Guseppe Antonello Leone: lo stile è l'uomo

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GIUSEPPE ANTONELLO LEONE: LO STILE E’ L’UOMO Al progressivo svilupparsi del linguaggio fotografico e del suo dilagare (in uno con l’evoluzione delle crescenti - sempre più diffuse – nuove tecnologie) nella società di massa sembra che corrisponda il superamento dell’attività elitaria della fotografia, che ora pare muoversi in direzione di nuove ricerche espressive e di più coinvolgenti aperture sul mondo del contemporaneo. Oggi, mostre e libri d’arte, dedicati alla fotografia d’autore, appaiono sempre le più convincenti produzioni nel panorama dell’arte contemporanea attraversata da aporetiche riflessioni sulle sue finalità. A differenza dell’editoria corrente, che pure rivolge l’attenzione alla fotografia, la ricerca di Rino Vellecco rappresenta una vera rarità sia per qualità delle immagini che per il loro contenuto. La sequenza d’immagini, realizzate nella casa-studio di Giuseppe Antonello Leone a Pizzofalcone, con i suoi interni, la sua intima spazialità, costituisce una narrazione iconografica che, nello stimolare l’immaginazione, sollecita anche riflessioni interrogative. Domande stuzzicanti, a dir poco, che nell’attuale momento di depauperamento culturale acquistano particolare rilievo. La casa di Giuseppe Antonello Leone è zeppa di opere alle pareti, di scaffalature, di librerie, ripiani ricchi di una straordinaria varietà di cose. Avvicinarsi e curiosare è più che spontaneo ed è ciò che avviene sempre tra chi visita la stimolante casa-studio. Le fotografie di Vellecco riconfermano alla mia memoria, a distanza di tempo, le mie esplorazioni visive, il mio mettere il naso tra libri e oggetti di Leone, al punto da chiedermi: che cosa può significare una scaffalatura che accoglie libri, carte, documenti, poesie, disegni, appunti, frammisti a un piccolo mondo di oggetti apparentemente inerti? Potrei rispondere, cripticamente, col dire che ogni scaffalatura può essere vista e perlustrata come una sorta di costruzione di segni da decodificare; diremmo, più specificamente, un sottoinsieme di significati iconici, tattilmente presenti, che si prestano a un’analisi linguistico-semiotica che consente di risalire all’artista e ai suoi interessi. Il mio, com’è evidente, è un escamotage, per giunta di altri tempi: un modo per sfuggire alla domanda! L’interrogativo che mi pongo, a ben guardare, è ricorrente sul filo diacronico dell’arte. Potrebbe essere risolto probabilmente in una immensa, kubleriana, storia analitica dell’arte, dove la storia dell’arte diventa metodica classificazione e interpretazione comprensiva dei manufatti e di tutte le cose realizzate dal genere umano.


“Vivere è lasciar tracce” ha scritto Deleuze e alla buona critica, all’estetica speculativa le tracce, di qualunque tipo, non sfuggono perché esse più apertamente danno la possibilità di esplorare per intero la personalità creativa dell’artista. Spesso questo avviene per capire “l’uomo che è dietro l’artista”, come suol dirsi, e naturalmente si sbaglia di grosso: la personalità creativa è unica, singola e singolare e soltanto una visione schizoide può pensare di sdoppiarla differenziando l’artista dall’uomo. Rino Vellecco, da ricercatore iconografico qual è, ha sempre tratto dalla presunta oggettività del medium fotografico una vera e propria linguistica fotografica investigando tutti i tipi di segni; ponendo a noi, e prima ancora a se stesso, i problemi attinenti alla loro interpretazione. Per questo ritengo che il lavoro condotto su casa Leone, muovendosi, avvicinandosi, prendendo le giuste distanze nell’aggirarsi nel labirinto delle tracce, sia un lavoro creativo di secondo grado, nel senso che l’esito va considerato come ulteriore stratificazione iconografica di quella realizzata e concrezionata da Leone nel corso del tempo, che ha assunto l’aspetto di un vero e autentico site-specific. E il lavoro di Vellecco, come quello fruitivo dei visitatori di buona sensibilità, ha dato luogo - non saprei se intenzionale o intuitiva - a una attività artistica di ultima generazione; cioè a quella particolare forma che oggi si chiama arte partecipativa. *** Fermiamo intanto l’attenzione sulla narrazione fotografica di Rino Vellecco, sulla sua personale registrazione della poetica dello spazio, per dirla con le parole di Bachelard, sullo spazio ordinato e sedimentato da Giuseppe Antonello Leone, nel quale sorge l’immaginazione. E’ lo spazio dell’immensità intima, dove l’arte ha trovato riparo nelle scaffalature e nell’uso tattile della poetica degli oggetti e delle cose che la mano dell’artista ha risemantizzato. Svolgo davanti ai miei occhi le numerose fotografie di Vellecco, le osservo; inevitabilmente la loro comparazione con le immagini del mio magazzino della memoria prende consistenza e delinea maggiormente il ricordo. Un minuto “paesaggio domestico” si apre e racconta la personale storia artistica ed esistenziale di Giuseppe Antonello Leone, allontanando lo spettro della conservazione delle cose vecchie, che per Kubler è sempre stata uno dei riti centrali delle società umane. Il piacere allora si sostituisce all’attenzione. Affiora la bellezza degli accostamenti e delle suggestive combinazioni formali, tra libri, scartoffie e modellini di sculture, che sembrano oscillanti, come accade nella scrittura poetica, tra sintassi e paratassi. Vengono alla mia mente le riflessioni di Eugenio Turri quando accosta il paesaggio, ossia una conformazione geografica di valore estetico, “a una pagina scritta o a un testo leggibile”; allora il giudizio critico, in questo imprevedibile incontro, si serve della metafora. Lo spazio dove lo studio e la ricerca trovano dimora è pur sempre il luogo che accoglie i moti umbratili e segreti dell’artista che gli ha dato forma. Per questo è difficile darne un’idea semplicemente descrittiva e forse solo il ricorso alle immagini fotografiche di Rino Vellecco rende la sua totalità emozionale.


Mi rendo conto che l’interno della casa è qualcosa di complesso: una sorta di complicata morfologia di cose e di rimandi metaforici, in cui entrano in gioco l’uomo e la sua attività poetica; qualcosa inscritta, e inscrutabile, nella temperie dell’ineffabile, dell’indicibile. Non posso fare altro che tentare di esprimere, di azzardare qualche osservazione, di cercare di oggettivare le sensazioni che la rassegna d’immagini di Rino Vellecco provoca e che spinge ad approfondire le intuizioni della forte personalità creativa di Giuseppe Antonello Leone. Ecco, allora, la misura fantastica delle piccole sculture di carta piegata tra vasi, di cristallo e di ceramica antica e artigianale; i rossi simultanei di modellini geometrizzanti accostati in successione agli ori, altrettanto simultanei, della serie, questa volta informale, delle piccole sculture. E’ un ripiano calamitato, di effetto polisenso per dimensioni e cromatismi. Il mio, mi pare un affaticamento estetico provocato da questo progressivo assorbimento percettivo di una storia figurativa, tracciata per immagini e ricordi del proprio vissuto nel lungo arco di tempo tra le due guerre, il dopoguerra il tempo presente; tra modernità e postmodernità, tra tradizione e contemporaneità. Comunque, un piacevole affaticamento! Ecco, si delinea il diagramma esistenziale fatto di ricchezza di rapporti con gli amici, attraverso lo scambio di opere, e le foto e i ritratti di famiglia appesi ai muri, ai divisori. Ecco l’ampia parete, densa dei rasserenanti paesaggi di Maria Padula col suo vedutismo lucano, nutrito di luce e di profonde matrici cromatiche. Sorprende poi l’immediatezza della fisionomia di Maria Padula, in un modellato puro e sintetico realizzato da Leone. Vedo la serie delle pietre erranti, così definite dall’artista. Ricavate da massi di diversa natura geologica, ricercate da Leone con un criterio di scelta non solo attinente alla qualità materica. Le pietre già possiedono la struttura del ritratto immaginato; allora Leone, con pochi colpi di scalpello, ha levato il michelangiolesco soverchio, ha liberato qualcosa che già era nella pietra e, nell’aggiungere pochi segni, ha dato vita a un allargamento immaginativo libero e impensabile per i risultati espressivi che ne derivano. Allo stesso modo accade con la plastica, il polistirolo, il cartone, i contenitori, gli involucri, le bottiglie già usate. Questa apertura all’imprevedibilità dell’azione scaturisce dalla sua idea della creazione, del sacro che è nella materia, che inerte non è! Pare che Leone non fosse spinto solo dal problema attualissimo del destino degli scarti e dei rifiuti dell’ambiente umano. La sua era consapevolezza della materia; essa esiste con un linguaggio proprio che andava decodificato entro la struttura della forma per operare una risignificazione (il termine che adoperava) che avrebbe ridato forma alla struttura, diventando esteticamente fruibile. *** Ho sempre guardato (avendo avuto una lunga, spesso quotidiana, frequentazione con Giuseppe Antonello Leone) il suo operare con stupore, come qualcosa di misterioso e insieme magnetico, in grado di attirare l’attenzione per il singolare rapporto che Giuseppe aveva con la materia, i materiali, la natura: una sensibilità acutissima tale da innescare una interlocuzione profonda, colloquiale con essi. Era sempre


polarizzato, la sua concentrazione intensa quando era intento a individuare, nel lungo, ininterrotto fluire della sua ricerca, quel qualcosa di non-materiale che la materia possiede, come sosteneva Voltaire. Ora, se qualcuno chiedesse, per avere una sintetica risposta, a quelli che hanno assistito dal vivo alla operosità artistica di Leone, qual è il suo “stile”, direi di rispondere con le parole efficaci di Arthur Danto. “E’ il modo in cui l’uomo è fatto, per così dire, senza il beneficio delle cose acquisite altrimenti”, con questa considerazione Danto afferma l’autenticità e la singolarità dello stile dell’artista e l’identità tra l’uomo e l’artista, aggiungendo: “E’ questo il senso dell’affermazione secondo cui lo stile è l’uomo”. Dunque, Giuseppe Antonello Leone: lo stile è l’uomo, anche nella spazialità intima del “paesaggio” della sua casa-studio, nel tempo e nella memoria. Ottobre 2018

Franco Lista


Clementina Gily Reda Rino Vellecco: L’homely casa-studio di Antonello Leone Quando un fotografo frequenta pittori ed artisti, esercitando la sua propria arte può riuscire a disegnarne il profilo con le immagini. È il caso di questa grafic story, si può dire, che bene descrive il volto di un artista come il Leone di Napoli (titolo del libro di Philippe Daverio). Rino Vellecco ha saputo sfruttare l’icasticità dell’immagine ferma, che si sottrae al gioco perverso dell’Image mouvement (Gilles Deleuze) che si attua nel filmato: così simile al quotidiano da conservarne l’istantaneità. La causa di quel camminare senza capire per l’eccesso di cose e suggestioni, che collassano l’attenzione nella semplice presenza. Blow up, il film di Antonioni, oggi già antico, fece capire l’importanza dell’istantanea, che fissa il panorama completo e consente al viandante affannato di fermare il tempo e godere una pausa nel flusso della vita. Quando la fotografia conquistò l’istante, nell’800, con le parole di Baudelaire iniziò l’autocoscienza del nuovo mondo del corpo e della velocità, allora agli albori. L’istantanea mostrò l’importanza del Caso, la Fortuna che vince sulla Posa – e così si vide che nemmeno essa era lo Spirito di Laplace, l’ipotesi scientifica del determinismo assoluto che finalmente elude il caso: è il perenne idolo del pensiero binario, la mente onni-calcolante che domina il futuro. Un sogno più che una ipotesi, ma continua a riproporsi con diverse vesti nel pensiero dell’uomo, dall’antico più antico. Perché forse ancora più della Morte, la Fortuna è il vero problema di ognuno: perché aiuta gli audaci e penalizza gli onesti? Bene, il fotografo sa molto presto che per quanti sforzi faccia per inquadrare secondo la sua sola volontà, il mondo si presenta poi nella foto a modo suo, e ognuno vi scorge cose diverse. Se da un lato rimane frustrato nel suo desiderio di dominio, il filosofo è un pragmatico, subito risolve il problema come si risolvono nel mondo dei frattali e del quotidiano: ripetendo – ed ecco l’invenzione del motore nella foto, anche dopo la scoperta dei Lumière della pellicola dentata. È l’affermazione netta e circostanziata dell’importanza dell’occhio sulla tecnica - l’immagine si giudica nell’esistente, nel risultato, ‘dopo’ - e non nell’idea o nel contenuto. La bellezza agognata da ogni artista anche in pectore vive di vita propria se sa nascere, e mostrarsi suscitando pensieri ed emozioni speciali e diversi, come fa ogni cosa di questa terra. Occorre che si incarni, che prenda forma, ed è questo che spiega la differenza tra foto ricordo e foto d’arte. Perché arte sia, occorre la padronanza del medium, ma il centro è l’occhio. Lo rivela lo sguardo inconsapevole dell’istantanea, che aprì i cammini della retorica della memoria visiva, indagando cosa nell’immagine realizzi il dialogo sussurrato che è


il pensiero visivo. Il sapere estetico coglie la bellezza nella percezione, nella sua compiutezza di bello e brutto. Lo studio di Giuseppe Antonello Leone, come tanti studi d’artista, vive di confusione. Ovunque opere in-gombranti sono le sparse tracce del microcosmo dell’Opera. La casa invece, che sta più in alto, ha il suo or-dine, custodito prima del portone da un antico cancello di ferro che sottolinea il suo status di cassaforte in cui realizzare un ordine homely. Un termine che uso come la livability ricordata da Bruno Zevi, l’abitabilità dell’architettura, che comprende anche lo spazio vissuto, libero di ruotare: già lui lamentava non vi sia il corrispettivo in italiano se non forse ‘familiare’. Oikos diceva il greco – per indicare il luogo dove si gode l’armonia del vivere e ci si sente a posto; e resta oggi nel prefisso del sostenibile, l’ecologia, l’eco ambiente di vita, dove si inizia con un ‘buongiorno’. Ed ecco, basta entrare dalla porta per illuminarsi d’immenso: la finestra dirimpetto apre sulle colline, il pri-mo insediamento di Napoli, Pizzofalcone. Dovunque si guardi, in su e in giù, ci si trova immersi in un’oasi di verzura, nel sole e nel mare: incredibile a dirsi, ma in quel sito più frequente di quanto s’immagini; casa e studio sono attigui alla Scuola Militare della Nunziatella. Ma venendo dai vicoli del Monte di Dio si è colti da una sensazione claustrofobica, e ciò racconta meglio di tante sociologie i problemi di Napoli. La grande bel-lezza sua resta oltre i muri eretti da stranieri e dalle corti ossequienti: il vento ne contrabbanda il respiro nell’anima della gente. Al balcone sedeva Antonello, negli ultimi tempi, quando mi mostrava un suo re-cente ritratto del Filosofo Cacciari. L’inquadratura del guardare camminando è l’arte propria della fotografia, che cerca il silenzio delle cose, il sublime senso nascosto. Lo inseguiva Cezanne, nel racconto di Merleau Ponty, quando cercava il posto per piazzare il cavalletto. Quel posto giusto Rino Vellecco lo ha trovato, girando nella casa studio dell’artista. Se guardiamo il sito di Rino, troviamo film e fotografie documentarie di azioni sociali collettive come le processioni e i quartieri di Napoli. Vi si raccontano le storie degli uomini nel vivente corpo del popolo, si fa attenzione alle storie e ci si distrae dalla ripresa – se il montaggio è abile, fa scomparire il taglio. Ma qui che l’attore è scomparso, così vivo nella memoria mentre pure l’ambiente sta per sparire, fedele come il cane che insegue il padrone fino alla tomba, Rino mostra che le cose possono raccontano l’anima di quell’amore ricambiato. E così chi segue il percorso delle fotografie, riconosce quella caratteristica di Giuseppe Antonello Leone che lo fa diverso da tanti altri, la pacata gioia di vivere: l’ambiente è homely, è una casa confortevole, ma in realtà per Antonello è il mondo che è homely.


Vissuto in epoca nichilista, patendo le consuete traversie degli artisti non sostenuti da ben condotte scelte di mercato (raccontava scherzando la fortuna di Guttuso, che aveva sconfitto nei primi concorsi) ha saputo mantenere l’anima della scoperta. La rinascimentale Anima Mundi gli parla nelle grandi cose, ma anche nelle piccole. E così da artista operò nelle istituzioni, dirigendo scuole d’arte, ebbe famiglie vive d’affetto, e tutto ciò contribuì a conservargli il sorriso – ma la vita insegna che amare la vita ed amare l’arte, la più vera caratteristica di Antonello Leone, è una scelta difficile. Ma essa arricchisce tutto di senso, e l’anima sa connettere il senso del tutto, lega le pietre e le plastiche dorate alle grandi opere di scultura e pittura che si possono vedere nei siti a lui dedicati. È un artista che sa essere fanciullino, come diceva Pascoli, per la fiducia semplice che non si lascia impaurire. Leone ama col genio artigiano perfezionato nelle arti plastiche e visive, ma sempre va, come un guascone, alla conquista dell’occhio, il terzo occhio dell’equilibrio metavisivo, o il sesto senso esaltato dal puro visibilismo… quello che sa scorgere l’infinito, come la filosofia. Concretamente, il vedere traccia possibilità nelle cose e anche nei rifiuti; sulla pietra scartata dai costruttori, Pietro, Gesù eresse la sua Chiesa. L’ipotesi, l’idea di un’opera, come anche il possibile riuso, nascono se si cambia punto di vista; l’opera d’arte mostra la forma del processo creativo, basta mettere frutta in un cestello e inseguire la luce, e si può cambiare la storia dell’arte, come Caravaggio. L’artefatto è sempre umile opera d’artigiano che pensa grandi cose e usa scalpelli e colori per far emergere il nascosto. Anche nei fustini in plastica (oggi poco fustini in realtà) dei detersivi del supermercato c’è poesia. La maledetta plastica esaltata da Koons e in senso feticistico collezionata da Renzo Arbore, diventa con Antonello Leone un modo di rivivere, sorridendo, le storie di antichi cavalieri e animali mitologici. Così aveva riconosciuto la Forma nelle pietre che esibivano l’intrinseca capacità di Ermes, l’arte di ordinare il mondo ridendo, dissolvendo la solidità per aprirla al futuro dell’arte e conquistare la Bellezza. E se non danno forma al mondo pietre, fiori e plastiche – e tutte le opere dell’ingegno umano – come potrebbe farlo l’artista? Amichevolmente nel silenzio gli artefatti parlano nel quotidiano della mano divina dell’Opera, che ovunque splende nell’aria e per li campi esulta diceva quel malinteso pessimista che fu Leopardi. Basta saper vedere: è la parola stessa del riconoscimento – così aulica, così banale, così familiare. La verità è semplice, diceva Aristotele. Ho conosciuto Antonello Leone ai suoi quasi novant’anni per merito di Franco Lista, nelle prime sperimen-tazioni della Federico II che davano forma alla didattica della bellezza: una scuola estiva per bambini. Ricor-do la sorpresa di tanta naturalezza nel tratto, nel parlare con i piccoli diretto e divertente, che si faceva ri-spettare generando silenzio con continue trovate, come il parlare incomprensibili linguaggi futuristi… Lo sconcerto e la splendida oratoria del gesto… per poi tornare, sconcertando vieppiù, dalla performance i-strionesca alle indicazioni sul da farsi. Una lezione in immagine, un teatro del sapere: cosa si può dir meglio per far capire che la spontaneità non esclude i vocabolari e le tecniche? O, dall’altro lato, che anche una buona argomentazione ha bisogno di colore, per parlare a tutti? Erano


chiare indicazioni della sua familiari-tà al mondo, del suo voler vedere e voler sapere senza troppa ironia – ne basta poca se non ci si vuole na-scondere nel genio maledetto. Gli artigiani operano così, gli Artisti preferiscono i paludamenti. Mi era tutto chiaro, ma solo la grafic story (non novel, come si dice dei romanzi) di Rino Vellecco, ha saputo illustrarla, distraendo dalla purezza delle opere e ricomposto il cammino incerto del rapporto di vita e arte. Con una sensibilità cromatica che sarebbe piaciuta ad Antonello, le foto seguono l’iter della ricezione della voce dell’ambiente che svela il segreto del vivere d’arte nelle parole delle cose. Come documenti, le foto sono una pittura della crasi, l’accostamento senza sintesi, che si presta al cambiamento di punto di vista. La porta aperta al silenzio, non è l’allestimento del museo che sottolinea l’effetto, non c’è la sindrome di Stendhal a distogliere dal capire. Si rivive la creazione nel suo nascere nella gioia di creare e partecipare. La mostra idolatra la bellezza senza le dovute misure – Hans Belting indica nel sacro dell’arte il punto della conquista del sublime, quando essa conserva in sé la vita tutta: la brutta madonnina nera che ha raccolto tante speranze, parla al cuore più dei capolavori, e connette arte, artigianato, vita e capire in una. La cattura magica della foto rivive Il gioco degli occhi (titolo dell’autobiografia di Elias Canetti), per comuni-care il Visual Thinking, (titolo di Rudolf Arnheim) che si ritrova oltre lo sguardo – nell’empatia che ogni arti-sta cerca. La casa studio di Leone mostra il suo il compiacimento di vivere perché la bellezza consola. L’itinerario tra le cose illumina la vita nella casa, bisogna che la foto la ordini seguendo l’aura diffusa, im-mergendo nel cammino. Si inizia dall’homely: antichi reperti declinano sulle carte intagliate, pagina 1 e 2, tra la madonnina di plastica e la poltrona comoda. Tavoli e libri non danno concessioni a romanzi e politica, ma non ci sono zoomate a rivelarlo; seguono subito fotografie e disegni della memoria, gli amati defunti, moglie, fratelli, genitori, parroci… tra le bottiglie di liquore e gli interruttori della luce. Subito dopo le opere degli ultimi anni, gli intagli in plastica; Riccardo Dalisi ne ha realizzati tanti in latta, educando lattonieri e bambini: Leone ha sagomato strutture in carta, solide come statue; ma poi le plastiche trasformate in per-sonaggi del teatro si sono rivestiti di oro con un po’ di vernice dorata… la solita bugia d’artista, il riciclo d’arte, il sogno del futuro, la trasformazione alchemica. La plastica diventa oro grazie alla pietra filosofale, che tritura e mescola in forme nuove il mondo. Sperimentare i materiali, l’ossessione del Novecento di tecniche e tecnologie, è antico costume dell’arte. Se eccedere la misura dell’arte rischia il virtuosismo, il Saper Vedere (titolo già di Marangoni e di Zevi) di Antonello Leone media il miracolo dell’apparire della forma. L’oro dell’arte è la visione organica di un tutto che non si fa di parti – che le accosta guidato dalla luce; in sé è l’oltre, l’uno dov’è compreso il mistero, il domani. Saper vedere è lo scorgere nella pietra la figura di Michelangelo, è intuire il punto della trasformazione del legno in madonna, della bottiglia di plastica in guerriero. L’arte transustanzia, disse Duchamp, anche solo dislocando, se sa essere scrittura dell’indicibile, l’essenziale fatto forma. Quest’anima è l’oggetto delle prime otto pagine della grafic story di Vellecco, poi si passa all’illustrazione della collezione domestica, ambientata tra cappelli sull’attaccapanni e quadri di questo Novecento lunghissimo, per chi guardi alle rivoluzioni della comunicazione, ben presenti all’artista. Secolo vissuto quasi per intero da Antonello Leone (1917-2016), dall’epoca dei media terrestri del futurismo a quella dei media della comunicazione, e poi della tecnologia incalzante e della rete… un millennio non ha fatto di più di questo secolo, eppure


vissuto nell’espace d’un matin dell’istantaneo, dei fotogrammi ripetuti. Altroché secolo breve! Gli stili, la varietà delle opere di Antonello documentano questa necessità di ricominciare da capo giorno per giorno – e cantano la solidità consistente nel sapersi ancorare alle tecniche e ai valori comuni. Vellecco così passa agli strumenti e scende nello studio; dove c’è anche il gesso del suo famoso gallo, quello che guarda Napoli e l’home di Antonello – dalla vetta di Castel dell’Ovo. Forse frutto anche della stagione esa-speratista. Tecniche che sono sapienze del sapere e del fare occorrono, ma anche strumenti di falegnameria e pitture, colla e chiodi. È il minimo bagaglio di chi pratica le lingue dell’arte. Ma ovviamente anche qui sono protagonisti gli affetti e i valori: compaiono subito i busti di due donne, Irene Sbriziolo e Maria Padula Leone, e a fianco gli amici, Rocco Scotellaro, Marcello Gigante, Aniello Montano. Fu il filosofo Montano a presentare all’Istituto di Marotta a Monte di Dio la scultura delle pietre di Antonello Leone. E tra altre pietre una che ricorda tanto l’immagine di Maria che forse è proprio il calco del busto in bronzo… basta il dubbio per intendere il realismo della filosofia delle pietre… visionario Leone! C’è una misura aurea, dice-vano i Pitagorici, la musica delle stelle è scritta nel cuore dei girasoli, oltre che nell’aritmetica della misura. Giuseppe da studente era un viandante maratoneta; studiava a Napoli e quindi, in quel mondo di poche ferrovie, camminava da Pratola ad Avellino, poi dalla stazione all’Accademia: e raccoglieva pietre, materie economiche, che con pochi tocchi diventano figure. C’era già nel gesto il segno dell’amicizia del mondo creato che ispira ogni artista –o la si canta o la si implora maledicendola. Sembra dire questo il busto di Marcello Gigante, il papirologo, che risvegliò gli antichi rotoli con una scuola gloriosa, anch’essa passata di mano – una scuola capace di editare i frammenti dei papiri in molti libri, tra cui il Perì Physeos di Epicuro, maestro di Lucrezio, cultore di Venere. Tutti personaggi che con la loro opera hanno costruito l’argomentazione del vivere in armonia, procedendo però nella strada della gloria – ad onta di tutto. Il gallo di Castel dell’Ovo racconta proprio questo, l’arte dà la sveglia, forse meno poeticamente dell’allodola di Giulietta: col chicchirichì del gallo rinasce il sole, ed un giorno di più per fare, per chi ha buona volontà.


La storia si chiude come era cominciata: con la pagina 30 compare Rosellina, la figlia, dirimpetto alla mam-ma, nel busto di bronzo che torna nella foto per esaltare la somiglianza di due anime d’artista, figlia e ma-dre, che si sono espresse in modo così diverso ma con pari passione ed inventiva – e infine ecco Antonello, l’immagine della maturità che non cambiò molto negli ultimi dieci anni. Aveva proprio il cuore del leone di cui portava il nome, ma si identificava col gallo: era, per non essere altro che un risvegliatore, uno che ti insegna a guardare. Anche per chi non ami l’eccesso di immagini senza parole, che spesso deraglia dalla strada segnata dall’autore e l’interpretazione, credo, è valida solo se si è capito il testo: qui il percorso è molto chiaro e, come spero di aver mostrato, scrive una storia che raduna le idee anche di conosce già l’argomento ma non lo ha espresso in modo chiaro. Cambiare punto di vista rivela verità inaspettate. Per leggere le opere di Giuseppe Antonello Leone è importante sottolineare questo legame con la vita vissuta, sempre importante ma negli artisti spesso involgarita dalla scarsa capacità di ascolto umano di tanti. Sono spesso pessimi familiari, troppo centrati in sé, amici su cui è inutile contare, quando non sono geni maledetti - l’arte occupa tutti i momenti liberi, l’egocentrismo è un rischio di sordità necessario… ed ecco il vate intento all’autocelebrazione per concentrarsi sulla nuova opera. I grandi artisti sono in esempio per essere grandi, ma non grandi uomini, insistono sempre le malelingue dei critici, raccoglitori di aneddoti divertenti, che umanizzano tanto irraggiungibile splendore … ecco, Antonello Leone era invece uomo vero prima di tutto, lo si avvertiva nel parlargli, non poneva la sua grandezza a piedistallo su cui ergersi dinanzi ad una Corte di inabili, come tanti. Si esprimeva da uomo leale che cerca l’altro quel che era; sapeva che i dialoghi danno ricchezza se lo scam-bio è sincero e non finge interesse né vanta tecnica e opere – l’esposizione è tutt’uno con la vita vissuta come la tecnica lo è con la mano, in equilibrio organico da tanto tempo. Mente e mano del pittore lavorano in equilibrio, come le due gambe nel camminare – e disegnano un uomo libero, senza compromessi, aspro come le sue pietre, pieno del senso della vita. Lo dimostra Rino Vellecco, con la sua tecnica che si fa arte nello stesso modo, anche superando la mano e la sua abilità compositiva: allo stesso modo ordina le emozioni, scrive frammenti, dosa i colori: ed infine compone la ricostruzione dell’uomo intero, dietro l’artista.




































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