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140 anni SABATO 29 APRILE 2017

SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE ART. 2, COMMA 20/B LEGGE 662/96 - LIVORNO

www.iltirreno.it

Supplemento gratuito al numero odierno de Il Tirreno

DIREZIONE, REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE: VIALE ALFIERI, 9 LIVORNO - TEL. 0586/220111

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La nostra storia, le parole del futuro SPERANZA

MARCELLO LIPPI SOLE FIDUCIA

SERENITÀCARITÀ

PROSPERITÀ

FEDE SQUADRA

CLAUDIO GIUA

ROBERTO BERNABÒ

BRUNO MANFELLOTTO

VINCENZO BARONE GLOBALIZZAZIONE

SOLE

INCERTEZZA

MATILDA

EDUCAZIONE

CARITÀ

MAGELLANO

VITTORIA

SALVATORE SETTIS

OMAR MONESTIER

PAOLO VIRZÌ

LUIGI BIANCHI

SERENITÀ

ANDREA BALESTRI

DOMENICO LAFORENZA

SOLE

GILLO DORFLES

GIUSEPPE GIANGRANDE

APERTO NICOLA LUISOTTI

ENNIO SIMEONE VITTORIA

GLOBALIZZAZIONE

ANDREA BOCELLI ARTE

140 FRANCESCO GABBANI

CLAUDIO MARAZZINI

PROSPERITÀ

INTEGRAZIONE FERRUCCIO FERRAGAMO CARLO DE BENEDETTI SANDRA BONSANTI

SPERANZA MARIO LENZI

NICOLÒ INCISA DELLA ROCCHETTA

SQUADRA JURY CHECHI

VALERIA PICCINI MASSIMO CAPACCIOLI CARITÀ INCERTEZZA ANDREA CAMILLERI

BELLEZZA

NON C’È DEMOCRAZIA SENZA STAMPA di SERGIO MATTARELLA

C Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica

entoquaranta anni di presenza quotidiana costituiscono un motivo di orgoglio, e un importante valore civile, non solo per Il Tirreno ma per la città di Livorno e l’intera Toscana. “Il Telegrafo” prima, e “Il Tirreno” dopo la guerra e la Liberazione, hanno raccontato le comunità locali e la storia della nostra Italia, la crescita civile e i suoi conflitti sociali, i fatti di cronaca e le vicende internazionali. Sono stati testimoni, riferimenti familiari, strumenti di conoscenza, e dunque di sviluppo: la conquista della libertà, nel 1945, ha segnato il passaggio del testimone a “Il Tirreno” e, da allora, passione e professione hanno irro-

bustito il legame popolare tra il giornale, la città, la Regione. La storia di un giornale è sempre una storia di apertura, di coraggio, di innovazione. È sempre il risultato di un investimento sociale e culturale, di passioni e di qualità personali e collettive. Oggi viviamo una stagione di straordinarie trasformazioni: particolarmente intense e veloci nel mondo dei media e nell’editoria. La democrazia non può, comunque, fare a meno di una stampa capace di guardare la realtà con libertà, con intelligenza, con spirito critico. Al direttore, all’editore, ai giornalisti, a tutti coloro che lavorano all’impresa, desidero rivolgere il saluto più caloroso nella convinzione che questo anniversario rappresenterà un punto di ripartenza nella loro storia.


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140 anni

IL TIRRENO SABATO 29 APRILE 2017

La bellezza non è merce Ne abbiamo bisogno per costruire il futuro

ÔÔ

Qui e in alto: l’incanto di Piazza dei Miracoli, ritratta da Fabio Muzzi. Nell’ovale: un primo piano di Salvatore Settis

“abbiamo avuto Giotto e Michelangelo, ergo le nostre scarpe (o lampade, o automobili) sono opere d’arte”. Gli istituti italiani di cultura all’estero sono spesso invitati dai nostri governi a far leva sulla bellezza come prodotto na-

zionale, onde aiutare il business di imprese di costruzione, promuovere la vendita di lampade, attrarre turisti al Colosseo. Si imbandiscono pranzi sullo sfondo di statue di Michelangelo, si spediscono quadri di Raffaello al seguito di presi-

modo stimola e intensifica il nostro senso della pienezza della realtà che ci circonda. Questa intuizione ha una conseguenza positiva: la bellezza riconquista la propria solidità e inevitabilità, diventa un valore necessario per dare un senso a gran parte delle nostre energie e affinità, ai nostri sentimenti di ammirazione; e le nozioni che hanno usurpato lo spazio del “bello” (per esempio “interessante”) si rivelano risibili. Provate a immaginare qualcuno che dica: “Quel tramonto è interessante”». La bellezza, naturale o artistica, può essere un’arma politica per costruire il futuro, se la intendiamo come valore, ponte fra natura e cultura, chiave della memoria culturale: questa concezione contrasta duramente con la soggezione della cultura all’economia, con la di-

SPERANZA FIDUCIA

I 140 anni del Tirreno sono celebrati MARCELLO LIPPI SOLE SERENITÀCARITÀ PROSPERITÀ in queste pagine attraverso il ricordo FRANCESCO GABBANI APERTO GLOBALIZZAZIONE dei grandi direttori che si sono avvicendati GIUSEPPE GIANGRANDE NICOLA LUISOTTI alla guida del giornale. Ospitiamo poi FEDE LUIGI BIANCHI le interviste a grandi protagonisti del sapere, della cultura e dello sport; ognuno di loro ha indicato EDUCAZIONE “una parola per il futuro”. FERRUCCIO FERRAGAMO INTEGRAZIONE Con i nomi e con le parole scelte SANDRA BONSANTI SPERANZA MARIO LENZI SQUADRA JURY CHECHI abbiamo composto la “nuvola grafica” VALERIA PICCINI MASSIMO CAPACCIOLI CARITÀ che dà forma alla copertina di questo fascicolo. INCERTEZZA ANDREA CAMILLERI GILLO DORFLES

ENNIO SIMEONE VITTORIA

SQUADRA

DOMENICO LAFORENZA

CLAUDIO GIUA

BELLEZZA

CARITÀ

SOLE

MAGELLANO

NICOLÒ INCISA DELLA ROCCHETTA

SERENITÀ

INCERTEZZA

MATILDA

CARLO DE BENEDETTI

A cura di FABRIZIO BRANCOLI

CLAUDIO MARAZZINI

ANDREA BALESTRI

SALVATORE SETTIS

VITTORIA

PAOLO VIRZÌ

OMAR MONESTIER

VINCENZO BARONE GLOBALIZZAZIONE

ANDREA BOCELLI ARTE

140 SOLE

BRUNO MANFELLOTTO

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el 2002 Susan Sontag così rifletteva sul fallimento della bellezza: «La bellezza è sempre una risorsa per chi voglia emettere giudizi senza appello, ma è stata poi screditata da chi creava e proclamava il nuovo: Gertrude Stein sostenne che un’opera d’arte, se la chiamiamo ‘bella’, è già morta. La bellezza era un principio di discriminazione, questa fu la sua forza e la sua attrattiva, ma tale sua virtù divenne un peso: discriminare divenne qualcosa di negativo, un segno di faziosità, di cecità a ciò che è diverso. Anche nelle arti: la bellezza e il prendersene cura sono considerati ‘elitisti’, e c’è chi pensa che, invece di dire che qualcosa è bello, sia meglio parlarne come ‘interessante’». In Italia, invece, “bellezza” è diventata una parola d’ordine usata e abusata, entrata a pieno titolo nel discorso politico, e perciò non solo ripetuta come una litania nei contesti più varii, ma inflazionata fino a svuotarla di ogni senso. La proverbiale bellezza delle nostre città, dei paesaggi, delle opere d’arte viene usata come un’arma da brandire. Anzi, un brand Italia da utilizzare per promuovere il turismo, la moda, il design, l’italico ingegno, secondo il dubbio sillogismo

denti del Consiglio in visita d’affari, si espongono bronzi etruschi in vetrine di gioielleria. Non meno intrinsecamente politico è un altro uso della nozione di bellezza (e delle emozioni connesse): la bellezza come consolazione, evasione, distrazione dai mali della vita. Ma a queste concezioni della bellezza, che ne fanno un business o un’evasione dalla vita reale, è tempo di contrapporre un’altra e opposta politica della bellezza, che ne faccia, invece, uno strumento di costruzione del futuro, di conoscenza del mondo, di consapevolezza storica, di etica della cittadinanza. Per citare ancora una volta il saggio di Susan Sontag, «Quel che è bello nell’arte ci ricorda la natura, ci richiama alla mente quel che sta oltre l’umano, oltre l’artefatto, e in tal

hanno usurpato lo spazio del bello: come “interessante”. Ma pensate a qualcuno che dica: “quel tramonto è interessante”...

ROBERTO BERNABÒ

di SALVATORE SETTIS

Direttore responsabile: LUIGI VICINANZA

PROSPERITÀ

Vicedirettore: FABRIZIO BRANCOLI

con il contributo di GIORGIO BILLERI e NICOLA STEFANINI In copertina: elaborazione grafica di MAURILIO BRUNI

struzione dei paesaggi e delle città storiche. Per costruire il futuro, ricordiamoci dunque che «la bellezza non fa le rivoluzioni, ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei» (Camus). La risposta estetica ha una dimensione politica, mentre l’incapacità di riconoscere la bellezza «è in larga misura la condizione umana attuale, sostenuta e favorita dalla nostra economia» (Hillmann); è la cecità davanti alla bellezza che genera «cinismo, deriva morale, passività, resa, indisponibilità a scandalizzarsi anche dinnanzi alle più insopportabili nefandezze morali ed estetiche», ed è di qui che nasce e si radica in Italia «la politica di tagli alla cultura, alla scuola e alla ricerca, e un sistema dell’arte divenuto ormai una slot-machine» (Roberto Gramiccia). Abbiamo bisogno, oggi più che mai, della «terribile bellezza» di cui parlava Yeats (A terrible beauty is born). La bellezza non è merce da vendere, non è fuga dal presente, ma impegno a intenderne conquiste e tragedie: è una bellezza terribile, perché regala libertà. Nel rogo delle vanità di cui oggi avremmo bisogno sarebbero da bruciare le mille menzogne (a volte travestite da leggi, circolari, discorsi di circostanza) che contro la storia d’Italia e contro il bene comune fanno della bellezza la serva del potere.


140 anni

SABATO 29 APRILE 2017 IL TIRRENO

il saluto dell’editore

La requisizione del giornale da parte del Comune nel 1977 e la rinascita guidata da Mario Lenzi, giornalista ed ex ragazzo partigiano

UN LEGAME SPECIALE di CARLO DE BENEDETTI

C’

è un legame speciale tra Il Tirreno e il Gruppo Espresso. Il Tirreno fu infatti nel 1978 il primo giornale, con cui Carlo Caracciolo e poi il sottoscritto hanno voluto costituire il più grande circuito di informazione locale nel nostro Paese. Un circuito che, forte delle sinergie di un Gruppo, ha consentito di far crescere una rete di giornali — dalla lunga storia ma anche fondati ex novo — che hanno rafforzato o costruito uno straordinario radicamento territoriale. Diventando, dentro un mondo di valori fatto di rispetto, progresso, solidarietà, dei testimoni assolutamente liberi e autorevoli della vita delle comunità. Fondato da un garibaldino, Giuseppe Bandi, il 29 aprile del 1877 Il Tirreno — o Telegrafo come si chiamò alla sua nascita, nome che è ritornato in un paio di occasioni fino all’acquisto da parte del Gruppo Espresso — ha avuto dalla sua nascita questo spirito di giornale libero e battagliero di Livorno e poi, dagli anni Ottanta quando ha ampliato i suoi confini geografici, di tutta la Toscana della costa e dell’immediato entroterra. Battagliero e innovativo. Prima su carta, con la costruzione di un modello di radicamento iperlocale, città per città, mai così sviluppato prima nell’editoria italiana. Un sistema informativo che ha dato strumenti di conoscenza, rappresentanza, controllo delle istituzioni anche alle comunità più piccole. Poi l’innovazione sul digitale: tanto da festeggiare in autunno anche i 20 anni della nascita del proprio sito, che ne fanno con La Repubblica uno dei primi in Italia. Grazie ai direttori che si sono succeduti nel tempo — e che hanno poi avuto ulteriori importanti incarichi nel Gruppo — a una redazione appassionata e orgogliosa della propria appartenenza, a una struttura poligrafica e amministrativa di qualità, Il Tirreno si è conquistato il ruolo di giornale di riferimento della nostra catena. Con la capacità di cavalcare tanto i momenti di espansione che di gestire quelli oggettivamente difficili che l’editoria mondiale sta vivendo. Ed è un ruolo importante che manterrà all’interno delle scelte che il Gruppo L’Espresso ha compiuto e che si coronano proprio in questi giorni: mi riferisco alla recente conclusione dell’accordo con Itedi, Fca ed Exor che corona un vecchio sogno di Carlo Caracciolo e una trattativa iniziata già qualche anno fa. Con questa operazione, che vede aggiungersi alla catena dei nostri giornali nazionali e locali due prestigiose testate quali La Stampa e Il Secolo XIX, il nostro Gruppo — che da ieri ha una nuova denominazione, Gedi — assume una più forte leadership nel settore dei quotidiani in Italia.

di MAURO ZUCCHELLI

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l giornale è una merce ma non è una merce. Chissà se i surrealisti sarebbero d’accordo, fatto sta che doveva pensarla così Alì Nannipieri, sindaco comunista a Livorno (ma con il certificato di nascita da pisano di San Giuliano), nel ’77 quando lui, così schivo, firmò un atto che non avrebbe avuto eguali nella storia del nostro Paese: la requisizione del giornale che la proprietà Monti voleva chiudere. Un gesto che riconsegnava nelle mani di giornalisti e tipografi la penna per scrivere, giorno dopo giorno, una nuova pagina di storia raccontando le storie. Il nostro giornale aveva avuto un fondatore (Giuseppe Bandi): e questo ce l’hanno tutti. Aveva avuto, dopo la liberazione dai nazifascisti e l’apocalisse della guerra, un rifondatore (Athos Gastone Banti): e questo ce l’hanno avuto in molti. Ma la requisizione dei mezzi di produzione a una proprietà industriale privata era troppo dirompente per non aver bisogno di qualcosa che invece non ha avuto nessuno: una ri-rifondazione, dunque un ri-rifondatore. Il terzo fondatore della nostra storia. Non è un caso, insomma, se il nome della testata torna a essere “Il Tirreno”, proprio come dopo la rifondazione dopo la discontinuità assoluta creata dalla seconda guerra mondiale. Ecco che, in tandem con l’editore Carlo Caracciolo, entra sulla scena del giornale un giornalista livornese che aveva vissuto altrove la sua fortuna professionale: Mario Lenzi. Anche per lui era un ri-ritorno. La prima volta era stata quando, nel luglio ’44, era tornato nella “sua” Livorno alla testa dei partigiani che la liberarono: fece il giro del mondo la foto di quel ragazzo che entra mitra a tracolla in via Gramsci, zona ospedale. Aveva 17 anni. «Mi ritrovai a far parte — racconterà lui in “O miei compagni”, prezioso volume di memorie senza retorica edito dal Comune di Livorno nel dicembre 2013 — di una insolita formazione partigiana composta da uomini di diversi paesi, italiani, polacchi, russi, americani, anche austriaci e tedeschi ». Qualcosa del genere accadrà anche un terzo di secolo più tardi, quando ri-ritornerà a Livorno per dar vita a una idea: far rinascere il giornale della città, farlo non più come qualcosa di circoscritto al perimetro municipale ma per

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Mario Lenzi durante una riunione

L’uomo che ci fondò per la terza volta Storia di un’idea che cambiò l’informazione Un giornale locale ma non strapaesano; un luogo dove la comunità cerca la sua narrazione 19 luglio 1944: Mario Lenzi, allora giovane partigiano, entra a Livorno

dar voce, dalla “periferia”, all’ “altra Toscana” o quantomeno a una Toscana “altra”. Nasce così quello che è stato a lungo l’unico caso di quotidiano che nasce fuori dalla “capitale “regionale e ha l’ambizione di avere una voce non locale bensì regionale. Nasce dalla “periferia”— cioè dalla “confederazione di anime”, come direbbe il dottor Cardoso parlando col giornalista Pereira se dovesse descrivere i differenti campanili toscani — l’idea di creare un polo di quotidiani locali che abbiano la forza editoriale di una grossa realtà industriale e, al tempo stesso, le radici ben dentro le zolle dei propri territori. È l’altra metà del progetto di Mario

Lenzi: non solo salvare il giornale della “sua “Livorno ma “confederare”una serie di testate, nuove o rinate, e far uscire i giornali locali da una condizione di minorità rispetto ai grandi quotidiani nazionali. «È l’ “invenzione del giornale locale a misura di una idea di Italia più moderna: locale, senza esser strapaesano. Locale, di servizio ma completo: era la scuola di Paese Sera della quale Lenzi era stato vicedirettore». L’identikit del progetto lo riassume così l’avvocato Giuseppe Angella, che ha seguito il Tirreno fin dalla firma che decretò il passaggio della testata dal petroliere Monti all’editore Caracciolo (e in se-

guito, prima in consiglio d’amministrazione e poi consigliere Finegil con i gradi di editore incaricato per il Tirreno fino all’aprile 2010). Il giornale locale non era più la palestra a misura dei piccoli potentati di questo o quel circondario, magari scimmiottando quel che accadeva nel girone superiore, quello della grande stampa: poteva essere il luogo in cui una comunità cerca la propria narrazione, costruisce in mezzo a mille spinte la propria direttrice di marcia. È stata la più grande operazione di allargamento del ventaglio delle fonti che sia mai avvenuta, e ben prima che con l’avvento dei social si teorizzasse la “società orizzonta-

le” senza più un centro di gravità permanente. Già, perché la trasformazione dell’informazione locale — che Mario Lenzi mette a punto in libri che culminano nel manuale-vademecum pubblicato per Editori Riuniti (“Il giornale”) — rovescia la tradizionale gerarchia informativa che dal centro irradiava sui territori tendenze e parole d’ordine. Sono le città a raccontarsi: a cominciare dalla minuta informazione di servizio alla quale Lenzi riconosceva un ruolo tutt’altro che marginale. Vogliamo chiamarla rivoluzione? Forse sì, anche se non nasceva dal nulla: intercettava quel convulso modificarsi molecolare che metteva in

moto tante piccole Italie. Su un sentiero a metà strada fra i “mondi vitali “di Achille Ardigò e il Bel Paese piccolo-aziendale (e multipolare) del Censis, pure così apparentemente lontani dal dna politico-culturale di Lenzi. Ma la curiosità e l’apertura intellettuale che mostrava quando la penna la teneva in mano per annotare sul taccuino da cronista, le avrebbe poi trasfuse nel nuovo ruolo da manager: e quella stessa penna gli sarebbe servita per progettare piani editoriali o per disegnare modelli organizzativi fra economie di scala e autonomia delle testate. Tutto questo è partito da Livorno. Con un paradosso: nel primo numero Il Tirreno mette in prima pagina una grossa foto della Torre di Pisa. No, non è affatto un paradosso: parola di Angella. «Guai — rincara — se al posto dell’accentramento sulla “capitale” del Granducato si sostituisse un neocentralismo impastrocchiato con una sorta di livorno-centrismo. Figuriamoci: Lenzi, che non era affatto tenero con i vizi della sua città ma la difendeva appena la attaccavano, sapeva bene che non andava a dirigere il giornale di Livorno ma qualcosa di ben più largo dei confini municipali». Non era forse quella la sua idea di giornale? Una identità ma anche la capacità di declinarla su ciascun territorio: ogni edizione è Il Tirreno di quella città. Già, ma quell'immagine della Torre Pendente è così normale eppure è un manifesto programmatico che vale più di un editoriale: dice che lo sguardo non resterà al riparo del recinto municipalistico rinchiuso al calduccio della piccola patria cittadina. Ci chiamiamo Il Tirreno. Come il mare. E il mare è un orizzonte senza perimetro né dogane.


UNIONE EUROPEA Fondi strutturali e di investimento europei

MARITTIMO–IT FR–MARITIME Fondo Europeo di Sviluppo Regionale


140 anni

SABATO 29 APRILE 2017 IL TIRRENO

di ELISABETTA GIORGI

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repariamoci a provare le vertigini. Quelle più sane e profonde, che ci aiutano a sentirci esseri umani nel contesto più grande possibile. Noi, minuscoli nell’Universo, eppure capaci di scoprire; esplorare l’ignoto e perfino l’impensabile. In questo senso, il professor Massimo Capaccioli, 73 anni, astrofisico, è uno dei principali esploratori del pianeta. Artefice di uno dei più potenti telescopi a grande campo _ al Paranal, in Cile _ perno degli studi di astronomia all’Università di Padova, alla guida per molti anni dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, è un’eccellenza mondiale. I suoi studi sono celebri in ogni continente e ha ricevuto tributi eccezionali, tra i quali due lauree honoris causa in Russia. È lui l’uomo che fa provare le vertigini al mondo. L’astronomo, come Ulisse, è visto come un esploratore in cerca dei confini del mondo. Fu questa molla a muoverla? «Alla fine degli anni ’50 mio padre raccolse in un volume alcuni inserti della rivista Life, pubblicati in Italia da Epoca. Raccontavano con spettacolari disegni la storia del mondo fisico così come allora si conosceva. Il mio stupore di allora è stato la causa della scelta di dedicare la vita alla ricerca. Ed è uno stupore rimasto intatto». Correva l’anno 1877… Quanto era “corto” e stretto il cosmo, all’epoca in cui nacque Il Tirreno. Com’è cambiata l’investigazione dello spazio in 140 anni? «Nel 1877 l’astrofisica era appena nata. Tra i suoi padri un gesuita italiano, Angelo Secchi, fondatore della moderna spettroscopia. Dopo oltre 20 secoli di cieca obbedienza al verbo aristotelico che pretendeva la separazione tra il mondo celeste e quello terrestre, finalmente gli uomini avevano accettato l’idea dell’unità fisica del cosmo. Da cui l’astrofisica: una grande rivoluzione che in pochi decenni ci avrebbe permesso di intendere come funzionano le stelle, come nascono, come evolvono e come muoiono, sdoganando così il pensiero scientifico dal ristretto seppur affascinante ambito del Sistema Solare». Poi scoprimmo le galassie. «Sì: grazie a Friedman, Lemaitre, Einstein e Hubble, nell’arco di cinquant’anni ogni tipo di paradigma relativo alle grandi strutture cosmiche era radicalmente mutato, lasciandoci ospiti di uno sterminato universo, nel quale il nostro ruolo sfuma sempre di più, nell’immensità misteriosa dello spazio-tempo». Come proseguirà questo lavoro? «Forse le uniche genuine novità riguardano le componenti oscure del cosmo, introdotte per spiegare fenomeni inattesi e inspiegabili con ordinari componenti: materia ed energia del genere di quelle di cui abbiamo esperienza sulla terra. Ci stiamo lavorando. Potrebbe uscirne qualcosa di sconvolgente... ma è ancora presto per dirlo». *** Come ricorda la sua infanzia a Montenero, sull’Amiata? A quando risale il suo amore per le stelle? Il cielo amiatino ha avuto un ruolo in tutto questo? «Lei tocca un tasto delicato, che controlla l’accesso al vaso di Pandora dei miei ricordi giovanili, quando ogni estate significava una vacanza di sogno in Maremma, tra gli amatissimi cugi-

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L’osservatorio del Paranal, in Cile, all’alba (credit Eso)

LA PAROLA

SPERANZA

MASSIMO CAPACCIOLI

Noi, figli delle stelle

La parola con cui vorrei sintetizzare il futuro è SPERANZA, che è l’ultima a morire. Il mondo ha saputo fare strage di valori conquistati con fatica e sangue, e oggi vilipesi da una comunicazione effimera che ha ucciso il senso del ridicolo e dalle velenose armi dell’economia globale. Speranza dunque che il futuro non ci ritrovi schiavi anziché padroni del nostro stesso progresso. Massimo Capaccioli

«La curiosità sul cosmo ci evita di vivere come bruti»

Parla uno dei più grandi astrofisici del mondo: «Sul mio Amiata ho scoperto il senso del dovere che mi ha portato a inseguire i misteri del cielo»

Sopra: Massimo Capaccioli

ni, gli zii come altrettanti babbi e mamme, e i nonni, così vecchi — allora — e così saggi, nella libertà della natura, tra odori, sapori, immagini ed esperienze che mi hanno segnato. Io sono maremmano, o forse dovrei dire amiatino, fino al midollo. Durante le passeggiate dietro alle mura medioevali di Montenero ho cominciato a guardare il cielo con curiosità; e seduto su una tavola di legno — che una mia cugina ed io avevamo collocato sui rami di un fico nell’orto di nonna per creare un piccolo mondo tutto nostro — io ho cominciato a tracciare nella mia mente di bambino il percorso da seguire per onorare la mia terra. Si è sviluppato in me quel senso del dovere che mi ha tenuto sveglio a inseguire le stelle, in cielo o davanti a un computer o a un foglio di carta, anche quando il sonno mi aggrediva...». Gli studi. L’amore per il cielo, la scelta tra fisica e storia: ha vinto la prima. Perché? «Fisica e storia: mi piacevano entrambe. Anzi, alla fine del liceo credevo mi piacesse di più la seconda. Ma, costretto a scegliere, alla fine ho optato per il mio primo amore, l’astronomia. Ho studiato all’università di Padova, la più vicina a dove viveva la

mia famiglia paterna. Una università gloriosa, celebrata dal passaggio del giovane Copernico e dall’insegnamento di Galilei. È a Padova che il genio pisano guardò per la prima volta il cielo con un cannocchiale, spalancando le porte dell’infinito a un’umanità autoreferenziale e incartapecorita. Ho avuto un grande maestro nel professor Rosino. Un uomo d’altri tempi che mi ha insegnato ad amare il mio lavoro anteponendolo a tutto, affetti esclusi. Amava dire che siamo pagati poco — cosa verissima soprattutto per i giovani d’oggi — per fare un lavoro che faremmo comunque anche gratis. E poi, come mio padre, anche lui conosceva a memoria la letteratura italiana che non smetteva di recitare mentre osservavamo il cielo. Gli chiesi perché consumasse la sua memoria con qualcosa che bastava leggere, e lui mi spiegò che i nostri grandi erano suoi compagni nei momenti di solitudine. L’astrofisica, però, l’ho imparata in Texas da Gérard de Vaucouleurs, uno dei grandi del secolo scorso di cui mi onoro di essere stato allievo e poi amico e collega». La ricerca scientifica è un cammino faticoso e spesso doloroso, vero?

A destra: l’immagine di una galassia fornita dall’Eso, Osservatorio europeo Astrale, organizzazione che “governa” i telescopi di mezzo mondo (credit Eso)

«Sì, un percorso che impegna tutte le tue forze fisiche e mentali. Devi sempre guardare in alto e scacciare paura e stanchezza per evitare errori fatali e crolli nervosi. E quando cadi, devi saper ricominciare. A me è capitato con il più grosso progetto scientifico cui ho messo mano. Un incidente stava per vanificare il sogno di dare all’Italia una bella macchina astronomica, la più bella del suo genere. Grazie a Dio, ho saputo tener duro, e alla fine, con l’aiuto determinante di alcuni bravissimi colleghi, ho vinto. Ora dalle Ande cilene un telescopio tutto italiano ma gestito dalla più grande organizzazione astronomica del mondo, l’Osservatorio Europeo Australe, esplora il cielo ogni notte serena. Per esempio, in questi mesi stiamo studiando le immense praterie di materia che circondano le galassie dell’ammasso di Fornace. Come si sono formate? Per ora non lo sappiamo, ma la risposta è a portata di mano... Sempre che chi controlla i cordoni della borsa in Italia non decida di strangolare definitivamente ogni ricerca nel Bel Paese». Ha ricevuto da poco due lauree honoris causa in Russia, ha lavorato in tutto il mondo. La

scienza annienta le barriere? «La scienza pura è un’attività umana che non ha frontiere né patria. Solo quella applicata, che vale denaro e potere, rispetta i confini degli stati e delle lobbies. Da sempre lavoro in squadra con astronomi di tutto il mondo. È forse il regalo più bello che ho ricevuto dalla mia professione dopo la gioia della scoperta». *** Lei è considerato anche un eccellente divulgatore scientifico, attento ai giovani; e scrive di stelle sui quotidiani. Com’è cambiata la comunicazione astrofisica nel tempo? «La big science, com’è oggi l’astrofisica, costa molto denaro. Le risorse sono poche e c’è grande competizione per accaparrarsele. Ecco perché oggi la comunicazione scientifica è un vero e proprio marketing, con astuzie, sotterfugi e colpi bassi. Per me la divulgazione costituisce invece una forma di restituzione ai miei concittadini del privilegio che con il loro lavoro mi hanno concesso di avere. È anche un modo per contribuire a moderare quell’analfabetismo scientifico che a mio avviso è un’autostrada per imbavagliare la democrazia nel mondo».

Il cosmo, l’arte e la bellezza: che rapporto ci vede? Uno solo. Il fatto che l’attore è sempre lo stesso, l’uomo, con le sue pulsioni, le sue passioni, le sue paure e l’innata curiosità che ci evita di viver come bruti». Quali sono i confini dell’universo attualmente visibili? Quanto lontano sono andati e possono arrivare gli scienziati nelle loro osservazioni? «Con i potentissimi occhi artificiali realizzati sulla terra o collocati nello spazio, ci siamo spinti molto vicini al Big Bang, cioè a quell’istante iniziale da cui crediamo sia emerso il mondo fisico. Il resto del cammino è piccolo ma incredibilmente irto di difficoltà. Insomma abbiamo scoperto molto, ma l’ignoto domina ancora e dominerà sempre. La scienza è solo un cammino progressivo verso una meta che si sposta continuamente in avanti. Fra altri 140 anni sapremo molto di più, e forse rideremo del sapere di oggi, ma saremo comunque ancora occupati a porci le medesime domande. Da dove veniamo? Dove andiamo? E soprattutto, che diavolo ci facciamo qui? Non è una condanna, però. Anzi, forse proprio in questa perdurante incertezza sta il sale della vita».


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140 anni

IL TIRRENO SABATO 29 APRILE 2017

di NICOLA STEFANINI

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nsegna Storia della lingua italiana all’Università del Piemonte Orientale e da tre anni è il primo piemontese — dalla fondazione nel 1582 — a presiedere l’Accademia della Crusca, la massima istituzione, insieme alla Società Dante Alighieri, che si occupa del nostro italiano. Claudio Marazzini, 68 anni, torinese, la Toscana l’aveva probabilmente un po’ nel suo destino. Ci veniva già quando era un liceale, in motocicletta, per andare al mare l’Isola d’Elba e per sentir suonare quella lingua che già amava intensamente, lì nella culla dove era nata. Adesso – almeno fino a tutto maggio quando scadrà il suo primo mandato – divide il suo tempo fra le Langhe e la villa medicea di Castello, a Firenze, dove ha sede l’Accademia della Crusca. E quando gli impegni di lavoro gli lasciano un po’ di tempo libero, non si lascia sfuggire una puntata verso il mare toscano: l’Elba ancora, o l’Isola del Giglio. Ma il tempo libero, confessa, è davvero poco. «Quando ho assunto la presidenza della Crusca – dice sorridendo – non immaginavo che avrei imparato un nuovo mestiere: quello del manager, perché di questo in fondo si tratta. E di fare firme su firme occupandomi di una quantità di cose che non sapevo, come, per esempio, fare un piano di adeguamento della sicurezza. E tutto questo per puro volontariato, ci tengo a precisarlo, perché gli accademici della Crusca non hanno alcun compenso, né gettoni di presenza».

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La lingua dei giornali ha preso il posto della letteratura e oggi è il miglior modello che abbiamo di comunicazione di alto livello

LA PAROLA

GLOBALIZZAZIONE La parola che mi viene in mente se penso al futuro è globalizzazione. Non tanto per accettarla così come è, con le conseguenze che ha adesso, ma per interpretarla in una maniera diversa: un concorrere di energie di tutti i popoli, di tutte le nazioni, non intesa a distruggere ogni identità locale, ma con la collaborazione su obiettivi importanti. Una globalizzazione intelligente. Claudio Marazzini

*** Allora professor Marazzini, come sta la lingua italiana oggi? «La lingua italiana sta bene, gli italiani un po’ meno. La lingua ha i suoi secoli di storia gloriosissima e guastare una tradizione di secoli è difficile. Poi oggi ci sono tanti problemi legati alla lingua. Basta prendere l’attività dell’Accademia e si vede subito. Per esempio, è dal 2012 che abbiamo un contenzioso aperto sul fatto che il Politecnico di Milano aveva deciso di abolire l’italiano nei corsi avanzati e nei dottorati. Un tema delicato e importante che non sarebbe mai venuto fuori nei secoli passati. Se gli italiani decidono improvvisamente di ridurre la portata e il peso della loro lingua, che devo dirle, non è certo colpa della lingua. Un altro caso che stiamo seguendo come Accademia è quello dell’allarme lanciato da alcuni studiosi sul fatto che gli studenti italiani non sanno scrivere. Ne è nato un dibattito molto polemico, con gruppi che esprimono opinioni opposte. Io credo che serva una conciliazione, in fondo la preoccupazione di tutti è che i giovani sappiano scrivere. È inutile mettersi a litigare su situazioni che certamente esistono, perché quello che è stato denunciato è vero, ma sono situazioni che forse sono state anche un po’ esagerate. Spesso si è portati a dare importanza ai casi peggiori, ma è anche vero che ci sono tanti studenti che scrivono bene. Insomma, il tema lingua e scuola come si può capire è uno di quegli aspetti che è spesso al centro dell’attenzione dell’Accademia». L’Accademia della Crusca è dunque attenta all’attualità. «Molto attenta. E interviene mettendo in discussione i propri temi del mese, che sono un po’ il nostro articolo di fondo. In questo modo per esempio abbiamo avuto modo di intervenire di recente a proposito della legge regionale della Lombardia che dichiarava che il lombardo è una lingua. Noi abbiamo detto che è una stupidaggine: il lombardo una lingua non lo è di sicuro, al massimo può esserlo il milanese, o il bergamasco. Il lombardo non esiste, nel senso che i dialetti lombardi sono molto diversi fra loro: il lombardo è dunque un insieme di idiomi di versi, ma non certo una lingua». Spesso voi accademici della Crusca venite definiti “guardiani della lingua”, è una definizione in cui vi riconoscete? «Non credo che questa definizione piacerebbe a tutti gli accademici della Crusca. Gli accademici sono reclutati fra gli studiosi della lingua, quindi se la categoria scelta è quella di studioso allora tutti sono contenti e tutti trovano l’accordo. Perché la lingua sembra una cosa semplice, ma invece è un campo molto vasto. All’interno dell’Accademia per esempio convivono due anime principali: quella filologica, che si vede meno all’esterno perché fare l’edizione dei testi antichi o occuparsi dell’italiano medievale raramente fa andare sui giornali, poi ci sono accademici attenti alla lingua contemporanea o alla politica linguistica che hanno maggiori opportunità di contatto e di rapporto col vasto pubblico. Io stesso mi sono molto impegnato per far conoscere l’Accademia il più

CLAUDIO MARAZZINI

L’italiano sta bene, però...

Presente e futuro della nostra lingua con il presidente della Crusca

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Il neologismo più bello secondo me è “petaloso” perché per l’Accademia è diventato come un biglietto da visita per farsi conoscere

possibile, però non va dimenticato che c’è anche quell’altra parte dell’Accademia che è molto accademica ed è ugualmente molto importante per quello che facciamo». Ora una delle vostre battaglie più popolari è quella contro l’abuso di parole straniere. «Certo, il lavoro del gruppo Incipit che si occupa di suggerire i termini italiani, che esistono, invece di usare parole straniere. E questo soprattutto nelle leggi come negli atti istituzionali. Un lavoro che potrebbe diventare anche più popolare se riusciremo, spero l’anno prossimo, a realizzare un sito dedicato». *** Andiamo al 1877, quando nacque Il Tirreno. Non era molto che Manzoni era andato a risciacquare i panni in Arno: ecco, che lingua era quella di allora rispetto a quella di oggi? «Da voi in Toscana era certamente una lingua meno diversa da quella attuale, perché era

Un’antica edizione del Vocabolario della Crusca

l’italiano parlato. Per capire la situazione ci sono i dati di Tullio De Mauro, poi corretti da Arrigo Castellani: al momento dell’unità d’Italia gli italofoni, quelli in grado di tenere una conversazione in italiano, in tutto il Paese erano il 2,5 per cento secondo De Mauro, per Castellani il 10 per cento. Castellani calcola in modo diverso proprio i toscani. De Mauro non conteggiava come italofoni i toscani che non avevano almeno studi oltre le elementari, invece Castellani dice che in Toscana anche un analfabeta era in grado di parlare italiano, e mi sembra che un po’ di ragione ce l’ha. Tutti gli altri parlavano i vari dialetti. Già una decina d’anni dopo l’unità, le cose stavano cambiando in modo anche brutale, grazie alla burocrazia sabauda, alla leva obbligatoria e alle scuole reggimentali dell’esercito dove se uno era analfabeta gli insegnavano un po’ di italiano. Era insomma cominciato quel percorso che ci ha portato oggi ad avere il 95 per cento di italofoni».

Torniamo a oggi: come è adesso, secondo lei, la lingua dei giornali? Conforme alla nostra società, troppo alta, troppo bassa... «Va premesso che non c’è una sola lingua dei giornali, perché c’è la lingua della cronaca, quella dello sport, quella degli articoli di grande impegno. Ecco, se prendiamo la lingua degli articoli di grande impegno, quello è ora il miglior modello di lingua. Perché oggi non è più la letteratura, come è stata per secoli, il modello più alto e dominante di lingua. Oggi i romanzi e le opere di letteratura esprimono una lingua vicina a una colloquialità abbastanza modesta, non proponibile come modello per uno scambio elevato di comunicazione linguistica. Certe parti dei giornali rappresentano decisamente un modello migliore, più vicino alla saggistica». E invece, professore, della lingua della Rete che che cosa pensa? «È un po’ lo stesso discorso dei giornali, solo che offre più spazi. Compresi i maggiori spazi che attraverso i social si sono aperti a una colloquialità molto molto bassa. Per dirla con Umberto Eco, la colloquialità degli imbecilli. Ma non è colpa della Rete, gli imbecilli c’erano anche prima, adesso con Internet si vedono di più. La Rete comunque è una cosa meravigliosa, bisogna orientarsi negli spazi giusti dove attingere informazioni; se vado nei siti giusti, la Rete è una risorsa straordinaria. E lì la comunicazione è a un livello alto. Se uno va nel sito della Crusca, per esempio, qualcosa trova...». Un ultima cosa, il neologismo più bello di questi ultimi anni secondo lei quale è? «Per noi della Crusca è certamente petaloso. Non so quanto durerà perché è l’invenzione di un ragazzino, però nell’ottica di fare conoscere la Crusca, è stato il cavallo di Troia, il biglietto da visita per dialogare anche con i più giovani e far conoscere le nostre attività». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


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SABATO 29 APRILE 2017 IL TIRRENO

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la parola

ARTE L’uomo ha bisogno di esprimersi attraverso mezzi artistici: avremo l’arte anche nel futuro. Gillo Dorfles Angelo Dorfles detto Gillo è nato a Trieste il 12 aprile 1910 critico d'arte, pittore, filosofo, docente di estetica

di JEANNE PEREGO

I

l decano dell’estetica italiana del Novecento, critico d’arte, pittore, filosofo, anche poeta. Ma sempre in maniera eccentrica, non convenzionale, un unicum nel panorama culturale italiano. Personaggio ironico, stravagante, autodidatta di successo, in tutta la sua lunga attività Gillo Dorfles non hai mai smesso di riflettere sul divenire delle arti. La sua è stata una costante apertura al presente per intercettarne e anticiparne le evoluzioni e gli sfaldamenti, tanto nella pittura quanto nel design, nell’architettura ma anche nella moda e nei comportamenti della società. Un intellettuale che ha sempre voluto essere up to date, come ha scritto qualche anno fa. I suoi libri, da “Le oscillazioni del gusto” a “Il divenire delle arti” fino a “Irritazioni - Un’analisi del costume contemporaneo”, sono dei classici per chi vuole capire i sentieri dello stile. Ora, a 107 anni di età, Gillo Dorfles inizia a mostrare segni di stanchezza fisica. Ha qualche problema d’udito, per cui per intervistarlo si rivela prezioso l’aiuto del nipote Piero Dorfles, il critico letterario noto al grande pubblico per la conduzione in tv di “Per un pugno di libri”. Ma quando inizia a parlare di gusto, di arte e di bellezza, il vulcanico intellettuale che ha insegnato all’Italia cos’è il kitsch, dimostra una attenzione alla quotidianità che il passar degli anni non è riuscita a scalfire. *** Lei si è definito un fenomenologo del gusto; che cosa intende con questa definizione? «La costante del gusto mi ha interessato fin dall’adolescenza, perché il gusto non è solo qualcosa di frivolo legato alla moda, ma è qualcosa di intimamente legato alla morale dell’uomo». Quindi la fenomenologia del gusto non riguarda solo l’estetica ma anche l’essenza dell’uomo? «Certo, non è solo estetica ma è proprio essere immersi in una società in maniera efficace. Tutte le sfumature del gusto sono un fatto sociale che merita di essere studiato». E quale è il gusto dei nostri giorni? «Oggi non abbiamo più il gusto di un’epoca precisa, esistono tantissimi gusti. Perché dal Novecento non esiste più un gusto definito dal mondo erudito degli intellettuali». Quindi esiste un gusto popolare più diffuso di una volta? «Da sempre esiste un gusto popolare, ma oggi direi che è stato sostituito da un gusto più coltivato e legato allo studio. Una volta il gusto era legato solo alla moda o al divertimento. Oggi chiunque abbia fatto degli studi un po’ elevati si rende conto che il gusto è una costante della civiltà del nostro tempo». Cosa pensa dell’arte di oggi? C’è qualcosa che la disturba?

«L’arte di oggi è molto legata alla moda, al costume e al divertimento, e quindi non ha le caratteristiche essenziali che dovrebbe avere. Quelle di rifarsi sempre alla costante artistica del momento». Che cosa è per lei il futuro? «Il mio futuro riguarda solo me stesso». E il futuro dell’arte? «L’uomo ha bisogno di esprimersi attraverso dei mezzi artistici, che possono essere più o meno efficaci e che fanno parte della sua personalità». Quindi rispetto alle istallazioni e ai video di oggi sopravviveranno anche tele, pennelli e colori? «Credo che più o meno ogni mezzo artistico è destinato a sopravvivere secondo le sue particolarità tecniche, manuali ed espressive. Certo non c’è più spazio per la pittura figurativa». Già nel 1968 lei ha iniziato a riflettere sul kitsch, elevandolo a categoria estetica. Che valore ha ora il kitsch e che valore avrà nel futuro? «Il kitsch è entrato ormai a far parte della nostra civiltà e quindi continuerà ad avere vita anche in futuro. Anche all’interno delle espressioni artistiche, senza dubbio. C’è il buono e il male anche dentro all’arte. E quindi anche il kitsch continuerà il suo dubbio cammino». *** Parliamo di Toscana. Lei ha una casa nella nostra regione, vero? «Sì, ho una casa di campagna a Lajatico. Sin dall’adolescenza, quando andavo in vacanza a casa degli zii sulla costa, per me la Toscana è stata una specie di miraggio da raggiungere. Sono sempre stato attratto dalla sua evoluzione linguistica e paesaggistica. Senza dubbio è la regione italiana più significativa di quelle che sono le qualità del Paese, sia quelle sociali che, soprattutto, quelle artistiche». A proposito di evoluzione della lingua, cosa ha trovato di affascinante nel parlar toscano? «Mi ha sempre colpito il fatto che la lingua parlata in Toscana fosse così più evoluta che nel resto del Paese. In genere la popolazione, anche quella non particolarmente erudita, ha un’impostazione linguistica che la distingue da quelle delle altre regioni italiane. La fa sembrare più colta e più evoluta di quanto magari non sia».

GILLO DORFLES

Estetica e lingua La Toscana è un miraggio

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È la regione che rispecchia meglio le qualità sociali e artistiche del nostro Paese. E la sua lingua resta la più evoluta anche oltre l’erudizione della gente Il gusto? È qualcosa di legato alla morale umana. E il gusto popolare è stato sostituito da qualcosa di più raffinato, collegato allo studio



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i direttori » roberto bernabò

ROBERTO BERNABÒ, una lunga carriera al Tirreno, è ora direttore editoriale del gruppo Finegil

Il racconto dei fatti, l’eredità del passato, la libertà delle idee

di ROBERTO BERNABÒ

«N 12 gennaio 2012, il Tirreno festeggia un traguardo: nasce il giornale tutto a colori. (Pentafoto)

on c’è un giornalismo di serie A e uno di serie B. Ma se anche ci fosse, la massima serie è quella di chi fa cronaca locale». La chioma bianca, i modi garbati, il sorriso e la battuta tagliante, Mario Lenzi era un gigante per chi a inizio anni Ottanta entrava timidamente nel mondo del giornalismo locale, nel mondo del Tirreno. Con un azzardo avevo lasciato appena ventenne la collaborazione con La Nazione — allora giornale di gran lunga quotidiano leader in Versilia e in Toscana — spinto da un amico, Giuliano, che non ringrazierò mai abbastanza, che in una sera di pioggia in centro a Pietrasanta mi aveva convinto: «È un giornale combattivo, in crescita, sarà una grande avventura». Un anno dopo — con all’archivio le indimenticabili strigliate del primo direttore Magagnini e di alcuni dei grandi dell’ufficio centrale (e chi dimentica gli sguardi, i consigli, le urlate di Carlo Pucciarelli, Alfredo del Lucchese, Alfredo Pierucci, Augusto Vivaldi e gli altri non me ne vogliano se non li cito ma li ricordo) con cui avevo lavorato per qualche mese — l’incontro con Mario Lenzi, l’uomo che aveva accompagnato il passaggio del Tirreno all’interno del Gruppo Espresso e la nascente catena di giornali locali ed era tornato a fare il direttore per un breve periodo. Ecco il colloquio nella sua stanza con il respiro trattenuto, la sua idea di giornalismo che sarà un faro per me del senso di questo mestiere in provincia — “Pensa a quanto un buon giornalista può incidere sulla vita di una comunità e quanto poco può farlo a livello nazionale”, insistette — , il primo contratto ed eccomi piccolo ingranaggio di un progetto che avrebbe segnato il giornalismo locale italiano. È l’idea di un

giornale iper-locale, con una redazione in ogni area omogenea, con una copertura comunale senza precedenti. Nella Toscana dei campanili, delle micro identità profonde, Il Tirreno arriva prima di tutti — della politica, che poi inaugurerà la stagione dei sindaci eletti direttamente e della concorrenza editoriale — a capire il valore di dare voce ai territori, di offrire anche alla comunità più piccole uno spazio di rappresentanza, di costruire una relazione diretta strettissima. Si aprono redazioni, aumentano le edizioni, cresce il numero dei giornalisti e dei fondamentali collaboratori di paese. *** C’è un’energia incredibile che da Livorno sale per i rami di una Toscana dove Il Tirreno diventa sempre più diffuso, sempre più il giornale leader ribaltando in pochi anni tradizioni e rapporti di forza consolidati. E c’è uno spirito che anima la redazione: uno spirito garibaldino come quello della fondazione, una passione civile che la lotta per la sopravvivenza nel 1977 — quando Monti aveva deciso di chiudere il giornale — aveva ulteriormente rafforzato e che si trasmette a chi arriva dopo; il senso di una grande responsabilità che compete a chi fa questo lavoro. Un attaccamento straordinario alla testata. Le ore di lavoro non ci spaventano, la crescita continua delle copie vendute è benzina sulla voglia di esserci sempre e ovunque. Una macchina che corre veloce con entusiasmo, sicurezza (certo anche commettendo errori, ovviamente, ma imparando ad ammetterli e riparare), ostinazione nelle battaglie locali, nelle sfide alle istituzioni, nel racconto dei fatti. E prende il meglio dagli straordinari direttori che si succedono (Luigi Bianchi, Ennio Simeone, Sandra Bonsanti), con una non ordinaria capacità di trasferire una certa idea di giornalismo — per riprendere una bella frase di Ezio Mauro per la sua Repubblica — nei passaggi generazionali.

Questa lunga stagione ho avuto il privilegio di viverla passo dopo passo: collaboratore a Viareggio, poi capo della redazione della Versilia con colleghi che saranno/sono negli anni colonne di questo giornale e non solo, e nel 2000 il salto alla vice direzione a fianco di una giornalista fulminante come Sandra Bonsanti, appassionata e testarda, capace di miscelare i linguaggi e i livelli mettendo le persone sempre al centro. E aiutato in questa avventura dalla saggezza e dal sostegno umano di Nino Sofia, il condirettore, un amico che ci ha lasciato troppo presto. Poi spalla a spalla, ancora vicedirettore, di Bruno Manfellotto, una delle grandi firme del giornalismo italiano, brillante e raffinato, capace di iniettare dentro di noi un po’ della sua lunghissima esperienza nei settimanali.

grande spirito di squadra, con la libertà straordinaria, unica, che l’Editore ci ha sempre dato come la cosa più naturale, anche nei momenti più difficili. La riforma della grafica del giornale, il passaggio alla stampa interamente a colori — che emozione quel primo numero atteso con una grande festa in redazione — , l’innovazione digitale spinta riallacciandosi a quella capacità di visione che a metà anni Novanta aveva diffuso l’allora condirettore Claudio Giua (e a ottobre il Tirreno. it festeggia 20 anni! ). È una sfida che ci costringe a rivedere la relazione con i lettori/utenti, a ripensare temi e tecniche di scrittura, a lavorare sempre di più, su più piattaforme. E a fare i conti con la necessità di gestire le difficoltà di modello economico che attanagliano tutta l’informazione mondiale.

*** Ecco il giugno 2009 e la decisione dell’Editore di affidarmi la direzione del giornale. Una sorpresa enorme, un’emozione straordinaria, un peso che toglie il sonno. La sfida di guidare il giornale dove sei cresciuto, un pezzetto alla volta, con colleghi diventati amici, e con le difficoltà che comporta esserne ora il direttore. Sono gli anni della grande crisi economica internazionale. Ma anche, per l’informazione, gli anni dell’avvio di un cambiamento strutturale nei consumi delle notizie. Dilaga il web, non c’è più rendita di posizione neanche per l’informazione locale; c’è solo il dovere di provare a innovare dentro paradigmi culturali cambiati, riferimenti economici appesantiti, piattaforme digitali che diventano oligopoli decisivi. E dentro una società, comprese le mille Toscane, che la globalizzazione costringe a ripensarsi giorno dopo giorno, a ritrovare nuove radici di identità di fronte a dinamiche decisionali che sono sempre più “disembedded”, per dirla con il sociologo Anthony Giddens, dai poteri locali. So che ci abbiamo provato, con un

*** Quello spirito del Tirreno — fatto di amore viscerale per la testata, di lealtà interna, di attenzione per i propri lettori ovunque siano, di consapevolezza del ruolo sociale e dunque della necessità di sbagliare il meno possibile — è stato il collante anche di questa ultima fase. È l’eredità lasciata prima alla passione giornalistica ostinata di Omar Monestier, e oggi a Luigi Vicinanza, un grande professionista con un bagaglio di esperienze ricche e ampie e un amore profondo per la cronaca delle città, chiamato con tutta la redazione a fare i conti con un modo nuovo di consumare l’informazione in un mondo mai così glocal. E lo fa ripartendo proprio da un’apertura nuova, propositiva, stimolante, verso i cittadini. Perché in una società destrutturata possono trovare, e stanno trovando, in un brand informativo autorevole forse l’unico punto di riferimento per vivere consapevolmente nella propria comunità. Guardando così avanti con un po’di fiducia. Ecco perché al Tirreno gli anni non pesano. Auguri!


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140 anni

IL TIRRENO SABATO 29 APRILE 2017

La Toscana è splendore e fierezza, tradizione secolare, astuzia, modernità. Livorno è invece un territorio misterioso e rassegnato. Si compiace di essere un mondo a parte, bello e terribile... di CRISTIANA GRASSO

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a Toscana nel cuore, senza tante smancerie però, perché Paolo Virzì è appunto toscano e livornese nel genio oltre che nell’anima e non ama salamelecchi e omaggi di maniera. Paolo Virzì, anni 53, marito dell’attrice Micaela Ramazzotti, regista dalla mano lieve quanto amara e beffarda, commedie drammatiche che fanno ridere e piangere ma soprattutto pensare e rimuginare: una dozzina di film e un crescendo di successo e consensi. Con “La pazza gioia” e quella fuga di due femmine folli e tenerissime in giro per la Toscana, ha conquistato Cannes, il mondo e i David di Donatello. Ora sta preparando l’uscita negli Stati Uniti del suo nuovo film girato appunto in America, “The Leisure Seeker”: è la marca di un camper, quel camper è infatti il mezzo di un’altra struggente e incredibile fuga, quella degli anziani coniugi interpretati da Helen Mirren e Donald Sutherland. Ma nell’America dove ha lavorato e creato legami professionali, a Roma dove abita, dentro al mondo grande che lo ha accolto a braccia aperte c’è sempre il suo piccolo mondo antico: la sua Toscana, la sua Livorno. I 140 anni del Tirreno sono anche un’occasione per fare i conti con vizi e virtù della nostra regione. Da Roma, da “emigrante” speciale, cosa vede di bello e di brutto quando guarda verso la nostra terra? «Ma stiamo parlando di Toscana o di Livorno? Perché non è proprio la stessa cosa. La cosa speciale, magnifica e terribile di Livorno è che è un mondo a parte. La Toscana è splendore e fierezza, tradizione secolare, astuzia, modernità. Livorno è invece quel territorio misterioso che ho provato a raccontare con certi film e verso il quale continuo a nutrire il sentimento controverso che si prova verso un genitore: amore e strazio mescolati. Dolcezza e malinconia per la luce struggente di quella città, il vento che sa di sale, lo spirito caustico delle persone, che però nasconde una specie di rassegnazione, il rimpianto per un mitologico passato che ancora tiene vivo un orgoglio sempre più acciaccato» La Toscana è una regione “da film” che aiuta lo svolgersi del racconto cinematografico? Perché la sceglie così spesso come location? «Mah, guardi, soprattutto perché è il palcoscenico di una commedia umana che per me ha un sapore familiare. Spesso nel concepire una storia ho l’istinto di portarmela sotto casa, quella casa antica che in realtà ho abbandonato, chiudo gli occhi e sento il suono di quelle voci. Mi fa piacere, quando

PAOLO VIRZÌ

Il set della mia vita Le locandine di tre dei film più amati firmati da Paolo Virzì: Ovosodo, Ferie d’Agosto e la Pazza gioia

posso, radunare certi volti, certe persone, i molti talenti che stanno da queste parti, che ho la sensazione siano tutti miei parenti». 140 anni sono più di una vita. Riesce a pensare al tempo che corre senza aver paura

della morte, del vuoto? «Paura della morte? Macché, comincio ad esserne curioso. Chissà com’è, se si spegne tutto all’improvviso, o se finalmente si accende qualcosa? Non sono religioso, purtroppo, nel senso che non mi aspet-

to un Dio buono che predispone destini, inferno e paradiso, ma l’anima esiste, lo sento. E da qualche parte andrà, magari ad incontrare altre anime perdute». Come si immagina il 1877? Quanto valgono 140 anni di

storia? «Ma questa è l’intervista più impegnativa alla quale sia mai stato sottoposto! Proviamo ad essere all’altezza. Nel 1877 Roma era capitale da qualche anno, a Livorno Giuseppe Bandi fondava Il Telegrafo mentre la città ex-porto franco si modernizzava, l’energia elettrica cominciava a diffondersi nelle case, dalla vocazione commerciale si passò a quella industriale, il nord della città s’infittì di ciminiere fumanti, di fiumane di operai in bicicletta, mentre altre migliaia di operai convergevano verso i Cantieri Orlando richiamati dalla sirena che annunciava l’inizio del turno. Esistesse la macchina del tempo, mi piacerebbe molto dare un’occhiata alla Livorno ottocentesca, che Dickens descriveva come la città dove nessu-

no dorme mai. La immagino piena di fervore, di odori intensi, di bar affollati, di case di tolleranza e di studi di pittori. Tutto il contrario di quel languido, pigro paradiso per pensionati che è la Livorno di adesso». È livornese. E a Livorno i Tirreno è sempre stato un’istituzione. Infatti nei suoi film c’è spesso un riferimento al giornale... «Quando ero bimbo il Tirreno, o il Telegrafo, erano semplicemente “il giornale”. Da liceale diventò il quotidiano dove si andavano a leggere i resoconti delle manifestazioni studentesche...». Lei bambino a Livorno. Cosa le hanno dato e cosa le hanno tolto questa città e la Toscana? «Livorno mi ha dato un senso di appartenenza, vissuto in


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Il Tirreno? Per tutti noi in famiglia era “il giornale”. E al liceo diventò il luogo dove leggere delle manifestazioni studentesche. Del 1877, quando nacque, immagino operai in bici, studi di pittori e case di tolleranza...

Paolo Virzì legge Il Tirreno durante una pausa del festival Europacinema a Viareggio (foto Paglianti)

Quattro frasi dai suoi film (...e una citazione) Dall’amore di una mamma come la nostra, purtroppo o per fortuna, non c’è via di scampo BRUNO (VALERIO MASTANDREA) — “LA PRIMA COSA BELLA”[/SCHEDACHIARA ] L’uomo è l’unico animale che sa arrossire... lo dovrebbe fare più spesso. “CATERINA VA IN CITTÀ”[/SCHEDACHIARA ]

LA PAROLA

— Ma dove si trova la felicità? — Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili. BEATRICE (VALERIA BRUNI TEDESCHI) — “LA PAZZA GIOIA”

APERTO

Dice che la malinconia non è altro che una forte presenza nel cervello di un neurotrasmettitore che si chiama serotonina. E succede che si ciondola come foglie morte e un po’ci si affeziona a questo strazio e non si vorrebbe guarire più. PIERO (EDOARDO GABBRIELLINI) — OVOSODO

Aperto, ovvero il contrario di “chiuso”, ad un mondo che per la paura costruisce muri e divisioni preferirei disponibilità mentale e curiosità pacifica. Paolo Virzì “Il Telegrafo” in una scena de “La prima cosa bella”

modo conflittuale, ma che in qualche modo ha determinato quella cosa interiore che potremmo chiamare identità. Adesso che ci torno poco, quando ci torno ho un sentimento di allarme, come se avessi timore di non riconoscerla. Come una madre, una zia, una nonna che è invecchiata e rimbambita e che a sua volta non ti riconosce». Quali politiche per la cultura servirebbero? In Toscana ma non solo.

«Ma che ne so, non chiedetelo a me. Mi piacerebbe che Livorno volesse bene ai suoi artisti, ai suoi talenti, quando invece, quei pochi anche se bravissimi che son rimasti mi sembra vivano un sentimento di emarginazione, sminuiti dall’eterno spirito di canzonatura che è il tratto rilevante del carattere locale». Non è un mistero: il Movimento 5 Stelle, che oggi governa tra l’altro anche Roma e Livorno, non le piace. Perché

Ho un’idea molto artigianale dell’ispirazione, del concepimento, di quella cosa anche un po’romantica che è l’ispirazione artistica: per me conta lavorare. (PAOLO VIRZÌ)

questa disistima? Tra l’altro il sindaco di Livorno Nogarin e l’assessore alla cultura Belais le hanno fatto le congratulazioni per i David conquistati da “La pazza gioia”. «Guardi, nulla di personale, davvero. Anzi visto che lei mi ha spiegato che sindaco e assessore mi hanno rivolto parole affettuose io li ringrazio rispettosamente. Mi è capitato piuttosto di fare ragionamenti generali a proposito del declino della classe dirigente, che

non comincia certo dall’epoca attuale a 5 Stelle e che ovviamente non riguarda soltanto Livorno. Mi dicono peraltro che quel Movimento, al contrario di Roma dove sembra contiguo all’anima nera, fascista, tassinara e casapoundista, a Livorno ha invece tratti più di sinistra, e la cosa non può non farmi simpatia. Ma il Movimento di Beppe Grillo francamente non mi convince per tante cose, per un deficit di democrazia (si clicca, si clicca ma

poi decidono in due), per il tratto demagogico, per una narrazione facilona e mistificatoria che divide l’Italia in noi e loro, da una parte gli eroi onesti vendicatori dei cittadini, dall’altra il marcio e la corruzione indistinta. Per essere insomma soprattutto una formidabile macchina di propaganda, spesso aggressiva, che nega dignità a chi la pensa in modo diverso e che sembra lavorare ad alimentare la rabbia e la frustrazione di tante persone infe-

lici». Insomma non si concilia con la sua idea di democrazia? «Un’idea della democrazia forse figlia del secolo scorso, dove ci sono dialettiche esplicite e trasparenti, ci si confronta, si vota, si eleggono organismi, segretari, rappresentanti. Così come non mi piaceva il partito-azienda di Berlusconi non può piacermi il partito-azienda di Casaleggio. Non credo all’ideologia della democrazia diretta che si traduce in clic su piattaforme gestite da un’unica azienda privata, continuo a preferire la cara vecchia democrazia rappresentativa, che sarà un sistema analogico e vintage e avrà tanti brutti difetti ma, come diceva Churchill, non se ne conosce finora uno migliore». E che futuro vede per i suoi figli cioè che mondo immagina li accoglierà da adulti? «Vorrei che non prevalesse il pessimismo che a volte mi assale. Auguro ai miei figli un mondo con meno muri e senza questo perpetuo senso di emergenza e di guerra. Tira una brutta aria, ogni sera c’è un pestaggio tra ragazzi, sedicenni, diciottenni, avete letto, avete sentito? Auguro ai miei figli un mondo più pacifico, più tollerante, più gentile». Lei è un personaggio molto geloso della sua privacy. Come gestisce la nuova comunicazione, Facebook, Twitter? Come concilia privacy e necessità di “esserci”? «Una bacheca Facebook personale non l’ho mai avuta, mi sembrava patetico, non essendo più adolescente da un pezzo. Mi è capitato di avere un profilo Twitter ma l’ho cancellato quando mi son reso conto che i giornali, che evidentemente spesso non sanno come riempire le pagine, riportavano le sciocchezze che mi capitava di scrivere come se fossero notizie di interesse pubblico». Girare in America è stato un salto di qualità? Era emozionato? Da “My name is Tanino” girato oltreoceano all’inizio del 2000 quanta acqua (e quale acqua...) è passata sotto i ponti? «Sono andato in America a fare un mio film, il film di un regista italiano ambientato sulle strade della East Coast americana. Un’esperienza faticosa per me che soffro di disturbi del sonno, non ho smesso neanche dopo mesi di soffrire il jet lag. Ma filmare la performance di una leggenda della New Hollywood come Donald Sutherland e di un talento sublime come Helen Mirren è stato elettrizzante. Nel racconto dell’avventura di Ella e John, i protagonisti di The Leisure Seeker, abbiamo provato a mescolare commedia e tragedia, lacrime e risate, come in fondo ho sempre cercato di fare con i miei film».



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i direttori » omar monestier

OMAR MONESTIER, direttore del Tirreno dal 19 ottobre 2014 al 27 luglio 2016

L’orgoglio e la storia: un giornalismo che non conosce paura

di OMAR MONESTIER

Alcune prime pagine del Tirreno in uscita dalla rotativa del Centro Stampa in zona Picchianti, a Livorno (Pentafoto)

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un candidato consigliere alle elezioni regionali toscane, un omone che voleva risolvere a colpi di offese ogni confronto dialettico col giornale, risposi: lei può denigrarci, se crede. Ma se lei esiste, a Livorno, la sua vita incrocerà prima o poi viale Alfieri dove si trovano su di un lato il Tirreno, sull’altro la cella mortuaria dell’ospedale. Due punti imprescindibili. Macabro e poco elegante, ne convengo. L’eleganza di Livorno, tuttavia, sta nella sua schiettezza, non nelle manfrine imbellettate. A provocazione si risponde a tono. Livorno è sangue e arena. Non posso dire che anche il Tirreno lo sia. Assicuro, anzi, che non lo è, ma certo qualche suggestione condivisa dev’esserci fra città e giornale. Io ne ho respirate molte e m’è piaciuto. Livorno è la testa e una parte fondamentale del corpo del Tirreno. La trazione è livornese. Poi c’è il resto, che non conta poco: una marea di edizioni diversissime, tante piccole redazioni che pensano e agiscono con un grado di libertà e autonomia che ho riscontrato raramente. Non esiste un solo Tirreno. Esistono tanti Tirreno, uno differente dall’altro, una comunità federata e solidale che condivide una mappa di sentimenti e ideali convintamente antifascisti, di impegno civile e morale. La difesa della libertà e della democrazia è quel che la gente del Tirreno impara

La spina dorsale del Tirreno è fatta di territori, di differenze e di coerenze culturali: guidare questa comunità federata e solidale è stato un onore dal primo giorno di lavoro, indipendentemente dai compiti che svolge in azienda: dirigente, giornalista, poligrafico, rotativista, impiegato, pubblicitario, centralinista. Tanti Tirreno, scrivevo. Quello elegante di Lucca, quello folle di Viareggio e della Versilia, quello bicefalo e toscano-ligure di Massa e Carrara (con appendice sulla Lunigiana). Poi si scivola lungo la Maremma livornese che si stende fra Cecina e Rosignano prima di sbucare a Grosseto, dove la parlata declina nei suoni dell’alto Lazio senza perdere l’intonazione. In mezzo, Piombino e l’Elba, cronache di un giornale che mescola decadenza industriale e fiera coscienza operaia con i nuovi turismi riccastri e furboni. E Pisa, più complicata di una metropoli, un delizioso

quartierino con dentro un aeroporto, una torre, tre università e la contrapposizione permanente fra gruppi di potere. Pontedera e il resto della provincia fin su, negli avamposti eroici di Prato, Empoli, Montecatini e Pistoia. Me ne rendo conto di nuovo, mentre lo scrivo. Essere il direttore di un giornale è una esperienza potentissima, formidabile. Aver attraversato il Tirreno è stata una folgorazione. A noi che non siamo cresciuti dentro il Tirreno, che abbiamo avuto la fortuna di dirigere anche altre testate, il Tirreno è sempre stato rappresentato come un’idra ingovernabile che solo il potere deifico del Capo (il direttore) riesce a far marciare alla perfezione. Non è così, naturalmente. Il gruppo (uomini e donne mai esausti), quello che pomposamente chiamavo staff, è il vero motore. Negli incontri periodici durante i quali noi responsabili delle testate locali ci scambiamo pareri ed esperienze, il direttore del Tirreno viene presentato inevitabilmente come il capo supremo dell’organizzazione più complessa del mondo. Al suo ingresso in sala tutti zittiscono. E’ colui che amministra un vortice di pagine che si mescolano in continuazione nelle varie edizioni senza mai confondersi (ed è vero! Io stesso mi chiedo ancora come ci si riesca. Tanto merito è della tipografia e dell’ufficio dei capiredattori). Lui è il solo essere in grado di ammaestrare il cerbero dell’unica rotativa del Gruppo che spu-

ta una dozzina di versioni dello stesso giornale tutte differenti eppure tutte coerenti con uno stesso stile, una identica scuola professionale. Si dice che il tempo sublimi il ricordo. Non so dire. Sublime è stato di certo il mio brevissimo periodo al Tirreno, chiamato a gestire una fase di travaglio dopo che altri, prima di me, avevano costruito con lungimiranza un nuovo modello organizzativo che io trovai bell’e fatto e che misi in pratica. A me, un polentone del Nord, il Tirreno ha offerto una porzione generosa del proprio cuore. M’ha fatto sentire un cronista livornese a Livorno, lucchese a Lucca eccetera. Non era facile. La mia calata nordica pareva un gracchio fra tante varianti del toscano. Mi è andata bene, non m’hanno cacciato. Mentirei se sostenessi di non aver avuto momenti difficili. Ricordo quando il leader di un movimento politico ci lanciò una fatwa per aver scritto una notizia. Poche le parole di solidarietà fuori dal giornale. Tenemmo duro e altri poi, dopo mesi, scrissero quella stessa notizia. La redazione non vacillò. Buon compleanno Tirreno. Grazie per avermi permesso di sedere sulla sedia che fu di un garibaldino. Sono riconoscente a molti: all’Editore, ai Grandi che mi hanno preceduto e al Maestro che è venuto dopo di me. Pensavo di aver appreso qualcosa di questo mestiere, mi sono bastati pochi giorni al Tirreno per comprendere che non sapevo nulla. 140 anni contano.


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«Il mondo cambia ma il centro di Firenze resta lo stesso: gli odori delle botteghe, della gente che lavora... Il punto è che mancano le infrastrutture per fare ulteriori salti di qualità di ILENIA REALI

L

a sveglia suona presto. Un po’come tutti gli uomini d’affari le ore di sonno sono sempre poche. È l’alba quando l’imprenditore, uno dei più grandi manager del mondo della moda, prende la bicicletta e dalla sua casa sul Lungarno pedala verso il cuore della città. L’aria è frizzante — racconta — e Firenze si prepara. La prima luce del sole, un giorno dorata l’altro più fredda, s’insinua e tocca, riflettendo, sulle strade e sui monumenti, sui bei palazzi. Tutto è uguale eppure ogni giorno sembra cambiare. Come compagnia i marmi policromi del Duomo. Alcuni giorni, il Rosso di Siena sembra voler schizzare nel cielo e, in altri, il Verde di Prato prevale cercando di fermare staticamente la piazza in un gioco di sovrapposizione ottica assieme al prezioso Bianco, di Carrara. Non ci si abitua mai al bello. E non lo fa neppure Ferragamo “costruttore” del bello per eccellenza. «La mattina mi alzo presto e mi piace girare in bicicletta», racconta del suo rapporto con Firenze e la Toscana Ferruccio Ferragamo, presidente della maison Salvatore Ferragamo, mecenate, guida del Polimoda, primogenito di Salvatore e Wanda, pilastro della moda e del gusto. «Mi piace quando tutte le persone preparano la città affinché viva la sua giornata. Dagli spazzini a quelli che aprono i negozi, le botteghe. Tutti. Firenze tra le 6 e mezzo e le 7 è bellissima. Si gode di tutto quello che rappresenta. È già giorno, l’aria è fresca, l’inquinamento acustico è zero. Gli scorci che amo sono tantissimi: quelli dentro la città, quelli della periferia dove dall’alto si vedono tutti questi cupoloni, il Campanile, Palazzo Vecchio». *** Dire Ferragamo è dire Firenze. Eppure Salvatore e Wanda Ferragamo, i suoi genitori, non sono originari della Toscana. Ciononostante nelle sue parole, sempre, si percepisce un grande amore e un grande scambio di emozioni con questa terra. «Beh, sono nato a Fiesole, ormai 100 anni fa», scioglie il primo scambio di parole con una battuta. Poi: «Mi sento fiorentino anche se il mio sangue è totalmente dell’Irpinia: sia mio padre sia mia madre erano di un piccolo paesino, Bo-

Ferruccio Ferragamo (9 settembre 1945) è il presidente della maison Salvatore Ferragamo. In azienda dal 1963, ad dal 1984

FERRUCCIO FERRAGAMO

Pedalo tra le meraviglie e sogno la nuova moda «I toscani sono depositari del bello ma lo sfruttano poco» nito, da cui mio padre è partito tanti anni fa. Aveva 16 anni e da lì cominciò la sua storia. Io sono nato nella casa dove ancora abita mia madre. Noi fratelli siamo tutti nati nella stessa stanza, non solo nella stessa casa. E quella casa, in cui ancora vive mia madre, è per lei e per tutti noi molto cara. Mi lega all’infanzia. Al giardino e al bosco che conosco in ogni dettaglio, in ogni singola stradina. Spazi che mi sono goduto da piccolo e ricordo con emozione». Firenze è una città che vive ogni giorno. Qui lei lavora e abita. Suo padre la scelse per

produrre le sue scarpe comode e belle, oggetti di design. Le sue creazioni sono state indossate da Lauren Bacall ad Audrey Hepburn, da Ingrid Bergman, dalle italiane Sophia Loren, Anna Magnani… «Mio padre partì dall’Irpinia nel 1914. Andò in America e lì avvio il sogno di fare le scarpe, quelle che tutt’oggi sono nel nostro museo in via Tornabuoni, dov’è anche il negozio. Nel 2017 sono novant’anni che mio padre è rientrato in Italia e lo stiamo festeggiando con una mostra. È molto bello pensare a uno che, emigrante, parte in cerca

di fortuna e poi torna nel suo Paese. Oggi si parla così tanto di emigrazione da tutte le parti del mondo: mi piace pensare a un uomo, come mio padre, che riesce a tornare: La trovo una cosa proprio bella. Lui scelse di tornare in Italia e scelse proprio Firenze. La città lo ispirava, era all’epoca la città più internazionale d’Italia. C’erano artigiani capaci di realizzare le scarpe che lui ideava frutto del suo estro e degli studi di anatomia del piede che aveva portato avanti in California. Arrivò a Firenze e negli anni successivi comprò Palazzo Spini Feroni, che divenne la

sede dell’azienda, e la casa, quella dove poi siamo nati». Suo padre tornò in Italia nel 1927, era già soprannominato il “calzolaio delle stelle”. Intanto in Toscana si stampava già da 50 anni Il Tirreno. Come immagina la nostra Regione a quei tempi? «Le città, come Firenze, non credo siano cambiate molto. Con i loro pro e i loro contro i centri antichi rimangono uguali. Mi piace pensare che il centro storico fosse proprio uguale ad oggi, a quello che vedo ogni mattina. Le botteghe che aprono, gli artigiani, i commercianti. I problemi so-

no diversi ma in fondo molto simili. Le divisioni, la competizione. Di qua d’Arno, di là d’Arno. Con tutte le storie che ben conosciamo. Mi piacerebbe invece vedere la città cambiare al di fuori del perimetro della parte storica: vorrei arrivassero l’aeroporto, le infrastrutture, il polo espositivo. Strutture vitali per poter lavorare al giorno d’oggi. Dobbiamo saperci aggiornare alle esigenze del mondo che corre sempre di più». *** Ama molto il suo Paese. Tanto da aver scelto di pro-


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I posti del cuore? Roccamare, a Castiglione della Pescaia e il Borro, vicino ad Arezzo, una campagna completamente “bio” Siamo privilegiati, ma sul turismo abbiamo perso troppe occasioni

In questa bellissima foto d’epoca, la famiglia Ferragamo sui tetti del centro storico di Firenze

la parola

«Abbiamo sempre SQUADRA voluto produrre in Italia, esportiamo in tutto il mondo. È una grande opportunità di attrazione per il territorio» durre tutto qui convinto di non trovare altrove l’humus per la crescita di un grande marchio italiano. Mentre molti grandi brand scelgono di riportare la produzione in Italia, e per quanto riguarda la pelletteria in particolar modo in Toscana, voi non avete mai delocalizzato. «Noi produciamo al 100% in Italia e di questo siamo molto orgogliosi. Sono convinto che per le aziende produrre in Italia sia quasi un dovere oltreché un’opportunità. Ci sono delle realtà fantastiche, una manualità e un buongusto difficili da superare. Sicuramente la moda è per la Toscana, di-

Trovo che sprechiamo energie nella competizione. A tutti i livelli. Se ci fosse più un gioco di squadra invece otterremmo in Toscana delle cose stupende. Ferruccio Ferragamo

rei anche allargandoci per l’Italia, una grande straordinaria opportunità. Esportiamo in tutto il mondo, la moda è un bel volano e anche una bella attrazione: penso che esportare moda faccia bene anche al turismo. Ci sono persone che comprano prodotti all’estero e poi si incuriosiscono, hanno voglia di capire dove nascono. Lo vedo per il vino: i consumatori bevono il vino nel loro Paese e poi vogliono venire a vedere dove viene prodotto. Per la Toscana è un’opportunità di crescita straordinaria». Firenze è chiaramente al primo posto ma ha altri luo-

Salvatore con Wanda e i figli Leonardo, Fiamma, Fulvia e Giovanna. Dietro, Massimo e Ferruccio (Archivio foto Locchi Firenze)

ghi del cuore in Toscana? «Sulla costa ho un posto che adoro: è Castiglion della Pescaia, Roccamare. Ho lì una casa in cui ho moltissimi ricordi e dove vado quando posso. È proprio sul mare. Adoro il mare, adoro la nostra costa, la

trovo bellissima. Ma non solo quella Toscana, tutta la costa italiana è fantastica. Credo che con qualche aggiustamento della normativa vigente sarebbe un’altra grande, grandissima opportunità da sfruttare sia per le industrie sia per

il turismo. Potremmo fare molto di più su questo». “Potremmo fare molto di più”, cosa intende esattamente con questa frase? «Bisognerebbe non penalizzare chi compra le barche o fa le vacanze in barca perché il

turismo in barca porta business, nuove attività, posti di lavoro. In Italia invece lo vediamo come un settore da tassare e da tartassare. È un peccato: intorno a ogni porto, a ogni cantiere ci sono molti posti di lavoro. E con tutte le coste che abbiamo potremmo fare grandi cose. A volte domando e mi domando: ma se il nostro mare e le nostre coste ce le avessero quei paesi che ne hanno appena un briciolino e anche fredde, come la Germania? Serve rispetto dell’ecologia e dal paesaggio, da cui non si può prescindere, ma se ci fosse la possibilità di fare porti galleggianti, a inquinamento zero, si potrebbe promuovere il turismo in Italia ancora di più». *** La città, il mare. Nella sua vita ha un ruolo importante anche la campagna toscana. «Sì, un altro posto a me molto caro, lì mi raduno con tutti i miei sei figli — sì, sono un uomo fortunato — è il Borro. Un’azienda che ho da qualche decennio, a 45 minuti da Firenze, vicino a Arezzo. Lì produco quel vino a cui mi riferivo prima. Completamente biologico. È l’attività del weekend che porto avanti con due dei miei figli che mi aiutano. È il luogo dove mi ricarico le batterie nel fine settimana». Parliamo con lei di Toscana perché siamo un giornale che nasce in Toscana. Che rapporto ha con i giornali? Che futuro immagina per i quotidiani? «Trovo che il mondo cambi molto. Ma non solo nei giornali. Cambia ovunque, a tutta velocità. Cambia anche nella moda, non dal punto di vista estetico, ma funzionale. Ci sono dei paesi dove l’e-commerce sta crescendo a doppia cifra a ritmi pazzeschi. E credo anche nell’editoria, nei giornali, sia un po’lo stesso. Io adoro i giornali, mi piace averli in mano, sentire la carta, andare avanti indietro sfogliandoli, cercando le notizie. Però credo sia importante anche per voi, che raggiungete un grande traguardo, seguire l’evoluzione del mondo che cambia e avere delle formule nuove che consentano di seguire le tendenze del momento, proprio come l’e-commerce per la moda. Serve poter accedere ai giornali e alle informazioni senza necessariamente comprarli in edicola e, sicuramente, come per tutti noi, è importante essere aggiornati e se possibile anticipare gli eventi. Oggi vince chi si muove per primo».



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I DIRETTORI » BRUNO MANFELLOTTO

BRUNO MANFELLOTTO, direttore dal maggio 2003 al giugno 2009

Il cuore e 13 “prime”: sì, sono stato molto fortunato

di BRUNO MANFELLOTTO

Livorno, maggio 2009: un dibattito tra candidati a sindaco organizzato dal Tirreno alla Stazione Marittima (Pentafoto)

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iciamo la verità, sono stato molto fortunato: quando mi fu affidata la direzione del “Tirreno”, maggio 2003, la Toscana era ancora nel pieno di una stagione d’oro; quando dopo sei anni la lasciai, la crisi mordeva qui meno che a Torino o a Napoli, e sembrava addirittura di vivere una di quelle cicliche cadute alle quali sarebbe seguita l’inevitabile ripresa; trovai, infine, un giornale unico nel suo genere e una redazione forte e appassionata grazie alla quale ho potuto realizzare ciò che avevo in mente. Allora cominciamo da qui. Al mio fianco c’era una squadra formidabile. Condirettore era Nino Sofia, siciliano, giornalista eccellente, cronista di razza, che purtroppo ci ha lasciato troppo presto; la vicedirezione era affidata a Roberto Bernabò, versiliese brillante e infaticabile, di cui non devo dirvi altro perché poi l’avete visto all’opera al mio posto; l’ufficio dei capiredattori macinava lavoro di qualità grazie a una lunga esperienza; le redazioni locali erano tanti piccoli giornali radicatissimi nel loro territorio. Su di noi vegliava, con occhio attento e affettuoso, l’avvocato Beppe Angella, amministratore e angelo custode. Tutti insieme riuscimmo a imporre una novità, un piccolo miracolo: preparare ogni sera una prima pagina diversa per ciascuna delle nostre tredici edizioni, in modo che ognuno – da

Per quanto ostentino ironico distacco, i toscani tengono come pochi alle loro diverse identità: le chiudono dentro alte mura, o magari le separano solo con una fila di cipressi... Grosseto a Livorno, da Piombino a Massa Carrara, da Pisa a Prato – sentisse il “Tirreno” sempre più vicino, sempre più suo. Insomma, ogni notte la rotativa si fermava tredici volte e ogni volta, oltre che aggiungere le cronache locali, si adeguava la prima pagina. Quando esposi la mia idea ai capiredattori, uno di loro, Gigi Casini, tagliente come solo un livornese doc sa essere, commentò: «A te ‘un ti ci vòle un redattorehapo, ti ci vòle un visgile». Naturalmente ce la facemmo (e oggi lo fa anche il “Tirreno” di Luigi Vicinanza), grazie anche a una ammirevole squadra di tipografia: vedere ogni mattina, esposte nello stanzone della Redazione, le diverse edizioni del giornale era per tutti una carica di energia e una dimostrazione di incredibile po-

tenza. A prima vista poteva apparire solo una concessione localistica, invece fu determinante per il successo: esaltandola, la scelta rispettava una caratteristica che in Toscana è vissuta all’estremo, ma che appartiene di diritto al carattere nazionale. I toscani, lo sapete meglio di me, per quanto ostentino ironico distacco, tengono come pochi alle loro diverse identità, a volte le chiudono dentro alte mura, o magari le separano solo con una fila di cipressi: è l’Italia dei mille campanili. Le differenze hanno alimentato perfino venti di guerra, o più di recente dato la stura a liti da strapaese. Dietro le quali si nascondono però valori profondi mai rinnegati che finiscono per fare da collante di una più ampia identità: una miscela di solidarietà, tolleranza, senso civico, operosità. Un giornale deve saper rappresentare le une e gli altri. Ad aiutarci in quei sei anni, fu anche una realtà in movimento: a giudicare dalle iniziative culturali, dalle occasioni di sviluppo, dall’affermarsi di nuove realtà imprenditoriali, sembrava di vivere per paradosso non la vigilia di una lunga crisi, ma l’avvio di una stagione felice. A Pisa brillavano le eccellenze dell’Università, della Normale, del Sant’Anna, mentre Paolo Dario portava in giro per il mondo i successi della biorobotica. A Piombino i russi prendevano il controllo del gruppo Lucchini alimentando nuove speranze di un rilancio del tormentato settore siderurgico e di un futuro che non fosse solo

traghetti e ombrelloni. Paolo Vitelli sceglieva Livorno per il cantiere dei suoi super yacht Azimut-Benetti e per un nuovo porto turistico. Aldo Spinelli, Igor Protti e Cristiano Lucarelli riuscivano nell’impresa di riportare il Livorno in serie A mentre da Roma applaudiva il tifoso numero uno, il figlio più illustre della città, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Il Monte dei Paschi di Siena, ancora lontano dal default, finanziava generosamente imprese, mostre d’arte, restauri e sagre paesane. La Toscana intera si lanciava alla scoperta di un business in continua ascesa: cibo e vino. Invece è arrivata la crisi. Ridimensionando magnifiche sorti e rendendo evidenti limiti tenuti sotto traccia: imprenditori che al rischio d’impresa preferivano una facile rendita di posizione; politici che si ostinavano a non voler vedere un mondo che cambiava e barattavano responsabilità e progettualità con cieca gestione del potere; sindacalisti che tolleravano privilegi e corporativismi. Oggi niente è più come prima, e assai più difficili sono ruolo e funzione del “Tirreno”. Più di una volta è toccato proprio a questo giornale provocare un salutare scossone, diventare punto di riferimento di una reazione popolare non demagogica, ma civile e costruttiva. Forse è di nuovo quel momento. E dunque auguri al “Tirreno” per i suoi primi 140 anni. E alle città che ogni giorno racconta perché conoscano presto una felice rinascita.


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la parola

PROSPERITÀ Da troppo tempo l’Italia non ce la fa a rialzarsi... mi auguro che il nostro Paese riesca a uscire dal vortice della crisi economica. Giuseppe Giangrande

L’attentato dell’aprile 2013 in cui rimasero feriti Giangrande e un altro carabiniere

«Per me è una seconda vita, ma ora vedo cose che prima non vedevo: barriere architettoniche, strade colabrodo, burocrazia, servizi che non ci sono»

GIUSEPPE GIANGRANDE

«Ai ragazzi spiego che la speranza è il vero valore» U di PAOLO NENCIONI

na siepe e un pezzo di cielo. Questo vede il maresciallo Giuseppe Giangrande dal letto della sua casa di Prato, accanto alla ferrovia, dove è confinato ormai da quattro anni, da quel maledetto 28 aprile 2013 quando fu raggiunto da un colpo di pistola esploso da Luigi Preiti davanti a Palazzo Chigi mentre giuravano i ministri del governo Letta. Un pezzo di cielo, History Channel in tv e una siepe, ma Giuseppe guarda oltre la siepe e non ci vede il buio, non si piange addosso. Piuttosto pensa al futuro dei giovani, ai quali avrebbe qualcosa da raccontare. Per questo ha cominciato ad andare nelle scuole. Lo ha fatto lo scorso 28 marzo all’Istituto Rodari di Prato insieme al ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli e al comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette, lo farà di nuovo a maggio a Montemurlo, poi Montevarchi, San Giovanni Valdarno. ***

Pensa ai giovani e a come arginare la cosiddetta “fuga di cervelli”, o semplicemente di persone. «Con loro si parla di vita - dice - di realtà, di quello che troveranno fuori una volta finiti gli studi. A loro dico che non si perdano d’animo se incontreranno

ostacoli, che non scappino all’estero ma restino in Italia, che sviluppino qui le loro potenzialità. All’estero non ti regalano nulla, poi torni e ti accorgi che non ti sei costruito un futuro. Lo Stato purtroppo non li aiuta, manca una legge sul tirocinio, ci sono solo sgravi fiscali, bisognerebbe fare di più». Il maresciallo Giangrande ha nostalgia per il servizio di leva obbligatorio, lui che a nemmeno 18 anni era già alla Scuola allievi carabinieri di Iglesias: «Sì, sono favorevole al ripristino della leva. I giovani escono dalle famiglie e incontrano altri giovani, altri modi di pensare. Crescono». E invece quelli che vede in tv o per strada non lo convincono: «Sono attaccati ai telefonini, non si può pensare di perdere la vita a 14 anni per farsi un selfie, la tecnologia usiamola per altre cose». ***

Di sé Giangrande parla con parsimonia, misura le parole, scansa la retorica. «Questa per me è una seconda vita. Sono stati due anni e mezzo molto difficili dopo l’incidente (sì, per lui è stato un infortunio sul lavoro, ndr). Finivo una terapia e ne iniziavo un’altra. Ora comincio a respirare, riprendo le forze, ma mi rendo conto che c’è anche tanta burocrazia, servizi che non vengono dati dall’Asl, assistenti sociali che dispongono quello che si

Giuseppe Giangrande vive a Prato dove aveva prestato servizio nei carabinieri per 13 anni. Fu ferito con un collega il 28 aprile 2013 dai colpi di pistola esplosi da Luigi Preiti davanti a Palazzo Chigi dove giuravano i ministri del Governo Letta

può avere o non avere, palestre per la fisioterapia fatiscenti. E vedo quello che non vedevo prima: barriere architettoniche, strade colabrodo, marciapiedi dove la carrozzina rischia di ribaltarsi». Per lui la stella polare rimane l’Arma: «Mi sono stati sempre accanto, quelli di Prato e quelli di Roma, una seconda famiglia. Se chiamo si mettono a disposizione e stravedono per Martina (la figlia che pochi mesi prima del ferimento di Giuseppe aveva perso la madre, ndr). Il generale Gallitelli la voleva arruolare ma io gli dissi “Generale, non mi faccia rincorrere mia figlia in giro per l’Italia” e non se n’è fatto di niente. Lei ora deve riprendersi la sua vita». Però se dovesse dare una dritta a uno di quei giovani a cui consiglia di non scappare all’estero, non esiterebbe a indicare il lavoro che lui ha

fatto fino a quattro anni fa. «Fare il carabiniere - dice non è soltanto andare di pattuglia sulle strade o fare ordine pubblico. Ci sono tante altre cose che possono dare soddisfazione a chi ha voglia di impegnarsi». *** Dei tanti che sono andati a trovarlo in questi quattro anni, Giangrande ricorda soprattutto l’ex premier Enrico Letta e il ministro della Difesa Roberta Pinotti: «Due esseri umani prima ancora che due politici». Con Letta si sente spesso al telefono, ma i veri amici sono gli ex colleghi, quelli che gli hanno regalato una pergamena con queste parole: «Qualcuno dice che gli amici sono come gli ombrelli, quando piove non si trovano mai… Tranquillo Giuseppe, potrà anche diluviare ma di certo tu non ti ba-

gnerai mai». L’affetto di amici e conoscenti, oltre alla vicinanza di Martina, è una delle poche cose in grado di fargli sopportare quella che è diventata la sua condizione dopo un periodo a Firenze, l’impegno in Abruzzo e 13 anni sulla strada a Prato, prima del ritorno a Firenze, dove ha prestato servizio dal 2009 fino a quella mattina di aprile del 2013, quando fu comandato al servizio di ordine pubblico davanti a Palazzo Chigi e andò incontro al suo destino. «Fa piacere quando esci e la gente si ricorda di te, ti saluta, non si è dimenticata di quando mi incontrava in divisa e mi ringrazia». Questo gli resta: il ricordo di chi ha condiviso il suo impegno sul lavoro e un sereno sguardo sul futuro, oltre quella siepe che è diventata il suo orizzonte quotidiano. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


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Andrea Balestri. pisano, classe 1963, da bambino è stato protagonista di “Pinocchio”, lo sceneggiato della Rai diretto da Luigi Comencini. Eccolo adulto, a tu per tu con il burattino che gli ha segnato la vita

ANDREA BALESTRI

Resto Pinocchio ma non credo più alla fata Turchina di MARIO NERI

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o sguardo, lo stesso: appena increspato, melanconico, ceruleo. Forse solo un po’ più oleoso, smarrito, ma sempre disegnato su quel grugno inconfondibile. La faccia invece è ormai una collina, gonfia di gobbe, scavata da rughe, fossette. Legnosa, non come il musetto liscio del bimbo biondissimo che inchiodò mezza Italia alla poltrona. In carne ed ossa, non di corteccia, lo volle Luigi Comencini, ma il carattere, quello sì, un tronco di ciliegio. Tant’è che cominciò tutto con un martello. Per trovare l’attore giusto, il regista inviò in giro per le scuole elementari della Toscana due fotografi. Gli riportarono le facce di 3. 000 scolari. «Alle selezioni a Cinecittà ci arrivammo in tre. Ci mise davanti un quadro. “Forza — disse — chi di voi ha il coraggio di romperlo? ”». E lui fu l’unico a farlo, spaccò tutto. E no Andrea, ora lo ripaghi. «Io ’un ti ripago un bel nulla, me lo hai detto te di dagli una martellata». *** In fondo Andrea Balestri non ha mai smesso di essere Pinocchio, come tutti noi, di generazione in generazione, siamo stati un po’ quella piccola peste, per un periodo della nostra vita perseguitati in ogni scorreria da quella canzone dal ritmo ossessivo e scanzonato. Giura di essersi solo un po’ ammorbidito, di aver smussato qualche angolo, limato via le croste di sbagli accumulati negli anni dai tempi in cui diventò il bambino più famoso d’Italia, quando da un giorno all’altro da monello del Cep, il quartiere più popolare di Pisa, si fece attore a Cinecittà, e a sei anni e mezzo si ritrovò accanto alla Lollobrigida, Nino Manfredi, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia protagonista di un film. Il film. Sul set delle Avventure di Pinocchio. Lo sceneggiato del primo boom di ascolti, la Rai nelle case di milioni di persone, il burattino di Collodi trasformato in un divo pop e lui nell’interprete di uno dei toscani più famosi di ogni tempo, con Dante, Michelangelo e Leonardo. Anche oggi lo rifarebbe, oggi che ha 54 anni, fa l’operatore ecologico per una azienda di raccolta rifiuti, e ne sono passati tanti, trop-

la parola

SOLE Se penso al futuro mi viene in mente un’ombra scura, perché il presente è annebbiato da pazzi che vorrebbero utilizzare di nuovo l’atomica, da terrorismo, da corrotti e corruttori. Ma poi confido che fra i nuvoloni si faccia spazio la luce dei giovani, e il loro sole illumini le nostre vite e ridia un orizzonte nuovo all’Italia. Andrea Balestri

pi, dal 1972. Prenderebbe il martello e boom, si trasformerebbe in Pinocchio. Ta tan, tanananananana na-na-na. «Mi scelse per quello, voleva un tipetto senza paura e peli sulla lingua, un’indole sfacciata, ribelle, ma anche sincera». Un maledetto toscano. E che forse della ToscaLollobrigida, na, o almeno di un pezzo Franchi del suo Novecento, è tuttoe Ingrassia; ra un’icona. La storia di sotto, Balestri una carriera luminosa e e Nino Manfredi fulminea, la traccia di un eterno ricordo, una promessa mai perfettamente compiuta. Cristallizzata lì, anni’70. E la sua storia lontana è sempre stata tutto per lui, appesa qui in salotto, al terzo piano di questa casa popolare a Forcoli, campagna pisana, una manciata di chilometri da Pontedera. I muri tappezzati degli scatti in bianco e nero dal set, il senso di una vita condensato in otto mesi di riprese: Andrea vestito di stracci accanto a Geppetto/Manfredi, mentre ascolta curioso i suggerimenti di Comencini seduto sull’uscio di una delle case di Farnese, il borgo “povero” che diede il sapore neorealista a tutta la pellicola; oppure mentre mangia lo zucchero filato nel paese dei balocchi o curiosa nell’obiettivo di una cinepresa sullo sfondo di Civitavecchia o nell’orizzonte marino di Torre Astura, o nella casina della fata sul Lago di Martignano. *** I poster dei tre film successivi, non proprio indimenticabili, sembrano lì per gentile concessione, consapevoli appendici di un unico vero grande capolavoro. Per un po’ Balestri ha accettato l’effetto sfumato con cui si sono dileguati i bagliori del successo. Poi, per raccontarsi, dopo più di trent’anni, s’è seduto e ha parlato una settimana di fila. Io, il Pinocchio di Comencini è uscito il libro nel 2008, scritto a quattro mani con Stefano Garavelli. «Poi ho conosciuto la mia attuale compagna, Cecilia Scicolone, e a lei è venuta l’idea di mettere su una compagnia e uno spettacolo. Pinocchio racconta Pinocchio. Da otto anni giriamo i piccoli teatri d’Italia». Poi le comparsate in tv, le interviste

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Comencini mi diceva di essere spontaneo, quel set era un gioco. Poi è arrivata la vita: oggi vedo tanti gatti e volpi che rovinano la nostra bella terra

amarcord, gli appelli per riportare in Italia il burattino di legno usato sul set e svenduto a un imprenditore francese dallo scalpellino che lo aveva fabbricato e tenuto per anni in uno scantinato. «Dopo Pinocchio, feci Torino nera con Lizzati, Kid il monello del West e Furia nera nel ’75, ma non fu mai la stessa cosa. Comencini mi chiedeva di essere me stesso, spontaneo». Gli altri volevano un attore. «La scena in cui faccio il cane, ad esempio, ve la ricordate tutti no? Io lì legato carponi mentre mangio dalle ciotole. Andrea, quando quei birbanti scappano, te vagli dietro e sfondali di colpi. E io lo feci, c’avevo una rabbia. Ma dimenticai d’avere la corda al collo». Ciak, perfetta. «Ero un bimbo, dovevo solo correre a piedi scalzi, divertirmi, fare marachelle. Anche se non ricordi tutte le battute, di’la filastrocca, tanto poi si doppia con la tua voce, diceva Comencini. Mi divertivo come un matto, io dietro al gatto e la volpe, insieme a Lucignolo e Mangiafuoco. Chi ci pensava al successo, al grande cinema». Noi toscani lo siamo stati un po’ tutti Balestri/Pinocchio, noi degli ’80, gli anni del disimpegno, mentre guardavamo la generazione precedente perdersi nella vita spericolata e nell’eroina, oppure quelli dei ’90, senza più grilli parlanti di ideologia e morale per la testa ma orfani di padri putativi; o ancora lo sono i ragazzi del millennio, «ma non si sa bene se vittime o carnefici del mondo dei balocchi dei social», se attratti dai lucignoli del web, dalle solitudini digitali o dalla catarsi turchina della tecnologia, dalla sua promessa di democrazia diretta, «mentre a noi bastava qualche legnetto per fare una pista per le macchinine e i babbi e gli zii che parlavano di rivoluzione». *** E tu Pinocchio che fine hai fatto dopo Pinocchio, hai seguito più gatti e volpi o fate rassicuranti? Quasi subito «arrivarono un po’ di casini, il babbo si separò dalla mamma. Accecato dalla bella vita, s’era immaginato chissà che cosa. Insomma, tutti quei soldi chi li aveva mai visti, avevo portato il benessere in famiglia ma forse anche qualche illusione. Ci avevano spesati per mesi, alla fine la produzione gli disse che avevo talento, avrei potuto studiare in una scuola di recitazione se lui avesse accettato di trasferirsi. Faceva l’imbianchino, gli avrebbero trovato un lavoro giù. Macché, disse, se ti vogliono vengono a cercarti al Cep». Ad allevare il bimbo del Cep ad essere il più famoso d’Italia ci provò la mamma, continuando a fare la spola fra Pisa e Roma, ma la scia si esaurì presto. «Oggi la fama sembra a portata di clic, tutti la inseguono. Io non mi sono mai illuso di diventare un grande attore, non mi sono mai montato la testa. Me lo disse Comencini: se sei un fornaio nella vita sarai sempre un fornaio, e non dev’essere per forza una brutta cosa. Così, a 16 ho cominciato a fare il carrozziere, a 23 mi sono sposato e ho avuto due figli. Però, certo, sono un toscano. Che in giro vede una regione martoriata, senza lavoro, e sciupata da politici, quelli sì, troppo spesso gatti e volpi. Ma ormai tutti noi che nel Settanta eravamo pieni di speranze per il futuro, ci siamo addestrati ad essere buoni ma furbi; ché a fare come dice la fata turchina si piglia in quel posto». Il burattino ora in carne ed ossa. Ma il carattere, quello sì, è un tronco di ciliegio.



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i direttori » sandra bonsanti

SANDRA BONSANTI (qui ritratta da Massimo Sestini) ha guidato Il Tirreno dal 1996 al 2003

Battaglie, tempeste e una copertina che non dimenticherò

di SANDRA BONSANTI

Febbraio 2002: Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica e livornese, visita il quotidiano della sua città (Pentafoto)

U

n direttore donna …e nata a Pisa. Arrivai a Livorno sicura che sarebbe stata una convivenza complicata. Partivo svantaggiata e mi chiedevo cosa avrei potuto fare o dire per conquistarmi il rispetto della redazione. Ero imbarazzata come raramente lo sono stata nella mia vita di giornalista. Decisi di essere me stessa, quella che sono ancora oggi, e cioè che avrei preso molto sul serio la direzione del Tirreno, che avrei spiegato ai giornalisti tutti quanto erano bravi e professionisti e che non erano certamente inferiori alle grandi firme dei grandi giornali. Poche raccomandazioni, ma una davvero speciale: non credete mai alle fonti ufficiali, non credete ai comunicati stampa. Andate e controllate tutto, specialmente la versione del sindaco o del prefetto, del questore o del procuratore…mettete sotto la vostra lente l’autorità. Magari esagerai un po’, ma dopo una lunga esperienza in fatto di trame e di notizie pilotate volevo che il nostro giornale parlasse di cose vere e importanti per i lettori Dell’Italia migliore, quella che non racconta falsità e che non è sul mercato. Fu proprio su questo sforzo di genuinità che trovammo una intesa speciale, e fu su di essa che la passione e la professionalità di Claudio Giua e di Nino Sofia segnarono una fase importante del giornale. Nino: ancora oggi mi sorprendo a dire fra me: devo parlarne a Nino, questo

Ancora oggi mi capita in Toscana di sentirmi chiamare: «Direttore!» Mi giro e rivedo un viso amico... Un’informazione onesta, autonoma, utile e piacevole. E un lavoro fatto insieme Nino se lo ricorda, Nino saprà come fare…Io sicuramente non avrei potuto dirigere per sette anni Il Tirreno senza di lui. Senza i suoi consigli, la profondità della sua esperienza. Sapeva tutto e sapeva come risolvere tutto. Sapeva come affrontare l’imprevisto dell’ultima ora, come smontare e rifare il giornale. Tutto il giornale. Aveva nello sguardo la calma del giusto… Erano anni difficili, quelli a cavallo del millennio. I grandi partiti sopravissuti alle inchieste erano in crisi, il nuovo arrivato lasciava intravedere un suo progetto lontano dalla repubblica parlamentare della nostra Costituzione. Il duemila era alle porte, come lo avremmo festeggiato? Fu allora che cercai di convincere Oliviero Toscani a fare per noi una copertina “storica”, qualcosa che non ci saremmo dimenticati.

E a lui venne in mente di fotografare il livornese più vecchio insieme al livornese più giovane. E cosi fu. Il nostro grande vecchio arrivò quella mattina tutto elegante. Andammo insieme al reparto maternità dell’ospedale e lì per prima cosa Oliviero disse al vecchio: spogliati! Quello rimase di sasso, ma come? Chiedeva. “Spogliati, ti dico. . ” E lui protestava: “Ma se mi sono messo il vestito buono. . ”. Poi una infermiera ci portò il bimbo nato da poche ore e Oliviero volle fotografare il vecchio con in mano il piccolo. Ero terrorizzata che lo facesse cadere, così una infermiera si stese sotto il braccio del vecchio ed era pronta ad acchiappare il bambino caso mai…Credo che la foto sia un piccolo capolavoro e che esprima il ciclo della vita, le rughe della vecchia e quelle della vita appena nata, gli anni, i secoli e il millennio che stava arrivando. C’erano molte cose che avrei voluto fare e che non potei fare. Tanti giornalisti da assumere, alzare i compensi dei collaboratori, dei corrispondenti, più donne in redazione…A Repubblica ero stata a lungo nel comitato di redazione. Ora dovevo fare i conti con i conti e questa parte non mi piaceva affatto. Tutto il resto, sì. Poi venne l’11 settembre e il mondo di colpo cambiò. Credo di non aver mai sofferto tanto quanto soffrii quella sera a cercare di scrivere qualcosa che avesse senso, qualcosa che cogliesse il significato di un mondo che da allora sarebbe stato (come è stato) più fragile, molto più fragile di prima. Forse avevamo dato per scontata la pace, ma la pace non è mai data una volta per sempre.

Lo stavamo imparando guardando crollare le torri, sbriciolarsi, svanire nella nuvola di polvere e fumo. Quante erano, allora, le redazioni locali? Le andavo a visitare e mi sarebbe piaciuto rimanere a lungo con i colleghi che sapevano tutto, ogni segreto, ogni mistero della loro città. Ancora oggi mi capita in Toscana di sentirmi chiamare: “Direttore! ”…mi giro e rivedo un viso amico. Poi, un giorno mi invitarono a pranzo Carlo Caracciolo e Carlo De Benedetti. Ci incontrammo a Firenze e mi dissero che sarei stata utile a Libertà e Giustizia, l’associazione che avevano fondato mesi prima e che aveva bisogno di qualcuno che conoscesse la società civile…cioè la gente, i cittadini, il territorio. L’esperienza del giornale locale sarebbe servita. Mi chiesero di pensarci, ma non c’era davvero la possibilità di dire: No, grazie, preferisco il giornale. Un’altra vita. Ma gli anni passati a Livorno, la nostra redazione, i nostri colleghi, tutti, sono un pezzo importante della mia vita, quello in cui ho imparato, da loro, come sia possibile fare informazione onesta, autonoma, utile e piacevole. Come sia possibile lavorare insieme. Come si possa imparare a fare cose mai fatte prima, persino a reggere e tenere chiusi con le mani vetri e persiane di una casa di Antignano, d’inverno, quando si scatenano il vento e il mare…e nella tempesta vola di tutto, anche i frammenti di coralli rimasti impigliati fra gli scogli e che un tempo si raccoglievano sulla costa di Livorno.


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Giro il mondo, canto per i grandi della Terra e ora mi dedicheranno anche un film: ma niente vale come i profumi, i sapori di casa mia. E al Teatro del Silenzio invito proprio tutti...

di SABRINA CHIELLINI

«N

onostante la vita che conduco, d’indole non sarei un viaggiatore, tutt’altro. E più che girare il mondo, preferisco accogliere il mondo a casa, in Valdera. Il Teatro del Silenzio realizza questo mio slancio, chiamando annualmente visitatori da ogni angolo del globo (una platea per la quale provo sincera gratitudine ed affetto): sono “ricercatori di bellezza”, nell’arte e nel paesaggio, aumentano ad ogni edizione e puntualmente ritornano. Con le campagne di Lajatico, con il mio rifugio dello spirito, anche loro instaurano un legame affettivo, attraverso un’esperienza concepita, fin dal principio, come una sorta di Woodstock gentile, dedicata al belcanto ed aperta alle più diverse esperienze artistiche”. Andrea Bocelli, diventato famoso inizialmente come cantante di musica leggera è oggi uno dei tenori più seguiti in tutto il mondo. Due figli avuti dal primo matrimonio, uno dei quali Matteo sta seguendo le orme paterne, la moglie Veronica Berti e la figlia Virginia, sono per lui, non perde occasione per dirlo, un fondamentale punto di riferimento. Orgoglio dell’Italia e della sua terra, Lajatico e la Valdera, Bocelli ricambia con dedizione e impegno. E quest’anno il Teatro del Silenzio, oltre al concerto del 3 agosto, ospiterà il “ Concerto del sole” dove, oltre alla presenza del musicista Goran Bregović, e il concerto del 29 luglio, che accoglierà “Zerovskij...solo per amore”, il grande progetto di “teatro totale”, concepito da Renato Zero per i suoi cinquant’anni di carriera. Impegni di lavoro, l’amore per la sua terra, e la filantropia. Il tenore si racconta al Tirreno *** Dopo l’esperienza di Lajatico quali sono i programmi di “Celebrity Fight Night 2017?” Si parla di un concerto al Colosseo con Elton John? “Dopo tre edizioni toscane, la prossima Celebrity Fight Night dirotterà su Roma e, tra gli eventi previsti, quello mediaticamente più importante sarà in effetti il concerto che, insieme ad Elton John e tanti altri amici artisti, abbiamo concepito all’interno del mo-

Il grande artista toscano a cavallo nelle sue terre di Lajatico, in alta Valdera

ANDREA BOCELLI

Lajatico, dolce schiavitù Più parto, più ritorno «Che gioia i titoli del Tirreno su di me che mi leggevano al bar» numento italiano più famoso nel mondo. Goethe scrisse, di Roma: “In questo luogo si riallaccia l’intera storia del mondo, ed io conto di essere nato una seconda volta, il giorno in cui vi ho messo piede”. È un augurio di rinnovamento che facciamo nostro, certi d’essere sempre in numero crescente, a ritenere che la solidarietà è l’unico antidoto concreto, possibile, urgente, alle diseguaglianze. Con questa fiducia, stiamo mettendo a punto i dettagli della prossima maratona benefica che, attiva dal 2014, ha già raccolto oltre 22 milioni di dollari,

destinati ai progetti della Andrea Bocelli Foundation e del Muhammad Ali Parkinson Center”. Il “Canto della terra”, tema dello spettacolo del 3 agosto è un omaggio alle tradizioni culturali nel mondo? Cosa ci possiamo aspettare? Sarà un viaggio, un’esperienza sinestetica alla ricerca della terra e dei suoi frutti, nelle multiformi tradizioni culturali che rappresentano una incommensurabile ricchezza (e fonte d’ispirazione) per l’intero genere umano. Tante, le sorprese (che non posso svelare, perché non sa-

rebbero più tali). Posso però anticipare che canteranno con me i sessanta giovani coristi di “Voices of Haiti”, il coro di voci bianche espressione di un progetto educativo concepito e portato avanti dalla Andrea Bocelli Foundation. I bimbi, provenienti dalle baraccopoli di Port-au-Prince, forti di una preparazione didattica stabile e strutturata, attraverso la musica possono valorizzare il proprio talento e fruire di opportunità educative, culturali, esistenziali, preziose per il loro futuro... Credo fermamente nella musica quale

strumento di sviluppo dell’animo umano, ritengo che l’arte sia fatalmente connessa al bene, perché ha l’impagabile capacità di incidere sulla coscienza, contribuendo alla nostra evoluzione spirituale. Negli ultimi anni è sempre più impegnato per valorizzare la sua terra, recentemente ha aperto le Officine Bocelli (ristorante-museo). Che cosa significa per lei tornare a casa? Più vado lontano, più sento il bisogno di ritornare nella mia Toscana, lontano dal clamore, nella campagna dove sono cresciuto. Mi sento un

prodotto della mia terra, la somma delle mie esperienze, del mio passato, dei miei ricordi di bambino. Quanto alle “Officine”, mi piace l’idea che abbiano riacquistato vita quelle pietre, quegli spazi che i miei avi acquistarono centocinquanta anni fa e nei quali vissero e lavorarono fino a dopo la prima guerra mondiale. *** Visto che parliamo di centoquaranta anni di vita del Tirreno. Quali sono secondo lei i musicisti che hanno segnato la storia? Dato che la testata è storica-


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Non credo che la musica classica andrà in crisi: è vero che la tecnologia avanza ma i giovani apprezzano sempre il bello. E il bello, come sempre, può salvarci...

Andrea Bocelli in un concerto (fotoservizio Franco Silvi)

le parole

FEDE, SPERANZA, CARITÀ Il mega concerto con Elton John «Se penso al futuro, credo siano sempre attuae altri big li - perché universali - le tre parole che indicano le Virtù Teologali: fede, speranza, carità. nel Colosseo Fede perché è un dono cui aspirare e da coltivare, senza il quale il nostro transito terreno sarà la mia sarebbe una tragedia annunciata. Speranza perché sono un inguaribile ottiprossima mista ed ho la certezza che in ognuno di noi ci siano universi inesplorati e qualità positive scommessa tali da poter fare miracoli. a scopo Infine carità, intesa come declinazione universale e sinonimica dell’amore: carità che ci benefico ricorda di amare il nostro prossimo come noi stessi».

Andrea Bocelli mente connessa con la mia regione, mi limito ai compositori toscani... Penso al sommo Giacomo Puccini, ma anche al pressoché coevo Alfredo Catalani, a Pietro Mascagni, a Francesco Geminiani, a Luigi Boccherini... E poi, la Toscana è terra di voci eccezionali, che hanno segnato la storia dell’interpretazione, da Mario Del Monaco ad Ettore Bastianini, da Gagliano Masini a Mario Filippeschi. E l’elenco potrebbe continuare. Come è cambiata la musica e la sua fruizione nel tempo? Siamo testimoni di un periodo di transizione, dovuto

allo sviluppo continuo e rapido di nuove tecnologie e nuove forme di comunicazione. Tutto è destinato ad evolversi, ed anche l’industria culturale dovrà affrontare trasformazioni, anche radicali, e nuove sfide. Resto però ottimista, anche sulla musica classica: credo resisterà, continuerà a trovare estimatori anche tra le prossime generazioni. A dispetto d’ogni crisi, come la storia ci ha ampiamente dimostrato, la buona musica non morirà mai. Parlando di comunicazione quale è il suo rapporto con i giornali e la televisione? Lei come utente, o chi le

Colline a perdita d’occhio e un maxi palco che dura solo pochi giorni: lo scenario unico del Teatro del Silenzio, a Lajatico

sta vicino avete mai conservato un giornale, un ritaglio di quando magari era più giovane, dei primi concerti e dei successi all’inizio della carriera? Erano soprattutto i miei genitori (e talvolta i miei amici

di sempre), a ritagliare e conservare i primi titoli sulla mia persona... E quando – come nel caso del Tirreno – erano i giornali con cui avevamo maggiore familiarità, quelli che la mattina si sfogliavano anche sui tavolini dei bar del-

le nostre terre, ne andavano ancora più fieri. Quanto alle critiche, positive e negative che siano, apparse negli anni sui giornali di tutto il mondo, le ho accolte generalmente con attenzione e gratitudine, a patto naturalmente che fos-

sero redatte con i requisiti minimi e necessari: cioè con onestà intellettuale e con propositività. Stanno girando un film sulla sua vita? Come si sente ad essere al centro di questo progetto? Talvolta mi sembra ai limiti del paradossale, che la mia esistenza possa essere considerata interessante al punto da farne un film... Confesso che, al pensiero della prima proiezione privata, che avrà luogo tra pochi giorni, tremo: non so proprio come reagirò, ritrovando sullo schermo una parte importante della mia vita, la mia gioventù. Comunque tengo a dire che sono molto contento del pool di artisti che questo progetto ha riunito, dagli attori (Toby Sebastian, Antonio Banderas e molti altri) al regista, Michael Radford, già artefice di capolavori quali “Il postino – The postman”, alla sceneggiatrice Anna Pavignano. *** Mi piacerebbe rivolgerle una domanda sulla disabilità. Secondo lei è vissuta meglio dalla società con il passare degli anni? C’è maggiore sensibilità? Lei che ha la possibilità di andare in vari Paesi del mondo, trova situazioni migliori o peggiori? Che cosa si può fare? Il mondo propone realtà assai variegate. In generale credo siano stati fatti molti passi avanti. Credo sia importante comprendere, a livello globale, che in un certo senso siamo, tutti, diversamente abili. Tutti abbiamo degli ostacoli da superare, dei limiti da sfidare. La cosiddetta disabilità ritengo vada vissuta come un’esperienza di vita che può arricchire l’essere umano. Ogni persona dovrebbe avvicinarsi agli strumenti meravigliosi che Dio gli ha donato, accogliendoli e facendo sì che esprimano al massimo le loro potenzialità. Perché i limiti posso tramutarsi in opportunità di crescita. Ha ancora un sogno da realizzare? Avere il privilegio e la gioia di assistere alla vita adulta dei miei figli ed alla loro realizzazione, poter tenere in braccio i figli dei loro figli, poter invecchiare insieme a mia moglie. Poter continuare a cantare fino a quando il buon Dio vorrà; poter proseguire, insieme alla fondazione che porta il mio nome ed ai tanti amici che la supportano, ad offrire il mio piccolo contributo per fare del mondo un luogo migliore.



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i direttori » claudio giua

CLAUDIO GIUA, condirettore del Tirreno tra il 1993 e il 1998

Soldati, maglie rosa e artigiani digitali nel primo web del ’97

di CLAUDIO GIUA

2011: Il Tirreno viene selezionato tra i finalisti ai prestigiosi Ona Awards, gli “oscar” del giornalismo digitale

P

iù artigiani con velleità digitali che tecnologi con rudimenti di comunicazione di massa, ci servirono otto mesi per renderci conto delle potenzialità di quanto avevamo messo in piedi. L’autunno precedente eravamo già all’opera in quattro, di cui uno solo, Giuseppe “Beppe” Burschtein, impegnato a tempo pieno: faceva il grafico, il webmaster, lo sviluppatore, il sistemista e, soprattutto, teneva alto il morale del gruppo. Degli altri tre, Gabriele Marchegiani ritagliava e talvolta aggiungeva qualche ora all’impegno di mago-gestore del sistema editoriale 3P del Tirreno e degli altri quotidiani della Finegil, via via affinando l’esportazione dei contenuti dalla carta al web; Marco Gasperetti — cronista di razza folgorato sulla strada di Silicon Valley — abbozzava strategie di marketing editoriale e dispensava consigli che ci guardavamo bene dal seguire; io, condirettore del Tirreno, tentavo di conciliare le riunioni e le “chiusure” al fianco di Sandra Bonsanti e Nino Sofia con l’incarico il Gruppo Espresso m’aveva affidato: sviluppare per i giornali locali un embrione di informazione su Internet. In questa formazione lanciammo nel novembre del 1997 iltirreno. it. Un sito diverso, come prospettive, da come l’avevo immaginato. Il progetto iniziale, presentato all’editore in primavera, prevedeva di cominciare dall’edizio-

Io e tre colleghi nell’avventura di vent’anni fa: far nascere il sito iltirreno.it Storia di una previsione sbagliata e di un sogno realizzato piano piano ne di Lucca, da mettere subito online nel tentativo di agganciare le comunità dei lucchesi all’estero, tra le meglio organizzate al mondo. Poi, una per volta, avremmo varato le altre undici edizioni. In un documento datato giugno 1997 scrivevo: «Il sito del Tirreno avrà il proprio pubblico d’elezione nei toscani che vivono e lavorano lontani dai luoghi d’origine, sia in Italia sia all’estero, e che non possono acquistare ogni giorno il giornale. Si rivolgerà poi alle decine di migliaia di italiani e stranieri che soggiornano per lunghi periodi nelle nostre città e campagne e mantengono un legame con le nostre comunità». Previsione sbagliata. Una volta azzardato l’approccio senza limiti geografici, con la disponibilità in rete dell’inte-

ro prodotto editoriale ci accorgemmo che gli utenti del tirreno.it erano i nostri vicini di casa, i concittadini, gli amici che vivevano a poche decine di chilometri. Persone che credevano nell’informazione di qualità ma preferivano leggerla sul pc anziché sul giornale di carta. Bastava pazientare: a mezzogiorno trovavano sul web, gratis, tutto quanto era pubblicato sul Tirreno. Quel successo ci sorprese. Meglio: sorprese Beppe, Gabriele, Marco e me. Il resto della redazione ci guardava ma non ci capiva, dunque era disattento o sospettoso. Eravamo “quelli dell’ufficio vicino ad Angella”, che era l’amministratore delegato dell’azienda. Sandra e Nino, più curiosi, talvolta s’affacciavano nella nostra stanzona, ci chiedevano qualcosa e se ne andavano soddisfatti che il giornale fosse sulla prima linea delle sfide digitali. La direttrice aveva peraltro intuito quali porte schiudeva Internet quando, all’inizio del 1997, il Tirreno aveva scovato sui giornali americani online la storia di Vernon Baker, il tenente che il 5 aprile 1945 aveva guidato 26 soldati della divisione Buffalo, neri come lui, all’attacco della strategica postazione nazista di castello Aghinolfi, a Montignoso. Quell’azione aveva aperto la strada all’avanzata degli alleati verso la pianura padana. Il 13 gennaio 1997 il presidente Clinton aveva conferito a Baker la Medal of Honor, la più alta onorificenza militare americana: mai, prima, un nero l’aveva ottenuta. Rintracciato e invitato in Toscana via Inter-

net, l’ex tenente fu ospite del Tirreno per una settimana di festeggiamenti e incontri. Tutto merito della Rete. Dopo qualche mese contavamo qualche migliaio di utenti unici quotidiani che aprivano, complessivamente, tra le ventimila e le trentamila pagine. La crescita si assestò intorno al 5-6% mese su mese. A me sembrava il minimo accettabile rispetto a un fenomeno altrove in espansione esplosiva. Leggevo dei successi di Aol e del New York Times, del Chicago Tribune e dei primi abbozzi di motore di ricerca. Volevo di più. Così, in giugno, chiesi a Burschtein di inventare un modo per dar conto in diretta su iltirreno. it di un evento di enorme popolarità: il Giro di Italia. Detto e fatto. Il 16 maggio, per la prima delle 22 tappe ci organizzammo così: io seguivo la corsa in tv, scrivevo brevi notizie e commenti da 200 battute che inviavo via mail a Beppe, che li copiava e pubblicava con un rudimentale sistema editoriale. Primi in Italia, creammo un live blogging. Repubblica. it, guidata da Vittorio Zambardino, cominciò presto a linkarci. Il giorno del duello tra Marco Pantani e Pavel Tonkov a Plan di Montecampione i nostri server furono presi d’assalto e riuscirono a malapena a tenere. Fu così, il 4 giugno 1998, che al termine della vittoriosa serie di scatti del campione romagnolo ci guardammo sfiniti eppure consapevoli che quel che avevamo fatto era una novità assoluta per il giornalismo di casa nostra. Un altro piccolo record del Tirreno.


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di DANILO FASTELLI

«I

l 1877 è l’anno della legge Coppino. Una riforma fondamentale, perché introdusse nel nostro Paese l’obbligo di andare alla scuola elementare per tre anni, con la previsione di sanzioni per i genitori che contravvenivano. Oggi come allora l’educazione deve tornare al centro. Bisogna ripartire da lì, dal 1877». Lo stesso anno, il 29 aprile, nacque Il Telegrafo, oggi Il Tirreno: «Una coincidenza significativa». Da quattro anni presidente del Cnr di Pisa, da nove direttore dell’Istituto di Informatica e telematica (Iit-Cnr) e del Registro. it, Domenico Laforenza è il capo dell’anagrafe di tutti i siti che finiscono per .it . Un “battistero” dove vengono assegnati i nomi a dominio e un elenco consultato continuamente in tutto il mondo per raggiungere oltre 3 milioni di siti che finiscono per .it di cui il primo fu “cnuce. cnr.it”, nel dicembre 1987. Registro.it si prepara a festeggiare i 30 anni mentre si chiudono le celebrazioni dei 30 anni di Internet, da quando cioè il 30 aprile 1986 il Centro universitario per il calcolo elettronico (Cnuce) del Cnr si collegò su Arpanet a Roaring Creek, Pennsylvania. Domenico Laforenza quei primi vagiti di Internet li ha sentiti di persona: cominciò proprio al Cnuce nel 1972 dove fu assunto, ancora studente, come addetto ai grandi calcolatori. Grandi, nel senso delle dimensioni. Orgogliosamente incorniciata nel suo ufficio di Pisa, una foto mostra la consolle di un computer che ingombra come un armadio a sei ante: aveva una capacità di calcolo di un mega byte, cioè qualche decina di millesimo della memoria del telefonino che abbiamo in tasca. Il professore è un osservatore disincantato delle dinamiche del web, «da non confondere con Internet: Internet è l’infrastruttura, il web è uno dei servizi di internet, il più importante, che consente di cercare e visualizzare pagine e contenuti». Scienziato dalle grandi letture umanistiche, Laforenza torna continuamente sul ruolo strategico dell’istruzione, «per accendere fuochi nelle menti degli studenti e non per riempirle come recipienti», citando Plutarco. E tra le attività del Registro. it da lui diretto c’è la formazione dei ragazzi delle scuole ai rischi del web. Ma i ragazzi hanno davvero bisogno di lezioni di web? «Tutto parte dall’educazione scolastica. È lì che si formano i cittadini, che si crea conoscenza, quindi innovazione, quindi lavoro e sviluppo. L’alfabetizzazione oggi è ancora più essenziale proprio per l’avvento del web. Pensiamo ai social: sono uno strumento straordinario ma anche pericoloso. I ragazzi devono avere punti di riferimento e consapevolezza dei rischi». Qual è il rischio maggiore? «Partiamo dall’assunto che la Rete ha avuto un impatto spaventosamente positivo sulla società e sull’economia: non mi iscrivo alla corrente dei luddisti che vorrebbero riportare indietro le lancette della storia. La tecnologia mette a disposizione de-

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la parola

EDUCAZIONE L’istruzione scolastica deve tornare al centro della società, come avvenne nel 1877 con la legge Coppino. È a scuola che si formano i cittadini di domani, che si crea l’eccellenza che fa del nostro un grande paese. Il successo nelle sfide del futuro passa dalla capacità di formare i nostri ragazzi. Domenico Laforenza

È il capo dell’anagrafe di tutti i siti che finiscono per .it e cura la formazione dei ragazzi delle scuole ai rischi della rete

Laforenza e un calcolatore anni ‘70 al Cnuce di Pisa (Renzullo-Muzzi)

DOMENICO LAFORENZA

Ragazzi, usate il web ma imparatelo bene

ÔÔ

Ci sono aspetti della vita da tenere privati anche perché, una volta pubblicati, non si ha più il controllo della loro diffusione per un tempo potenzialmente infinito...

gli strumenti, sta a noi farne un uso corretto. E il web ha portato anche ad effetti collaterali, il principale dei quali è forse legato alla privacy. Gli studenti devono capire che ci sono aspetti della vita da tenere privati anche perché una volta pubblicati non si ha più il controllo della loro

diffusione per un tempo potenzialmente infinito». Un’informazione pubblicata molti anni fa può essere usata contro di me oggi. «Il diritto all’oblio su Internet esiste solo sulla carta. Ammettiamo che tu ottenga da Google di far sparire dal motore di ricerca

una pagina che riporta un’informazione negativa su di te. È come se in un museo qualcuno prendesse un’opera blasfema e la nascondesse nelle segrete stanze. Ma l’opera continua ad esistere e se qualcun altro intanto l’ha fotografata continuerà a riemergere. Nel momento in

cui, per esempio, fai carriera, entri in politica, diventi qualcuno di rilevante, quell’informazione potrà essere usata contro di te». Quindi, attenzione a cosa si pubblica. «Sì, ma purtroppo non è l’unico aspetto. Perché i dati che produciamo vengono memorizzati

in un “cloud”, cioè una memoria sterminata che non sta sulle nuvole ma in enormi data center con migliaia di server. Chi mi garantisce che i miei dati non escano da lì? Non è una domanda retorica, c’è almeno un precedente: nel 2013 Edward Snowden (la “gola profonda” dell’Nsa, l’agenzia di sicurezza nazionale americana, ndr), dimostrò che le maggiori aziende “over the top” come Google, Facebook, Microsoft, Yahoo, etc fornivano informazioni agli 007 violando la privacy dei cittadini». L’avvocato del diavolo direbbe che anche la pubblica sicurezza è nell’interesse dei cittadini. «In tempi così difficili, specie con la minaccia del terrorismo, le forze di polizia devono poter svolgere il ruolo per cui tutti siamo loro grati. Il punto è il rispetto di regole fondamentali, per cui un conto è che io acceda a delle informazioni su autorizzazione di un magistrato, un altro è che faccia una “pesca a strascico” di tutti i dati disponibili di un numero indeterminato di persone: ci stiamo esponendo a scenari orwelliani inquietanti. Specie se pensiamo a cosa viene dopo». E cosa viene dopo? «Nel 2020 si stima che ci saranno 50 miliardi di oggetti connessi in rete. È la famosa “Internet delle cose”: il mio orologio, il mio frigorifero, il mio pacemaker e presto il chip che avrò installato sottopelle, raccoglieranno dati su di me. Ma anche questi dati staranno in un cloud: la cartella clinica, l’estratto conto, le ricevute. Se io ne entro in possesso, posso decidere sulla tua vita. Posso scoprire che hai una malattia che non mi piace ed escluderti da un programma sociale o negarti il mutuo. Se hai installato delle videocamere posso vedere cosa fai in casa tua. Al Cnr con l’università di Pisa abbiamo creato un master sulla cyber security, il primo in Toscana». Ma chi comanda dentro internet, quale “governo” può imporre una linea? «Il tema della governance di Internet è cruciale. Esiste “l’Internet governance forum”, un organismo che mette a un tavolo rappresentanti di governi, aziende e società civile. C’è Icann che regola la parte tecnica di Internet (di cui Registro. it è una costola per quanto riguarda il “. it”, ndr). C’è un ruolo sempre più predominante delle grandi aziende della Sylicon Valley. E c’è il rischio della “balcanizzazione”, cioè la creazione di recinti nazionali. Con la conseguenza che dentro i confini di alcuni Paesi vengano spente applicazioni o vietate parole come “democrazia”, escludendole dai risultati dei motori di ricerca. Il punto è garantire sia la sicurezza dei dati, sia i principi fondativi della rete, come la “neutralità”, il fatto cioè che Internet funzioni per tutti allo stesso modo, senza andare a vedere preventivamente chi passa e dove va». E l’Italia che ruolo gioca in questo contesto? «L’Italia è stata sempre attenta a questi problemi. Un anno fa, primo caso al mondo, in Parlamento è stata elaborata e approvata con voto bipartisan la Carta dei diritti di internet, su iniziativa dell’onorevole Laura Boldrini e grazie al lavoro di una commissione presieduta dal professor Stefano Rodotà. Lì c’è scritto che internet è un diritto fondamentale del cittadino, in quanto strumento insostituibile di conoscenza. Dobbiamo essere orgogliosi di questo documento che speriamo possa essere adottato in ambito internazionale. E che certamente andrebbe insegnato nelle scuole: come vede torniamo sempre al tema della formazione».


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SABATO 29 APRILE 2017 IL TIRRENO

la parola

Volevo diventare organista, poi per caso è arrivata la direzione Il mio sogno? Lo lancio con voi: poter girare in bici intorno al lago di Massaciuccoli

BELLEZZA La parola che per me rappresenta il futuro è “bellezza”: apparentemente può sembrare un termine generico. In realtà credo che racchiuda tutto quello che ci serve per il futuro, dalla speranza, all’arte. Quello di cui abbiamo bisogno per pensare che potremo salvarci. Nicola Luisotti

di ILARIA BONUCCELLI

I

l dito scorre veloce nei registri di Ellis Island. L’anno indefinito dell’emigrazione italiana. Molto toscana. L’indice si ferma su un nome. Un sussulto impercettibile. Nicola Brocchini: Massarosa. Diciassette anni. Non c’è storpiatura. È lui. Una foto lo conferma. Il cappellaccio in testa, per ripararlo dal sole, mentre lavora alla costruzione delle ferrovie americane. Prima di tornare in Versilia. E morire nella costruzione dell’Eden, a Viareggio. Il teatro di Ermete Zacconi. Una domenica assolata del 1931, prima di Petrolini, della Duse. «Il teatro che toglie, il teatro che dà», commenta Nicola Luisotti, a New York, nell’appartamento affacciato sul fiume Hudson. Lo stesso nome del nonno, anche se è il quarto nipote maschio, da parte della figlia Rita. Quando si dice il destino. Lo sguardo rivolto verso Ellis Island, il cancello d’ingresso della Merica. In pianoforte in piena vista. Da qualche parte le bacchette in legno d’ulivo delle piane della sua terra, Corsanico sopra Massarosa. Gliele ha create, anni fa, suo padre, quando Nicola Luisotti è diventato un direttore d’orchestra internazionale. La Scala, il Covent Garden, ora “Director associado” al teatro Real di Madrid. Per dieci anni Direttore musicale a San Francisco. Poi tanto Metropolitan, New York. Tantissimo. «La circolarità del destino: mio nonno è venuto a cercare fortuna in America, io in America l’ho trovata». Due vite, una svolta. *** Lei nasce nella terra di Puccini e di altri grandi compositori, da Catalani a Mascagni. Quando decide di diventare direttore d’orchestra? «Sono diventato direttore d’orchestra più per gioco, quasi per casualità che per scelta: da ragazzino volevo diventare organista. Ho studiato organo, mentre nelle mie intenzioni non c’era una vera spinta verso la direzione. A un certo punto mi è venuto in mente perfino di fare il compositore, come Puccini, Mozart, Verdi. Poi per caso, studiando composizione in conservatorio, al Boccherini di Lucca, alcuni miei amici colleghi della classe di composizione mi chiesero di dirigere dei loro brani. Da lì mi iniziò a venire l’idea che forse potevo dirigere, che potevo avere la natura per dirigere. Poi vedendo altri direttori, vedendo quello che facevano ho pensato che potevo farlo. E ho avuto le opportunità di farlo». Le opportunità arrivano anche se una persona se le merita, no? «In parte è vero, ma ci sono anche persone che fanno di tutto per averle. Mi spiego: ci sono persone che hanno l’ambizione fin da bambini di diventare direttori di orchestra e iniziano a dirigere prestissimo. Un grande come Lorin Maazel ha iniziato a dirigere a 9 anni: ecco io non avevo quell’obiettivo. Ma a un

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Nicola Luisotti sul podio durante un concerto e, sotto, il nonno Nicola Brocchini negli Stati Uniti a 17 anni, al lavoro nei cantieri delle ferrovie americane

NICOLA LUISOTTI

Una bacchetta magica per trovare l’America certo punto della mia vita lo è diventato». Però la sua aspirazione era diventare un organista. Perché? «Perché la prima volta che vidi la tastiera di un armonium in chiesa mi sembrò di avere una visione mistica. Era la cosa più bella che avessi mai visto nella mia vita. L’odore di quei tasti d’avorio, l’odore di quella tastiera ancora lo ricordo. Dopo di allora, la prima cosa che facevo, entrando in una chiesa, era andare a chiedere al prete se potevo suonare l’organo. Lì avevo proprio la passione: mi ricordo che volevo le scarpe di un certo tipo perché per suonare la pedaliera servivano scarpe di un certo tipo. Mio padre mi diceva: queste non vanno bene perché il tacco scivola e non deve scivolare. Arrivavo a mala pena ai pedali dell’organo, ma non desistevo. Avevo proprio una passione

anche per il luogo dell’organo, forse mi ispirava il luogo, la sacralità, l’odore. Poi mi affascinava il fatto che avesse tante tastiere, tanti registri. In un certo senso, se ci si pensa alla fine suonare l’organo è molto simile a dirigere un’orchestra». Un paragone insolito: l’orchestra e l’organo. «No, con le dovute proporzioni e differenze. Nell’organo ci sono tanti tasti, nell’orchestra dirigi le persone. E questa è una sfida maggiore perché devi convincere i musicisti, uomini e donne, a suonare. Li devi sedurre, ma alla fine l’orchestra è un grande organo di persone che danno per te un risultato che è il loro talento». C’è stata una volta in cui è sa-

lito sul podio con timore? «Si dirige sempre con l’emozione. Ma la prima volta che ho avuto la sensazione di

essere in un posto straordinario è stato proprio qui al Met a New York

quando diressi Tosca, nel 2006. Ero già un direttore affermato, ma per la prima volta mi resi conto che si era avverato il sogno che avevo fatto quando ero fidanzato con mia moglie Rita Simonini, anche lei versiliese come me. Le avevo detto “Ma tu pensi che un giorno io farò il direttore d’orchestra?”. E lei, senza indugi mi rispose: “Sì”. Allora io rilanciai: “Ma pensi proprio che io un giorno farò il direttore d’orchestra al Met dirigendo la Tosca?”. E lei senza esitazione: “Sì”. E quel giorno ero proprio al Met a dirigere la Tosca. Debuttai con l’allestimento di Franco Zeffirelli, uno straordinario toscano che appartiene al mondo. Quel giorno

quando entrai in buca d’orchestra a prendere gli applausi e mi girai verso la platea di 4mila persone, mi sentii importante, ebbi la sensazione che era successo qualche cosa nella mia vita. Che ero entrato nel mondo dell’opera, nel teatro che mi piaceva fare. Eppure avevo già diretto alla Scala, a Parigi». Si è mai chiesto perché New York le fece questo effetto? «Forse perché questo teatro era legato al mio sogno di ragazzo, alla mia ambizione. Forse perché mio nonno materno, Nicola Brocchini, era entrato da Ellis Island venendo a cercare fortuna qui in America. Al rientro in Italia è morto mentre costruiva teatro Eden di Ermete Zacconi: si dette una martellata su un dito, cadde da un’impalcatura, battè la testa sul selciato della Passeggiata di Viareggio e morì. Zacconì risarcì mia nonna, rimasta vedova giovane con quattro figli, con 50mila lire: una cifra importante con cui comprò un podere. E mai si dimenticò della mia famiglia. Quando era ragazzina mia madre, debuttò in uno spettacolino su Giovanna d’arco, a Bargecchia di Massarosa. Prima della recita le arriva un costume: Dentro costume c’è scritto: “Questo costume è appartenuto a Ermete Zacconi”. Il teatro è sempre stato presente nella mia vita. Il teatro nel suo destino. «Mio nonno muore costruendo un teatro, io vivo grazie al teatro». Lei è ambasciatore di musica e dell’Italia in tutto il mondo. C’è un progetto, anche piccolo, che vorrebbe veder realizzato in Toscana per valorizzare il patrimonio culturale che abbiamo? «Visto che Il Tirreno è il quotidiano delle nostre zone, lo utilizzo per lanciare una proposta di cui parlo da tempo con mia moglie: realizzare una pista ciclabile intorno al lago di Massaciuccoli, il lago che ha ispirato tante opere di Puccini. Ecco questo sarebbe un grande sogno che ho: poter prendere la bici e poter girare tutto il lago intorno alla scoperta del lago di Puccini, senza auto, senza pedoni, una pista divisa dalla pista pedonale. Sarebbe una grane opportunità per la nostra zona, oltre che un grande segno di civiltà. Darebbe l’opportunità di creare lavoro perché intorno alle piste ciclabili si creano chioschi di sosta, dove le persone si possono incontrare, possono parlare, ristorare: crei ambienti sani per le famiglie, per chi vuole fare sport, per chi vuole semplicemente ammirare la bellezza immacolata di un lago nel silenzio». Bene, lei lancia questo progetto attraverso Il Tirreno che festeggia i suoi 140 anni. Ma cosa vorrebbe che restasse di lei fra 140 anni? «Spero che la gente vada ancora all’opera. Che l’opera sia ancora attuale: che siano trovate nuove forme di composizione comprensibili al pubblico. In sostanza, vorrei che i ragazzi e le persone in generale continuino ad amare il bello».


“LA BANCA PIÙ SOLIDA DELLA TOSCANA” Classifica della Rivista BancaFinanza: n. 12 Dicembre 2016 (su banche con attivo superiore a 650 milioni di euro)


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i direttori » ennio simeone

ENNIO SIMEONE ha diretto il Tirreno dal giugno 1993 al maggio 1996

Tre anni memorabili e una catena come strategia

di ENNIO SIMEONE

E Anni novanta: Livorno, manovre a bordo della nave-scuola della Marina Militare Amerigo Vespucci

ra stato Mario Lenzi, dominus della catena di giornali locali del Gruppo Espresso, a chiedermi, nell’ottobre del 1987, di lasciare Paese Sera per andare nella sua Livorno a ricoprire il ruolo di redattore capo del Tirreno. E fu lui, appena un anno dopo, a propormi di trasferirmi da Livorno a Bolzano per assumere la condirezione dell’Alto Adige. E ancora lui, pochi mesi dopo, mi comunicò che mi veniva affidato il ruolo di direttore di quel giornale. Nel maggio del ’93 la richiesta di lasciare Bolzano per tornare a Livorno a dirigere il Tirreno mi fu fatta da Carlo Caracciolo e da Marco Benedetto, ma l’ispiratore era stato sempre lui, che a questo giornale ha dedicato gli anni più intensi e brillanti della sua carriera. L’idea-forza sulla quale Mario Lenzi aveva edificato la fortuna di quella straordinaria catena editoriale era racchiusa in una sola parola: “Sinergie”. Significava far collaborare tra loro alcune centinaia di redattori e corrispondenti disseminati in una serie testate di diverse per arricchire le altre testate con una produzione originale smistata e coordinata centralmente da un’agenzia (l’Agl) a carattere nazionale. E di questa strategia Lenzi riteneva che il Tirreno, per la sua storia e per la sua grande dimensione strutturale e diffusionale, dovesse essere capofila, fungendo quasi da traino. La condivisione di questa strategia era totale da parte di tutti i direttori. E non poteva essere diversamente, non solo per i rapporti professionali e di amicizia personale che ci legavano a lui, ma soprattutto perché i risultati ne attestavano la validità. Io tuttavia — reduce dai 5 anni di direzione dell’Alto Adige e dalle precedenti esperienze vissute e raccontate in altre realtà — dalla Napoli degli anni del colera alla Roma del rapimento Moro e dell’attentato al Papa; dall’Emilia Romagna del “riformismo rosso” alla Calabria della ri-

volta dei “boia chi molla” di Reggio per il titolo di capoluogo di regione — ritenni doveroso, nelle periodiche riunioni collegiali che tenevamo in via Po a Roma suggerire di modulare, nell’ambito di quel disegno sinergico, la maggiore caratterizzazione in chiave locale anche dell’informazione nazionale. Non fui molto convincente. Anzi ci fu chi vide in questa tesi il rischio che potesse scalfire la strategia delle “sinergie”. Non insistetti oltre. Comunque “l’unità nella diversità” consentiva ampi margini di autonomia sia nell’impostazione dei contenuti dei singoli giornali, sia nei comportamenti di chi li dirigeva. Per darvene un’idea vi racconto un episodio. Mancava una settimana al Natale del 1993 — pochi mesi dopo che avevo assunto la direzione del Tirreno — quando un corriere mi avvertì sul telefono di casa che aveva un grosso pacco da consegnarmi. Era un enorme panettone di almeno 5 chili accompagnato da un biglietto di auguri firmato Silvio Berlusconi. Un regalo sorprendente perché era indirizzato al direttore di uno dei giornali locali che il Cavaliere aveva cercato di strappare con un colpo di mano a Carlo Caracciolo e a Carlo De Benedetti con l’operazione Mondadori, per fortuna parzialmente neutralizzata. La sorpresa durò poco: qualche giorno dopo le cronache politiche annunciarono la “discesa in campo” di Berlusconi, che, per l’appunto, si era fatto precedere da una mega spedizione di mega panettoni a tutti i direttori di giornali e televisioni. Sperava di assicurarsi una captatio benevolentiae? Se questo era il suo obiettivo ebbe l’effetto opposto: decisi di istituire un corsivo politico fisso in prima pagina, che per tutta la durata della mia direzione dedicai almeno tre volte a settimana alla contestazione delle “imprese” politiche del Cavaliere e dei suoi sodali nazionali e locali. Ho sempre pensato che il direttore di un giornale locale deve tenersi distante

da persone delle quali può accadere che debba occuparsi, nel bene e nel male, o destare il sospetto che ne sia influenzato, nel bene e nel male. Mi sono concesso solo due eccezioni a questa “regola”: l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Accademia Navale, l’istituzione più prestigiosa della città, e una cena riservatissima nella curia di Livorno. Fu il vescovo, monsignor Alberto Ablondi, ad invitarmi, il terzo commensale era il cardinale Joseph Aloisius Ratzinger, che dieci anni dopo — chi l’avrebbe immaginato? — sarebbe diventato Papa Benedetto XVI. Ablondi, il vescovo che amava farsi chiamare semplicemente “Alberto”, messaggero della Cei nel mondo del dialogo con le altre religioni e, nella sua terra, del dialogo con il mondo del lavoro, sostenitore delle lotte dei portuali, coglieva l’occasione della Pasqua per venire in redazione, impartire rapidamente la benedizione e poi intrattenersi tra i giornalisti raccontando dissacranti barzellette. Il primo provvedimento che adottai fu quello di dare un segnale evidente, a partire dalla prima pagina, che il giornale avrebbe privilegiato sempre più i commenti, le opinioni, le analisi, le inchieste (oltre che il racconto scrupoloso e dettagliato dei fatti): ridussi gli spazi destinati ai “richiami” (la cosiddetta “vetrina”) e aumentai lo spazio destinato al testo, agli articoli. I timori che il giornale ne risultasse “ingrigito” furono smentiti dai dati di diffusione, rinvigoriti (anche se, in verità, non in misura entusiasmante) anche dall’introduzione di “servizi utili” offerti al lettore, come l’inserto settimanale sulla ricerca di lavoro, e da iniziative promozionali come l’abbinamento al giornale delle foto storiche, in bianco e nero su cartoncino, delle città toscane. Iniziativa fortunata, che, confesso, non fu farina del mio sacco. Come non lo erano altre iniziative promozionali “acchiappacopie”, che però avallai. L’ultima di queste fu il concorso “Vota la commessa” che si con-

cluse con uno scontro sul palcoscenico del teatro trasformato in ring dalle due concorrenti che avevano accumulato più tagliandi. Salvò la situazione il break pacificatore del giovane conduttore, Carlo Conti, reduce dalle prime marginali ma brillanti apparizioni televisive oltre che da varie conduzioni radiofoniche. Nella mia vita ho scritto volumi in forma di articoli, come quelli che continuo a scrivere per essere inghiottiti nel vortice del web. Ma mi è sempre piaciuto di più “fare” giornali, costruirli, modificarli, riadattarli, trovare il modo di renderli utili. Per dirvi quel poco che sono riuscito a fare nei tre anni di direzione del Tirreno ho impiegato fin troppo spazio. Non ho rimpianti, se non per la benevolenza con cui i colleghi, delle redazioni e degli uffici amministrativi, di segreteria e tecnici, mi accolsero e hanno collaborato in amicizia tollerando il mio carattere non facile. Il segno del tempo trascorso da allora mi è stato inopinatamente, e piacevolmente, cancellato in queste settimane dall’apparizione in tv dello sceneggiato “Sorelle”: protagonista è quella Anna Valle che, appena reduce dall’incoronazione di Miss Italia 1995, venne portata in visita al Tirreno come un trofeo dall’agenzia di promozione del concorso. Aveva vent’anni. È bella come allora. E misteriosa, come i Sassi di Matera, penultima tappa del mio peregrinare per l’Italia a fare giornali, come quello che è apparso nello sceneggiato tv con una testata inventata: l’ho fondato nel 2002 come proliferazione lucana del Quotidiano della Calabria, che Caracciolo mi mandò a dirigere nel 1996 a titolo esplorativo, «per 6 mesi», mi disse, con il proposito di agganciarlo poi alla catena di cui il Tirreno è capofila. Era sull’orlo della chiusura. Quando lo lasciai — non 6 mesi, ma 10 anni dopo — per un’altra impresa impossibile a Roma, era diventato giornale leader in entrambe le regioni. L’editore alzò troppo il prezzo e quell’anello non si agganciò alla “catena” ideata da Lenzi e da Caracciolo. Peccato!


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la parola

Pisa deve scegliere e diventare il punto di riferimento della Toscana costiera, non può competere con Firenze su tutto

INTEGRAZIONE Se penso al futuro la parola che mi viene in mente è integrazione. Il futuro è integrazione. C'è bisogno che persone con capacità, preparazioni e mansioni diverse si parlino tra di loro. Gli studenti dovranno educarsi e prepararsi all'integrazione delle loro conoscenze. Come corollario all'integrazione, c'è la complessità. Problemi complessi non hanno risposte semplici ed univoche, è necessaria quindi l'integrazione per poterli risolvere. Vincenzo Barone

di CARLO VENTURINI

«P

isa deve diventare punto di riferimento di tutta la Toscana costiera, non può competere con Firenze su tutto, e se Siena non fa network è destinata a scomparire mentre Arezzo deve convogliare in una macro regione con Perugia». È lo scenario toscano che si augura il direttore della Scuola Normale Vincenzo Barone, 65 anni, di origini napoletane, figlio di un doganiere che si è fatto due anni di campo di concentramento. *** Professor Barone, come è avvenuto il suo ingresso in Normale? «Partecipai al concorso per entrare come studente. Il tutto per colpa di una zia chimica che era molto elitaria e snob. Mi presentai alle selezioni in maniera del tutto naif. Venivo dal liceo classico. Non avevo le nozioni sufficienti di matematica, fisica e chimica. Mi sono seduto tra i banchi e ho sudato freddo quando ho visto che gli altri concorrenti avevano con sé il regolo calcolatore, una sorta di righello di ferro dove si facevano i logaritmi. Io non l’avevo, facevo tutto a mente. Passai l’esame grazie ad un eccellente scritto di chimica». Quanto bisogna essere “geni” per essere normalistI? «I compiti degli allievi si conservano alla Normale e Beltram il direttore che mi ha preceduto, quando mi sono insediato me lo ha riconsegnato. Ho sorriso. Mi sono venute in mente alcune domande che mi hanno fatto a cui non saprei rispondere neppure ora come quanti numeri primi ci sono tra uno e mille. Racconto questo aneddoto per far capire che per entrare in Normale non servono nozioni, serve metodo di ragionamento e seguire i corsi di orientamento che quest’anno andremo a fare anche in Puglia». Lei voleva fare il fisico ma è diventato chimico secondo una necessaria alchimia di adattamento. «Mi sono dovuto adattare a Trieste dove lavorava mio pa-

VINCENZO BARONE

Qui alla Normale serve soprattutto saper ragionare Una veduta di Pisa, sopra Vincenzo Barone direttore della Normale davanti al palazzo in piazza dei Cavalieri

lo feci all’ultimo anno di università e facevo turni ai radar h24. Poi mi davano il giorno successivo libero. Peccato che dovessi fare la tesi. Non ho dormito per un anno intero. Mi sono laureato in divisa». E contro ha avuto la commissione quando diventò professore associato a Napoli. «Non ero io il designato. Ma ho vinto». ***

dre, poi a Napoli, poi a Brescia». Cosa ricorda di quel periodo? Di quelle città, di quegli ambienti? «A Napoli ero un settentrionale e mi sfottevano. A Trieste ero un meridionale e semplicemente non mi parlavano. Ero un escluso».

Lei non è considerato una persona “comoda”. È sempre stato contro. Cosa vuol dire essere scomodo oltre a non dedicarsi ai salotti come ci ha detto? «Ricordo che negli anni della contestazione, il clima politico e sociale era ostile a chi faceva il servizio militare. Io

Come è entrato a fare il docente alla Normale? «Ho saputo tutto per caso. Ho mandato lo stesso curriculum che avevo mandato al Cnr. Sono stato preso grazie a dagli esaminatori esteri. Il Cnr non me l’ha mai perdonato. Ero direttore dell’Ipcf da soli otto mesi. E me ne sono andato». Barone ha comprato casa nel centro storico. Come vede la sua Pisa? E la Toscana? «Pisa deve scegliere la sua

vocazione e puntare su tre cose: informatica, beni culturali che non siano quelli rinascimentali, ed il settore agro-alimentare associato all’economia blu, del mare. Deve smettere di cercar di competere con Firenze su ogni cosa. Non è più il centro dell’impero... Deve diventare punto di riferimento in quei tre ambiti da Massa Carrara a Grosseto. Così come Siena non è più il fulcro bancario italiano. Si deve abbassare a dialogare con le altre città. Deve fare network o sparirà a breve. La Normale ha succursali a Cortona. È tangibile, è palese che Arezzo deve saldarsi con Perugia». E Pisa? E il People Mover? «C’era bisogno di una metropolitana di superficie che collegasse l’aeroporto pisano con la stazione ferroviaria fiorentina. Tutto qui». Quale rapporto ha con i media ed i social? «Non leggo i giornali del bar. Li regalo, al bar. Compro Repubblica, Il Tirreno e il Corriere dello Sport. Li leggo al Bar La Borsa assieme a dei vecchi clienti. E poi li lascio.

Per tutti. Alla Scuola Normale ho poi tantissimi altri quotidiani. In totale dedico alla lettura dei giornali almeno un’ora. Non mi piacciono i social e non leggo i giornali su internet». *** Saper comunicare dovrebbe essere come saper far di conto e scrivere? «La Normale non ha un docente di comunicazione. Rimedieremo. La comunicazione non deve però sostituirsi alla sostanza. Così come l’etica deve viaggiare assieme alla scienza. L’etica non la si sostituisce con leggi e controlli. Si deve educare ai principi etici”. Che cosa le fa venire in mente il 1877? «Siamo alla fine dell’800, il secolo delle grandi macchine, del vapore, delle locomotive. È il secolo della meccanica classica che si basava su certezze inconfutabili. Tutto spazzato via all’inizio del ‘900; arriva la quantistica. La Belle Epoque, è finita» . ©RIPRODUZIONE RISERVATA


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la parola

MATILDA Oggi cosa significa per me la parola “futuro”? Significa Matilda, la mia pronipote. Andrea Camilleri Andrea Camilleri, 92 anni, è siciliano di Porto Empedocle. Ora è in arrivo il nuovo giallo di Montalbano

di JEANNE PEREGO

«L «La mia Maremma e quel silenzio che non cambia» ANDREA CAMILLERI

ÔÔ ÔÔ

Un territorio che ho scoperto leggendo Montale, poi Santa Fiora è diventata casa mia Ma con dolore noto che si sta spopolando Il futuro? Vorrei ritrovare lo spirito costruttivo del dopoguerra. Montalbano spesso non mi è simpatico ma... gli voglio bene

a vecchiaia? È una stagione dell’uomo come tante altre, come la giovinezza o la maturità. Certo gli acciacchi fisici sono duri da sopportare ma in compenso ci sono cose che appagano, per esempio il diventare bisnonno». È abituato alla domanda su cosa è per lui la vecchiaia, Andrea Camilleri. A 91 anni passati (i 92 saranno arriveranno il 6 settembre) e ancora impegnato quotidianamente nella scrittura grazie all’aiuto dell’efficiente Valentina Alferj che trasforma in file di word i suoi racconti a voce, lo scrittore più amato in Italia sa che il tema della sua invidiabile età arriva puntualmente in ogni intervista. Come puntualmente arrivano le domande su Montalbano, il suo personaggio che è diventato un successo planetario, tanto di vendite in libreria quanto di audience televisiva grazie anche alla perfetta dimensione che Luca Zingaretti gli ha saputo dare sul piccolo schermo. Dal primo libro della serie, «La forma dell’acqua», pubblicato nel 1994, fino a «L’altro capo del filo», uscito lo scorso anno, tutti per i tipi della Sellerio, le avventure del commissario di Vigàta sono una storia di trionfi. In Italia ma anche in tutti i Paesi in cui vengono lette nelle 30 lingue in cui sono tradotte, cinese compreso. In attesa dell’arrivo in libreria della nuova indagine di Montalbano intitolata «La rete di protezione», il libro numero 101, anche questo un record, Andrea Camilleri ha chiacchierato con Il Tirreno del suo personaggio, dei suoi ricordi, ma anche della Toscana. Della sua Toscana. Da tanti anni lei ha una casa all’Amiata. Quale è il suo primo ricordo associato alla zona? «È una memoria non associata alla mia presenza fisica, ma piuttosto a un ricordo antico di una poesia di Montale da me molto amata, intitolata Notizie dall’Amiata. Poi sono arrivato a Bagnolo di Santa Fiora per la “pubblicità” che di questo posto ne faceva un pittore locale, David Grazioso. Sono rimasto subito incantato dal paesaggio. Intanto un amico comune, anche lui un artista, Angelo Canevari si era comprato lì una casetta. Due anni dopo mi capitò una buona

occasione e ne approfittai. Incantato, torno a ripetere, dal luogo, dal silenzio e dalla qualità schiva ma amichevole dei suoi abitanti». *** Da allora che cambiamenti ha visto in quella parte della Toscana? «Il paesaggio è un po’mutato, parlo delle coltivazioni, ma direi assai poco. Perlomeno a rispetto al degrado ambientale che ha subito la mia Sicilia. Invece il grande cambiamento che ho dovuto constatare è un altro: a Bagnolo, cinquant’anni fa, c’erano milletrecento abitanti tutti toscani, ora si sono ridotti ad appena trecento, sostituiti in gran parte da immigrati, il che ha prodotto un notevole abbandono del terreno coltivato nel territorio». Tornando ai ricordi, quale è il suo primo ricordo da bambino? «Mi rivedo in braccio a mio nonno paterno, Giuseppe, che se ne stava su una poltrona davanti a un armadio con un grande specchio. Nonno Giuseppe mi teneva sulle sue ginocchia e inclinandomi ora a destra, ora a sinistra, faceva comparire e scomparire la mia immagine dallo specchio. Avevo tre anni, lo posso affermare con certezza, perché il nonno è morto qualche mese dopo». Se oggi Andrea Camilleri potesse essere ancora il bambino che pensa al futuro, che futuro vorrebbe per sé? «Sul percorso che va dall’infanzia alla prima giovinezza non credo di avere mai pensato a un futuro personale. Il futuro dei bambini della mia epoca era un futuro comune, bisogna ricordare che io sono nato e cresciuto in pieno regime fascista. Preferisco perciò ricordare gli anni che immediatamente seguirono la Liberazione. Lì sì che avemmo un destino singolo ma con una finalità comune: quella della ricostruzione del nostro Paese. Allora c’era molto entusiasmo e una comune volontà nonostante le diversità politiche». E che futuro vorrebbe per l’Italia? «Ecco, vorrei che oggi si ritrovasse un poco, almeno un poco, lo spirito costruttivo di allora». Sempre a proposito di futuro, come immagina sarà la lettura delle avventure del commissario Montalbano tra 100 anni? «Mi creda, io sono stupito già adesso che i Montalbano abbia così tanti lettori, che non ho proprio la fantasia per immaginare cosa possa esserne tra cent’anni». Ma a lei Montalbano sta simpatico? Le piace l’idea di lasciare il suo personaggio anche ai lettori che non sono ancora nati? «Mi incuriosisce molto sapere che forse i neonati di oggi saranno miei lettori di domani, ed è per questo che a Montalbano, anche se spesso mi è antipatico, gli voglio bene». Che cosa è per lei la felicità? «La felicità non so cos’è, so però che sono un uomo felice».



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i direttori » luigi bianchi

LUIGI BIANCHI, direttore nella fase della massima espansione. La sua avventura decennale iniziò nell’83

I missili, le riunioni e 10 anni di passione senza vincoli politici

di LUIGI BIANCHI

H Un incontro nel salone del Tirreno nel corso degli anni ’80

o diretto il Tirreno per dieci anni in un periodo scabroso della sua lunga e travagliata esistenza: quando una quota della sua proprietà, per motivi che sarebbe noioso ricostruire, era stata ceduta ai Cerutti, imprenditori di Casal Monferrato, dove producono rotative. Dei Cerutti ho un ottimo ricordo: erano veri signori di una correttezza impeccabile. Ma essendo di orientamento repubblicano non tolleravano che la politica del Tirreno venisse ricalcata su quella dei comunisti livornesi, come era accaduto negli ultimi anni sotto la precedente direzione. Io ero stato inviato a Livorno proprio per rilanciare il giornale e ampliarne lo spazio di diffusione liberandolo dai vincoli politici. “Garante” della nuova linea sarebbe stato Antonio Maccanico, politico di lungo corso, dotato di una vasta cultura e di una ricchissima esperienza. Ho ricordato questi dettagli, altrimenti superflui, perché all’interno della loro cornice vissi il mio primo e sconcertante impatto con il Tirreno: un’esperienza della quale conservo nitido il ricordo, nonostante il tempo trascorso da allora. Era il 1983, primo settembre. Io ero approdato a Livorno quel giorno, in anticipo rispetto agli accordi con l’editore, non avendo ancora ultimato le pratiche per assumere la guida del giornale. Responsabile provvisorio era perciò Mario Lenzi che risiedeva a Roma dove svolgeva le funzioni di di-

Un aereo abbattuto in Estremo Oriente, un confronto teso con il comitato di redazione e il dialogo che inizia Poi la sfida di sbarrare la strada a un rivale con un nome speciale rettore editoriale dei giornali locali del Gruppo. Volle il caso che proprio quella mattina accadesse nel lontano Oriente un episodio che avrebbe fatto scalpore in tutto il mondo. Un aereo di linea sudcoreano, in volo da New York a Seoul con 269 persone a bordo, era stato abbattuto con due missili da un caccia sovietico, ad ovest dell’isola di Sachalin. Un fatto drammatico che sarebbe stato un errore non riferire con il debito risalto. Io pregai il redattore capo di preparare un titolo di prima pagina a sei colonne. Passarono pochi minuti e vidi entrare nella mia stanza il comitato di redazione al completo. «Direttore, noi abbiamo votato per lei il gradimento e siamo lieti che diriga il giornale, ma dobbiamo metterci d’accordo. Noi riteniamo impossibile che i compagni sovietici abbiano abbattuto

un aereo civile. La notizia deve essere falsa. Perciò se lei non modifica la prima pagina noi impediamo l’uscita del giornale». Non essendo ancora il responsabile telefonai a Lenzi per chiedergli che cosa fare. Lenzi era livornese e conosceva l’indole dei suoi conterranei. Mi consigliò di trovare un’intesa: decidemmo così di collocare in prima pagina un incorniciato con la cartina geografica del luogo in cui l’aereo si era inabissato e un titolo sobrio. Sette giorni dopo, quando io, ultimate le pratiche, assunsi la direzione, i sovietici ammisero ufficialmente di aver abbattuto l’aereo. Il comitato di redazione riconobbe di essere stato un po’troppo impulsivo. Cominciò così tra me e i redattori del Tirreno un lungo laborioso dialogo improntato alla massima schiettezza. Mi resi conto subito che i miei interlocutori erano ottimi giornalisti, intelligenti e ragionevoli, ma troppo ideologizzati, con i quali valeva le pena di discutere. Non mi ingannai. In fondo, è stato per merito loro, per il loro impegno e le loro doti professionali, se il Tirreno negli anni successivi ha perduto la sua faziosità, pur conservando l’impronta originaria di giornale “garibaldino” , democratico e progressista, ha migliorato le condizioni di lavoro adottando metodi e strumenti più moderni, ha esteso la sua presenza in Toscana con l’apertura di nuove redazioni ed è arrivato a un livello di vendite che non aveva mai raggiunto in precedenza. Naturalmente, in dieci anni non sempre tutto è filato liscio, ci sono stati

alti e bassi, momenti di tensione e anche scontri, ma l’attaccamento al giornale non è mai venuto meno. Se qualcuno avesse tentato di danneggiare il Tirreno avrebbe suscitato una reazione unanime e immediata. Come avvenne nel 1987, quando l’editore Monti cercò di toglierci spazio rimettendo sul mercato la vecchia testata del Telegrafo. Monti dieci anni prima aveva venduto a Caracciolo il giornale con la testata Il Tirreno, tenendosi la testata originaria con l’impegno di non farne uso per un decennio. Appena trascorsi i dieci anni partì alla carica convinto di mettere il Tirreno alle corde. Ma si arrestò di fronte a uno sbarramento inflessibile. Per bloccarlo inventammo nuove pagine, aumentammo i servizi di cronaca e inchiodammo gli avversari su una “linea del Piave” , finché i finanziatori dell’iniziativa, stufi di spendere invano i loro soldi, mollarono l’impresa. E Il Telegrafo scomparve dalla scena. Sicuramente scavando nella memoria troverei altri episodi da ricordare, ma lo spazio di cui disponevo l’ho consumato. Le poche righe che ancora mi restano desidero spenderle per dire grazie, dopo decenni di silenzio, ai colleghi con i quali ho collaborato durante la mia direzione. Sia a quelli con i quali ho tuttora rapporti di amicizia sia a quelli dei quali non ho più avuto notizie. A tutti dico grazie per avermi consentito di trascorrere a Livorno dieci anni non sempre agevoli, spesso faticosi, ma mai vuoti.


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140 anni

IL TIRRENO SABATO 29 APRILE 2017

JURY CHECHI

«Grazie Tirreno Mi hai scoperto da ragazzino...» «N di ALESSANDRO GUARDUCCI

o, non sapevo che aveste 140 anni. Però, mica male! Penso che tra i giornali italiani siate in pochi ad avere una storia così gloriosa. Buon compleanno, allora, e complimenti perché li portate proprio bene». A fare gli auguri al Tirreno è uno dei più grandi atleti italiani di tutti tempi: il ginnasta Jury Chechi, toscano di Prato, soprannominato «Il Signore degli anelli». A farlo entrare nella leggenda dello sport mondiale ci sono la strepitosa medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Atlanta nel 1996, appunto nella specialità degli anelli, dopo che aveva dovuto rinunciare alle Olimpiadi di quattro anni prima per un gravissimo incidente (rottura del tendine di Achille); quella incredibile di bronzo ad Atene nel 2004, nella stessa specialità, dopo essersi ritirato per alcuni anni in seguito a un altro grave infortunio; i cinque mondiali vinti di seguito sempre agli anelli dal 1993 al 1997 oltre a due bronzi; i quattro ori nei campionati Europei nella sua specialità prediletta oltre a un bronzo nel corpo libero e a un altro nel concorso generale. E tralasciamo la pioggia di medaglie e di titoli alle Universiadi, alla Coppa Europa, ai Giochi del Mediterraneo e nei campionati italiani dove per ben sei volte ha trionfato nel concorso generale. Un palmarés assolutamente straordinario. Ma il suo mito, più che per le vittorie internazionali, si è rafforzato e cresciuto per il coraggio, la forza, il carattere, l’umiltà e il sacrificio che hanno accompagnato tutta la sua straordinaria carriera.

*** Chechi, nel 1877, quando è uscito il primo numero del nostro giornale che allora si chiamava Telegrafo, si disputò la prima edizione del torneo di Wimbledon. Quattro anni dopo nacque la Federazione Italiana di Ginnastica. La prima Olimpiade dell’era moderna è datata 1896 (lei ha vinto l’edizione del Centenario. . . ) e la sua società, l’Etruria Prato, sarebbe nata l’anno successivo. Non le chiediamo ovviamente di quei tempi così lontani, ma negli ultimi decenni com’è cambiata la ginnastica? «Dal punto di vista tecnico i cambiamenti nella ginnastica sono stati molti in questi ultimi anni. Detto questo, aggiungo che in Italia — purtroppo — non c’è stata la trasformazione auspicata. È vero che della ginnastica ci si ricorda solo in occasione di grandi eventi, ma questa è una cosa che ci accomuna ad altri sport: non ci possiamo certo paragonare al calcio, sarebbe uno sbaglio. Il problema è che in questi ultimi anni è mancata la capacità di tenere alto il livello tecnico degli atleti: non si è puntato su un ricambio generazionale e non si è stati capaci di dare continuità ai successi del passato. Il risultato è questo: in questo mese si sono svolti i Campionati Europei ma se ne è parlato poco o nulla perché non c’erano atleti italiani competitivi. Così non va. » Lo scorso anno lei è stato in lizza per diventare il presidente della Federginnastica, ma non ce l’ha fatta. Perché? «Perché ho avuto meno voti... Scherzi a parte, io credo che oggi sia necessario entrare strutturalmente nelle scuole per aumentare il numero dei tesserati. Occorre fare promozione partendo dai bambini e coinvolgendo le famiglie: siamo comunque la federazione di uno sport importante, che nella sua storia ha vinto tantissimo. Per questo bisogna puntare di più sugli aspetti tecnici, che devono prevalere sulle questioni “politiche” e sulle lotte di potere. Io ho cercato di dare il mio contributo e sarò sempre pronto a darlo». Ma lo sport per Jury Chechi che cosa rappresenta ancora oggi? «Lo sport è sempre la mia vita ed è una grande occasione per stare bene con se stessi e con gli altri: purtroppo ce lo dimentichiamo e invece secondo me è una realtà importante. Lo sport è anche faticare, lottare, sudare, soffrire, piangere e a volte saper sorridere anche nella sconfitta, ma sempre con la consapevolezza di aver dato il massimo». Chi è stato il suo modello di ginnasta? «Mi sono ispirato a tanti, perché ho avuto modo di conoscere atleti formidabili. Ma non ho avuto un vero e proprio modello anche se, quando ho iniziato a fare ginnastica, era ancora molto vivo il mito di Franco Menichelli e io sono cresciuto confrontandomi con questo grandissimo ginnasta: era l’ultimo italiano ad aver vinto una medaglia d’oro ai Giochi Olimpici, poi sono arrivato io». Lei oggi è un imprenditore: è più difficile aver successo nel lavoro o vincere una medaglia olimpica? «Sì, sono un imprenditore o almeno così mi definiscono.

A destra: un primo piano e il sorriso di Jury Chechi, classe 1969, uno dei più grandi atleti della storia dello sport italiano

Sopra: Jury Chechi ragazzino alle prese con un esercizio al cavallo

la parola

SERENITÀ «Ho avuto una vita bella ma anche impegnativa e movimentata. Mi auguro tanta serenità con la mia famiglia e magari un pizzico di emozione». Jury Chechi

ÔÔ

Conservo i ritagli che celebravano le mie prime gare. La mia carriera? Fortuna e tanto lavoro. La ginnastica dovrebbe entrare nelle scuole, è fantastica...

Sono impegnato nel settore turistico-ricettivo e ho anche un’azienda agricola. Anche qui per arrivare a un traguardo bisogna metterci volontà e determinazione, ma nello sport dipende tutto dall’atleta mentre nell’imprenditoria ci sono ostacoli difficili da superare a cominciare dalla burocrazia. È tutto più difficile, troppo». Qual è il suo rapporto con gli operatori dell’ informazione? Come si è trovato e come si trova? «Sinceramente molto bene. I giornalisti mi hanno trattato sempre con molto equilibrio: sono stato criticato quando erano giuste le critiche e sono stato esaltato quando me lo sono meritato. Non ho mai avuto un problema, davvero. Forse perché non ho alimentato polemiche o gossip: io sono fatto così, vero e sincero. Penso che questo “essere me stesso” alla fine abbia pagato. Inoltre sono stato anche commentatore alle Olimpiadi e questo mi ha fatto stare a stretto contatto col mondo giornalistico, di cui ho avuto modo di conoscere i difetti e soprattutto i pregi: i giornalisti svolgono una professione molto importante fondamentale per quanto riguarda la nostra democrazia. Anche il vostro giornale è stato molto importante perché ha accompagnato tutta la mia carriera: il Tirreno mi ha seguito quando ero conosciuto solo a Prato e ha proseguito a farlo quando sono diventato un atleta di livello internazionale. Un giornale locale per me ha una forza unica, quello di farti sentire sempre a casa».

Legge abitualmente i giornali oppure si informa principalmente sui social media? «A me piace ancora leggere il giornale, ma spostandomi molto anche all’estero è inevitabile seguire facebook o i siti web per tenersi aggiornato su ciò che avviene nella mia città, in Italia o nel mondo. Però la carta ha sempre il suo fascino: lo apprezzo soprattutto quando mi capita di andare a rivedere i ritagli degli articoli sulla mia carriera, molti sono stati messi da parte dai miei genitori. A dir la verità, ora è qualche anno che non vado più a leggerli: magari lo farò insieme ai miei figli, che non li hanno mai visti». E qual è il primo articolo che si ricorda?

«Mah, è dura rispondere. Forse quello della mia prima gara nel 1977: avevo sette anni, mi allenavo alla palestra Etruria di Prato di sotto la guida di Tiziano Adofetti e vinsi il campionato regionale toscano». Nel suo cassetto dei ricordi avrà sicuramente anche qualche articolo del Tirreno. «Come no, ci mancherebbe altro. Ne ho molti. Non vorrei sbagliarmi, ma credo di ricordarne uno in particolare per la vittoria del mio primo campionato mondiale nel 1993: nel titolo fui definito “il signore degli anelli”e quel soprannome mi è rimasto per sempre. Mi pare anche che proprio per quella vittoria fui anche premiato con un trofeo nella redazione pratese del vostro giornale. Ne è passato di tempo...».


140 anni

SABATO 29 APRILE 2017 IL TIRRENO

di CLAUDIO VECOLI

L’

uomo che incontriamo è quello che in una magica notte di luglio ha dipinto di azzurro il cielo sopra Berlino. Perché più delle parate di Buffon, più delle invenzioni di Pirlo, più dei gol di Grosso, l’impresa che nel 2006 ha regalato all’Italia il suo quarto, storico mondiale porta innanzitutto il marchio indelebile di Marcello Lippi, il tecnico toscano capace di trasformare uno scalcinato esercito di giocatori reduci dall’ennesimo scandalo calcistico in una squadra affamata e vincente. Destinata a restare nelle pagine di storia dello sport. E prima ancora tatuata nei cuori di tutti gli italiani. Oggi che Marcello Lippi da Viareggio ha sessantanove primavere sulle spalle e una collezione di trofei nella sua personalissima bacheca che nessun altro tecnico al mondo può vantare, punta ad un altro, storico traguardo: portare la “sua” Cina nell’Olimpo del calcio che conta. “Il mio futuro al momento è ben delineato. Io ho un contratto con la nazionale cinese fino al gennaio 2019, ovvero fino a quando ci sarà la Coppa d’Asia negli Emirati Arabi. Poi vedremo. Può darsi che sia il mio ultimo impegno professionale oppure che continui con chissà quali altri incarichi. Di certo non tornerò a sedere su una panchina di una squadra italiana perché in Italia quello che dovevo fare l’ho già fatto. Però ho anche già trascorso un inverno davanti alla televisione o a giocare a burraco on line e dopo un po’mi sono stufato. Insomma, è davvero difficile prevedere quello che potrà accadermi dopo il 2019”. Più facile allora guardare al passato. E ai punti fermi di una vita trascorsa sempre e comunque sui campi di calcio. Dapprima come giocatore e poi come tecnico. “La persona che più di ogni altra ha segnato la mia vita professionale è stata sicuramente Fulvio Bernardini. Un grande calciatore prima e un grande tecnico poi. È stato lui a farmi esordire nella Sampdoria quando ero ancora giovanissimo. Diceva che gli ricordavo Franco Janich quando lo allenava nel Bologna. Ma al di là di questo, era una persona di grande cultura che sapeva sempre metterti a tuo agio. All’epoca era uno dei pochi calciatori ad essersi laureato, tanto è vero che lo chiamavamo “il dottore”. Ricordo che quando mi allenava nella Samp abitavamo entrambi a Bogliasco ed eravamo vicini di casa. Così capitava spesso di andare insieme a pescare. E parlavamo di tutto, non soltanto di calcio. Mi sono sempre detto che se fossi riuscito a prendere da lui anche soltanto il 5 per cento delle sue doti, sarei stato una persona felice. Nessun dubbio: è stato lui la figura più importante della mia vita professionale...” Una carriera nata da ragazzino nelle file della Stella Rossa, storica società sportiva di Viareggio. “Ricordo che mia madre conservava gelosamente i ritagli degli articoli che parlavano di me. Soprattutto i primi tempi, quando mi trasferii a Genova. E quando giocai il mio primo Torneo

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la parola

FIDUCIA Ho scelto questa parola perché ho sempre fiducia nel futuro e perché la fiducia è stata la molla costante che, insieme ai miei collaboratori, mi ha accompagnato in tutta la mia vita e in tutto il mio lavoro. E questo sia in Italia che nelle mie esperienze all’estero. Un gruppo di persone - qualsiasi cosa decida di fare insieme - se hanno fiducia ognuna nell’altra, unità di intenti ed hanno voglia di cooperare, non possono che avere successo. E allora per loro non può esserci nient’altro che un futuro radioso e bello. Marcello Lippi

In Italia non allenerò più, sto in Cina fino al 2019, poi continuerò a lavorare. Basta inverni trascorsi a giocare a burraco online...

Marcello Lippi, 69 anni, viareggino, campione mondiale 2006 (sopra l’accoglienza a Viareggio) Oggi guida la nazionale cinese

MARCELLO LIPPI

Volevo fare il cardiochirurgo

«Poi il calcio mi ha rapito. Il socialismo mi affascinava, come l’esistenza di Dio» di Viareggio con la maglia della Sampdoria. Poi, con gli anni, gli articoli sono aumentati a tal punto che ci sarebbero voluti degli interi bauli per metterli da parte tutti. E la raccolta si è inevitabilmente interrotta...” E poi, specie da allenatore, i rapporti con i giornalisti sono stati talvolta assai burrascosi. “Io sono una persona che non mi sono mai tirato indietro quando c’è stato da mandare a quel paese qualcuno che non si è comportato correttamente con me. E questo vale nei rapporti con i giornalisti così come con le altre persone con cui mi sono trovato a confrontarmi. Però poi sono anche il tipo che dopo aver litigato con qualcuno va a prenderci insieme un aperitivo e dopo essersi chiariti si torna amici come prima”. Molti gli snodi della vita di Lippi nel mondo del pallone. “Di porte che si sono aperte o chiuse davanti a me e che

I giornali? Mia madre teneva tutti i ritagli Ho mandato a quel paese chi era scorretto con me, salvo tornare amici con un aperitivo

Un Ct da applausi

hanno cambiato il corso delle cose ce ne sono state tante. Ma c’è uno “sliding doors” che non ho ancora mai rivelato — e che sono in pochissimi a conoscere — che davvero avrebbe potuto far cambiare la mia vita. Ma è ancora presto per svelarlo. Chissà, magari fra qualche tempo...”

E se Marcello Lippi non avesse fatto il calciatore? “La mia vita è sempre ruotata intorno ad un campo da calcio. Da ragazzino sognavo di fare il calciatore e ho avuto la fortuna di veder realizzare questa mia aspirazione. Per questo non posso dire di aver mai pensato seriamente ad una

(foto Paglianti)

carriera diversa da quella del giocatore. Però fin da giovane sono sempre stato affascinato dalle figure dei grandi medici e dei grandi scienziati che riuscivano a fare qualcosa di importante per gli altri. Ecco, forse se non avessi fatto il calciatore avrei voluto essere un cardiochirurgo”. Di certo, però, Marcello Lippi non è mai stato attratto da una discesa in campo in politica. Anche se non ha mai rinnegato le sue idee. “Mio padre era socialista. E io un giorno gli chiesi il perché di questa sua scelta. Lui mi disse di andarmi a leggere sul vocabolario cosa volesse dire essere socialista. Io, naturalmente, lo feci. E l’ideale che si celava dietro a quel modo di immaginare il mondo da allora ha affascinato anche me. Però non ho mai voluto mischiare il mio lavoro con la politica perché certe contaminazioni si sarebbero prestate a strumen-

talizzazioni che ho sempre ritenuto pericolose. Anche se mi è stato chiesto più volte di impegnarmi in politica. La prima volta me lo chiese il senatore Paolo Barsacchi quando ancora giocavo a calcio. L’ultima, pochi anni fa, quando mi fu proposto di candidarmi a sindaco di Viareggio. Ma ho sempre detto no”. E c’è anche un Lippi religioso che in pochi conoscono. Anche se è una religiosità non etichettabile. “A volte mi capita di pensare a quanto siamo piccoli. La Terra, alla fine, altro non è che un granello inserito in un universo di cui non riusciamo neppure ad immaginare la fine. È in questi momenti che mi convinco che non può non esistere qualcosa di molto più grande da cui tutto deriva. Se poi si chiama Dio o Allah o chissà con quale altro nome, ha ben poca importanza”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA



140 anni

SABATO 29 APRILE 2017 IL TIRRENO

di MARIA MEINI

L

a Storia, Nicolò, se la porta appresso nel Dna. Erede di una delle più antiche dinastie, i della Gherardesca arrivati in Toscana nell’anno Mille insieme ai Longobardi, il marchese Nicolò Incisa della Rocchetta vive a Bolgheri dagli anni Settanta. Accanto alle sue due creature più preziose: vino e cavalli. Qui è nato e rinasce ogni anno, vendemmia dopo vendemmia, il Sassicaia, uno dei dieci vini più famosi al mondo. Qui, lungo il viale dei Cipressi, ci sono le scuderie Dormello Olgiata, che hanno dato i natali al cavallo per antonomasia, Ribot. Due leggende che si intrecciano nella tenuta di San Guido, sotto l’insegna della rosa dei venti blu in campo oro. Ma nell’albero genealogico di Nicolò la geografia s’imbizzarrisce come i suoi purosangue: il padre, il marchese Mario Incisa della Rocchetta, piemontese, la mamma contessa Clarice della Gherardesca tosco-americana, Nicolò è nato a Roma nel 1936 ed ha studiato e vissuto per vent’anni in Svizzera. Fino a ri-approdare alle sue più antiche radici. Bolgheri, da ex feudo dei Gherardesca, a enclave bordolese famosa nel mondo. A quell’aria di terra e di salmastro che conquistò Mario, il gentiluomo innamorato dei cabernet e dei cavalli da corsa, socio dell’allevatore Federico Tesio, padre dell’ippica moderna. Ed ha un sogno, Nicolò, un progetto ancora da realizzare. Che accarezza come i suoi amati cavalli: Rosier, Bagolino… 40 purosangue ospiti delle antiche scuderie di famiglia. *** Come si è evoluto questo territorio, secondo lei, erede di una così lunga storia? «Si è evoluto in senso positivo, grazie alla grande attenzione delle amministrazioni pubbliche affinché non fosse deturpato. Castagneto è rimasto un comune fondamentalmente agricolo con vocazioni precise: quasi tutte le coltivazioni intraprese negli ultimi anni hanno dimostrato che c’è un microclima particolare, favorevole all’agricoltura di qualità che ha permesso alla gente che qui lavora e ha lavorato di mantenere un buon tenore economico. Direi che è una zona abbastanza felice». Da Carducci ai Bolgheresi doc, dalle odi al vino: cos’è cambiato? «Molto è cambiato con l’evoluzione del turismo. In passato la vita era più difficile, ho letto di contrasti tra la famiglia Gherardesca, la più importante della zona, con la popolazione per le lotte sulla terra. Adesso non ci sono ragioni di contrasto». Lei ha vissuto in Svizzera e a Roma, ha viaggiato in tutto il mondo. Perché ha scelto di tornare a Bolgheri? «Per il vino e i cavalli. Che richiedevano la mia presenza». Impresa o passione? «Sono due grandi passioni. Ho avuto la fortuna di produrre due cose diverse ma molto simili a livello qualitativo. Ribot è considerato il miglior cavallo al mondo di tutti i tempi, tutti lo conoscono, anche i più giovani non appassionati di ippica. Il Sassicaia ha raggiunto la stessa notorietà: tutti, anche chi non

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NICOLÒ INCISA DELLA ROCCHETTA

Sassicaia, Ribot e Bolgheri Tutto con amore Il Sassicaia, uno dei vini più famosi del mondo

Ribot l’invincibile purosangue della Dormello Olgiata negli anni ‘50

«Chi come me ha ereditato una così grande fortuna deve conservarla e tenere un basso profilo per non apparire arrogante» beve vino, lo conoscono. Abbiamo avuto la fortuna di trovare terreni e un microclima particolare che ha dato un’impronta diversa in Italia e nel mondo». Cos’è più importante per lei: il vino o i cavalli? «Ora il vino. Fino alla fine degli anni ‘60 il vino era un hobby e i cavalli l’attività principale. Poi il vino è diventato l’attività principale e i cavalli sono rimasti una passione. Ma la situazione economica è molto diversa, c’è una grande crisi nel mondo dell’ippica e solo la passione ci fa continuare. Il nostro allevamento è molto conosciuto e stimato soprattutto all’estero; discendenti dei nostri campioni

LA PAROLA

INCERTEZZA Il futuro è un grosso punto interrogativo: ci sono continue notizie di violenza che ci arrivano dai media, che rendono il futuro molto incerto. Se devo pensare al futuro spero che quello che abbiamo realizzato venga proseguito nello stesso modo. Nicolò Incisa della Rocchetta

sono presenti nell’80% delle più importanti gare ippiche al mondo. Una soddisfazione per noi e per Bolgheri». *** Suo padre ha inventato il Sassicaia ma è lei che l’ha reso un mito in tutto il mondo. È la sua creatura. «Mio padre aveva competenze e un grande intuito, le sue idee hanno influenzato la mia politica nella gestione dell’azienda. Io sono un conservatore. Chi ha ereditato una così grande fortuna deve conservarla tenendo un basso profilo per non apparire arrogante». Lei ha sempre temuto il gi-

gantismo. E anche la sua azienda, che pure è un impero, è rimasta a conduzione familiare. Come fa a rispondere alla crescente richiesta di vino? «La quantità rischia di snaturare il prodotto, bisogna mantenere il giusto equilibrio senza produrre troppo. Il Sassicaia è l’unico vino che tutti conoscono, anche i non bevitori sanno di cosa si parla. Non tutti i francesi conoscono Lafite Rothschild. La nostra azienda resta azienda familiare, abbiamo avuto tanti avvicinamenti ma sia io che la nuova generazione saremmo tutti contrari a vendere. Gran parte dei marchi del made in Italy sono stati venduti all’estero, noi restiamo italiani». Nel 1994, 11 anni dopo la morte di suo padre, il Sassicaia ha ottenuto la Doc specifica. Primo e unico vino in Italia ad avere la sua Doc come succede per i grandi francesi. «Avevano detto che ne sarebbero nate tante altre, evidentemente non c’erano altri vini pronti ad averla…». Parliamo di caccia, è vero che lei è un cacciatore pentito? «È vero, non mi piace la caccia. L’ho praticata da giovane ma mi sono pentito perché mi sono reso conto che non ci si può divertire ad uccidere ani-

mali se non se ne ha bisogno». Lei ama i cavalli e i cani. Nella sua tenuta ospita anche randagi, e cavalli salvati dal macello. Suo padre, primo presidente del Wwf italiano, creò l’Oasi di Bolgheri: da lui ha ereditato anche l’amore per gli animali? «Ho trenta Jack Russel, sette otto cani trovatelli. Adesso anche degli asini. Mio padre creò l’oasi negli anni 50, perché gli uccelli migratori potessero ripararsi senza prendere fucilate». *** Nel suo studio ci sono decine di foto e dediche, da Reagan a Pavarotti, a sconosciuti estimatori del Sassicaia. Ha mai ritagliato un articolo di giornale che parla dei suoi successi? «Altri l’hanno fatto per me. In azienda arrivano 150 mail al giorno da tutto il mondo… Io amo i giornali di carta: la mattina a Bolgheri caffè e giornale e un saluto ai vecchi bolgheresi. Ma io ho frequentato a lungo Federico Tesio e lui diceva che ogni volta che hai raggiunto un traguardo non ti devi fermare ma devi pensare al prossimo». Se dovesse scegliere, qual è il luogo che ama di più? «San Guido, perché l’ha creato mio padre di sana pianta. Era laureato in agraria ma disegnava anche molto bene, avrebbe

potuto fare l’architetto. Ha disegnato anche l’etichetta del Sassicaia, nel 1968, riprendendola da uno stemma di famiglia». E il luogo che ha inciso di più nella sua vita? «La Svizzera, dove ho vissuto dal ‘48 al ‘70, poi mi sono trasferito a Roma quando mi sono sposato. Allora Bolgheri era la vacanza, ma dagli anni 70 è diventata la residenza». A Castiglioncello di Bolgheri c’è ancora la prima vigna piantata da suo padre? «C’è ancora: lui scelse quel luogo per la pendenza e perché non era orientato verso il mare. All’epoca qui si producevano soprattutto vini bianchi perché si diceva che il libeccio e il salmastro erano negativi per il rosso. Poi siamo scesi a valle con le vigne e abbiamo visto che invece il mare è un elemento positivo per il vino. Il comune di Castagneto ha un perimetro ad anfiteatro favorevole perché non è mai troppo freddo in inverno e ventilato in estate». Ha un sogno nel cassetto, un progetto che vorrebbe realizzare? «Sì, non dico di creare un altro Ribot perché Ribot è unico, ma vorrei che dal nostro allevamento uscisse un altro grande campione». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


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140 anni

IL TIRRENO SABATO 29 APRILE 2017

LA PAROLA

MAGELLANO È il titolo del mio nuovo album, in uscita il 28 Aprile. Sono fresco di registrazione delle tracce del Cd e attualmente sono ancora con la testa in sala di incisione, anche se i lavori sono ultimati. Per me il futuro è questo... Incrociamo le dita e un caro saluto a tutti. Francesco Gabbani

Francesco Gabbani con l’inseparabile alter-ego dello scimmioneballerino, sul palco dell’Ariston di Sanremo

«Siamo toscani, ma conserviamo il nostro passato in un dialetto strano. La canzone d’autore? È viva, ma si sta modificando»

FRANCESCO GABBANI

Karma apuano «Giro l’Europa ma la mente è lì» C di LIBERO RED DOLCE

inquecento anni fa con cinque navi il portoghese Ferdinando Magellano partì alla ricerca di una via per l’Asia che non prevedesse il passaggio dall’Africa. Finirono per essere i primi a circumnavigare il globo, un’avventura piena di fascino e coraggio. E proprio alla memoria dell’esploratore portoghese, morto durante il viaggio, Francesco Gabbani ha intitolato il suo ultimo album. La storia della spedizione ha attraversato cinque secoli ma sarebbe stata dimenticata, se Antonio Pigafetta, attendente di Magellano e reporter del viaggio, non l’avesse trascritta e difesa dalle mira della Corona di Spagna, interessata a cancellare l’epopea di quegli avventurieri. La resistenza delle storie agli attacchi del potere e la loro trasmissione sono la materia de “Il Tirreno” da 140 anni. E, fin dai suoi primi passi, abbiamo provato a raccontare la storia di quell’esploratore della musica che è Gabbani. *** La sua è la carriera di un operaio della musica, ha cominciato dal basso e corso persino il rischio di mollare. Ha qualche bel ricordo del suo primo articolo sul Tirreno? «I primi articoli li ho ricevuti ai tempi dei Trikobalto, il primo gruppo musicale con cui ho avuto le prime esperienze nel mondo della musica. Devo dire che mi avete sempre sostenuto. Una

cosa che ricordo con piacere, riguardante proprio Il Tirreno, è il “Diario da Sanremo” che preparavo quotidianamente durante i giorni della kermesse e che il giornale ospitava nella pagina degli spettacoli». Quale differenza c’è, in termini di consapevolezza, tra artisti sbocciati e lanciati su youtube, magari arrivati alla popolarità in poco tempo, e chi ha dovuto fare una lunga gavetta? «Io rispetto tutti quelli che fanno musica, perché la musica è una passione e la si può raggiungere percorrendo molteplici strade, più o meno rapide. Anche nella musica ci sono le autostrade, le tangenziali, le scorciatoie e le mulattiere di montagna. Io mi sono ritrovato a dover affrontare queste ultime, per proseguire il mio cammino verso la vetta, scontrandomi con la fatica, ma anche assaporando la soddisfazione di percorrere un percorso impegnativo. Meno male che amo fare trekking». Il fatto che gran parte del racconto musicale di questi tempi passi per i social e dinamiche veloci di fruizione, stimolo-risposta-nuovo stimolo, non le fa sentire la mancanza della fanzine, dei vecchi contenitori per appassionati? «Io sto vivendo a pieno l’attualità dei social e posso dire che c’è maggiore immediatezza e minori filtri. Oggi basta un telefonino e un video può essere immediatamente online, con maggior spontaneità. Non sono un fissato della tecnologia, ma riconosco la sua utilità per permettere di raccontare quasi in tempo rea-

Un primo piano colorato. E un cannocchiale che è anche un caleidoscopio. È il disco di Francesco Gabbani, quello con il quale il musicista apuano, dopo il trionfo di Sanremo, aggredirà il mercato dell’estate

le ciò che si fa. Mi mancano un po’, però, le riviste specifiche, dove gustavi i testi in maniera un po’più romantica». *** È finito al centro di un dibattito sul testo di “Occidentali’s Karma” e ha finito per incontrare Morris, l’etologo della “Scimmia nuda”. Dopo Sanremo quel saggio era il più venduto nelle librerie. Scomparsa la canzone d’autore, esiste ancora per il musicista la capacità di veicolare messaggi che restino nel tempo? «Io non credo che la canzone d’autore sia scomparsa. Semplicemente si è modificata. Quando un messaggio c’è e si genera quella magia incalcolabile per cui il pubblico lo prende e lo fa suo, allora ecco che quel messaggio può restare nel tempo». Diciamo allora che la canzone d’autore che sta cercando nuovi mezzi per esprimersi. In una raccolta dei maestri da fare

ascoltare a un profano chi metterebbe dentro? «Senza dubbio dovrebbe contenere alcuni brani di Francesco Guccini e di Franco Battiato, per far capire come l’arte musicale possa essere interpretata anche come poesia». Il Tirreno compie 140 anni, abbiamo radici profonde. I nostri lettori dell’ottocento magari leggevano il giornale fischiettando l’aria di qualche opera, oggi canticchiando “A-a-a cercasi”. La sua ricerca musicale si è spinta mai fino a quel periodo? Magari un Puccini… «Innanzitutto, auguri! Nel mio percorso artistico ho ascoltato di tutto e ho provato a farlo anche con l’opera lirica, perché mi ritengo un onnivoro musicale. La mia ricerca creativa però resta più legata ai tempi moderni, in quanto i miei gusti musicali sono più vicini all’elettronica, amalgamata con la melodia e con dei testi che abbiano qualcosa da raccontare».

Cosa significa per lei essere toscano? C’è una differenza tra essere apuani e essere toscani? «La Toscana è una delle regioni più belle del mondo. In questo periodo sto girando molto l’Europa, per via degli impegni all’Eurovision Song Contest, ma appena posso scappo a casa e quando percorro la Cisa e vedo all’orizzonte le Alpi Apuane, mi si apre il cuore. Sono orgoglioso di essere toscano ed apuano. L’apuano ha avuto influenze liguri ed emiliane, per cui nella mia Carrara abbiamo una parlata più asciutta, rispetto al resto della Toscana, Il nostro dialetto è una vera lingua, con vocaboli talvolta intraducibili, che i toscani non capiscono. Sono probabilmente retaggi del passato, tant’è che i nostri vecchi, quando dovevano recarsi verso Lucca, Pisa o Livorno, dicevano “Oggi dobbiamo andare in Toscana”, quasi come se le zone apuane non ne avessero fatto parte». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


140 anni

SABATO 29 APRILE 2017 IL TIRRENO

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Valeria Piccini “in azione” mentre crea i suoi piatti raffinati; sotto, il “quinto quarto yoghurt e ciliegie”

VALERIA PICCINI

«Chef stellata? Se non c’era mia suocera...»

la parola

VITTORIA È mia nipote, la figlia di mio figlio che dopo sette anni all’estero è rientrato per aiutarmi in sala... Lei ha solo undici anni ma vorrebbe imparare, entrare in cucina con me. Prima però deve studiare, prepararsi nella teoria come nella pratica. Quando sarà il momento, le insegnerò tutto. Valeria Piccini

occupandomi dei dolci. Poi si accorse che mi appassionavo e pezzetto dopo pezzetto ha lasciato nelle mie mani tutto il suo mondo. È stata una grande maestra, una donna molto moderna. Mi ha sempre spronata a credere in me, a sperimentare, mi ha aiutata quando sono dovuta partire per fare esperienze lontano da casa». Montemerano - delizioso borgo medievale, uno tra i più belli d’Italia - è un paesello sperduto sulle colline a sud di Saturnia. Qual è il segreto per portare clientela in un luogo in cui pare che il tempo si sia fermato, mentre altrove corre all’impazzata? «Non potrei vivere altrove. Ogni settimana nei turni di riposo del mercoledì e del giovedì vado al Winter Garden del grand hotel St. Regis di Firenze con cui collaboro da due anni, per mettere a punto piatti e idee. Ma poi non vedo l’ora di rientrare in Maremma. Terra fortunata per paesaggio e vastità di ingredienti. Penso ai formaggi, all’olio, al vino, agli ortaggi, alla carne, ai tanti giovani che stanno tornando alla terra con qualità e ringrazio di essere nata qua».

Mi ha accolto in cucina e insegnato tutto I segreti? Tradizione e sapori da conservare di IRENE ARQUINT

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ciascuno la suocera che si merita. Quella di Valeria Piccini, chef bistellata Da Caino a Montemerano, è stata una grande maestra che da subito ha accolto nel suo regno una ragazzina inesperta, forse intravedendo in lei quelle due scintillanti stelle che sarebbero arrivate anni dopo. ***

Studi di chimica industriale alle spalle, si sarebbe mai aspettata di finire addirittura nel firmamento della Michelin? «Affatto; ho sempre pensato che avrei lavorato in un’industria farmaceutica. Alla cucina ci sono arrivata per caso, incontrando Maurizio (Menichetti, ndr) la cui madre Angela e il padre Carisio avevano una rivendita di vino, accompagnata da qualche piatto. È stato grazie agli insegnamenti di mia suocera e a mio marito che, insieme, abbiamo creato l’odierno Caino». In un mondo professionale in cui in realtà sono gli uomini a condurre i fuochi, come fa una donna a farsi notare? «Deve avere grande capacità organizzativa e resistenza al sacrificio. Il nostro mestiere è molto impegnativo sia per le ore che gli devi dedicare, privandone la famiglia e te stessa, sia per la fatica fisica. Anche se poi la regina della cucina di accudimento, è sempre stata lei, la massaia. Ma c’è la sua bella differenza tra il preparare la tavola per la famiglia e farlo invece per lavoro». *** Classe 1958, maremmana, dal 1985 Valeria Piccini guida la brigata del bistellato Da Caino a Montemerano. Da dove è partita? «Quando ho conosciuto Maurizio avevo quattordici anni, lui quindici. Una vita insieme, per cui qua dentro ci sono cresciuta. Anche se in realtà ho iniziato ad affiancare ufficialmente mia suocera nel corso del 1978. Dapprima

*** A chi deve la persona che è diventata oggi? «A mia mamma Gilda e a mia suocera Angela. Mi hanno trasmesso l’amore per la tradizione ma anche la voglia di andare oltre. È a loro che devo le pappardelle al cinghiale, il buglione, il cinghiale con il finocchietto. Che ho trasformato in una modernissima pasta ripiena Cacio e pere, il piatto di svolta di Caino, lo spartiacque che nei primi anni Ottanta mise un punto fermo sul concetto di trattoria per trasformare il ristorante in un luogo, spero e credo, molto amato dai gourmet. E poi un succulento agnello con i carciofi, le pappardelle sulla lepre, il piccione con le castagne dell’Amiata... Le mie ricette partono dai racconti e dalle esperienze di chi mi ha preceduta, ela-

borati però con tecniche di cottura molto moderne. I profumi restano gli stessi, guadagnando al contempo in leggerezza». Ha mai conservato ritagli di giornale per fissare nel tempo momenti importanti? «Certo, ne ho molti. E fortuna che li conservo in formato cartaceo, perché recentemente un hacker ci ha azzerato tutta la memoria del computer. Il più caro non si riferisce alle tappe in cui sono arrivate le stelle Michelin: nel 1991 la prima, nel 1999 la seconda. Bensì quello con una rara foto di mia nonna, ritratta mentre facciamo il formaggio in casa. È una pratica che mi manca moltissimo, insieme al ricordo del pentolone sul camino...». Che cosa accadeva dalle sue parti intorno al 1847, anno di fondazione dell’odierno Il Tirreno, all’epoca Il Telegrafo? «Di tutti i racconti che ho sentito, mi piace rammentare quello del macellaio. Fino a metà Ottocento in Maremma le mucche erano importanti per il lavoro nei campi, per cui la loro carne era preziosa, un privilegio dei ceti più abbienti o del capofamiglia e di chi lavorava nei campi. Non compariva in tavola più di una volta a settimana. Si preferiva macellare pecore e galline vecchie. Erano tempi in cui la ferrovia passava nella zona di Montauto, caricando agnelli in ceste di vimini su carri merce diretti a Roma e Napoli. Impensabile oggi, con tutte le norme igieniche e sanitarie in vigore». *** Quale parola le viene in mente pensando al futuro? «Vittoria. Mia nipote, la figlia di Andrea che dopo sette anni all’estero è rientrato per aiutarmi in sala da cui Maurizio ha deciso di andare in pensione. Oggi undicenne, Vittoria vorrebbe imparare, entrare in cucina con me. Prima però deve studiare, coltivare la propria conoscenza. Dopodiché sarò felicissima di trasmetterle tutto il mio sapere, come fece a suo tempo mia suocera con me». E come immagina la cucina dei prossimi anni? «Nel tempo abbiamo fatto grandi passi in avanti. In cucina però è giunto il momento di riflettere. Ci siamo spinti troppo oltre con spume, gelatine, estrazioni il cui unico scopo è quello di stupire. La tecnica deve servire per valorizzare la materia prima e ad aiutarci a manipolarla meglio, non per stravolgerla tanto da non riconoscerne più neppure il sapore. Perché a quel punto abbiamo perso». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Il denaro è cambiato.


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