Un centenario 14 da ricordare In questi giorni sono tante le iniziative in programma per ricordare il Centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Anche il nostro giornale ha voluto ricordare queste pagine di storia attraverso gli occhi del Mugello e per farlo, molto volentieri, ha accolto la proposta di Antonio Margheri, , presidente del Centro per la Storia Mugellana, che per un anno ha ricostruito la storia mugellana tra il 1915 e il 1918. Attraverso le nostro pagine Margheri ha dato voce alle lettere dei soldati al fronte, ai prigionieri, ha ricostruito l’economia della guerra, ha riportato cronache di carovita e storie di profughi e orfani. Tutta la Grande Guerra così come l’ha vissuta il Mugello in uno spaccato storico unico e originale. Con piacere ed orgoglio oggi tutti gli articoli di un anno di pubblicazione sono diventati un inserto, affinchè la memoria resti davvero viva. Sempre. Un ringraziamento speciale, dunque, ad Antonio Margheri per queste pagine e per la sua disponibilità e competenza messe a disposizione della nostra redazione e dei nostri lettori. Serena Pinzani
SABATO 7 GIUGNO 2014 - il galletto - TRA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 Antonio Margheri, presidente del Centro per la storia mugellana nell’età contemporanea e nella Resistenza, ormai da circa 10 anni dedica una parte importante delle proprie letture e del tempo disponibile allo studio ed alle ricerche sulla storia locale del Mugello. Nel 2012, con Bruno Confortini, Giulio Gori, Paolo Marini, Loriana Tagliaferri e Paola Veratti, ha pubblicato un denso volume sul Mugello e la Valdisieve dal fascismo alla Resistenza, con un suo saggio dal titolo “Dalla Liberazione alle triplici elezioni del 1946: l’esperienza dei governi locali delle giunte del C.L.N.”. Da qualche anno sta facendo ricerche sulla Grande Guerra nel Mugello, con un’attenzione particolare a quanto accadde nel nostro territorio. Nel centenario della Prima Guerra Mondiale (!914), il nostro settimanale, a partire dal prossimo numero e per circa un anno, pubblicherà due articoli al mese scritti da Antonio Margheri e frutto delle sue ricerche compiute in archivi e biblioteche lo-
cali e nazionali. Sarà così possibile approfondire sul piano locale i mutamenti e le ripercussioni scatenate dalla Grande Guerra nel Mugello. Si scopriranno così tanti avvenimenti e tante storie finora poco conosciute e poco tramandate anche dalla memoria dei protagonisti di allora alle generazioni successive. Un evento, quello della Grande Guerra, che cambiò il mondo e la storia del Novecento, sancì la fine dell’egemonia europea, aprì la strada ai totalitarismi, creò le premesse per la nascita del fascismo e per lo scatenarsi del secondo conflitto mondiale. La sua natura moderna di guerra totale coinvolse anche la società, la cultura e l’economia nel suo complesso e quindi investì anche quelle dimensioni territoriali locali, come il Mugello, che non si limitarono a fornire combattenti (con centinaia e centinaia di caduti, dispersi, prigionieri, orfani, invalidi) ma videro sconvolta la vita quotidiana delle persone e il tradizionale quadro politico. Nell’immediato dopoguer-
ra si costituirono i moderni partiti politici, con il Partito Socialista ed il Partito Popolare che conquistarono, per la prima volta, tutti i Comuni del Mugello. Per
finire, un consiglio: conservate gli articoli che verranno pubblicati. Vi rimarrà un’importante pezzo di storia del Mugello. Buona lettura.
STORIA E CRONACA
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SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto - IL
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MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 SABATO 14 GIUGNO 2014 - il galletto - TRA
STORIA E CRONACA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 - n° 1
Tra pace e guerra nell’anno della neutralità (1914)
Antonio Margheri lo d’attenzione della stam- pie di treni. Le aree ferro- tare su “Il Corriere Mugel-
Il 28 giugno 1914 l’Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, furono colpiti a morte da alcuni colpi di pistola sparati dal giovane serbo Gavrilo Princip. Il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia. Era l’inizio dell’”inutile strage” (la definizione fu di papa Benedetto XV) che provocò venti milioni di morti, gettando le premesse della guerra successiva. La stampa non dedicò grande attenzione all’episodio. Si riteneva improbabile lo scoppio di una guerra e comunque nessuno poteva immaginarla diversa nelle forma e nella sostanza dal classico conflitto ottocentesco. “La Nazione” ed “Il Nuovo Giornale” riservarono le prime pagine alle elezioni amministrative e alla battaglia antisocialista. Non diversamente fecero i due settimanali mugellani “Il Messaggero del Mugello” ed “Il Corriere Mugellano”. Passata la tornata elettorale, aumentò il livel-
pa. Già un mese dopo l’inizio della guerra, nel Mugello ci fu un generale peggioramento dei servizi, così descritto in modo colorito ed efficace dal borghigiano quindicinale socialista “ La Fischiata”: Guerra! Ma che Guerra! E siamo stanchi bene colla Tripolitania…E con questa?!...(Benché noi un sia a nulla) vedi come si principia?...Un c’è più circolazione di moneta; le banche, la Posta e la Cassa di Risparmio un danno che i cinque per cento dei depositi; le fabbriche e gli stabilimenti principiano a chiudersi o per mancanza di denari, o di carbone o di quarchecos’altro e per di più ecco tutti gli emigranti dalla Francia e dalla Svizzera scender giù nella su terra natia come un vero formicolaio1. Le comunicazioni ferroviarie subirono tagli rilevanti con il nuovo orario invernale e soprattutto gli orari penalizzarono il collegamento strategico con la Romagna e dal 1915 il servizio viaggiatori si ridusse a due cop-
viarie divennero zone militari e molte furono le condanne per la violazione delle norme, con pene che raggiunsero anche i sei mesi di reclusione. La militarizzazione consentì l’arresto di alcune persone ricercate dalle forze dell’ordine. Fu questo il caso del socialista borghigiano venticinquenne Antonio Frizzi che, in occasione di uno sciopero a Milano nel 1911, era stato condannato a quattro mesi di reclusione per reato politico. Fu arrestato dai carabinieri alla stazione di Borgo ed immediatamente portato nel carcere mandamentale. Peggiorarono i servizi postali e sanitari. Lo stesso Ospedale di Luco fu più volte sull’orlo della chiusura per mancanza del direttore e del personale medico ed infermieristico. Il quadro complessivo che emerge dalla stampa locale è quello di una profonda incertezza e divisione all’interno della classe dirigente locale dove forte era la componente geriniana che si ispirava alle posizioni neutraliste di Giovanni Giolitti e poteva con-
lano”. Il settimanale pubblicò articoli favorevoli alla neutralità dell’Italia, non senza denunciare la ferocia e la mostruosità del nuovo conflitto e dando spazio alle posizioni prudenti e neutraliste della chiesa. Punta di diamante dell’interventismo mugellano fu il prof. Antonio Giovannini, opinionista de “Il Messaggero del Mugello”. Convinto nazionalista portò sulle pagine de “Il Messaggero” una critica radicale ed aggressiva verso il Parlamento, i partiti (“che disgregano, inceppano, raffreddano e disorientano perfidamente ogni indirizzo d’azione e di sentimento nazionale”)2, i giolittiani ed i socialisti accusati di essere austricanti e nemici dell’Italia. In questo clima si registrarono anche casi di intolleranza contro i “nemici interni” e gli “stranieri”. Un grande clamore suscitò l’allontanamento dalla direzione della Coltellineria Toscana di Scarperia dei fratelli Sommer, di nazionalità tedesca, che dirigevano dal 1911 l’impresa di proprietà del marchese Gerino Gerini. Il professor Antonio Giovannini denunciò come scarperinese l’”intedescamento di un’industria tipica del paese”, e come nazionalista “l’infiltrazione del capitale, dell’industria e fino dello spionaggio tedesco in Italia”3. Le posizioni interventiste erano comunque decisamente minoritarie: […] la guerra non è desiderata dai mugellani. Una certa delusione succeduta agli entusiasmi per la guerra libica, la considerazione fors’anche esagerata delle conseguenze di un conflitto; la speranza, forse sbagliata, di ottenere parecchio onorevolmente senza guerra; il senso del disagio economico già esistente e il timore che verrebbe esso a centuplicarsi in caso di guerra, sono tutte cause che allontanano e illanguidiscono ogni desiderio d’imprese guerresche nei nostri con valligiani, già per natura amanti della pace. Si aggiunga poi una diffidenza grandissima per molti dei più caldi conclamatori della guerra (massoni e repubblicani), l’influenza del sentimento religioso..4 Dalle relazioni prefettizie del periodo emerge una sostanziale estraneità nei confronti delle manifestazioni nazionaliste: contrari alla guerra gli operai e i contadini che giudicavano la
Alcuni scatti tratti dalla mostra “Il Piave mormorò” allestita a Borgo San Lorenzo (Foto Bernardo Baluganti) guerra una catastrofe al pari di una calamità naturale. Nelle chiese si pregava per la pace. La guerra non generava partecipazione emotiva: Non si sente cantare mai nemmeno un inno patriottico, nemmeno l’inno di Trieste che ormai cantano altrove i ragazzi per le vie e anche le serve quando risciacquano i piatti, tanto è popolare. Qui sembra che la popolazione dinanzi alla guerra, sia come dinanzi all’incomprensibile5. Ad agosto 1914 furono vietate tutte le manifestazioni che potevano apparire “favorevoli od ostili a qualsiasi Stato belligerante”. Nel marzo del 1915, fu approvata la censura su notizie d’indole militare, nuove figure di reato e la delega di poteri al governo in caso di partecipazione al conflitto. Durante un discorso alla Camera il 17 ottobre 1917, Arturo Labriola denunciò: “Nessuno governo d’Europa fu mai armato di tante e così severe leggi contro i propri amministrati come il governo italiano”. Il 14 agosto 1914 giunse a Scarperia il 69° Reggimento di Fanteria che si accampò presso il Palagio. Il giorno successivo giunse anche il 70°. In tutto circa 5.000 uomini. Nelle vicinanze di San Piero si accamparono invece l’84° e l’85° Reggimento Fanteria della
Brigata Venezia. Porzioni rilevanti del territorio furono militarizzate ed i residenti costretti a sgomberare per consentire l’esercitazioni. Nei giorni dal 25 novembre al 10 dicembre vaste zone nel territorio dei Comuni di Borgo San Lorenzo, Pontassieve e Fiesole furono occupate dalle truppe per esercitazioni di tiro a segno e addestramento dei militari. La forte presenza sul territorio di migliaia di soldati fu utilizzata dalle classi dirigenti locali come fattore di mobilitazione patriottica ma servì anche per intimorire e reprimere la popolazione che presto si trovò a subire profondi disagi per le difficoltà dei rifornimenti, il lavoro che mancava, le crescenti limitazioni di movimento e d’opinione. Filosofia popolare…Dialogo fra Pietro e Gigi sul momento attuale, in “La Fischiata”, 2 agosto 1914, 2 . A. GIOVANNINI, Il nuovo orizzonte, in “Il Messaggero del Mugello”, 24 gennaio 1915, n. 4 3 A. GIOVANNINI, Il grave fatto di due Tedeschi a Scarperia e un atto d’italianità dell’on. Gerini, in “Il Messaggero del Mugello”, 4 aprile 1915, n. 4. 4 Il pacifismo del Mugello, in “Il Messaggero del Mugello”, 28 febbraio 1915, n. 9. 5 E in Mugello?, in “Il Messaggero del Mugello”, 8 agosto 1915, 31. 1
IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
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SABATO 28 GIUGNO 2014 - il galletto - TRA
STORIA E CRONACA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – seconda parte
Il Socialismo mugellano per il lavoro contro la guerra Antonio Margheri Lo scoppio della guerra dopo l’attentato di Sarajevo provocò nel Mugello l’immediato rientro degli emigrati. Il ritorno si svolse in modo convulso, spesso non consentendo ai partenti di organizzare il trasloco e di portarsi dietro le poche cose della casa o di riscuotere l’ultima paga e neppure di ritirare nelle banche i propri risparmi. Addirittura, si pagarono anche il biglietto del treno perché non era stato preso alcun provvedimento per facilitare questa povera gente. Il 19 agosto 1914 i Sindaci mugellani si riunirono nella sede comunale di Borgo San Lorenzo e decisero di appellarsi ai proprietari terrieri per occupare qualcuno nei lavori agricoli, chiedere alla Provincia ed allo Stato di sbloccare lavori stradali ed il riordino dei bacini del Santerno e del Falterona. La situazione s’era aggravata per la chiusura o la riduzione degli orari di produzione delle poche fabbriche del territorio (come le fornaci Brunori e la ceramica Chini a Borgo San Lorenzo). Da circa un anno anche i coltellinai ed i commercianti di Scarperia stavano attraversando un periodo di crisi per le nuove norme (“legge del coltello”) che vietavano il commercio ambulante e la detenzione di coltelli di lunghezza superiore a cm. 4. Che la situazione fosse difficile lo rilevava anche il prof. Giovannini che paventava il pericolo rosso: “Il rimpatrio degli emigrati, l’attuale disagio economico derivante dal rincaro dei viveri e da una certa disoccupazione, l’inasprimento delle tasse, e più specialmente la possibilità di una guerra che troverebbe in Mugello avversioni pressoché generali, son tutti fatti che possono grandemente agevolare il socialismo nel suo lavoro di infiltrazione”1. All’inizio del settembre 1914 un “considerevole numero d’operai di cui molti emigranti rimpatriati” si riunirono davanti al palazzo municipale di Firenzuola dove furono ricevuti dal Sindaco Francesco Poli che, per allentare la tensione, assicurò che avrebbe
provveduto urgentemente a far partire altri lavori e all’acquisto di grano per fermare la speculazione. Qualche giorno dopo, si appellò ai benestanti per organizzare una Fiera di Beneficienza a favore dei rimpatriati con la promessa di organizzare lavori pubblici e la cucina economica popolare. Anche Marradi fu investito da numerose manifestazioni, con emigranti, donne e ragazzi alla testa di cortei che, immancabilmente, si dirigevano alla sede comunale. In questo caso si giunse alle dimissioni dell’intero Consiglio Comunale ed alla nomina di un Commissario Prefettizio. Il 2 febbraio 1915 diverse centinaia di cittadini manifestarono “contro la disoccupazione e contro la guerra”, imposero la chiusura di tutti i negozi, raggiunsero il Municipio facendo volare qualche sasso. Solo il “sufficiente rinforzo di militari” fatti subito venire e l’arresto di una trentina di persone impedì per il giorno successivo nuovi incidenti. Fu però a San Piero a Sieve che il movimento per il pane, il lavoro e la pace assunse carattere più politico e continuativo, grazie anche alla ripresa organizzativa del Partito Socialista. Figure di primo piano furono un gruppo d’emigranti tra i quali Vincenzo Lepri, Giuseppe e Raffaello Bini e, soprattutto, Pietro Romagnoli, rientrato dalla Francia nei primi giorni dell’agosto 1914. In treno, a Bologna, il 31 luglio avevano appreso dell’assassinio di Jean Jaurès e appena arrivati a San Piero improvvisarono con fami-
liari ed amici un corteo che si concluse issando una bandiera rossa listata a lutto sulla casa di Romagnoli. Pochi giorni dopo, nella stessa casa in via Calimara, fu ricostituita la sezione del Partito Socialista. All’esempio dei compagni di San Piero a Sieve si ispirarono i socialisti degli altri comuni del Mugello che, dopo la delusione patita con l’elezioni politiche del 1913 e quelle amministrative del 1914, ricostituirono le sezioni di partito. I socialisti mugellani condannarono subito il voltafaccia di Mussolini che nell’ottobre 1914 era passato prima Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante e poi all’interventismo vero e proprio con la prima uscita de “Il Popolo d’Italia” il 15 novembre 1914 che gli costò l’espulsione dal partito Socialista. Sul periodico “La Fischiata”, i socialisti locali espressero il “disgustoso stupore per il transfuga megalomane”2. Ai primi d’ottobre un gruppo di disoccupati, guidati dal Romagnoli, invasero il Comune di San Piero a Sieve e si organizzarono in una Lega dei Braccianti. Dopo un periodo di agitazioni continue con dimostrazioni di disoccupati e di donne che “quasi tutti i giorni si recano in Municipio a domandare lavoro”, il 9 febbraio 1915 venne il giorno dello sciopero generale: “La folla – ragazzi e donne in testa – di nuovo percorse le vie del paese al canto dell’Inno dei lavoratori e al grido di Vogliamo il pane e di Abbasso gli sfruttatori”3.
Con il sindaco fu raggiunto un accordo sul prezzo del pane a 43 cent. al kg. A Barberino, la Lega dei Braccianti si costituì il 31 gennaio 1915, nella sede della Società Operaia, presente anche Pietro Romagnoli. Il 21 febbraio, nella giornata per la pace e la neutralità promossa dal Partito Socialista, si tenne nel Teatro Corsini di Barberino una grande manifestazione contro la guerra. Poi a marzo uno sciopero generale incontrò la massiccia adesione della popolazione. Una commissione trattò sul prezzo del pane ma i risultati raggiunti furono ovunque di breve durata. Repressioni, arresti, richiami alle armi scompaginarono le fila del movimento socialista che, assente anche dalle amministrazioni locali, perse ogni autonoma presenza politica organizzata continuando, comunque, ad essere evocato e demonizzato dal fronte interventista sotto le spoglie del nemico interno e del disfattismo. Nel luglio del 1916 la situazione del socialismo mugellano era fortemente compromessa: “Le sezioni del Mugello da qualche tempo hanno cessato di funzionare. La guerra ha prodotto larghi vuoti, i dissidi interni hanno portato l’apatia, la stasi. In questa plaga eminentemente agricola è vergognoso che manchi un vero e proprio movimento socialista. Elementi buoni e attivi non difettano ma sono sparpagliati nelle varie località del Collegio..”4. In occasione del Congresso provinciale del partito, il 17 febbraio 1917, fu “impossibile
la convocazione delle sezioni appartenenti ai collegi di Borgo San Lorenzo e S. Miniato date le frequenti chiamate di compagni alle armi”. Solo dopo Caporetto e nel 1918 sarà possibile rintracciare alcuni segnali di riorganizzazione legati ad un “risveglio operaio”. E tuttavia quella breve ma intensa riorganizzazione del socialismo mugellano era destinata a lasciare un segno profondo, come
vedremo nell’immediato dopoguerra. (Footnotes) 1 Propositi di propaganda in Mugello, in “Il Messaggero del Mugello”, 13 dicembre1914, n. 50. Il tramonto di un astro, in “La Fischiata”, 29 novembre 1914, n. 9. 3 S. Piero a Sieve. Lo sciopero, in “La Difesa”, 14 febbraio 1915, n. 7 4 Movimento Socialista nel Mugello, “La Difesa”, 8 luglio 1916, n. 27 2
Il Mugello terra di migranti Dall’inizio del nuovo secolo la Toscana aveva registrato un aumento costante dell’emigrazione toccando l’apice proprio nel 1912 (40.939 unità) e nel 1913 (45.599). Nel Mugello il flusso migratorio dai primi anni del ‘900 interessò circa il 15 per mille della popolazione, ma con cifre già superiori al 30 per mille nell’alto Mugello ed in particolare a Firenzuola. Erano in genere pigionali, provenienti da piccoli villaggi dove c’era popolazione agglomerata, in misura molto minore dai capoluoghi, quasi nulla l’emigrazione dei mezzadri. I più si recavano in Svizzera e in Francia. Solo pochi emigravano in Germania o in Austria. In genere erano lavoratori alle ferrovie, muratori, sterratori, minatori, manovali, scalpellini, boscaioli, carbonai. Il Sindaco di Borgo Frescobaldi comunicò al Prefetto il numero di 430 emigrati.
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 12 LUGLIO 2014 - il galletto
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – terza parte
Mugellani in partenza al fronte della morte Antonio Margheri “La Patria chiama i suoi figli al più arduo cimento. Nessuno può mancare all’appello: sarebbe un traditore. Tutti i pregiudizi politici e confessionali si dissolvono come nebbia al sole e la via luminosa si mostra dinanzi a noi. […] Le donne nostre ed i nostri vecchi accompagnino i partenti, incitandoli a compier con tutto l’eroismo il loro compito di soldati; mostrino l’entusiasmo e la fiducia nella vittoria, sorridano anche se, per la stretta penosa dal cuore, gli occhi si riempiranno di lacrime. Tutti i rimasti s’adoprino a colmare i vuoti ed a limitare i danni più che è possibile. I comitati di preparazione civile che si son formati a Borgo S. Lorenzo, a Scarperia, a Firenzuola, a Barberino, in tutto il Mugello spiegheranno tutta la santa opera in questo solenne momento. […] La Patria ci chiama: Obbediamo!”1. Con questo appello all’unità e all’obbedienza “Il Messaggero del Mugello” invitava i soldati e la comunità mugellana ad affrontare la nuova realtà dell’ingresso in guerra dell’Italia. Su “Il Corriere Mugellano”, un mese dopo, si descriveva il clima che aveva accompagnato la partenza dei soldati che “passavano cantando inni patriottici, seminando a piene mani l’allegria nei nostri silenzi campestri” e si rievocavano “le cadenze delle canzoni di guerra [che] risuonano ancora fiere e vivaci alle nostre orecchie, gradevoli e simpatiche come squilli di marce ardite”2: Cecco Beppe gliè malato Gli ci vuole un lavativo: e per farlo spicciativo colla bocca del cannon! Questa è la loro preferita. Poi: Siamo Italiani Siam giovani e freschi E dei tedeschi Paura non s’ha! E poi: Viva il sasso di balilla Che potè più del cannon! Indi: Va’ fuori d’Italia, va’ fuori stranier! E le bambine assecondavano: Su stringetevi possenti Gioventù delle legioni Elmo intesta in man l’acciar Viva il Re
Dall’Alpi al mar! I soldati partirono in convogli ferroviari, passati alla storia con la denominazione di tradotte. Sulle tradotte, i fanti cantavano le canzoni di sempre e da fuori si capiva se era una tradotta di ritorno dal fronte. Quelle che partivano erano invece silenziose, cupe, portavano i soldati che andavano a morire. Una delle più belle canzoni degli ultimi decenni descrive una tradotta di soldati che ritornano dal fronte: Generale, di Francesco de Gregori ... Generale dietro la stazione lo vedi il treno che portava al sole non fa più fermate neanche per pisciare si va dritti a casa senza più pensare che la guerra è bella anche se fa male che torneremo ancora a cantare e a farci fare l’amore, l’amore dalle infermiere. Nessuno immaginava che la guerra sarebbe durata tanto e avrebbe assunto caratteristiche profondamente diverse da tutti i conflitti precedenti. I comandi militari e i politici erano cresciuti con le battaglia tra poche migliaia di uomini, con grandi manovre, tintinnio di sciabole, cariche della cavalleria con la banda al seguito. La Grande Guerra ruppe questi schemi. Il progresso tecnologico aveva, d’altra parte, fatto passi da gigante e di conseguenza alle armi modificando le tecniche di battaglia. Gas velenosi, fucili più potenti e precisi di quelli del passato, la nascita dell’artiglieria leggera, la mitragliatrice, lo sviluppo e il potenziamento di quella pesante, la guerra navale ed aerea cambiarono i piani di battaglia dei
generali. La nuova guerra si presentò come una guerra totale, una guerra di massa contrapposta alla guerra “d’elite” del secolo precedente. Il numero di uomini mobilitati sarebbe stato estremamente superiore rispetto al passato; milioni di uomini furono vestiti di grigioverde e inviati a combattere in posti che non avevano mai visto e contro un nemico che era dipinto dalla stampa e dalla propaganda come l’orco cattivo che voleva conquistare e invadere la patria. E proprio questa mobilitazione di milioni di uomini fu un grosso sconvolgimento nelle vite degli italiani. Contadini, soprattutto, uomini di ogni regione di Italia furono trasferiti in lembi di stato di cui non avevano mai sentito parlare e si trovarono a vivere, morire e combattere insieme ad altri uomini che parlavano spesso un dialetto per loro incomprensibile. L’esercito si presentava come un grosso corpo, la fanteria, quella che sarebbe diventata la carne da macello formata in grandissima parte dai contadini. La Toscana fu tra le regioni che pagarono un tributo maggiore all’insaziabile fame di uomini dell’esercito. Il censimento del 1911 aveva registrato 539.422 uomini “in età militare”: i tenuti alle armi risultarono essere, alla fine della guerra, pari a 450.525, ovvero l’83,5% della cifra complessiva. Quasi 47.000 toscani che furono “inquadrati nei corpi” non sarebbero tornati a casa, se non forse per morirvi subito dopo. Più di uno su dieci! A pagare con la vita furono soprattutto le classi d’età comprese fra il 1887 e
il 1896, vale a dire coloro che al momento dello scoppio della guerra avevano tra i 19 e i 28 anni. Fra questi i morti raggiunsero il 14,2 %. Un morto ogni 6 tenuti alle armi. E, fatto altrettanto sconvolgente, a mietere tutte quelle giovani vite non furono solo bombe e granate, fucili e cannoni. A fronte infatti di un 42 % di morti sul campo o per ferite, vi fu un 41 % di morti per malattie contratte sotto le armi per i disagi e epidemie. Moltissimi morirono nei campi di prigionia, abbandonati dallo Stato italiano per colpevole volontà. In sintesi, a guerra finita, fra i toscani impegnati in guerra mancava all’appello un maschio su 11. Fu nei comuni in cui l’agricoltura dominava sovrana che la guerra apparve in tutta la sua dirompenza, quali che fossero l’assetto produttivo e l’organizzazione del lavoro: da Gaiole e Radda, ai comuni del Chianti fino a Cetona e Chianciano, e nell’area della Val di Chiana e nel Mugello i morti furono migliaia. Pochissimi, nel Mugello, i volontari che si presentarono
per essere arruolati. Rispetto al 1915, la popolazione toscana nel 1919 era diminuita di un milione e mezzo di unità, cosa che non si ripetè affatto nel corso della seconda guerra mondiale e per la prima volta dall’unità d’Italia anche nei comuni mugellani si registrò per circa 3 anni, un sal-
do demografico negativo. Una vera e propria macelleria umana. Questa fu la Grande Guerra, anche per il Mugello. 1 Obbediamo!, in “Il Messaggero del Mugello, 28 maggio 1915, n. 21 2 Corrispondenza di Bita, “Il Corriere Mugellano”, 20 giugno 1915, n. 24.
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IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 26 LUGLIO 2014 - il galletto
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – quarta parte
I Comitati di preparazione civile nel Mugello
Antonio Margheri ni; vice-segretario, Guido forto ai militari passanti, precedente di L. 9007. Con In un Paese povero come l’Italia, la guerra pose fin da subito problemi di assistenza. L’unico parziale ed insufficiente provvedimento preso dal Governo per alleviare la pesante situazione sociale delle famiglie fu l’adeguamento dei sussidi giornalieri dei richiamati alle armi. Vennero escluse le famiglie mezzadrili che, secondo le varie autorità, potevano continuare a contare sulle risorse e sui prodotti del podere. Tra gli esclusi erano anche le famiglie di renitenti e quelle dei militari presunti disertori (anche se spesso risultarono in seguito solo dispersi), contadini proprietari, anche se piccolissimi1. Inoltre l’assistenza fu delegata dallo Stato ai privati e ai Comuni. Ancor prima della mobilitazione proclamata il 23 maggio 1915 dal Governo, nei vari comuni del Mugello si erano già costituiti i Comitati per la preparazione civica. A Scarperia l’assemblea costituente si tenne il 17 maggio19152. Tra i promotori del Comitato Scarperiese di preparazione civile in caso di guerra: avv. Carlo Ciamponi, Sindaco, cav. dott. Francesco Bartalini, cav. dott. Pietro Carraresi, dott. Aldo Fabroni, dott. Ettore Galli, Egidio Giusti, avv. Antonio Guidacci, don Giovanni Minimi, Bruno Savi.. Firmatari dell’appello anche numerosi parroci: don Casini, don Federigo Mannini, don Claudio Bargilli di S. Agata. Parteciparono numerose “gentili signore, rompendo finalmente una vecchia consuetudine di riservatezza che fino a ieri, per lo più, le aveva tenute lontane ed aliene da quasi ogni congegno maschile”. Presidente onoraria fu la principessa Isabella Borghese. Il 18 maggio, anche a Borgo San Lorenzo si costituì un analogo Comitato3. Tra i promotori: il Sindaco Ferdinando Frescobaldi, gli assessori Augusto Piattoli, Ettore Torelli e Vittorio Dini, ing. Giuseppe Cocchi, Francesco Talucci, Francesco Arquint, Giovanni Bandini, Enrico Mazzocchi, Guido Cammelli, Antonio Pini, Luigi Caiani, Pietro Caiani, prof. Luigi Cipriani, Luigi Tesi, Mario Nencetti, Pietro Cambi, Carlo Tronconi, don Canuto Cipriani. Fu formato un Comitato esecutivo: presidente, il Sindaco; vice-presidente, Enrico Mazzocchi; segretario, il prof. Luigi Cipria-
Cammelli; Cassiere, Pietro Cambi; Membri, Pietro Agostini per la Commissione “Assistenza alle famiglie dei richiamati”; Luigi Tesi “Soccorsi ai feriti e malati”, Ing. Giuseppe Cocchi, “Collocamento disoccupati”; Giovanni Bandini “Agevolazione relazione fra i militari e le loro famiglie; contessina Giselda Pecori Giraldi “Comitato Signorine”. Per un’azione più capillare si formarono anche sottocomitati locali: Ettore Torelli e Antonio Brentani per Ronta, Egidio Ciampi per Panicaglia, Ronchi per Luco, Luigi Caiani per Sagginale, Bonciani per Polcanto, Amerigo Bini per Faltona. Dopo un avvio promettente ad ottobre subentrò una “grande apatia” che addirittura mise in pericolo l’esistenza del Comitato. Rilevante, sotto il profilo numerico e della concretezza nell’attività assistenziale, fu la presenza delle donne. Questa si manifestò attraverso una moltitudine di iniziative: fiere di beneficenza e serate d’intrattenimento, raccolta fondi, accoglienza e distribuzione di cibo e bevande ai soldati, raccolta e distribuzione d’indumenti, assistenza all’infanzia. Nel sostegno allo sforzo bellico la propaganda valorizzò quell’inventiva e quella capacità di riciclaggio e di risparmio che erano considerate virtù tipicamente femminili e che ora erano necessarie per fronteggiare la scarsità di prodotti e beni primari. In sostanza, si trattò di un preludio a quanto accadrà poi negli anni Trenta nell’Italia colpita dalle sanzioni economiche internazionali e più tardi durante la Seconda Guerra Mondiale. Così parti di pellicce prelevate da cappotti usati vennero utilizzati per fare nuovi cappotti, si promosse allo stesso scopo gli allevamenti di coniglio; con stracci, avanzi di lana e altro materiale si fabbricarono superfici compresse detti coltroni per proteggere i soldati dal vento e dal freddo. Si provvide anche ad organizzare la raccolta dei noccioli di vari frutti (pesche, albicocche, prugne) per usi di saponificazione e farmacologici. Gruppi organizzati di donne, spesso con maestre e scolaresche, presidiavano le stazioni per salutare il passaggio dei treni organizzando “gite di dimostrazione e di con-
recando loro, oltre al saluto di schietta italianità, vino, cibi, dolci, cartoline illustrate, bandiere tricolori e fiori d’ogni specie”4. Le donne allestirono infermerie, curarono l’assistenza ed il vitto per i feriti e le truppe che, in numero sempre maggiore, permanevano temporaneamente nel Mugello per addestramenti prima di raggiungere il fronte. Sezioni della Croce Rossa si costituirono per la prima volta anche nel Mugello. Alle Commissioni femminili dei vari Comitati fu affidato il compito di distribuire i lavori militari alle donne. Furono sempre le donne a mostrare attenzione e sensibilità per la spedizione di pacchi ai soldati e ai prigionieri. Per tutto il periodo del conflitto e fino al loro scioglimento, avvenuto a metà del 1921, i Comitati mugellani continuarono nell’attività di erogazione dei sussidi alle famiglie dei richiamati. La Commissione Maschile del Comitato di Sant’Agata pagò una parte cospicua della pigione di casa ai figli orfani di madre (e poi disgraziatamente anche di padre) del defunto richiamato Felice Incagli, ai quali corrispondeva un sussidio mensile di L. 10. Esaminò 22 domande, accolte 15 ed erogati in sussidi L. 96,00 in denaro ed in buoni pasto alimentari. Con i proventi della fiera, distribuì a n. 44 famiglie bisognose la somma di L. 176. Al termine della guerra, la somma erogata per sussidi fu di L. 17442, 705. A Vicchio “furono raccolte, con la sottoscrizione dell’anno decorso [1915] Lire 7271,13, con le quali furono corrisposti alle famiglie bisognose dei richiamati del Comune, n. 2838 sussidi, per Lire 6776,80”6. E tuttavia, alla fine del semestre del 1916, gli appelli del Comitato per nuovi versamenti volontari erano andati a vuoto: “Fa veramente meraviglia che diversi tra i maggiori possidenti del Comune non solo non sentano spontaneamente l’obbligo che incombe […] ma facciano anche orecchio da mercante alle ripetute ed insistenti domande e preghiere a loro continuamente rivolte dal Comitato stesso”. Analoga situazione di difficoltà attraversò anche il Comitato borghigiano che, nel maggio 1916, si trovò costretto a ridurre a L. 600 mensili i contributi da erogare, rispetto alla quota
il Decreto Luogotenenziale 31 ottobre 1916, venne data facoltà ai Comuni di sovraimporre un contributo straordinario ai singoli contribuenti per costituire un fondo per opere d’assistenza civile. Intanto la guerra inaspriva i risentimenti, smascherava ipocrisie, poneva nuovi problemi d’assistenza per i soldati e per chi restava a casa: “Questi filantropi, di conio moderno, credono, con tali inezie, d’avere adempiuto ai doveri evangelici e patriottici, pur pensando di rifarsi sui prezzi delle derrate: poiché i produttori ed i trafficanti che vendono il triplo, il quadruplo del vero valore delle medesime”8. La rotta di Caporetto ebbe molteplici conseguenze sul fronte interno. Nel 1917 venne istituito il Ministero per l’Assistenza militare e le Pensioni di guerra. Il nuovo governo Orlando costituì nel dicembre 1917 l’Opera Nazionale Invalidi di Guerra e l’Opera Nazionale Combattenti (ONC): l’obbiettivo era di avviare i reduci al lavoro attraverso una riqualificazione professionale, la creazione di cooperative e l’assegnazione di terre incolte. Nel dopoguerra il tradimento delle promesse fatte ai soldati al fronte fu uno dei motivi principali all’origine dell’esplosione di forti tensioni sociali.
(Footnotes) Secondo Serpieri, fu sussidiato non più del 63 % dei parenti dei richiamati. 2 Scarperia. Per un comitato di preparazione civile, in “Il Messaggero del Mugello”, 20 maggio 1915, n. 20 3 Comitato di preparazione civile, in “Il Messaggero del Mugello”, 20 maggio 1915, n. 20 4 Risveglio patriottico, in “Il Messaggero del Mugello”, 6 giugno 1915, n. 23. 5 COMUNE DI SCARPERIA, Comitato di Assistenza Civile. Anni 1915-1921. Relazione morale e finanziaria, luglio 1921. 6 Vicchio. Comitato di Preparazione Civile, in “Il Messaggero del Mugello”, 11 giugno 1916, n. 24§ 7 Comitato di Preparazione Civile, in “Il Messaggero del Mugello”, 7 maggio 1916, n. 19. 8 Bita, Fisionomia locale in tempo di guerra, in “Il Corriere Mugellano”, 19 luglio 1917, n. 23. 1
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SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto - IL
MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918
IL GALLETTO MAGAZINE - TRA STORIA E CRONACA - SABATO 9 AGOSTO 2014 - il galletto
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PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – quinta parte
I Cattolici mugellani nella Prima Guerra Antonio Margheri zione di lavoro alle donne, go Mannini, non dissimu- getto di un misterioso atten-
“Nelle campagne l’aiuto dei parroci è stato prezioso e ricercato; ogni comunicazione comunale d’interesse pubblico veniva trasmessa ai parroci, e per mezzo di questi, al popolo. Ordini, requisizioni, consigli agricoli, sussidi, notizie di morte, segretariati per esoneri, domande, tutto veniva comunicato con la parola persuasiva ed ascoltata del Sacerdote di Cristo, che parlava dall’altare come padre ai figli”1. Nella Vandea mugellana non si poteva fare a meno dell’influenza spirituale e dell’organizzazione capillare garantita dalle parrocchie. Fin dallo scoppio della guerra nel 1914, i sindaci si rivolsero alla Chiesa per effettuare i primi soccorsi, soprattutto verso disoccupati e rimpatriati. I parroci risposero all’appello, funzionando dapprima come uffici periferici dei Comuni per l’elenco degli emigrati e poi con l’organizzazione nel periodo invernale delle cucine economiche popolari. Il 22 gennaio 1915 “per caritatevole iniziativa del nostro Pievano Don Canuto Cipriani” e dopo una raccolta di offerte, fu inaugurata a Borgo San Lorenzo al pian terreno del Ricreatorio Educativo Cattolico, in Corso Vittorio Emanuele, la prima cucina economica, colla distribuzione di 250 minestre2. L’iniziativa fu seguita a ruota dalle Donne Cattoliche di Barberino per “allontanare il pericolo che la fame batta alle porte degli operai e minacci così la pace e la tranquillità del nostro paese”3. A Borgo San Lorenzo si decise anche la distribuzione ai poveri di 200/250 kg. di pane al giorno al prezzo di 35 cent. invece di 42 cent., ma la richiesta del pane rinviliato fu talmente grande che l’iniziativa fu sospesa a causa del deficit di risorse del Comitato. Identiche iniziative furono prese negli altri comuni del Mugello. Non senza difficoltà. A Borgo San Lorenzo, la cattolica Velox organizzò per la Befana la distribuzione di doni ai figli dei richiamati e il 17 febbraio 1915, in occasione dell’inaugurazione della sede, promosse una fiera di beneficienza per le famiglie. Il pievano don Canuto Cipriani pronunciò un esaltante encomio verso “la gioventù, ecco la forza per cui la patria potrà animosamente gridare in faccia al nemico, all’invasore: rispetta le mie frontiere!”4. E se l’Unione fra le Donne Cattoliche curò la distribu-
anche le suore stimmatine decisero di tenere aperta la scuola nei mesi di vacanza alle bambine delle famiglie dei richiamati sotto le armi. Pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra all’Austria, la Velox (presidente Antonio Pini) era già in grado di aprire un ufficio notizie per i soldati e le loro famiglie. Tra le attività svolte: funzioni religiose “per ottenere da Dio il trionfo del nostro esercito”, numerosi ritrovi di saluto ai soldati, l’organizzazione il 26 settembre di una conferenza del canonico Emanuele Magri dal titolo “La Patria”, sottoscrizioni e raccolta di lana, fiere di beneficenza e, alla fine dell’anno, la distribuzione di “dolci, giocattoli e molti indumenti” per 250 bambini. La partenza dei soldati fu accompagnata dalla distribuzione e pubblicazione della “Preghiera del soldato” inneggiante al Signore Iddio degli eserciti. Padre Giovacchino Geroni, un francescano mugellano che già era stato missionario durante la guerra alla Libia, pubblicò, proprio alla vigilia del conflitto mondiale, un fortunato “Vangelo al Campo” per “spronare i soldati ad essere buoni come devon essere forti”. L’autore indulgeva in una retorica imperialistica, salutava la “resurrezione” dell’Italia dopo la sconfitta di Adua e celebrava la missione dei combattenti. L’esercito era definito “la scuola del valore, il focolare dei più sacri entusiasmi, la cattedra di quell’educazione civile che in parte ancora ci manca”5. In tutti i comuni mugellani furono le parrocchie di campagna che distribuirono i sussidi, inclusi quelli stanziati dallo Stato. La rete delle Misericordie locali si occupò invece dei soldati feriti e degli ammalati e, come a Borgo San Lorenzo, gruppi di volontari organizzarono servizi d’assistenza alla stazione ferroviaria6. In gran parte furono cattolici i membri dei consigli d’amministrazione delle Congregazioni di Carità che si occupavano dei sussidi ai poveri per i medicinali, dei sussidi per il latte alle madri povere, delle cure marine per i fanciulli affetti da malattie polmonari. Alcuni parroci, come il borghigiano don Canuto Cipriani, mantennero per tutto il periodo una fitta attività di conferenze patriottiche per tenere alto lo spirito di partecipazione della popolazione alle vicende delle battaglie al fronte. Altri, come il sacerdote scarperiese Federi-
larono il loro incitamento patriottico ai soldati anche con la composizione di versetti poetici7. Tra i cattolici mugellani una posizione particolare fu espressa dall’intransigentismo che nella zona poteva contare sulla presenza di una forte personalità come il conte Filippo Sassoli de’Bianchi, proprietario terriero di Scarperia che durante il ventennio fascista diventerà podestà del Comune. Per gl’intransigenti la guerra non era altro che un flagello che la mano di Dio scaraventa sull’umanità quando questa non riconosce l’autorità del Papa. Assoluto era il rifiuto del nazionalismo, dell’interventismo democratico, della massoneria, dello spirito dell’89 e della Kultur (Francia e Germania). E comunque, quando il Governo italiano decise l’ingresso in guerra, Sassoli scrisse che i cattolici sarebbero stati “pronti a compiere tutto il nostro dovere di cittadini, pronti a dare fin l’ultima stilla del nostro sangue”. Del resto anche a livello di diocesi l’arcivescovo Mistrangelo, dopo aver espresso inizialmente una condanna della guerra come castigo divino per l’apostasia dei popoli e degli Stati dalle norme ecclesiastiche, passò da caldeggiare la neutralità a richiamare il dovere dei cattolici di servire la patria fino al sacrificio della vita, seppure mantenendosi distante da toni nazionalistici e bellicistici. Il soldato cattolico doveva combattere non per odio o per vendetta, ma per la sola salute della patria. Posizione, questa, coerente con il pontificato di BenedettoXV. La lettera pontificia del 1 agosto 1917 sulla guerra inutile strage consentì al clero ed ai cattolici di mantenere una certa autonomia e distanza dagli ambienti più interventisti, certamente più vicina allo spirito pubblico popolare e che preparò il terreno allo sviluppo postbellico dell’organizzazione contadina cattolica. In una relazione del primo semestre del 1916, tra altri casi e condanne emesse a carico di sacerdoti, il procuratore generale della corte d’appello di Firenze segnalò l’esistenza nel mandamento di Scarperia di sospetti circa una “propaganda occulta” del clero contro la guerra. Dubbi ed accuse sul patriottismo del clero mugellano affiorarono spesso sulla stampa locale, fomentate dagli ambienti nazionalisti. La sera del 17 marzo 1917 Sassoli De’Bianchi e la sua consorte furono og-
tato sulla strada tra Scarperia e Sant’Agata. La notizia fu censurata sulla stampa. Dopo il 1916, comunque, non figurano sacerdoti mugellani condannati per “disfattismo” o altri reati contro la Patria. Né mancarono cappellani militari che si fecero valere sui campi di battaglia e furono insigniti al valor militare, come don Antonio Santoni di Vicchio, meritevole della medaglia di bronzo. O come don Casimiro Liccioli, da Dicomano, cappellano militare reggimento fanteria. Dopo Caporetto, nel corso del 1918, i parroci si impegnarono a rinsaldare la “resistenza interna” e indulsero maggiormente a sacralizzare la guerra, presentando la morte per l’onore e per il prestigio della nazione come fonte di beni spirituali. La doppia fedeltà alla Patria ed al Papa si risolveva ormai sempre più spesso a favore della prima. (Footnotes) 1 D’INCACO, L’opera del clero fiorentino durante la guerra 1915’18, in “Bollettino dell’Arcidiocesi di Firenze, 12 luglio 1919, nn. 5-6, p. 83. 2 Cucine economiche, in
“Il Messaggero del Mugello”, 24 gennaio 1915, n. 4. 3 Barberino. Cucine economiche, in “Il Messaggero del Mugello”, 14 febbraio 1915, n. 7. 4 Il trattenimento di beneficenza della Velox al nuovo salone, in “Il Messaggero del Mugello”, 14 febbraio 1915, n. 7 5 G. GERONI, Il Vangelo al Campo, Firenze, Stabilimento tipografico San Giuseppe, 1915. 6 La Misericordia per i feriti, in “Il Messaggero del Mugello”, 8 agosto 1915, n. 32. 7 Scarperia, “Il Messaggero del Mugello”, 5 settembre 1915. La cronaca riporta che “l’inno gira nelle file dei combattenti, accolto con piacere e con entusia-
Filippo Sassoli De’ Bianchi
Giovacchino Geroni
smo, come attestano le lettere di molti soldati scarperiesi, che si trovano al fronte”.
IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
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SABATO 30 AGOSTO 2014 - il galletto - TRA
STORIA E CRONACA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – sesta parte
Vita quotidiana, lavoro ed economia di guerra in Mugello Antonio Margheri degli idilii annodati e fatti sato dallo Stato che, attra-
“Nelle vie sono più rari i passanti; alcuni, ahime! Vestono a lutto. C’è nell’insieme di tutta la vita paesana qualcosa che colpisce; incombe qualcosa di triste che ti fa pensoso e malinconico. S’incontrano donne, ragazzi, uomini maturi; giovinotti no; sono tutti alle armi! Manca quel vocìo gioioso, quel frastuono gaio, quella nota vivace di spensierata allegrezza che era la caratteristica paesana. Entri in un caffè? Nei circoli? Nei luoghi di consueto trattenimento? Pochi uomini e unico il tema delle conversazioni: la guerra. I pavidi, i pessimisti,, ma son pochi, vedon tutto nero, ma son contraddetti dai più entusiasmati, dai più caldi di patriottismo e le discussioni sono varie e si fanno anche clamorose. Nel caffè un babbo legge la lettera testè ricevuta dal figliolo che è al fronte”1. Così un giovane operaio (anonimo) della tipografia Mazzocchi descriveva la vita paesana di Borgo San Lorenzo in tempo di guerra. Era il luglio del 1916. La guerra modificò le abitudini quotidiane, l’organizzazione e la disciplina di lavoro nelle fabbriche e nelle campagne, imponendo una separazione prolungata nel tempo tra uomini e donne, contraendo quantità e qualità dei consumi alimentari, esponendo la popolazione a una propaganda martellante e ossessiva. Neanche l’infanzia e la gioventù fu risparmiata dai caratteri di guerra totale imposti dalla nuova situazione. La lunga guerra , con i suoi lutti, le snervanti attese di notizie dal fronte, i nuovi compiti gravosi nel lavoro e nella ricerca del cibo, cambiarono lo stesso modo di percepire il tempo e lo scorrere delle stagioni: “Qual donna mai, ancor giovane, meno giovane, già matura, già declinante negli anni, che non prendesse per sé, dall’innumerevole tesoro di cui è apportatrice la primavera, un elemento di bene, per sé, per quelli che amava, giornate più lunghe, aria più tiepida, luce più fulgida, e così, salute da far rifiorire […] Primavera, primavera, per le donne tu eri, un tempo, l’epoca
più stretti, l’epoca dei cari viaggi, l’epoca dei grandi ritorni, l’epoca che doveva restare soavissima nella memoria”2. La fragile economia mugellana vide ben presto cambiare alcuni suoi caratteri. Lo scoppio della guerra ebbe nel Mugello ripercussioni sull’andamento dell’economia, sul valore delle produzioni e dei beni commerciali e sullo sviluppo di alcuni settori più direttamente legati alle esigenze militari o alle nuove opportunità della contingenza economica. Le attività che ebbero maggiore sviluppo furono quelle legate alle calzature, al vestiario militare, le concerie3, le miniere di lignite (Barberino e Scarperia) mentre risultò subito penalizzata l’attività edilizia, la vinicoltura per l’aumento dei noli di trasporto, le ceramiche artistiche (Chini) e la fabbricazione di laterizi (Brunori)4. Lo stesso paesaggio montano subì profonde modifiche in conseguenza del massiccio disboscamento per esigenze belliche e per usi civili5. Il settore minerario, legato all’estrazione della lignite, conobbe un vero e proprio boom. L’esplorazione dei centri di ligniti era iniziata durante i primi anni del Novecento, anche se la scoperta degli strati superficiali del minerale si era già avuta durante alcuni lavori di sterro eseguiti nel 18806. Fu però il forte aumento del prezzo e la difficile reperibilità del carbon fossile a rendere improvvisamente redditizia l’escavazione e la vendita della lignite che, comunque, vantava un potere calorifico di gran lunga inferiore a quello del carbone. L’estrazione veniva fatta sia in galleria che in superficie. La lignite, via via scavata, veniva caricata su carrelli sospinti su piccoli binari ed ammassata sotto tettoie o direttamente caricata su barrocci o carri per il trasporto alla stazione ferroviaria di San Piero a Sieve. Durante la guerra le miniere di lignite rientrarono tra le attività di interesse strategico e quindi sotto l’influenza di organismi e apparati statali tra i quali il Ministero Armi e Munizioni. Gli operai divennero militari dispensati dal servizio al fronte con “licenza mineraria”. Il prezzo delle ligniti era fis-
verso il Commissariato per i Combustibili, autorizzava il trasporto dai centri di produzione e di deposito a quelli di destinazione (Firenze, Prato, Genova). Le miniere più grandi erano di proprietà o in concessione ai maggiori proprietari terrieri della zona come Dapples, Torrigiani, Sassoli de’ Bianchi. Nel complesso la zona mineraria si estendeva per quasi mille ettari, con una produzione di minerale pari a 40.685 tonnellate che corrispondeva a circa il 2,4% della lignite estratta in Italia7. Alla fine della guerra gli operai impiegati erano circa 500, esclusi i barrocciai che trasportavano il combustibile alla stazione di San Piero. La retribuzione degli operai era a cottimo e la giornata di lavoro era di nove ore sia per i lavoranti esterni che interni alla miniera. I salari medi giornalieri erano più alti che nelle paghe a giornata nelle fattorie ed erano suddivisi tra operai all’interno e all’esterno, uomini e donne, adulti, minorenni e sotto i 15 anni. Lasciare il lavoro era tutt’altro che facile: l’esigenza della produzione era un dovere nazionale e come tale imposto agli operai. Drammatica la vicenda del suicidio di Vincenzo Diamanti: “Egli era impiegato, come minatore, in una miniera di Barberino; ma, sentendosi ammalato e impossibilitato al lavoro, chiese il licenziamento e mostrò un certificato medico al sorvegliante con un biglietto che raccomandava di sottoporlo ad una seria visita medica. Il sorvegliante per tutta risposta gli strappò i documenti ordinandogli di tornare al lavoro. Impressionato da ciò, nonostante che per calmarlo fosse consigliato d’insistere nella domanda di visita medica e di far – al caso – denunzia regolare del nuovo rifiuto, la mattina di martedì si legò due pietre ai piedi e si gettò nella Carza annegando. Fu scoperto il giorno successivo. Lascia una figlia ed un maschietto di 15 anni in condizioni disgraziate e con una disperazione grande nell’animo per questa morte orribile”8. Non mancarono comunque episodi di lotta e di rivendicazioni salariali per migliorare le condizioni dei lavoratori. A
Barberino, in occasione del 1 maggio 1917, più di duecento operai, in massima parte delle miniere, si astennero dal lavoro e festeggiarono la giornata nella sede della lega braccianti, “malgrado le provocazioni e le intimidazioni della sbirraglia”9. In alcuni settori favoriti dalle commesse belliche si verificarono illeciti arricchimenti e frodi già a partire dai primi mesi di guerra: a settembre del 1915 “Il Messaggero del Mugello” reca la notizia di dodici mugellani tradotti al carcere delle Murate per frode nella confezione di scarpe militari10. Qualche mese dopo un nuovo scandalo scosse la vallata e riguardò una truffa per la fabbricazione di forbici alle truppe che coinvolse alcuni artigiani di Scarperia, accusati e poi condannati per furto e ricettazione. Episodi che si intrecciavano con le numerose truffe, frodi e mercato nero che investirono il commercio al minuto e il settore com-
plessivo degli approvvigionamenti. Seminando malcontento, rancore, vendette. Avanti!, in “Il Messaggero del Mugello”, 30 luglio 1916, n. 31. 2 Lenina, Primavera di [censura], in “Il Corriere Mugellano”, 21 marzo 1916, n. 12 3 La conceria Berretti, in “Il Messaggero del Mugello”, 8 settembre 1918, n.35 4 L’annua relazione della Camera di Commercio per il 1915. 5 Folchetto, Devastatori del patrimonio regionale, in “Il Corriere Mugellano”, 30 1
settembre 1917, n. 34. 6 F. NICCOLAI, L’escavazione della lignite in Mugello, in “L’Agricoltore Mugellano”, anno V, 19 febbraio 1916, n. 3. 7 Nel distretto fiorentino veniva estratto ben il 78% dell’intera produzione nazionale. 8 Suicidio, in “Il Messaggero del Mugello”, 21 luglio 1918, n. 28. 9 “La difesa”, 4 maggio 1917, n. 18. 10 A. GIOVANNINI, Un delitto di mugellani contro l’esercito in guerra, in “Il Messaggero del Mugello”, 19 settembre 1915, n. 38.
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MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 SABATO 13 SETTEMBRE 2014 - il galletto - TRA
STORIA E CRONACA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – settima parte
La guerra senza armi. Il lavoro delle donne Antonio Margheri corregge le bozze; il la- cazione di racconti o poe- “Il lavoro militare va “Siamo in sala macchine e comincio col guardar lì. Al tavolo vedo le signore Mazzocchi e la signora Cammelli, che preparano dispense, allineano e appacchettano fogli, impastano. Alcuni giovinetti lavorano attorno alle pedaline, il mutino e Santi fanno girare la grande ruota della Marinoni. Il caratteristico rumore dei motori elettrici e delle macchine è uguale a quello di un anno fa, come allora i fogli entrano candidi nelle macchine e ne escono variopinti, nitidamente stampati, eleganti. Mi affaccio nella stanza dei compositori e vedo al posto degli operai delle giovinette. Stanno esse sedute colla cassetta dei caratteri sporgente sui ginocchi, le mani corrono assai rapide dai vari piccoli scompartimenti al compositoio e viceversa. Il lavoro non è troppo rapido ancora, ma lo diverrà. Diamo tempo a queste brave giovinette piene di buon volere e così giustamente altere di sé stesse pel fatto che suppliscono gli uomini e diverranno quanto prima esperte operaie. Enrico Mazzocchi
voro è più lungo del consueto, chè queste ragazze, cadono assai spesso nel refuso. Dove sono i nostri giovani e bravi operai? Tutti alle armi, alcuni anzi al fronte”1. Questa la bella descrizione della nuova presenza femminile nei luoghi di lavoro scritta da un giovane tipografo di Borgo San Lorenzo. Il contributo delle donne allo sforzo bellico anche attraverso l’ingresso nel mondo del lavoro crebbe a mano a mano che si manifestò la penuria degli uomini mandati al fronte. Il settore della produzione del vestiario fu quello individuato dai vari comitati di preparazione civile per avviare le donne in cerca di lavoro2. A dirigere il reclutamento e l’organizzazione del lavoro delle donne furono altre donne appartenenti all’aristocrazia, al notabilato locale, alla media borghesia cittadina. Vennero aperti laboratori, scuole di cucito, distribuito il lavoro a domicilio. Sul dovere di sostenere la Patria ed i soldati al fronte, puntò la stampa locale enfatizzando questi aspetti anche attraverso la pubbli-
sie come quella composta da una giovane lavorante a domicilio che apparve su “Il Messaggero del Mugello” pochi giorni dopo l’ingresso in guerra: E lavoro e lavoro e non mi stanco, Senza cessare mai, mattina e sera. La lana scema rapida e leggera: Corre l’aghetto, ed ogni maglia è un pio Pensiero a quelli che son là a’ confini. Scema la lana, e gli occhi miei giù chini. Guardano desiosi il lavorio. Freme l’anima anela, e dir mi sembra: Su, presto, su cresci, se puoi, la fretta. Ella vede un baglior di baionetta E grige tende e assiderate membra. E io lavoro, ed il lavoro aumenta Di giorno in giorno ogn’ora, ogni minuto3. Il lavoro delle donne veniva valorizzato anche perché in questo modo i guadagni potevano essere messi meglio a frutto per le loro doti naturali di parsimonia rispetto ai maschi:
crescendo e crescendo il guadagno per l’addestramento di chi lavora. […] Le donne si fanno onore come abili sarte e buone massaie, e mostrano di possedere gli elementi e le disposizioni alla disciplina del lavoro; e come donne, sanno meglio adoperare per la casa tutto il guadagno ritratto dal proprio lavoro. Gli uomini, si sa, se lo lasciano scappar di mano al gioco, all’osteria e in cento altre abitudini spenderecce dal sigaro al poncino. Sicchè da questo lato il guadagno del lavoro militare è un vero benefizio delle famiglie e un gran rincalzo al popolo”4. Le donne colmarono i vuoti lasciati dagli uomini nei servizi, nelle miniere, nelle fabbriche. Anch’esse conobbero il rigore imposto dalla nuova disciplina militare, sebbene riguardasse in primo luogo gli operai maschi militari (che dovevano vestire la divisa anche sul posto di lavoro e dovevano tornare a dormire in caserma) o esonerati (che avevano solo l’obbligo di portare un bracciale e potevano tornare a dormire a casa). In questi anni, infatti, il diritto di sciopero fu sospeso, i salari furono bloccati a livello dell’anteguerra e, soprattutto, furono inasprite le sanzioni disciplinari. Per un operaio il licenziamento comportava il rinvio al fronte, nei reparti combattenti. Sulle donne operaie si scaricò inoltre il peso di nuove responsabilità e il superlavoro derivante dall’accumulo di compiti per l’assenza dei maschi e dalle ristrettezze economiche ed alimentari. E anche nel Mugello furono soprattutto le donne protagoniste delle lotte per il pane e per la pace che esplosero nei mesi precedenti la disfatta di Caporetto. Nelle campagne venne meno la tradizionale divisione del lavoro che voleva affidati agli uomini i compiti più pesanti e impegnativi, compresa la dura fatica della vangatura: “Le poverette è tanto che sentivano ronzare intorno alle proprie orecchie, che la donna contadina deve supplire in tutti i lavori campestri, quando gli uomini trovansi sotto le armi per la guerra, che sino da quando principiarono a difettare le braccia maschili, assunsero volenterose le faccende meno pesanti, ma rimaneva la vangatura, lavoro arduo e pesante che richiede robustezza e nervi d’acciaio e per la quale non sapevano decidersi. Ma veduto che i loro uo-
mini non tornavano e che le promesse del Governo per un assillo in qualsiasi forma non giungeva, mentre il tempo opportuno sfuggiva coll’inoltrarsi della stazione, un bel giorno, fattesi animo, scesero nelle stoppie armate della vanga lucente, ed insieme ai nonni rimasti, si diedero a capovolgere il terreno per la prossima semina del granturco”5. Interessante un’altra descrizione della vita in campagna: “Non c’è famiglia colonica che non abbia tre, quattro e anche più figlioli alle armi! Chi ha supplito i bravi ragazzi? Me lo dice una donnetta ancor giovane e rubiconda che ritorna al casolare cogli abiti bagnati, macchiati di verde e colla irroratrice sulle spalle. Essa ha indossato per la bisogna la giacca lacera di un uomo […] Ovunque fervono i lavori campestri. Odo il rumore cupo e monotono di una trebbiatrice, rotto dal fischio acuto della sua sirena. Anche laggiù nell’aia si lavora alacremente.. Vado. Chi c’è attorno e sulla macchina? Pochi uomini, alcuni ragazzetti e molte donne”6. Anche senza i mariti però continuava il primato dei vecchi: la donna giovane rimaneva sottomessa, partito il marito la fonte d’autorità passava spesso ai genitori e ai suoceri. L’educazione da impartire alle contadine rimaneva confinata nel ruolo tradi-
zionale del culto “della santità degli affetti domestici, secondo le tradizioni familiari”, dell’ uso del “risparmio del denaro ed il concetto cristiano-sociale dell’economia”, del mantenimento “dell’ordine e la pulizia nella casa”, dell’addestramento “negli uffici della buona massaia”7. Nel chiuso ambiente politico e culturale mugellano il ruolo della donna, pur conquistando una nuova visibilità sociale, non doveva comunque superare gli stilemi della tradizione consolidata. 1 F. BIFULCO, La fabbrica dei mattoni sodi, Firenze, Polistampa, 2011, p. 24. 2 Secondo alcune stime, i laboratori di maglia e cucito coinvolsero durante il conflitto circa 600.000 tra donne e ragazze. 3 Lavorando per i soldati, in “Il Messaggero del Mugello”, 30 maggio 1915, n. 22 4 Lavoro militare, in “Il Messaggero del Mugello”, 20 settembre 1915, n. 39. 5 Le contadine del Mugello, in “Il Corriere Mugellano”, 4 marzo 1917. 6 Avanti!, in “Il Messaggero del Mugello”, 30 luglio 1916, n. 31. 7 F. NICCOLAI, Il comitato mugellano per gli orfani dei contadini morti in guerra e l’educazione della donna di campagna in “Il Messaggero del Mugello”, 7 ottobre 1917, n. 40.
IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
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SABATO 27 SETTEMBRE 2014 - il galletto - TRA
STORIA E CRONACA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – ottava parte
Infanzia, Scuola di guerra e propaganda Antonio Margheri tegamino e la scodelletta Cardinale Alfonso M. Mi-
Insieme alle madri, bambini e ragazzi subirono il pesante gravame psicologico del distacco forzato dai padri, il precoce ingresso nel mondo del lavoro, le difficoltà legate alla penuria di cibo, vestiario e materie prime per affrontare le rigidezze degl’inverni mugellani. Ma l’elemento veramente nuovo introdotto dalla guerra fu che per la prima volta l’infanzia e gli adolescenti divennero oggetti e soggetti di intervento pubblico e di mobilitazione ideologica. In primo luogo, i “bambini sono utilizzati come argomenti per la mobilitazione degli adulti. E’ per loro che si combatte, è per il loro avvenire che ci si sacrifica. […] Il soldato al fronte difende prima di tutto il proprio focolare, la propria donna, i propri figli”1. Per i figli dei richiamati vennero organizzati, asili, doposcuola, raccolte di denaro, colonie all’aperto, refettori. Con dettaglio, la stampa locale descriveva le cure ed i servizi forniti all’infanzia:“Attorno ad una grande caldaia fumante e fragrante di minestra con verdura, si affollano col
in mano, prima i maschi turbolenti che adescati dall’odore appetitoso, saettano occhiate bramose alla benefica caldaia, mentre la gentile distributrice coperta dal rozzo grembiale da cucina e la destra armata del lucente romaiolo distribuisce la desiata minestra a tanti piccoli stomachi avidi di riempiersi almeno sei volte al giorno come i polli. Appena ottenuta la porzione ciascuno corre al proprio posto per divorarsela. Anzi taluni de’ più famelici, principiano ad ingerirla da ritti o camminando, ed a scodella finita domandano anche il bis che vien concesso, se il contenuto della caldaia lo consente”2. A San Piero fu il Patronato Scolastico ad organizzare due ricreatori estivi per i figli dei richiamati: uno per quelli dai 3 ai 6 anni, l’altro per quelli dai 6 agli 11 anni: “Furono circa 60 i bambini che poterono usufruire del ricreatorio estivo, e alla sorveglianza di essi cooperarono gentilmente, specialmente nel primo anno, le signorine insegnanti delle scuole comunali del paese. Nell’estate dell’anno 1916 si inaugurò con l’intervento di S. Eminenza il
strangelo, il nuovo salone per la ricreazione all’aperto, un ampio locale illuminato a piena luce di giorno e decorato con pannelli paretali di soggetto pedagogico intuitivo. […] ed in ultimo non possiamo tacere di un oggetto piccolo nella mole, ma di alto significato morale: intendiamo dire della piccola bandiera nazionale”3. Era un modo anche per dimostrare solidarietà e sostegno verso i combattenti, ma ben presto agl’intenti assistenziali si affiancarono quelli per intensificare l’opera di acculturazione patriottica dei giovani e delle loro famiglie. Il vettore principale per assolvere a questo compito venne presto individuato nella scuola. Nell’ aprile 1916, si tenne a Borgo San Lorenzo un convegno organizzato dal prof. Giuntoli del Provveditorato, dal prof. Luigi Cipriani (direttore dei circoli di Borgo e responsabile di zona dell’Unione Generale degli Insegnanti Italiani)4 e dal maestro Edoardo Storai, con la partecipazione di una settantina di insegnanti proveniente da tutto il
Mugello5. La relazione fu tenuta dal prof. Giovanni Calò, presidente del Comitato per l’azione degli Insegnanti toscani durante la guerra, che perorò “l’opera preziosa di una viva propaganda patriottica e d’assistenza morale nel periodo di guerra nelle campagne”6. Nella situazione mugellana, il richiamo all’opera patriottica del maestro che “potrà esplicarsi e continuare efficacemente oltre l’ambito della scuola” non poteva non partire dalle caratteristiche rurali e dalle relative problematiche del territorio di riferimento: “Le campagne sono portate a vedere nella guerra soltanto la parte distruttiva. […] Ascoltando, sentiamo che i discorsi e le conversazioni sono una continua raccolta e un riassunto di tutti i mali di ciascuno, ripetuti da mattina a sera quasi a sfogo di esser creduto ognuno il più bersagliato, o a ricerca d’una compassione che fa poi più viva la sofferenza interna dei propri mali […] bisogna dar risalto agli esempi di coraggio e di valore, raccogliere le prove luminose del consenso e della resistenza nazionale […] Gli educatori, se vogliono essere davvero creatori d’anime e fattori di coscienze, devono agire come soldati, contro i nemici della propria opera, la quale per essere una missione morale e civile, deve pur essere nazionale […] perciò l’educatore deve combattere la stessa battaglia per la vittoria stessa del soldato”7. Ai bambini si chiedeva di essere scolari perfetti, “di uscire dalla scuola come un piccolo soldato della verità”, mentre le bambine venivano incoraggiate a prendersi cura della madre ed a comportarsi da “brave donnine” in famiglia. La scuola divenne luogo di mobilitazione patriottica proiettando inoltre maestri ed alunni in una funzione propagandistica esterna alle aule che si rivolgeva alle famiglie e alla società. Il confine tra attività scolastica ed ex-
trascolastica si fece sempre più labile ed incerto: partendo dalle aule scolastiche si svilupparono iniziative che poi si proiettavano all’esterno, verso le famiglie, i soldati, la società in genere. Persino le varie campagne per il prestito nazionale videro una presenza militante di maestri ed alunni. Già a partire dai primi mesi del 1916, gl’insegnanti mugellani parteciparono ai comitati comunali per il prestito trasformandosi e trasformando le loro scolaresche in propagandisti per la patria. Il corpo degli insegnanti, composto in massima parte da maestre, si dimostrò estremamente ricettivo nei confronti dei nuovi compiti di acculturazione patriottica mettendo a disposizione una capacità di automobilitazione che si esplicò fin dall’inizio nella forte presenza all’interno dei vari Comitati di preparazione civile e nella disponibilità a prestare opera volontaria nell’assistenza sociale di guerra. Nella scuola e negli spazi extrascolastici la didattica di guerra faceva perno sulle gesta eroiche dei combattenti e sul sacrificio dei caduti, sull’apposizione del nome e della fotografia dei caduti nelle aule, sui piccoli gesti che anche i bambini e le bambine potevano portare a contributo per la resistenza e la vittoria. Si faceva leva sui buoni esempi del passato nazionale, l’illustrazione della geografia del fronte, la corrispondenza con i soldati, la cura della gratitudine verso i padri e fratelli combattenti, la composizione e la pratica dei canti patriottici, le rappresentanze di scolari alla premiazione di soldati decorati e la visita a feriti e mutilati. Dopo Caporetto l’impegno militante della scuola si fece ancora più massiccio con l’organizzazione di “collette di guerra”, raccolta di libri per soldati e coperte per la Croce Rossa, il concorso per il 5° Prestito di guerra, l’”ora patriottica” e la lezione di chiusura
dell’anno scolastico con la partecipazione delle famiglie. Come è stato ben evidenziato, “prese forma in questi anni quella partecipazione in massa dei bambini ai riti collettivi della patria che, ancor più irreggimentata, fece poi sfoggio durante il ventennio fascista (i picchetti di bambini ai funerali dei caduti, le sfilate durante le feste patriottiche, le rappresentanze durante la premiazione dei soldati, la raccolta di denaro e di materiale per la Patria, l’attività di sottoscrizione, l’impiego diretto dei bambini nella propaganda per parlare alle famiglie)”8. M. PIGNOT, I bambini, in La prima guerra mondiale, vol. 2, Torino Einaudi, 2007, p. 50. 2 Refettorio per i figli dei richiamati, in “Il Corriere Mugellano”, 3 settembre 1916, n. 35. 3 San Piero a Sieve. L’asilo infantile, in “Il Messaggero del Mugello”, 30 ottobre 1918, n. 41. A Borgo furono ospitati in media 120 figli di richiamati. Tra i più assidui organizzatori del servizio, che funzionava dalle 9 alle 17.30, figurarono il prof. Luigi Cipriani ed il corpo insegnante delle scuole comunali. Cfr. Ricreatori scolastici, in “Il Messaggero del Mugello”, 27 ottobre 1918, n. 42. 4 L’U.G.I.I. fu istituita nella primavera del 1915 su un programma di “preparazione civile per la guerra”. 5 Il convegno dei maestri in Borgo San Lorenzo per l’azione civile durante la guerra, in “Il Messaggero del Mugello”, 9 aprile 1916, n. 15. 6 Convegno di Autorità e di Insegnanti per l’azione civile durante la guerra in Borgo San Lorenzo il 2 aprile, in “Il Corriere Mugellano”, 9 aprile 1916, n. 15. 7 Riunione patriottica degl’insegnanti mugellani in Borgo San Lorenzo, in “Il Messaggero del Mugello”, 2 aprile 1916, n. 14 8 A. FAVA, La guerra a scuola. Propaganda, memoria, rito (1915-1940), in AA.VV., Il trauma dell’intervento, Firenze, Vallecchi, 1968. 1
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SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto - IL
MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 11 OTTOBRE 2014 - il galletto
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – nona parte
Carovita, frodi alimentari, fame, bracconaggi Antonio Margheri Nella sua “Guida del Mugello e della Val di Sieve” l’interventista dottor Francesco Niccolai registrava nel 1914 una promettente ripresa nella produzione di carne che avrebbe potuto consentire al Mugello di bastare a sé stesso e di non essere più tributario della vicina Romagna. Sarebbe stato così possibile migliorare anche l’alimentazione della classe rurale, consistente in pane, polenta di farina di formentone e legumi. Difficile, per lui e per tanti, immaginare che nel giro di qualche mese questi desideri si sarebbero infranti con la dura realtà della guerra e che, almeno per altri 30 anni, la maggior parte della popolazione sarebbe rimasta inchiodata al povero regime alimentare prebellico. Con decreto 16 aprile 1916 n. 496 fu soppresso il libero mercato del bestiame da macello e le Commissioni d’incetta furono chiamate a provvedere all’alimentazione della popolazione civile. Alla fine della guerra il patrimonio zootecnico mugellano si trovò fortemente compromesso in quantità e qualità a causa delle massicce requisizioni e delle mutate condizioni di mercato. Rispetto al censimento del 1908, quello effettuato nell’aprile del 1918 registrò una pesante diminuzione di tutte le specie di bestiame1. In compenso, fiorì, in questi anni, un redditizio commercio di carne clandestino che aveva come protagonisti gli stessi allevatori ed intermediari privi di scrupoli che vendevano a prezzi maggiorati su mercati fuori e dentro la provincia di Firenze2. Ma le cose andarono anche peggio nel settore della politica annonaria. Dopo lo scoppio della guerra gli aumenti del prezzo del pane furono costanti. Per quanto riguarda il Mugello le funzioni di ricevimento e di distribuzione dei prodotti furono svolte dal Consorzio Agrario di Borgo San Lorenzo, diretto dall’ing. Niccolò Niccolai. Nell’inverno 1915-1916 lo Stato
decise di affidare la gestione centralizzata della politica annonaria alle autorità militari (che già provvedevano alle requisizioni per l’esercito). La disponibilità di frumento per i singoli comuni fu fin dall’inizio insufficiente al fabbisogno stimato. Già a partire dalla fine del 1915 si determinò una mancanza di cereali tale da mettere i comuni mugellani nelle condizioni di dover attendere impazientemente, per i consumi giornalieri, il grano fornito dal Consorzio. Fu così che il prezzo del pane subì continui e costanti aumenti svuotando le tasche dei cittadini e generando diffusi malumori. Per tutto il periodo della guerra un’attenta osservatrice del fenomeno fu una donna, cronista del “Corriere mugellano”, certa BITA, che ogni settimana sfidando le forbici della censura scriveva i suoi puntuali e graffianti articoli denunciando l’inerzia dei poteri locali: “S’invoca il calmiere – pel quale i Municipi sono autorizzati – e non si provvede affatto. Conviene perciò concludere che la nostra rappresentanza Municipale o è tardiva o, secondo quanto dice il popolino composta com’è in maggioranza d’industriali della terra, trova del proprio tornaconto, il fare le viste di non intendere”3. Nei primi mesi del 1916 il prezzo del vino che costava 20 lire al quintale nel 1915, si trovava ora sul mercato a 100110 lire. La carne balzò a 2,10 lire al kg., con un guadagno del venditore intorno al 40%. Incrementi di prezzo e
scarsità di prodotto si riscontrarono anche per riso, semolino, zucchero, olio. Stesso discorso per il latte che soffriva per l’aumentato costo dei mangimi e per la diminuita produzione dovuta all’allevamento dei vitelli, che per i proprietari delle vacche, era più remunerativo della vendita del latte. Non mancarono vere e proprie truffe ai danni dei consumatori, con la vendita di latte annacquato oppure con la manomissione dei fondi dei misurini4. Per frenare la speculazione dal marzo del 1916 venne vietata dal prefetto l’esportazione del grano fuori provincia, provvedimento che poi fu esteso anche ad altri prodotti. In diversi casi fu denunciato che alcuni beni, provenienti dalla zona, si trovassero a prezzi più convenienti ed in quantità maggiori nelle botteghe di Firenze. Persino tra i diversi comuni, nonostante il calmiere territoriale, i prezzi praticati sul mercato registravano tra loro notevoli differenze5. La notizia dell’arrivo di qualche nuova assegnazione alimentare nei negozi era tale da scatenare fin dal primo mattino “la turba scomposta delle donne nella gara per entrare prime nel negozio […] tutte infatuate d’aver la precedenza per essere servite, schiamazzanti come passeri intorno alla civetta. […] Le ritardatarie si arrabbiavano pronunziando contumelie a tutti gl’indirizzi possibili e immaginabili e si allontanavano dopo averne vuotato il sacco”6. L’aumento dei prezzi si manifestò sensibile anche su beni non alimentari, ma di fondamentale importanza per la popolazione,
come il carbone, il petrolio per l’illuminazione delle case, la brace, la legna da ardere e le fascine. Fu comunque il biennio 1917-18 quello più duro per l’alimentazione e la sussistenza della popolazione. Borgo San Lorenzo soffrì più degli altri comuni, contando una più alta percentuale di popolazione urbana, aumentata anche in virtù della presenza di centinaia di soldati distaccati in due battaglioni di fanteria, di quattro nuclei di carabinieri distaccati per la protezione della ferrovia (circa 120 persone), degli ammalati dell’Ospedale di Luco e di un mercato settimanale che ogni martedì richiamava una grande affluenza dai paesi vicini, con grande consumo supplementare di pane. Ma fu sulla scarsità e la qualità del pane che si registrarono le maggiori sofferenze e il malcontento della popolazione. Se il prezzo del pane continuava ad essere fissato al kg., i fornai usavano la prassi di pesare il prodotto prima della cottura in modo da lucrarne la differenza sul presso di vendita. Quando incappavano nelle proteste dei consumatori, ricorrevano alla cottura cosiddetta calorica, che abbruciacchiava la crosta del pane ma lo lasciava umido (e quindi pesante) all’interno. Si diffuse ampiamente la cosiddetta arte d’arrangiarsi. Bande di ragazzi, spesso con la compiacenza e la complicità dei genitori (più spesso con le loro madri), saccheggiavano quello che potevano nei campi, nelle campagne, nei boschi: frutta, castagne, grano, verdura, legname. Il bracconaggio divenne
una pratica quasi normale. Approfittando della poca sorveglianza causata dalla partenza per il fronte di proprietari, guardie campestri e forestali anche fiumi e torrenti furono oggetto di frode: “Lungo i torrenti Fistola e Faltona, non si trova più un pesciolino nemmeno sottile come un ago, a pagarlo un occhio, perché dopo il getto nelle loro acque d’un’infinità di bombe di dinamite, d’una quantità di veleni di varie specie (anche i pesci, hanno i loro Borgia), le medesime sono state vagliate addirittura colla diligenza con cui si vaglia la sabbia da intonaco”7. Ci si arrangiava come si poteva e dove c’era qualcosa da mangiare si rischiava anche la galera pur di alleviare un po’ le esigenze dello stomaco. In fondo era un modo per andare avanti e per difendersi dagli speculatori e dagli imboscatori. Anche in questo caso furono quindi gli strati più poveri e bisognosi del popolo a pagare pesantemente gli effetti della militarizzazione della vita quotidiana che obbligava a tacere e ad accontentarsi di ciò che le pubbliche autorità o la beneficenza potevano garantire per soddisfare
i bisogni minimi della gente. P. FERRARI, Il censimento del bestiame nella Provincia di Firenze nell’aprile del 1918, in “Il Messaggero del Mugello”, 9 giugno 1918, n. 22. 2 Di “intensa speculazione” e di “esportazione clandestina specialmente nel Pistoiese per favorire macellazioni clandestine” si narra nell’articolo Requisizione di bovini, in “Il Messaggero del Mugello”, 8 settembre 1918, n. 35. 3 “Il Messaggero del Mugello”, 10 ottobre 1915, n. 40 4 Cfr. la vicenda giudiziaria di alcuni lattivendoli di Vicchio riportata su “Il Messaggero del Mugello”, 7 maggio 1916, n. 19. 5 Nel secondo semestre del 1917 il pane costava cent. 52 al kg. a Borgo San Lorenzo, cent. 50 a Scarperia e 48 a Vicchio. Cfr. BITA, Cronache locali, “Il Corriere Mugellano”, 9 agosto 1917, n. 27. 6 Cfr. BITA, Riso e zucchero, “Il Corriere Mugellano”, 31 luglio 1917, n. 26. 7 BITA, Pesca proibita, in “Il Corriere Mugellano”, 6-12 novembre 1916, n. 4445. 1
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IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 25 OTTOBRE 2014 - il galletto PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – decima parte
Lettere di Mugellani oltre la frontiera Antonio Margheri care, una delle quali, si“A somiglianza di quanto facemmo durante la campagna di Libia, pubblicheremo ben volentieri le lettere dei soldati combattenti che ci perverranno direttamente o ci saranno favorite dalle famiglie. S’intende che per tale pubblicazione seguiremo quelle norme di patriottica prudenza che sono necessarie in questi momenti. E così sceglieremo, elimineremo, ridurremo, ritarderemo, secondo i casi”1. Così il 30 maggio 1915 “Il Messaggero del Mugello”. “Ai soldati va scritto poco e spesso. Meglio un rigo ogni due giorni che un letterone la settimana. Lettere semplici, scritte col cuore; non retorica, ma incitamento a compiere serenamente tutto il dovere con tranquilla coscienza e lieta fiducia. Le lettere è bene lasciarle aperte per la censura […] scrivete pochi righi e frequentemente”2. Iniziava così sul maggiore settimanale mugellano la pubblicazione di numerose lettere dal fronte che, nonostante una rigorosa censura militare e la comprensibile autocensura, conservano un notevole interesse per comprendere la vita e la mentalità dei nostri soldati in guerra e cosa della loro condizione potesse essere conosciuto dalle loro famiglie e dall’opinione pubblica in generale. I combattenti, arruolati tra il 1914 e il 1918, provenivano in larga parte da un mondo nel quale la scrittura era prerogativa di pochi e in cui l’analfabetismo raggiungeva percentuali molto elevate, soprattutto tra i contadini. Per loro la guerra fu il modo per avvicinarsi alla scrittura e alla lettura, per mantenere un qualche contatto con l’ambiente di provenienza e certamente per rassicurare la famiglia sulla propria esistenza in vita. Da qui una premessa costante che si trova in tutte le corrispondenze sulle condizioni di salute, in genere molto rassicuranti. Si scrive ai parenti, ma anche al parroco o alla maestra, anche per manifestare la riconoscenza per l’apprendimento del leggere e scrivere: “Serbo un grato ricordo per le persone a me più
gnora maestra, è proprio lei, anzi la prima perché oggi non posso che riconoscere l’utilità di tracciare qualche modesto pensiero e notizia per chi mi è più caro e la necessità di sfogliare un giornale e leggere tutte quelle notizie più interessanti per me”3. Si scrive nei momenti di riposo, si scrive nell’immediatezza dell’avvenimento, si scrive in prossimità del campo di battaglia cosparso di cadaveri di compagni e nemici dilaniati e non ancora raccolti, si scrive mentre continuano i tiri di artiglieria. Si scrive e si legge mentre si aspetta il rancio che non sempre arriva: “Tu vedessi quando vien fatta la distribuzione della posta, anche se si fredda il rancio, si corre tutti affollati ed attenti se ci si sente chiamare. Pare impossibile come è sgomento uno se è molto che non ha avuto notizie di sua famiglia”4. Ed ancora: “Fra il fuoco e il sangue dei nostri eroi combattenti, mi prendo un momento per darvi le mie buone notizie e spero che altrettanto saranno per voi. Adesso non riceviamo niente posta perché siamo da 5 giorni sempre soppressi da combattimenti”5. I primi soldati che passano la frontiera austriaca manifestano la loro incredulità per la “mancata resistenza” del nemico. Così Armando Gigli al padre il 24 maggio: “La mattina del giorno 24 passammo la Dogana, ed alle 5 entrammo in territorio austriaco. Ci credevamo di trovare un poco di resistenza, invece non trovammo alcuna traccia del nemico; soltanto in mezzo alla strada avevano innalzato delle grossissime barricate per impedirci il passo, ma in pochi minuti fu disfatto tutto e seguimmo intrepidi il nostro cammino, con la speranza sempre di potersi misurare col nemico, ma lui non si è fatto vivo. Entrammo in paese senza colpo ferire, tutto era chiuso, tutto era deserto, come se noi fossimo i primi abitatori”6. Così nelle prime lettere dei soldati mugellani che passano il confine c’è spazio per lo stupore e la meraviglia per un
ambiente ed un paesaggio mai prima conosciuto. Scrive il granatiere Egisto Panchetti di Borgo San Lorenzo: “Siamo in certe campagne che non avevo mai visto, e nessuno potrà mai vederle all’infuori che in queste parti. Ci sono dei grani più belli che dietro Sieve; formentone bello anche questo, mori in quantità per bachi da seta. In tutti i paesi che abbiamo passato ci abbiamo trovato una grande quantità di ragazzi e donne, che ci hanno accolto con grande entusiasmo e ci portavano bere in certi secchi e in dei bicchieri col manico..insomma si sta benissimo. Se vedessi che bestie friulane! Paiono montagne, proprio belle; galline, paperi, anatre; di tutti gli animali. Acqua in quantità e buona. Pure il vino buono e molto; costa 50, 60 80 al litro”7. Ed un altro borghigiano, Luigi Parigi: “Marciando per le strade dalla parte che sono io, ho visto, ove è piano, terreno assai fertile che produce patate e granturco da far meraviglia; produce pure molto fieno, sia in prati naturali che artificiali; i contadini lo conservano in ca-
panne di legno aperte qua e là per le praterie. Le case sono coperte un po’ a piramide per la neve. Le montagne sono per lo più ricche di legname, in quelle più alte c’è la neve, e nei borri ove c’è ammassata dicono che ci sta eterna. L’acqua che scaturisce da queste montagne è freschissima e buona. Noi godiamo un’aria finissima che fa comodo per la stagione presente, però siamo noiati quasi tutti i giorni da lieve pioggia”8. Ed il soldato Vincenzo Bertozzi, di Palazzuolo: “La campagna è bellissima e c’è una gran quantità d’uva, ma però ci siamo tanti soldati che ci si mangerebbe anche le vite. Ci sono tanti frutti e l’uva è già quasi tutta rossa. I paesi da queste parti sono vicini l’uno all’altro e si trovano anche dei bei paesi, ma però tutti disabitati, tranne che qualche famigliola di contadini, ma sono solo vecchi e bambini. Vengono tante donne per l’accampamento a vendere il pane, dolci e tante altre robe per guadagnarsi da mangiare, e ci si domanda tante cose riguardo all’Austria. Tutte dicono che hanno chi
il fratello chi il marito a fare il militare in Austria e che sono quattro o cinque mesi che non sanno più sue notizie e desiderano tutti al più presto possibile la pace per potere anche loro riabbracciare i loro cari”9. Già perché gli “italiani” combatterono anche su fronti contrapposti ed i sudditi dell’impero austro-ungarico non erano poi così entusiasti di passare nel Regno d’Italia. Ma ben presto a dominare nelle lettere dei soldati non sarà più la scoperta dei nuovi paesaggi agresti, ma la dura realtà della guerra, della morte, della trincea e della spietata disciplina militare. Lettere di soldati, in “Il Messaggero del Mugello”, 30 maggio 1915, n. 22 2 Norme per scrivere ai soldati, in “Il Messaggero del Mugello”, 6 giugno 1915, n. 23 3 Un soldato di Polcanto, in “Il Messaggero del Mugello”, 17 ottobre 1915, n. 42. Pasquale Fagioli, soldato di Polcanto scrive alla maestra Maria Staccioli Biffoli 4 Quattro della stessa 1
famiglia alla frontiera. Una lettera del soldato Luigi Parigi di Borgo, in “Il Messaggero del Mugello”, 11 luglio 1915, n. 28 5 Al di là dell’Isonzo, in “Il Messaggero del Mugello”, 1 agosto 1915, n. 31. Lettera di Luigi Tagliaferri (porta feriti) di Grezzano 6 Un borghigiano nella prima avanzata, “Il Messaggero del Mugello”, 6 giugno 1915, n. 23. Al padre, Armando Gigli dei Cavalleggeri, bollo d’arrivo 29 maggio 1915. 7 La pittoresca descrizione di un borghigiano soldato, in “Il Messaggero del Mugello”, 20 giugno 1915, n. 25. Egisto Panchetti Granatiere, 11 giugno 1915. 8 Quattro della stessa famiglia alla frontiera. Una lettera del soldato Luigi Parigi di Borgo, in “Il Messaggero del Mugello”, 11 luglio 1915, n. 28 9 Nei paesi occupati, in “Il Messaggero del Mugello”, 22 agosto 1915, n. 34. Lettera di Vincenzo Bertozzi di Palazzuolo di Romagna, soldato di fanteria, al signor Cesare Bini, 18 agosto 1915
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SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto - IL
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MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 SABATO 8 NOVEMBRE 2014 - il galletto - TRA
STORIA E CRONACA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – decima parte
Lettere di mugellani… piante, gambe, teste e busti di nemici… Antonio Margheri facciamo coraggio e andia-
Le lettere dei combattenti che vennero pubblicate su “Il Messaggero del Mugello”, nonostante la censura e la comprensibile autocensura degli scriventi, sono molto interessanti per conoscere dagli stessi protagonisti gli aspetti più duri, drammatici e inaspettati della guerra e della vita di trincea. Nel rapporto quotidiano con la morte e con i compagni entrarono in gioco forze diverse, come il patriottismo e l’autoesaltazione, il senso del dovere e la rassegnazione, l’amicizia e il cameratismo, la necessità di riconoscersi all’interno di una comunità ristretta e fortemente minacciata (la cosiddetta comunità della trincea). Ma furono soprattutto la paura del nemico, l’istinto di sopravvivenza e il terrore di essere colpiti a dare la forza per sostenere prove crudelissime e terribili. Già poche settimane dopo il passaggio del confine austriaco, sul Carso e sull’Isonzo, la guerra appare nei suoi aspetti più duri e drammatici, un’immane prova di sopravvivenza. Scrive alla madre il bersagliere Giulio Martelli di San Piero a Sieve: “Ho passato de’giorni molto brutti, non mi credevo di ritornare; siamo stati cinque ore continue sotto il fuoco nemico, ma come Iddio vuole siamo ritornati tutti. Cara madre e sorella, non mi credevo che la guerra fosse così brutta […] Ne avrei da dire tante, ma pazienza; ora bisogna ammazzare i tedeschi perché hanno tanto coraggio. Tu mandami la benedizione che piove tutti i giorni e si diventa sordi, ma non ci fa niente, siamo ben nascosti e sempre coraggio”1. Scrivono un gruppo di grezzanesi alla maestra Tramonti: “Carissimi grezzanesi, dalla valle di Plava. Trovandoci sul campo di battaglia noi tutti uniti vi facciamo consapevoli della triste vita che noi meniamo per la nostra cara patria Italia. Sono già due mesi che abbiamo attraversato i confini […] Fino dal momento della nostra partenza da costà riposiamo sul nudo terreno, approfittando di qualunque riparo per difendere la vita. Qua non stiamo mai tranquilli; quando la pioggia dei proiettili, quando colpi di cannone, quando spari di fucile, ma nonostante ci
mo avanti per vedere se un giorno potremo raggiungere la meta”2. Le lettere fanno ben capire la strategia bellica d’offesa ad oltranza scelta da Cadorna che costò la vita a centinaia di migliaia di essere umani, senza conseguire mai vittorie determinanti. Scrive il carabiniere Pietro Megli di Vicchio: “I disagi miei e dei miei compagni, sono enormi, ma siamo orgogliosi di affrontare qualunque altro sacrificio che si presenti. Noi fra qualche giorno avanzeremo ancora e andremo avanti senza mai retrocedere e cesseremo solo quando il nostro scopo sarà raggiunto, e in questo momento della rivendicazione nazionale, noi tutti offriamo il nostro sangue, la nostra vita per il bene del Re e della Patria”3. La convivenza con la morte diventa abitudine, rassegnazione, anche un certo fatalismo e accettazione della possibilità di rimanere feriti o uccisi. Scrive Alfredo Modi di Marcoiano: “Assistiamo ad uno spettacolo spaventoso, ma molto bello per noi; vediamo quando le nostre grosse granate colgono nelle trincee nemiche, alzarsi una grande colonna di fumo, insieme a terra, piante, gambe, teste e busti di nemici che saltano per aria […] Gli altri allora, sotto quest’inferno e grandine di granate, non resistono e scappano via; ed ecco allora le piccole artiglierie e i nostri precisi fucili compiere l’opera di distruzione del nemico. Venuto il momento di avanzare, scavalchiamo impazienti la nostra trincea e di corsa gridando Savoia! ci portiamo nelle trincee quasi o del tutto abbandonate dal nemico. […] Credete, miei cari, in principio fanno impressione queste cose, ma poi, come ci si abitua a tutto, anche la guerra non impressiona più e ci sembra che sia un mestiere come un altro qualunque”4. E la guardia di finanza Adolfo Landi, di Borgo San Lorenzo: “La vita non la conto più: o muoio o ritorno orgoglioso di sapermi un uomo di valore: io non ero uno di quelli che dicevano: Viva la guerra (e poi son rimasti a casa) anzi ero contrario alla guerra, ma quando la nazione combatte bisogna mostrarci generosi e darle tutte le forze per raggiungere lo scopo della vittoria”5.
Così il fante di Palazzuolo Vincenzo Bertozzi: “Mi pareva di essere a caccia, perché da piccoli buchi delle trincee si sorvegliava il nemico e ogni volta che se ne vedeva uno ci si sparava, e viceversa faceva il nemico a noialtri. […] Il Carso sono piccole colline, ma ben fortificate, e per volerle in parte occupare ci son voluti sacrifici incalcolabili”6. A provocare questi processi di vera e propria disumanizzazione ed estraneità alla morte concorse anche la dura disciplina militare. Scrive al padre il ciclista di Borgo Ubaldo Lavacchini: “Una mancanza che in guarnigione sarebbe punita col carcere militare, sulla zona di guerra merita la fucilazione. Qualunque ordine dato, senza farselo ripetere, bisogna velocemente eseguirlo”7. Le denunzie all’autorità giudiziarie militare dalla dichiarazione di guerra (24 maggio 1915) alla data dell’amnistia (2 settembre 1919) furono complessivamente 870 mila delle quali 470 mila per mancata alla chiamata e 400 mila per diserzione o per altri reati commessi sotto le armi. Il 6% delle nostre truppe fu oggetto di denunzia ai tribunali militare. Altro strumento di giustizia penale largamente incoraggiato dai comandi superiori fu la decimazione e l’esecuzioni sommarie. La circolare 3525 del comando supremo afferma-
va “deve ogni soldato essere certo di trovare, all’occorrenza nel superiore il fratello o il padre, ma deve essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi”. Stretti fra la dura disciplina militare e l’immane tragedia della morte l’unica forma di conforto e di sostegno morale per il soldato era lo spirito di corpo, che creava rapporti di identificazione col reparto di appartenenza e di solidarietà con i propri commilitoni, tanto solidi da percepire la morte di uno di essi come perdita di parte di sé. Scrive il volontario Luigi Tarchi di Borgo San Lorenzo: “Non si può immaginare come sia sacro un amico in guerra. E’ forse più di un fratello, perché è quello che può anche raccoglier l’ultima parola e l’ultimo sospiro, perché è inseparabile come l’ombra del corpo. E’ il confidente, è il consolatore, è la madre, il padre, tutto; e lo siamo a vicenda”8. 1 Un soldato di S. Piero a Sieve, in “Il Messaggero del Mugello”, 27 giugno 1915, n. 26 2 “Il Messaggero del Mugello”, 8 agosto 1915, n. 32. Lettera firmata dai fanti Enrico Ulivi di Dorino, Ettore Agostini, Giuseppe Mazzoni, Luigi Tarchi, e Federigo Ciani. 3 Lettere di soldati, in “Il Messaggero del Mugello”, 11 luglio 1915, n. 28. Pietro
Megli di Vicchio, carabiniere scrive a don Vito Cerchiai, priore di Campestri, Zona di guerra, 3 luglio 1915. 4 Alfredo Modi di Marcoiano, in “Il Messaggero del Mugello”, 15 agosto 1915, n. 33 5 Lettere di soldati, in “Il Messaggero del Mugello”, 6 agosto 1916, n. 32
Nel basso Isonzo, in “Il Messaggero del Mugello”, 7 novembre 1915, n. 45 7 Disciplina!, in “Il Messaggero del Mugello”, 25 luglio 1915, n. 30. 8 Il diario del sottotenente A. Tarchi. 15 ottobre 1915. Verso l’ignoto, in “Il Messaggero del Mugello”, 6 febbraio1916, n. 6 6
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IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 22 NOVEMBRE 2014 - il galletto
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – dodicesima parte
Vite nelle trincee e assalti
Antonio Margheri campanelli elettrici comu- liana anche con il nome risvegliati dalle antiche “Chi deve sulle colonne di un giornale commentare la nostra situazione bellica attraversa vere ore di angoscia. Affonda il capo fra i soliti giornali e lo solleva ogni tanto per interrogare ansiosamente: e una risposta sola, categorica, implacabile, le cose e gli uomini gli formulano, a suo supremo dispetto: nulla di nuovo […] I fronti della battaglia si estendono per migliaia e migliaia di chilometri; e tuttavia è possibile che per molto tempo ancora il cronista debba annotare: nulla di nuovo. L’animo nostro è sbalordito da questo nuovissimo aspetto dell’immane flagello; e noi ci domandiamo se, in quest’ora, questo miracolo infernale sia il frutto di uno scherzo di sovrumani spiriti del male”1. Nel giro di pochi mesi, ormai già alla fine del 1915, si era consumata la speranza di una guerra breve. Le truppe italiane avevano iniziato le ostilità contro l’esercito austro-ungarico il 24 maggio 1915, attaccando sul fiume Isonzo e sull’Altopiano del Carso. Costrette ad avanzare dalla pianura verso la montagna si logorarono in una serie di assalti continui e sanguinosi che ottennero scarsissimi risultati. I combattenti vissero e morirono in condizioni difficilissime, nel fango delle trincee, tra gli immensi reticolati che le proteggevano, sotto potenze di fuoco inaudite e carne da macello scaraventate in assalti continui. Nella stampa locale molte lettere descrissero la vita di trincea e dell’assalto al nemico. Le trincee furono il simbolo della Prima Guerra Mondiale. Non c’era mai stato niente di simile: chilometri di buche e fossati in cui centinaia di migliaia di uomini si ammassavano, vivevano e morivano. Sulla testa dei soldati si schiantavano granate, obici, gas chimici, proiettili di ogni tipo che portavano a tormente allucinatorie per gli stimoli sensoriali potenti e violenti determinando in chi sopravviveva annichilimento totale, sordità, mutismo perdita di coscienza per periodi più o meno lunghi. Così scriveva il volontario di guerra Angelo Tarchi, di Borgo San Lorenzo, il 4 agosto 1915: “Il nemico ha scorto il Genio sotto i reticolati e comincia contro di esso il fuoco di fucileria. L’azione di sorpresa è fallita; i
nicanti dai fili alle trincee hanno dato l’allarmi. Occorre prender posizione e improvvisare trincee. Baionetta in canna a lato e piccone alla mano. Poi al lume della luna incominciamo l’opera di fortificazione. Si scava, si forma il parapetto, si riempiono i sacchi di terra, e tutto questo lo facciamo mentre le pattuglie puntano verso il nemico. La luna diventa sempre più scialba, il cielo a poco a poco s’irradia di luce. Il lavoro è terminato, la trincea per tiratori in ginocchio è fatta e noi ci ritiriamo dietro un sasso sfiniti, ma soddisfatti della nostra opera. E’ l’alba! Il bosco ombrosamente pauroso si delinea a poco a poco e le truppe lo tagliano per un’estensione di quattro km circa, pronte all’attacco temporaneamente fortificate. I soldati, dopo alcuni istanti, si credono sicuri del posto e nonostante le esortazioni dei superiori cercano vedere e non sanno di essere osservati. Intanto furiosi comincia il duello d’artiglieria e le granate sibilanti passano intrecciandosi al disopra delle nostre teste, scoppiando lungi con un rumore assordante. Così passano e sembrano carrelli aerei, passano portando la ruina e la morte. Ma anche per noi giunge l’ora tragica. Siamo scorti: si ode un colpo, poi una granata rabbiosa acutamente si avvicina; la sentiamo ed è un attimo, un rimbombo pauroso e metallico, uno schiaffo dall’aria spostata e poi siamo ricoperti di terra e una pioggia di sassi cade su di noi; uno mi colpisce senza recarmi danno violentemente al ginocchio. Un soldato, un sergente ed un caporale arrivano lordi di terra e pallidi come spettri. Una granata è scoppiata in mezzo a loro, uno è caduto, essi sono salvi per miracolo. Intanto un altro colpo parte e la granata si avvicina più acuta, più furiosa su noi, scoppiando con un rimbombo infernale sul masso dove noi siamo riparati. Questa volta i massi vengono lanciati a distanze enormi. Vi sono dei caduti e dei feriti”.2 Passato l’inverno, nella primavera del 1916 si scatenò l’offensiva punitiva austriaca (la Strafexpedition) voluta per punire il tradimento italiano alla Triplice Alleanza. Conosciuto dalla storiografia ita-
di Battaglia degli Altipiani, l’ attacco colse le truppe italiane, fanterie ed artiglierie, troppo proiettate verso posizioni estremamente avanzate. L’intera massa di uomini dislocati a difesa del fronte continuò coraggiosamente a riconquistare qualsiasi posizione persa, fino a quando, abbruttiti e devastati dalla violenza degli attacchi, gli italiani dovettero necessariamente iniziare la ritirata, facendo presagire un travolgente successo del nemico. L’avanzata fu comunque tamponata con l’arrivo in massa, spesso alla spicciolata e con mezzi di fortuna, di truppe e riserve provenienti dagli altri fronti e da tutte le regioni d’Italia. Alla fine di giugno, il XX corpo d’armata italiano passò alla controffensiva ripristinando un sostanziale immobilismo rotto, sull’Isonzo, soltanto da alcuni parziali successi italiani che portarono all’occupazione del Monte Michele, del Monte Sobotino e, in agosto, di Gorizia. In Mugello, dopo aver vissuto con trepidazione i mesi dell’offensiva austriaca, le vittorie nel Trentino e la conquista di Gorizia vennero vissute con grande entusiasmo, quasi preludio per la vittoria. A Borgo: “Tutti correvano da ogni parte, inebriati, ognuno gioiva della gioia altrui. Dopo un’ora il paese avea subito una trasformazione ideale. Sulle più alte torri, ai pubblici edifici, ai fabbricati, anche i più umili, sulle nostre Chiese maggiori sventolava gaiamente il bel tricolore; e quando le nostre campane armoniose echeggiarono sulla campagna trionfante di sole, la commozione fu grandissima e molti, specialmente i veterani,
glorie, ebbero sussulti di pianto”3. Ma fu il 1917 l’anno decisivo, segnato dalla gravissima sconfitta di Caporetto. Il 24 ottobre 1917, le truppe austriache dilagarono in profondità per 150 chilometri verso la Pianura Padana, in una travolgente offensiva che si arrestò sulla linea del Piave e che in un sol colpo annullò i pochi vantaggi territoriali strappati in due anni di guerra. Annotò Angelo Tarchi nel suo diario di guerra: “I sette giorni trascorsi sono stati come un terribile sogno, una stessa sospensione tra la vita e la morte, la morte e il nemico. Non vi dirò molto, chè del resto raccontare i disagi trascorsi, come siamo e sono scampato miracolosamente, prima alla morte e poi alla sicura prigionia, sono cose da romanzo, che neppure lo ricordo con precisione. Della mia compagnia sono rimasto solo con quattro uomini. Ci siamo difesi fino all’ultimo: per ben tre volte noi pochi, quasi disarmati, dell’unica Brigata…, ci siamo battuti fino all’estremo, arginando e ritardando l’avanzata del nemico; ritirandoci sfiniti e combattendo. Dico solo una cosa: non mi hanno voluto uccidere, chè la morte, tutti i pochissimi laceri superstiti, l’abbiamo cercata. […] Ora siamo in un paese di zona di operazioni per riorganizzarsi e ricostituirci. Io – e così gli altri – ho tutto perduto: mi rimane solo la camicia che ho indosso e la divisa sporca da combattimento e niente altro. Tutto perduto. E’ terribile! […] Delle mie mitragliatrici, parte distrutte, parte difese fino all’ultimo, una sola me ne rimane, e, come dicevo, con
solo cinque valorosi che con me e con gli altri della Brigata, non hanno voluto esser prigionieri; siamo passati attraverso il nemico”4. Per organizzare la resistenza il nuovo governo Orlando fece grandi promesse ai contadini in armi, aumentò il vitto, rinnovò l’equipaggiamento. E gli austriaci furono fermati. Pian piano le truppe italiane diedero segnali di ripresa. Questi divennero evidenti tra la primavera e l’autunno del 1918, con la battaglia del Piave (giugno) e l’offensiva scatenata il 24 ot-
tobre. Il 4 novembre fu firmato l’armistizio che pose fine alla guerra.
Nulla di nuovo, in “Il Corriere Mugellano”, 4 gennaio 1916, n. 1 2 Diario di guerra del volontario A. Tarchi, in , in “Il Messaggero del Mugello”, 5 settembre 1915, n. 36. 3 Patriottiche manifestazioni in Mugello per la vittoria italiana nel settore Trentino, in “Il Messaggero del Mugello”, 2 luglio 1916, n. 27 4 Saluti e lettere di militari, in “Il Messaggero del Mugello”, 18 novembre 1917, n. 46. 1
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SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto - IL
MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 6 DICEMBRE 2014 - il galletto
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – tredicesima parte
Prima di Caporetto: voglia di pace e repressioni
Antonio Margheri Di converso, anche l’il- mutilazione, di una pri- luogo la responsabiliI mesi che precedettero Caporetto furono caratterizzati da evidenti segnali di malessere e stanchezza nell’esercito e nel fronte interno, con l’acutizzarsi dello scontro tra interventisti e neutralisti. Fin dall’ultimo scorcio del 1916, nel Mugello il dibattito politico si fece aspro. Ad infiammare lo scontro vi erano le diverse posizioni interne anche alla classe dirigente locale rispetto ad una prospettiva di pace che sembrò affacciarsi sullo scenario internazionale al termine del 1916 e che, sul piano nazionale, fu rilanciata dal Partito socialista con una mozione parlamentare. Il testo fu pubblicato su “Il Corriere Mugellano” che espresse “viva simpatia per questa nobile iniziativa del gruppo parlamentare socialista”1. Sul numero del 6 dicembre dal titolo Un bel discorso socialista, il settimanale commentava “la bellezza e l’abilità” del socialista on. Claudio Treves: “Ha inveito contro i fornitori disonesti; ha ottenuto il consenso generale quando ha rilevato gli errori dell’Intesa, ha giustamente deplorato l’enormità della censura, e gli errori di indirizzo politico tributario ed economico del governo che altri biasimano altrettanto. Ha ripetuto che la guerra si prolunga e si inasprisce assai più di quanto avessero promesso gli interventisti; ed ha deplorato la campagna contro i nemici interni, cioè contro quanti erano contro l’intervento italiano”. Quando il 10 dicembre il Gerini votò, con alcuni socialisti, una mozione per una soluzione pacifica del conflitto si scatenò in tutto il Mugello un duro scontro politico e giornalistico che ebbe ripercussioni anche a livello nazionale2. A scagliarsi contro l’armeggio neutralistico e le arti parricide del neutralismo sabotatore fu il solito prof. Giovannini che accusò il Gerini di sfruttare “come arma contro il Governo e la guerra nazionale il disagio, i dolori e la mentalità dei più bassi strati dell’ignoranza delle campagne”3.
lustre professore dovette incassare qualche cortese definizione dai colleghi di parte avversa: “guerrafondaio rimasto prudentemente a far la guerra ai tavolini dei Caffè”, “eroe della stufa”4. A Borgo San Lorenzo, 31 personalità (tra cui il sindaco Frescobaldi e don Canuto Cipriani) scrissero una lettera di protesta contro il Gerini. L’iniziativa sortì l’effetto di generare una diffusa ostilità e malumore in ambienti popolari del paese verso i firmatari della protesta che vennero accusati di aver “emesso un voto per la continuazione della guerra ad ogni costo”. Non mancarono pubbliche contestazioni: “ebbero anche luogo, per parte di alcune donnicciole, delle scenette che avrebbero destato ilarità, se non svolte contro persone degne del massimo rispetto e della massima stima”5. In questi mesi di crescenti difficoltà nella vita quotidiana delle persone, prese campo sulla stampa locale la campagna contro gl’imboscati ed i disertori, nuove categorie di reietti al pari degli speculatori e degli accaparratori. Nell’aprile 1917, “Il Corriere Mugellano” informò dell’arresto di un drappello di disertori, ai quali alcuni “abitatori della montagna […] facevano anco da manutengoli, fornendogli cognizioni itinerarie e indicazioni delle dimore più cospicue di quelle desolate altitudini”6. Cinque latitanti furono arrestati nel territorio di San Piero a Sieve, altri in un casolare in piena montagna abitato da poveri contadini i quali si rifiutarono di fornire informazioni ai carabinieri. Il 1917 fu, anche nel Mugello, un anno pieno di difficoltà e tragico: la situazione alimentare, il carovita, la pesantezza del lavoro nelle fabbriche e nelle campagne, l’inadeguatezza delle varie forme di assistenza alle famiglie ed ai soldati, lo sgomento ed il pianto per una guerra lontana che drammaticamente si riaffacciava dentro casa con l’annuncio, sempre più frequente, di una morte, di una
gionia. Tra il 1 dicembre 1916 ed il 15 aprile 1917 vi furono in Italia circa 500 manifestazioni di protesta. Il 2 luglio, poco dopo l’arrivo delle lettere di arruolamento per i ragazzi del 1899, una marcia partì dall’alta valle del Bisenzio e da Barberino di Mugello verso Prato. La mobilitazione proseguì per una settimana a Cantagallo, Vaiano, Vernio, Figline, Carmignano, Pistoia e numerose frazioni. In questi stessi giorni le donne di Barberino, dopo essersi dirette in marcia verso Prato, decisero di raggiungere la sede municipale del loro comune per costringere il Sindaco ad inviare un telegramma al Governo per richiedere la pace e la concessione di licenze per i loro uomini. Con la “turba femminea armata di bastoni” si unirono tutti gli operai barberinesi che proclamarono uno sciopero. Per il prof. Giovannini, che assistette al processo, “tutti in Mugello sanno di quel che si tratta, una dimostrazione di pace con grida, non con note, di mogli, di sorelle e di fidanzate per riavere i rispettivi oggetti del proprio amore”7. Il processo, noto come la causa delle donne di Barberino, si svolse nell’agosto a Scarperia. Gl’imputati erano 19, di cui 15 donne e 4 uomini. La difesa d’ufficio e decisa in seduta stante fu affidata all’avv. Ungania “che, giustamente riluttante ad accettare il patrocinio d’una causa non studiata, finì col sobbarcarsi al dovere d’ufficio”. La sentenza si concluse con la condanna degl’imputati a pene variabili da 50 a 3 mesi. A livello nazionale la sommossa più clamorosa avvenne a Torino nell’agosto e si concluse con una cinquantina di morti, 200 feriti, circa un migliaio di arresti e alcune centinaia di processati per direttissima. La censura impedì una conoscenza immediata dei fatti torinesi e tuttavia l’imponenza dell’evento era tale che non fu possibile mettere la sordina a quanto accaduto. Commentando i fatti di Torino il prof. Giovannini ne attribuiva in primo
tà alla mancanza di “un Governo di guerra, ossia un Governo che marci dietro all’esercito e per l’esercito”, capace di liberarsi da “tutti gli avversari della guerra, aperti o mascherati” e del “sistema parlamentare de’mezzi termini, de’concordati e de’maneggi elettorali”8. Le sommosse e le agitazioni ebbero per lo più carattere spontaneo e non furono direttamente organizzate e guidate dal partito socialista che ritenne pericoloso affrontare uno scontro aperto con l’organizzazione repressiva dello Stato. Il 30 giugno Turati invitò il governo ad iniziare trattative di pace e il 12 luglio Claudio Treves riaffermò alla Camera la stessa speranza auspicando, con parole che furono riprese dalla stampa e che gli verranno rimproverate come disfattiste, il prossimo inverno non più in trincea!9. Il 1 agosto 1917 si alzò contro la guerra anche la voce del pontefice Benedetto XV con un appello ai paesi belligeranti. La Nota Pontificia che conteneva la forte definizione della guerra come inutile strage, rilanciò la speranza di una prossima fine del conflitto. Liquidatorio il giudizio espresso dagli ambienti nazionalisti come al solito rappresentati dal professor Giovannini: “Le proposte attuali del Papa, rimarranno semplici documenti storici in questo conflitto, che non si prosegue né si derime dalla volontà di capi, ma cammina per la sua via storica, condotto dalla forza di gravità che i grandi fatti umani possiedono alla pari dei fisici”10. 1 La mozione alla Camera del Gruppo parlamentare socialista, in “Il Corriere Mugellano”, 28 novembre 1916, n. 47.
Sul “Il Popolo d’Italia” del 25 dicembre 1916, apparve un articolo di Michele Terzaghi. Altri giornali interventisti come “Il Corriere della sera” e “La Nazione” attaccarono il Gerini. 2
lano”, 31 dicembre 1916, n. 50. Per una falsa voce, in “Il Messaggero del Mugello”, 21 gennaio 1917, n. 3. 5
3
Cfr. BITA, Arresti importanti, in “Il Corriere Mugellano”, 24 aprile 1917, n. 14
4
A. GIOVANNINI, Pretura di Scarperia. Causa importante, in “Il Messaggero del Mugello”, 26 agosto 1917, n. 34.
A. GIOVANNINI, Il Gerini e il Mugello, in “Il Messaggero del Mugello”, 7 gennaio 1917, n. 1. Il prof. Giovannini ed altri eroi, in “Il Corriere Mugel-
6
7
A. GIOVANNINI, La questione delle questioni, “Il Messaggero del Mugello”, 9 settembre 1917, n. 36 9 Pace e [censura], in “Il Corriere Mugellano”, 23 settembre 1917, n. 33 8
A. GIOVANNINI, Dopo la prima lettura della Nota Pontificia. Impressioni e giudizi del nostro collaboratore Prof. Giovannini, in “Il Messaggero del Mugello”, 19 agosto 1917, n. 33 10
IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
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SABATO 20 DICEMBRE 2014 - il galletto - TRA
STORIA E CRONACA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 quattordicesima parte
Dopo Caporetto: patriottismo e lotta al nemico interno Antonio Margheri Come abbiamo ricordato nel precedente articolo, Cadorna imputò la disfatta di Caporetto agli stessi combattenti e al nemico interno. Si scatenò ancor di più la lotta contro il “disfattismo”. Nuove norme rendevano possibile condannare come reati anche semplici manifestazioni di disapprovazione, di disappunto, di pessimismo e di sfiducia nelle operazioni militari o nel governo1. Le classi dirigenti locali al grido Fuori il nemico! rilanciarono l’impegno patriottico, al quale non si sottrassero alcuni esponenti del clero, come il pievano di Borgo don
Canuto Cipriani che tenne numerose conferenze avvalendosi anche di proiezioni per illustrare la situazione delle terre invase dal “vandalo nemico” e “barbaro tedesco”2. Le crona-
che dei due settimanali locali sono piene di articoli e notizie su innumerevoli celebrazioni religiose “per la vittoria”, sottoscrizioni e formazione di comitati “pro-profughi”, fiere di beneficenza per i richiamati alle armi, appelli al successo dei prestiti nazionali, consigli ad economizzare nei consumi, raccolta di lana, metalli ed oro per la Patria. Un rilancio attivistico conscio dei pericoli per la Patria invasa che coinvolse in modo consistente insegnanti, parroci, piccola e media borghesia, amministrazioni e associazioni locali. Anche il cinema fu ampiamente utilizzato a scopi di propaganda patriottica. Durante l’estate, nell’ex convento francescano di Borgo San Lorenzo, furono proiettati, oltre ai giornali di guerra, i seguenti films: Dalla laguna al Piave, Ivan il Terrribile, Cabiria, poema di Gabriele D’Annunzio, le avventure di Maciste. Si moltiplicarono le cerimonie per la consegna di medaglie ai “valorosi combattenti”, i suffragi patriottici per i caduti, i cortei e l’esposizione del tricolore ai balconi dei paesi ad ogni notizia di ritirata dei nemici, la costituzione, promossa dai sindaci, dei comitati pro Opera nazionale per i combattenti. Alla fine di dicembre un nutrito numero di personalità di “tutte le classi, uomini, donne, sacerdoti, professionisti, artigiani, nobili, popolani” di tutti i paesi mugellani, sottoscrissero un manifesto patriottico diffuso ed affisso in tutto il territorio. Il 23 dicembre 1917, nel piazzale Umberto I di Borgo San Lorenzo, organizzata dal prof Luigi Cipriani come presidente degl’insegnanti, dal Comune, dal capitano Ribetti del 1° Battaglione reclute dell’84° Reggimento Fanteria e con tutti i soldati del locale distacca-
mento, si tenne una grande cerimonia per la “consegna delle medaglie ai valorosi mugellani”. Presenti tutte le amministrazioni locali, le associazioni, “le scuole, tanto femminili che maschili”. Tenne un lungo discorso il tenente Ugo Mazzoni esortando alla resistenza e stigmatizzando ogni abbandono alla sfiducia: “Schiacciate i traditori, strappate loro la lingua. […] Vi sono stati, si, degli sciagurati che hanno creduto dimostrare amore alla famiglia, alla sposa, ai figli, abbandonando il posto di onore per salvare la pelle! Vi sono stati, si, dei pazzi che hanno creduto ottenere la pace facendosi catturare dal nemico. Disgraziati! Essi, ora, languono in mille stenti[…] non si ama la famiglia col tradirla Patria, ma si serve la Patria perché si ama di sviscerato amore la famiglia!”3. Sotto la retorica patriottarda, le pulsioni interventiste scavavano un vero fossato nei confronti di ogni posizione che non avesse come fine ultimo e supremo la continuazione della guerra e la rigenerazione della nazione: “I sabotatori, i deformatori, i denigratori della guerra, i neutralisti, i pacifisti e gli allarmisti, sieno Pussisti, sieno Giolittiani-Campanari-Stampisti, o sodali d’altro colore, tutti insieme, formano un partito unico, il disfattista”4. La repressione di ogni forma pur minima di dissenso e non allineamento trovò il suo “braccio armato” nella nascita di sezioni comunali della Lega d’Azione Antitedesca che videro per la prima volta la luce il 2 dicembre a Borgo San Lorenzo in una “grande serata patriottica” organizzata nei locali del cinema paesano5. La Lega fu una delle maggiori or-
ganizzazioni interventiste; costituitasi nel luglio del 1915 a Genova e presieduta dal medico Luigi Maria Bossi si diffuse poi in numerose altre città. Svolse un’attività ispirata ad un patriottismo settario e denigratorio che si nutriva spesso nei sottofondi di rancori personali, professionali, invidie, sospetti e gelosie. Talvolta venivano offerte remunerazioni e garanzia di anonimato alle spie ed ai delatori, curando poi direttamente come organizzazione la segnalazione dei privati alle autorità giudiziarie. Presidente della Lega mugellana fu il ferroviere borghigiano Michele Costantini che, nella primavera del 1918, assunse anche la presidenza della sezione comunale delle “Opere federate di assistenza e propaganda nazionale”. Il cronista de “Il Messaggero del Mugello” scrisse che “le due sale del cinematografo erano letteralmente stipate. Grande fu il concorso del popolo, tanto che molti rimasero fuori per mancanza assoluta di posto; numeroso fu pure il concorso di signore e signorine delle più distinte famiglie del paese”6. Fu l’inizio di un’intensa opera propagandistica che si protrasse fino al termine della guerra e che si svolse con il coinvolgimento di militari e soprattutto di grandi invalidi e mutilati che esibivano attraverso la loro fede ed il loro corpo martoriato l’indomita volontà di vittoria, di resistenza e di fedeltà ai soldati rimasti a combattere al fronte in difesa della Patria. Ma la novità dei nuovi “guerraioli arrabbiati” fu quella di introdurre una vera e propria caccia fisica al “disfattista” usando le armi della delazione, dello spionaggio ed anche della violenza. La Lega antitedesca, o direttamente attraverso i propri aderenti o ricorrendo a delatori, riuscì a mandare sotto processo al Tribunale Militare di Firenze soldati o civili. La caccia al disfattismo e al disfattista
raggiunse il culmine quando l’accusa di tradimento venne rivolta all’intero paese di Vicchio nel giugno del 1918. Per rispondere alle accuse il sindaco Querin si recò dal questore e dal prefetto ed indisse un comizio nel teatro comunale di Vicchio. In questo contesto, non certo per caso, nelle file del nazionalismo mugellano si cominciò a vedere con sempre crescente ammirazione alla figura di Benito Mussolini, prima neutralista, poi fervente interventista, infine inflessibile fustigatore del “vecchio parlamentarismo”, dei “vecchi partiti” e del “pacifismo decrepito”. Un opportuno decreto, in “Il Messaggero del Mugello”, 8 ottobre 1917, n. 40. Il decreto (denominato “Sacchi”, ministro radicale di Grazia e Giustizia nei governi Borselli e Orlando) fu emanato il 4 ottobre 1917, n. 1561. 2 Cfr. per es. Le nostre terre invase, in “Il Messaggero del Mugello”, 14 aprile 1918, n. 14. Nelle settimane successive a Caporetto in numerose chiese si svolsero funzioni per invocare la vittoria e la cacciata dell’invasore. Cfr. Scarperia. Sacra funzione per la vittoria, in “Il Messaggero del Mugello”, 2 dicembre 1917, n. 48. 3 Alla cerimonia furono consegnate le medaglie d’argento al valore a Sergio Rossi di Vicchio, Carlo Dell’Elmo di Barberino e Luigi Vannini di Vicchio. 4 ANTONIO GIOVANNINI, Coraggio! L’orizzonte si rischiara, in “Il Messaggero del Mugello”, 30 dicembre 1917, n. 51. 5 Nel dopoguerra, la stessa Commissione d’inchiesta giudicò molto severamente il carattere delle denunce e della repressione fanatica di cui si fecero protagoniste le organizzazioni interventiste più fanatiche, tra l’altro anche incoraggiate dall’alto ad usare tali sistemi. 6 La serata patriottica, in “Il Messaggero del Mugello”, 9 dicembre 1917, n. 49 1
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STORIA E CRONACA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – quindicesima parte
Vita da prigionieri: il Fante Angiolo Scandaglini Antonio Margheri tuale di prigionieri mor- luglio. Rimase prigionie- va da un cimitero non ri-
La vicenda dei prigionieri di guerra rappresenta una delle pagine più tristi e vergognose della storia della condotta politica e militare italiana nella Grande Guerra1. Ben un quarto del totale dei morti, persero la vita in prigionia. Il rischio di morte in prigionia superava quello della fanteria, che era il più alto tra le truppe combattenti al fronte. A differenza degli altri Paesi dell’Intesa, l’Italia non assunse alcun provvedimento nei confronti dei prigionieri. Anzi Luigi Cadorna era convinto che proprio l’orrore della prigionia avrebbe spinto i soldati a combattere con maggiore vigore il nemico e ad allontanare il pericolo della diserzione e della resa. Addirittura, prima di Caporetto, l’Italia giunse a ridurre e poi sospendere l’invio di pacchi ai prigionieri che veniva effettuato tramite la Croce Rossa. I costi umani di queste scelte crudeli e scellerate furono terribili: alla fine della guerra l’Italia condivideva con la Russia ed altri paesi balcanici il triste primato della più alta percen-
ti rispetto ai catturati; dei 600.000 prigionieri (circa un soldato catturato su 7 uomini di truppa), oltre 100.000 perirono per fame e freddo, quasi tutti soldati semplici. A giudicare dagli elenchi dei prigionieri mugellani stilati nei comuni le destinazioni maggiori riguardarono i campi di Mauthausen, Sigmundsherberg, Milovice, Somorya. Della prigionia dei soldati italiani non si trova quasi traccia nelle pubblicazioni militari. E delle loro terribili condizioni di vita ci sono giunte notizie solo dai diari dei sopravvissuti. Pochissimo invece dalla relazione d’inchiesta del 1920. Ecco perché la pubblicazione di diari di prigionia come quello di Angiolo Scandaglini sono particolarmente importanti2. Il giovane Scandaglini (nato a S. Maria a Vezzano il 12 giugno 1894, colono) fu chiamato alla armi di leva il 10 settembre 1914 ed arruolato nel Reggimento fanteria, a Bari. Avrebbe dovuto fare due anni di militare, ma dopo l’ingresso in guerra dell’Italia il 24 maggio 1915, fu mandato al fronte e catturato sul S. Michele del Carso il 27
Sul tema dei prigionieri di guerra, si veda G. PROCACCI, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Roma, Editori Riuniti, 1993. Per un quadro sintetico e completo, Id., I prigionieri italiani, in Stephane Audoin-Rouzeau e Jean-Jacuqs Becker (a c. di), La prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2007, pp. 361-373. 1
A. SCANDAGLINI, Storie di un prigioniero di guerra, Borgo San Lorenzo, Edizioni Noferini, 2013 2
3
Ibidem, p. 31.
4
Ibidem, p. 34.
ro per 40 mesi, fino alla fine della guerra. Nel suo diario descrive la triste storia dei prigionieri e del primo viaggio verso Mathausen: “Che triste viaggio in mezzo a sentinelle e carabinieri a cavallo, cosacchi, delinquenti mondiali: non permettevano di fare i nostri bisogni perché avevano paura si fuggisse. […] Giunti a Lubiana i civili ci sputavano in faccia e per quattro giorni ci hanno tenuti nel castello, chiusi come belve”3. A Mathausen, racconta, esisteva la pena del palo, da lui disegnata nel diario. Poi viene trasferito in un campo in Serbia e così racconta questa esperienza: “Anche qui si comincia male, specie per dormire: in casucce fatte di mota e buina (sterco vaccino) e paglia: veramente le si chiamava cucce. […] andando a lavoro si passa-
cinto, secondo il costume suo, dei serbi, che portavano da mangiare ai morti sulla tomba e noi si faceva una corsa a questo cimitero perché ci toccasse qualcosa”4.Poi viene spostato a Lutvinizza, dove resta per 27 mesi. Ed è qui che, anche grazie alla comprensione di un po’ di lingua tedesca e ad una buona dose di intraprendenza e fortuna, diventa il fornaio del campo e riesce a sopravvivere. Nel dopoguerra la famiglia si trasferisce in un podere a Panicaglia. I figli di Angiolo diventeranno partigiani, la famiglia aiutò dopo l’8 settembre 1943 gli ex prigionieri alleati e dopo la guerra molti Scandaglini aderiranno al P.C.I. Angiolo è morto a Borgo San Lorenzo il 27 ottobre 1984 all’età di 90 anni e dopo essersi battuto per tutta la vita per il riconoscimento dei diritti dei prigionieri di guerra.
LA TORTURA DEL PALO Il punito veniva legato con fune (per due, tre, quattro ore, a seconda del caso) ad un palo per le caviglie ed i polsi. Le mani erano all’indietro ed al di sopra; i piedi, incrociati al disotto e sollevati dal suolo, in modo che il corpo pendente sporgesse in avanti formando un semicerchio. Nei primi tempi si adoperavano i pali della luce elettrica, poi fu impiantato un palo appositamente e la piazza in cui sorgeva era chiamata “piazza del palo”. Una sentinella stava vicino al torturato e gli buttava in faccia dell’acqua che teneva in un secchio, ogni volta che lo vedeva svenire. I prigionieri ne eternarono la memoria ricorrendo persino al tatuaggio. Su portaritratti, porta sigarette, su monete d’argento, su cartoline e su album, dovunque si trova scolpita, incisa, dipinta l’immagine di un povero prigioniero legato all’infame strumento.
IL CAMPO DI PRIGIONIA DI MATHAUSEN IL CAMPO DI PRIGIONIA DI SIGMUNDSHERBERG Il campo di prigionieri di guerra di Sigmundsherberg, un paesino della Bassa Austria, fu uno dei più grandi della Prima guerra mondiale. Era stato costruito per circa 40.000 uomini. Nell’aprile 1918 vi erano raccolti all’incirca 120.000 uomini, dei quali, però, tre quarti non si trovavano nel campo stesso, ma in dipendenze esterne. Fungeva da centro postale per tutti i campi della monarchia austro-ungarica. Esistevano delle officine dove si fabbricavano baracche e dove si smontavano gli aerei precipitati per il reimpiego dei vari pezzi di ricambio. Per raggiungere i risultati produttivi, i sorveglianti perpetravano pene durissime, come la pena del palo. Squadre di lavoro partivano da Sigmundsherberg per giungere in ogni parte della monarchia. Lavoravano nelle fabbriche, nelle miniere, negli uffici militari e civili e soprattutto nell’agricoltura. La mortalità nell’inverno 1917-18 fu assai elevata, circa 2.500 prigionieri, per l’arrivo dopo Caporetto di molti feriti e perché gli italiani erano debilitati da due anni di guerra.
Mathausen è una piccola cittadina in Alta Austria a circa 25 chilometri a est di Linz. Durante la prima guerra mondiale gli austriaci aprirono un primo campo di concentramento per prigionieri di guerra per lo sfruttamento della cava granito usato per pavimentare le strade di Vienna. Il campo era costituito da baracche in legno ed era delimitato da reticolati. Le baracche ospitavano separatamente ufficiali e truppa, il trattamento era diverso a seconda del grado del prigioniero: mentre l’ufficiale riusciva in qualche modo a sopravvivere, così non era per la truppa, specie per chi privo di mezzi e di aiuti non riusciva a comprare all’interno del campo quelle derrate necessarie per integrare il rancio. I problemi si acuirono verso la fine del conflitto, quando anche gli austriaci si trovarono a dover far fronte alla mancanza di cibo. I pacchi viveri spediti dai congiunti dei prigionieri attraverso la Croce Rossa svizzera arrivavano con difficoltà. A differenza dei prigionieri inglesi, francesi e serbi gli italiani furono abbandonati al proprio destino dalle autorità statali. A Mathausen, Russi, Serbi e moltissimi Italiani, raggiunsero la ragguardevole cifra di 40.000 internati e circa 9000 di loro vi persero la vita. 1759 prigionieri militari italiani vi morirono di fame e stenti. Un Cimitero di Guerra Internazionale esiste alla loro memoria.
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IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
TRA STORIA E CRONACA - SABATO 31 GENNAIO 2015
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PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – sedicesima parte
Vita da prigionieri: il diario di Antonio Pini Il campo di prigionia di Milovice
Antonio Margheri saliva sopra i meno 15. Il “Il 24 ottobre 1917 alle ore 14 nei pressi di Caporetto venni fatto prigioniero. Il 25 sera arrivai a Grahovo (Slovenia) dove era stato improvvisato una specie di concentramento. Ricordo con terrore il pericolo passato nel momento stesso che fui fatto prigioniero e quello nel cammino da Caporetto a Grahovo. Da Grahovo dopo aver sostato una notte all’aperto senza cibo e senza riparo, la sera del 26 in n. di 100 prigionieri fummo condotti a Podrucje. Qui rimasi fino al mattino del 14 novembre. Il giorno 2 novembre inviai le prime notizie alla famiglia per informarla della mia triste fine1”. Così inizia il Diario di Prigionia del soldato Antonio Pini, classe 1885, borghigiano, primo presidente della Velox, l’associazione cattolica che da poco aveva inaugurato la nuova sede e svolto un’opera importante nel soccorso ai familiari dei richiamati e nell’organizzazione del primo ufficio notizie e corrispondenza tra i familiari ed i soldati. Il 14 novembre lasciò Producje alla volta di Mathuausen, dove arrivò la sera del 16 novembre: “Nella 63 a baracca eravamo in n. di 480. Inutile dilungarmi a raccontare tutte le immani sofferenze che furono patite, non solo in questa baracca ma in tutte in special modo dove erano alloggiati i prigionieri fatti nella ritirata di Caporetto. Niente cappotto, niente coperte, niente paglia, né riscaldamento mentre fuori era neve, vento, tormenta. Il vitto scarsissimo e cattivo, l’unica sostanza ¼ di pagnotta al giorno (kg 1200 la pagnotta). Dopo pochi giorni anche questa venne ridotta ad 1/8 di una pagnotta di 1 kg. In queste miserrime condizioni si lottava con la morte poiché il freddo e la fame rendevano inebetiti tanti, che ogni giorno in massa partivano per l’ospedale, alcuni si trovavano stecchiti in baracca, freddi cadaveri, senza che il compagno che riposava accanto durante la notte non si fosse accorto degli spasimi di morte del vicino.” L’inverno 1917-1918 in Germania ed in Austria fu particolarmente freddo raggiungendo anche i 30 gradi sottozero. Nelle baracche la temperatura non
17 gennaio 1918, Pini ed un gruppo di prigionieri, furono spostati di nuovo all’Arbaite Smmricade, vicino a Praga: “Dal 18 gennaio alla mattina del 9 marzo tante e poi tante furono le sofferenze. La fame continua, quel poco cibo che ci passavano oltre ad essere insufficiente, son niente sostanza ed invece di alimentare il nostro corpo lo portava alla distruzione. Infatti si vedevano giovani perdere tutte le sembianze di esseri viventi divenire scheletri ambulanti. Non più la forza, non più la vita, fiacchezza, stento, debolezza, tanto che in uno solo non eravamo capaci di aggiustarsi un pagliericcio per coricarsi a terra”. Dal 9 marzo al 21 maggio Pini fu nuovamente trasferito e alloggiato nel manicomio di Bohuitz, a circa un’ora di cammino da Praga, dove “si viveva anche discretamente” ed Antonio conosce “un cuore gentile che palpitò di affetto per me…e perciò mi fu prodiga di affetto e di aiuti per sollevare le mie pene morali e fisiche”. Ma il 21 maggio è ancora costretto a spostarsi, e questa volta a Milovice. Nel Diario ci racconta dello squallore generale del lager, tristemente noto come il “cimitero dei vivi”. Per lenire la fame i soldati ingerivano grandi quantità di acqua, ingoiavano erba, terra, sassi, legno, carta, con conseguenze letali. I soldati si ammalavano di stenti e alcune baracche vennero trasformate in un lazzaretto e in reparti di isolamento per i casi di infezione. Le diagnosi prevalenti erano polmonite, meningite, deficit cardiaco, edema polmonare, tbc, spagnola, colera. La mortalità dei prigionieri era di 30 casi al giorno. I diari dei medici raccontano che, per effetto della denutrizione, dalle autopsie praticate trovarono che tutto il grasso era scomparso dalle fibre muscolari e dal corpo. Il cuore era rattrappito come un pezzo di cuoio. Annota Antonio Pini: “Partiamo da Praga in vagoni di III^ classe dopo un’ora e mezzo di treno si scende alla stazione di Lissa e di là a piedi per 4 km poi a Milovvitz. Questo concentramento non si vede
Il campo di prigionia di Milovice ( 50 km da Praga) ha conosciuto la presenza di tanti nostri connazionali e mugellani. Migliaia di soldati russi, serbi, italiani ed altri ancora, transitarono e morirono in questo campo di prigionia a causa del freddo, della fame e delle malattie. Un luogo simbolo delle atrocità della guerra. Fino al novembre del 1917 i prigionieri italiani erano in tutto 6.073; fu poi la disfatta di Caporetto dell’autunno del 1917 a raddoppiarne il numero: nel gennaio del 1918 il loro numero ufficiale era già salito a 15.363. Secondo alcuni documenti il numero dei caduti italiani qui sepolti ammonterebbe a 5.177.
fino che non siamo vicini: appena possiamo scorgerlo, lo vediamo piccolo, dalle baracche tutte annerite, di bassa costruttura, mi fa l’impressione di entrare in un cimitero di vivi, così voglio definirlo, tanto in quello vi è squallore, miseria, disorganizzazione. I prigionieri che vi sono già, li trovo più malandati che negli altri concentramenti. […] Appena entrati nel lagher ci portano alla Baracca del Comando. Date le nostre generalità ci portano alla 25^ baracca (Gruppo Russi) di transito. Una volta entrati in baracca, la scorgiamo sporca, la più brutta, la più indecente e ci troviamo in mezzo a prigionieri Russi più lerci di non so che cosa, ci viene subito detto speriamo di starci poco qua. Infatti ogni nuovo arrivato a questo concentramento e a questa lurida baracca spera che lo facciano ripartire al più presto, se no fa di tutto per svignarsela. […] Quel poco che acquistammo a Bhovitz presto lo riperdemmo. Il vitto è troppo scarso dopo essere tanto cattivo. Un 1/6 di pagnotta del peso di g. 800 (e di granone) il rancio acqua calda con tocchetti di barbabietola e qualche pezzetto di aringa”. Fortunatamente la permanenza a Milovice dura poco, Pini viene deportato a luglio a Piber, in Istria, dove le condizioni sono migliori e lì riesce a sopravvivere anche se attorno a sé vede morire altri compagni, sopraffatti dalle malattie e dallo stato
generale di denutrizione e di sofferenze fisiche e morali. La notte tra il 3 e il 4 novembre 1918 decide la fuga dal campo con alcuni compagni e raggiunge Trieste il 6 novembre, poi con il piroscafo Venezia, l’8 novembre. Quando giunge a casa, apprende della morte del babbo, deceduto il 7 gennaio. Un’esperienza terribile quella raccontata dal soldato Pini che porterà dentro per tutta la vita. Vide la morte in faccia, tanti compagni morire. Alla fine della guerra l’Italia ha condiviso con la Russia ed alcuni paesi balcanici il non invidiabile primato della più alta percentuale di prigionieri morti rispetto ai catturati. La Francia ebbe lo stesso numero di prigionieri (600.000), ma i morti furono 30.000, rispetto ai 100.000 dell’Italia, 1 su 6. La colpa venne addossata in gran parte alla barbarie del nemico, divenne strumento di propaganda e nello stesso tempo serviva per intimidire i soldati. In realtà fu una scelta scellerata del Governo italiano e del generale Cadorna, ossessionati dal pericolo della diserzione. A differenza della Francia ed Inghilterra che appena scoppiato il conflitto deliberarono di inviare ai loro concittadini prigionieri quantità sufficienti di cibo per integrare la povera dieta a cui erano sottoposti e lo stesso fecero a favore dei prigionieri Russi e Serbi per le difficoltà che già attanagliavano questi paesi, l’Italia non volle attuare nessun intervento pubblico di soccorso, limi-
Antonio Pini e la sua famiglia
tandosi a consentire la spedizione di pacchi privati da parte delle singole famiglie e della Croce Rossa. Un’iniziativa che si dimostrò del tutto impari alle necessità, tardiva come dimostra anche l’attività dei comitati patriottici mugellani e che tra l’altro fu ostacolata impedendo ai parenti l’organizzazione di collette. Ai familiari dei sospettati di diserzione fu tolto anche il sussidio distribuito dai sindaci. I risultati furono quindi drammatici. In molti casi i soldati italiani furono costretti dal bisogno a sottomettersi ed umiliarsi con i prigionieri delle altre nazionalità, a trasformarsi in servi, a spogliarsi dei pochissimi indumenti rimasti, a prostituirsi in alcuni casi, in cambio di qual-
che razione di pane. Antonio Pini e la sua famiglia 1 Un ringraziamento particolare all’amica Daniela Pini, nipote di Antonio, per aver conservato con cura il diario del nonno ed avermi concesso di prenderne visione. Finita la guerra Pini si dedicò, come Scandaglini ma nell’ambito dell’associazionismo cattolico, alla battaglia per il riconoscimento dei diritti pensionistici ai reduci, invalidi ed ex prigionieri. Fu tra i fondatori del Partito Popolare a Borgo San Lorenzo, da antifascista fu chiamato dal CLN a far parte della prima giunta comunale dopo la Liberazione. Ricoprì il ruolo di vice sindaco e, per alcuni mesi, anche di Sindaco pro-tempore.
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SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto - IL
MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 14 FEBBRAIO 2015 - il galletto
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – diciassettesima parte
Profughi e orfani di guerra. L’orfanotrofio Romanelli e la “Boutorlin”
Antonio Margheri gli orfani di guerra, dipen- le colonne de “Il Messag- tualistico a base volontaria. Dopo Caporetto, si riversarono anche nel Mugello centinaia di povere famiglie friulane e venete, alle quali fu necessario prestare aiuto, vitto e alloggio1. Numerose parrocchie e la nobiltà locale misero a disposizione locali ove ospitare i profughi. Le scuole, i comitati civici, le amministrazioni comunali, le associazioni si mobilitarono per raccogliere fondi, distribuire cibo, vestiario e dare un’occupazione alle profughe2. A Borgo San Lorenzo furono trovati luoghi di rifugio per oltre 400 profughi, che in parte furono ospitati a villa Senni (Frescobaldi), a Ronta ( a villa Liccioli), a villa Topaia (Romanelli), nella casa colonica del Poggioli (Martini Bernardi)3. A Borgo decine di donne friulane furono adibite alla confezione di vestiario militare, altre prestarono servizi domestici presso le fattorie dei proprietari terrieri più in vista (Pecori Giraldi, Frescobaldi, Negrotto Cambiaso, Maganzi Baldini). E tuttavia non mancarono denunce sullo “scarso patriottismo” di alcuni benestanti e proprietari restii a concedere gli immobili vuoti e l’invocazione per provvedimenti più incisivi come quello di un’“intelligente e severa requisizione”4. Anche per i profughi si manifestò tutta l’impreparazione dello Stato: solo a partire dal gennaio 1918 venne concesso un soccorso continuativo in denaro, non sufficiente tuttavia a consentire un sostentamento adeguato. Nel frattempo la guerra trascinava con sé nuove vittime e nuove emergenze: i trovatelli, i figli dei militari invalidi e numerosi orfani dei combattenti5. Alla fine della guerra questi furono stimati in 345.877, di cui ben 218.024 figli di contadini. Durante la guerra nacquero l’Opera nazionale per gli orfani di guerra (1916), e, nel 1917, il Comitato nazionale per la protezione e l’assistenza degli orfani di guerra6. Anche nel Mugello si formò un comitato per gli orfani dei contadini morti in guerra che si rivolgeva alle scuole rurali, alle congregazioni di carità e ai parroci e di cui fu animatore il borghigiano Francesco Niccolai7. All’inizio del 1919 si costituirono nei vari comuni mugellani le sezioni per l’assistenza civile, morale e religiosa de-
denti dal Comitato provinciale dell’Opera Nazionale di Firenze: “Lo scopo di quest’Opera è quello di assistere civilmente e religiosamente gli orfani dei morti in guerra e curare in modo speciale gli orfani dell’artigianato, della piccola borghesia e degli agricoltori che resteranno in famiglia. […] L’assistenza civile e religiosa si esplicherà specialmente dalla madrina, che aiuterà le vedove nel loro compito di educatrici cristiane, ed aiutandole nei rapporti con gli Enti Pubblici e Privati e trasmettendo ad esse i soccorsi che il Comitato provinciale assegnerà a’ bambini orfani ed avrà altresì cura che questi ricevano una conveniente educazione professionale e cristiana”8. Alla fine del conflitto gli orfani di guerra censiti dal Comune di Borgo San Lorenzo furono ben 236. Fu in questo contesto che riprese vigore la necessità di concretizzare l’istituzione di un orfanotrofio, secondo le volontà di un lascito testamentario di Carlo Romanelli che nel 1885 aveva donato un patrimonio di circa quattrocento mila lire per la fondazione di un orfanotrofio nella “Terra di Borgo San Lorenzo”9. Secondo le volontà del testatore l’orfanotrofio “ha per scopo di ricoverare gli orfani maschi di famiglie di origine e di domicilio appartenenti al Comune di Borgo San Lorenzo, di età non inferiore agli otto e fino ai diciotto anni compiuti, fornendo loro alloggio, vestiario, istruzione religiosa e educazione letteraria e insegnando quei mestieri che secondo le attitudini potranno riuscire ad essi proficui”. Nel 1888 sorse l’Opera Pia Orfanotrofio Romanelli e, secondo lo statuto, spettava all’arcivescovo di Firenze la nomina e la surroga dei membri della commissione di gestione, mantenendo in capo allo stesso l’alta vigilanza. Dopo il 1906, cessato l’usufrutto a seguito della morte della vedova Romanelli, l’ente aveva iniziato la sua attività nel campo assistenziale e della beneficienza a favore degli orfani. La guerra riportò d’attualità il tema della costruzione di una struttura appositamente adibita per l’ospitalità e l’educazione degli orfani. In occasione della visita del cardinale Mistrangelo a Borgo San Lorenzo, nell’ottobre del 1916, il prof. Giovannini intervenne dal-
gero del Mugello” lanciando una Rispettosa istanza a S.E. il cardinale Mistrangelo per esortarlo all’istituzione di un orfanotrofio e di una scuola per “gli orfani dei valorosi dei nostri soldati caduti in guerra”10. Secondo il Niccolai avrebbe dovuto garantire l’assistenza agli orfani e la loro istruzione attraverso una scuola professionale agricola, una scuola di arti e mestieri e uno stabilimento agricolo presso Figliano11. Fu così creato un comitato promotore composto da personalità della borghesia rurale ed urbana come Maurizio Borri, Adolfo Bandini, Guglielmo Sandrini, Chino Chini, Antonio Giovannini, Filippo Sassoli de’ Bianchi, Domenico Del Campana, Francesco Niccolai. Il 24 agosto 1918 il comitato poteva annunciare che Giacomo Romanelli aveva donato “circa un ettaro di terra per fabbricarvi i due edifizi, quello dell’Orfanotrofio e quello della scuola professionale” e che “l’ampiezza dell’area e la posizione bella ed opportuna presso il viale della stazione e la via di Collina accrescono l’importanza e il merito del dono munifico e rendono doppiamente benemerito del Borgo S. Lorenzo e del Mugello il Cav. Giacomo Romanelli”12. La lacuna più grave si verificò nel campo dell’assistenza sanitaria, della quale la guerra aveva dimostrato l’urgenza per una forte recrudescenza di alcune forme morbose, come la tubercolosi, ed il peggioramento generale dello stato di salute della popolazione. Non giunse infatti a compimento il progetto nazionale di un’assicurazione contro le malattie, nonostante la guerra avesse messo in luce la fragilità del sistema mu-
I cittadini dovettero perciò proseguire a rivolgersi all’assistenza privata, a quella fornita dalle società di mutuo soccorso, dalle opere pie, o da altri enti morali. Si svilupparono, comunque, a livello locale alcune iniziative che cercarono di aumentare l’offerta di servizi nel campo dell’assistenza sanitaria. E’ in questo contesto, per esempio, che nacque l’Associazione “Maria Bouturlin ved. Dini” a Barberino di Mugello. Nata inizialmente grazie ad una donazione al Comune da parte del capitano Piero Dini per ricordare la madre e con lo scopo limitato di provvedere alle spese di spedalità per le famiglie coloniche della fattoria di Erbaia, la fondazione assunse presto compiti più generali rivolti a tutta la popolazione e volti alla realizzazione di uno ospedaletto per i malati del comune che però riuscì ad aprire i battenti solo nell’agosto del 1922.
L’Italia dovette sopperire, a livello pubblico e privato, alle necessità di circa 600.000 rifugiati .2 Per le profughe friulane, in “Il Messaggero del Mugello”, 25 novembre 1917, n. 42. 3 Per i profughi, in “Il Messaggero del Mugello”, 18 novembre 1917, n. 41.4 Per esempio, cfr. Vicchio. Patriottismo…a chiacchiere!, in “Il Corriere Mugellano”, 25 novembre 1917, n. 42 5 Cfr. F. NICCOLAI, Legislazione di guerra. Soccorso giornaliero ai trovatelli ed ai fratelli e sorelle di militari con genitori inabili al lavoro, in “Il Messaggero del Mugello”, 20 ottobre1918, n. 41. 6 M. CASALINI, L’assistenza agli orfani dei contadini caduti in guerra, in “La nuova antologia”, 1 dicembre 1916, pp. 361 sgg. 1
F. NICCOLAI, Il Comitato Mugellano per gli orfani dei contadini morti in guerra e l’educazione della donna di campagna, in “Il Messaggero del Mugello”, 7 ottobre 1917, n. 40 8 Assistenza per gli Orfani di guerra, in “Il Messaggero del Mugello”, 12 gennaio 1919, n. 2. A Borgo la sezione fu costituita da Giuseppe Maganzi Baldini, don Canuto Cipriani, don Arturo Bonardi, don Antonio Poli di San Cresci, don Gaetano Bettini di Faltona. Assunse l’ufficio di madrina, la contessina Giselda Pecori Giraldi.9 Problemi del dopo-guerra. I capisaldi dell’orfanotrofio Roma7
nelli, in “Il Messaggero del Mugello”, 4 febbraio 1917, n. 5.10 A. GIOVANNINI, Rispettosa istanza a S.E. il cardinale Mistrangelo Arcivescovo di Firenze, in “Il Messaggero del Mugello”, 22 ottobre 1916, n. 43.11 F. NICCOLAI, La questione dell’istruzione agli orfani civili e di guerra e ai figli del popolo, in “Il Messaggero del Mugello”, 4 marzo 1917, n. 9. L’istituzione Carlo Romanelli verso la sua attuazione. Il munifico dono del nipote Giacomo Romanelli, in “Il Messaggero del Mugello”, 25 agosto, 1918, n. 33 12
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IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 28 FEBBRAIO 2015 - il galletto
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – diciottesima parte
La fine della Prima Guerra Mondiale nel Mugello: cortei e messe celebrano la vittoria
Arrivano migliaia di prigionieri italiani
Antonio Margheri Grappa, dal 24 ottobre di prigionieri austriaci, che in questo periodo La guerra ebbe termine un anno dopo la rotta di Caporetto con la vittoria dell’Italia e dell’Intesa. Per l’Italia, l’esito vittorioso non era affatto scontato, anzi alla fine del 1917 era poco prevedibile e nell’inverno del 1917-1918 si era affacciata persino l’ipotesi di una pace separata. La controffensiva vincente fu quasi una sorpresa. Sul fronte interno, come abbiamo visto anche per il Mugello, i mesi successivi a Caporetto furono assai lontani dal creare una forte e condivisa coesione nazionale. Circolarono veleni, tensioni, odio, lotta indiscriminata ai “nemici interni” e ai “disfattisti”. Vi fu una mobilitazione patriottica della borghesia e dei ceti medi impiegatizi ed intellettuali, l’assistenza al fronte si rafforzò, ma in un clima di forte intimidazione politica e giudiziaria e con un peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza dei cittadini. L’esercito, cacciato Cadorna, tenne dopo Caporetto una condotta difensiva, evitando di dissanguarsi nelle famose “spallate” che tante vittime avevano prodotto senza dare risultati sul versante della conquista del territorio. All’opposto le forze nemiche andarono incontro a un crescente processo di logoramento. I tedeschi fallirono l’offensiva decisiva sul fronte occidentale e gli austroungarici videro fallire nel giugno 1918 gli ultimi sforzi offensivi sul Piave e cominciarono a registrare segni di stanchezza e disgregazione interna. Il 4 ottobre 1918 gli imperi centrali tentarono di chiedere la pace al presidente degli Stati Uniti Wilson. Ma ormai era troppo tardi. Su “Il Messaggero” il prof. Antonio Giovannini chiosò: “C’è il cannone! […] La diplomazia, ossia la parola dei Governi, sta dietro e cammina dietro il cannone. […] L’attore è l’esercito, esecutore della giustizia, strumento provvidenziale della civiltà che vuole governare il suo mondo da padrona e regina. Silenzio dunque: favete linguis”1. Dopo aver sviluppato un’offensiva sul monte
l’esercito italiano passa il Piave e nell’area di Vittorio Veneto manda in rotta gli avversari. Il 3 novembre l’Austria firmò l’armistizio con l’Italia. Alle ore 12 del 4 novembre un comunicato firmato da Armando Diaz diffonde la notizia della fine delle ostilità. E’ un tripudio in tutto il Paese. In ogni angolo del Mugello la gente uscì dalle case e dal lavoro; le campane suonarono a distesa in ogni borgo. A Scarperia il Sindaco Camponi ordinò la chiusura dei negozi con la scritta “Chiuso per esultanza nazionale”. Alle ore 16 tutti furono convocati al Palazzo Comunale per muovere in corteo alla volta del ricordo marmoreo di Cesare Battisti e Nazario Sauro. La sera i balconi e le finestre delle case furono illuminati in segno di esultanza nazionale2. A Vicchio si svolse un corteo che fece il giro del paese per poi sostare davanti alla chiesa “per innalzare, nel giubilo, il doveroso ‘Te deum’ di ringraziamento al gran Dio della giustizia e della libertà”3. A Barberino, su di un palco improvvisato in Piazza Cavour, parlarono il Sindaco Baldi “rievocando tutta la purezza del valore italiano” e poi l’ex socialista Dante Giorgi “che lanciò le sue frecce più ardenti contro l’esponente del militarismo prussiano, contro il ‘gran delinquente del secolo XX’ del Kaiser”4. A Borgo le campane della Pieve suonarono a distesa mentre una imponente dimostrazione si recava alla villa Rimorelli dal Generale Pecori-Giraldi acclamando all’eroico concittadino, al Re, all’esercito. Qui parlarono Adolfo Bandini, il sindaco Frescobaldi e il mutilato Giovanni Santoni. Poi il “corteo patriottico in mezzo a due fitte ali di popolo plaudente percorse le vie principali del paese sostando per deporre corone di quercia al busto di S. M. Umberto I, alle lapidi dei caduti per l’Indipendenza, e del Conte Francesco Pecori-Giraldi, padre dell’illustre Generale Sua E. Guglielmo Pecori- Giraldi”5, che “è salito a Trento redenta, fra molte diecine di migliaia
unico avanzo lacerato del più forte organismo militare del Mondo”6. A Ronta e Pulicciano “coloni delle vicine montagne, presaghi forse della bella notizia, in seguito al suono delle campane, improvvisarono fuochi e spararono colpi di fucile, in segno d’allegria”, mentre si illuminarono completamente lo stabilimento Andreani e il sanatorio militare di Striano. Nei giorni e settimane seguenti si svolsero analoghe manifestazioni patriottiche e numerose e solenni cerimonie religiose furono tenute in onore dei caduti. Assai simili gli addobbi per l’occasione: sulle pareti delle navate si vedevano, accanto a bandiere nazionali, i vessilli di Trento e Trieste. Un catafalco, ornato di drappi tricolori, armi, palme e ceri, si ergeva nel mezzo delle chiese. Come ebbe a dire il pievano borghigiano don Canuto Cipriani il tumulo “più che una funebre significazione, ci appare un Trofeo di Gloria”, simbolo della vittoria e della Patria7. Inequivocabile l’epigrafe che lo stesso pievano aveva scritto e affissa sulla porta maggiore del tempio: Al Cielo innalzando preghiere Per le anime immortali de’nostri fratelli Che in faccia al nemico strenuamente pugnando Affermarono con la Vittoria Nel mondo civile Più grande e più forte rispettato Il nome della Patria ITALIA Oggi nel Tempio di Dio si canti Gloria gloria gloria sempiterna. Iniziava così, avvolto nell’enfasi della vittoria, quel lungo rito della memoria dei caduti che attraverserà quegli anni ed i decenni successivi e che, insieme ad un giustificato e doveroso ricordo ed omaggio, si caricherà di molteplici significati politici, evidenti strumentalizzazioni e intenti propagandistici. Ci torneremo in seguito. Con riferimento sempre a quei giorni ed all’immediato dopoguerra vogliamo invece ricordare
il Mugello, e Borgo in particolare, furono interessati da un importante flusso di migliaia di prigionieri italiani. Ai primi di dicembre erano circa 1500 i prigionieri che avevano trovato alloggio alle fornaci del Brunori e nelle scuole del capoluogo. Altri mille erano stati accantonati nelle campagne ed in alcune ville di Ronta, appositamente requisite. In genere sostavano poche settimane, dopo essere stati identificati, interrogati sulle ragioni della cattura e le condizioni a loro riservate durante la prigionia. Sul “Il Messaggero” si legge anche: “Durante questo tempo hanno ottimo trattamento e larga assistenza. Il rancio, squisito, consiste in carne ben cinque volte la settimana. Ogni ex-prigioniero è sottoposto alla visita medica, quindi inviato al bagno nei locali del lazzaretto. La disinfezione e pulizia sono accuratissime. Ognuno quindi viene rivestito completamente a nuovo, a cominciare dalla biancheria, prima di essere inviato in licenza speciale. […] Ad ogni ex-prigioniero vengono date qui anche 50 lire, immaginarsi quale movimento di capitali ha, tutto considerato, l’amministrazione del locale Centro!”8. Ai primi di gennaio 1919 i prigionieri rimpatriati ed ospitati nel centro mugellano di smistamento erano già oltre 11.000 e per le settimane successive le autorità militari contavano di averne in un numero assai più consistente. Ma dal fronte di guerra stavano rientrando anche i soldati e non tutti avevano vissuto lo stesso film o comunque nutrivano le stesse aspettative o la stessa idea sull’utilità o meno della guerra. Di sicuro tutti, o quasi, avevano vissuto e maturato o sognato o maledetto in un contesto estremo, radicale, violento come solo la guerra, ed in particolare, quella esperienza poteva dare. Iniziava così un drammatico dopoguerra che, per alcuni storici, terminerà solo con la sconfitta del fascismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Ingresso a Trento
Luigi Cadorna con Guglielmo Pecori - Giraldi
Per la grandiosa vittoria, in ibidem. 6 Il colpo finale della 1^ Armata, in ibidem. 7 I funerali ai prodi caduti per la patria, in “Il Messaggero del Mugello”, 19 gennaio 1919, n. 3. 8 I prigionieri al Centro di Borgo San Lorenzo, in “Il Messaggero del Mugello”, 12 gennaio 1919, n. 2 5
A. GIOVANNINI, Discutere? Di che?, in “Il Messaggero del Mugello”, 20 ottobre 1918, n. 41. 2 Scarperia. La grande manifestazione patriottica, in “Il Messaggero del Mugello, 10 novembre 1918, n. 44 3 Vicchio, in ibidem. 4 Barberino, in ibidem. 1
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SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto - IL
MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 14 MARZO 2015 - il galletto
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – diciannovesima parte
Verso la fine della guerra l’epidemia della “Spagnola” sconvolge il Mugello
Antonio Margheri piosi i decessi di giovinet- chi mesi si è diffusa a tutta La Spagnola é ancor oggi ricordata nel mondo come la più grave epidemia di influenza sofferta dall’umanità. Ebbe inizio nel 1917 e terminò nel 1919 con dati di mortalità elevatissimi: cinquanta milioni di persone nel mondo. Secondo l’americano “Bullettin of Medical History”, i morti furono addirittura 100 milioni, la maggior parte in tre mesi terribili, fra il settembre e il dicembre del 1918. Nessun paese, nessun continente fu risparmiato. Tra il 1918 e il 1919 il virus causò più morti della “peste nera”, che sconvolse l’Europa a metà del ‘300. Dopo aver mietuto milioni di vittime, pian piano l’influenza scomparve. Alla fine della primavera del 1919 la pandemia cominciò a perdere colpi. Per avere un’idea della catastrofe umanitaria basta ricordare che la prima guerra mondiale provocò 9,2 milioni morti in combattimento (15 complessivamente); la seconda guerra mondiale, 15,9 milioni di morti. I casi di morte per influenza denunciati in Italia furono 274.041 nel 1918, 31.781 nel 1919 e 24.428 nel 1920; ma se ad essi si aggiunge l’eccedenza di morti denunciati nello stesso periodo di tempo per polmoniti, bronco-polmoniti, pleuriti, nefriti, morti che si presumono dovute a complicazioni influenzali, se ne deve dedurre che l’influenza causò circa 600.000 decessi, la maggior parte verificatisi nell’autunno 19181. I sintomi erano tosse, dolori lombari, febbre, bruciori agli occhi, brividi e freddo che nessuna coperta, per quanto spessa, riusciva a mitigare; successivamente sul viso apparivano macchie brunastre e violacee, i piedi diventavano neri, i polmoni cominciavano a riempirsi di sangue, la bava cominciava a sgorgare dalla bocca fino a provocare la morte per soffocamento in pochissimi giorni. “E’ uno strazio al cuore assistere al succedersi di gioventù che muore nell’età più bella della vita. Sono giovinette dall’animo gentile, buone, anche di fervido ingegno, che si spengono placidamente in questa primavera di sangue, mentre la terra si ammanta di lussureggiante vegetazione. E perché proprio quest’anno si contano più co-
te, l’ammalarsi di esse del terribile morbo che non perdona? Forse vi contribuisce un po’ la denutrizione? Oppure la straziante tragedia che da quattro anni sconvolge il mondo, influisce sull’animo mite di adolescenti fanciulle?”2. E’ questo il primo articolo apparso su “Il Messaggero del Mugello” del 19 maggio 1918 che riferisce, pur senza nominarla, della presenza in Mugello della cosiddetta Spagnola, la grippe, l’influenza, la febbre spagnola, come allora fu variamente nominata questa forma di pandemia3. Simile prudenza rispondeva evidentemente alla necessità di non alimentare situazioni di allarme sociale, peraltro in un periodo assai preoccupante sia per gli approvvigionamenti a singhiozzo che per il malessere e le proteste sociali che stavano montando a livello nazionale e locale. Questo tipo di approccio minimalista ricomparve sulla stampa mugellana a settembre, in occasione di un nuovo picco di diffusione della pandemia: “I giornali quotidiani hanno riferito che in qualche regione si manifestano casi di malattie infettive, con esito qualche volta letale. Non è fenomeno da meravigliare, in quanto è cosa di ogni anno, si può dire; e nemmeno sarebbe da meravigliarsi che, date le circostanze specialissime di questo periodo, esso fenomeno si presentasse con carattere meno sporadico”4. Ed ancora a metà ottobre, in piena diffusione dell’influenza, si continuava sulla linea riduzionista: “L’epidemia continua, ma non deve destare un’apprensione né allarme poiché la vigilanza sanitaria è assidua, ed i colpiti da tale male se la cavano, ad eccezione di rarissimi casi, con due o tre giorni di febbre”5. Fu lo stesso Governo nazionale a sposare una linea di grande cautela anche per evitare che nello spirito pubblico si affermasse un pericoloso rapporto tra la malattia e la guerra in corso. Così, in un opuscolo della Direzione generale della sanità pubblica del Ministero dell’Interno e diffuso in grandi quantità in tutti i comuni d’Italia, si affermava in modo inequivocabile: “La malattia che in po-
l’Europa, anzi si può dire al mondo intero, e che corre attualmente molte regioni di Italia, ha suscitato fantasie e leggende, che hanno agitato lo spirito delle popolazioni. […] si è pure detto di una elevata mortalità con ripetute morti fulminee. Tali voci non hanno alcun fondamento”6. Alla fine di ottobre 1918 la Spagnola, “più tedesca che spagnola” come allusivamente riportava la stampa locale7, si stava diffondendo un po’ dappertutto: “Ha voluto fare una visita anche su questa montagna [Ronta], visita assai sgradita, perché tutti cercano di sfuggirla e di non capitare sotto le sue carezze! Le epidemie sono come le comete, ogni tanto fanno la loro apparizione. Non si allarmino però queste tranquille popolazioni, ma sibbene curino l’igiene, la pulizia e le disinfezioni, siano tutti parchi nel mangiare e nel bere, eppoi lascino fare al destino”8. A Vicchio: “Gli ammalati sono molti; ma il morbo non si è presentato in forma letale che in pochi casi. In un comune come questo che conta oltre 14.000 abitanti e che ha ospitato anche tre compagnie di soldati non si sono avuti, in una trentina di giorni, più che settanta decessi […] Più che altro, le vittime si contano nella popolazione delle campagne”9. Le cronache locali, soprattutto da metà ottobre alla fine di novembre 1918, riportano numerosissimi necrologi. Colpisce in primo luogo l’età di molte vittime, uomini e donne tra i quindici ed i quarant’anni, scomparsi “nel rigoglio della bella giovinezza” e “per un fatale e improvviso morbo”. Molte di queste appartenenti a famiglie della borghesia cittadina, anche se le cronache parlano di una larga diffusione della malattia nelle campagne. Molti necrologi si riferiscono anche a militari colpiti dal morbo sui campi di battaglia. Anche nei campi militari della zona si registrarono numerosi ammalati e probabilmente la mobilità dei soldati contribuì alla diffusione della malattia. In genere i rimedi prescritti contro la “Spagnola” si limitavano alla cura dell’igiene personale10. A livello amministrativo le autorità civili disposero per disinfestare gli
ambienti pubblici e persino le chiese: “I parroci debbono provvedere ad energiche disinfezioni delle chiese, specie nei giorni festivi far ripulire dalla polvere anche più volte al giorno nella stessa giornata perché mobili ed altari, far lavare con la massima cura le grate dei confessionali, mutare sovente l’acqua santa nelle pile e far lavare e disinfettare queste cose con soluzione tonica. Per l’accompagnamento del viatico interdiranno l’ingresso nella camera degli ammalati e debbono usare sempre gli stessi indumenti sacri curandone la disinfezione dopo l’uso ed il deposito in un luogo appartato. […] fare opera di incoraggiamento presso le popolazioni, specialmente quelle rurali più soggette a credenze superstiziose e a panico ingiustificato…”11. Dopo la morte, squadre di disinfestatori intervenivano nei locali delle vittime usando sublimato corrosivo, acido fenico, calce viva. Per gli ammalati veniva prescritta la somministrazione di iodoformio, chinina oppure pastiglie e sciroppi che magari possono far guarire da un raf-
freddore. Per la pulizia della bocca e delle narici, si consigliava acqua e sapone o una soluzione all’1 per mille di acido salicilico. Spesso a questi farmaci si associava olio di ricino ed una dieta “tenue e liquida”, che contribuiva a debilitare ancor di più l’organismo. Sulla stampa nazionale e locale, si pubblicizzavano medicinali miracolosi. Ma in verità nessuno sapeva come gestire l’emergenza. Ecco allora comparire sputacchiere professionali, divieti di abbraccio, ordini di chiusura per cinema e teatri, scuole e campagne a favore della segregazione dei malati. Ciò che colpisce però è il tentativo di nascondere alla popolazione la diffusione dell’epidemia. La censura calò la sua scure su tutto. Ma se nella primavera del 1919, l’influenza spagnola perse la sua spinta mortale, il 29 giugno un terribile terremoto sconvolse di nuovo il Mugello, con il suo carico di morte e di rovine. Stime effettuate portano a ritenere che il numero di italiani colpiti dalla Spagnola fu oscillante tra i cinque e i sei milioni. Il Mortara calcolò che le vittime della Spagnola, 1
dall’agosto del 1918 al marzo 1919, non furono in Italia meno di 600.000. 2 Fiori che muoiono, in “Il Messaggero del Mugello”, 19 maggio 1918, n. 19. 3 Soltanto da pochi anni è stato scoperto il segreto dell’influenza Spagnola ed individuato esattamente lo scambio di geni avvenuto tra il virus di origine aviaria e quello dell’influenza stagionale allora in circolazione. 4 Per la pubblica salute, in “Il Messaggero del Mugello”, 22 settembre 1918, n. 37. 5 La salute pubblica, in ivi, 13 ottobre 1917, n. 40. 6 Ministero dell’Interno, Direzione generale della sanità pubblica, Istruzioni popolari per la difesa contro l’influenza, Roma, Tipografia L. Altero, 1918, p. 3. 7 Tra i tanti stereotipi che allora si diffusero sull’origine della Spagnola ve ne furono alcuni che attribuivano alla Germania la responsabilità del contagio. 8 La Spagnola!, in “Il Corriere del Mugello”, 27 ottobre 1918, n. 42. 9 Vicchio. La salute pubblica, in ivi, 3 novembre 1918, n. 43. 10 Per curare e prevenire l’influenza, in “Il Messaggero del Mugello”, 2 novembre 1918, n. 43. 11 Disposizioni al clero per le precauzioni igieniche contro l’influenza, in “Il Corriere del Mugello”, 27 ottobre 1918, n. 42.
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PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – ventesima parte
La propaganda sull’eroismo mugellano nella Grande Guerra
Antonio Margheri lo sdegno manifestato dalle gero”: “Egli è forse il primo rito in uno scambio di priLa Prima Guerra Mondiale si rivelò uno spettacolo ed una tragedia umana senza fine. Fu un’industria tecnologia della morte di massa che annullò ogni soggettività cancellando definitivamente qualsiasi residuo romantico, legato al duello a viso aperto, consegnando i combattenti, prima ancora di farli morire, alla percezione dell’invisibilità del nemico e all’anonimato. Nella guerra affidata alla tecnologia, e non certo agli atti individuali ed al coraggio, gli uomini vennero utilizzati come massa d’urto da impiegare senza risparmio in stragi inutili che non portarono a risultati concreti e risolutivi sotto il profilo della conquista territoriale. Il simbolo della guerra, per milioni di soldati, fu la trincea, prima non c’era mai stato niente di simile. Nella trincea gli uomini erano nella condizione di formiche, ammassati in centinaia di migliaia, obbligati a strisciare nella terra e nel fango. Sulla testa dei soldati si schiantavano granate, obici, proiettili di cannone di grosso calibro che, oltre la morte, provocavano annichilimento totale, sordità, mutismo. Ma se questa fu senz’altro l’esperienza per milioni di uomini, la censura e la propaganda celarono al Paese la drammatica realtà e riproposero, a tutti i livelli (nazionali e locali), la figura dell’”eroe” e del “martire” secondo i canoni della retorica patriottica e della mobilitazione sistematica di risorse, persone, pensieri ed emozioni. E quindi anche il Mugello ebbe i suoi “eroi di guerra”, celebrati sulla stampa, nelle piazze, nei consigli comunali, nelle chiese e, successivamente, nella toponomastica, nei monumenti, nelle targhe. Figura eroica da celebrare fu Guglielmo Pecori Giraldi1, nato a Borgo San Lorenzo il 18 maggio 1856 da Francesco (patriota liberale e volontario) e Maria Genta. Iniziato subito agli studi militari, Guglielmo partecipò alle campagne in Eritrea del 1887, ‘88, ‘95, ‘96 e ‘97. Nell’ottobre 1911 assunse il comando della 1ª divisione mobilitata per la guerra coloniale in Libia. Venne però estromesso il 7 marzo 1912 e collocato a riposo e iscritto nella riserva, per addebiti che la IV Sezione del Consiglio di Stato in seguito ritenne infondati. Inutile dire
pagine de “Il Messaggero” per le accuse contro il Pecori, attribuite ad oscure manovre massoniche e giornalistiche. Fu richiamato in servizio temporaneo da Cadorna, il 1° marzo 1915. Da questo momento Guglielmo diventa la gloria mugellana per eccellenza, continuamente omaggiato con articoli e telegrammi delle autorità locali. Comandò la 27ª divisione, formata dalle brigate Benevento e Campania, con la quale partecipò alla II Battaglia dell’Isonzo (18 luglio-3 agosto 1915) nel settore del Monte Sei Busi. Il 10 agosto 1915 venne promosso al comando del VII corpo d’armata, nel settore carsico. Il 9 maggio 1916 assunse il comando della I armata con la quale fronteggiò la grande offensiva austriaca sugli altipiani (la “Strafexpedition”). Riuscì a rallentare lo sfondamento operato dagli austriaci nei settori di Val Terragnolo e dell’Altopiano di Tonezza. Nell’agosto 1917 supervisionò il processo contro 29 soldati dell’8° reggimento di fanteria che si erano ammutinati esigendo la pace e sette di loro vennero giustiziati. Ai primi di novembre 1918 la 1ª armata avanzò su Rovereto e Trento, spingendosi poi fino alla linea d’armistizio. L’ingresso a Trento suscitò entusiasmo generale nel Mugello. Dalla data dell’armistizio italo-austriaco, il 3 novembre 1918, e fino al 31 luglio 1919 ricoprì la carica di Governatore civile e militare della Venezia tridentina (Trentino, l’Alto Adige e l’Ampezzano)2. Dopo la guerra divenne presidente della Fondazione “3 novembre 1918 pro combattenti della I Armata”3. Altro personaggio che fu largamente ricordato ed omaggiato per il suo valore fu Oreste Bandini, comandante delle Truppe Italiane del Corpo di Occupazione d’Albania. Nato a Borgo San Lorenzo l’11 luglio 1860 da Giovan Battista Bandini, appartenente ad una delle famiglie più antiche di Borgo, aveva frequentato la Scuola Militare di Modena e la scuola di guerra. Nel 1898 divenne Maggiore dell’VIII Corpo d’Armata di Firenze. Il 16 febbraio 1915 fu nominato Capo di Stato Maggiore della IV Armata. Morì nel naufragio della corazzata Regina Margherita che trasportava le truppe in Albania. Scrisse il ”Messag-
tenente Generale italiano, e certamente il più giovane e insieme il più valoroso, che sia morto vittima della guerra”4. Appartenente ad una patriottica famiglia borghigiana che ebbe diversi morti nella Prima guerra, fu il giovane Garibaldi Franceschi5, volontario, insignito della medaglia d’oro al valor militare: “Non ancora ventenne, e comandante di un plotone di arditi, aveva già durante la stagione invernale compiute col suo reparto varie piccole e audaci azioni, per le quali era stato posto per una medaglia di bronzo e una d’argento. […] Dalla mattina del 23 maggio, mentre il suo reggimento si accingeva all’ardua offensiva sulla fronte di Castagnavizza, il Franceschi si mostrava pieno di fervore e di santa impazienza. S’era munito di un piccolo tricolore e s’era promesso di piantarlo, lui primo, sulle rovine della martoriata Castagnavizza. Quando fu dato l’ordine dell’assalto, balzò in testa al suo plotone e lo condusse impavido fino alla meta designata. Colpito due volte, non curò la ferita; e mentre tentava di piantare sulla posizione conquistata il segno tangibile della vittoria, una raffica di mitragliatrice lo colse, e lo rovesciò, morto, sulla doppiamente consacrata bandiera”. Grande risalto sulla stampa locale fu tributato a Francesco Bati morto il 4 gennaio 1918. In lui s’incarnava la figura del valoroso resistente dopo la rotta di Caporetto.: “Nei giorni tristi dopo Caporetto, tenne sempre in pugno i suoi e potè presentarsi a domandare un posto d’onore ad impedire al nemico il passo verso Venezia eroica. E là è caduto. […] In Luco è un sussulto solo di pianto. […] In questi tempi di bassura oppressiva, mentre il nemico insolente preme alle porte, non reca dolore un’anima bella che parte, ma è anche e sopra tutto un incitamento ed un esempio”6. “Vittima lagrimata, della ferocia e brutalità Austriaca”7 fu, per la stampa dell’epoca, la figura del maggiore di Ronta Gaetano Magnani8. Ferito il 27 giugno del 1916, nel corso della StrafeExpedition, fu catturato ed imprigionato a Mathausen. In quanto ufficiale fu inse-
gionieri e lasciò il campo il 16 aprile 1918. Da questo momento le informazioni diventano lacunose. Sembra venisse fermato in possesso di documenti segreti che documentavano le pessime condizioni dei prigionieri italiani. Le notizie sulla sua morte sono frammentarie e contraddittorie: suicidio? malattia? ucciso dal nemico? La versione di allora fu subito quella della “barbarie del nemico”9. Nel marzo del 1918, con un servizio sulla “Domenica del Corriere”, era partita una campagna propagandistica per denunciare la ferocia del nemico nei confronti dei prigionieri di guerra. Nel giugno del ’18 i giornali annunciarono che nostre piccole siluranti (Mas), comandate dal celebre Luigi Rizzo, avevano affondato la corazzata Santo Stefano, la nave più moderna e potente della Marina austriaca. Capo timoniere della Mas affondatrice era Armando Gori, di Molezzano10. I settimanali locali, grondanti di orgoglioso patriottismo, dedicarono pagine intere all’impresa di Armando Gori. Tutti i consigli comunali si riunirono per omaggiare l’eroe. L’impresa fu anche provvidenziale per il Comune di Vicchio togliendolo dall’imbarazzo dell’accusa di “disfattismo” rivolta all’intero paese da parte delle frange più estreme del nazionalismo e dell’interventismo mugellano11.
1 Nonostante l’importanza del personaggio, ci pare che ancora oggi non esista una biografia scritta secondo un rigoroso e serio criterio storico. Di carattere agiografico: Amedeo Tosti, Il Maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori-Giraldi e la I^ armata, Torino, Bona, 1940. Sono invece numerosi gli studi di storia militare sulla 1^ Armata. Senz’altro utile la pubblicazione: Guglielmo Pecori Giraldi Maresciallo d’Italia. L’Archivio, a cura di Mauro Passarin, Vicenza, Comune di Vicenza - Musei Civici Museo del Risorgimento e della Resistenza, 1990, 4°, pp. 146. 2 Umberto Corsini, Le quattro relazioni del generale Pecori-Giraldi quale governatore militare nel Trentino-Alto Adige – Ampezzano nel periodo 3-11-1918 – 31-7-1919, Trento, Temi, 1978. 3 Nel 1919 fu nominato Ge-
Armando Gori
Gaetano Magnani
Guglielmo Pecori Giraldi
nerale d’Esercito e senatore del Regno. Nel 1926 gli fu conferito il grado di maresciallo d’Italia. Morì il 5 febbraio 1941 a Firenze, dove fu sepolto. 4 La morte di S.E. il Ten. Generale Oreste Bandini, in “Il Messaggero del Mugello”, 24 dicembre 1916, n. 52 5 Garibaldi Franceschi, in “Il Messaggero del Mugello”, 16 settembre 1917, n. 37 6 Francesco Bati nell’albo degli eroi, in “Il Messaggero del Mugello”, 20 gennaio 1918, n. 3
saggero del Mugello”, 22 settembre 1918, n. 37 8 Cfr. il profilo biografico del Magnani di Pier Tommaso Messeri in www.cimeetrincee.it 9 Il Maggiore Magnani, in “Il Messaggero del Mugello”, 15 settembre 1918, n. 36 10 Innumerevoli gli articoli d’epoca sulla stampa nazionale e locale. Per un profilo biografico cfr. Aldo Giovannini, La storia di Armando Gori, il Comandante mugellano eroe di Premuda, 3 novembre 2011, in www.okmugello.it 11 Per un paese diffamato, “Il Corriere Mugellano”, 28 giugno 1918, n. 24
G. Giunti, L’eroico Maggiore Magnani, in “Il Mes-
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PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – ventunesima parte
Combattenti contro combattenti, dopo la Guerra Antonio Margheri ta a 709.000. Poi la “spa- to, qualche stanziamen-
A distanza di anni dalla fine della Grande Guerra, Augusto Monti1 scrisse: “I movimenti politici di combattenti, qualunque siano le intenzioni dei capi e dei gregari, fatalmente sboccano in movimenti nazionalistici e imperialistici […] I problemi dei combattenti possono essere risolti, e non differiti, solo da partiti di non combattenti che professino idee e propugnino programmi non di guerra ma di pace: da partiti in cui i combattenti siano accolti non come ‘combattenti’ ma come civili, come ‘cittadini’”. Fu così dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Liberazione. La vicenda fu molto diversa, invece, dopo la Grande Guerra. Varie e complesse furono le cause. Innanzitutto il Paese quella guerra non l’aveva voluta, ma subita, imposta dal Re e da una minoranza interventista; era stata una strage lunga ed inutile. Nel 1931 la lista dei defunti era arriva-
gnola”, altri 500.000 decessi. Alle perdite totali di guerra si aggiunsero oltre un milione di feriti e decine di migliaia di mutilati o invalidi permanenti, tra cui 2000 ciechi di entrambi gli occhi, 5000 pazzi, 3000 muti, decine di migliaia di vedove ed orfani e via dicendo. Il Paese uscì stremato dalla guerra ed ancora di più radicalizzato. Per rinsaldare l’esercito dopo Caporetto, il Governo era ricorso ad allettanti promesse verso i combattenti e dopo si pretendeva, giustamente, che fossero mantenute. I partiti di massa si formarono di fatto nell’immediato dopoguerra e, come le classi dirigenti, non erano ancora attrezzati ad affrontare le questioni dei reduci e dei combattenti. Né avevano avuto il tempo necessario per farlo, come invece avverrà per il secondo dopoguerra. La smobilitazione fu affrontata dalla metà di novembre 1918 con l’istituzione di uffici di collocamen-
to per opere pubbliche, la concessione di indennità, un pacco vestiario, le polizze Nitti ed infine il 16 gennaio 1919 fu varato il regolamento legislativo dell’Ordine Nazionale dei Combattenti, che però si rivelò scarsamente operativo2. Troppo poco in un Paese uscito impoverito dalla guerra ed afflitto dalla carenza di generi alimentari e da un’inflazione alle stelle. La guerra non aveva affratellato le coscienze bensì continuò a dividerle e dopo la smobilitazione anche i combattenti, pur avendo vissuto nelle trincee la stessa guerra, trovarono risposte diverse a problemi in gran parte comuni. Ma anche, e tragicamente, si trovarono a combattere tra di loro e non solo a parole. Anche le vicende del combattentismo mugellano si iscrivono in questa sintetica trama nazionale facendo emergere profonde divisioni e molte di quelle trame che porteranno agli esiti di percorsi individua-
li contrapposti di fronte al fascismo. Come abbiamo scritto in precedenti articoli, per gli interventisti la guerra non fu semplicemente il completamento dell’”epopea risorgimentale” con l’annessione di nuovi territori, bensì l’occasione per una rigenerazione più totale del Paese. Paladino di questa missione di palingenesi attribuita alla guerra ed all’esercito fu sulle pagine de “Il Messaggero del Mugello” il professor Antonio Giovannini: “L’attore è l’esercito, esecutore della giustizia, strumento provvidenziale della civiltà che vuole governare il suo mondo da
padrona e da regina” (“Il Messaggero del M.”, 20 ott. 1918) Ed ancora: “La guerra ha operato una selezione di cittadi-
ni, cioè dei contrari e dei favorevoli. Che potranno rappresentare nella nuova grande Italia quelli che hanno sempre combattuto la guerra, che l’ha
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fatta grande? […] Tutto deve tornare italiano: veramente italiano; parlamento, amministrazione, scuole, officine, industrie, consigli comunali, banche e agricoltura non solo in se stessi, ma anche in tutti quelli che l’eserciteranno”. Quando nel marzo del 1919 si svolse a Milano il primo congresso dell’Associazione Nazionale dei Combattenti (ANC), Giovannini vide nel nuovo organismo lo strumento per “superare con la coscienza di uomini nuovi tutta la vasta e multifor-
pronta di debole accozzaglia”. (“Messaggero del. M.” 9 marzo 1919). La guerra doveva continuare sul fronte interno per arrivare finalmente a quell’ “epurazione civile” quale “proseguimento logico e necessario” di quella “coscienza della guerra che è negazione della mentalità e della psicologia dell’avanguerra, ed affermare finalmente il ”Primato degli italiani purificati dalla guerra”. In generale, le masse contadine ed operaie rimasero estranee a questi richiami guerreschi. Trovarono in-
pre tra tentativi di svolgere un ruolo direttamente politico oppure concentrarsi sulle rivendicazioni degli ex combattenti. All’avvento del fascismo (ottobre 1922) assunse una posizione neutrale che finì per consegnarla al regime. Nell’aprile 1923, Mussolini riconobbe all’ANC., in via esclusiva, la rappresentanza dei reduci e la loro tutela presso il governo e l’Ordine Nazionale dei Combattenti. In contrapposizione all’ANC, nell’ambito del movimento socialista, nacque la Lega Nazionale Proletaria fra Mutilati, Invalidi e Reduci di guerra: “Anziché una sezione della Associazione Nazionale combattenti, tanto per continuare la cuccagna dei capoccioni; avanzi e frantumi dei famosi fasci e comitati del fronte interno, vecchi arnesi di polizia, nido di spie e covo del più vero disfattismo. Ed il grido a noi! terminata la guerra, non va. E’ l’ora di smobilitare uomini, cervelli e parole. Coi proletari, contro di voi! Proletari, coi proletari!”4. A marzo del 1919 venne istituita a Borgo la prima sezione: segretario, Luigi Squarcini mutilato; cassiere Lorenzo Viliani reduce; consiglieri: Gino Buffi mutilato , Guido Billi invalido , Pasquale Brilli invalido, Celestino Rossi invalido, Attilio Fredducci reduce.5 Nel
me e limacciosa caterva dei partiti, prendendo nelle lotte politiche un atteggiamento tale da purificare la vita pubblica di tutti i miasmi, le disonestà, le camorre che la infestano” (“Messaggero del M.”, 16 marzo 1919). Ed anche l’ex ardito volontario e borghigiano Angelo Tarchi (che farà carriera di ministro durante il Ventennio, fino alla Repubblica di Salò) invitava i reduci a “serrare le file, stretti in ogni centro come in un pugno di ferro... un fascio che torna dalla trincea e che si impone alle volontà decrepite vecchie e nuove..che abbia l’impronta sicura schietta di maschia virilità, palestra dell’anima, del cuore e della mente, non im-
vece ascolto in alcuni settori della piccola e media borghesia urbana, tra gli ex sottoufficiali dell’esercito che mal si rassegnavano a tornare nei ranghi della normale vita civile dove, tra l’altro, stavano emergendo nuovi soggetti politici e sociali che ne potevano mettere in pericolo status e visibilità raggiunta durante il conflitto. La storia dell’ANC è tuttavia molto complessa. Se a Firenze ebbe una forte impronta nazionalista per la presenza di Francesco Giunta (personaggio di rilievo nazionale del fascismo e con molti rapporti con il Mugello)3, all’interno dell’organizzazione furono forti anche posizioni diverse ed antifasciste. L’ANC oscillò sem-
programma della Lega figuravano le seguenti richieste: blocco delle pigioni, inserimenti lavorativi, sanatori antitubercolari, assistenza agli orfani, pensioni uguali per tutti (indipendentemente dal grado dei militari), protesi per i mutilati, cure termali e balneari, “la più larga amnistia vuotando così le carceri militari zeppe di uomini condannati a pene enormi ed ingiuste in rapporto dei reati commessi”, fine della censura, l’“assegnazione delle pensioni di guerra a congiunti dei poveri soldati fucilati sommariamente, solo perché ebbero la disgrazia di inciampare in un numero sorteggiato”, l’indennità di guerra ai prigionieri, infine,
un’ “inchiesta rigorosissima sul servizio Pacchi della Croce Rossa Italiana, e rimborso alle famiglie dei pacchi non giunti a destinazione”6. La Lega fece valere le proprie richieste anche nei confronti delle Amministrazioni comunali. A Borgo, una commissione composta da Guido Billi, Celestino Rossi ed Ersilio Donatini presentò un memoriale al sindaco Frescobaldi, ricavandone però ben poco. Dopo un anno di intensa attività, nell’aprile del 1920, la Lega borghigiana inaugurò il proprio vessillo fatto dalle donne borghigiane che “porta l’iscrizione trapunta in giallo su sfondo sanguigno a bordo nero, sormontando l’asta la fiaccola rossa emblema della rivolta”. Al corteo presero parte 2500 persone ed oltre 40 associazioni: “il corteo si snodava fra i gioiosi inni ribelli delle musiche, ai quali facevano eco, in coro concorde, le voci dei partecipanti”7. Dal 1921, l’attività della Lega proletaria andò man mano declinando per poi essere travolta nella generale repressione delle organizzazioni proletarie operata dalle squadre fasciste. In ambito cattolico prese forma l’Unione Nazionale fra militari cattolici, invalidi e reduci di guerra. Questa fu ideata alla fine del 1918, per iniziativa della Gioventù cattolica italiana. All’inizio l’attività fu scarsa. L’Unione reduci tenne il suo primo congresso a Roma fra il 17 e il 20 ottobre 1919. Sostenne le tipiche rivendicazioni degli ex combattenti, come l’estensione della polizza, l’aumento delle pensioni di guerra, il collocamento dei mutilati. Antonio Pini ( presidente della Velox, ex prigioniero di guerra e consigliere comunale del Partito popolare a Borgo) divenne il rappresentante mugellano dell’Unione. Ancora negli anni ’22-’25, nonostante dovesse subire l’ostilità e le violenze dei fascisti, l’Unione mantenne una certa solidità e sopravvisse per qualche tempo alla svolta autoritaria del regime, per poi essere definitivamente soppressa. Augusto Monti fu insegnante ed intellettuale di rilievo. Partecipò come volontario alla guerra e fu prigioniero in Austria. 2 L’ONC comprendeva tre settori: uno agrario (costituzione di un patrimonio terriero, concessioni in utenza), uno sociale (ripresa del lavoro, promozione di associazioni e cooperative) e 1
uno finanziario (credito ai combattenti). Queste iniziative nazionali furono fortemente appoggiate e valorizzate a livello locale attraverso manifesti, appelli ed apposite conferenze organizzate dai Sindaci e dai Comitati di preparazione civile. 3 Francesco Giunta era nato a San Piero a Sieve il 21 marzo 1887. Partecipò come volontario alla guerra e fu un legionario fiumano. S’iscrisse al Partito fascista nel 1920 e assunse l’incarico di commissario politico della Venezia Giulia dove si distinse per assalti incendiari a sedi sindacali e slave. Fu il primo ad usare armi da fuoco contro i coloni mugellani.
Intimo amico di Mussolini, collaborò alla stesura del Concordato nel 1929. Fu un punto di riferimento per i fascisti mugellani per tutto il Ventennio. 4 Alcuni mutilati, I “desiderata” della Lega Proletaria Mutilati, in “Il Corriere Mugellano”, 1 giugno 1919, n. 22. 5 Sezione della Lega Nazionale Proletaria fra Mutilati, Invalidi e Reduci di Guerra, in “Il Messaggero del Mugello”, 6 aprile 1919, n. 12. 6 I “desiderata” della Lega Proletaria Mutilati, in “Il Corriere Mugellano”, 8 giugno 1919, n. 23. 7 L’inaugurazione del vessillo della Lega Proletaria Mutilati di guerra, in ivi, 22 giugno 1920, n. 16.
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PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – ventiduesima parte
Il Mugello dalla trincea alla piazza: i moti sociali nel 1919
Antonio Margheri teri tipici della società e proteste da parte delle masLa fine della guerra offrì agli occhi dei contemporanei uno scenario che pochi anni prima sarebbe stato inimmaginabile. Una ventina di monarchi erano stati detronizzati e al posto delle monarchie erano sorti Stati repubblicani; l’impero austro-ungarico si era disintegrato, così come l’Ottomano. Al posto dell’impero zarista, la rivoluzione bolscevica aveva dato vita alla Repubblica dei Soviet; gli Stati Uniti erano pronti a sostituire nel suo primato mondiale l’Europa, pochi anni prima potente, orgogliosa, prospera. Il continente europeo si scopriva devastato, impoverito, affamato, squassato da agitazioni di massa, moti rivoluzionari e conflitti etnici. Se grande era stata la guerra, altrettanto grande e ancor più lungo si presenterà il suo dopoguerra tanto che molti storici tendono a stabilire, se non un continuum, uno stretto rapporto tra la Prima e Seconda guerra mondiale. In particolare fu sul biennio 1919-1920 (noto come biennio rosso) che si scaricarono molte delle tensioni accumulate nelle trincee e nel fronte interno del Paese, dove milioni di uomini e donne con il loro lavoro avevano ugualmente contribuito con grandi sofferenze allo sforzo bellico della nazione. La questione sociale che si aprì in quegli anni, si intrecciò inoltre con le virulente ed opposte interpretazioni sulla guerra che fin dall’inizio avevano profondamente lacerato il Paese. Il rientro dei vivi (spesso malati, invalidi, traumatizzati) rese ancor più evidente il vuoto lasciato dai tanti morti. I risultati della Commissione parlamentare di inchiesta su Caporetto (divenuti di pubblico dominio all’inizio di agosto 1919) e il mancato riconoscimento delle pretese italiane su Fiume e la Dalmazia offrirono nuovi argomenti al processo contro la guerra di socialisti e giolittiani mentre sul fronte opposto (nazionalisti e mussoliniani) si rivendicavano le virtù moralizzatrici della nazione in armi tradita dai disfattisti e dal parlamentarismo debole, corrotto ed inconcludente. Speranze, sogni, interessi, esperienze, memorie si fronteggiavano e si contrapponevano in un contesto politico e sociale che aveva assunto i carat-
della partecipazione di massa che la “guerra totale” aveva sollecitato e alimentato. Anche il Mugello fu attraversato da questa nuova realtà. In particolare il 1919 si presenta come un anno straordinariamente denso di eventi e novità. Un anno anche drammatico nel Mugello se pensiamo all’influenza spagnola che imperversò dall’autunno del 1918 alla primavera del 1919 facendo centinaia di morti ed al terremoto del giugno del 1919. Nell’articolo precedente ci siamo
saie che, spesso, venivano denunciate ed arrestate come disfattiste).. Ma durante la guerra c’era anche chi s’era arricchito, il lusso di alcune famiglie si vedeva, c’era chi aveva magari “imboscato” i figli con la scusa della fornitura militare. Anche la stampa aveva rilevato un “intenso giro di denaro” stimato “da tre a quattro volte maggiore di quello che riscontravasi negli anni avanti la guerra”, “indice di una discreta agiatezza”1. “Solo le cambiali sono in forte diminu-
I mutilati chiedono il pane al Governo
soffermati ad analizzare il fenomeno dei reduci e delle loro organizzazioni combattentistiche. Nel prossimo affronteremo il tema del movimento contadino. Qui vogliamo, sinteticamente, dare un’idea del “risveglio” sociale e politico che investì il Mugello prima delle elezioni politiche dell’autunno del ’19. Finita la guerra, l’economia mugellana cresciuta sulle forniture militari (vestiario, calzature, proiettili, miniere di lignite, coltellineria) viene smobilitata e generando una vasta disoccupazione, anche per il rientro delle prime classi di reduci. Le attività tradizionali (comprese quelle industriali, come il Brunori o il Chini) restarono ancora per diversi mesi ferme, per l’accantonamento dei militari o dei prigionieri o per mancanza di materie prime, energetiche o blocco dei traffici nazionali (la Faentina resterà ancora per un anno interclusa al traffico viaggiatori). L’agricoltura uscì stressata dalla guerra, impoverita dalle massicce requisizioni militari: il patrimonio bovino, boschivo e la produzione agricola erano ai minimi storici, insufficienti anche per la popolazione locale. Dal 1917 la situazione alimentare si era fatta pesante per il mercato nero, la mancanza di prodotti indispensabili (uova, zucchero, carne, burro, frutta, olio, vino, legname), il pane (un “intruglio indecifrabile”, all’origine di innumerevoli
zione. Da ciò si deduce che in una parte delle nostre popolazioni vi è un forte miglioramento nelle condizioni finanziarie, al quale peraltro fa riscontro un aggravamento di miseria in quelli che vivono con uno stipendio fisso, stipendio che non può sopperire (per quanto possa essere aumentato) al sempre crescente costo di viveri, di indumenti, ecc.”2. I prezzi all’ingrosso crebbero più del 400% nel periodo dal 1914 al 1918. E’ nell’intreccio tra difficoltà e bisogni economici, forte senso dell’ingiustizia per le ineguaglianze ed i privilegi crescenti, desiderio di rompere le catene repressive del sistema di guerra e nuova consapevolezza del ruolo svolto durante gli anni del conflitto che ebbero modo di manifestarsi ed organizzarsi le grandi lotte del dopoguerra. Per molti fu anche il sogno di un’età e di una società nuova, in cui sembrava possibile osare e pensare tutto, come in Russia. Quello che stupisce, anche in una realtà arretrata come il Mugello, è la varietà dei soggetti che furono protagonisti nella mobilitazione sociale del dopoguerra. A dicembre del 1918 entrarono in agitazione i ferrovieri. Le richieste non si limitavano agli aspetti economici (8 ore di lavoro e riposo settimanale, caro-viveri in egual misura per tutti, indennizzo alle maggiori spese incontrate durante la guerra, assunzione degli
avventizi) ma riguardavano anche i diritti politici (amnistia completa ai condannati politici, diritto di sciopero, reintegrazione dei licenziati del 1907 e 1914)3 e la politica internazionale (ritiro delle truppe alleate dalla Russia rivoluzionaria)4. Anche i dipendenti pubblici “di varia condizione e d’ogni partito, dopo 5 anni di forzata inerzia”5 dettero vita alla Associazione Regionale Mugellana degli impiegati e salariati comunali per ottenere aumenti salariali, diritto alle ferie, indennità di malattia, lotta al carovita attraverso una maggiore vigilanza e il mantenimento dei calmieri6. I maestri a maggio proclamarono scioperi, come gli edili, i minatori, gli operai7. Le forze mobilitate erano diverse, talvolta persino contraddittorie. Ma in questo primo semestre del 1919 questo groviglio di tensioni ed ideali, incarnate da persone di diversi mestieri e condizioni, trovò molte occasioni di unità d’azione. Giustizia, ripartizione equa dei sacrifici, lotta contro gli speculatori, il rispetto per le promesse a fronte dei sacrifici fatti fu il terreno comune per molti del popolo. Fu tra maggio e giugno, all’indomani di repentini aumenti dei prezzi, che il malessere sociale si trasformò in movimenti e rivolte annonarie. Il culmine delle agitazioni fu raggiunto nel luglio del 1919, in concomitanza con i tumulti contro il carovita che esplosero in vaste aree del Paese ed nella città di Firenze (conosciuti con il nome di bocci-bocci)8. I Comuni furono interlocutori e controparte dei movimenti sociali su un’ampia gamma di problematiche (prezzi, lavoro, mercato, ordine pubblico, vigilanza, ecc.): nella “società di guerra” mobilitata e tesa nello sforzo bellico erano cambiati i popoli, ma anche il peso politico (e di conseguenza l’importanza
del suo controllo) del governo locale. I pro-memoria del sindaco di Borgo Frescobaldi raccontano nei dettagli quei giorni frenetici di protesta che, comunque, non raggiunsero i livelli di
Firenze (con l’assalto e numerosi saccheggi delle merci dai negozi). A guidare la lotta a Borgo furono i ferrovieri (allora circa 250) e la Lega proletaria fra mutilati, invalidi e reduci di guerra, fortemente sostenuti dai disoccupati, le donne e da tutte le categorie che vivevano del solo salario. Nella trattativa con il sindaco, il 7 luglio e dopo alcuni giorni di sciopero, riuscirono a raggiungere un ribasso del 50% sui prezzi dei generi calmierati, del 70% per i generi non calmierati e la formazione di commissioni che, nominate nel corso di un’adunanza popolare, avevano il compito di procedere alla requisizione e all’inventario di tutti i generi di prima necessità. Raggiunto l’accordo una marea popolare si riversò nei negozi, svuotandoli in poco tempo. Moti simili si svolsero negli altri comuni mugellani. Per esempio a Scarperia dove il 4 luglio, contro il caroviveri, scioperarono gli operai. Il Sindaco “d’accordo con la locale sezione della Camera del Lavoro stabilì che momentaneamente i prezzi di ogni genere fossero ribassati del 30 per cento, quelli tesserati del 50%, gli altri del 70%”9. Anche a Barberino e a San Piero giocò un ruolo importante la Camera del Lavoro. Nei mesi successivi la situazione si fece più calma sul
fronte delle agitazioni annonarie. Fu in questi mesi che sorsero numerose cooperative di consumo. Per comprendere ancora meglio l’importanza del primo anno del dopoguerra dobbiamo tener conto che tutti gli eventi sopra ricordati si svolsero in contemporanea con la progressiva formazione del Partito popolare e dei socialisti; le agitazioni delle leghe contadine bianche e rosse (che raggiunsero l’apice nel 1920); anche le forze nazionaliste e della destra si stavano riorganizzando, nei fasci di combattimento e sul piano sociale nell’Associazione agraria. 1 Il denaro in Mugello, in “Il Messaggero del Mugello”, 9 settembre 1917, n. 36. 2 Intenso giro di denaro, in “Il Messaggero del Mugello”, 26 maggio 1918, n. 20. 3 L’agitazione dei ferrovieri, in “Il Corriere mugellano”, 22 dicembre 1918, n. 50 4 I voti dei ferrovieri del Mugello in materia di politica internazionale e di desiderata della loro classe, in “Il Corriere mugellano”, 9 marzo 1919, n. 10. 5 Convegno degli impiegati e salariati, in “Il Messaggero del Mugello”, 11 maggio 1919, n. 19. 6 Memoriale alle On. Amministrazioni dei Comuni di Borgo San Lorenzo, Barberino di Mugello, Firenzuola, Vicchio, Scarperia, S. Piero a Sieve, Pontassieve, Vaglia, Dicomano, Pelago, Rufina, Londa e S. Godenzo, in “Il Corriere Mugellano”, 8 giugno 1919, n. 23. 7 Lo sciopero dei maestri, in “Il Corriere Mugellano”, 8 giugno 1919, n. 23. 8 Bocci-Bocci è una deformazione linguistica del termine “bolscevismo” con la locuzione fiorentina “fare i cocci” (rompere tutto). Cfr. R. Bianchi, Bocci-bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Firenze, Olschki, 2001. 9 Sciopero di protesta contro il caro-viveri, in “Il Corriere Mugellano”, 13 luglio 1919, n. 28.
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STORIA E CRONACA
PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – ventitresima parte
La memoria dei caduti della Grande Guerra in Mugello In questo numero ospitiamo un articolo di Elisa Marianini, giovane artista e storica dell’arte, che giovedi 28 maggio 2015 alle ore 21 a Villa Pecori-Giraldi presenterà con Aldo Giovannini il suo libro su “La memoria dei caduti della Grande Guerra in Mugello, una ferita salvata dalla bellezza”.
Elisa Marianini
Il Mugello custodisce una ricca messe di memorie ai caduti della Grande Guerra, un tessuto che è stato in parte distrutto già a partire dal periodo compreso tra gli anni Venti e Trenta, poichè spesso giudicato in modo negativo, come testimonia molta stampa del tempo che tramanda memorie di mediocrità ed interpretazioni sfavorevoli nate da ragioni principalmente estetiche. Ma l’avvio della distruzione comincia con la seconda guerra mondiale, quando il bisogno di armi rese appetibile la grande quantità di metallo con cui erano stati realizzati la gran parte dei monumenti ai caduti. Così
il medesimo bronzo, prima ricavato dalle armi strappate al nemico, e poi trasformato in una memoria carica di sentimenti e di spiritualità, ritornava ad essere protagonista del nuovo conflitto, soddisfacendo molti detrattori estetici di quelle opere. Nella stanza del sindaco nel palazzo municipale di Borgo San Lorenzo Tito Chini eseguì una decorazione nella quale sono ricordati gli “uomini illustri” di tutto il Mugello: il loro valore era l’esempio di umanità al quale l’intera comunità doveva guardare per trarre forza e coraggio, soprattutto dopo il susseguirsi di due calamità come la guerra e il grave terremoto che colpì questo territorio il 29 giugno del 1919. Unico vivente tra gli uomini illustri ad essere ricordato da Tito è il Generale Pecori Giraldi: da lui parte la nostra considerazione delle memorie mugellane della Grande Guerra, giacché esse, in modo più o meno diretto, derivano dai pensieri e dall’azione sua. Così, alla fine della guerra, quando il 19
Cappella ai caduti di Palazzuolo
settembre 1919 il comando della Ia Armata fu sciolto, Pecori Giraldi pensò alla “Fondazione 3 Novembre 1918” il cui scopo era sia l’assistenza delle famiglie più bisognose dei caduti, sia il mantenimento della memoria dei soldati, come egli scrisse nella lettera alla
Ia Armata. Essa eresse il Sacello-Ossario sul Monte Pasubio, la cui decorazione pittorica interna fu affidata proprio a Tito Chini. L’inaugurazione avvenne il 29 agosto 1926 e da allora fino ad oggi, si ripete il pellegrinaggio annuale in onore e in memoria della Ia
Armata. Guglielmo Pecori Giraldi tornò sempre sul colle sacro a riabbracciare come un padre affettuoso i figli assenti e presenti, ed espresse anche il desiderio di essere sepolto lì accanto a loro: come accadde il 19 luglio del 1953 quando la salma del generale fu
Monumento di Lumena
traslata dalla cappella gentilizia della famiglia Pecori Giraldi a Borgo San Lorenzo, dove era stata custodita per dodici anni. Buona parte delle memorie della guerra nel Mugello furono realizzate dalla “Manifattura Fornaci... SEGUE A PAG. 15
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MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 9 MAGGIO 2015 - il galletto ... San Lorenzo”, all’epoca senz’altro il più importante luogo d’arte della valle. Fin dalla sua fondazione, nel 1906, la manifattura fu guidata da Galileo Chini, poi fu diretta dal cugino Chino e successivamente vi lavorarono anche i figli di Chino: Tito e Augusto. Tito una volta diventato nel 1925 direttore artistico della manifattura, dimostrò di aver respirato interamente gli ideali del Generale che lo aveva guidato nella Ia Armata, e il suo insegnamento trasparirà nelle opere a lui commissionate, nell’Italia del Nord, e nel Mugello. Galileo, già nel 1919, fornì il progetto di un “altare votivo” oggi perduto, che venne eretto da Chino Chini nella pieve di San Lorenzo; inoltre disegnò il bozzetto per il “Monumento Unico” che Pecori Giraldi voleva nel cuore del Mugello, e fornì il progetto per l’impugnatura della “spada d’onore” che fu offerta al Generale in segno di ammirazione per la sua opera. Affinché la memoria dei caduti venisse coltivata, i consiglieri provinciali proposero l’idea di un “Monumento Unico” ai caduti mugellani. Nelle loro intenzioni il monumento avrebbe dovuto dare forma unitaria al sentimento di tutta la regione, e superare la frammentarietà delle molte memorie già poste dalle famiglie nei cimiteri comunali. Queste erano il risultato di espressioni separate di gruppi, le quali apparivano quali manifestazioni di un dolore e di un affetto privato. Oltretutto esse erano destinate all’abbandono, dato che i familiari ne erano gli unici curatori. Mentre, con questa proposta, il generale Pecori Giraldi aveva avuto l’intenzione di abbracciare tutta la popolazione mugellana
che aveva vissuto unitamente l’esperienza del dolore e della gloria per la medesima causa. Il monumento avrebbe dovuto sorgere nel centro del Mugello, e, per non creare parzialità, fuori da ogni abitato: non ci fu però alcuna attuazione di quel monumento a causa del terremoto che sconvolse la vallata il 29 giugno 1919, segnando con un nuovo lutto la memoria di un’intera generazione. Conseguentemente ogni comune progettò singolarmente proprie memorie e propri monumenti per i caduti, e da ciò deriva una grande varietà di soluzioni stilistiche e di significato, ciascuna diversa a seconda degli animi che le avevano promosse. All’interno di questa varietà, possiamo individuare tre tipi di memorie, corrispondenti ad altrettanti animi. Il primo tipo è contraddistinto da un animo più celebrativo, e si realizza nei numerosi monumenti bronzei che immaginano gesta eroiche con una certa retorica figurativa, qualificata dai richiami alla classicità sia nella plastica che nelle strutture architettoniche; e gli artisti proverranno dall’Accademia di Firenze. Rossi, Gronchi, Giovannetti, Vannetti, Ciampi danno comunque una interpretazione ogni volta diversa della morte dell’eroe. Nelle loro strutture architettoniche domina un materiale proprio della romanità e della classicità, come il travertino e sono caratterizzati da espressioni cariche di forza e soprattutto di virilità. I monumenti non presentano un carattere passivo, per lo più costituito da un asse orizzontale dominante, come nelle sculture funerarie; ma un asse verticale, capace di dare un’immagine viva ed eroica della guerra. Essi vennero eretti tra il 1922 e
VICCHIO Una mostra sulla Grande Guerra
Sabato 9 maggio 2015, alle ore 17.30 presso la Casa di Benvenuto Cellini a Vicchio verrà inaugurata la Mostra Storico/Fotografica e di Reperti della Grande Guerra (1915-1918). Un evento promosso dal Comune di Vicchio e ideato e curato da Elisa Fiorelli, che ha effettuato un bellissimo lavoro di ricerca appassionata in occasione del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915). La mostra è stata dedicata, in particolare, alla memoria di Giuseppe Gramigni, giovane del ‘99 caduto sul Montello all’età di 18 anni, e per ricordare tutte le vittime di una delle più atroci e sanguinose guerre del XX secolo. Esistono innumerevoli testimonianze che documentano la tragedia di intere generazioni di uomini che partirono per essere inghiottite nel vortice funesto della Grande Guerra. Un dramma che ferì e cambiò profondamente il volto geopolitico e umano dell’Europa. Presso la casa del grande artista fiorentino del ‘500, verranno esposte alcune di queste importanti testimonianze: le fotografie, di di ambientazione italiana ed Austro-Ungarica, ritraenti appunto diversi settori del Fronte Italo-Austriaco, dai ghiacci dell’Ortles alle pietraie del Carso. Il percorso fotografico sarà accompagnato anche da diversi cimeli (Italiani ed Austriaci), molti dei quali rinvenuti in Trentino e sulle Alpi Giulie. Inoltre, sarà possibile leggere il diario inedito di un ragazzo Fiorentino, scritto nell’Ottobre del 1915. La mostra resterà aperta ogni Sabato e Domenica fino al 14 giugno 2015 (oppure su prenotazione) con orario 10:00 - 12:30 / 16:00 - 19:00. Per info Ufficio Cultura 0558439269, ufficio.cultura@comune.vicchio.fi.it; Elisa Fiorelli 340 543 9730. Ivan Ferraro
Stele ai caduti del popolo di Figliano
il 1928; dunque negli anni di più intensa messa in opera dei monumenti italiani. L’erezione dei monumenti ai caduti si bloccherà intorno al 1930, dopo che nel 1927 il Ministro dell’Istruzione Pubblica aveva pubblicato un articolo intitolato “Non monumenti ma asili”; un anno dopo, già d’accordo con questa linea nazionale, Chino Chini pensò al recupero del palazzo del podestà di Borgo San Lorenzo, gravemente danneggiato dal tempo e dal terremoto. E, ricollegandosi a questa linea di pensiero, a Scarperia verrà dedicato ai caduti il restauro dell’oratorio della Madonna del Vivaio, mentre a Vicchio prima, e a Dicomano poi, vennero rispettivamente inaugurati insieme al monumento ai caduti, l’asilo infantile “Beato Angelico”, e l’acquedotto comunale, opere dunque, utili per l’intera comunità. Il secondo tipo di memorie è costituito dai tabernacoli, lastre, cippi, fontane, asili, e presenta caratteri stilistici in cui la tradizione neorinascimentale si coniuga a quella gotica, o francescana, o rurale. Questo gruppo dipende dagli intellettuali del “Bollettino della Società Mugellana di Studi Storici”, che volevano recuperare la colta tradizione locale: ne nasceranno opere di grande bellezza e semplicità, piene di poesia, con cui si credeva di cancellare il dolore, ed elevare gli animi alla pace e alla serenità interiore. Questa categoria di monumenti ai caduti è costituita da un gruppo di memorie in materiali diversi – terracotta, pietra serena, affresco –, e di quantità più estesa rispetto a quella dei monumenti a fusione bronzea, perché richiesti da piccole comunità, più campestri che cittadine. Talvolta questi monumenti risultano anche molto semplici e realizzati con materiali poveri, dato che le risorse finanziarie della valle erano state assorbite dalla guerra e dal terremoto. Questa unione di semplicità umana e di grazia divina risponde a quella richiesta di fede sincera della
popolazione. Il terzo tipo di memorie dedicate ai caduti è in rapporto più intimo con la natura, trovando nei “Parchi della rimembranza” l’espressione più alta; e in questi parchi pensati come luoghi di raccoglimento e di preghiera solitaria, a volte trovano posto semplici monumenti. Essi sono un monumento vivente, individuale e collettivo, poiché ogni albero commemora ciascun caduto. Gli alberi erano sistemati in fila al posto delle tombe e il caduto veniva immerso nel ritmo vitale della natura, e diventava parte integrante del mutare delle stagioni: l’inverno ne prefigurava la morte, e la primavera la risurrezione. Gli alberi uguali, come le tombe nei cimiteri, stavano a significare l’uniformità dei caduti, quasi a simboleggiare il cameratismo del tempo di guerra. Ma accanto a queste memorie dei caduti della Grande Guerra, non possiamo non menzionare la lapide di Gabbiano, la quale ricorda ventidue giovani che, per essere tornati incolumi dalla guerra, decisero di dedicare a Maria il resto della loro vita. Questa epigrafe è una sorta di ex-voto, e ci riporta alla mente le raccomandazioni con cui Pecori Giraldi invitava i suoi soldati a tenere come guida spirituale nel tempo di guerra e nel tempo di pace, le tre virtù
Lapide di Tito Chini alla Chiesa di Vaglia
Monumento Barberino
teologali, la fede, la speranza e la carità, che lui sempre aveva cercato di infondere loro. Il buon cristiano le porterà sempre nel proprio cuore e solo chi, anche nei momenti di maggior sconforto, non si sarà abbandonato alla sfiducia, alla disperazione e all’egoismo, sarà ricompensato. Così è stato per i ventidue giovani di Gabbiano che, al ringraziamento per l’incolumità e il ritorno a casa, uniscono una promessa solenne alla Vergine Maria, offrendole il più prezioso dei beni dell’uomo: la vita. Monumento di Borgo San Lorenzo
IL MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto
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TRA STORIA E CRONACA - SABATO 23 MAGGIO 2015 - il galletto PAGINE DI STORIA
Il Mugello nella Grande Guerra 1915-1918 – 24° ed ultima parte
Dalla piazza alle urne
Poi l’uomo della Provvidenza… e la Guerra continua
Antonio Margheri Si conclude con questo articolo il viaggio dentro la Grande guerra nel Mugello iniziato un anno fa su “Il Galletto”. Ringrazio la redazione per la lunga collaborazione e disponibilità e tutti i lettori che mi hanno seguito ed incoraggiato. Sono soddisfatto per le molte iniziative che si sono svolte e ci saranno ancora sulla Grande guerra. C’è davvero ancora tanto da ricercare e da studiare. Spero di aver contribuito a far capire quanto quegli anni e quelle vicende siano state fondamentali per la storia contemporanea del Mugello. Terminata la Prima Guerra Mondiale in tutti i paesi europei esplosero grandi agitazioni sociali, particolarmente forti in Italia durante il famoso “biennio rosso” 1919-20. Forte era la sete di giustizia e di riscatto, soprattutto tra i giovani, quelli che avevano combattuto. Alle promesse fatte dai Governi dopo Caporetto, si contrappose una realtà fatta di disoccupazione e di forte inflazione. L’antagonismo si manifestò con caratteristiche di massa e fu sorretto per la prima volta dalle forme collettive della lotta sindacale e dai partiti (socialista e popolare) non implicati nella guerra. Nelle campagne di Firenze furono particolarmente forti le organizzazioni cattoliche grazie anche all’appoggio delle parrocchie rurali sostennero la nascita del Partito popolare in funzione antisocialista. Racconterà Paolo Casati, giovane mezzadro cattolico di Borgo San Lorenzo: “Si era nel 1919 e in quell’autunno cominciarono gli scioperi che consistevano di riunirsi, almeno uno per famiglia, in diverse zone del comune e girando da tutti i contadini e in segno di concordanza ognuno che intendeva seguire quel partito e le sue leghe bianche ch’erano il loro sindacato, lasciavano esporre o esponevano una bandiera bianca. Io avevo 14 anni e la prima volta che passarono da casa nostra, mio padre aderì…Ci si fermava anche alle fattorie e dai piccoli proprietari pur che avessero dei contadini a mezzadria. Il nostro scopo era essenzialmente d’informargli su le nostre richieste e come segno che accetta-
vano di discutere in sede sindacale, esponevano la bandiera bianca. In Mugello si diceva che non meno dell’80% si fosse in breve tempo aderito al partito di don Sturzo. Quelli che non erano d’accordo con noi lo dicevano o mettevano la bandiera rossa”1. Lo stesso Casati, così ricorda alcune rivendicazioni avanzate da quel movimento di lotta: “Nel I° articolo nell’elenco delle richieste figurava l’inosservanza da parte di molti proprietari di non fare il saldo tutti gli anni e noi lo esigevamo! […] Si chiedeva la cessazione dell’obbligo per le nostre donne di fare i bucati gratis […] Che il padrone prendesse parte al mantenimento e la compra dei piccoli arnesi […] […] Che in caso ci mancasse il grano, che allora era quasi il tutto, ce lo dessero […] Che in caso di bisogno, non trascurando il podere, di poter andare a fare qualche opera fuori […] Che venissero aboliti o comunque molto diminuiti i patti di pollame […] Che venisse riveduta e discussa la cosiddetta giusta causa per la disdetta del podere che veramente era un sopruso inimmaginabile […] E finalmente che si costituisse un fondo pensionistico per i contadini da pagarsi a
metà col proprietario”.
Il 16 ottobre 1919, su disposizione della Camera del Lavoro di Firenze, fu indetto uno sciopero di tutti i contadini che organizzarono cortei per le campagne che assunsero i caratteri di vere e proprie “fiumane di popolo”2. Il 21 ottobre l’Associazione Agricola Mugellana accettò di stipulare un nuovo patto colonico con la Federazione mezzadri che però fu disatteso dai singoli proprietari e dall’Associazione regionale. Sfruttando le divisioni tra le leghe bianche e quelle rosse i proprietari rinviarono il rispetto degli accordi raggiunti, fino a quando, alla fine del novembre del 1920, le leghe bianche passarono all’occupazione delle fattorie. Fu in questo contesto che scattò la reazione violenta degli agrari che si appoggiarono ai fascisti. Il 10 dicembre 1920 un anziano mezzadro, Giovanni Sitrialli, fu ucciso a Scarperia da squadristi armati venuti da Firenze. Il funerale, nella chiesa di Fagna, si trasformò in una grande manifestazione alla quale parteciparono oltre
duemila coloni: “Si era stati invitati tutti con un bastone, la minima arma visibile concessa. C’erano parecchi giovani ed anche anziani accorsi un po’ da tutti i comuni…I pochi cacciatori di allora avevano tutti o quasi la rivoltella. Il dubbio che ci attaccassero non era infondato…” 3. A rendere incandescente il clima politico e sociale mugellano non furono, però, solo le lotte nelle campagne. Le categorie più combattive furono quelle dei ferrovieri (in gran parte aderenti al P.S.I. e successivamente, perseguitati dal fascismo nazionale e locale), dei minatori delle cave di lignite, degli operai dei pastifici, della Brunori e dei Chini (quest’ultimi protagonisti di uno sciopero iniziato il 12 gennaio 1920 e che si concluderà nella primavera dopo ben 25 giorni consecutivi di sciopero), degli edili del Genio Civile per impedire ogni ridimensionamento degli organici a fronte di paesi duramente danneggiati dal terremoto del giugno del 1919. Fu in questa nuova dimensione di combattività sociale che si svolsero le elezioni politiche ed amministrative. Le elezioni politiche del 16 novembre 1919, videro in Mugello l’affermazione dei popolari e dei socialisti. Il PSI conquistò a Vicchio e a San Piero, rispettivamente il 36,3% e il 30%, mentre i popolari ebbero le affermazioni migliori a Scarperia (37,3%) e Borgo San Lorenzo (29,8%). In quest’ultimo paese il PSI conquistò il 27,3%, il partito socialista e liberali indipendenti il 34,5%, il Partito Liberale il 5,9% ed il Blocco Democratico il 2,5%. Sul successo delle liste socialiste e popolari influirono positivamente il nuovo sistema elettorale a rappresentanza proporzionale e l’estensione del suffragio che allargava il diritto di voto maschile anche agli analfabeti e a coloro che non avevano ancora compiuto i 21 anni, ma che erano stati chiamati alle armi per la guerra. Durante i primi mesi del 1920 gli esponenti della borghesia liberale locale tentarono di darsi una forma organizzativa con l’Alleanza di difesa cittadina, un’associazione che intendeva combattere “la teppa, i moti inconsulti, gli affamatori del popolo e tutte le manifestazioni di teorie utopistiche esiziali alla compagine sociale”4.
L’associazione borghigiana nasceva sulla scia dell’omonima “Alleanza di difesa cittadina” che si era costituita a Firenze alla fine di giugno del 1919 per iniziativa dell’Unione Liberale. Lautamente finanziata da agrari e industriali, aveva al suo interno anche gruppi paramilitari sotto il comando di alcuni futuri squadristi come Amerigo Dumini, Umberto Banchelli, il mugellano Francesco Giunta, Dino Perrone Compagni e Michele Terzaghi che avranno un ruolo di primo piano nel fascismo toscano e fiorentino. Alle elezioni amministrative dell’autunno 1920 la borghesia locale e gli agrari riunirono le forze in una “Lista Indipendente” aperta a “uomini non iscritti a nessun partito o che altro ne abbiano all’infuori del socialista rivoluzionario e del partito popolare italiano”5. I socialisti conquistarono la maggioranza nei Comuni...
scista fu ben accolto dalle spaesate classi dirigenti del conservatorismo locale e dal patriziato agrario insofferente del protagonismo delle classi subalterne e registrò anche l’adesione di strati della piccola e media
borghesia, fra cui primeggiò la bassa ufficialità e sottoufficilità smobilitata, oltre che il ceto medio rurale rappresentato dai fattori. Anche molti esponenti dell’aristocrazia locale e della borghesia che erano stati
Mussolini alla marcia su Roma
SEGUE A PAG. SEGUENTE
...di Borgo San Lorenzo, Vicchio e Dicomano e i popolari nei Comuni di San Piero a Sieve, Scarperia, Barberino, Marradi, Palazzuolo e Firenzuola. Solo Vaglia, San Godenzo e Londa rimasero ai liberalconservatori. Una svolta storica: piccoli artigiani, esercenti, operai, contadini fecero per la prima volta il loro ingresso nei consigli, nelle giunte comunali, diventarono sindaci. I tempi erano però maturi per una riorganizzazione del fronte antisocialista ed antipopolare: a novembre del 1920 venne presa la decisione di fondare a Borgo San Lorenzo e nel Mugello le sezioni del Fascio di Combattimento. La costituzione delle sezioni dei Fasci nel Mugello avvenne nel contesto del rapido dilagare del movimento fascista che caratterizzò la fine del 1920 e la primavera del 1921 quando la curva ascensionale in termini di numero di fasci e di iscritti ebbe un’impennata nazionale, regionale e soprattutto a Firenze, dove l’organizzazione dei fasci contava ben 6.353 iscritti. Le prime azioni squadristiche nella zona non videro comunque i fascisti locali svolgere un ruolo di protagonisti. Furono gli squadristi fiorentini e della provincia che si ritagliarono un ruolo determinante in alcune spedizioni che assunsero connotati decisamente violenti e sanguinari. Lo squadrismo fa-
Luigi Sturzo
Spartaco Lavagnini
Mussolini nel 1919
Francesco Giunta
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impegnati nei Comitati di preparazione civile durante la guerra videro con simpatia lo squadrismo fascista che mieteva le sue vittime tra quei nemici interni e disfattisti, già a suo tempo individuati tra i soggetti responsabili dello scarso patriottismo che aveva partorito l’umiliante sconfitta di Caporetto. Ogni violenza e intimidazione era giustificata purchè finalizzata alla repressione del movimento operaio e contadino e delle sue organizzazioni. Sul fronte opposto montava invece sempre più aspra la polemica tra popolari e socialisti. La scissione comunista avvenuta al Congresso di Livorno ebbe anche nel Mugello immediate ripercussioni: gran parte dei militanti e degli eletti socialisti passarono nelle file del nuovo PCd’I. Cacciata con la scheda dai consigli comunali, la reazione agraria e quella politica si fece sempre
più aggressiva. Il 22 dicembre 1920 l’Associazione Agraria denunciò gli accordi raggiunti e scelse definitivamente di foraggiare lo squadrismo fascista. A gennaio 1921, 12 contadini furono raggiunti da mandati di cattura perché “ritenuti colpevoli del reato d’appropriazione indebita qualificata per le abusive vendite di bestiame fatte dai coloni durante l’agitazione agraria”6. A seguito dell’aggressione fascista del 26 gennaio 1921 nella sede del periodico socialista fiorentino “La difesa”, anche nel Mugello si svolse un grande e compatto sciopero generale di protesta7. Alla fine di febbraio, protetti dalle autorità, un gruppo di squadristi assassinarono nella sede degli invalidi di guerra di Firenze, il dirigente sindacale comunista Spartaco Lavagnini. Il Mugello reagì con uno sciopero gene-
MUGELLO NELLA GRANDE GUERRA 1915-1918
rale che paralizzò tutto il paese. In questo clima arroventato si avvicinava la scadenza politica nazionale delle elezioni del 15 maggio. Le forze liberali, nazionaliste e fasciste si presentarono in un unico “Blocco Nazionale”. A metà maggio, i fascisti mugellani confluirono a Borgo: “Erano una cinquantina in tutti: fecero subito imbandierare col tricolore le case, scrissero sui muri a grossi caratteri frasi patriottiche o antibolsceviche, cantarono gli inni ’Giovinezza’, “Me ne frego”, ecc., gridarono i loro ‘eja, eja, alalà’, ottennero che la bandiera nazionale sventolasse dal palazzo del Comune. Un fascista salì pure a mettere il tricolore sulla torre dell’orologio. […] poi alcune squadre più ardite si recarono alla sede della sezione comunista di Piazzale Curtatone e al Circolo Ferrovieri in via Faentina, ivi mettendo un po’ a soqquadro, a quanto ci dicono. Asportati alcuni quadri raffiguranti Lenin e altri capi rivoluzionari, i fascisti ripercorsero le vie del paese” 8. Il nuovo clima sociale ebbe ripercussioni anche nei popolari mugellani: il 21 aprile Filippo Sassoli de’ Bianchi (che poi diventerà podestà fascista di Scarperia) si mise a capo di un gruppo secessioni-
sta di clerico-conservatori staccandosi dal partito per appoggiare i liberal-fascisti della lista del “Blocco Nazionale”. Alle elezioni del 15 maggio 1921 i popolari, comunque, raggiunsero nel Mugello una netta affermazione: il 44,9 % a Barberino, il 38% a Borgo San Lorenzo, il 48% a San Piero a Sieve, il 46% a Scarperia, il 39,6% a Vicchio. I socialisti, reduci dalla scissione comunista (nel gennaio 1921 erano nate le prime sezioni comuniste) rimasero ovunque sotto il 30% (media del collegio), mentre i comunisti si affermavano a Borgo San Lorenzo (15,8%) e a Vicchio (22,3%). Ad eccezione di Vicchio con un lieve calo intorno all’1%, in Mugello la somma dei voti PSI/ PCdI superava ampiamente quelli ottenuti dal solo PSI nel 1919, prima della scissione comunista. Il Blocco nazionale (che riuniva fascisti, nazionalisti e liberali) vinse in tutto il collegio (35,2%) ma rimase nel Mugello al 22,6%. Una “breccia fascista” si era però aperta nel Parlamento nazionale ed i fascisti mugellani poterono gioire per l’elezione di Francesco Giunta e dell’avv. Roberto Franceschi, appoggiato dall’Associazione Agraria Mugellana. Due giorni dopo le elezioni numerosi fascisti irruppero nella frazione di Sagginale e il borghigiano Giuseppe Margheri fu ucciso da una pallottola. Anche questa volta, il funerale si trasformò in una grande manifestazione antifascista con la partecipazione unitaria dei consiglieri comunali socialisti, comunisti e popolari. La reazione non tardò a manifestarsi e solo un mese più tardi, il 26 giugno, Borgo fu teatro di una grande parata dei fasci di combattimento di Firenze, Prato e di tutto il Mugello affluiti per l’inaugurazione del vessillo dei combattenti e con la presenza della banda musicale dei carabinieri. Militarmente inquadrati i fasci sfilarono in un paese imbandierato a tricolore e tappezzato di manifesti inneggianti alla patria, all’esercito ed ai combattenti. Il 1 maggio squadre di fascisti fecero servizio in tutte le stazioni ferroviarie del Mugello assicurando la regolarità dei servizi. Nel secondo semestre del 1922 le amministrazioni regolarmente elette furono costrette con la violenza alle dimissioni. I timidi tentativi per reagire immediatamente e riorganizzare le forze furono prontamente repressi. Il 28 ottobre 1922 i fascisti marciarono su Roma e Mussolini ottenne dal Re il Governo del Paese. Lo appoggiarono anche liberali e popolari (con l’opposizione di Sturzo).
La prima tessera del PCI
Tessera del PSI del 1921
Pensavano che così fosse più facile normalizzare il fascismo e ricondurlo nell’alveo della democrazia. Pia illusione. Nel 1923, con la Legge Acerbo, Mussolini si assicurò una legge elettorale che lo facesse vincere pur essendo minoranza nel Paese. Poi le “leggi eccezionali” e la fine della libertà. La “dittatura civile” che durante la Grande guerra era stata creata per compattare il fronte interno verso l’agognata vittoria, assumeva ora le vesti di un “regime reazionario di massa”, una forma moderna di totalitarismo destinato ad avere un ruolo di primo piano nello scoppio di una Seconda guerra mondiale che vedrà questa volta l’Italia alleata con il vecchio nemico germanico. La guerra continuava, all’interno del Paese e fuori
dai confini nazionali. 1 P. Casati, Ismaello Ismaelli nella ministoria delle leghe bianche nel Mugello negli anni ’20 e la Resistenza, Borgo San Lorenzo, 1987, ciclostilato, p. 3. 2 “Il Messaggero del Mugello”, 19 ottobre 1919. P. Casati, Ismaello Ismaelli…, cit., p. 9. 4 “Il Messaggero del Mugello”, 1 febbraio 1920. 3
. Ivi, 23 settembre 1920.
5
Le denunzie contro i coloni, in “Il Messaggero del Mugello”, 6 febbraio 1921. 7 Ivi, 30 gennaio 1921. 6
. I fascisti, in “Il Messaggero del Mugello”, 14 maggio 1921. 8