iMAG#0 (Marzo 2009)

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iMAG #0 fotografia, grafica, immagine, arte.


iMAG

magazine di fotografia, grafica, immagine, arte. scaricabile gratuitamente su http://imag.altervista.org

in copertina La fotografia è “Speranza”, di Andrea Palla.

Creatore e realizzatore di questo giornale, Andrea è appassionato di fotografia oltre che di scrittura, ed ideato e realizzato da è da queste due grandi passioni che è nata l’idea andrea palla di iMAG. Da diverso tempo, grazie alla piattaforma impaginato con Flickr, si diletta a fondere immagini e parole, creanadobe InDesign CS3 do una sorta di blog visuale dove fa confluire emozioni e sentimenti. Scrive inoltre racconti e poesie che pubblica sul proprio spazio virtuale dal titolo #0 - marzo 2009 “Frammenti Sparsi” (http://frammentisparsi.wordpress.com) e sta ultimando un romanzo sull’adolescenza che hanno collaborato a questo numero è possibile anche leggere online filippo aroffo jonathan gobbi (http://colpadellestate.altervista.org). francesco manganelli flavio marocco clorinda pascale vincenzo pioggia francesca piredda daniela scaringella dario torre

per contattare la redazione, scrivere a imag@altervista.org

Nel 2007 ha ideato il “Flickr SOS Project” un’iniziativa che ha coinvolto diversi fotografi del celebre portale, che insieme hanno realizzato un libro fotografico i cui proventi di vendita sono andati in beneficenza a enti come “Emergency” e “Save the children”. Laureato in ingegneria delle telecomunicazioni, sta per conseguire la laurea magistrale nella medesima facoltà. I suoi studi lo hanno portato ad avere un grande interesse per la tecnologia e per le innumerevoli possibilità che la rete sa offrire in termini di diffusione e coinvolgimento in progetti comuni come quello di iMAG. Le sue foto su http://flickr.com/paddino

Il copyright delle immagini e dei testi presenti su IMAG è di proprietà esclusiva dei rispettivi Autori. iMAG è un free magazine distribuito digitalmente in formato elettronico: la sua diffusione o ridistribuzione non costituisce reato, anzi è il mezzo con il quale far conoscere iMAG e le opere in esso pubblicate. Tuttavia, la riproduzione anche parziale di tutto ciò che in esso è contenuto, senza il consenso esplicito dei detentori dei diritti, è severamente vietata e punibile a norma di legge. iMAG viene controllato attentamente prima di essere distribuito, tuttavia può contenere errori sfuggiti a tale controllo. Ci scusiamo anticipatamente per qualsiasi problema derivante da queste inaccuratezze. La redazione di IMAG non può comunque in nessun modo essere ritenuta responsabile per qualsiasi danno provocato, direttamente o indirettamente, dalle informazioni contenute nel magazine.


editoriale di Andrea Palla

Chi dice che l’arte visuale sia un mero esercizio di stile o peggio una rigida applicazione di schemi e tecniche, è un pazzo o un incompetente. La fotografia, come la grafica o il disegno, non possono essere ridotti ad un insieme di regole elementari da padroneggiare con capacità e dedizione, né possono essere risolti con la pura imitazione di insegnamenti scolastici di carattere manualistico. In altre parole, non credete assolutamente a chi vi dice che per produrre una buona immagine basti seguire i passi preconfezionati scritti su un libro o appresi in qualche ora di corso in una scuola specialistica. L’immagine, come qualsiasi prodotto dell’ingegno umano, nasce innanzitutto dall’estro personale, dal gusto individuale nascosto in ognuno di noi, e nondimeno da quella che possiamo senza mezzi termini definire “immaginazione”. È la fantasia insita nelle nostre menti ad aiutarci a trasferire in immagine il nostro pensiero, le nostre idee, le nostre emozioni. Certo, la tecnica riveste comunque un ruolo fondamentale: acquisire un’elevata capacità tecnica consente di destreggiarsi con facilità in tutte le occasioni, ed aiuta a padroneggiare il “linguaggio artistico” , permettendo di ottenere risultati finali più conformi e soddisfacenti. Ma la tecnica è nulla, quando non accompagnata da una buona dose di creatività e stupore. Spesso infatti l’arte visiva scaturisce proprio dalla naturalezza con cui è generata, da una sorta di guizzo amatoriale che consente di cogliere l’attimo, l’idea, la sensazione, e di tradurla in istantanea. Nessun grande Artista è divenuto tale limitandosi ad applicare rigidi schemi di realizzazione appresi con lo studio. Gli Artisti più importanti sono quelli che sono maturati, con il lavoro e l’esperienza, fino ad approdare ad un proprio percorso artistico fortemente personale. È con questo spirito che nasce iMAG: per dare spazio alla voce, o per meglio dire “alle immagini”, di tutti gli Artisti che fanno della rappresentazione visiva il proprio marchio di fabbrica. Fotografi, disegnatori, grafici... tutte queste personalità ed espressioni avranno il proprio ruolo su iMAG. Il nome è stato scelto per i molteplici giochi di significato che si potevano costruire con le sue lettere. L’iniziale i, come la prima persona singolare, ad indicare che il centro di iMAG è il singolo e la sua creatività. Ancora, i come italian, perchè questo è un prodotto 100% made in Italy, al grido “gli italiani lo fanno meglio”. Mag, come magazine, perché questo è ciò che siamo: una rivista. Free. E poi, soprattutto: iMAG come image, quello che vogliamo trattare e vogliamo mostrare, e come imagination, il cuore delle opere che di volta in volta andremo a proporre su queste pagine. iMAG vuole divenire un riferimento nel campo dei magazine online dedicati all’immagine. Per farlo, necessita dell’aiuto di tutti coloro che vorranno abbracciarne l’idea. Abbiamo bisogno della vostra creatività per crescere piano piano. Sono certo che molti voi accoglieranno a braccia aperte la nostra proposta, ed entreranno presto a far parte del nostro mondo! Ed ora... non mi resta che augurarvi una buona lettura. Sono convinto che iMAG vi piacerà un sacco, tanto quanto è piaciuto a noi realizzare questo numero zero! Benvenuti a bordo!

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sommario Flickr friends Photography

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Goodbye Leningrad

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Analogico,avanti tutta!

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Big city life

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Cimiteri dimenticati

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sommario

Portfolios Dario Torre

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Vincenzo Pioggia

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Clorinda Pascale

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Altrestorie

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call for submission Sei un fotografo, un disegnatore, un grafico, un artista visuale? Vuoi vedere i tuoi lavori pubblicati sul prossimo numero di iMAG? Allora che aspetti? È semplicissimo: tutti possono provare ad entrare a far parte della nostra rivista! Ti basta inviare una presentazione delle tue opere con una decina di immagini all’indirizzo email imag@altervista.org, cercando di non superare i 5 MB di dimensione massima. In questa fase non preoccuparti della risoluzione. Se i tuoi lavori saranno di nostro interesse, ti contatteremo per la pubblicazione, eventualmente ponendoti qualche domanda per saperne di più su di te! P.S. Essendo iMAG un magazine free, in nessun caso è prevista una retribuzione per i vostri lavori. 5


flickr friends Le immagini in queste pagine sono state postate dai rispettivi autori nel pool del gruppo Flickr di iMAG, e poi selezionate per la pubblicazione. Se anche tu sei un utente Flickr e vuoi partecipare con le tue immagini, allora iscriviti al gruppo all’indirizzo: http://www.flickr.com/groups/imag/

Luis Entenza, “Ophelia” http://flickr.com/13050987@N08/

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flickr friends

Luca Filippi, “Punto e basta” http://flickr.com/89609363@N00/

Rocìo Montoya Movimente, Untitled http://flickr.com/15108705@N07/

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flickr friends

Matheus Chiaratti, Untitled http://flickr.com/luzir/

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Stefano Ferrando, Untitled http://flickr.com/afternoons_fader/


flickr friends

Andrei Radu, “Maria” http://flickr.com/clisee/

Marcos Mangani, “Audiovisual” http://flickr.com/elmaronirico/

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photography


Goodbye Leningrad

Testo e fotografie di Flavio Marocco

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6 Settembre 1991, il nome Ленингра́д (Leningrado) viene sostituito da Санкт-Петербу́рг (San Pietroburgo). Sono trascorsi 67 anni, 7 mesi e 13 giorni da quando la città delle tre rivoluzioni cambiò il proprio nome in onore a Lenin, morto tre giorni prima. Un periodo lungo come la vita media di un russo. Un periodo che ha segnato, più di ogni altro, l’aspetto e la gente della città. Durante questi anni Leningrado è stata il fulcro di eventi fondamentali per l’URSS: qui è stato assassinato Sergey Kirov ed ha avuto inizio la grande purga, qui la Russia si è difesa per 900 giorni dall’assedio delle truppe naziste e qui ancora hanno trovato sfogo tutti i principi, cari a Stalin, dell’architettura costruttivista. La città porta su di sé, lungo le sue strade e piazze, i segni di questo periodo: non sono soltanto le statue di Lenin col suo braccio teso o la simbologia comunista che si ritrova agli angoli delle vie, ma anche e soprattutto le case di Leningrado. Le коммуналка (kommunalkas), le case comuni dove tuttora vive gran parte della popolazione, dove ad ogni piano due o tre famiglie dividono bagno e cucina. Gli spazi comuni, appunto. Questi caseggiati si ripetono tetramente uguali lungo le vie, e se qualcuno avesse la pazienza di contarli ne risulterebbe un numero molto superiore rispetto qualsiasi altro luogo dell’Unione Sovietica. Vedere questi complessi abitativi è facile: basta solo incamminarsi, lasciandosi il centro alle spalle, verso qualsiasi direzione e fermarsi nel primo minuscolo parco che si incontra, composto solitamente da tre alberi e due panchine e sedersi su una di queste a sorseggiare una Балтика 9 (Baltika 9). Poi è sufficiente guardarsi attorno e non fermarsi all’apparenza. Perché dietro ad ogni porta, ad ogni cancello, si cela il giardino di questi caseggiati, dove si affacciano inaspettati negozi, locali ed attività commerciali. Una piccola città nella città, nascosta e vitale. Ed è da queste case comuni che ogni mattina Leningrado si sveglia, spalanca le finestre all’aria fredda fintantoché le inferriate lo concedono, ed esce a popolarne le strade. Tentando, e spesso ostentando, di guardare ed anticipare il futuro (che per noi è già passato), emulando culture e stili di vita mai appartenuti e spesso vietati. Ma tutti questi sforzi sembrano vani quando ogni sera si torna nelle Kommunalkas, dove il tempo è fermo, il futuro ancora lontano e dove anche il presente fatica ad entrare. E così i san pietroburghesi, o come sarebbe meglio chiamarli “i leningradesi”, vivono in bilico, come funamboli, tra un passato ancora presente ed un futuro sempre troppo distante, troppo lontano. Cercando di giostrarsi tra le contraddizioni dei cosiddetti “paesi occidentali” e quelle dell’Unione Sovietica, rimanendo incatenati in un limbo tra tradizione e voglia di cambiamento. Come i protagonisti di “Goodbye Lenin” vivono il surreale e spiazzante momento della svolta. Pertanto capita di imbattersi in scene alquanto buffe: vecchi che ancora si fregiano delle celebri spille commemorative della CCCP discorrere con giovani dalla perfetta tenuta Hip Hop, Trabant superare SUV agli incroci, signore di mezza età sorseggiare Coca Cola mentre addentano un пельмени (Pelmeni). Ed a rendere il tutto ancora più surreale, ogni anno, ogni 9 Maggio, la città sulla Neva si riprende il nome Ленингра́д (Leningrado), per ricordare e celebrare la fine dell’assedio che l’ha vista protagonista nel suo periodo più nero. Perché, come ha scritto la poetessa О́льга Фё́доровна Бергго́льц (Olga Fyodorvna Berggolts), “nessuno dimentichi, nulla sia dimenticato”. 21


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Flavio Marocco è un fotografo amatore nato in Friuli nel 1980 dove tuttora vive e cerca di documentare la sua terra e popolazione. Si è formato al CRAF (Centro di Ricerca ed Archiviazione Fotografica, www.craf.it ) seguendo corsi di fotografia e stampa in bianco e nero tenuti dai fotografi Giuliano e Gianni Borghesan, imparando e portando avanti lo spirito del neorealismo friulano. Viaggia spesso per lavoro e passione, dove cerca sempre di cogliere le storie ed i luoghi delle comunità che visita. Collabora con associazioni culturali della sua zona come Knifeville (casa discografica ed associazione culturale – realizzando due mostre: collettiva “Polaroid” e la personale “Tra un bianco e un nero”, www.knifeville.it ) ed italiane come Noart (associazione culturale di Bologna – mostra collettiva “(d) istanti nel cemento”). Ha inoltre esposto in una collettiva per il CRAF ed il suo progetto “Goodbye Leningrad” è diventato anche una mostra presso gli spazi di Iside Arte a Trieste. Alcuni suoi scatti sono stati pubblicati per le riviste CARTA (www.carta.org) e Patrie dal Friul. Flavio Marocco scatta in analogico e principalmente in bianco e nero, occupandosi di tutto il processo artistico: dallo sviluppo alla stampa delle immagini.

Trovate tutti i lavori di Flavio Marocco sul suo sito ufficiale http://www.flevia.it

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Analogico, avanti tutta! Fotografie di Jonathan Gobbi, Daniela Scaringella

L’avvento del digitale non è riuscito ad ucciderlo, anzi oggi l’analogico continua ad essere amatissimo dagli appassionati di fotografia, che ritrovano in lui la passione per i dettagli e la possibilità di sperimentare. Nelle prossime pagine iMAG vi presenta i lavori di Jonathan Gobbi e Daniela Scaringella, accomunati da un’unica grande passione: quella per la fotografia tradizionale, tra macchine di lusso e toy cameras...

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Analogico, avanti tutta! <<

Jonathan Gobbi

Quando e perché hai iniziato a fotografare, e cosa rappresenta la fotografia per te? Ho iniziato a fotografare al liceo, dove c’era un piccolo corso di fotografia in bianco e nero con sviluppo in camera oscura. Poi all’accademia di belle arti di Bologna, dove studiavo scultura, ho frequentato per due anni il corso di fotografia, e probabilmente lì ho iniziato con maggiore impegno e assiduità, fino a costruirmi una piccola camera oscura tutta mia. Penso che la fotografia per me sia sempre stata un modo per sistemare il reale…diciamo che in generale non fotografo per ricordare una situazione com’è nella realtà, ma piuttosto foto-

I hate football

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>> Analogico, avanti tutta! grafo per creare una situazione come io la desidero. Parlaci della tua passione per l’analogico.

La serie “I hate football” che vi presentiamo fa parte di un progetto fotografico relativo alle piccole società calcistiche provinciali.

A costo di sembrare poco romantico, devo dire che la mia passione per l’analogico è stata dettata in generale da problemi economici. Non avevo soldi per una macchina digitale! Chiaramente anche il fatto di aver preso confidenza da subito con la camera oscura ha influito sulle mie scelte. Mi sentivo semplicemente attratto dalla manipolazione implicita nel procedimento di sviluppo. Poi con il tempo ho iniziato ad appassionarmi alle singole macchine, alle pellicole, agli obiettivi…c’è così tanta varietà nell’analogico. Nel progetto “bird”, associ ad uccelli di varia razza vecchie macchine fotografiche, anch’esse “di razza”. E’ un’ associazione molto interessante e divertente. Hai una collezione di queste macchine? E qual è il messaggio che volevi dare con queste immagini così particolari? Sì, ho una collezione di queste macchine, ma soprattutto ho una collezione di uccelli impagliati! Non ho fatto scelte particolari nel mettere insieme macchine fotografiche e uccelli, diciamo che mi orientavo su criteri “formali”. Non so se c’è

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Analogico, avanti tutta! <<

Bird

un messaggio che parte da queste foto e arriva allo spettatore, sono foto abbastanza intime, che raccontano un mio mondo. Ecco, forse posso spiegare questo, un mondo in cui tra le pieghe s’annidano delle macchine fotografiche nell’atto di fermare una porzione di realtà che diventa eterna; esattamente come eterni, o simboli d’eternità, sono questi uccelli che non possono più volare. Nel tessuto ho allestito un teatrino dell’eternità. Sempre per quel progetto, hai fotografato usando una Hassleblad 500 cm. Una bella recensione trovata girovagando su internet la definisce “la Rolls Royce della fotografia”: è certamente una macchina che ha fatto storia. Raccontaci un po’ come mai la possiedi 33


>> Analogico, avanti tutta! e cosa provi nell’utilizzare questo gioiellino. Ahimè, anche in questo caso vorrei dire che l’ho sempre desiderata e che l’ho avuta dopo mille sforzi e sacrifici, ma semplicemente mio padre l’aveva vista in un negozio dell’usato di Londra e ha pensato di regalarmela. Così mi sono trovato in mano, senza conoscerla, un piccolo tesoro. Però mi sono accorto presto del suo valore, appena carichi la pellicola e guardi attraverso l’obiettivo sai che sei in un altro mondo. E’ una macchina che t’impone rigore, è pesante, non ha un esposimetro interno…non saprei descrivere cosa si prova, e come se la tua mano sentisse la meccanica interna, trasmette sicurezza. Consiglio a tutti di scattare almeno una volta con una Hasselblad per capire a cosa mi riferisco.

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Analogico, avanti tutta! << Ed ora, veniamo al digitale. Lo utilizzi? Credi che tolga qualcosa al piacere della fotografia o è un mezzo che, se ben padroneggiato, può portare a risultati altrettanto interessanti? Sì, utilizzo anche il digitale. Parecchio tempo fa ho usato alcune compatte nikon coolpix per dei lavori in cui giocavo con l’effetto di pixelatura; da poco sono invece il felice possessore di una Nikon D200. Il digitale è meraviglioso, una volta trovati i soldi per il corpo e l’obiettivo il risparmio è notevole; e se si lavora in ambienti professionali è d’obbligo. Io ho delle preferenze in senso “vintage”, e passerei i miei giorni a cercare vecchie macchine fotografiche; però il digitale non credo tolga nulla al piacere della fotografia, tutto sommato esistono buone foto o cattive foto, semplicemente. Non credo importi con che cosa sono

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>> Analogico, avanti tutta! state fatte, chiaramente è importante sapere che certe cose si ottengono con una Nikon D200, altre con una Hasselblad a pellicola. Bisogna capire il mezzo che si sta utilizzando, in un certo senso volergli bene. Forse il ricambio molto veloce del digitale non ci permette d’affezionarci così tanto agli strumenti che utilizziamo, ma ripeto che ciò che importa è il lavoro finale, e sono convinto che da un buon lavoro traspare più la sensibilità del fotografo che non il numero di serie dell’ultimo modello di macchina fotografica. Progetti futuri? Ho molti più progetti di quanti non ne riesca a realizzare! Per quanto riguarda le macchine fotografiche ho messo gli occhi da tempo su una Voigtlander, mentre da un punto di vista lavorativo penso di continuare a studiare il mondo degli uccelli impagliati e questo loro senso d’eternità che mi trasmettono. E a breve, spero, andarmene a vivere a Berlino!

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“Nasco a Piacenza, il diciassettesettembremillenovecentottantrè. Mi appassiono alla fotografia con una vecchia macchina fotografica trovata in casa, poi compro la mia prima reflex (una Fujica, se non sbaglio…) e scatto qualche foto in bianco e nero. Al Liceo Artistico di Piacenza avviene l’incontro fulminante con la camera oscura. Quindi tanto bianco e nero, perché mi permetteva di poter comandare tutti il processo dallo scatto alla stampa. Anni dopo rimisi piede in quella stessa camera oscura del liceo per tenervi un corso mio. Dopo il liceo m’iscrissi all’Accademia di Belle Arti di Bologna alla scuola di Scultura, ma frequentando anche i corsi di Fotografia del Prof. Gianni Gosdan. Lì la mia riflessione sulla fotografia assume connotazioni meno tecniche (pur continuando a lavorare in camera oscura) e caratteristiche più “concettuali”, diventando spesso una riflessione sul mezzo stesso. Ho partecipato ad alcuni concorsi, sia con sculture che con foto e video, e sono stato inserito in alcune collettive sia in Italia che all’estero. Attualmente lavoro tra Piacenza e Bologna, mescolando sempre fotografia, video e sculture. La serie BIRD è il mio ultimo lavoro, inoltre attualmente sono impegnato all’Officina delle Ombre di Piacenza come fotografo di scena.” (Jonathan Gobbi)

Trovate i lavori di Jonathan Gobbi sul suo stream http://flickr.com/jonathangobbi/

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Daniela Scaringella

Toys & toy camera

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Analogico, avanti tutta! <<

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>> Analogico, avanti tutta!

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Analogico, avanti tutta! <<

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>> Analogico, avanti tutta!

La serie sui giocattoli di latta è stata realizzata scattando con una Olympus OM10 e successivamente scansionando ed invertendo i negativi. Le altre fotografie sono invece negativi su carta ottenuti mediante un foro stenopeico.

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Analogico, avanti tutta! <<

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>> Analogico, avanti tutta!

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Analogico, avanti tutta! <<

“Scattare il più vicino possibile al soggetto con rullini dimenticati da anni e apparecchi fotografici di fortuna. Fotografare, sviluppare, ritoccare, stampare, digitalizzare e ritoccare ancora. Casualmente. Senza regole. Un gioco con finale a sorpresa in cui il confine tra analogico e digitale si fonde, in cui grani d’argento e pixel si mischiano, dando nuova materia e significato al soggetto.” (Daniela Scaringella)

Daniela Scaringella è nata 33 anni fa, ha studiato fotografia ed ora si occupa di graphic and web design da quasi 10 anni. La fotografia, pur non appartenendo alla sfera lavorativa, è una sua grande passione. Le piace sperimentare varie tecniche analogiche, ultimamente si sta dedicando alla Lomografia non tanto per il suo aspetto “modaiolo” quanto per la semplicità delle macchine e per la casualità dei risultati, che mantengono una natura di gioco ed approssimazione. Ha un blog a cui è molto affezionata: http://quottaego.blogspot.com

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Big city life Fotografie di Filippo Aroffo Testi di Francesca Piredda

Un viaggio tra i palazzi e la gente, per scoprire l’anima piÚ nascosta delle grandi metropoli. Filippo Aroffo ci racconta per immagini le giornate silenziose di Milano, New York e Londra, accompagnato magistralmente dalle parole di Francesca Piredda, in un reportage atipico nel centro nevralgico e nelle contraddizioni dei nostri spazi vitali...

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André Bazin ha scritto: “l’amore si vive e non si rappresenta”, così “la rappresentazione della morte reale è anch’essa un’oscenità, non più morale come nell’amore, ma metafisica”. Qui regna un silenzio irreale rispetto al quale ogni parola sembra inutile. Di fronte all’irrapresentabile anch’io faccio un passo indietro. Ed è dietro questa parete che fotografo il tabù. [Ground Zero, New York City, 2006]


Con un salto spicco il volo e in un attimo sono sopra di voi. Vi osservo correre e affannarvi, ridicole figure dalla forma ritta come un palazzo. Ascolto il vento e mi accordo alla sua voce. Plano leggero sulla città, passo radente alle vostre case, vivo di ciò che mi basta per dispiegare le ali e se ho voglia vi insulto con le mie escrezioni. Da quassù vedo cose che avete scordato di osservare e altre che solo gli esseri come me possono apprezzare. E a sera mi richiudo su me stesso, senza sapere se avrò un’altra alba. La mia vita è un batter d’ali e la vostra un dimenarle. [New York City, 2006]


Il signore e la signora Giussani, come ogni domenica, tornavano a casa dopo la funzione in chiesa e la colazione al bar. L’uomo, dispensatore di rare pillole di saggezza, strinse la mano della consorte sotto il suo braccio e accompagnandosi con un gesto del capo le disse: “Vedi? Il destino del vecchio è un po’ quello capitato a questa bicicletta: tutti si dimenticano di te e quando si accorgono di aver bisogno del tuo aiuto a quel punto sei tu che non riesci più a camminare”. La signora non rallentò il passo e senza guardare il marito così gli rispose: “E dire che io pensavo alla storia d’amore tra due pezzi di ferro”. [Milano, 2008]


Dopo un silenzio durato parecchi minuti, spesi a soppesare il rapporto calibrato di linee orizzontali e verticali all’interno dell’edificio tempio dell’arte contemporanea, l’uomo così rispose alle perplessità del suo compagno di viaggio circa la razionalità di quel luogo: “Forse è la risposta dell’uomo al caos esterno, a quello della vita. Dovremmo preoccuparci, mio caro, quando tutte le case saranno sferiche e gli oggetti inservibili per via delle loro forme strambe. A quel punto vorrà dire che la vita sarà diventata troppo prevedibile e l’uomo avrà relegato il casuale all’inanimato”. [Tate Modern, London, 2008]


Ricordi? Dopo la corsa buttavi la bicicletta e il tuo corpo sul prato, respirando a occhi chiusi con un’espressione divertita. Ti osservavo disegnare strane forme sull’erba, mentre agitavi le braccia, e aspettavo che la pelle del tuo viso perdesse gradualmente il rossore. Allora mi chinavo al tuo fianco e rubavo una risata a quelle labbra che sapevano di ciliegia. Ti stringevo al petto e cosÏ abbracciati, senza dire una parola, ci illudevamo che quel silenzio sarebbe bastato a proteggerci da ogni male. [Milano, 2008]


La pupa del boss gli aveva dato appuntamento per quella notte, di fronte all’ingresso del ristorante cinese il “Ristorante cinese”. Il commissario aveva girato a vuoto per ore e ore, sacramentando in ogni lingua perché una cosa del genere, ossia perdersi nella città, nei romanzi di Chandler e Simenon non accade mai. L’aria fumosa spargeva aromi di spaghetti di soia e salsa agrodolce. Il commissario, comunque in anticipo, accese una sigaretta per ammazzare l’attesa. Voltatosi verso la porta ne vide uscire un cinese smilzo e asciutto come un fiume in secca. Teneva in mano una sigaretta spenta. “A signò, che me fai accenne?”. La chiamano globalizzazione, pensò il commissario. [Milano, 2008]


“Aggrappati alla vita, come le radici di un albero alla terra, gli esseri umani affrontarono con caparbietà gli effetti di un terribile disastro ecologico da loro stessi provocato più di 30.000 anni fa. Dapprima spezzando la loro atavica diffidenza verso il prossimo e compattandosi in gruppi, di seguito cercando di adeguarsi alle leggi di natura anziché tentare di prevaricarle. E da ultimo iniziarono una lenta trasformazione fisica: per resistere al forte vento che da secoli si abbatte su questo pianeta, gli uomini cambiarono aspetto e si dotarono di uncini e di forme aerodinamiche. La scala evolutiva, dunque, segue questa traiettoria: da scimmia a homo sapiens a gruccia”. Storia dell’uomo e di altre circostanze. [Galleria De Cristoforis, Milano, 2008]

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Il mistero di noi due si racchiude tutto in questa stanza. La gente si muove veloce sotto la nostra finestra. La vede quella luce che rischiara la notte? Parliamo fitto sotto le coperte, accompagniamo le risate con una carezza della mano, dormiamo abbracciati come nel grembo materno. Il nostro mistero è un segreto che condividiamo solo con gli dei. [London, 2008]


Se qualcuno me lo avesse detto che una volta finito di vivere avrei avuto un’esatta replica del mio tormento quotidiano mi sarei sforzato di meno per compiacere il prossimo. Non mi sarei conformato al resto del mondo perché “così andava fatto”, non mi sarei preoccupato dell’opinione altrui e, soprattutto, non avrei speso 2 ore della mia giornata su un treno della metropolitana per raggiungere un lavoro che neppure mi piaceva! Si direbbe che io sia morto, eppure, credetemi, non c’è istante di questa mia nuova condizione che io non passi seduto su un vagone (e scusate la rima!), a farmi sballottare come un animale, esattamente come quando ero vivo, in mezzo ad altre centinaia, ma che dico?, migliaia di disgraziati come me. Senza dire che il sistema organizzativo qui è quanto mai crudele: come altrimenti interpretare l’immagine di quelle scale e quella scritta - “Way Out” - che ci è dato solo di guardare? Cosicché un’unica domanda tutti ci tormenta: “Arriverò mai al piano superiore?”. Insomma,se di questi eventi vogliamo trovare la morale, pare che anche nell’aldilà ci si arrovelli per arrivare un po’ più in alto. [London, 2008]

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La città ha sempre fame. La città non si arresta mai. La città, quando si allarga, fa rumore. La città ha confini sfuggenti, come gli orli strappati nelle vesti dei cenciosi. La città è un cumulo di materiali industriali, una Babele di umori e di colori. La città è quella cosa che osservo da lontano e che, non privo di pensieri, aspetto prenda anche me. [Hide Park, London, 2008]


Ancora io e te, insieme nella notte. “Potrei essere spietato”, mi dici senza guarda mi. Poi sorridi. Gli angoli delle labbra disegnano due piccole rughe sulla guancia sinistra. Alzi il capo e incontri i miei occhi, bagnati di rimorso. Allora diventi serio, con la destra mi stringi la mano e con l’altra accarezzi il mio viso. Ci sembra di sentire un rumore, in lontananza, una saracinesca che come un coltello squarcia il buio del tuo dolore. E il risveglio della città ci coglie quando ancora scopriamo di poterci abbracciare. [Corso Vittorio Emanuele II, Milano, 2007]


Come sei bella, mia amata. Ti osservo, sospirando, mentre sosti oltre il vetro. Con lo sguardo passo in rassegna ogni tuo particolare: la lucentezza della superficie, l’ergonomia del sellino, la rotondità delle ruote. Cerchi di provocarmi spostando sul fianco destro il tuo bel musino? No, non ti irrigidire, frena il tuo bloccasterzo, non volevo offenderti. Sì, lo so, è questa sigaretta a darmi un aspetto poco serio, ma che ci posso fare? È che mi hanno disegnato così. Tuttavia i miei occhi sono sinceri e, come ogni notte, non mancherò di renderti omaggio anche domani. E per tutta risposta tu, essere crudelissimo, sfreccerai via al mattino portando in groppa quell’insulso individuo che presume di possederti. [Milano, 2007]

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Passeggiavo senza meta, oggi. Pensavo a cose futili: cosa preparare per cena, una mail da scrivere, le piante da innaffiare. E poi ti ho vista, su quella foto appesa al muro del palazzo. Dapprima non ti ho riconosciuta – hai cambiato colore dei capelli? -, pensavo a una forte somiglianza, al fatto che nonostante tutto il ricordo di te ancora mi insegue e mi costringe a vederti anche laddove non ci sei. Invece. L’ombra di quella città da cui vorrei fuggire ha racchiuso, tra i suoi margini, quel particolare che, io so, tu sola possiedi. Di te non altro mi resta che quel dettaglio e un’immagine di donna che non riconosco più. [Milano, 2007]



Ricoperti di fango fino alle orecchie, i ragazzini si impegnano come adulti dietro la palla. Le femmine a bordo campo ridono in gruppo e cercano di farsi notare; ma quelli si ostinano a giocare, indifferenti agli schiamazzi di chi li incita a dare il meglio. Poi d’improvviso il cielo si raggruma tutto, si fa grigio come pelo di topo, e la pioggia inizia a correre veloce fino al campo. I bambini, in muto consiglio, continuano la partita, si tuffano sull’avversario e sollevano altra acqua, rivendicano un fallo e fanno sfoggio di spavalderia. Le bambine corrono via veloci, ma nessuno fa caso alla loro mancanza. A gioco finito, mentre i ragazzini commentano le azioni piÚ belle, il terreno racchiude le urla perchÊ non si disperdano, come un campo di battaglia fa con i lamenti dei feriti subito dopo lo scontro. [Milano, 2007]


Il fotografo: Filippo Aroffo Sardo nel cuore, Milanese nella mente, scopre la sua passione per la fotografia digitale a New York e per la cara vecchia pellicola a Londra. In realtĂ i suoi viaggi sono meno numerosi dei suoi salti nel buio. Liceo scientifico con la passione per la filosofia, si laurea in Scienza dei Materiali (eh?), ma nel frattempo studia canto lirico, per poi finire a lavorare in una casa editrice. Eclettico? No, solo un miscuglio di confusione ed entusiasmo!

Trovate i suoi lavori su http://www.flickr.com/photos/pippus79 e potete scrivergli a pippus_79@yahoo.it

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La scrittrice: Francesca Piredda Francesca scrive il suo primo racconto a 10 anni, ispirandosi a una canzone dello Zecchino d’oro. Da allora non ha mai smesso di scrivere (e di parlare!), concludendo alcuni lavori e lasciando ai posteri il giudizio su quelli incompleti. Nata e cresciuta in Sardegna, 13 anni fa si è trasferita a Milano, dove si è laureata. Dottore di ricerca in Studi Cinematografici, è entrata da poco nella famigerata schiera degli assegnisti di ricerca. Vive a Bologna e quando cammina pensa alla bellezza di alcune parole, come “ciotolo”.

Potete scrivere a Francesca all’email cescapi@tiscali.it

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Cimiteri dimenticati Testo e fotografie di Francesco Manganelli





Non sono quasi mai entrato in un cimitero, nemmeno per trovare i miei parenti: ho sempre avvertito una strisciante sensazione di inquietudine e disagio a varcarne il cancello. Nei miei cimiteri di campagna, desolati e selvaggi, sono capitato per caso, durante una delle mie battute di caccia fotografica lungo le strade sterrate della provincia: un cimitero abbandonato, appena visibile attraverso l’erba alta, da cui emergevano lapidi consumate ed illeggibili. Ăˆ stata la rivelazione di una dimensione che avevo fino ad allora volutamente ignorato e che mi ha immediatamente colpito: in quegli spazi sono racchiusi i fantasmi che non si manifesta68


no all’esterno, gli stessi fantasmi che impressionano della propria presenza un luogo, come su una lastra fotografica. Nei miei scatti infatti cerco di trasmettere la densità e l’intensità delle sensazioni che si avvertono in un cimitero abbandonato: niente odora di vuoto quanto un cimitero dimenticato, eppure niente è così pieno di frammenti e memoria. Ho cercato di trasmettere a questi miei scatti la capacità di instillare una sfuocata inquietudine, imponendo agli occhi un percorso che muova dalle profondità dell’anima, scavando nel fango del ricordo e della memoria dimenticata. Mi piace immaginare una di queste mie immagini riprodotta sulla copertina di una raccolta di poesie. 69



Il cimitero è per eccellenza il territorio della memoria: un cimitero dimenticato non implica tuttavia che tale memoria sia deteriorata al pari delle sue croci che, ostinate, sopravvivono all’abbandono. Le lapidi nude a cospetto del tempo che le consuma e le ombre proiettate sull’erba conservano una propria suggestione di memoria e rendono testimonianza di queste presenze; i resti scheggiati dei lumini appesi a catenelle arrugginite sono il tributo al tempo, le croci annerite e deformi sono gli elementi ai quali a mio modo cerco di dare voce, nelle luci e nelle ombre di monocromi crudi e scevri di orpelli. L’erba alta non nasconde solo lettere ed immagini appena leggibili, ma cela e conserva la memoria di un territorio “oltre”, territorio di ricordi vivi forse nella memoria di qualche anziano. n

Trovate la serie “Cimiteri dimenticati”, e tutti gli altri lavori di Francesco Manganelli sul suo sito Internet http://www.frammentifotografici.it

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“Nato a Siena 37 anni fa, sin da adolescente mi sono appassionato al disegno manuale, con una particolare attrazione per la tecnica a carboncino o il sanguigno, che enfatizzano la plasticità delle forme, il contrasto dei chiaroscuri e la drammaticità dei soggetti, in tratti soggettivati. Il passaggio alla fotografia è stato quasi naturale, in virtù dell’abitudine ad utilizzare gli scatti per completare il lavoro. La scelta del monocromatico nel disegno ha ovviamente influenzato anche l’affinità verso immagini in b/n. Negli scorsi anni mi sono servito di reflex tradizionali per poi passare a digitali compatte che mi potessero assicurare un maggior controllo della post-produzione, fino a cimentarmi con le reflex digitali: attualmente possiedo una Canon Eos 400d con tre ottiche differenti. La scoperta dei RAW è di appena un anno fa, ma è stata per me una vera e propria rivelazione: la possibilità di lavorare sui file grezzi e di avere un controllo pressoché completo in fase di post-produzione rappresenta una metafora dell’interpretazione soggettiva che viene espressa mediante un disegno: in questo aspetto ho individuato una affascinante similitudine tra due tecniche così differenti. Considero la fotografia un mezzo in grado di esprimere le sensazioni che mi vengono trasmesse da un particolare soggetto prima ancora di riprenderlo; una emozione rivolta anzitutto a me stesso, per fissare un attimo, un frammento, e solo successivamente condividerla con chi osserva una mia foto. Prediligo il contrasto forte, le sorgenti di luci esterne all’immagine, le atmosfere cupe e intense; i miei soggetti preferiti sono gli oggetti dimenticati per strada, le presenze umane immerse in spazi privi di coordinate temporali e dissolte in non-luoghi, le porzioni di oggetti che emergono dall’ombra e che appaiono decontestualizzate. Mi piace definire le mie foto come “scarne”: luoghi e oggetti dimenticati, presenze umane scivolate in un decadente oblio, mi attraggono perché li considero frammenti di vita e resti sepolti sotto la cenere del tempo; nascosti agli occhi dei più, ma ancora palpitanti di memoria.” (Francesco Manganelli)



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DARIO TORRE “Mi chiamo Dario, ho 22 anni e vivo a Viareggio. E’ una città strana, questa. A volte mi trovo fuori luogo, qui, mentre altre mi sento le mie radici conficcate nella sua terra, nella sua sabbia. Adoro il mare. Adoro il mare d’inverno, quando sei solo tu e lui, senza tutta quella gente, tutto quel rumore che d’estate copre la sua voce, il suo volto. Adoro quella distesa infinita di sabbia, che il mare sembra tenere d’occhio, quasi avesse paura che scappi. E sei lì, e cammini, e magari ti guardi indietro, e vedi le tue orme, vedi i tuoi ultimi minuti. Vedi dove hai affondato di più il passo, dove hai girato, dove ti sei fermato. E se non vai a cercarlo lui sta lì, e ti guarda. Quando invece vai verso il mare, lui cancella le tue orme, ruba quei secondi, quei minuti in cui gli sei stato vicino, e se li porta con sé, chissà dove. Amo sentire quella malinconia, e quella solitudine; quella solitudine che riesce quasi a farti sfiorare l’anima. Non esiste nient’altro, solo tu, lei, e il respiro del mare.

Dario Torre, “A pure person”

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Mi sento vicino ai pensieri di Jeanloup Sieff, al suo concetto di tempo perduto, alla sua quasi maniacale nostalgia. I suoi scatti, velatamente, raccontano con malinconia giorni ormai andati negli archivi del Tempo. Le sue poche parole ne descrivono l’insieme. Lo immagino, silenzioso, osservare uno scatto magari di dieci o vent’anni prima, cercando di ricordare dove avesse accarezzato quei volti, giocato con quella luce, catturandone l’essenza.

Dario Torre, “Airplane”

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Riesco a vivere le sue foto, quando le vedo. In un certo senso, riesco a capire quello che potesse provare osservando quello scatto lontano. Un giorno una persona mi disse non faccio le cose per il piacere di farle, ma per poi in seguito rimpiangerne il ricordo. Probabilmente è vero.” (Dario Torre)

Dario Torre, “I’ve been taught how to flight... then my wings have been cut”

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Dario Torre, “Broken flowers”



Dario Torre, “Arcadia”


Dario Torre, “The clarity”

Prima domanda, di rito: quando hai iniziato a fotografare, e quali erano i tuoi primi soggetti? Ho sempre avuto un’attrazione verso la macchina fotografica. Quasi 2 anni fa arrivò la prima compatta digitale, dalla quale non mi separavo mai. I miei amici, le facce stupide, i momenti divertenti erano i miei soggetti. Un approccio spensierato alla fotografia. Che cosa ricerchi ora nella fotografia? Sei maturato in questo tempo? Non so se ci sia stata una vera e propria maturazione, ma sicuramente c’è stato un forte cambiamento. Ci sono stati avvenimenti nell’ultimo anno che mi hanno portato a cambiare, in maniera più o meno violenta… La mia ricerca attuale è introspettiva e concettuale. Cerco di comunicare qualcosa. Nei tuoi scatti mostri molto il tuo corpo, naturalmente non in maniera volgare: credi che questo faccia parte di un tuo personale linguaggio fotografico? Credo di sì. Chi più chi meno, ma ogni individuo ha bisogno di esprimersi in qualche maniera. Immagino che la maniera di esprimermi per me più semplice sia tramite un’immagine. 88


Dario Torre, “Fragile”


Dario Torre, “Thy kingdom come”

Il corpo nudo è un simbolo di fragilità, di un delicato equilibrio difficilmente raggiungibile e ancora lontano. Si nota anche una ricerca profonda di un significato che va al di là del soggetto rappresentato. Pensi che la fotografia sia soprattutto comunicazione? Si lo è. E’ comunicazione di uno stato d’animo, di un’idea, di un’emozione, di un dolore. La fotografia è un messaggio. Chi sia il destinatario al momento dello scatto non mi è quasi mai chiaro. A volte è una persona in particolare, a volte no…a volte sono io stesso che cerco di dirmi qualcosa, o che cerco di raccontarmi per sentirmi meglio. Guardando le foto che hai mandato ad iMAG, si nota come negli autoscatti si avverta un senso di malinconia ed abbandono, mentre negli scatti che ritraggono una ragazza ci sia molta serenità. È facile pensare che sia un caso, ma io non credo al caso e dunque ti chiedo, un po’ provocatoriamente: lo è? Non lo è. La ragazza nelle foto è stata la persona più importante della mia vita. Tutto cambia quando ci si innamora. Fotografavo tramonti e sorrisi, momenti felici. La perdita di questa stessa persona su cui stavo basando la mia vita mi ha sconvolto. 90


Dario Torre, “Cubea”

Se da un lato ho perso i piacere di cogliere un sorriso o uno sguardo come poteva essere il suo, dall’altro ho avuto l’opportunità di focalizzare la perdita, il dolore, la sconfitta, nella fotografia. Ho trovato nella fotografia uno sfogo ed un mezzo per esprimere quello che a parole rimaneva dentro. Paradossalmente devo ringraziare il dolore e la rabbia provata, perché mi sono sentito vivo. Sento che adesso riesco, volente o nolente, a esprimere me stesso tramite una foto. Senza volerlo parte di me entra in ogni scatto, in maniera più o meno evidente. Parlaci del bambolotto. Ritorna in diverse fotografie, ed ogni volta non fa mai una bella fine. Com’è nata l’idea per quella serie, e che cosa volevi rappresentare? Nasce quasi per caso. Cercavo nella soffitta di casa mia il soggetto per una foto che già avevo in mente, e non trovavo ciò che volevo. Poi ho trovato lui, e il suo sguardo di ghiaccio, rabbioso e rassegnato, mi ha stregato. Il resto è venuto da solo… Come ogni foto, anche quelle del bambolotto sono a libera interpretazione. In linea generale per me rappresentano la caducità e l’inevitabile fine dell’infanzia, della spensieratezza. E’ lo specchio di un’infanzia finita, di un bambino trasformato, evoluto in una persona che dovrebbe essere adulta, che viene catapultata violentemente nel mondo reale, per scoprire di essere 91


sola, e di doversela cavare con le proprie forze. Mi sento particolarmente legato ad “arcadia”. E’ un’immagine di una persona abbandonata, aggrappata ad un pensiero lontano, congelata nello scorrere del tempo. Oltre al bambolotto, a ritornare spesso è la maschera, di solito nel ruolo di “unico indumento”. Che significato ha per te la maschera, e più in generale “la finzione” che è un po’ ciò che si nasconde dietro questo oggetto? La maschera è un tentativo di evitare la realtà. Un rifugio spirituale dove ci si illude di poter trovare la tranquillità con se stessi. Ma non si ottiene niente così, non è tramite una maschera che il dolore si attenuerà. E’ un simbolo di debolezza. Molti di coloro che leggono e fanno iMAG, me e te compresi, sono attivi su Flickr. Qual è il tuo rapporto con questa piattaforma e come la vivi? Adoro flickr. E’ uno strumento di confronto, di critica ed autocritica, di miglioramento. Vi sono tantissimi fotografi in gamba!..ho avuto modo di conoscerne qualcuno, e mi sono di ispirazione.

Dario Torre, “Erroneus perspective of an endless love”

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E infine... progetti futuri? Seguo molto le idee che mi vengono giorno per giorno, non ho progetti a lungo termine…anche perché basta che trovi un bambolotto o chi per esso che mi dimentico di cosa volevo fare :). In questi giorni comunque sto pensando di provare a lavorare con altre persone e riuscire a farle esternare loro stesse con spontaneità. n

Dario Torre, “Everyday”

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Dario Torre, “Not the movie you expected”

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Dario Torre, “Untitled”

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Dario Torre, “Le voyage de Brigitte”


Dario Torre, “Estremoz”

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Trovate i lavori di Dario Torre sul suo stream Flickr all’indirizzo http://flickr.com/pandams/

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Dario Torre, “New Romanticism”


Vincenzo Pioggia Nasce il 26-12-1979 ad Ispica, piccolo comune nella provincia di Ragusa, dove nel Luglio del 1998 acquisisce il diploma da geometra presso l’Istituto Tecnico per Geometri “Leon Battista Alberti” di Modica ( Rg). È a Ravenna che prosegue i suoi studi. Qui concilia esperienze lavorative allo studio presso la facoltà di Conservazioni dei beni Culturali sezione distaccata di Bologna sita in Ravenna, dove nel Marzo del 2005 ottiene la laurea con tesi sull’archeologia medievale ed esattamente su “Tradizioni e confronti nelle sepolture altomedievale con cavallo:le necropoli di Birka e Vicenne”. Partecipa ad uno stage su “Campagna di scavo presso l’abitato etrusco di Ghiaccio Forte”; è anche presente allo stage sulla “Terza campagna di ricerche e scavo del porto fluviale romano di Testaccio”, sempre presso la stessa sede di facoltà; lavora sotto retribuzione per il progetto universitario sul “Supporto alle attività relative all’acquisizione delle biblioteche private” del prof. Asmussen e Gershevitch; inoltre è suo anche uno stage formativo presso il CNR di Roma (sede di Monte Libretti), ed uno sull’attività di Ricognizione archeologica nel territorio di Ravenna (Area Decumano). Presta servizio Civile presso la Biblioteca Classense del Comune di Ravenna occupandosi del progetto “Salviamo il Libro”. Intervalla inoltre diversi corsi di aggiornamento organizzati dalla Provincia di Ravenna. Attualmente svolge la sua attività di fotografo e grafico presso lo studio SAMSARA organizzando, all’interno di esso, anche diverse mostre espositive. È ultima anche una sua partecipazione come docente presso un istituto professionale per la formazione fotografica. Riesce bene a gestire il lavoro alternandolo a diverse attività extralavorative arricchendo così il suo bagaglio artistico-culturale. Si dedica puntualmente alla ricerca costante di nuovi temi e di nuove idee per creare forme e progetti sempre diversi.

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Cos’è per te la fotografia e come ti sei avvicinato a questo mezzo espressivo? Non vi è una collocazione esatta per l’inizio di questa mia passione;in realtà fin da piccolo mi sono avvicinato a questa modalità di espressione. Negli ultimi sei anni poi, ho approfondito molto le miei conoscenze e con costanza assidua ho affinato la mia tecnica. Per molti è la scrittura, per altri la pittura, vi sono quelli poi che riescono tramite la musica; per me la fotografia è stata musa, è stato l’incipit per tirar fuori e far emergere i miei più profondi stati d’animo, manifestandoli in maniera indiretta. Da dove trai l’ispirazione per i tuoi lavori? Collaboro, da un po’ di tempo a questa parte, alla realizzazione di alcuni progetti fotografici pensati e studiati dietro un progetto ben preciso. La foto che amo di più è quella che viene spontanea senza nessuna ricerca forzata; il tutto accade in automatico come se ci fosse qualcosa di inconscio che mi porta tramite un determinato scatto a fermare un pensiero,un profumo, un’idea. Solo dopo aver scaricato la foto e averla vista e rivista più volte emerge il motivo dello scatto quello che la mia mente voleva partorire. Il tutto può richiedere un bel po’ di tempo; molte volte è immediato altre volte no. Guardando le tue foto, sembra che tu prediliga molto il colore rispetto al bianco e nero... è una scelta stilistica o è del tutto casuale? Scatto principalmente a colori, prediligo questo rispetto al b/n. Solo per alcuni scatti mi avvalgo dell’uso del b/n; questo accade quando ho bisogno di rendere un determi104

nato tipo di concetto o in alcuni casi soggetto. Su Flickr c’è una recente e golosissima serie dedicata al cibo: come mai questa idea di tradurre la passione gastronomica in fotografia?


La serie “Food”, postata recentemente su Flickr, rappresenta il fulcro di un progetto ancora incompleto sul cibo; in particolare in questa prima parte mi concentro sull’assunzione del cibo nella nostra società globalizzata, dove con ben poca cura si gettano alimenti ancora utilizzabili o si mangiano cibi quasi del

tutto sintetici e superflui. La seconda parte, invece, risulterà più una provocazione e servirà a sensibilizzare la gente sulle malattie e la morte nei paesi in cui la popolazione è esposta alla malnutrizione. Credo che il progetto potrà ritenersi concluso per Giugno/ Agosto. 105


Parliamo delle tue modelle, che tornano in vari scatti: è difficile convincerle a “prestarsi” per i tuoi lavori, che spesso non sono semplici ritratti ma nascono una storia? Le modelle si prestano ben volentieri ai miei scatti; partecipano principalmente sempre le stesse persone poiché oramai si è creato un certo feeling e vi è una certa complicità che facilita la mia produzione fotografica. Per alcuni lavori però preferisco trovare nuove modelle . Ci hai inviato sia fotografie ritoccate con Photoshop, sia naturali: quanto pesa la postproduzione nel tuo modo di fare fotografia? Preferisci “costruire” un’immagine o ritieni che essa debba essere pura come quando è stata scattata? Eccoci al dunque. Sono ben conscio che la fotografia debba essere una pura rappresentazione della realtà e non si dovrebbe alterare profondamente l’immagine originale; ma grazie all’utilizzo di photoshop riesco a trasformare le miei immagini a mio piacimento e tramutarle in personali pensieri e sentimenti. PS mi aiuta a dar vita alle cose che nella realtà non esistono. Per me tutto quello che permette di esprimermi al meglio è solo un ulteriore elemento e non un limite. Il dibattito quindi si incentra sul voler poi identificare questa come fotografia o Digiart. Che progetti hai adesso, anche non legati alla fotografia? Sposare Michela Blandino e fare tanti bimbi così vengono dolci e belli come lei. n 106


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Trovate i lavori di Vincenzo Pioggia all’indirizzo http://flickr.com/vincenzopioggia/ e sul sito http://www.ilmicrobo.net

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Clorinda Pascale



Piacere sono Clorinda,ma chiamami Clory. Perpiacere. Sono ciociara. Quando ero piccola mi tiravano sempre i capelli. Non so abbracciare le persone. Non ho ancora capito se sono timida o meno. Volevo studiare infermieristica pediatrica ma studio filosofia. Sono una malata dell’autoscatto. Non so ridere senza coprirmi i denti. Mi piacciono i miei occhi e il mio seno. Invece odio i miei nei. Però ho dei nei bellissimi che formano l’orsa maggiore. L’amore e l’odio in me sono amplificati. Mi affascina la matematica,la fisica, la fotografia, la filosofia, la linguistica,l’etimologia di una parola... l’arte. Mi piace mettere le dita nel naso alla gente che mi piace. Adoro l’aceto... litri e litri di aceto 116


nell’insalata. Voglio fotografare gente che sorride. Adoro giocare con la vinavil. Penso troppo. Faccio grandi discorsoni con i bambini ma non sono in grado di farli cn le persone adulte...a volte. Sono una feticista di ossa e cicatrici. Avevo un coniglio che è morto di depressione. Mi manca. Mi piace godere delle piccole cose. Fare regali stupidi che pochi sanno apprezzare. Riguardare un film che mi piace e scrivere ogni frase che mi piace; rileggere un libro che mi piace e scrivere ogni frase che mi piace. Quando sono triste mi rileggo “C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo”. n 117





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Clorinda Pascale nasce a Cassino il 1 giugno 1986. Ha frequentato il liceo scientifico tecnologico ed è iscritta al corso di filosofia presso la facoltà di lettere e filosofia di Torino.Attualmente vive a Fossano dove alterna lo studio a vari lavoretti saltuari. Una delle sue più grandi passioni è sempre stata la scrittura,fin quando nel 2005, complice l’amicizia con un gruppo di fotoamatori si avvicina alla fotografia che diventerà compagna di ogni suo pensiero scritto. “Dolce e Amara insieme, maestra nell’imprimere in uno scatto il suo stato d’animo, vi porterà in un modo di tutù e maschere antigas, vi accompagnerà alla scoperta di Torino e del suo mondo segreto”. Trovate i suoi lavori sul suo stream Flickr: http://flickr.com/bunny86 124


iMAG Website: http://imag.altervista.org Flickr group: http://flickr.com/groups/imag MySpace: http://www.myspace.com/imagmyspace Facebook: Cerca la nostra pagina scrivendo “imag magazine fotografia”

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altrestorie di Andrea Palla

Alla fine le ho comprate, quelle cazzo di scarpe che ti piacevano tanto. Proprio quelle bianche con la striscetta rossoblu centrale, di quella marca americana molto trendy che dicevi sempre “mettono tutti i giovani di oggi”. Io ero giovane, non potevo non metterle. Peccato che da giovane non mi siano mai piaciute. Ho iniziato a farmele piacere da vecchio. Vecchio e rompipalle. Che poi, a dirtela tutta, nemmeno adesso le adoro particolarmente. Mi fanno sembrare un deficiente che non sa abbinare i colori e gli stili. Vesto elegante, con ai piedi scarpe da ginnastica. Scarpe di una tinta completamente diversa da quella del vestito, e con quella striscia rossoblu al centro che nemmeno un quindicenne. Ti chiedi perchè le abbia prese, allora. Me lo chiedo anche io, ed il bello è che non so darmi una risposta. Ho fatto tutto d’istinto, un giorno di qualche settimana fa, passando davanti alla vetrina di quel bel negozio in centro; quello un po’ tamarro con l’insegna luminosa e la vetrata molto alla moda. Le scarpe stavano lì, tra un giubbotto sgargiante ed una cintura colorata, con appiccicato il loro bel cartellino “85 euro”. Loro, e la striscia rossoblu che ti mandava al settimo cielo. Sono entrato, e non so perchè. Dentro c’era questa ragazza, avrà avuto poco più di vent’anni, un culetto basso e ben formato ed una dentatura bianca come il vestito che indossava. Mi ha detto desidera ed io ho detto sì, desidero. È così che le ho provate: ed erano perfette. Talmente perfette che le ho tenute addosso pure quando sono uscito dal negozio, mentre la ragazza col culetto basso mi guardava allontarmi. Mi ha sorriso: e lì allora ho capito che mi stavano proprio bene, che erano un acquisto azzeccato. Anche se non mi piacevano per nulla, erano un acquisto azzeccato. Suppongo che dovrei dirti che avevi ragione tu, quelle scarpe dovevano essere mie. Senza che ci fosse una ragione precisa per averle. Solo perchè le mettono i giovani di oggi. O i giovani di ieri. Anche adesso le indosso, sai? Praticamente sempre, non me le tolgo nemmeno quando mi sdraio sul letto. E la cosa è bellissima, perchè se tu ci fossi ancora ti incazzeresti tanto e mi urleresti di levarmele immediatamente. Tu, che le adoravi tanto. Eppure sul letto non ce le avresti mai volute. Queste cazzo di scarpe rossoblu sono un po’ come noi: già così vecchie nonostante siano nuove. Sono un ricordo che affiora pian piano, e noi alla fine ci camminiamo un po’ sopra. Trovate altri racconti di Andrea Palla sul suo blog Frammenti Sparsi (http://frammentisparsi.wordpress.com) o sul sito personale (http://andreapalla.altervista.org), dove potrete anche reperire le informazioni per contattare l’Autore. 126



“Il genio è la capacità di ristabilire i contatti con la propria infanzia.”

Charles Baudelaire


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