5 minute read

Maestri Alberto Ferlenga

maestri

Alberto Ferlenga Rettore Univerità Iuav di Venezia

Advertisement

È passato un po’ di tempo da quando nella redazione di «Casabella» ascoltavo Giorgio Macchi narrare le sue avventure nel mondo delle strutture, tra numeri, cedimenti, trazioni. I racconti del Professore descrivevano con passione e semplicità un mondo complesso al quale non sempre gli architetti riescono ad appassionarsi e il cui fascino è difficile dedurre, quando si è studenti, dalle lezioni universitarie e dai manuali. Macchi descriveva le operazioni messe in atto per contrastare l’abbassamento del suolo nella cattedrale di Città del Messico; la vera e propria epopea alla quale un gruppo di studiosi di varie discipline e nazioni ha dato vita per la messa in sicurezza della torre di Pisa; le sue verifiche relative alla stabilità delle torri di Pavia e di altri monumenti. Le spiegazioni di quei fenomeni erano la dimostrazione di come si possa ricostruire, a ritroso, quella parte della storia di un edificio che non riguarda solo il suo assetto statico iniziale, ma anche la sua esistenza successiva: un percorso di lenti adeguamenti della massa e dei materiali ad eventi non sempre prevedibili o di reazioni repentine a fatti drammaticamente distruttivi. Ne usciva una conoscenza complementare a quella che si può trarre dallo studio delle espressioni formali di un’architettura o dei documenti storici, ma fondamentale per comprendere realmente la vita di un edificio.

Quei racconti, e le narrazioni che si susseguono in questo volume a commento dei progetti, hanno alle spalle una grande tradizione dell’ingegneria italiana. Macchi vi appartiene per discendenza diretta, fa infatti parte di quel pugno di strutturisti che tra Torino, Milano, Roma e Venezia è stato protagonista di una straordinaria vicenda che ha avuto il suo culmine temporale tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento e fondamentali figure di riferimento in personaggi del calibro di Gustavo Colonnetti, Pier Luigi Nervi, Riccardo Morandi, Silvano Zorzi, Franco Levi, Sergio Musmeci, Aldo Favini.

Figure di maestri – e Macchi usa spesso nel suo libro questo termine – come per lui effettivamente furono, nel senso più ampio, Colonnetti “Maestro del mio Maestro” e soprattutto Levi e poi ancora Zorzi per la lunga collaborazione professionale. Maestri della teoria e della pratica che si formarono sul campo, partecipando alla ricostruzione del Paese e coniugando impegno civile e culturale. Una schiera di ingegneri che alle cognizioni tecniche univano anche una rara sensibilità estetica, che ci ha lasciato opere e progetti di grande qualità formale (dal ponte di

Potenza di Musmeci, al palazzo a Vela di Levi a Torino, alle straordinarie coperture di Nervi), attitudine non secondaria in una nazione dai delicati equilibri paesaggistici come la nostra. Quella stagione, connotata da forti legami internazionali, ha attraversato il panorama italiano come una meteora, contribuendo in modo sostanziale al suo rinnovamento. Veloce nell’affermarsi, è stata però altrettanto veloce nell’esaurirsi come fenomeno collettivo, tanto da poter dire che in Macchi vediamo oggi forse l’ultimo dei suoi protagonisti.

Perché quell’esperienza ha avuto fine così repentinamente? Perché l’ambito universitario e il Paese non hanno saputo sfruttarne appieno il contributo? Perché quel sapere tecnico non si è adeguatamente riprodotto in modo diffuso superando il livello di qualità che aveva raggiunto? Sono questioni che la critica dovrà affrontare e potrà farlo grazie anche a studiosi come Sergio Poretti, Tullia Iori e Marzia Marandola, a cui si devono fondamentali ricerche su queste vicende.

Questa raccolta, in cui Giorgio Macchi presenta parte del lavoro di una vita, e i cui documenti originali sono oggi ospitati all’Archivio Progetti dell’Università Iuav di Venezia, ha diversi pregi. Vi si mostra la produzione personale o corale di un grande ingegnere italiano e, al tempo stesso, quanto ampio e vario sia stato il campo degli interventi con cui l’ingegneria si è misurata in quegli anni in Italia, quante le occasioni sfruttate e, per converso, quanto di più si sarebbe potuto fare.

Il volume raccoglie vicende complesse come quelle cui ho già fatto cenno per Pisa o Pavia, e progetti puntuali: coperture, consolidamenti, viadotti, ponti. Ponti come i moltissimi elaborati in collaborazione con Silvano Zorzi, sul Po o sull’Arno, viadotti straordinari come quello per la linea dell’alta velocità a Modena che dimostrano come, in tempi in cui l’attenzione alla qualità estetica degli interventi infrastrutturali era già venuta meno in Italia, un’opera formalmente appropriata abbia contribuito al miglioramento del rapporto tra opere tecniche e territorio. Il viadotto Modena fa quello che sarebbe auspicabile facesse ogni infrastruttura in un territorio delicato: riduce l’impatto di una costruzione tendenzialmente invasiva attraverso una sezione che ben si accompagna alle linee del paesaggio. Riprende con naturalezza alcuni caratteri di un’architettura classica che non ha mai lasciato il nostro Paese e li coniuga con le necessità di una struttura sottoposta a notevoli sollecitazioni. Ne deriva una riduzione dell’impatto visivo e di quello acustico e l’introduzione, in quel tratto della Pianura Padana, di un elemento d’ordine e di qualità, riprendendo quella che in un passato non troppo lontano era stata una caratteristica comune della progettazione di infrastrutture in Italia. Soprattutto, contraddice la logica della sciattezza formale e della diversificazione insensata che sembra aver preso piede, in Italia, in questo campo.

Forse si potrebbe affermare (ma solo il Maestro potrebbe dircelo) che la lunga convivenza con gli architetti presso lo IUAV, una delle scuole in cui il contributo di Macchi è stato più rilevante, abbia contribuito a dare una particolare accentuazio-

ne formale ai suoi progetti. Quel che è certo è che nelle aule dello IUAV, negli anni dell’insegnamento di Levi e poi di Macchi, si verificarono incontri che ebbero conseguenze positive su generazioni di architetti, storici e urbanisti, contribuendo a definire una delle “differenze” della Scuola veneziana di Architettura rispetto alle altre. Per questo, prendersi cura dell’archivio di Giorgio Macchi in una università come la nostra non può essere un atto ordinario, ma piuttosto una forma di responsabilizzazione verso lo studio di un fenomeno importante e la ripresa di un dialogo interrotto tra architettura e ingegneria delle infrastrutture. Farlo ha una particolare rilevanza in un momento in cui il rinnovamento infrastrutturale del Paese appare in molti settori improrogabile e contribuisce al rafforzamento di un’idea di efficienza tecnica compatibile con la bellezza del paesaggio e con la sua storia millenaria.

GIORGIO MACCHI PROGETTI

a mia moglie Marilì e ai miei figli

This article is from: