MANN - N.3 - Alla corte di re Carlo

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ALLA CORTE DI RE CARLO Domenica 18 dicembre 2016 - ANNO I NUMERO 3 - Supplemento gratuito al numero odierno del “Roma” - Non vendibile separatamente

Una mostra per celebrare il tricentenario del primo Borbone che rese Napoli la capitale europea della cultura e delle arti

IL TESTIMONIAL

SCAVI ARCHEOLOGICI

URBANISTICA

Sal Da Vinci: «Napoli deve ripartire dalle sue radici storiche»

Da Ercolano a Stabia, il sovrano che riscoprì le città sepolte dalla lava

Una corte di architetti per le Regge, il Teatro e per cambiare la città


LA PRESENTAZIONE di Paolo Giulierini Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli

Il sovrano che anticipò l’idea di valorizzazione dei beni culturali

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olto si è scritto su Carlo e tante sono state le occasioni di approfondimento, non solo a Napoli, per ricordare i trecento anni dalla nascita. Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli ha naturalmente preso parte con grande entusiasmo alle celebrazioni non solo ospitando convegni, ma anche progettando una mostra organizzata in collaborazione con Madrid e Città del Messico. La felice triangolazione già da sola dà conto delle immense possibilità di relazione e connessione tra istituti di cultura che la figura del sovrano offre per chi, oggi, come noi, vuole continuare nello studio e nella valorizzazione del patrimonio storico artistico ed archeologico generato dalla sua attività politica e culturale. L’esposizione, curata da Valeria Sampaolo, è dunque da intendersi in primo luogo come un punto di partenza per la crescita del nostro Istituto che conserva non solo

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Saturno (Sileno con Baco niño), Madrid, Real Academia de Belas Artes de San Fernando “l’archeologia vesuviana”, ma anche l’enorme patrimonio di rami della reale stamperia, oltre che le prestigiose edizioni d’epoca. Le tappe successive vedranno un’attenta opera di restauro dei rami, nuove

acquisizioni librarie di pregio ma sopratutto, l’emersione a livello narrativo, nell’allestimento museale, della figura del Sovrano. Dietro al formarsi di eccezionali collezioni museali ci sono infatti,


Francesco Liani, ritratto equestre di Carlo di Borbone, metà del XVIII secolo, Museo di Capodimonte costantemente, grandi personaggi e irripetibili contesti storici. La mostra oggi e il museo domani di questo daranno conto, perché con Carlo e “i suoi uomini” l’annoso e spesso sterile dibattito, purtroppo

attuale, che pone come antagoniste conservazione e valorizzazione, era stato ampiamente superato dall’idea geniale di inserire in un unico “cortometraggio” l’esperienza dello scavo, del restauro, dell’esposizione

e della veicolazione dei contenuti tramite una stampa integrata da immagini. A volte, per dare semplici risposte al Presente, basta dare una rapida occhiata all’operato di chi ci ha preceduto, avendo il coraggio di ammettere che le “epopee culturali” passate ancora fanno scuola.

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L’EDITORIALE di Pasquale Clemente Direttore responsabile del “Roma” pace con distruzioni e devastazioni che ci hanno visto protagonisti? E nella Reggia di Portici, oggi monumento degradato e tenuto malissimo, in balia dei vandali, oggetto di spoliazioni infinite, non sarebbe meglio rimettere lì il museo Ercolanese? Non sarebbe una sfida già vinta creare i laboratori di restauro e l’antico museo al servizio degli scavi reali? Magari eliminanosa insegna la parado le sconcezze create nel bola eccezionale dise- tempo, con quei laboratori gnata dal più illumina- di cemento che sbarrano to sovrano che abbia calcato la vista al turista che ha la le scene europee nel diciot- sventura di avventurarsi in tesimo secolo? Che per fare quel gioiello finito davvero in una nazione all’avanguardia bassa fortuna. il buongoverno è essenziale. Carlo di Borbone, se ideCarlo di Borbone inaugura almente fosse ancora oggi musei archeologici, rifonqui, rifarebbe tutto a Napoli, da lo Stato di Napoli, crea ridisegnerebbe tutta via Mainfrastrutture, fa di Napoli rina, creerebbe un contatto una città al passo di Londra tra città e porto, come fatto e Parigi, nel giro di meno a Barcellona, metterebbe le di trent’anni. Poi la storia lo mani su Capodichino elimiporta via, a Madrid, e lì non nando un aeroporto a una sarà mai più dimenticato. sola pista, come nel dopoLa lezione di Carlo di Borguerra e farebbe uno scalo bone è che una città può moderno, magari a Grazzanicambiare volto, prendete se, come deciso da trent’anNAlbero, una costruzione ni. Insomma quello che improvvisata che in pochi manca alla città è una classe giorni crea l’attenzione di politica che la ridisegni, che migliaia di turisti. Con i fondi crei occasioni di lavoro, che europei è un delitto ricreare non si faccia rubare da Mila nostra famosa Lanterna, lano o Roma ogni occasione davanti al Porto? Facendo (drammatica la candidatura

Se Carlo rivivesse oggi, farebbe riemergere Napoli dalla mediocrità

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alle Olimpiadi in Lombardia senza che qui da noi un solo politico abbia fatto la minima opposizione). È vero, in città è tutto un fiorire di mediocrità umana e progettuale. Però lo splendore di Napoli alla corte di un re riformatore impone delle riflessioni. Non è possibile rassegnarsi al quotidiano, alla insufficienza, al ruolo di una città che ha visto perdere posizioni a livello bancario, a livello universitario, a livello politico. La modernità di un re andrebbe riletta oggi, andrebbe anche immaginato un ruolo nella storia della nostra regione per una dinastia che anche nella toponomastica continuiamo a oltraggiare. Le piazze Garibaldi, i corsi Vittorio Emanuele e i corsi Umberto I vanno rinominati e vanno celebrati i nostri sovrani napoletani, non bisogna vergognarsi della storia. Il giudizio dopo tre secoli dall’inizio del casato dei Borbone va riletto. Re bomba non è mai esistito, abbiamo avuto Ferdinando II, il primo che volle una ferrovia in Italia. Solo così le cerimonie che incrociano la memoria di un grande sovrano come Carlo potranno essere ricche e prodighe di risultati.


SOMMARIO

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AL VIA LA MOSTRA DEDICATA AL RE CARLO DI BORBONE

CON I SUOI ARCHITETTI RIVOLUZIONÒ LA CAPITALE

10 UNA PASSIONE EREDITATA DALLA MADRE

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22 SAL DA VINCI: «GRAZIE AL MUSEO RISCOPRIAMO LE NOSTRE RADICI»

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28 SAN CARLO, IL PIÙ ANTICO TEATRO LIRICO DEL MONDO

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LUIGI VANVITELLI, DALL’OLANDA A NAPOLI PER REALIZZARE NELLE SUE REGGE GLI “ABITANTI” IL SUO SOGNO UNA VISIONE DEL MUSEO DELLA VITA

12 IL SOVRANO CHE SFIDÒ IL VESUVIO QUOTIDIANO D’INFORMAZIONE FONDATO NEL 1862

Domenica 18 dicembre 2016 - Anno I Numero 3 Supplemento gratuito al numero odierno del “Roma” - Non vendibile separatamente

Direttore Editoriale ANTONIO SASSO Direttore Responsabile PASQUALE CLEMENTE Vicedirettore ROBERTO PAOLO

Editore Società Cooperativa Nuovo Giornale Roma a r.l. 80121 Napoli - Via Chiatamone, 7 (Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche ed integrazioni) Registrazione Tribunale di Napoli n° 4608 del 31/01/1995 Registro Nazionale della Stampa n° 5521 Vol. 56 pag. 161 ISSN 1827-3475

Redazione Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli tel 081/18867900 www.ilroma.net Ideazione e Realizzazione ROBERTO PAOLO Progetto grafico MICHELE ANNUNZIATA Tipografia “La Buona Stampa srl” Viale delle Industrie, snc San Marco Evangelista (Caserta)


CARLO DI BORBONE, IL RE DELL’ARTE SOCIAL Tre mostre in contemporanea a Napoli, Madrid e Città del Messico per celebrare quell’ideale di condivisione della cultura di Roberto Paolo

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n anello ritrovato a Pompei, che re Carlo di Borbone portò sempre al dito e che si tolse solo

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il giorno che lasciò Napoli per sempre, in partenza per Madrid e per il trono di Spagna. È questo l’oggetto-simbolo

che chiude la grande esposizione dedicata a Carlo dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli (aperta dal 14


Anton Raphael Mengs, ritratto di Carlo III di Spagna, 1761, Madrid, Museo del Prado

Francisco Goya Y Lucientes, “Carlo di Borbone in abito da caccia”, Madrid, Museo del Prado

dicembre) per il tricentenario della nascita del primo re delle Due Sicilie, l’uomo che fece grande il Meridione d’Italia per la prima volta unito e che con la sua passione per l’arte regalò a Napoli e al mondo gli scavi di Pompei, Ercolano e Stabia. Una mostra una e trina quella del Mann di Napoli, che è stata concepita unitamente ad altre due esposizioni in contemporanea a Madrid e Città del Messico, rispettivamente presso la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando e presso l’Academia di San Carlos. Ad unire idealmente le tre mostre sono le incisioni in rame, i disegni ed i calchi in gesso raffiguranti le opere d’arte che re Carlo fece venire alla luce con gli scavi di Pompei, Ercolano e Stabia. Ma andiamo con ordine. Il tiolo delle tre mostre è “Carlo di Borbone e la diffusione delle antichità”. Insomma il re Carlo visto attraverso l’enorme contributo che il sovrano di origine spagnola, naturalizzato napoletano, portò al culto per l’arte e le antichità,

prima attraverso la conservazione e diffusione delle opere appartenute alla madre Elisabetta Farnese (la cosiddetta collezione Farnese), poi attraverso gli scavi archeologici in Campania, che Carlo seguiva personalmente ed appassionatamente, ed i cui ritrovamenti furono oggetto

di una vera campagna anche propagandistica da parte del giovanissimo sovrano delle Due Sicilie. La sua idea fu, infatti, quella di condividere i preziosi ritrovamenti con il resto del mondo. Per farlo, ideò un meccanismo simile, se vogliamo, ai social network di oggi:

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chiamò schiere di artisti ed artigiani a riprodurre attraverso il disegno gli oggetti, i vasellami, le statue che riemergevano dopo secoli dal fango lavico di Pompei o Ercolano. Pensò poi di farne dei libri a periodicità annuale. E l’unico metodo di stampa esistente all’epoca passava per l’incisione dei disegni su lastre di rame prima del fissaggio dell’immagine sul libro. Per questo, attrezzò dei laboratori ad hoc a Portici, dove confluirono i migliori artisti d’Italia e d’Europa, e che diede luogo anche ad una scuola di disegno ed incisione, e sempre a Portici costituì la Real Stamperia che ogni anno dava alla luce i libri con tutti i ritrovamenti provenienti dagli scavi archeologici campani. Questi splendidi volumi (che oltre al disegno degli oggetti contenevano anche minuziose descrizioni scientifiche degli stessi), denominati “Antichità di Ercolano esposte”, partivano poi alla volta delle corti reali, le famiglie nobili, ma anche le Accademie e le scuole d’arte di tutta Europa. E l’uscita degli ”Ercolani”, come venivano comunemente

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chiamati, era attesa ogni anno per dare spunti e modelli agli artigiani europei che lanciavano le nuove mode della gioielleria o dell’arredamento proprio copiando a piene mani da oggetti, vasellame e statue dell’antichità, restituite al mondo dagli scavi archeologici vesuviani, che così finivano riprodotte in anelli, collane, monili, ceramiBusto de personaje masculino, che, stoffe, arazzi, tessuti per Madrid, Real Academia de divani e tappeti, dipinti decoBellas Artes de San Fernando rativi di mobili o oggetti vari, dalle portantine dei nobili alle carrozze. Il Museo Archeologico di Napoli custodisce oltre cinquemila stampi in rame originali Archidamos III, Villa de los Papiros, Madrid, Real Academia di queste opere d’arte. Per de Bellas Artes de San Fernando tre anni questi rami sono stati sottoposti a delicati interventi di restauro con la collaborazione dell’Istituto nazionale di grafica. Ora un campione di duecento di queste incisioni in rame formerà il “cuore” della mostra su Carlo nel Museo di Napoli. Ma la storia dei rami non finisce qui. Carlo di Borbone (nato nel 1716 e morto nel 1788) riunì le Due Sicilie e ne divenne il re nel 1735, all’età


di diciannove anni appena. Rimase re di Napoli fino al 1759, quando venne chiamato a Madrid per ereditare la corona di Spagna con il nome di Carlo III. E con sé in Spagna portò anche il suo profondissimo legame con i ritrovamenti degli scavi archeologici. Tanto profondo che volle essere seguito a Madrid dai calchi in gesso che gli artisti della scuola di Portici facevano delle opere originali per facilitare poi il lavoro di disegnatori e incisori. Quei calchi li tenne prima nella propria residenza del Buen Retiro per poi donarli all’Accademia di Belle Arti di Madrid, affinché gli studenti potessero formarsi ed esercitarsi proprio basandosi sulle opere d’arte dell’antichità restituite dalla lava del Vesuvio. L’Accademia di Madrid conserva, ed oggi espone nella mostra “parallela” a quella di Napoli, parte di quei calchi in gesso. A sua volta, prima di morire Carlo fece fare delle copie dei calchi stessi e li inviò a Città del Messico per la scuola d’arte intitolata proprio a San Carlos. Di queste copie non ne esistono più, ma l’Accademia messicana conserva ed espone oggi numerosi disegni che alla fine del ’700 i suoi allievi fecero sulla base delle copie dei calchi della scuola di

Ottavio Antonio Bayardi, “Catalogo degli antichi monumenti dissotterrati dalla riscoperta città di Ercolano”, Napoli, Regia Stamperia di S.M., 1755

Portici. E così si chiude il cerchio: a Napoli le incisioni in rame, a Madrid i calchi in gesso, a Città del Messico i disegni. Le tre mostre inaugurate in contemporanea ed in collegamento web sono anche in parte interattive. Grazie alle più moderne tecnologie multimediali, a base di ricostruzioni in 3D, restituzioni ad alta definizione e realtà virtuale, pubblico e studiosi potranno vedere, senza spostarsi fisicamente, gli oggetti presenti in tutte e tre le sedi di questa straordinaria esposizione congiunta su Carlo di Borbone. Nel Museo nazionale di Napoli la mostra occupa parte del piano terra, ed oltre ai rami di cui si è detto (che saranno affiancati dalle prove di stam-

pe dell’epoca e in alcuni casi dall’oggetto originale che fu copiato nel rame), si compone di altre due sezioni. Nella prima che il visitatore incontra è raccolta l’iconografia del sovrano, cioè come il re Carlo venne rappresentato dai più svariati artisti dell’epoca, dalla più tenera infanzia fino agli anni napoletani. Una seconda sezione è dedicata alle attività di scavo nelle città vesuviane, Pompei, Stabia ed Ercolano, con l’esposizione, o il rimando, agli originali più famosi scoperti fino al 1759 e che il sovrano certamente vide: dalle “Ercolanesi” dello scavo del principe d’Elboeuf, alle grandi statue in bronzo dall’Augusteum, o dal Teatro di Ercolano, alle sculture in bronzo e in marmo della Villa dei Papiri.

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UNA PASSIONE EREDITATA DALLA FAMIGLIA FARNESE Carlo di Borbone prese dalla madre l’inestimabile collezione di opere d’arte di Armida Parisi

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Ercole e il Toro Farnese sono fra le sculture più ammirate del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Non tutti sanno però che è anche merito di Carlo di Borbone se si trovano qui. Il re, infatti, le aveva ereditate dalla madre Elisabetta Farnese, ultima discendente dell’antica e nobile famiglia che si era affermata nel ’500. Si trattava di un lascito di grandissimo valore: comprendeva collezioni di dipinti, disegni, bronzi, medaglie e monete, reperti archeologici, cammei e libri conservati nei palazzi ducali di Parma e Piacenza, nella vicina residenza di Colorno e a Palazzo Farnese a Roma. Ebbene, subito dopo il suo arrivo a Napoli, il giovanissimo re ordinò che se ne

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cominciasse il trasferimento nella sua nuova città. Il suo progetto era di ammodernare Napoli per renderla degna del suo ruolo di Capitale: aveva infatti intuito che la cultura, e soprattutto l’arte, potevano svolgere un ruolo essenziale nel rilancio della Regno sullo scacchiere europeo. Le opere della collezione Farnese erano così numerose, che si pensò di costruire un apposito edificio per custodirle: i lavori per la Villa Reale di Capodimonte ebbero inizio anche per questo motivo. Fu invece alla fine del ’700 che si stabilì di trasferire i pezzi antichi della raccolta nell’edificio in cui si trovano oggi, che allora era il “Palazzo degli Studi”, l’Università per intenderci, e adesso è il Museo archeologico nazionale. È qui che li troviamo. Sono veramente tanti,

La Venere Callipigia, I-II sec. d.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli


L’Ercole Farnese, III sec. d.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli

alcuni dei quali famosissimi. Fra questi spiccano, per il loro valore simbolico, i “Tirannicidi”, i due giovani ateniesi che uccisero il figlio del tiranno della loro città diventando immagine eterna di libertà. Invece, risulta estremamente sensuale la “Afrodite callipigia”: la dea della bellezza viene colta nel momento di entrare in acqua per il bagno, mentre solleva l’abito e mostra uno splendido “lato B” (da cui il nome greco di “callipigia”, che significa appunto “belle natiche”). Commovente lo sguardo fisso nel vuoto sul volto rugoso di Omero, il poeta cieco il cui ritratto era presente in tutte le biblioteche dell’antichità: la vecchiaia qui assume una dimensione quasi sacra. Ma sacra è anche la giovinezza prestante del dio Bacco, con una coppa in una mano e l’immancabile grappolo d’uva nell’altra: un inequivocabile invito al piacere, da parte di questa straordinaria scultura appartenuta a Lorenzo il Magnifico prima di approdare nella detta “Tazza Farnese”, il più celebre cammeo celebre galleria di Palazzo Farnese a Roma dell’antichità: è una coppa del I secolo a.C., e da qui, definitivamente, a Naporicavata da un’unica grande pietra, li. E poi le grandi sculture che sul cui interno sono raffigurate ornavano le Terme di Caraben otto figure che rapprecalla: l’Ercole, possente e sentano la fertilità dell’Egitto. malinconico, dopo l’ultima delle sue dodici fatiche; e il gruppo del Toro, uno Piatto di epoca ellenistica, scuola alessandrina, dei più grandi pervenuti fabbricato in Agata dall’antichità. Sardonica, Dal monumentale al lavoMuseo Archeologico ro di precisione: le gemme Nazionale di Napoli della collezione Farnese sono esempi straordinari di raffinatezza. Prima fra tutti la cosid-

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IL SOVRANO CHE RESTITUÌ ALLA CAMPANIA IL PASSATO Carlo intraprese gli scavi di Ercolano, Pompei e Stabia. Ed emanò la prima legge al mondo per proteggere dai ladri i reperti archeologici 12

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di Pasquale Clemente

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a storia di Pompei ed Ercolano è nota ed è una pagina triste e avventurosa del vicereame austriaco. Nel 1709 un contadino di Resina, un certo Enzecchetta, dai lavori in un pozzo nel suo podere, posto alle spalle della Chiesa di Santa Caterina, scoprì dei finissimi marmi. Nel cavarsi il pozzo, si ebbe la fortuna di imbattersi a piombo sulla bocca di un altro antico pozzo, che era chiuso con una pietra rettangolare poggiata sul suolo e sotto la quale, a pochi centimetri, vi era l’acqua. Il pozzo, che tuttora esiste, è al civico n° 103 del Corso Resina. In verità, in un testo di Georges Hanno del 1881, intitolato “Les Villes retrouvées Pompéi et Herculanum”, si fa riferimento all’Enzechetta come ad un panettiere di Portici e non un contadino, mentre in un altro testo del 1826, denominato Nuova guida di Napoli, dei contorni di Procida, Ischia e Capri, l’Enzechetta è qualificato come villico. In ogni caso, in quel momento, il Principe d’Elboeuf era alla ricerca di marmi preziosi per adornare la sontuosa villa che doveva farsi costruire al Granatello. Pertanto, messo al corrente dello straordinario ritrovamento, si recò a Resina dove, riscontrando l’ottima qualità dei marmi, intuì che potessero appartenere ad un’antica città sepolta. Fu così che acquistò il campo dal contadino e continuò per conto proprio gli scavi, affidandoli all’architetto napoletano Giuseppe Stendardo. Scavi che furono definiti “scavi di rapina” in quanto il Principe di Lorena, avendo estratto un considerevole numero di capolavori li inviò in tutta Europa. Un vero Eldorado a pochi passi dalla splendida villa che si era fatta costruire sul Granatello, su un rudere dei padri Alcantarini. Il barone agì con avidità e con spregiudicatezza. Moltissime le statue che trafugò e portò via in Francia, Germania e Austria. Tantissime le opere d’arte che divennero merce di scambio. In particolare, il Principe d’Elboeuf, inviò a

In alto gli scavi di Ercolano. Nella pagina a lato un dettaglio di un mosaico della Casa del Fauno a Pompei

Vienna in dono a Eugenio di Savoia delle colonne e due bellissime statue che, per la loro provenienza, furono appellate le “Ercolanesi”. Fu solo con l’arrivo di Carlo di Borbone che la ricerca di reperti archeologici nell’area vesuviana, la loro conservazione e la diffusione ebbero un impulso senza precedenti, grazie soprattutto alla grande passione che il re pose in questa attività. Il 23 marzo 1738 con l’ingegnere ed archeologo spagnolo Roque Joaquin de Alcubierre, con l’aiuto dell’abate Martoi, degli ingegneri Weber e Francisco la Vega, questi ultimi due con il compito di curare i giornali di scavo, aprì un primo cantiere nella zona di Civita. La mancanza di ritrovamenti di oggetti di valore, fece spostare l’attenzione nuovamente su Ercolano ed il cantiere di Pompei fu chiuso: di questo primo periodo, dopo l’esplorazione e la raccolta di reperti, le costruzioni venivano nuovamente sepolte e le modalità d’indagine erano molto approssimative, centinaia le pitture distrutte. Solo dieci

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A sinistra il mosaico del Cave Canem all’ingresso della Casa del Poeta Tragico a Pompei

A destra un affresco sulla parete di una domus negli scavi di Stabia

anni più tardi ci si concentrò negli scavi di Pompei. Gli scavi venivano condotti grazie alla creazione di gallerie e ciò dovette pregiudicare la percezione dell’appartenenza dei dipinti ad un contesto decorativo più ampio. Si pensò al modo più adatto per prelevare e portare all’esterno le pareti dipinte che si susseguivano all’interno degli stretti cunicoli che si andavano scavando. Si decise di seguire una metodologia tradizionale, ovvero, lo stacco a massello che consentiva una notevole rapidità di esecuzione: una volta tagliate dal muro, le porzioni figurate degli intonaci dipinti venivano assottigliate ed adagiate su un supporto. Questi dipinti murali venivano trattati come singoli «quadri» figurativi che dovevano andare ad arricchire le collezioni reali. Reperti di questo tipo erano considerati fino a quel momento rarissimi e, quindi, di grandissimo pregio. Nel 1749 Carlo decise di aprire degli scavi nell’agro stabiese, nella zona del poggio di Varano, che tempo addietro era situata nel territorio di Gragnano, e miravano a riporta-

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re alla luce l’antica città di Stabiae. Anche qui gli scavi procedettero al coperto, con il metodo dei cunicoli. Di dimensioni minori rispetto agli scavi di Pompei e di Ercolano, quelli di Stabiae permettono di osservare un diverso aspetto dello stile di vita degli antichi romani: infatti, mentre le prime due località erano delle città, Stabia, dopo un passato di borgo fortificato, era in epoca romana un luogo di villeggiatura, in cui furono costruite numerose ville residenziali decorate con pitture e abbellite con suppellettili; non mancavano, tuttavia, ville rustiche. Un altro grande merito di Carlo fu quello di comprendere per primo che i ritrovamenti archeologici andavano protetti, sia dalle intemperie sia dai ladri. Questo da un lato comportò l’asportazione di molti dei reperti per la loro conservazione nei musei reali, dall’altro fece sì che il governo borbonico fu il primo al mondo ad


emanare delle norme finalizzate ad impedire l’asportazione, il saccheggio ed il commercio delle opere archeologiche: la “Prammatica” di Carlo di Borbone, che risale al 1755, proibiva lo spostamento delle «cose» di interesse storico artistico senza il permesso ed il controllo delle autorità. Il re Carlo amava gli scavi archeologici, voleva essere informato quotidianamente delle nuove scoperte e spesso si recava nei luoghi delle ricerche per poter ammirare i reperti. Ne fece un vanto del suo Regno ed anche uno strumento di propaganda della Casa borbonica. Affidò in seguito la gestione del grande patrimonio

Nei due tondi in sfondo nero: Hermas de Ariadna y Dionisos, Madrid, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando (calchi in gesso di statue ritrovate ad Ercolano)

storico e artistico rinvenuto all’Accademia Ercolanese, da lui istituita nel 1755 nella Reggia di Portici. Ecco perché sarebbe di grande interesse che il Museo Archeologico Nazionale avesse una importante ramificazione proprio nella Reggia di Portici, il disegno originario inizia e finisce in questa elegante e magnifica costruzione a due passi da Ercolano e Pompei.

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UNA CORTE DI ARCHITETTI PER RIVOLUZIONARE LA CAPITALE I l regno di Carlo inizia all’insegna del rinnovamento: il sovrano vuole dotare la città di edifici imponenti, in modo da elevarla al rango di capitale. È per questo motivo

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che, sul finire degli anni ’30 del Settecento, invita a corte un bel po’ di architetti: il siciliano Giovanni Antonio Medrano, chiamato a progettare il Teatro di San Carlo e la Reggia di Ca-

podimonte; il romano Antonio Canevari col compito di disegnare la reggia di Portici; Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga daranno, negli anni cinquanta, linfa nuova all’architettura


A sinistra l’emiciclo del Foro Carolino, oggi Piazza Dante, realizzato da Vanvitelli

A destra l’Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga

cittadina, e non solo. A Fuga viene affidato l’incarico per l’Albergo dei Poveri: un edificio colossale, che si sarebbe dovuto estendere per 600 metri, per accogliere 8mila indigenti, divisi per sesso e per età. Sull’onda delle nuove idee illuministiche, il re intende provvedere alle esigenze delle fasce deboli della città, non solo in maniera assistenziale, però. Oltre agli alloggi, infatti, il progetto prevede, accanto a una grande chiesa, laboratori per la produzione di manufatti artigianali. L’intento è chiaro: si intende reintegrare i mendicanti attraverso un programma di educazione al lavoro, alla preghiera e alla vita sociale. È un progetto colossale, iniziato nel 1751 e rimasto incompiuto alla morte dell’autore: è infatti lunga “solo” 300 metri la facciata che domina attualmente l’antistante piazza Carlo III. Complementare all’Albergo, il Cimitero delle Trecentosessantasei Fosse commissionato dal successore di Carlo, Ferdinando IV, allo stesso Fuga per fornire la sepoltura a chi non poteva per-

“Le fabbriche di Carlo” ora si visitano in virtuale

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e regge, il teatro San carlo, gli scavi di Ercolano e Pompei, le manifatture di porcellane e arazzi fino alla stamperia in un percorso che coinvolge i visitatori. Chi vuol visitare “Le fabbriche di Carlo” può farlo anche in maniera virtuale: nel Convento di san Domenico Maggiore potrà vedere il video realizzato da Stefano Incerti ed interpretato da Nando Paone che offre una panoramica completa dell’intraprendenza delle iniziative innovative della corte di Carlo di Borbone. Sul sito web www. carlodiborbone.net ci si può divertire con giochi interattivi o approfondire le proprie conoscenze con un ebook da scaricare.

mettersi di pagarsi una tomba. Luigi Vanvitelli avrà la sua grande occasione con la Reggia di Caserta e inaugurerà uno stile che diventerà un punto di riferimento per un gran numero di architetti locali. A Napoli, invece, a Luigi Vanvitelli viene affidata la sistemazione del cosidetto “Largo del Mercatello”, da sempre un luogo di scambi commerciali. Tra il 1757 e il 1765 realizza il “Foro Carolino”: l’architetto lo immagina come un vasto emiciclo al centro del quale pone un’enorme nicchia, nella

quale ospitare la statua equestre del re. Tutto intorno, sulla balaustra, 26 statue a rappresentare altrettante virtù del sovrano. L’intento celebrativo doveva essere evidente ma la piazza rimase incompleta perché la statua equestre non fu mai realizzata. In seguito, nel nicchione fu aperta la porta di accesso a quello che oggi è il Convitto Vittorio Emanuele, mentre, dopo l’unità d’Italia, al centro delle piazza fu sistemata la statua di Dante Alighieri, da cui il nome attuale. arpa

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LE TANTE REGGE DEL RE ILLUMINISTA Restaurò il Palazzo di Napoli, costruì quelli di Portici e Capodimonte e la splendida residenza di Caserta, più bella di Versailles

corte il palazzo reale che, dopo i lunghi anni del viceregno spagnolo, versava in pessime condin palazzo degno di un re. Questo vuole zioni. Ne affida i lavori all’architetto-colonnello Carlo di Borbone quando arriva a Napoli Giovanni Antonio Medrano che sarà anche l’arnel 1734. È per questo che fa adattatefice del Teatro di San Carlo, concepito come re immediatamente alle esigenze della nuova parte integrante del programma di ampliamen-

di Armida Parisi

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A sinistra la Reggia di Caserta con i suoi magnifici giardini e la famosa fontana a cascata. In basso una vista dall’alto della Reggia di Capodimonte

E per le sue fontane un maestoso acquedotto di ben 38 chilometri

È to della reggia. Ma il sovrano ambisce a dotare la corona di un patrimonio residenziale in grado di competere con quello delle grandi monarchie europee. Nel giro di quindici anni, perciò avvia i cantieri di ben tre grandi residenze reali: Capodimonte, Portici e Caserta. Innanzitutto, il giovane Carlo pensa al divertimento, così adocchia la verdeggiante collina di Capodimonte dove può agevolmente dedicarsi al suo svago preferito: la caccia. Ecco quello che ci vuole: un bosco immenso intorno a una reggia, dove potrà raccogliere anche i preziosissimi pezzi della collezione Farnese, ereditata dalla madre Elisabetta. Detto fatto: i lavori sono affidati al già sperimentato Medrano cui viene affiancato l’architetto romano Antonio Canevari. Il progetto, semplice e lineare, richiama la forma di un accampamento militare: una pianta rettangolare con tre cortili interni comunicanti tra loro, e le quattro facciate omogenee caratterizzate da un’alternanza costante di pilastri in piperno e superficie di mattoni rossi.

così imponente che l’Unesco l’ha dichiarato patrimonio mondiale. L’acquedotto carolino è un grandioso esempio di ingegneria idraulica. Con i suoi 38 chilometri di lunghezza, parte dalle falde del monte Taburno e arriva ai piedi del monte Briano, dove alimenta la cascata della Reggia di Caserta. Fu realizzato da Luigi Vanvitelli durante il regno di Carlo di Borbone non solo per rifornire di acqua la reggia di Caserta e le zone circostanti ma anche per potenziare la fornitura idrica di Napoli, allacciandosi con l’acquedotto seicentesco del Carmignano. Il percorso si snoda quasi tutto sotto terra, ad eccezione del tratto che scorre lungo il Ponte della Valle, costruito per superare la Valle di Maddaloni: Vanvitelli lo disegnò sul modello degli acquedotti romani, con una serie ininterrotta di arcate disposte su tre ordini, per mezzo chilometro di lunghezza e 50 metri di altezza. Da segnalare il monumento-ossario, alla base del Ponte, che contiene i resti dei soldati morti nella battaglia del Volturno del 1 ottobre 1860. A Valle di Maddaloni, infatti, si scontrarono la brigata garibaldina, di cui facevano parte anche Menotti e Bixio, e le truppe borboniche.

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Qui sopra la Reggia di Portici. A destra il Palazzo Reale di Napoli, che Carlo trovò in decadenza e ristrutturò completamente. In basso lo scalone principale della Reggia di Caserta

era nota per le opere d’arte antica che via via vi si andavano raccogliendo. Perché la reggia nasce proprio con una funzione precisa: quella di diventare il contenitore dei reperti archeologici che gli scavi in corso a Ercolano e Pompei restituivano alla luce. Nel 1738 infatti, spinto dalla moglie Maria Amalia di Sassonia, Carlo ordinò Nel parco sorgevano anche altre costruzioni: la di riprendere gli scavi e, a dimostrazione del casina dei principi, la cappella di San Gennaro, loro interesse per le città sepolte, durante tutta il casino di caccia, l’eremo dei cappuccini, la la durata dei lavori i sovrani abitarono nelle fagianeria e la famosa fabbrica di porcellana, ville che si trovavano nei pressi della reggia. voluta da Carlo a imitazione di quella di SasIntanto venivano fuori le prime prove che in sonia, fiore all’occhiello della famiglia della quella zona vi era la città di Ercolano: la statua moglie, Maria Amalia. La manifattura fu attiva durante tutto il regno di Carlo producendo oggetti di altissimo valore improntati al gusto settecentesco più raffinato. Alla partenza del re per la Spagna fu interrotta ma ripresa dal figlio Ferdinando, prima presso la reggia di Portici e poi nel giardino di palazzo reale a Napoli. Ancora alla coppia Medrano-Canevari viene affidata la costruzione della reggia di Portici, affacciata da un lato su una spettacolare veduta a mare e dall’altro sul Vesuvio incombente. Più che per la posizione spettacolare, la reggia

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equestre di Marco Nonio Balbo e una quarantina di affreschi furono trasportati alla reggia e divennero il primo nucleo del Museo ercolanense. Nel 1748 vennero alla luce i primi resti di Pompei cosicché già nel 1750 Carlo disponeva di una collezione di antichità unica al mondo per qualità e quantità. Pensò così di raccoglierla in un unico edificio interno al parco della reggia: Palazzo di Caramanica divenne così un vero e proprio museo che conteneva iscrizioni, sculture, lampade, utensili, papiri, medaglie, cammei, mosaici e dipinti. Dall’esigenza di spostare la corte in un luogo più sicuro di Napoli, considerata troppo esposta al pericolo di aggressioni nemiche, nasce la reggia di Caserta. Progettata da Luigi Vanvitelli, sarà senza dubbio la più grandiosa realizzazione della monarchia borbonica. Il modello che il re aveva in mente era Versailles: voleva che la nuova reggia fosse il fulcro di una vera e propria capitale con tutti i ministeri, le residenze degli amministratori, una chiesa cattedrale, un teatro e una biblioteca. Non solo, ma aspirava anche a fondare una nuova città al centro di un ampio territorio fertile e

produttivo, sperando così di attrarre un bel po’ di napoletani che volessero dedicarsi all’agricoltura. Il progetto di Vanvitelli dà forma concreta alle intenzioni del sovrano. Il collegamento con Napoli viene stabilito con una strada rettilinea che parte da Capodichino e arriva a Caserta dopo trentatré chilometri. L’effetto scenografico è garantito: l’enorme facciata della reggia, disposta perpendicolarmente alla strada, appare al visitatore in tutta la sua imponenza che domina sulla pianura circostante. Il lungo viale sembra addirittura entrare nel palazzo e proseguire idealmente sullo stesso asse, attraversando il cortile interno dell’edificio e allungandosi fino ai piedi della cascata, in fondo al parco. In questo modo l’architetto traduce nel suo linguaggio, fatto di linee e volumi, il sogno assolutistico del re: quando Carlo si sarebbe recato in cima alla grotta da cui scaturiva la cascata che alimentava le fontane del parco, avrebbe potuto percepire tutta a sua potenza vedendo disteso, ai suoi piedi, l’immenso territorio che gli apparteneva e che arrivava sino al mare di Napoli.

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L’INTERVISTA di Alessandro Savoia

IL TESTIMONIAL

Sal Da Vinci: «Grazie al Museo riscopriamo le nostre radici» Il popolare cantante parla dell’importanza delle contaminazioni nell’arte e del suo ultimo lavoro, tra Alessandro Siani e Renato Zero

«L

a città di Napoli ha bisogno di vivere ed esaltare la cultura – ne è convinto Sal Da Vinci - che sia una cultura di contaminazioni moderne o quella antica che ci ha reso celebri in tutto il mondo. Il Museo Archeologico Nazionale gioca un ruolo chiave perché è necessario ripartire dalle nostre radici e per farlo dobbiamo conoscerle a fondo. Della magnificenza di quel luogo rimasi colpito da ragazzo ma sento sempre il bisogno di tornarci per rinfrescarmi la memoria». L’artista partenopeo compirà 40 anni di carriera

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il prossimo 25 dicembre e sta vivendo un periodo magico tra l’uscita del suo nuovo disco ed uno spettacolo inedito a teatro. “Non si fanno prigionieri” è l’album che vede la direzione artistica di Renato Zero. Com’è nata questa collaborazione? «Ci conoscevamo già da molti anni, e grazie a Maurizio Fabrizio si è consolidata l’amicizia ed è nato il sodalizio artistico. Gli ho fatto ascoltare alcuni provini, lui ne è rimasto molto entusiasta ed ha scelto di sposare il progetto discografico. Renato si è sempre occupato delle produzioni sue e raramente ha preso carta e penna per scrivere per altri artisti. Crede fermamente in me ed in questa nuova avventura divertente, curiosa, passionale, ricca di fatica e di impegno artistico. Anche la scelta del titolo nasce da


Sal Da Vinci in un’immagine dell’ultimo spettacolo in scena a teatro a Napoli in questi giorni

una sua intuizione dopo un lungo viaggio in autostrada trascorso ascoltando l’album più volte. Durante il percorso si è anche lasciato trasportare dall’onda emotiva ed ha deciso di duettare con me nel brano “Singoli”, nato per una sola voce». Una bella emozione per te... «Sì perché sono sempre stato affascinato dalla sua arte, il suo modo di raccontarsi, di raccontare la vita, una vita ricca di fantasia e di colori ma anche complicata a colorarla. È fantastico il suo modo di spettacolarizzare, di recitare il suo brano, e su questo piano trovo una certa affinità col mio modo di intendere la

musica. Conoscendolo più a fondo ho scoperto che come me è molto legato alla famiglia, agli affetti, che trova sfogo nelle melodie. Credo sia un’icona vivente, un mito. Mi ha sempre colpito il suo essere trasformista, dal saper passare dai panni di “Mister triangolo” al cantare l’omofobia, la violenza, il femminicidio, l’abuso, la disfatta, la redenzione, la fatica, l’amore. Ho imparato tanto da lui in questo anno di gestazione dell’album, tra le tante altre cose mi insegnato soprattutto ad essere più semplice e diretto per farmi capire da tutti e di questo non posso che ringraziarlo».

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L’INTERVISTA

IL TESTIMONIAL L’IDENTIKIT

S

al Da Vinci, attore e cantante napoletano, figlio d’arte, debutta su un palcoscenico nel 1976, ad appena sette anni, a fianco del padre Mario Da Vinci. Pochi sanno che Da Vinci è un nome d’arte, Salvatore e il padre Mario si chiamano all’anagrafe Sorrentino. Dal teatro al cinema, anche con Carlo Verdone e Alberto Sordi, con la maturità l’artista si concentra sempre più sulla musica, accumulando prestigiosi premi nei più importanti festival canori d’Italia, fino a cantare nel 1995 davanti a Papa Giovanni Paolo II e a 450mila persone a Loreto in diretta eurovisione. Compone, scrive e canta con i maggiori interpreti della canzone napoletana ed italiana (un nome tra tanti, l’indimenticato Lucio Dalla). Ha all’attivo 28 album e 33 singoli. Ma nel frattempo non dimentica mai il teatro, suo primo amore, dove a più riprese mette in scena pieces e musical, tutti di grande successo.

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Ed è proprio Renato Zero che ha dato il titolo al tuo nuovo spettacolo “Italiano di Napoli”, in scena al teatro Augusteo di Napoli dal 20 dicembre… «È perfetto perché racchiude il concetto che dobbiamo riprenderci l’appartenenza del posto in cui viviamo e portarlo avanti senza vergogna. Come stile lo spettacolo è vicino allo stile di di Tim Burton, misterioso, una fabbrica di sogni, un cantiere aperto. Racconto il Paese che è come una bella donna che viene calpestata da un marito bugiardo e violento ma non perde mai la propria dignità. Lo racconto anche con guizzi divertenti grazie ad uno spumeggiante Davide Marotta, un bravissimo Lello Radice, e Lorena Cacciatore che rappresenta l’Italia. Lorena è una ragazza che ho trovato sul mio cammino, l’ho provinata, mi ha sorpreso ed ho scelto di prenderla nello spettacolo di comune accordo con Alessandro Siani che ne cura la regia. Con lui siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Ha compreso la mia idea di spettacolarizzazione della musica ed ha saputo ampliarla. Cerchiamo il giusto compromesso tra un musical e un concerto. Raccontiamo un mondo attraverso le canzoni dell’album, che

L’ultimo anno è stato segnato dalla collaborazione intensa con Renato Zero, direttore artistico dell’album “Non si fanno prigionieri”, e con Alessandro Siani, regista del mio ultimo spettacolo, “Italiano di Napoli”

interpreterò per la prima volta dal vivo, e brani che mi hanno da sempre accompagnato rivedendoli negli arrangiamenti. Durante lo show ricorderò anche mio padre (Mario Da Vinci, ndr)». Una bella sinergia quella tra te e Siani… «Siamo di nuovo insieme dopo il successo clamoroso quanto inaspettato di “Stelle a metà” forte di una compagnia composta da attori e ragazzi straordinari. Tra questi ho ritrovato anche mio figlio Francesco, è stata una grande soddisfazione vedere che si innamora di queste tavole, del pubblico che lo osserva, della favola d’arte. Il sodalizio nacque con il film “Ti lascio perché ti amo troppo” con Alessandro protagonista ed io firmai la colonna sonora, poi, dopo aver collaborato nella trasmissione televisiva “Movida” ci simo staccati per

un periodo. Ci siamo ritrovati a scrivere delle cose insieme in occasione del brano “Tu stella mia” che lui usò nel suo film “Si accettano miracoli”. Siamo la forza di un territorio che si unisce e si mette insieme smentendo i luoghi comuni. Farci la guerra non aiuta nessuno. Più uniti siamo e più siamo forti».

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LE VOCI DI DENTRO

Gli “abitanti” del Museo

ILARIA DONATI

LORENZO MANTILE

MICHELE ARPA

Coordinatore didattica Coop Culture

Guida turistica, storico dell’arte e curatore

Guida turistica e musicista

Sono entrata nel museo Noi dell’Associazione Guide per la prima volta da sola a Turistiche Campane siamo il 15 anni. Da quel momento primo esempio in Italia di poho sempre pensato che ci stazione all’interno di un muavrei voluto lavorare. Dopo seo. Le nostre visite multilingue un percorso di studi sono sono calibrate sulle richieste approdata qui, prima come e sul livello di conoscenza del guida 15 anni fa per raccon- turista. La sfida è far comprentare con entusiasmo quello dere che con una guida la visita che avevo imparato. aumenta di valore.

GIULIANA MONTEFUSCO

RAFFAELE BATTINELLI

ALESSANDRO GIOIA

Guida turistica e operatrice olistica

Guida turistica

Assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza

Nelle mie visite cerco di rendere più attuale gli oggetti antichi, gli strumenti musicali e quelli chirurgici. Trovo nelle statue donne che sembrano indossare bikini, gioielli antichi di egizi che paiono di pasta di vetro, beauty-case del primo secolo che potrebbero stare nelle nostre stanze. 26

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Ne ho viste tante al museo. Una volta accompagnai una coppia olandese, 90enne lui e 70enne lei. Nella stanza dei mosaici la moglie mi chiese di cantare al marito “Tanti auguri a te”, si baciarono davanti a tutti vicino alla statua del Fauno danzante, tra gli applausi felici di tutti gli altri visitatori.

Ci capita di conoscere migliaia di persone da tutto il mondo. Con una coppia di svizzeri di grandissima cultura, alla fine di un tour molto interessate si creò una tale empatia che mi invitarono a pranzo. Trascorremmo il pomeriggio assieme e li invitai in barca per cenare a Procida. Siamo tutt’ora in contatto.

Lavoro al museo dal giugno del 2000. Nel 2004 arrivò, dopo aver lavorato a Paestum, Ilaria Barone. Ci siamo frequentati per diversi anni fino a che nel 2015 è diventata mia moglie. E non siamo gli unici ad esserci conosciuti qui per poi convolare a nozze. Ci unisce la grande passione per l’arte.


Testi raccolti da Alessandro Savoia

ELISA NAPOLITANO

ORNELLA FALCO

ORNELLA DE MAIO

Assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza

Responsabile ufficio stampa, marketing e pubbliche relazioni

Addetta vendite bookshop

Lavoro nel museo da quando ho 19 Nasco storica e sociologa dell’arte e anni, ero una delle più giovani. Ad da 35 anni lavoro qui. Con la riforma oggi sono trascorsi 17 anni in cui Franceschini e i direttori manager sono cresciuta insieme al museo, è maturata la concezione del bene abito qui vicino. Ora il Mann viaggia culturale che ho sempre auspicato. verso una dimensione interna- Ora il museo è concepito come luogo zionale e maggior attenzione sul dove tutte le arti si possono rappreterritorio. Ora lo vedo più protago- sentare. Il Mann oggi offre eventi che nista e ne sono orgogliosa. Sento un generano un indotto notevole che legame fortissimo con questo luogo. ricade su tutto il territorio.

DIEGO GUARDIOLA

PASQUALE MUSELLA

Accoglienza e sorveglianza

Restauratore coordinatore sezione affreschi e mosaici

Prima lavoravo nella didat- È cambiato molto del nostro tica e nelle visite guidate mestiere nei 30 anni che alle scuole. Ne ho viste lavoro al museo. Quando tante da un vecchietto di ho iniziato c’erano colle Roma che si fermò a rac- naturali ad esempio mentre contarmi tutta la sua vita ora usiamo solventi chimici. ad una coppia che mi chiese Trovo interessante recupepreoccupata del perché le rare affreschi e mosaici in statue erano rotte, ne rimasi cattive condizioni anche se spiazzato e divertito. non vanno esposti.

Sono da 12 anni nel bookshop ed ho notato ultimamente un incremento notevole di affluenza, tanta presenza anche italiana rispetto agli altri anni. Di solito arrivano alla fine del loro tour, arriva il più tecnico che trova il testo interessante o altri che vogliono un souvenir.

MARINA VECCHI Restauratore conservatore coordinatore sezione metalli

Nel nostro lavoro è fondamentale la tutela del bene e per poterlo fare bisogna conoscerne la storia per bloccarne il processo del degrado. Sono qui da 37 anni ed ho imparato che per ottenere il miglior risultato è importante interrelazionarsi con le altre professionalità. QUOTIDIANO D’INFORMAZIONE FONDATO NEL 1862

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SAN CARLO, IL PIÙ ANTICO TEATRO LIRICO DEL MONDO I l Teatro di San Carlo è il primo atto di quell’opera di innalzamento della città al rango di Capitale avviata da Carlo di Borbone dopo la sua ascesa al trono di Napoli. Il re vuole dare alla città un nuovo teatro che rappresenti il potere regio e ne affida il progetto ad Antonio Medrano, il colonnello architetto che già aveva presieduto ai lavori di

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ampliamento di Palazzo Reale, e a all’impresario teatrale Angelo Carasale. I lavori iniziano nel 1737 e procedono alacremente per otto mesi, in tempo per inaugurare il teatro il 4 novembre, giorno in cui ricorre l’onomastico del sovrano. Quando il pubblico entra per assistere alla rappresentazione di “Achille in Sciro” di Meta-


La splendida veduta della sala immensa del teatro San Carlo, con i suoi 184 palchi disposti in sei ordini e con al centro il palco reale, che oggi ospita nelle sue visite il Presidente della Repubblica

stasio, si trova immerso in uno spazio meraviglioso: una sala immensa, a forma di “ferro di cavallo” lunga 28,6 metri e larga 22,5 metri, sormontata da 184 palchi, compresi quelli di proscenio, disposti in sei ordini, più un palco reale capace di ospitare dieci persone, per un totale di 1379 posti. L’oro e l’azzurro, i colori ufficiali della casa borbonica, dominano nelle decorazioni e nelle tappezzerie che però, dopo l’Unità, verrano sostituite dal colore rosso di Casa Savoia. Nato 41 anni prima della Scala e 55 anni prima della Fenice, il San Carlo è senza dubbio il più fascinoso teatro d’Italia. E tale rimase, anche dopo l’incendio che lo devastò nel 1816 e che richiese l’intervento dell’architetto Antonio Niccolini. Questi, in un tempo record di 9 mesi, seppe adeguare la struttura alle nuove esigenze degli spettacoli moderni senza sovvertire l’impianto preesistente. Non era quello il suo primo lavoro al San Carlo, già qualche

anno prima era stato chiamato a riprogettare la facciata cui aveva conferito un’inequivocable impronta classicista con l’inserimento di una loggia ionica, di un portico carrozzabile e di decorazioni ellenizzanti. Il teatro San Carlo, voluto da Carlo di Borbone e ammodernato dal suo successore, rappresentava un unicum in Europa. Interessante, in tal senso, la testimonianza dello scrittore francese Stendhal, presente all’inaugurazione del 12 gennaio 1817, neanche un anno dopo l’incendio che aveva devastato il Teatro: «Non c’è nulla, in tutta Europa, - scrisse - che non dico si avvicini a questo teatro ma ne dia la più pallida idea. Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è un colpo di Stato. Essa garantisce al re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare... Chi volesse farsi lapidare, non avrebbe che da trovarvi un difetto. Appena parlate di Ferdinando, vi dicono: “ha ricostruito il San Carlo!”». arpa

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LUIGI VANVITELLI, UN GENIO A CORTE

L’architetto trovò a Napoli l’ambiente giusto per realizzare le sue idee illuministiche

E

ra il 20 gennaio del 1752, giorno del compleanno del re, quando fu posta la prima pietra del Real Palazzo di Caserta. Da allora, per più di vent’anni, fino al 1773 Luigi Vanvitelli spese tutte le sue energie per quella che, nell’intenzione dei sovrani, sarebbe dovuta diventare la più bella reggia d’Europa. Era proprio per questo motivo che avevano chiamato a dirigere i lavori l’architetto di origini olandesi Luigi Vanvitelli, che aveva già dato ampia prova a Roma della sua creatività tanto da essere stato nominato dal papa “architetto della Fabbrica di san Pietro”. Adesso che aveva consolidato il proprio potere, Carlo di Borbone desiderava sottolinearlo con un’opera

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di dimensione internazionale, e l’architetto del papa faceva al caso suo. Se ne convinse definitivamente quando Vanvitelli gli sottopose i disegni del suo progetto, oggi conservati alla Biblioteca Nazionale di Napoli. L’architetto aveva concepito la Reggia non come edificio a sé stante ma come parte del paesaggio, cuore pulsante di un corpo complesso che comprendeva le strade di collegamento con Napoli, Capua e il borgo vecchio, la piazza d’armi, il nuovo acquedotto e persino le colture agricole circostanti. Era, la sua, una sensibilità nuova,

Giacinto Diano, ritratto di Luigi Vanvitelli, XVIII sec., olio su tela, Reggia di Caserta


E a Capodimonte nacque la Real Fabbrica di ceramiche

L

a Real Fabbrica di Capodimonte, celeberrima manifattura di porcellana “in pasta tenera” realizzata col caolino proveniente da Fuscaldo (provincia di Cosenza), fu fondata da Carlo di Borbone. Ricchissima la produzione della Real Fabbrica, fra cui spicca il capolavoro di Giuseppe Gricci: il salottino privato della regina Maria Amalia, moglie di Carlo. È un profluvio di delicatissimi festoni di foglie e fiori, cartigli e trofei musicali con scene figurate ispirate al mondo orientale, il tutto montato su lastre di brillante porcellana bianca. La manifattura di porcellana nacque, su impulso della colta e raffinata moglie del re, nel 1743 e fu attiva fino al 1759, quando, chiamato a ricoprire il trono di Spagna, il re la trasferì vicino a Madrid. Ferdinando IV la riattivò nel 1771 col nome di Real fabbrica di Napoli e ne affidò la direzione a Filippo Tagliolini che introdusse l’uso del bisquit e delle forme neoclassiche. “Trionfo da tavola con Carlo di Borbone a cavallo” Maiolica, fabbriche napoletane, siglato nello scudo G.C.P., 1785

ereditata dal padre, che era un pittore di vedute, l’olandese Gaspar van Wittel. D’altra parte si era in pieno Illuminismo. L’idea che “il lume” della ragione dovesse guidare ogni azione umana si era fatta strada: era il tempo della razionalità, non c’era più posto per la casualità. Vanvitelli concepisce perciò la Reggia come un’opera d’arte totale, in cui tutto, anche le decorazioni e il giardino, rientrano in un piano preordinato: chi giunge alla reggia deve emozionarsi e convincersi che si trova al cospetto di una monarchia grande e autorevole. Ecco quindi che la solennità dell’edificio, viene affidata alla sobrietà austera della sua facciata dalla quale è pos-

sibile “leggere” la distribuzione ordinata degli spazi interni. Ecco la leggerezza del vestibolo ottagonale, che si immette sui quattro enormi cortili interni e sulla spettacolare scala regia: è da qui, sotto l’originale volta ellittica, che si sale al piano nobile. Ecco la luce che, sapientemente dosata, gioca con i marmi colorati e le pietre dure, con le sculture e le pitture. Ecco la Cappella Palatina, con la sua linea pulita e le proporzioni equilibrate. Ecco, di nuovo al piano terra, il teatro di corte, illuminato dalle finestre interne in modo da lasciare in penombra lo spazio destinato ai reali e ai loro ospiti, in modo da garantirne la privacy. ap

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