Peter Keller Edoardo Agustoni
Barocco Alla scoperta di alcuni piccoli capolavori in territorio ticinese a cura di Adriano Heitmann Prefazione di Tita Carloni
In copertina Carona, Santuario della Madonna d’Ongero, statua in stucco di San Giorgio che uccide il drago (particolare), Alessandro Casella, 1646-48. Immagine d’apertura Bigorio, Chiesa monastica di Santa Maria Assunta, Gesù Bambino dormiente sulla croce, 28,5 x 62 cm, XVII secolo. La raffinata teletta di devozione privata e in particolar modo monacale raffigura il Fanciullo divino steso sulla croce quale richiamo alla sua futura passione.
Peter Keller Testi di Edoardo Agustoni Fotografie di
Barocco Alla scoperta di alcuni piccoli capolavori in territorio ticinese a cura di Adriano Heitmann Prefazione di Tita Carloni
Questa pubblicazione ha potuto essere realizzata grazie ai contributi delle seguenti istituzioni e di privati, che qui si ringraziano: Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia Repubblica e Cantone Ticino Città di Lugano Comune di Bissone Fondazione AGS, Hinwil Fondazione Ulrico Hoepli, Zurigo Fondazione Ernst Göhner, Zugo Fondazione per il Corriere del Ticino, Muzzano Signor Franco Roda, Lugano Per il sostegno all’iniziativa si ringraziano anche i seguenti comuni: Arogno, Chiasso, Morcote, Rovio, Vico Morcote Inoltre si ringrazia il Vescovo di Lugano Mons. Pier Giacomo Grampa per aver facilitato l’accesso ai monumenti.
Copyright per le fotografie: © Peter Keller ad eccezione delle immagini a p. 156, 164, 172 e 173 © Adriano Heitmann Copyright per i testi: © Edoardo Agustoni © Tita Carloni, per la prefazione © 2010 Edizioni Casagrande, Bellinzona Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-7713-586-5
Sommario
Prefazione
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Introduzione
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I luoghi del Barocco
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Carona, Santuario della Madonna d’Ongero
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Morbio Inferiore, Santuario di Santa Maria dei Miracoli
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Bissone, Chiesa parrocchiale di San Carpoforo
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Castel San Pietro, Chiesa parrocchiale di Sant’Eusebio
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Mendrisio, Chiesa di San Giovanni Battista
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Lugano, Cattedrale di San Lorenzo
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Materiali, tecniche, forme e manufatti
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Lo stucco
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La pittura
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L’arredo sacro
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Il legno
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La scagliola
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Le pietre e i marmi
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Note
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Prefazione di Tita Carloni
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Chi volesse andare alla ricerca di complessi significativi di stucchi nella regione dei laghi di Lugano e di Como deve visitare soprattutto alcune chiese delle parrocchie maggiori e alcuni santuari od oratori distribuiti nel territorio secondo una geografia particolare. Nelle chiese parrocchiali incontrerebbe soprattutto cappelle laterali e presbiteri rifatti completamente alla fine del Cinquecento e nel Seicento durante le grandi campagne costruttive legate alla Controriforma borromaica e alle sue prolungate ripercussioni nelle terre prealpine. Questa ricchezza di opere va naturalmente messa in relazione anche con l’accumulazione di mezzi finanziari da parte delle maestranze migranti che vennero a trovarsi spesso nelle condizioni di poter conferire alle chiese del loro paese d’origine donazioni, legati, offerte, elargizioni. Quelle maestranze qualificate fornivano dunque, oltre al proprio lavoro, anche parte dei capitali indispensabili per i grandi rinnovamenti architettonici e decorativi nel luogo di provenienza. Questi processi continuarono anche nel Settecento, secondo modalità che si ripetevano in modo molto simile di villaggio in villaggio, di gruppo familiare in gruppo familiare. Altri luoghi deputati a ricevere grandi lavori di stucco furono i santuari e gli oratori dedicati alla Madonna o a Santi onorati da grandi devozioni popolari. Gli itinerari, oggi spesso desueti, sui quali si svolgevano gli scambi tra i vari villaggi e dove si snodavano i grandi percorsi delle maestranze migranti (che il più delle volte avvenivano a piedi) erano costellati sin dal Medioevo di edicole e cappelle dove i passanti sostavano, riposavano, pregavano e, in qualche misura, misuravano i tempi dei loro lunghi viaggi. Questi piccoli manufatti spesso dedicati (e non saprei perché) alla Madonna del latte accompagnata da santi e angeli, o alla Santissima Trinità, erano oggetto di grande venerazione popolare e meta di ricorrenti processioni. Sempre nell’ambito delle grandi campagne religiose post-tridentine fu spesso deciso di trasformare le antiche edicole in veri e propri santuari di campagna. Spesso leggende e storie di miracoli precedevano o accompagnavano quelle iniziative con intensa partecipazione popolare. Di regola la sacra immagine, venerata da tempi remoti, veniva conservata in loco e il nuovo e più ampio edificio votivo le veniva costruito attorno, con grande attenzione e rispetto. Affreschi trecenteschi e quattrocenteschi venivano integrati in nuove incorniciature di stucco di forma barocca, con abbondanza di ovali, volute, girali, nuvole, festoni e architetture fantastiche. Il rispetto dell’antica effigie giungeva talora sino al punto di condizionare la posizione stessa del nuovo edificio nel terreno, esigendo scavi di una certa importanza, spianamenti di terreno, addirittura spostamenti di strade e di viottoli. La geografia generale dei Santuari seicenteschi e settecenteschi non è dunque qualcosa di casuale. Essa corrisponde a una sorta di disegno radicato profondamente nella storia della regione. Studi che mettessero in relazione gli spostamenti regolari delle maestranze migranti (reti, modalità e tempi dei percorsi) dal Medioevo fino a tutto il XVIII secolo, con la diffusione di determinate forme di devozione popolare e di organizzazione religiosa (e relativi siti) ci svelerebbero sicuramente una struttura complessiva di organizzazione del territorio che oggi, pur sussistendo qua e là per piccole parti, è sostanzialmente sommersa o alterata dai grandi interventi ottocenteschi (strade e ferrovie) e soprattutto novecenteschi (ancora grandi strade ed edilizia diffusa ben al di fuori dei limiti degli abitati tradizionali). Gli stucchi sono sovente gioielli nascosti in quegli scrigni architettonici, spesso sfuggenti, oggi, al nostro abituale spostarsi sul territorio. Ma al territorio non è legata soltanto la posizione e la distribuzione dei monumenti che contengono i grandi complessi plastici. Dal territorio provengono direttamente, quasi come una naturale emanazione, anche i materiali, specialmente la calce, detta volgarmente calcina, che sono alla base della fabbricazione degli stucchi. Tutto il massiccio montuoso che sta tra il lago Ceresio e il Lario è una specie di enorme deposito sedimentario di carbonato di calcio, il calcare più o meno selcioso definito oggi ufficialmente come calcare di Moltrasio. Da quel minerale, con un sapiente processo di cottura alla temperatura di 800-900 gradi si estraevano le zolle di
ossido di calcio che, adeguatamente bagnate con acqua, davano la cosiddetta calcina colata, o in pasta, o di fossa, cioè l’idrato di calce, più correttamente, idrossido di calcio. Questo, mescolato con sabbia nell’impasto delle malte e durante il processo di asciugamento riassorbe l’anidride carbonica (meglio biossido di carbonio) persa durante la cottura e ridiventa l’originario carbonato di calcio (senza naturalmente l’effetto delle potenti pressioni geologiche che avevano originato il calcare). Si potrebbe quasi dire che, nell’insieme del processo dello stucco la pietra d’origine ridiventa pietra dopo che gli uomini ne hanno fatto uso trasformandola e plasmandola secondo i propri bisogni e le proprie visioni artistiche. Forse proprio in questi processi risiede il carattere di profonda appartenenza della calce o calcina al suo territorio d’estrazione. Oggi nella regione dei laghi non si brucia più calcina, da nessuna parte. E si potrebbe dire che una delle antiche importanti relazioni tra materiali e territorio è andata persa, forse per sempre. La calce veniva “cotta” in luoghi diversi, diffusi nel territorio. Le fornaci maggiori erano strutture permanenti capaci di produrre le zolle bianche in quantità abbastanza rilevanti e si trovavano in luoghi favorevoli soprattutto in funzione dell’estrazione del calcare di base e del trasporto del prodotto finito. Quindi erano a Campione, a Melide, alla Forca di San Martino, a Riva San Vitale, a Capolago (Calchera), ad Arzo, e così via. Le piccole fornaci diffuse un po’ ovunque erano invece strutture quasi provvisorie, erette nei luoghi stessi di estrazione delle pietre e producevano quantità limitate. Chi percorre con occhio attento le parti basse del versante occidentale del Monte Generoso può vedere ancora oggi delle tracce di fosse circolari, con attorno resti di carbone di legna, terra nera e piccoli frammenti di calce bianca. Sono le basi di piccole fornaci non permanenti che venivano fabbricate sul posto in luoghi dove emergevano buone vene di calcare da calce e dov’era facile preparare il carbone di legna necessario per la cottura. Le zolle venivano poi trasportate in paese nelle gerle o con piccole slitte trainate su mulattiere impervie. In paese venivano bagnate nelle fosse di cui era dotata ogni casa di una certa importanza. La bella calcina di fossa veniva poi usata per cento scopi: la costruzione, le decorazioni, i tinteggi, l’igiene, le disinfezioni, la deposizione dei morti negli ossari comuni (in questo caso ancora in zolle o in polvere), i bisogni della campagna e, appunto, gli stucchi. In talune zone la calce era di qualità eccellente soprattutto per due motivi: la bontà del calcare di base (omogeneo, quasi esente da impurità o intrusioni) e la grande perizia degli uomini che la lavoravano e ne conoscevano tutti i segreti. È capitato in qualche cantiere di restauro di monumenti di scoprire sottoterra i resti di antiche fosse di calcina che avevano servito all’epoca della costruzione e della decorazione e di trovarvi dell’ottima calce spenta: una dolce pasta di consistenza burrosa e di un caldo bianco inimitabile. Dopo qualche secolo essa poteva essere ancora adoperata tranquillamente avendo la consistenza e l’umidità giusta. Anche questa quasi incredibile capacità di durare nel tempo senza alterarsi costituisce una meravigliosa qualità della cosiddetta “calcina” che può dormire sottoterra, in una cantina, o sott’acqua, per anni migliorando addirittura nella sua umida consistenza e nella sua plasticità. Queste sono qualità che il bravo stuccatore conosceva fin da bambino e sapeva sfruttare con grande sapienza e sensibilità maneggiando il “cazzuolino”, o la “stecca” per modellare (anche direttamente con le dita) forme che viste da vicino lasciano stupefatti. Solo chi ha provato a lavorare direttamente con questi materiali ne conosce fino in fondo il fascino. Ed è un fascino che gli stucchi continuano a emanare come una sorta di misteriosa, segreta, difficilmente spiegabile vitalità. Spesso negli ultimi tre secoli gli stucchi sono stati ricoperti di strati di calce bianca o grigiastra e hanno perso la loro fresca e decisa plasticità iniziale. Occhi, bocche, capigliature di putti e cherubini appaiono un po’ appiattiti e offuscati dalle scialbature successive, ma con una pulitura attenta e prudente si possono riportare alla luce forme e superfici meravigliose.
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p. 9
Maroggia, Oratorio della
Madonna della Cintura, 1731-66. Immerso in un bosco di castagni all’imbocco del portale autostradale, un tempo sull’antica strada per Bissone, il piccolo edificio sacro è nobilitato da un prospetto convesso non intonacato di ascendenza borrominiana, dove sono ancora visibili le buche pontaie.
Rovio, Chiesa parrocchiale
dei Santi Vitale e Agata. Veduta interna in direzione del presbiterio dove si conserva il prezioso altare mar-
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moreo policromo di Gian Giacomo e Carlo Antonio Manni, 1730-36 (vedi dettaglio con uccellino intarsiato, illustrazione di sinistra), sormontato dalla bella pala d’altare con la Madonna col Bambino in trono e i Santi Giovannino, Vitale, Virgilio, Agata e Giacomo, opera datata e firmata dal genovese Bernardo Castello, 1601.
Lugano, Cattedrale di San
Lorenzo, cappella della Madonna delle Grazie. Dettaglio dell’ottava Beatitudine in cui una figura femminile, allegoria dei perseguitati a causa della giustizia, osserva con strazio il neonato ai suoi piedi crudelmente ammazzato, opera in stucco lustro del comasco Stefano Salterio, 1771-74.
Sessa, Chiesa prepositurale
di San Martino. Particolare dell’imponente altare maggiore ligneo
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policromo e dorato di Antonio Pini, coadiuvato da Carlo Antonio Ramponi, 1666-68, raffigurante il Santo Patrono a cavallo che dona il mantello a un povero.
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Morbio Inferiore, Santuario
della Madonna dei Miracoli. Stendardo dipinto e ricamato settecentesco raffigurante l’Ostensorio sostenuto da un gruppo di angeli.
Mendrisio, Chiesa di San
Giovanni Battista. Nel 1791 Giovanni Battista Bagutti realizza cinque ovati per gli altari laterali, tra cui questa tela raffigurante /Tommaso Cursini, detto del fico di Orvieto/, inserita nella cappella dei Sette fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria. Il Beato Cursini compÏ un miracolo guarendo una donna ammalata per mezzo di un rametto di fico con tre frutti maturi.
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Arogno, Chiesa parrocchiale
di Santo Stefano, cappella dei Re Magi. Statua in stucco raffigurante San Girolamo di Giovanni Antonio Colomba, 1640. Il Santo, padre e dottore della Chiesa, con una mano sostiene la Vulgata, ossia la traduzione in latino da lui effettuata all’inizio del V secolo della Bibbia, con l’altra un teschio e la croce simboli delle sue meditazioni sulla morte e sulla resurrezione.
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Bissone, Chiesa parrocchiale
di San Carpoforo. Dettaglio del prospetto mistilineo esterno a vela immerso in una controluce serale sullo sfondo del Ceresio.
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Introduzione
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Un cultore della fotografia e uno storico dell’arte hanno unito le loro rispettive conoscenze e passioni per realizzare questo volume incentrato sulla cultura artistica del Barocco in territorio ticinese, in particolare tra il Luganese e il Mendrisiotto. Come indica il sottotitolo, l’obiettivo è quello di accompagnare il visitatore alla scoperta di “alcuni piccoli capolavori” custoditi da quest’area geografica e che ben rappresentano il gusto di un’epoca compresa tra il Barocco e il Rococò. Questi manufatti sono sovente “piccoli” per dimensioni, in quanto rispondevano alle necessità pratiche e cultuali di una popolazione racchiusa in nuclei abitativi di poche centinaia di anime, ma, come il termine “capolavoro” sottende, “grandi” e in alcuni casi perfino grandissimi dal punto di vista artistico e qualitativo. Per cercare di capire come una regione in cui lungo tutto l’Ancien Régime la povertà ha avuto connotati endemici abbia potuto produrre opere di tale valore formale e stilistico, occorre tenere presente che sin dall’Alto Medioevo gran parte dei suoi abitanti era dedita ad attività legate all’edilizia. Questa consuetudine a lavorare con i materiali della terra, dalla pietra al marmo, dalla calce al gesso e alla terra cotta, dal legno al ferro, ha condotto schiere di artigiani e artisti – “piccapietra”, scalpellini, architetti, scultori, stuccatori, scagliolisti, frescanti, quadraturisti, decoratori, pittori di tele... – a cercare lavoro al di fuori degli esigui confini regionali, spingendosi fino ai grandi centri cittadini europei del tempo: dalla vicina penisola italiana (Como, Milano, Torino, Genova, Vicenza, Udine, Venezia, Roma, sino a Napoli e in Sicilia) alla Provenza e alla Spagna, fino ai paesi settentrionali e orientali (Germania meridionale, Inghilterra, Austria, Polonia, Romania, Russia e in particolare a Mosca e San Pietroburgo). La loro attività ha conosciuto un forte incremento soprattutto a partire dal Quattrocento, fino a raggiungere picchi altissimi in corrispondenza del periodo della Controriforma e proseguire quindi ininterrottamente durante tutto il Sei e Settecento, ossia in epoca Barocca e Rococò. Queste maestranze praticavano prevalentemente un’emigrazione di tipo stagionale (rari erano gli emigranti stanziali, tra i quali troviamo comunque un nome illustre, Francesco Borromini di Bissone): si partiva tra febbraio e marzo, ritornando periodicamente al villaggio di origine tra novembre e dicembre. Ed è proprio nel periodo di permanenza nella propria terra nativa che questi Maestri d’arte davano sfoggio del loro estro artistico, aggiornato in base alle nuove tendenze e ai gusti appresi sui grandi cantieri edili europei, costruendo, ampliando, modificando, decorando, abbellendo le abitazioni private ma soprattutto la chiesa parrocchiale, luogo di aggregazione per eccellenza delle comunità prealpine del tempo, e poi oratori e cappelle. Ecco quindi che sul nostro territorio possiamo imbatterci in piccoli scrigni architettonici, arredati con tele, affreschi, stucchi, marmi, stoffe, argenti, ferro battuto, legno, terracotta, il cui stile rispecchia quello in auge nelle grandi capitali culturali di quegli anni. Queste maestranze altamente specializzate e organizzate in stretti clan familiari, basati su legami di parentela e affettivi, hanno importato inoltre dalle loro lunghe peregrinazioni alla ricerca di lavoro tutta una serie di preziose rimesse devozionali, quali stoffe pregiate e preziosi paramenti, argenteria, dipinti, paliotti in marmo, statue lignee e in pietra, che hanno concorso a dare lustro agli edifici di culto. In uno spazio esiguo qual è il nostro territorio, non deve quindi stupire di trovare fianco a fianco forme e stilemi nordici accanto ad altri di derivazione meridionale, oggetti importati dai grandi centri italiani, con altri di provenienza settentrionale. Entrando in alcuni nostri edifici di culto, come nella Parrocchiale dei Santi Vitale e Agata di Rovio, dove la pala dell’altare maggiore del pittore genovese Bernardo Castello convive con opere dei pittori Giovanni e Giovanni Battista Carlone oriundi di Rovio ma pure alacremente attivi a Genova, ci sembra di trovarci per incanto, non senza una prima sensazione di spaesamento, in angoli di territori culturali liguri. Di derivazione romana e milanese sono invece gli affreschi delle pareti del coro della Parrocchiale dei Santi Giorgio e Andrea di Carona, eseguiti a loro volta da un valsoldese di Puria, Domenico Pezzi, dove i modelli sono da ricercare in Michelangelo, Raffaello e Bernardino Luini, allievo di Leonardo. Di ascendenza mitteleuropea è per contro la raffinata decorazione a stucco dell’Oratorio dei Confratelli annesso alla Parrocchiale di Santa Maria
Maddalena di Capolago, realizzata attorno al 1756, gli stessi anni in cui un altro stuccatore attivo tra Baviera, Turingia e Sassonia, Giovanni Battista Pedrozzi, lascia sulle pareti della sua casa nativa di Ligaino (Pregassona) delle “prove d’artista” in stucco. Senza pretese di essere esaustivi su un tema che meriterebbe una trattazione sistematica e capillare, e consci di non poter coprire tutto il nostro territorio che vanta una concentrazione fittissima di opere di questo periodo artistico, nella prima parte della presente pubblicazione desideriamo evocare attraverso immagini estremamente curate e corredate da sintetiche schede informative alcune di queste testimonianze che riteniamo particolarmente significative. Per il Seicento ci siamo quindi concentrati su tre edifici esemplari, i Santuari della Madonna d’Ongero di Carona e della Madonna dei Miracoli di Morbio Inferiore e la Chiesa parrocchiale di San Carpoforo di Bissone, mentre per il Settecento abbiamo preso in considerazione la Chiesa parrocchiale di Sant’Eusebio di Castel San Pietro, la Chiesa di San Giovanni Battista di Mendrisio e la Cappella della Madonna delle Grazie della Cattedrale di San Lorenzo di Lugano. Di grande importanza, nonché di sottile fascino, risulta poter osservare l’oggetto mobile nello spazio per cui è stato concepito e poi realizzato, in quanto lo vediamo tessere un serrato “dialogo” culturale ed estetico con quello che lo affianca e lo circonda, ognuno con la propria storia materiale e artistica. Altrettanto importante e imprescindibile per cercare di capire e apprezzare il nostro territorio è poter vedere il bene immobile immerso nello scenario paesaggistico e orografico per cui è stato progettato e costruito. È significativo come in questi ultimi anni gli studiosi abbiano riconosciuto una volontà politica e religiosa durante la Controriforma di “sacralizzare” quelle delicate aree di frontiera confessionale delle valli lariane e ceresine attraverso una fitta rete di Sacri Monti, santuari mariani, chiese, cappelle, edicole, dipinti votivi su case private e sfruttando la suggestione paesaggistica dei laghi prealpini, scenario di incommensurabile bellezza e di grande potenzialità evocativa per indicare i percorsi di fede e di penitenza. Questo territorio e i manufatti artistici che vi hanno trovato uno spazio ideale vanno valorizzati, preservati e protetti congiuntamente, perché intrinsecamente correlati. Il paesaggio naturale vive e viene messo in valore dai suoi beni culturali voluti e progettati dai suoi abitanti quale identità della loro fede e della loro appartenenza a questa terra; a loro volta questi manufatti artistici sono valorizzati dallo straordinario paesaggio in cui sono immersi. Nella seconda sezione di questo libro abbiamo voluto indagare e documentare con una serie di illustrazioni fotografiche d’insieme e di dettaglio (corredate da una scheda introduttiva e da puntuali didascalie) alcune tecniche artistiche e alcuni materiali ampiamente diffusi e impiegati in epoca barocca anche nella realizzazione di manufatti segnalati nei luoghi di culto qui presi in esame. Come è noto, l’arte soggetta al clima culturale della Controriforma ha messo in opera tutta una serie di sottili strategie legate alla persuasione, che in campo artistico si sono tradotte tra l’altro nella scoperta o riscoperta di tutta una serie di materiali preziosi o semipreziosi, lavorati con grande raffinatezza e duttilità. In epoca barocca la materia aveva assunto una straordinaria funzione propedeutica e veniva impiegata sperimentando fino all’inverosimile tutte le sue potenzialità, realizzando degli incantevoli oggetti di sottile gusto formale.
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I luoghi del Barocco
Carona
Santuario della Madonna d’Ongero
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p. 22
In controfacciata è la statua
in stucco di San Giorgio che uccide il drago (particolare) di Alessandro Casella, 1646-48. p. 23
Un’ampia rampa acciottolata
bordata da un basso muretto con edicole di una Via Crucis conduce al Santuario mariano, le cui pareti rosate sono state ottenute impiegando una particolare malta di rivestimento frammista a polvere di porfido.
Attorno alla porta laterale
il pittore caronese G.A. Petrini ha
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dipinto verso la metà del XVIII s. due splendide figure di busti Telamoni che sostengono un cartiglio, utilizzando una paletta monocroma incentrata sulla tonalità giallo-bruna, quasi a voler emulare un effetto bronzeo dorato. p. 26
Sulla parete di destra della
seconda campata G.A. Petrini dipinge la Disputa di Gesù con i Dottori (metà XVIII s.). Qui è il dettaglio del volto di
un anziano sacerdote della Legge, i cui incisivi tratti somatici, la lunga barba fluente, i rari capelli bianchi ondulati, sembrano riecheggiare le figure virili del plasticatore Alessandro Casella, le cui opere all’interno dello stesso Santuario vennero eseguite esattamente un secolo prima. p. 28
Specularmente alla Disputa,
G.A. Petrini affresca la Presentazione di Gesù al tempio (metà del XVIII s.): l’assorto volto di San Giuseppe (particolare), colto di profilo, è definito con pochi ma incisivi tratti, mentre le mani dalle lunghe dita dinoccolate sono portate al petto in segno di umiltà.
Adagiato in una conca naturale del Monte Arbostora, sullo sfondo suggestivo del ramo meridionale del lago di Lugano, con le sue frastagliate e sinuose rive lambite dal Monte Brè, dalla Sighignola, dal Generoso e dal San Giorgio, si trova l’antico insediamento abitativo di Carona, le cui radici affondano nel lontano Medioevo. A una visita affrettata e superficiale ci si potrebbe meravigliare di scoprirvi edifici religiosi tanto insigni e monumentali, oltre a nobili facciate di dimore arricchite di affreschi, graffiti, stucchi, portali in pietra, più consoni a una cultura urbana che non a un remoto e piccolo villaggio prealpino. Questa insolita concentrazione di beni culturali tanto significativi e variegati si spiega con il fatto che Carona ha dato i natali a fitte dinastie di maestranze d’arte, fra cui gli Adami, i Pilacorte, gli Aprile, i Solari, gli Scala, i Casella, i Petrini, che hanno lasciato tracce del loro operato un po’ in tutta Europa, ma che non hanno mai dimenticato la loro terra d’origine. Passando accanto alla vecchia cava di porfido, oggi occupata dalla piscina comunale, ci si imbatte in un silenzioso sentiero, “così antico e così insolito, così isolato in un altro tempo, in un’altra età del mondo, in una diversa atmosfera di vita. Sono rare, intorno a Lugano, le stradine come questa, solenni, raccolte in sé, addormentate, dove niente è di oggi, e niente parla dell’oggi”1. Percorrendo il sentiero immerso nel bosco, dove si alternano equamente distanziati castagni e faggi, le cui fitte fronde lasciano penetrare una luce tremolante e tenue che disegna mutevoli combinazioni concentriche di luci e ombre sul rossiccio manto delle foglie rinsecchite, si arriva ai piedi di una piccola radura, preceduta da un’ampia rampa acciottolata a gradini cordonati, affiancata da edicole un tempo contenenti affreschi di una Via Crucis. Sulla solitaria sommità è adagiato il Santuario della Madonna d’Ongero, in modo così armonioso da indurci a pensare, come del resto suggerisce la sua dedicazione di origine dialettale, che sia stato posto lì da mani angeliche. Dal piccolo sagrato delimitato da un muretto ondulato, “lo sguardo spazia infinitamente leggero, alato e libero, infinitamente ammirato, teso e appagato, e
sempre attirato con appassionata nostalgia dall’ampio paesaggio montano senza confini con le sue mille vette e, più oltre, da un paesaggio paradisiaco ancora più ampio, ancora più possente, ancora più affascinante. Sulla terra esiste molta bellezza, ma niente che sia più bello di questo”2. Il Santuario sorge sul luogo di un’antica cappella contenente l’effigie della Madonna di Loreto, datata 1515, una delle prime testimonianze del culto lauretano alle nostre latitudini, dove tale culto fu sicuramente introdotto proprio dalle maestranze caronesi attive sull’importante cantiere marchigiano. La tradizione racconta di un bosco generoso di legna, di una madre indigente e di una figlia sordomuta che liberano dalle erbacce e dall’edera il vetusto affresco mariano3. A quella scoperta seguì, improvvisa, la guarigione della fanciulla e a questo evento miracoloso è da ricollegarsi l’edificazione del Santuario a partire dal 1624 e terminato nelle sue parti principali entro il 16464. La semplice facciata a due ordini è preceduta da un esile protiro con colonne e pilastri tuscanici in granito posti su alti basamenti in porfido, che protegge un’altra immagine della Madonna di Loreto, seicentesca. La Vergine regge Gesù appoggiato sul tetto della Santa Casa, che la tradizione vuole trasportata per “ministero angelico” da Nazareth nel 1291, quando i crociati furono espulsi definitivamente dalla Palestina, dapprima verso l’Illiria, per poi approdare il 10 dicembre 1294 in territorio di Loreto. Ai lati un grazioso portico a tre fornici su pilastri in porfido, decorato da un motivo di putti danzanti tra festoni penduli, preludio di tante figure angeliche che arricchiscono l’interno, vero e proprio scrigno della cultura figurativa barocca in territorio ticinese. Le pareti esterne risultano in parte ricoperte da una malta frammista alla polvere di porfido ricavato dall’Arbostora, una “bella pietra rosata di questo monte, massa pastosa di colore caldo come le figure femminili di Renoir che spiccano accese di un ardore delicato sul fondo verde, pietre preziose che risaltano sul velluto smeraldino”5.
L’interno presenta una semplice planimetria a croce latina, con navata unica scandita da due campate voltate a botte lunettata, un coro rettangolare e due cappelle laterali che costituiscono i bracci del transetto, al cui centro si alza la cupola su pennacchi con lanternino. Si tratta di una struttura sobria, essenziale dal punto di vista architettonico e perfettamente funzionale ai riti postridentini che desideravano convogliare l’attenzione verso la mensa eucaristica. A esaltare la grandezza divina e a coinvolgere emotivamente i fedeli, sempre secondo gli impulsi indiretti dei principi teorici affermatisi col Concilio di Trento concluso nel 1563, concorrerà l’apparato decorativo, pittorico e plastico, che investe gli spazi interni e in primis il presbiterio con l’altare maggiore, luogo privilegiato della celebrazione liturgica, centro sacro per eccellenza, attorno al quale la stessa chiesa è stata costruita6. L’affresco votivo lauretano, circondato da putti reggi cortina in grisaglia intonata sul verde, è avvalorato da due imponenti colonne in marmo nero lariano di Varenna con capitelli corinzi. La mensa è dotata di un prezioso paliotto, tra i più significativi e pregiati della nostra regione, in tarsie marmoree e pietre dure. Importato da Genova con il relativo tabernacolo entro il 1670 dalle maestranze caronesi attive nel capoluogo ligure, presenta al centro un bassorilievo in marmo di Carrara raffigurante la Sacra Famiglia con San Giovannino, che ricorda in parte la produzione scultorea di Giovanni Battista Casella (1623-78) e tutt’intorno girali di foglie d’acanto, rose e gigli dall’evidente simbologia mariana, realizzato tra l’altro con broccatello di Francia, alabastro di Sestri Levante, giallo di Siena, nero di Portoro, rosso di Narbonne, il tutto su una base di marmo carrarese7. Il visitatore subisce il fascino e l’incanto dei trapassi di colori, della lucentezza e degli scintillii delle pietre semipreziose e viene immediatamente proiettato in un’altra realtà, quella opulenta della Genova del Secolo d’oro, la Superba, quando i caronesi avevano il monopolio del commercio dei marmi e quando un esponente di spicco della famiglia Casella, Daniele, risultava, tra le folte maestranze d’arte forestiere di stanza nel capoluogo ligure, quello gravato dell’imposta comunale più elevata.
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La ricca e sontuosa decorazione a stucco è in parte opera del caronese Alessandro Casella (15961656/57), che lascia la sua firma e la data, 1646, in una targa al di sopra del cornicione del presbiterio ai piedi del Re Davide. Il suo operato (suo e di alcuni collaboratori, vista l’ampiezza della decorazione) è sicuramente da riconoscere nell’area presbiteriale, nella calotta della cupola, nei quattro angeli dei pilastri angolari dell’incrocio del transetto e nella controfacciata. Le statue attorno all’altar maggiore sono imponenti e maestose: al centro è il busto dell’Eterno in Gloria con in mano il globo, ai lati due delle tre virtù teologali, la Fede che ostenta la croce e il calice, e la Speranza con l’àncora, mentre al di sopra del cornicione sono assisi i profeti Mosè e il già ricordato Re Davide. I numerosi santuari mariani sorti nella regione dei laghi prealpini mettono in luce sì la figura della Madre di Cristo, scardinata nella confessione d’oltralpe, ma ricordano al fedele che il fulcro del loro credo cattolico romano rimane Dio Padre. La volta a botte del presbiterio è invece dedicata alla Vergine e si suddivide in tre campiture dipinte, a destra l’Annunciazione, al centro la Vergine in Gloria e a sinistra la Natività, da assegnare a Giacomo (1620-67) e Andrea (1619- ante 1672) Casella, inserite in una ricca decorazione a stucco. Busti di figure angeliche incoronate indicano un arcigno mascherone demoniaco dalla cui bocca pende un lembo di stoffa sfrangiato, come a indicare il trionfo del Bene sul Male. Alcuni putti dalle membra in tensione e dai volti contratti poggiano su volute in posture funamboliche e reggono turgidi cespi di frutta annodata. A queste figure, quasi a ribadire gli infiniti moti dell’animo umano, se ne alternano altre più composte e rilassate, dalle membra affusolate e armoniche, i cui tratti somatici distesi sembrano intonare una soave lode a Maria. Addossate ai pilastri d’entrata del coro, quattro splendide figure angeliche in stucco muovono un armonico passo di danza e rivolgono lo sguardo verso il fedele, invitandolo attraverso un’eloquente gestualità a condurre la propria attenzione all’immagine taumaturgica della Madonna di Loreto. I loro volti risultano
pervasi, secondo modulazioni proprie a ognuna di loro, da una sottile vena melanconica; a ravvivarli è la luce che scorre sulla capigliatura a boccoli, sulle vesti fluttuanti trattate con decise pieghe diagonali che incidono in profondità la superficie generando sensibili effetti chiaroscurali. La presenza mariana ci accompagna dal presbiterio alla soglia d’entrata, dove in controfacciata troviamo il dipinto dell’Immacolata inserito in una ricca cornice a stucco. Ai lati sono invece due monumentali statue raffiguranti i Santi Giorgio e Andrea Apostolo, che fungono da filo conduttore tra gli edifici ecclesiastici di Carona, in quanto stanno a rammentare la titolazione della chiesa parrocchiale. San Giorgio indossa una corazza di soldato romano con elmo piumato ed è ritratto mentre sconfigge con una lancia il drago dal collo ritorto; l’Apostolo Andrea impugna in modo deciso la croce decussata (a X) che ricorda il suo martirio e tiene in mano un pesce, emblema sia della sua attività di pescatore, sia dell’invito di Gesù che lo aveva designato “pescatore di uomini”. Ambedue sono sorrette da due busti di dolenti e canuti telamoni. Dopo la statuaria di San Giorgio che uccide Satana sotto forma di drago, simbolo del male assoluto e di Sant’Andrea che sceglie la via del bene abbracciando la parola di Cristo, altre due colossali sculture in alto rilievo dei Santi Girolamo e Agostino, addossate alle pareti laterali del coro, esortano gli uomini di buona volontà a perseverare nella Giustizia e nella Verità. Le due sculture si appoggiano su una mensola sorretta da cariatidi che si tramutano dalla vita in giù in due energiche e ritorte code anguilliformi, le cui estremità trapassano a loro volta in una delicata struttura piumata. Se dal punto di vista iconografico appartengono di diritto al vasto repertorio metamorfico di derivazione manierista, stilisticamente queste cariatidi sembrano preannunciare soluzioni di stampo barocco, dove tutto appare animato da un’energia fisica e spirituale che investe completamente le figure. Il loro volto incorniciato da una mossa capigliatura di fluenti boccoli appare di una dolcezza melanconica: la bocca è semiaperta
e gli occhi, quasi a comunicare al fedele lo sforzo fisico a cui le membra vengono sottoposte, sono umilmente rivolti a terra. Il loro corpo sottilmente sensuale è appena velato da un trasparente drappo serico, lavorato con sciolte e fluide pieghettature ritmate in diagonale, dotate di un sottile pittoricismo, non lontano da certe soluzioni della coeva produzione pittorica diffusasi a seguito di Pietro da Cortona. Sant’Agostino è raffigurato in abiti vescovili, indossa la mitria e impugna il pastorale in una mano, mentre con l’altra ostenta in modo energico il Libro Sacro. In posizione speculare è San Girolamo, il cui corpo è sottoposto a una energica rotazione: con le possenti braccia sostiene il Libro aperto e poggia un piede su due volumi che ci ricordano il suo ruolo di traduttore in latino della Bibbia, la cui versione detta Vulgata fu riconosciuta dal Concilio di Trento. Accanto a Girolamo c’è un leone dall’aspetto un po’ goffo ma espressivo, che secondo una leggenda gli divenne amico, in quanto il Santo estrasse una spina da una sua zampa e la cui gratitudine cancellerà nel re degli animali l’innata ferocia. Questi ritratti dei Dottori della Chiesa rappresentano uno dei vertici assoluti della produzione artistica di Alessandro Casella e la sintesi del suo intenso operato tra la prima fase valtellinese e la seconda presso la prestigiosa corte sabauda di Torino. Casella realizzò figure portatrici di un vigore e di un’eloquenza che in parte possiamo definire allineate all’incipiente cultura barocca, sia attraverso un sapiente uso dei panneggi di derivazione ancora morazzoniana, lavorati ad ampie campiture con profonde infossature dai quali nascono corposi effetti chiaroscurali, sia cogliendo i suoi santi in energiche e possenti posture. Queste figure connotate da una gestualità incisiva e declamatoria e da volti severi e ascetici, si espandono nello spazio con un impeto e una forza tipici del nuovo linguaggio artistico. Siamo di fronte a santi che attraverso la loro fisicità additano ai fedeli verità assolute e si esprimono in un linguaggio diretto e concreto. La decorazione della cupola è caratterizzata da una ricca varietà di elementi vegetali trattati secondo moduli naturalistici e disposti in una fastosa inte-
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laiatura ornamentale: girali di foglie d’acanto tessono una sottile trama, attorno alla quale trovano posto testine alate di putti, valve di conchiglie, serti di rose e festoni carichi di frutta e fiori annodati in sottili nastri svolazzanti. Nelle cappelle che fungono da transetto, quella di sinistra è dedicata a San Giuseppe. La pala d’altare è attribuita a Giacomo Casella e raffigura San Giuseppe e Sant’Orsola che adorano la Madonna di Loreto, commissionata dalla famiglia Solari verso il 1659. Il committente, verosimilmente un sacerdote in quanto indossa una cotta bianca con stola rossa e tiene in una mano un libro, è raffigurato in un ovato in basso sulla sinistra. In un cielo dorato circoscritto da nuvole plumbee dove fanno capolino testine di putto alate è la Vergine col Bambino, i cui sguardi sono rivolti ai due Santi. Il bastone fiorito di San Giuseppe lo caratterizza come prescelto sposo di Maria, ricordando la volontà divina che fece di quel giovane il padre di Cristo. L’iconografia di Sant’Orsola ribadisce la volontà di rifiutare il paganesimo per la Verità cristiana. La bellissima principessa, figlia di un re bretone del IV secolo, venne infatti massacrata con undicimila vergini dagli Unni di Attila, per aver tra l’altro rifiutato di sposare il re barbarico. Lungo le pareti laterali della stessa cappella trovano posto due splendide statue in stucco a grandezza naturale. A sinistra è la stupefacente e sensuale Assunzione di Maria Maddalena in cielo: un gruppo di ammiccanti e gaudenti testine alate e paffuti putti in pose spericolate tra nuvole sollevano la Maddalena avvolta in una rutilante veste solcata da incisive pieghe diagonali, che lasciano scoperti il busto e le spalle, su cui sciamano le vitalistiche ciocche dei lunghi capelli che incorniciano il suo volto estatico. Figura straordinaria e di grande maestria della quale dispiace non conoscere l’autore, che va verosimilmente ricercato tra la schiera di caronesi attivi a Genova e in contatto con la cultura figurativa sviluppatasi nella seconda metà del Seicento tra Pierre Puget e Filippo Parodi8. Allo stesso ambito culturale, ma di mano diversa e forse leggermente più tarda, è l’introspettiva figura di San Gregorio Magno, con tiara e
colomba dello Spirito Santo che volteggia attorno al suo capo, allusione all’ispirazione divina dei suoi scritti. Nel VI secolo, questo papa esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa e nell’azione missionaria. Conosciuto come uomo d’azione pratico e intraprendente, ebbe un ruolo determinante nel campo della liturgia e del canto sacro. Iconograficamente richiama l’autorevolezza dei primi legislatori all’interno della Chiesa che a Carona, insieme a San Gregorio e Sant’Agostino accompagnano il culto mariano. A questo abile plasticatore riteniamo debbano essere assegnate anche le due belle statue presenti nella cappella dedicata a Sant’Antonio da Padova. La prima, che completa la serie dei Dottori della Chiesa, raffigura Sant’Ambrogio: il vescovo milanese indossa una pianeta con mitria e regge con una mano il flagello come allusione alla sconfitta inflitta ad Ario e ai suoi seguaci. Dirimpetto è Santa Margherita, protettrice delle puerpere, che addita il crocefisso a Satana, il quale le era apparso sotto forma di drago e la divorò. La croce che teneva in mano fece sì che le viscere del mostro si spalancassero e ne uscisse illesa. Si tratta di una giovane nobile donna dai tratti somatici delicati, avvinghiata in una elegante veste con mantello dalle elaborate pieghe che danno luogo a vibranti effetti chiaroscurali. In una sfilata di Santi e Vescovi che lottano contro le eresie, non poteva mancare la figura emblematica della Controriforma cattolica nelle nostre pievi prealpine, l’arcivescovo di Milano San Carlo Borromeo, ritratto nella pala d’altare di questa cappella di sinistra, raffigurante l’Apparizione del Bambino Gesù ai Santi Antonio da Padova e Carlo Borromeo, opera datata e firmata da Andrea Casella, 1659. Uniformato da una luce calda e dorata, l’impianto compositivo risulta suddiviso in due registri: quello celeste con il piccolo Gesù sostenuto amorevolmente da due figure angeliche contrapposte e quello terreno dove sono inginocchiati in adorazione, il volto rivolto verso l’alto, San Carlo e Sant’Antonio, quest’ultimo nel consueto saio bruno francescano con ai piedi il giglio, simbolo di castità. Quasi un secolo dopo i primi e articolati interventi di alcuni membri della famiglia Casella, sarà
il pittore di Carona Giuseppe Antonio Petrini (16771755/59) a lasciare sulle pareti della seconda campata del Santuario mariano una testimonianza di grande bellezza e intensità spirituale. Petrini, considerato a giusta ragione uno degli artisti più significativi del Settecento italiano, rivela qui tutta la sua bravura. L’ingresso laterale di sinistra è contornato da due splendidi busti di telamoni monocromi dorati, le cui membra in forte tensione, realizzate con sommarie ma incisive pennellate, attente a rilevare il gioco delle masse plastiche, sostengono un cartiglio sfrangiato. Su uno sfondo neutro, chiaro, in cui prevalgono le tonalità biancogrigie e dove i pochi volumi architettonici semplificati all’estremo sono appena accennati da linee geometriche, è impostata lungo una diagonale la Presentazione di Gesù al tempio, mentre sulla parete destra, la Disputa di Gesù con i Dottori. All’interno di questa mistica spazialità, scevra da qualsiasi elemento ornamentale, sono inseriti i protagonisti delle vicende narrate, avvolti in sommari e semplici panneggi, trattati con ampie superfici dove si accostano e si contrappongono intense tonalità calde e fredde. Tutta l’attenzione del Petrini è posta sugli inconfondibili volti degli anziani e sulla loro virile gestualità, che lasciano trasparire una sensibile tensione morale e spirituale, non lontana da quella che egli stesso poteva osservare sui gruppi plastici realizzati da Alessandro Casella nello stesso Santuario. Architettura, pittura, scultura, vigore manierista, sensualità barocca, essenzialità petriniana, violenza ed estasi, bellezza severa e ascetica dei Santi, giocosa ilarità di serafini, cherubini e putti. Come gli angeli trasportano la Santa Casa, così anche il visitatore del Santuario della Madonna d’Ongero viene rapito in una celeste dimensione, dove l’intransigente ortodossia cattolica sottesa al dotto programma iconografico e iconologico è allietata da grazia e armonie angeliche.
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Veduta generale della de-
corazione plastica e pittorica della navata in direzione del coro, dove si conserva l’altare maggiore, le cui due colonne in marmo nero di Varenna fungono da mostra all’affresco della Madonna lauretana al di sopra della Santa Casa, 1515.
Sulla parete destra della
navata possiamo scorgere a livello della prima campata la Natività di un anonimo modesto pittore della metà del Seicento; un secolo più tardi G.A. Petrini realizza la Disputa di Cristo al Tempio.
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Sul lato sinistro è la Visita-
zione della metà del Seicento e, al di sopra della porta laterale incorniciata da due Telamoni, si trova l’intensa Presentazione di Gesù al Tempio di G.A. Petrini (metà del XVIII s.).
Veduta d’insieme della con-
trofacciata, con al centro l’Immacolata circondata da una ricca decorazione a stucco tra cui i Santi Giorgio e Andrea, di A. Casella, 1646-48.
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p. 34 s. L’imponente e splendida figura in stucco di San Girolamo che regge tra le mani la Vulgata, colta in un moto rotatorio ascensionale, è il capolavoro di A. Casella, 1646-48. p. 34 d. Ai quattro pilastri che reggono la cupola all’incrocio dello pseudo transetto, sono addossati suadenti Angeli danzanti, in grandezza naturale, il cui volto risulta pervaso da una sottile vena malinconica (A. Casella, 1646-48). p. 35 s. Sulla parete destra della cap-
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pella di Sant’Antonio da Padova campeggia la bella e elegante statua in stucco di Santa Margherita con il drago sconfitto, risalente alla seconda metà del Seicento, opera di un anonimo plastificatore verosimilmente cresciuto a contatto con l’ambiente artistico genovese. p. 35 d. Sul lato destro del presbiterio si può ammirare la statua in stucco di Sant’Agostino di A. Casella, 1646-48, sostenuta dal busto di una cariatide con coda anguilliforme intrecciata.
La cappella di San Giuseppe
è arricchita da una pala d’altare con la Madonna di Loreto appare a San Giuseppe e Sant’Orsola di Giacomo Casella (metà del XVII s.). Sulla parete sinistra si conserva una delle opere più spettacolari del Santuario caronese, ossia l’Assunzione di Maria Maddalena sollevata in cielo da un gruppo di ammiccanti e gaudenti putti in pose spericolate e testine alate, realizzata da un anonimo artista formatosi verosimilmente a Genova nella seconda metà del Seicento a contatto con il linguaggio barocco di Pierre Puget e Filippo Parodi. p. 38
Dettaglio del prezioso pa-
liotto intarsiato in marmi policromi dell’altare maggiore, importato da Genova entro il 1670, con al centro su di una lastra in marmo di Carrara la Vergine col Bambino, San Giovannino e San Giuseppe. p. 39
La calotta interna della cu-
pola appare rivestita da una fastosa intelaiatura ornamentale a stucco, con elementi vegetali trattati secondo moduli naturalistici, opera di A. Casella e della sua bottega (1646-48). Nei quattro pennacchi sono dipinti i Dottori della Chiesa (metà XVIII s.), che risentono in parte della grande lezione petriniana.
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