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Rivista mensile a diffusione nazionale - anno V - num. 6 - Giugno 2009
La Bibbia di Ripacandida
Gli acquerelli di Michel Ciry
Beato Angelico
FORENZA Foto Archivio APT Basilicata
Redazione Associazione di ricerca Culturale e artistica C.da Montocchino 10/b 85100 - Potenza Tel e Fax 0971 449629 Redazione C/da Montocchino 10/b 85100 - Potenza Mobile 330 798058 - 392 4263201 - 389 1729735 web site: www.in-arte.org e-mail: redazione@in-arte.org Direttore editoriale Angelo Telesca editore@in-arte.org Direttore responsabile Mario Latronico Impaginazione Basileus soc. coop. – www.basileus.it Stampa Arti Grafiche Lapelosa - tel. 0975 526800 Concessionaria per la pubblicità Associazione A.R.C.A. C/da Montocchino, 10/b 85100 Potenza Tel e fax 0971-449629 e-mail: pubblicita@in-arte.org informazioni@in-arte.org Autorizzazione Tribunale di Potenza N° 337 del 5 ottobre 2005 Chiuso per la stampa: 9 giugno 2009 In copertina: Raffaello, Madonna con Bambino (piccola Madonna Cowper), tavola, Washington, National Gallery
Sommario Editoriale
Arte ed eternità di Angelo Telesca ......................................................... pag.
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Persistenze
Velia, una potenza sul Tirreno di Gianmatteo Funicelli.................................................. pag. 5-7 Colobraro: la terra dei serpenti di Francesco Mastrorizzi............................................... pag. 8-9 La Bibbia di Ripacandida di Giuseppe Nolé........................................................... pag. 10-11 Una preziosa miniera di storia di Francesco Mastrorizzi............................................... pag. 12-13
Cromie
Nicola Saracino: una poetica arcaica di Chiara Lostaglio......................................................... pag. La lirica atmosfera di August Macke di Monica De Canio....................................................... pag. Una passione artistica espressa tra Acqua e Fuoco di Fabrizio Corselli......................................................... pag. Gli acquerelli di Michel Ciry di Piero VIotto................................................................ pag.
14-15 16-17 18-19 20-22
Eventi
Raffaello e Urbino: storia di un eterno legame di Giovanna Russillo...................................................... pag. 23-25 Beato Angelico: l’alba del Rinascimento di Lori Adragna.............................................................. pag. 26-27 Arteknè di Fiorella Fiore.............................................................. pag. 28
Forme
Un inedito di Giacomo Colombo di Gerardo Pecci............................................................ pag.
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Trame
Jonh Keats, l’ultimo canto di Andrea Galgano......................................................... pag.
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La redazione non è responsabile delle opinioni liberamente espresse dagli autori, né di quanto riportato negli inserti pubblicitari.
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Arte ed eternità di Angelo Telesca
Anelo all’eternità perché lì troverò i miei quadri non dipinti e le mie poesie non scritte. Così scriveva il poeta, pittore e filosofo libanese Kahlil Gibran a proposito della sua produzione artistica. Un richiamo al lato mistico e contemplativo dell’arte che ogni artista consegna alla sua produzione, qualunque sia il periodo storico in cui la realizza. È stato sicuramente così per i diversi pittori che si sono susseguiti nel dipingere gli affreschi della Chiesa di San Donato a Ripacandida, descritti da Giuseppe Nolè; lo è di sicuro l’opera pittorica di due maestri dell’arte italiana, Raffaello e Beato Angelico, di cui vi presentiamo le recensioni delle rispettive mostre di Urbino e Roma ad opera di Giovanna Russillo e Lori Adragna. Religiosità artistica, elaborazione intellettuale, passione e ricerca della pace interiore: sono queste le suggestioni che suscitano, in modi differenti, i diversi articoli che in questo numero compongono la rubrica Cromie: Saracino, Macke, Viola Massa e Ciry, per un percorso di colori, luci ed emozioni che non conosce confini geografici e temporali. Non vogliamo però dimenticare la promozione del territorio ed ecco allora due “strane” suggestioni artistiche che ci provengono dalle catacombe ebraiche ritrovate nel territorio di Venosa e dal consolidato legame magia-superstizione che ruota attorno al comune di Colobraro e al suo castello. Arte ed eternità. Un connubio inscindibile che attraversa e permea ogni rappresentazione artistica.
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Persistenze
Velia, una potenza sul Tirreno
Dopo la caduta di Focea, fiorente colonia greca in Asia Minore sconfitta duramente dai Persiani, i profughi del luogo navigarono a lungo verso l’occidente alla ricerca di un nuovo insediamento. Si documenta di un primo stanziamento dei Focei ad Alalia (in Corsica), dove si avvertì ben presto il centro del Mediterraneo in preda ad una forte minaccia a causa della grande intraprendenza di questo popolo costituito da abili navigatori, i quali avrebbero causato gravi problemi alle reti commerciali degli Etruschi e Cartaginesi. Questi ultimi si unirono per un forte scontro sul mare verso il popolo straniero, a difesa dell’egemonia marittima. Tuttavia i Focei riuscirono a darsi vittoria, però a caro prezzo poiché della loro flotta costituita da sessanta navi ne uscirono intatte dal conflitto poco più di venti. Dopo la grossa perdita di uomini, i navigatori decisero di abbandonare Alalia
di Gianmatteo Funicelli
dirigendosi nuovamente per i mari, sostando presso le coste di Reggio Calabria. Risalendo il litorale, si stanziarono sul promontorio dell’Enotria (c.d.“città dei vigneti”) dove vi fondarono pressappoco nel 540 a.C. la polis greca di Elea, meglio conosciuta successivamente col nome latino di Velia (le fonti a riguardo attestano, comunque, una preesistenza insediativa del luogo anteriore ai Focei). La possente città, oggi Ascea (SA), dominata da due porti marittimi capaci di collegare traffici e merci di scambio, e delineata geograficamente su di un’imponente insenatura, divenne ben presto una notevole potenza tirrenica. La storiografia ricorda l’antica città difficilmente coinvolta nelle crisi politiche magno-greche, mentre evidenzia la presenza di due illustri studiosi, Parmenide e Zenone (di cui rimane testimonianza scultorea).
Velia. Scorcio del teatro.
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Vero vanto dell’antica colonia rimane senza dubbio la struttura urbanistica, la quale profila tre diversi centri. Il primo è il piccolo quartiere settentrionale, in funzione dell’originaria attività portuale sulla foce del fiume Alento. Esso presenta reperti archeologici affini ad un insediamento preistorico costituito da
Velia. Veduta degli scavi.
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elementi tombali pre-greci non del tutto identificati. Il secondo nucleo caratterizza l’Acropoli, sita nella zona esterna delle mura, su di un promontorio in passato delimitato dal mare su tre lati. Ricerche archeologiche parlano di un antico insediamento distrutto poi dalla nuova fisionomia della sommità, su
cui venne eretto un grandioso tempio ionico, ex voto ad Athena (480 a.C circa), del quale tutt’oggi non ne rimane che lo stereobate. Il quartiere meridionale, invece, avrebbe dovuto configurarsi certamente come epicentro politico della città, dato che gli scavi sul posto portarono alla luce i resti di un’agorà. Vi è nell’area meridionale del sito un complesso formato da un criptoportico con giardino centrale e una serie di spazi prospicienti sull’esterno, da ritenersi sicuramente come una palestra databile nella costruzione al I° sec. a.C. Il recinto murario dell’intero quartiere presenta diversità di materiali da costruzione, che vanno dall’utilizzo di blocchi bugnati a filari di mattoni in cotto, tanto da far luce sui continui rifacimenti del luogo dovuti a crolli e depressioni del terreno fortemente circondato dal mare. Da annoverare è anche la “ Porta Rosa” (350-340 a.C.), una delle
maggiori scoperte di Velia. Con funzione di viadotto, ci illustra l’unico esempio di arco greco del IV secolo (composto di tufo senza malta) a noi pervenuto in perfetto stato di conservazione. Sul finire del 300 a.C., la porta fu murata a causa di continue frane. Fu scoperta nel 1965 dal Soprintendente salernitano Mario Napoli, il quale la chiamò “Rosa” in omaggio alla consorte. Dove si trovano i resti della pavimentazione del piazzale adiacente all’Acropoli, vi è ubicata la Cappella Palatina (edificio paleocristiano del V secolo), oggi adibita a sede museale. All’interno vi sono allestite sculture quali la testa di Parmenide, il noto medico della scuola eleatica, antefisse, lastre dedicatorie e ritratti di età Giulio-Claudia, a testimonianza dell’ultimo splendore della città, caduta successivamente nell’oblio intorno al IX sec. d.C. per incursioni piratesche.
Velia. Scavi della città romana.
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Persistenze Colobraro, arroccato su di un’altura come tanti altri paesi lucani, si sviluppa intorno ad un nucleo originario avente come fulcro l’antico castello medievale, del quale oggi restano soltanto pochi ruderi. Il maniero fu edificato nel XIII secolo e, oltre a essere abitato dai ministri inviati da principi e baroni longobardi, fu residenza dei signori del luogo. Tra le famiglie che si succedettero nel dominio del territorio vi furono i Chiaromonte, i Sanseverino, i Carafa, i Donnaperna e i Brancalasso. Dai ciclopici ruderi del palazzo baronale è possibile ammirare uno splendido panorama, forse il più ampio di tutta la regione, poiché la rocca domina l’intera valle del fiume Sinni fino alla foce. Colobraro è ben noto ai lucani, ma anche oltre i confini regionali, per un motivo poco gratificante, oltre che del tutto infondato. Da almeno un secolo, infatti, gli è stata rifilata la triste nomea di portare sfortuna. La convinzione è talmente diffusa che nei paesi vicini la gente si riferisce a Colobraro appellandolo in
Colobraro: la terra dei serpenti di Francesco Mastrorizzi
modo scaramantico “quel paese”, per la credenza che la semplice evocazione del nome possa causare disgrazie. Molte le cause di questa superstizione. In primo luogo il nome del paese, secondo il Racioppi, deriva dal latino colubrarium, indicante un territorio popolato da serpenti. Poi si aggiunse un aneddoto risalente a prima della seconda guerra mondiale e riguardante l’allora podestà Biagio Virgilio, avvocato di grande fama, ma tacciato, probabilmente per invidia, di essere un menagramo e di conseguenza considerato “innominabile”. Le antipatiche credenze su Colobraro, alimentate dai campanilismi, potrebbero essere dovute anche al forte radicamento popolare del rito della magia e alla presenza in paese, nel passato, di fattucchiere capaci di allontanare il malocchio. Ne è una testimonianza il soggiorno nell’autunno del ’52 del famoso antropologo Ernesto De Martino (tornato successivamente nell’estate del ’54), il quale poté raccogliere
Veduta aerea di Colobraro. Sulla sommità del colle sono visibili i resti del suo castello.
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Francisco Goya, L’esorcismo, 1797-1798, olio su tela, cm. 42x32, Madrid, Museo Lázaro Galdiano.
Francisco Goya, Il grande caprone, 1797-1798, olio su tela, cm. 44x31, Madrid, Museo Lázaro Galdiano.
non poco materiale per il capitolo dedicato alla fascinazione e al malocchio del suo libro “Sud e magia”, testo caposaldo dell’antropologia italiana. È anche vero, però, che De Martino visitò molti altri luoghi della Basilicata e che il fattore del magico può considerarsi comune a tutti i paesi dell’entroterra lucano.
Tuttavia la particolare etichetta di paese da non nominare potrebbe rappresentare un veicolo di promozione per Colobraro, un fattore da sfruttare per un turismo mirato, di tipo esoterico, nonché un risarcimento morale per gli incolpevoli abitanti di questo paese.
Scorcio dei ruderi del castello di Colobraro.
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Persistenze
Una antica tradizione vuole che Ripacandida sia sorta a seguito della distruzione dell’abitato romano di Candida latinorum; caduto l’impero romano i cittadini, per difendersi dalle invasioni barbariche, scelgono il colle e costruiscono le loro case intorno al piccolo tempio dedicato a Giove. La Chiesa di san Donato è stata definita da Sabino Iusco la “piccola Assisi di Basilicata”. La serie dei santi dell’ordine dei Francescani effigiati sui pilastri, Francesco, Antonio, Ludovico, Bonaventura, non lascia dubbi sulla destinazione ad una comunità di frati dell’intero complesso di San Donato; pare che la chiesa sia sorta su un precedente tempio paleocristiano di pertinenza del vescovo di Rapolla. La decorazione interna è composta principalmente da una serie molto bella di affreschi. Il ciclo della Genesi ha inizio nella terza campata, a sinistra guardando l’altare, e si estende a tutta la campata mediana, con le storie bibliche fino a quelle di Giuseppe. La prima campata invece è dedicata al Nuovo Testamento, dall’Annunciazione alla Resurrezione. Tra gli affreschi della terza e seconda campata e quelli della prima vi è un netto distacco di stile e di tempi oltre che di programmi, con il subentro di un nuovo pittore: alla coerente e simmetrica spartizione degli spazi succede infatti una disorganica distribuzione delle figure nel ciclo evangelico. La collocazione delle scene evangeli-
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La Bibbia di Ripacandida di Giuseppe Nolé
che nella prima campata, ed in particolare il sepolcro vuoto sul primo pilastro, a destra entrando, e il Cristo Risorto su quello a sinistra, suggeriscono una riflessione profonda: la lettura della storia della salvezza a partire dalla Resurrezione e dal Vangelo, per poi capire e chiarire la Genesi e la altre storie bibliche e la stessa vita dei santi alla luce della passione, morte e resurrezione di Gesù. La decorazione pittorica della Chiesa si concluse verso la metà del ‘700 con ulteriori immagini di santi francescani: san Diego, san Giovanni da Capestrano, san Giacomo della Marca, presentati anch’essi sui pilastri, a metà busto ed in finte nicchie. Manomissioni, alterazioni intervenute nel tempo e perdita di immagini per sovrapposizione di altari e lapidi barocche, nonché di una cantoria, hanno distrutto interi brani di affreschi, soprattutto nelle pareti laterali. La stesura degli affreschi denuncia quindi almeno tre successivi interventi di pittori diversi, a prescindere da quello della metà del XVII sec. dovuto all’opera modesta di Giampietro da Brienza, visibile sui pilastri e sulla fronte dell’arco trionfale. Per la valenza storica ed artistica dei suoi affreschi il Santuario di San Donato di Ripacandida è gemellato con la Basilica di San Francesco di Assisi, con cui porta avanti iniziative di valorizzazione del patrimonio artistico e spirituale che derivano dalla bellezza di questo ciclo pittorico.
Persistenze Una testimonianza di notevole interesse storico e archeologico del culto dei morti nell’antichità. Un patrimonio unico di attestazione funeraria ebraica nell’Italia meridionale. Un’importante documentazione epigrafica giudaica. Un raro esempio dell’integrazione tra cultura latina, ebraica e cristiana. Tutto questo rappresentano le catacombe ebraiche situate nella collina della Maddalena, appena fuori dall’abitato di Venosa. Le catacombe erano reti di corridoi sotterranei usati per la sepoltura, con pareti e pavimenti occupati da loculi chiusi da lastre di marmo o da tegole. Vi erano, inoltre, delle nicchie (cubicula), che contenevano più sepolcri e che potevano essere dotate di un arco intonacato e affrescato (arcosolium). Quelle ebraiche si differenziavano da quelle cristiane in quanto prive dei tipici ambienti adibiti alle celebrazioni a suffragio
Resti di sepolture nelle catacombe ebraiche di Venosa.
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dei morti, considerate dalla religione ebraica pratica impura, e per i decori a fresco con simboli sacri. Il complesso catacombale venosino, costituito da ipogei scavati nel tufo vulcanico, noto agli studiosi sin dal XVI secolo, ma esaminato con maggior rigore solo dopo la metà dell’Ottocento, è stato a lungo trascurato e in parte spogliato. Inoltre, la natura friabile del terreno ne ha sempre reso difficile la conservazione, tanto che negli ultimi anni è stato necessario un lungo lavoro di restauro e di consolidamento, per rendere visitabile almeno una parte di questo ipogeo. Il sito testimonia, attraverso le epigrafi rinvenute, la presenza a Venosa tra il IV e il IX secolo d.C. di una consistente e potente comunità ebraica. Dallo studio delle iscrizioni, in lingua ebraica, latina e greca, emerge la peculiarità del nucleo di ebrei venosini:
Una preziosa miniera di storia di Francesco Mastrorizzi
la loro origine ellenistica e non palestinese o mesopotamica. Il loro arrivo tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C., in un periodo economicamente prospero per la città, secondo un’ipotesi del prof. Francesco Grelle, sarebbe da collegare alle attività di manifattura tessile dei ginecei imperiali, forse in relazione all’abilità nella tessitura e nella tintura di stoffe. Dalle iscrizioni decifrate si apprende che gli ebrei presenti a Venosa erano sicuramente bene integrati. Tra di essi vi erano proprietari terrieri, commercianti, artigiani e medici, e avevano propri sacerdoti e propri templi. Alcuni, inoltre, erano personaggi ricchi ed influenti e ricoprivano cariche importanti nell’amministrazione cittadina. Risulta anche che la comunità era molto legata alla terra d’origine, con la presenza in città di emissari venuti da Gerusalemme. Particolare rilievo all’interno delle catacombe ha un
arcosolio affrescato con la raffigurazione del candelabro a sette braccia (menorah), affiancata da altri simboli tipici del patrimonio iconografico e religioso ebraico: il corno, la palma, il cedro, l’anfora d’olio. La tomba sottostante si caratterizza per il rivestimento in marmo, che fa presupporre la sua appartenenza a una personalità di riguardo. Ma tutto il sito è affascinante da visitare, per la sensazione che si prova ad addentrarsi nella collina attraverso gli stretti cunicoli, per la cura con cui sono scavati nicchie e arcosoli, per l’atmosfera che fa quasi percepire lo stato d’animo di chi prima scavava e poi utilizzava quelle gallerie per il culto dei propri cari scomparsi, ma anche per la suggestione resa dall’illuminazione soffusa proveniente dal basso, che sembra quasi avere rispetto di uno spazio sacro che con molta fatica è sopravvissuto per secoli attraverso la storia.
La Menorah affrescata su un arcosolio all’interno delle catacombe ebraiche.
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Cromie “È l’odore del mare di Terracina ad accompagnare la mia mano sulla tela, la fatica dei pescatori e la salsedine sul viso”. E poi: “L’aspro odore di terra bagnata sale dalle mie tele quando vedo i contadini lavorare i campi, sento il profumo dei tini nelle cantine di Barile”. Sono quelle stesse che furono care a Pasolini e che rese immortali nel suo “Vangelo secondo Matteo”, che il poeta regista ha girato anche a Barile. Sono a loro modo religiose le espressioni artistiche di Nicola Saracino, effondono un senso di fatica, talvolta sofferenza, eppure vige una serena partecipazione, una prova di vita, una preghiera; la pietas popolare di un tempo non lontano. Da oltre cinquant’anni il pittore si propone con discrezione ai nostri occhi. L’artista ha lontane radici arbereshe ossia albanesi, quelle che provengono dal XVI secolo in Basilicata. E’ nato a Terracina, ma in giovane età ritorna con la famiglia a vivere ai piedi del Vulture, a Barile nel Potentino. E’ da molto tempo affetto da una invalidità permanente, che tuttavia non gli impedisce di conti-
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Nicola Saracino: una poetica arcaica di Chiara Lostaglio
nuare ad esercitare, con pregevoli risultati, l’attività di poeta dei colori. Dai suoi oli, l’arte si trasferisce anche nella minuziosa attività di realizzatore di navi d’epoca. Il suo carnet di riconoscimenti si arricchisce sempre più: fra i più recenti il Premio Caravaggio a Milano; è stato insignito per la festa del 2 Giugno del titolo di Commendatore per meriti artistici dal Presidente della Repubblica. Saracino ha da poco ottenuto il Leone d’Oro da parte della Biennale di Venezia, e successivamente l’Oscar per l’Arte a cura dell’Associazione Artisti Athena di Catania. Riconoscimenti che odorano di cinema, e soprattutto di realismo sociale. Elogi pubblici scaturiti dalla sua pluridecennale opera al servizio della pittura, per la sua caparbia volontà di portare ovunque l’immagine della sua terra, e i volti aspri, le sofferenze e le gioie della vita, mediante la sua pittura. Premi perfino in Cina: era il 1994 quando ricevette il premio dall’Accademia delle Belle Arti di Pechino. Ha esposto, in questi de-
cenni, insieme a firme universalmente conosciute, quali Dalì, Guttuso, Mirò, Anniconi, Cascella, Fiume. E poi in ambienti di grande respiro artistico, gallerie newyorkesi e canadesi, e perfino in Indonesia, a Casablanca e a Madrid. La tradizione, il costume, le rughe del patimento o della vecchiaia rimangono scolpite nei tanti volti che affollano le sue tele: come sequenze di un unico film. Si può scorgere l’elogio di Levi, fervido lucano di adozione, e la poesia degli ultimi come in Scotellaro. Ciò che si erge forse con maggiore forza è il viso
di Cristo nella Passione, mentre trascina la Croce, una immagine mutuata dalla secolare processione del Venerdì Santo della sua Barile. L’artista scolpisce una sacra rassegnazione che si scontra con la terrena sofferenza. Probabilmente dettata anche dal patimento personale, dal quotidiano vivere con dolenti difficoltà di movimento. Quel Volto sacro, meglio di altri, simboleggia il travaglio spirituale di Saracino, figlio di una terra mai rassegnata alla sofferenza che pure la storia le ha sempre conferito.
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Cromie
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La lirica atmosfera di August Macke di Monica De Canio
Pittore della realtà concreta è motivato dall’osservazione e dalle impressioni dei sensi. I suoi “piccoli mondi” guardano la realtà con gli occhi dell’artista astratto, attento alle formule artistiche, scevre di ogni interesse contenutistico e tuttavia, tranne che in pochi dipinti, non rinuncia mai all’oggetto, al motivo, al tema: ricava i suoi quadri dall’osservazione del mondo reale, attraverso una sua elaborazione intellettuale. È del 1911 il primo contatto con gli artisti e le idee del Blauer Reiter: alla prima esposizione presenta tre quadri e collabora per le illustrazioni dell’Almanacco nella parte etnografica. Tuttavia, già nel 1912 abbandonerà il gruppo, di cui non condivide nell’arte la radicale “spiritualizzazione” e “astrazione”, teorizzata da Kandinskij, del quale chiosa con un dipintocaricatura, Persiflage del Blauer Reiter, “la composi-
zione incredibilmente complicata di scialbe macchie di colore” del suo primo acquerello astratto. Macke considera quei mezzi espressivi “smisurati rispetto a quello che vogliono dire. Il suono della voce è così bello, così delicato che occulta il messaggio al punto da escludere qualcosa di umano. Cercano troppo affannosamente la forma”. Una nuova svolta è suggestionata dall’evoluzione dell’arte d’avanguardia che si stava rapidamente sviluppando tra Francia, Germania, Italia, Olanda e Russia e dalla dissertazione Astrazione ed empatia del giovane Worringer, che aveva analizzato i due poli fondamentali della produzione artistica: l’astrazione come invenzione non oggettiva, processo mentale mediante il quale si estrae una parte da un tutto visivamente percepito ed empatia come imitazione e riproduzione della natura esteriore.
Negozio di cappelli, 1914, Olio su tela, Museum Folkwang, Essen.
Sguardo su un vicolo, 1914, Acquerello, Mülheim sulla Ruhr, Städtisches Museum.
Commiato, 1914, Olio su tela, Colonia, Museum Ludwig.
Con composizioni dai colori vivaci si avvicina ai piani colorati e luminosi del cubismo orfico e delle teorie ottiche del dinamismo cromatico, secondo la legge dei contrasti simultanei, di Delaunay, “per vedere cosa siano dei colori vivi”. In Negozio di cappelli, si scompongono la luce e le immagini speculari sul cristallo di una vetrina, dove una donna-manichino senza volto si affaccia a vedere la lussuosa merce esposta, che si irradia sul grigiore esterno delle sfaccettate pietre in primo piano. Nel 1914 la purezza del suo “colore-luce” evolve in “colore-sole” raccolto in acquerelli straordinari, vertice e sintesi delle precedenti esperienze figurative, che si arricchiscono di vibrante luminismo dopo il viaggio in Tunisia assieme agli amici Klee e Moilliet. Racconta nel suo Diario del vivace e coloratissimo viavai dei vicoli, dei mercati orientali, dei bazar, dell’architettura araba, degli animali esotici e soprattutto della radiosa luce solare, capace di dilatare lo spazio e di tradurlo in limpida poesia. Sguardo sul vicolo, vive completamente della disposizione semplice e chiara della luminosità dei colori. Ne fissa un’impressione momentanea, riassumendo
la profondità attraverso distese cromatiche in piani distribuiti in successione. Dalla figura in primo piano, lo sguardo segue la strada verso la profondità dove un arco introduce a un vicolo angusto, ma inondato di luce. L’interesse principale è rivolto alla strutturazione cromatica per contrasti complementari, al ritmo dinamico e all’organizzazione della superficie. Con questo viaggio la lezione di Worringer trova la sua traduzione sensuale in realizzazioni pittoriche, dal variegato accostamento di colori e sovrapposizione di oggetti in primo piano, di tipo astratto-decorativo. Ne derivano una serie di dipinti nei quali le linee di contorno delle forme e gli oggetti rappresentati sembrano dissolversi in una luce policroma, interpretati da alcuni critici come un ritorno “alle origini” o “un modo impressionista di sentire le forme e i colori”. Vi racchiude atmosfere limpide e pacifiche, di un mondo non offuscato dall’orrore di quegli anni, lontano dal minaccioso orizzonte della guerra. In questa disperata ricerca di serenità si distingue solo il suo ultimo lavoro, Commiato, oscuro presagio di morte, per la tenebrosa colorazione delle sagome nere in lutto.
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Cromie
Una passione artistica espressa tra Acqua e Fuoco
Pervaso da grande sacralità è il progetto che ha per titolo Acqua-Fuoco, ideato dal teologo Cosimo Scordato e voluto da Don F. Romano, che vede in campo l’artista palermitana Tiziana Viola Massa. Un ciclo pittorico permanente che avvolge, come in un caldo abbraccio, l’ampia volumetria della Chiesa San Gabriele Arcangelo di Palermo. Proprio di sensazione d’abbraccio si parla nei confronti di Acqua-Fuoco, grazie alla progressiva disposizione di dodici grandi tele, che vanno dai 3 ai 5 metri di altezza per 1,80 di base, partendo dal più piccolo al più alto verso l’altare. Una sorta di ascesa tensoriale, di dinamismo intrinseco di cromie e sottili concettualità che ben dispiega le proprie propaggini compositive attraverso lo stile caratteristico di questa artista, che è lo spatolato. Non semplici grumi di colore, ma una vera e propria “matericità” volta ad attestare volumi in cui ella incantena porzioni di spirito, finanche le
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di Fabrizio Corselli sensazioni e le emozioni dei suoi personaggi, dei suoi protagonisti come una sorta di aura. Proprio questa emissione esteriore del colore crea un gioco di evasione dello spirito, come se l’osservatore potesse leggere dentro l’anima di ogni individuo. Una spiritualità ben nota nell’artista, che arde nella sua arte come fuoco della devozione; la fede, così come il tema del sacro, divengono canoni fondamentali se non costanti nel suo modo di fare pittura. In Tiziana Viola Massa, la pittura simboleggia il tramite fra la metafisicità e la fisicità delle cose, due visioni del mondo facenti parte di un unico stesso principio, prendendo in questo progetto pienamente “corpo”; anche nei soggetti scelti per le tele, vige la semplicità, una sorta di pietas che eleva l’individuo al di sopra della propria notazione mortale e lo avvicina a ciò che è grande. Lo si nota, per esempio, nella forte drammaticità del pannello de La moltiplicazione dei pani, carico di sofferenza, poiché è tutto un movimento, un percorso, della vita umana. Acqua-Fuoco, nella sua esplicita connotazione dicotomica genera equilibrio, ogni contrasto è assente a livello figurativo, se non per la presenza dei due elementi antagonisti; qui domina la quiete, quel senso di accettata sottomissione che è la proiezione del sacro, dell’attesa e dell’Amore. Non manca la presenza di movimento, di un’agitazione che si evidenzia nello spumeggiare delle onde, ma in tale “dinamismo” pur si mantiene sempre una coerente pacificazione dell’anima. Il colore qualifica l’intensità del sentimento ma esso stesso lo doma nel suo diretto contenimento. Acqua e Fuoco, due elementi distruttivi che esistono in perfetta intesa, così come l’Ordine e il Caos, come il Bene e il Male, due princìpi che dalla notte dei tempi hanno sempre fatto parte dell’essere umano. A Tiziana Viola Massa, il pregio di aver saputo “domare”, in un percorso così difficile, l’architettura metafisica del cammino dell’uomo.
Cromie In una pagina del Journal che l’artista compila con ostinazione, quasi ogni giorno, dal 1942, raccontando il travaglio della creazione artistica, confrontandosi con gli altri artisti di cui analizza e giudica le opere, a proposito della tecnica dell’ acquerello scrive: “Riprendo l’acquerello. Che pratica pericolosa: è una continua prova si di una corda tesa: qui il pennello svolge la funzione del bilanciere, la minima falsa manovra causa la caduta nell’abisso di un confusionario intruglio” (6 marzo 1987). L’acquerello non è una tecnica facile, ma Michel Ciry, grande nella incisione, dimostra la sua capacità artistica anche in questo campo, perché sa usare questa tecnica con una piena padronanza, tanto da riuscire, forse l’unico artista nella storia dell’arte contemporanea, anche per fare dei ritratti ad acquerello, impresa difficile perché deve cogliere nel volto di una persona l’intensità della sua vita interiore. Si guardi solo il volto di san Francesco, che recupera con modernità da un dipinto medioevale, o il ritratto di suor Mariapia, una suora francescana, che ha conosciuto ad Assisi, dove più volte ha soggiornato. Questi ritratti non sono immagini, che una macchina fotografica può cogliere nella loro oggettività,
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Gli acquerelli di Michel Ciry di Piero Viotto
ma emozioni nelle quali si riversa tutta la soggettività interpretativa dell’artista attraverso uno sforzo ascetico, per esprimere un sentimento: “Cosa di più appassionante di foggiare un volto? Farlo emergere dalla notte del nulla, condurlo a un certo punto del suo destino, fissare un momento del suo dramma è un compito esaltante, pieno di imboscate traditrici, ma che importa, la posta vale i rischi e la fatica” (14 aprile 1968). Altrettanta attenzione Ciry dedica al paesaggi ed in particolare agli alberi . “Si tratti del volto di un uomo o della struttura di un albero, sapersi arrestare a tempo esige una preziosa conoscenza dei propri limiti. Una volta varcata la soglia dei nostri limiti espressivi, non solamente non abbiamo più da guadagnare, ma per di più rischiamo di perdere molto di quanto avremmo potuto esprimere. Sentire che quel momento è venuto, posare i pennelli è dunque una virtù decisiva, che gli impenitenti perfezionisti del mio tipo sono in diritto di invidiare a coloro che gioiscono in perfetta lucidità creatrice” (17 febbraio 1985). Michel Ciry ha viaggiato in tutto il mondo, dall’Asia alle Americhe, a prendere appunti per i suoi acquerelli di grandi dimensioni, che eseguisce in studio.
New York o Avila, le rovine di Atene o i monumenti Maya rivivono nei suoi acquerelli, ma il paesaggio che più lo attrae non ha una localizzazione precisa, anche se parte sempre dalla realtà di un posto visitato, si tratta di un paesaggio campestre nel quale gli alberi, o anche solo un albero, è al centro dell’attenzione dell’artista. Sono paesaggi con pochi alberi, che si stagliano su di un orizzonte tenuto molto basso per dare spazio al cielo, quasi in uno sguardo sull’infinito, perché non descrivono una natura ma meditano e contemplano sulla creazione. Questa ricerca dell’essenza, cioè della struttura profonda delle cose, che va alla radice dell’essere per coglierne il significato ultimo, è presente in tutta l’opera di Ciry e vuole essere una testimonianza. Gli alberi dei suoi quadri ad olio, delle sue acqueforti, dei suoi acquerelli sono sempre spogli, non hanno foglie, fiori o frutti. A livello estetico sono quasi un’astrazione, a livello filosofico rimandano all’essere permanente, che resta al di sotto e al di là dei colori cangianti e provvisori e dei profumi odorosi e inebrianti della primavera o dell’autunno; a livello mistico nella loro figura scheletrita e scheggiata ricordano la corona di spine di Gesù, come scrive Michel Ciry : “Ho terminato un acquerello. Il suo soggetto non ha alcun rapporto con l’ambiente che mi circonda. È la solitudine di un albero, piantato in un campo sullo sfondo lontano di altri alberi. È molto al di là dell’albero che va il mio pensiero. Esso non è che un pretesto, un supporto. Spoglio, con il profilo duro, rimanda ad una derisoria corona di spine. Così dev’essere percepito dagli altri. Tocca a me rendere questa percezione possibile. Si tratta di utilizzare degli elementi della natura per pervenire all’espressione di un’astrazione sensibile”. (23 gennaio 1960). Ma al di là di queste interpretazioni, c’è qualcosa di
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autobiografico in questa ricerca artistica, tanto che Ciry nel suo Journal un giorno ha scritto: “Ho incominciato un’acquaforte che ha per soggetto un albero che si drizza in una solitudine ghiacciata. Si tratta quasi di un autoritratto”. (13 marzo 1979). Questa autobiograficità, trasferita nella natura, non solo è una questione di carattere, ma anche una questione di cultura se in un altro frammento si può leggere. “Malgrado le gioie culturali ed affettive che in ogni visita posso godere, i miei brevi soggiorni a Parigi mi soddisfano solo in parte, perché non posso vivervi secondo il mio fecondo ritmo campagnolo. E’ quasi impossibile lavorare, mi prende un’immediata stanchezza inerente all’inevitabile ritmo cittadino, tutte cose che sopporto con un dispiacere crescente a causa delle mie radici paesane, di cui non posso che benedire la crescente fecondità, con l’avanzare degli anni”. (13 aprile 1988). Infine, quest’arte è un atteggiamento polemico verso una civiltà tecnologica e una società anonima, dove l’uomo naufraga nel magma caotico delle immagini del caleidoscopio televisivo e della informazione elettronica. “Lascerò questo mondo probabilmente con rincrescimento per la vita, ma non sicuramente per la civiltà mediocre nella quale avrò dovuto, il più degnamente possibile, vivere il mio destino”. (20 febbraio 1993). Comunque la bellezza salverà il mondo. I colori rossi di questi acquerelli nelle loro varie gradazioni e sfumature che incendiano questi paesaggi, all’alba o al tramonto, i blù teneri, i lilla e i viola, che a macchia avvolgono gli alberi solitari, non sono segni di una disfatta e della morte, ma della speranza e della vita, annunciano la resurrezione. Michel Ciry dice di essersi fermato al Venerdì Santo, ma la sua arte allude alla Pasqua eterna, a quella nuova creazione di cui parla san Paolo.
di Giovanna Russillo
Foto MiBAC
Eventi
Raffaello e Urbino: storia di un eterno legame
Ha conservato intatte le raffinate atmosfere delle corti rinascimentali, la città di Urbino, così come intatto è il suo patrimonio culturale e artistico. Il centro storico, cinto da mura e costruito in mattoni cotti, emana un’atmosfera calda che invita a percorrerne a piedi ogni stradina alla scoperta di angoli suggestivi. Qui, nel 1483, nasceva Raffaello. Quella di Raffaello e della sua città natale è la storia di un legame indissolubile, che incise profondamente sulla sua formazione culturale di bambino prodigio e sulla sua produzione artistica negli anni successivi. A questo rapporto Urbino dedica una grande mostra allestita nelle sale del Palazzo Ducale. Troppo a lungo storici e critici d’arte hanno trascurato l’aspetto relativo gli anni giovanili dell’artista e solo di recente questo vuoto sembra essere stato colmato focalizzando l’attenzione sul contesto urbinate che tra il Quattrocento e il Cinquecento
fu teatro di un notevole fermento culturale. Il giovane Raffaello crebbe respirando l’atmosfera della corte rinascimentale e assaporando la magnificenza delle collezioni d’arte del palazzo Ducale, il centro della vita culturale della città. Tra le figure di spicco che frequentarono Urbino e che potrebbero aver influito sull’opera di Raffaello ricordiamo Girolamo Genga, Timoteo Viti. Il Perugino resta comunque al centro della sua formazione. Il padre dell’artista, Giovanni Santi, letterato e pittore di una discreta fama, ebbe frequenti rapporti con le più influenti personalità del Ducato. Raffaello fu suo allievo e dopo la morte, nel 1493, ne ereditò la fiorente bottega. Periodi di intensa operosità lo portarono ben presto a Perugia, Firenze e Roma, dove rimase affascinato dall’opera di Michelangelo assimilandone il drammatico plasticismo, come si evince da alcune delle Stanze che papa Giulio II lo chiamò
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Foto MiBAC
Nella pagina precedente: Raffaello, Busto di angelo, tavola, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo. Sopra: Raffaello, San Michele, tavola, Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina a fianco: Raffaello, Sacra Famiglia e agnello, olio su tela, Madrid, Museo del Prado.
a dipingere in Vaticano. Ma nonostante i successi maturati lontano dalla sua città, l’artista non nascose mai il profondo affetto che ad essa lo legava, e qui continuò a coltivare rapporti sia artistici che economici. La mostra ricostruisce la storia di questi rapporti attraverso 20 dipinti e 19 disegni originali realizzati da Raffaello in giovane età. A questi capolavori si affiancano 32 dipinti e 10 disegni di pittori a lui vicini e con cui egli ebbe modo di confrontarsi in quegli anni. Il legame tra il pittore e la sua terra è espresso anche attraverso la più importante produzione di Urbino, la maiolica. La mostra riserva una sezione ad alcuni preziosi esemplari, uno dei quali mai esposto,
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basato su un disegno originario di Raffaello. Curata da Lorenza Mochi Onori, Soprintendente per i Beni Storici Artistici e Etnoantropologici delle Marche, la mostra ha visto impegnati alcuni esperti in materia di fama internazionale, come Linda Wolk Simon, del Metropolitan di New York, già curatrice di una mostra sul tema. “Raffaello e Urbino” rappresenta un evento imperdibile per gli amanti dell’arte, non solo perché indaga un aspetto inedito del grande artista rinascimentale, ma anche perché, allestita nella sua città natale, offre al visitatore l’occasione unica di immergersi nelle stesse atmosfere che cinque secoli fa uno straordinario talento seppe interpretare e rendere immortali nelle sue tele.
Foto MiBAC
Eventi
Beato Angelico: l’alba del Rinascimento
Nel blu notturno dell’allestimento spiccano i luminosi quadri del Beato Angelico (1395-1455), in mostra a Roma ai Musei Capitolini, fino a luglio. Cromie pure e smaglianti, bellezza sofisticata delle figure, accordo perfetto tra il fondo d’oro, il paesaggio e il ritmo dei panneggi: è frutto delle due “anime” dell’Angelicus pictor e doctus. Osservante predicatore neotomista, Guido di Pietro alias Fra Giovanni da Fiesole, elabora il realismo religioso tardo medioevale, alla luce delle nuove formule espressive dei grandi artisti innovatori fiorentini, in una pittura razionale ma soffusa d’intensa spiritualità. Propagandista del Paradiso per imagines et per verba, concepisce l’arte come luogo e strumento di meditazione religiosa senza gli
di Lori Adragna
accenti perduti dell’estasi, pervenendo alla raffigurazione del “bello ideale” in quanto tramite fra natura e divinità. Curata da Alessandro Zuccari, Giovanni Morello e Gerardo de Simone, l’esposizione propone attraverso tavole, tabernacoli, scomparti di pale e di polittici, tele e miniature, un’articolata rilettura dell’opera angelichiana all’alba del Rinascimento: «Abbiamo voluto ricostruire la complessa personalità di Beato Angelico come anticipatore dell’arte di Piero della Francesca», dichiarano i curatori. Nelle prime opere in mostra si ravvisa ancora l’influenza tardo-gotica di pittori quali, Lorenzo Monaco e Gherardo Starnina. Nella Tebaide – peraltro di controversa attribuzio-
Beato Angelico, Annunciazione (e storie della Vergine nella predella), 1432 circa, tempera su tavola, San Giovanni Valdarno, Museo della Basilica di Santa Maria delle Grazie
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Eventi
Beato Angelico, L’Armadio degli argenti, La visione di Ezechiele, Annunciazione, Natività, adorazione dei Magi, Presentazione al Tempio, Circoncisione, Fuga in Egitto, Strage degli Innocenti, Cristo tra i dottori, 1451-53, circa 39X39 cm ciascuno, Firenze, Museo di San Marco.
ne – le figure e gli spazi sono quasi una summa di modelli giotteschi, mentre si ispira allo stile di Gentile da Fabriano, la sfavillante Madonna dei Cedri. Proseguendo il percorso espositivo si può notare come negli anni Trenta l’artista prenda le distanze da quei modelli, assumendo nuove forme e volumetrie «Beato coglie il senso della prospettiva umana, aspra e preponderante di Masaccio, ma la trasforma in un linguaggio più sereno, anche se non per questo meno razionale» afferma il professor Zuccari. Appartengono a questo stadio più maturo le due bellissime tavolette di Forlì, Natività e Orazione nell’Orto; capolavori come l’Annunciazione di San Giovanni Valdarno. Negli anni Quaranta, spesi principalmente nel ciclo decorativo del convento domenicano di San Marco, Fra Giovanni approda a un classicismo for-
male e cromatico evidente nella Sacra conversazione di Boston. Fino alla fase finale trascorsa a Roma per affrescare la Cappella Niccolina, dando vita ad un colto umanesimo classicheggiante di stampo cattolico, testimoniato dall’Armadio degli argenti, dove i sontuosi scomparti raffiguranti scene della vita di Cristo, risplendono di colori brillanti come gemme. In mostra sono presenti opere mai esposte in passato, dal Trittico della Galleria Corsini di Roma alla predella della Pala di Bosco ai Frati, restaurate per l’occasione. Altre, ad esempio l’Annunciazione di Dresda riassemblata nel XVI secolo, sono visibili per la prima volta. Nell’ultima sala alcuni rari disegni, incisioni, messali con le lettere miniate: il mondo del Beato Angelico racchiuso nella sfera sfolgorante del sacro.
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Eventi La Basilicata si è ormai avviata verso un cammino di promozione che vede nella cultura, e in particolare nell’arte contemporanea, la sua punta di diamante: non solo per l’eccellente lavoro portato avanti dai suoi artisti e dalle sue gallerie, ma anche per gli eventi di grande respiro che si sono succeduti nel tempo e che si succederanno, come il progetto ormai alle porte di ArtePollino. Ed è in questo contesto che va letta Arteknè, la prima mostra mercato lucana dedicata all’arte contemporanea, svoltasi a Matera dal 15 al 18 maggio, presso la magnifica cornice di Palazzo Gattini. All’interno delle lussuose stanze dell’hotel hanno esposto la galleria Toselli e la Spirale di Milano, la 911 di La Spezia, la Galleria Orizzonti Arte, il Vicolo di Genova, il Ritrovo di Rob Shazar di Sant’Agata dei Goti, il Molino di Gaglione, la Opera Arte & Arti di Matera e la Teknè di Potenza, ma anche la Chenglin di Pechino e la Fu Xin di Shanghai. Tra le opere, le pellicole dipinte di Giacomo Montanaro, il mondo in miniatura di Paola Risoli, le foto di Silvestro Reimondo, la colorata natura di Elena Cavallo, gli astrattismi di Barbara Paoletti, gli intensi ritratti di donne di Mirella Bitetti. Ma sono stati protagonisti anche autori scomparsi e ormai “musealizzati”, come De Dominicis, Emilio Vedova, Virgilio Guidi. Giuseppina Travaglio, direttrice della Galleria Teknè e ideatrice della mostra mercato, ha mirato a coinvolgere nel progetto l’intera città dei Sassi, dislocando anche al di fuori del nucleo principale diverse mostre: dal ristorante di San Pietro Barisano, con un’installazione di Sabato Angiero, a quella di Octavio Floreal presso l’hotel
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ARTEKNÈ di Fiorella Fiore
Caveoso, alle opere di Elisa Laraia presso la Fondazione Zetema, di Mimmo Rubino presso l’hotel Ridola, e di Massimiliano Lacertosa presso Camera di Commercio. Il percorso di Arteknè ha disegnato una mappa che ha reso Matera un cuore pulsante della cultura grazie a diversi interventi a latere che hanno accompagnato la mostra: dalle performances agli incontri sui temi più diversi dell’arte, come ad esempio l’arte terapia. Uno dei fulcri pregnanti all’interno di questo contesto è stato senza dubbio “Birds of Passage”, mostra allestita preso Le Monacelle e curata da Federica La Paglia, incentrata sul tema della migrazione, non a caso pensata, come espresso dalla stessa La Paglia, in Lucania, terra che tutt’oggi vive questo dramma. Un invito alla riflessione sul compito che la Basilicata deve assumere in futuro non solo nel contesto nazionale, ma anche verso se stessa: Arteknè, pur essendo partita con qualche sbavatura, ha posto le basi per un ruolo da protagonista nella promozione della Basilicata attraverso la cultura, di cui questa regione vanta un passato illustre e un futuro promettente. Ed è proprio perché, come ben spiegato da Lia De Venere e Gloria Gradassi (all’interno del catalogo della mostra) è “ai confini dell’impero” che possono esprimersi al meglio le sinergie del mondo dell’arte, in particolare quella contemporanea. La chiave di svolta per una nuova rinascita di questa terra va cercata proprio nel dialogo tra il passato ricchissimo e il suo presente, dal quale non potranno più prescindere le istituzioni politiche, troppo spesso sorde a questa realtà.
Un inedito di Giacomo Colombo
fOrme
di Gerardo Pecci
Tra i maggiori artefici della scultura in legno policromo dell’Italia meridionale, tra la seconda metà del XVII secolo e la prima metà del secolo successivo vi è Giacomo Colombo (Este 1663 – Napoli 1731). È proprio allo scultore Giacomo Colombo, e alla sua importantissima bottega, che va attribuita, a mio avviso, l’inedita statua in legno policromo di San Francesco d’Assisi, ubicata in abitazione privata in un paese in provincia di Matera. Il San Francesco d’Assisi è raffigurato secondo i canoni dell’iconografia francescana. E’ in piedi, vestito con il tradizionale saio; le mani sorreggono la Croce ed è come se la stesse porgendo ai fedeli, mostrando eloquentemente il sacro legno del martirio di Cristo, di cui egli è “fratello minore”. Le palme e il dorso delle mani, i piedi e il costato di San Francesco mostrano con evidenza le stimmate. Lo sguardo è intenso, vivissimo, assorto quasi in mistica contemplazione; la bocca è semiaperta ed è come se il santo fosse in atto di rivolgere la parola ai fedeli. Gli occhi di cristallo sono vivissimi e intensi. Il volto denota mistica dolcezza e autorevolezza, in linea con la pastorale controriformata. Il modellato delle parti anatomiche del Santo (soprattutto mani e volto) è di grande qualità e la complessiva resa plastico-pittorica degli incarnati del viso e delle mani, e poi della barba e dei capelli, raggruppati a ciuffi e a “chiocciola”, è semplicemente stupefacente. L’uso del colore denota una spiccata, e non comune, maestria coloristica e un’accurata e minuziosa esecuzione tecnica. Ci troviamo di fronte al colore originale, riguardo al viso, alle mani e al saio del santo, sia pure con distacchi più o meno vistosi della pellicola pittorica. Il colore è stato steso in modo eccellente dall’artefice, da grande ed esperto colorista. L’incarnato del viso, il colore delle labbra, la sfumatura della barba, fanno pensare, immediatamente, a un vero e proprio capolavoro, opera di un grande maestro: nel caso specifico a Giacomo Colombo. Egli era anche pittore – il che è un chiaro fattore distintivo ai fini della corretta comprensione delle sue opere scultoree policrome – e divenne prefetto della Corporazione dei Pittori di Napoli nel 1701. Importanti sono le equilibratissime proporzioni anatomiche, rese al naturale: si tratta di una statua alta circa cm.170 (esclusa la base lignea su cui si regge). La figura del Santo poggia sulla gamba sinistra, la destra è arretrata e flessa rispetto all’altra. Ciò le conferisce un’aulica ed elegante classicità. Anche la resa del panneggio del saio è piutto-
sto sobria: accompagna degnamente, senza eccessivi svolazzi e pieghe profonde e spigolose, le forme anatomiche del corpo del Santo. La statua del santo d’Assisi ha un altissimo grado di verosimiglianza al reale. Nonostante siano trascorsi circa trecento anni, conserva intatto il proprio fascino e la propria icastica autorevolezza. L’opera è indubbiamente un capolavoro. Gli occhi sembrano davvero “vivi”, l’incarnato del viso presenta una stesura cromatica ineccepibile, mettendo in risalto, sotto la sottile patina di sporco e dei segni del tempo, ogni minima piega della superficie cutanea; le incipienti rughe della fronte sembrano essere reali e palpitanti. Sulle gote vi è la presenza di un incarnato più roseo, più vivo, anche se con tono cromatico alquanto temperato. È un elemento che si nota nella maggior parte della produzione scultorea “devozionale” colombiana, come una vera e propria cifra stilistica ricorrente. Il viso di San Francesco mostra un marcatissimo realismo naturalistico, al limite dell’accesa presepialità partenopea, temperato però da una vena di equilibrato classicismo naturalistico, e di decoro devozionale, che era carattere distintivo della produzione di Colombo, in linea sia con la retorica dell’iconografia cristiana di età barocca, sia con il composto equilibrio classicista che gli derivava anche dalla lezione pittorica del suo autorevolissimo amico e pittore Francesco Solimena, ma anche di Luca Giordano, Giacomo del Po e del Vaccaro. Il San Francesco, per modi scultorei e per confronti iconografici, a mio avviso è in linea col culmine della ricerca scultorea di Giacomo Colombo, tra l’ultimo decennio del Seicento e il primo quindicennio del successivo secolo. In particolare il volto del santo è vicino a quello di Santo Strato a Napoli (1701), a quello del Cristo alla Colonna in San Gines, e all’altro San Francesco (1713) nella chiesa di San Francesco a Lucera. Inoltre, a parte qualche variante iconografica, la statua è vicina a quella lignea di San Fedele da Sigmaringen conservata a Eboli nella cripta di San Berniero nella Basilica di San Pietro alli Marmi, opera attribuita al Colombo, con iscrizione del suo nome e data (1690) sulla base lignea. Anche coloristicamente, sia per quanto riguarda gli incarnati che il saio, e la compostezza dell’andamento delle pieghe, vi è notevole rassomiglianza.
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Tr ame
La poesia di John Keats (1795-1821) è una poesia di movimento inquieto. Egli, poeta della seconda generazione romantica inglese, già memore delle trasmigrazioni liriche di R. Burns e Chatterton, vive nel suo esotismo simbolico e classicheggiante e la sua stessa biografia è leggibile in un ambito di possibile e sperimentabile allegoria. Ed ecco che la poesia, in un quadro sociologico e storico di cambiamenti repentini, diventa esigenza di reazione e rifugio in un luogo immaginario mitigato con la realtà, in un’evasione sensuale e primitiva, non già percorsa da un’attuazione arcadica, ma che è il risultato di una memoria apollinea. A prima vista, quindi, la sua poetica sembra essere figlia della memoria, prima di tutto culturale, e della veggenza che, come un tumulto, si innervano nel presente, in un tempo esterno ma allo stesso tempo interno in una sofferta naturalità. La poesia è, pertanto, espressione lirica e corale, peso da vivere e da cantare. Ma allo stesso tempo essa si situa in una equazione infinita di tempo, ancora una volta, tra natura e cultura classica e tra bello naturale e opera d’arte greca. Proprio in questo vi è il dissidio che anima la sua intimità sin dagli anni giovanili, come testimonia Mario Praz: «Il cosiddetto classicismo del Keats risente del gusto dell’epoca della Reggenza, e cioè risultante da una contaminazione di elementi disparati (anche gotici e orientaleggianti), e presenta quindi caratteristiche d’ibridismo, diversamente dal classicismo settecentesco che era divenuto una seconda natura nel linguaggio poetico» (Mario Praz, La letteratura inglese dai romantici al Novecento, Ed. Accademia, Milano 1968). La Stimmung di Keats è essenzialmente etica, anzi sembra coincidere direttamente e proporzionalmente con il problema estetico configurato nella Bellezza: immortale, opposta tra realtà e reale, autonomia e appartenenza all’assoluto. E allora la poesia sarà energia disperata, vitalità disperata, immaginazione nel senso più creativo e poetico tout court, in cui il
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Jonh Keats, l’ultimo canto di Andrea Galgano
poeta, attraverso la sua creazione, dialoga con l’eternità immutabile. L’Io si muove nel principio stratificato di realtà attraverso la metafora del viaggio e insieme del labirinto, in cui la vita è un “grande palazzo dalle grandi dimore”, in cui noi ci muoviamo dalla “camera spensierata o camera dell’infanzia” verso la “camera del pensiero vergine”. Resta da segnalare come il principio di costruzione dell’Io faccia emergere la cosiddetta negative capability cioè “quando un uomo sia capace di rimanere in incertezze, misteri, dubbi senza alcun irritante raggiungimento a seguito di fatti e raziocinio”. È nelle Odi nelle quali il presentimento della morte, l’impassibilità e l’immortalità della Bellezza, vibrano nel canto eterno dell’usignolo, nell’armonia dell’Urna. Poesia della vertigine dunque. “Una cosa di bellezza è una gioia eterna:/ Aumenta la sua grazia e mai/ Trapasserà nel nulla…”. È attraverso l’estasi poetica e artistica che l’uomo si afferma in una duplicità viva, in cui la fuga dal mondo è essa stessa affermazione del mondo. La stessa epifania originale del trinomio natura-divinità-poesia dei circuiti del poeta è fame di un’umanità che non anela a placarsi e nel luogo della poesia trova permanenza e non accessorietà. Keats rimane in una struttura profondamente metafisica, che anche nella morte di ogni visione, peraltro comunque irrimediabilmente destinata a perire, il reale si riconduce alla vita e alla sua origine: la realtà dell’arte è nel suo eterno presente, in quanto portatrice di un messaggio estetico e destinataria del sacrificio della nostra temporalità umana. Chiude il nostro discorso l’aria casta del paesaggio keatsiano, autunnale, nel quale si risolve la coscienza dell’Io nella oggettività della visione. L’enorme ricchezza sensoriale affettiva, in prima istanza, visiva, sospende la sua anima nel tempo, in tempo in cui anche l’amore (si pensi al suo tormento per Fanny Brawne) è assorbito e sparito nel canto: “Tu canterai ancora: ma per le mie orecchie inutili,/ Per me, una semplice zolla davanti al tuo requiem altissimo…”.
VENOSA
cittĂ di Orazio
Foto Chiaradia, Archivio APT Basilicata