica. Attraverso una mappatura degli impianti sia privati che pubblici (ivi compresi quelli siti all’interno delle caserme o delle università e scuole) si vuole intervenire, in modo puntuale, laddove risulta necessario. In tal senso strategico è il potenziamento delle sedi regionali dell’Istituto del Credito Sportivo, attraverso il quale agevolare gli enti pubblici nella stesura di bandi e partenariati pubblico-privati per la ristrutturazione o realizzazione di impianti sportivi. Attraverso l’intervento sugli impianti sportivi si vuole provare a risolvere le questioni legate ad alcuni enti locali; si legge infatti più avanti che “occorre poi agevolare i Comuni disagiati attraverso l’inserimento dell’impianto sportivo locale nell’ambito del servizio pubblico territoriale”. Il rapporto con il C.O.N.I. gioca sulla volontà di mettere in piedi un difficile connubio tra autonomia e maggiore controllo. Se infatti viene esplicata la necessità di salvaguardare l’autonomia del C.O.N.I. e di aumentare l’autonomia di C.O.N.I. Servizi rispetto al comitato olimpico, dall’altro vengono chieste relazioni periodiche che, in forma dettagliata e circostanziata, esplichino l’utilizzo dei fondi destinati alle due strutture (e, di conseguenza, alle singole federazioni sportive). Il Governo, si legge inoltre, si renderà compartecipe delle modalità di destinazione e spesa dei fondi pubblici destinati al C.O.N.I. Forte è il sostegno sulla carta alle associazioni e società sportive dilettantistiche e di base. La prima proposta è quella di inserire ulteriori agevolazioni fiscali e contributive alle piccole società sportive dilettantistiche, oltre che ad agevolazioni economiche per stipulare assicurazioni che coprano tutte le responsabilità civili dei dirigenti e presidenti di società sportive dilettantistiche. Grande attenzione poi ai fondi: nel contratto si legge infatti che “è opportuno [...] garantire le risorse agli enti locali vincolate al taglio dei costi di esercizio ed utilizzo degli impianti sportivi pubblici e conseguente contenimento tariffario per gli utenti”. Rispetto ai fondi viene chiamato di nuovo in causa l’Istituto del Credito Sportivo, le cui sedi regionali, insieme ai Comitati Regionali del C.O.N.I., vanno potenziate. Attraverso l’I.C.S., si legge, va aumentato il fondo di garanzia a favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche, per renderlo maggiormente fruibile e poter garantire la realizzazione o ristrutturazione degli impianti sportivi e la gestione diretta degli stessi. Secondo il contratto di Governo, particolare attenzione bisogna dare al rapporto tra sport e scuola, per i cardini teorici già presentati di educazione e integrazione. Una delle prime proposte riguarda l’aumento del monte ore della pratica sportiva all’interno del percorso formativo, sin dall’inizio di esso. Tale proposta è accompagnata dalla volontà di inserire i laureati in scienze motorie all’interno dell’organico di ruolo della scuola primaria e visite mediche sportive gratuite all’interno della stessa. Parallelamente si ritiene necessario assumere iniziative volte al sostegno dell’associazionismo sportivo scolastico (ma su questo non c’è una proposta che entri nel dettaglio).
25. Sud La questione meridionale sparisce dall’agenda setting del prossimo governo giallo-verde. Il Mezzogiorno diventa un “marchio”. Ed effettivamente il Sud è stato “marchiato” per decenni dall’unico alleato dei 5 stelle: la Lega Nord. Per anni parole come “colera”, “terroni”, “secessione” hanno fatto parte del vocabolario per etichettare il Sud e le isole da parte di parlamentari con la cravatta verde. La Lega è una forza del Nord e fa in questo contratto un serio lavoro di egemonia sui 5 stelle, una forza politica il cui candidato premier e il Presidente della Camera sono di Napoli e che ha raccolto i propri voti soprattutto a Sud. Pare però essersene dimenticata. Lo si evince quando si parla dello sviluppo delle aziende o delle banche del Nord Italia, per i quali si presentano leggi, risorse e provvedimenti di urgenza. Quando invece si tratta di inserire nell’agenda setting le politiche per diminuire le disparità sociali, aumentare le opportunità di lavoro, fare politiche infrastrutturali nel Mezzogiorno e nelle isole, ecco che invece ci si appella al buon senso dell’unità nazionale, allo “sviluppo omogeneo del Paese”. Non sia mai che il Sud dovesse ricevere risorse adeguate e pianificate per le infrastrutture pubbliche, per le politiche sociali e culturali nelle periferie e nelle province a forte densità mafiosa, per dare valide alternative all’emigrazione e alla disoccupazione giovanile. Non sia mai che si desse ascolto realmente alle priorità territoriali, dismettendo una visione centralista e in certi casi di vero e proprio colonialismo interno. I milioni di elettori del Sud e delle isole che hanno votato 5 stelle sono stati completamente traditi e dimenticati. A loro sono riservate solo poche righe, appena 8 righe in tutto, in cui la questione meridionale, i problemi strutturali del Mezzogiorno, lo sviluppo a due velocità sono derubricati ad un “marchio”. Essere un marchio vuol dire ritornare all’idea di un Mezzogiorno parassitario, che campa su un’elemosina piagnona senza la quale non si può andare avanti. E a cui non servono nè più nè meno delle risorse che già ha a disposizione.
27. Trasporti, infrastrutture e telecomunicazioni Sui trasporti vengono ripresi alcuni temi chiave già presenti nel programma del Movimento 5 Stelle, dall’incentivazione delle auto a trazione ibrida ed elettrica all’investimento in infrastrutture ferroviarie. Risultano delle evidenti mancanze sul piano della mobilità cittadini: nel programma non viene preso in considerazione la necessità di implementare e avviare un piano di incentivi alla mobilità attraverso il trasporto pubblico locale con un occhio di riguardo alle aree periferiche delle grandi città, spesso servite in maniera approssimativa, e alle aree provinciali dove spesso non vi è alternativa alla mobilità individuale con un evidente aumento del congestionamento stradale e dell’inquinamento. Un altro punto che non viene toccato è quello dei costi per gli utenti e della gestione delle aziende del trasporto pubblico, la mobilità non può essere un lusso sia quella locale che quella sulle lunghe percorrenze. Sarebbe necessaria la ripublicizzazione di tutte le aziende di trasporto pubblico e la gratuità per quelle fasce di popolazione che spesso affrontano una maggiore difficoltà come studenti precari e disoccupati. Clamoroso è invece il dietrofront sulle grandi opere: da una netta contrarietà propagandata negli ultimi anni dal Movimento 5 Stelle, si passa a una generica ridiscussione degli accordi bilaterali per la costruzione della Torino Lione. Sul trasporto delle merci sarebbe necessario aumentare i nodi di interscambio aumentando nettamente la percentuale di merci trasportate su ferro che vede l’Italia nettamente distante dall’obiettivo minimo europeo da raggiungere entro il 2030 il 30% delle merci trasportate su ferro.
28. Turismo In linea con quanto affermato nel capitolo sulla cultura, la sezione dedicata al turismo esalta soprattutto gli aspetti economici della materia. Il “contratto” prevede, nel medio termine, l’istituzione di un Ministero del Turismo, separato da Beni e Attività Culturali e dotato di un proprio portafoglio. La proposta non è di per sé un elemento positivo o negativo, in altri Stati europei possiamo trovare entrambe le soluzioni. La direzione impressa dal documento sembra guardare, però, quasi unicamente agli imprenditori del settore. In questo quadro, alcune misure proposte rispondono a necessità oggettive: per esempio, la “web tax turistica” è utile non tanto per tornare a una concorrenza più leale nel settore, ma soprattutto per recuperare introiti fiscali dalle transazioni commerciali sul web. Altre proposte risultano più controverse: l’abolizione della tassa di soggiorno costituirebbe un vuoto di cassa rilevante per molti enti locali (sarebbe probabilmente più interessante e più equo ragionare di una differenziazione delle tariffe di questa tassa in base alle tipologie di pensione o villeggiatura); inoltre, la decontribuzione di due anni da riconoscere alle imprese turistiche per le nuove assunzioni sembra seguire lo schema “renziano”, cioè fare sconti fiscali senza alcuna assicurazione sulle prospettive lavorative da parte del privato. Ciò che esce dall’ambito dell’impresa turistica è molto meno approfondito. La revisione della formazione per l’abilitazione a guida turistica e la riforma degli Istituti Alberghieri vengono solamente accennate; così come vengono spese poche parole per un “turismo accessibile”. Il ricco dibattito che si è aperto tra varie associazioni italiane di guide turistiche sul tema dell’abilitazione nazionale meriterebbe una maggiore attenzione e, soprattutto, una grande capacità di ascolto. La preminenza degli obiettivi economici è palesata anche dalla totale assenza di un ragionamento sul “turismo sostenibile”, sulla tutela dei siti turistici minori e sull’equilibrio tra flussi turistici e comunità attraversate.
29. Unione Europea La parte sull’Unione Europea è probabilmente una delle meno critiche con l’attuale assetto dell’Ue che l’Italia ricordi, con buona pace della retorica “sovranista” che M5S e (soprattutto) Lega hanno spesso utilizzato. La sezione inizia citando positivamente il Trattato di Maastricht del 1992, e già questo basterebbe a chiudere il discorso, essendo Maastricht il perno della governance ordoliberista dell’Ue. Rigido controllo dei conti pubblici, moneta unica orientata al controllo dei prezzi e non al sostegno della finanza pubblica, libera concorrenza come principio fondamentale a cui subordinare qualsiasi diritto sociale, democratico o ambientale: elogiare Maastricht significa elogiare l’Ue così com’è, nel nome della superiorità del mercato sulla cittadinanza. In questo contesto, molte delle singole proposte avanzate sono di assoluto buon senso, dalla riforma dello statuto della Bce al rafforzamento del ruolo del Parlamento Europeo, dalla lotta al dumping alla revisione di fiscal compact e meccanismo europeo di stabilità. dalla critica all’asimmetria gerarchica tra stati membri a quella (peraltro molto timida) a Ceta e Ttip. Si tratta di una versione edulcorata e moderata dell’approccio “eurocritico” che ha spesso caratterizzato la sinistra, di certo lontana anni luce dalle sparate di Grillo e Salvini sull’uscita dall’Ue o dalla moneta unica. Il senatore Bagnai lo definirebbe un testo “eurista”, per usare una terminologia che non ci ha mai convinto. Dal nostro punto di vista, non è un male che, nella lotta contro l’austerità, si scelga la via della battaglia per rivedere le regole europee piuttosto che quella dell’uscita unilaterale. Ed è evidente che ogni battaglia per la revisione in senso democratico e progressivo delle regole europee va sostenuta. Preoccupa, però, che questa via sia intrapresa con una timidezza, un moderatismo e un’assenza di strategia che non fanno ben sperare per il suo, già di per sé arduo, successo. Non c’è una riga sugli interlocutori, sullo schema di alleanze, su ciò che fa ritenere a Di Maio e Salvini di riuscire a portare a casa ciò che ad altri non è riuscito. Non vorremmo assistere all’ennesimo teatrino di un governo che fa la voce grossa annunciando che “batterà i pugni sul tavolo” a Bruxelles, per poi tornare a casa e rassegnarsi al ruolo di poliziotto dell’austerità che gli è stato assegnato. L’impressione è che il bipolarismo tra tecnocrazia liberista alla Macron e nazionalismo reazionario alla Le Pen stia andando verso una preoccupante convergenza, in cui spariscono il tema della sovranità democratica e quello della lotta all’austerità per lasciare spazio alla fusione tra europeismo e nazionalismo, in una nuova grandeur imperiale della Fortezza Europa. Il riferimento finale alla necessità che l’Europa si attivi direttamente in Italia per difendere (dai migranti) i confini, per garantire all’interno dell’Ue la libera circolazione di merci e persone (alla faccia della retorica sui dazi e della lotta al dumping), in questo senso, non può non preoccupare.
30. Università e Ricerca Il capitolo su Università e Ricerca del “Contratto per il governo del cambiamento” promette di cambiare davvero poco – e spesso non in meglio - le prospettive per tutti quegli studenti, dottorandi e precari della ricerca che da anni chiedono una svolta decisiva nelle politiche universitarie e la ricerca pubbliche nel nostro Paese. Che i temi relativi alla formazione superiore e alla ricerca siano stati ancora una volta relegati in fondo all’agenda politica del governo lo si può evincere subito dal carattere fin troppo vago e generico con cui vengono (non) trattate nel documento questioni al contrario prioritarie, per le quali sarebbe necessaria chiarezza sugli obiettivi e sugli strumenti. Vaghezza che sui punti cruciali nasconde – neanche troppo bene – una sostanziale linea di compatibilità e continuità con gli assetti attuali del sistema di finanziamento e governo dell’Università. Un esito difficile da immaginare diverso per un patto di governo in cui uno dei due contraenti è un soggetto, come la Lega, che – nel quadro del centrodestra berlusconiano - è stato fra i protagonisti dal 2008 ad oggi dello smantellamento dell’Università e della ricerca pubbliche. In effetti, come vedremo, i pochi impegni e obiettivi più “definiti” all’interno del documento appaiono sembrano confermare una logica e retorica di governo dell’Università fin troppo familiari per chi da tanti anni si batte per un effettivo cambiamento. Dell’urgenza e necessità di una “inversione di marcia” si parla nell’incipit del capitolo rispetto a una “continua riduzione degli investimenti nel comparto del nostro sistema universitario e di ricerca”, ponendo come questione prioritaria “incrementare le risorse destinate ad università ed enti di ricerca”, insieme a una “ridefini[zione] dei criteri di finanziamento delle stesse”. Promettere di aumentare le risorse è senz’altro condivisibile, ma fin troppo poco credibile senza alcun accenno a obiettivi minimi (arrivare al 3% del PIL come nelle raccomandazioni europee?) e, – soprattutto, - senza fare cenno ai criteri che dovrebbero ispirare una revisione dei criteri le modalità di finanziamento. Sarebbe opportuno chiedersi: si intende o no superare un sistema che, specie nella scorsa legislatura, ha aumentato in senso assoluto alcune risorse, ma attraverso meccanismi premiali che hanno determinato un aumento delle diseguaglianze interne al sistema e accelerato la loro concentrazione in una élite di atenei, settori disciplinari, realtà territoriali e strutture di ricerca? Nessun cenno su questo e sulla desiderabilità di un modello in cui le (scarse) risorse aggiuntive vanno a premiare poche realtà e settori ritenuti “eccellenti” a scapito della qualità complessiva del sistema universitario, contribuendo così ad approfondire gli squilibri socio-economici fra diversi contesti territoriali e le differenze di sviluppo in ambiti disciplinari “di serie b”. In effetti, nei paragrafi successivi, i criteri di finanziamento di cui si parla si riferiscono solo agli ambiti della “terza missione” dell’Università, laddove la ricerca sia in grado di attrarre investimenti privati ed europei. Da qui la chiara priorità per gli incentivi alle “partnership pubblico-private” che – Lega e 5 stelle ne fanno un articolo di fede – “consentiranno, di fatto, un maggior apporto di risorse in favore della ricerca”, senza che sia chiaro cosa debba esserne di quelle (numerose) realtà territoriali e disciplinari prive di un settore privato interessato a tali partnership. Allo stesso tempo non è chiaro in che modo e da che parte la “costante sinergia” con la Banca (europea?) per gli investimenti possa portare a “maggiori fondi per incrementare il livello di innovazione”, considerando le scarse risorse disponibili e i loro vincoli stringenti (anche in termini di condizionalità) di quel canale di finanziamento rispetto al ben più ampio bisogno di investimenti pubblici in ricerca e sviluppo di cui il sistema Paese avrebbe bisogno. Se risultano apprezzabili, ma fin troppo generici, i riferimenti a una riforma complessiva dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica, quando si inizia a parlare di riforma del sistema di reclutamento “per renderlo meritocratico, trasparente e corrispondente alle reali esigenze-scientifico didattiche degli atenei”, iniziano i guai. Da una parte si afferma la necessità che il maggior numero possibile di studenti acceda “ai gradi più alti degli studi”, si parla di nuovi finanziamenti per il diritto allo studio e l’estensione della No Tax Area, in modo da aumentare “la percentuale di laureati nel nostro Paese, oggi tra le più basse d’Europa” – proposte effettivamente urgenti e richieste a gran voce in questi anni dai movimenti studenteschi, dei dottorandi e dei ricercatori. Dall’altra, però, non solo viene pienamente confermato l’accesso a numero programmato negli atenei, ma addirittura si prospetta un suo rafforzamento sulla base di un modello che “assicuri procedure idonee a verificare le effettive abitudini degli studenti”. Quest’obiettivo che sottende una piena continuità con quanto avvenuto sinora, in un sistema in cui si risponde contraddittoriamente al basso numero di laureati restringendo sempre di più l’accesso all’Università, facendone in complemento essenziale dell’erosione di risorse al reclutamento dei docenti e alle strutture per la didattica. Se quindi l’accesso alle aule e banchi degli atenei continuerà a essere ristretto, le possibilità per formarsi da casa propria “on-line” saranno invece
particolarmente incentivate addirittura con “finanziamenti finalizzati” alle attività formative telematiche delle università statali e una migliore regolamentazione (più flessibile e permissiva?) delle università telematiche private. Piuttosto che ampliare i finanziamenti per mettere più docenti strutturati dietro le cattedre, in aule vere, il “governo del cambiamento” intende dare più risorse a canali di formazione che per definizione richiedono numeri bassi di docenti, dietro un computer, e che troppo spesso non sono in grado di garantire una didattica di qualità che sia paragonabile a quella delle “lezioni frontali”. Che ne sarà dei docenti e ricercatori che in “carne ed ossa” fanno didattica e ricerca? Sul tema del precariato nella ricerca colpisce negativamente il livello di astrazione espresso dal contratto di governo, in cui si parla di “supera[re] la precarietà”, di “valorizzare i nostri docenti e ricercatori” e di “assicurare adeguate condizioni lavorative” attraverso un generico impegno a “incrementare significativamente le risorse”. Non una parola sull’entità e sulle modalità di programmazione di tali risorse, né sull’opportunità di rimettere mano a quella legge 240 del 2010 (la Riforma Gelmini) che ha istituzionalizzato il precariato nel mondo universitario, condannando intere generazioni di giovani ricercatori.