In Arte gennaio/febbraio 2013

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â‚Ź 1,50 anno VIII - num. 01 - gennaio/febbraio 2013 Poste italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% CNS PZ



Redazione

Sommario Editoriale

Associazione di Ricerca Culturale e Artistica C.da Montocchino 10/b 85100 - Potenza associazionearca@alice.it

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Pedro Cano, Cartagena. La redazione non è responsabile delle opinioni liberamente espresse dagli autori, né di quanto riportato negli inserti pubblicitari.

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Le Primarie della Cultura di Giuseppe Nolé .......................................................... pag. 4

Direzioni

Gonzalez-Torres: l’arte come «stato d’incontro» di Giulia Smeraldo......................................................... pag. 5 Il Cavaliere di Toledo di William Kentridge di Maria Pia Masella...................................................... pag. 8 La Nuova Pittura italiana Tratti distintivi (I parte) di Giulia Bucci................................................................ pag. 10

Eventi

Il Mediterraneo raccontato da Pedro Cano di Fiorella Fiore.............................................................. pag. 12 IncontrArte, II edizione di Giovanna Russillo...................................................... pag. 14

FotoCromie

Lento di Giovanni Salvatore.................................................... pag. 16

Special Cromie

L’Ottocento al Museo di Capodimonte di Eleonora D’Auria ..................................................... pag. 18 Il Vangelo secondo... Caravaggio di Piero Viotto................................................................ pag. 20

Architetture

Un Ufo atterrato a Bratislava di Mario Restaino.......................................................... pag. 22

Mete

Abriola, antica sentinella dell’Appennino di Annalisa Signore....................................................... pag. 24 Centri scomparsi tra Lombardia, Liguria e Piemonte di Giuseppe Damone..................................................... pag. 26

AgendArt

a cura di Sonia Gammone............................................. pag. 30


Le Primarie della Cultura di Giuseppe Nolé

Tutto nasce dall’idea di un gruppo di giovani. Dal 7 al 28 gennaio scorso si sono svolte “Le Primarie della Cultura”, una consultazione popolare organizzata dal Fai (Fondo Ambiente Italiano) che attraverso la piattaforma internet ha raccolto 101.993 sottoscrizioni. Quindici i temi a disposizione dei votanti che nello spazio di un tweet hanno espresso le loro preferenze e commentato le proposte. Se lo scopo era quello di promuovere e valorizzare soluzioni concrete in ambito di cultura, paesaggio e ambiente, è stato raggiunto nei numeri avuti che confermano l’attenzione a quelli che rappresentano per il nostro paese motivo di crescita economica e non solo. La classifica dei temi più votati è stata resa nota il 30 gennaio scorso. Cultura, paesaggio, sicurezza: questo il podio. Il più gettonato tra i 15 temi proposti è stato quello contenente la proposta di portare i fondi per i beni culturali almeno all'1% del bilancio dello Stato per riallinearci all'Europa (17,5% dei voti). Il secondo messaggio viene dall'assieme degli altri 4 temi entrati nella top five: stop al consumo del paesaggio (14,9%); piani certi per la sicurezza del territorio (9,5%); agricoltura: più lavoro e benessere a km zero (8,8%); diritto allo studio, dovere di finanziarlo (7,8%). Il settore della cultura in Italia riceve solo lo 0,19% del bilancio dello Stato e nonostante questo garantisce un contributo pari al 4,5% del Pil. Con un patrimonio paesaggistico unico nelle sue diversità e con il patrimonio di beni culturali più significativo in termini di quantità e qualità del mondo, siamo ancora ben lontani dal farne un punto di forza per lo sviluppo turistico e tutto ciò che esso comporterebbe. I dati verranno presentati ufficialmente ai partiti e ai candidati delle prossime elezioni. Sarà in grado la politica di accogliere le istanze che i giovani (e meno giovani) vorrebbero per il loro futuro? Ai posteri l’ardua sentenza.

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Gonzalez-Torres: l’arte come «stato d’incontro» di Giulia Smeraldo

Rispondere alle domande relative alla storia dell’arte degli ultimi vent’anni significa scontrarsi con un mucchio di artisti, opere, poca bibliografia, poca teoria e soprattutto con un’attività critica non sempre facilmente interpretabile. La domanda che ricorre maggiormente nell’approccio teorico è: cosa s’intende per arte? Non intendo certo aprire un dibattito sulla questione, ma proporre un approfondimento su una delle risposte più celebri alla domanda in questione: l’arte è un’esperienza relazionale e comunitaria. L’approccio critico a cui faccio riferimento è quello di Nicolas Bourriaud, direttore dell’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts (nota scuola d’arte parigina) e co-fondatore, nonché co-direttore dal 1999 al 2006 con Jerôme Sans, del Palazzo di Tokyo di Parigi. Il punto focale della speculazione teorica di Bourriaud è quello che egli stesso definisce il fondamento dell’arte sviluppata negli anni Novanta dello scorso secolo: le relazioni alla base dell’opera

Direzioni

d’arte. Non più un fruitore passivo, che resta di fronte all’opera o al massimo gli gira intorno senza un ruolo specifico, se non quello di utilizzare la vista, ma una partecipazione attiva alla creazione e alla realizzazione del senso, se così si può dire, dell’opera stessa. Ciò vuol dire che senza il suo/i suoi spettatore/i l’opera non esiste. Si tratta di mettere al centro dell’esperienza estetica i comportamenti e le relazioni del fruitore con l’opera, che acquisisce ogni volta un differente valore, a seconda del modello che decideranno di seguire gli “attori” dell’opera stessa. L’arte come attività che intesse rapporti con il mondo attraverso segni, oggetti, forme e gesti: nasce così il concetto di “Arte relazionale”, che può essere definita come «un’arte che assuma come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale» (Nicolas Bourriaud, Estetica Relazionale, Postmedia, Milano 2010, pag. 14). Ed è proprio a partire dagli anni Novanta che l’arte e le opere che propone non possono essere considerate

Felix Gonzalez-Torres, Untitled, 1991. © The Felix Gonzalez-Torres Foundation, Courtesy Andrea Rosen Gallery, New York.

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Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Placebo), 1991. © The Felix Gonzalez-Torres Foundation, Courtesy Andrea Rosen Gallery, New York. Foto: Serge Hasenböhler.

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come uno spazio da percorrere, ma si danno «come una durata da sperimentare, come un’apertura verso la discussione illimitata» (ibidem). Tutto questo sarà concentrato in una forma, definita dall’autore come una struttura che imita il mondo e che ha come elemento caratterizzante proprio la durata.

Tra i tanti artisti citati da Bourriaud, il migliore esempio di quanto l’Arte relazionale abbia avuto i suoi maggiori sviluppi negli anni Novanta è Felix Gonzalez-Torres (1957-1996). Dare una definizione convenzionale a questo straordinario artista sarebbe offensivo per tutta l’arte contemporanea, dunque mi sforzerò di descrivere le caratteristiche delle sue opere, indicando quelli che sono i suoi punti di contatto con le teorie del critico francese. Le parole chiave da ricercare sono: coppia, malattia, omosessualità, durata. Tutta l’opera di GonzalezTorres gira intorno alle vicissitudini della sua vita, che l’artista trasforma in emozioni universali, le quali, una volta provate e vissute, si pongono al di

Felix Gonzalez-Torres, Untitled (North), 1993. © The Felix Gonzalez-Torres Foundation, Courtesy Andrea Rosen Gallery, New York.

Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Perfect Lovers), 1991. © The Felix Gonzalez-Torres Foundation, Courtesy Andrea Rosen Gallery, New York.


Eventi

Felix Gonzalez-Torres, Untitled (USA Today), 1990. © The Felix Gonzalez-Torres Foundation, Courtesy Andrea Rosen Gallery, New York.

sopra di ogni cosa. Le sue opere non lasciano dubbi, si pongono sempre in maniera positiva e allo stesso tempo sbalordiscono quando lo sgomento per aver appreso il loro vero volto si fa sentire. Tornando alle parole chiave, sono esperienze condivisibili e allo stesso tempo molto intime e personali; scegliamo noi il modo in cui viverle. Questo è appunto il coinvolgimento del fruitore di fronte alle opere: la scelta; quella di fare e di non fare, di parlare, di tacere, di presenza o di assenza. Il sentimento che proviamo quando siamo dinnanzi alle opere di Gonzalez-Torres è di leggerezza, sia per le forme sia per gli oggetti scelti nel crearle, leggerezza che scompare quando veniamo a sapere che il peso delle caramelle che dispone “spalle al muro” all’interno dello spazio è pari a quello di un malato terminale di AIDS oppure quando gli occhi sono ingannati dal “doppio” che ci propone l’artista. Quella di Gonzalez-Torres è «un’opera che non espone il proprio processo di costruzione (o smontaggio), ma la forma della sua presenza in mezzo a un pubblico. Questa problematica dell’offerta conviviale, della disponibilità dell’opera d’arte, per come la mette in scena Gonzalez-Torres, si rivela oggi piena di significato: non solo si ritrova al cuore dell’estetica contemporanea, ma porta ben più lontano, all’essenza dei nostri rapporti con le cose. È la ragione per cui l’opera dell’artista cubano, dopo la sua morte avvenuta nel gennaio del 1996, invita a un esame critico che la restituirebbe al contesto attuale, al quale ha ampiamente contribuito» (ivi, pag. 51).

Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Loverboy), 1989. © The Felix Gonzalez-Torres Foundation, Courtesy Andrea Rosen Gallery, New York.

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Direzioni Tra gli artisti contemporanei che hanno arricchito Napoli, William Kentridge (1955) è quello che ne ha svelato maggiormente l’aspetto medievale, l’ironia e la complessa stratificazione storica. Il suo lascito sono due mosaici realizzati per la neo-inaugurata stazione della metropolitana di Toledo e una scultura equestre situata nella confluenza tra l’omonima strada e via Diaz. Il Cavaliere di Toledo, questo il titolo della scultura, si presenta come un cavallo che impenna da una gamba, dall’altra poggia lo zoccolo su una palla; la testa è appena sghemba e, in groppa, ha un insolito cavaliere: un naso. L’artista lo chiama semplicemente “the horse”, quasi a intendere che il “di Toledo” sia un’aggiunta dovuta a un motivo semplicissimo: l’ubicazione. Infatti quale sarebbe la relazione tra i tre cavalieri di Toledo, che secondo la leggenda gettarono nel 1400 le basi dell’antistato nel sud, e un naso? Per rispondere bisogna sbrogliare le fonti tematiche della scultura e indagare la capacità di Kentridge di tessere le proprie opere alle trame storiche e culturali dei territori che occupano. Chi è familiare con l’artista sa che il naso è una delle sue immagini ricorrenti. Appare in stampe, dise-

gni, collage e sculture. Per averne una conferma, lo scorso Natale bastava un “Kentridge tour” che, partendo da Napoli e passando per Roma, dove il naso fa la sua apparizione nel video The Refusal of Time (al MAXXi fino a marzo), finiva alla Tate di Londra con I am not me, the horse is not mine, in cui naso e cavallo appaiono insieme e separati. Un viaggio che paradossalmente ricalca la storia che ha dato origine all’invenzione del naso a cavallo, l’assurdo racconto che Gogol scrisse nel 1836 su un naso ribelle, sfuggito al proprietario costretto ad inseguimenti esilaranti e tragici in una San Pietroburgo congelata dalla burocrazia. Il racconto di Gogol è l’inizio di un viaggio per Kentridge. Leggendolo l’artista ne ha studiato le fonti: Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1759) di Laurence Sterne e Don Chisciotte della Mancia (1605) di Cervantes, riuscendo a sintetizzarle nell’idea del naso a cavallo. Calco da cui provengono le varie stampe, i collage, i disegni e le sculture. Lavori in cui lo spettatore intuisce sia gli elementi figurativi che tematici: l’assurdità di un naso nelle vesti di cavaliere (Gogol); l’esile consistenza delle gambe del cavaliere, fasciate – sembra – da quelle tipiche

William Kentridge, Ferrovia Centrale per la città di Napoli, 1906 (Naples Procession), 2012, mosaico di tessere in pietre e pasta vitrea, Stazione Toledo, Napoli.

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Il Cavaliere di Toledo di William Kentridge di Maria Pia Masella William Kentridge, The Nose, 2011, fotoincisione alla maniera allo zucchero e incisione a secco, cm 42x58.

calzamaglie medievali che finivano nelle scarpe/ciabatte con cui scivolare sui pavimenti di un palazzo (Sterne); l’atteggiamento del cavallo, scattante d’eroismo, eppure autoironico nei movimenti della testa e del collo, che si ritraggono sorpresi del vigore dei fianchi (Cervantes). Questa sintesi, che non nasconde il processo di appropriazioni, scavi nel passato e

rivisitazioni nel presente di cui è composta, è una caratteristica di Kentridge. Sorprende ancora che un simile condensato di riferimenti possa ospitarne di nuovi? Che qualcuno abbia battezzato la statua Il Cavaliere di Toledo ed all’immagine già densa si sia aggiunta la leggenda di Mastrosso, il cavaliere spagnolo che diede origine alla Camorra? L’eredità del passato è un tema caro a Kentridge. Nelle sue processioni, motivo che ritorna (come il naso) in video, arazzi e mosaici, sfilano le silhouette che l’artista disegna al carboncino nel suo studio. Sagome nere che parlano dei luoghi che attraversano e del loro creatore. Sono rappresentazioni di processioni i due mosaici ideati per la metropolitana di Napoli, cortei di figure sul fondale dei piani della città. In testa, San Gennaro, a seguire riferimenti a Napoli: una figura di ceramica di Capodimonte, un suonatore di cembali, ma anche l’artista e il suo doppio, l’allegoria di Johannesburg (città di Kentridge) e altre figure elaborate negli anni. Tutte legate a un filo intensamente rosso che scorre tra le figure, un filo interpretato come sangue, come tempo o come musica, ma che cominciando a conoscere Kentridge potrebbe essere sangue, musica, tempo e altro ancora: quello che viene, quello che segue...

William Kentridge, Promised Land, 2008, arazzo, cm 382x430. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli, (part).

William Kentridge, Nose 29, 2009, incisione a secco, acquaforte e acquatinta, cm 35x40, (part.).

William Kentridge, Il Cavaliere di Toledo, 2012, scultura in acciaio corten, Stazione Toledo, Napoli.

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Direzioni no 1975). Menna ha inNonostante la Nuova dividuato, nell’arte moPittura italiana sia un derna, la presenza delle fenomeno multiforme due polarità della linea e di difficile classificaiconica, che analizza le zione, è identificabile in “immagini”, e della linea ogni sua declinazione aniconica, che indaga le la ricorrenza di alcune “figure”, unità visive elelinee-guida fondamenmentari prive di signitali che accomunano ficato: la nuova pittura l’opera del variegato farebbe uso, secondo gruppo di artisti. Tali caCarmengloria Morales, Dittico 73-2-1, 1973, tecnica mista su tela, il critico salernitano, di ratteristiche intendono cm 180x180 cad. queste unità fondamentutte focalizzare l’attentali del linguaggio artistizione del riguardante co, escludendo ogni rimando metaforico. sulla pittura stessa, intesa come il vero soggetto del Al fine di compiere un’indagine sulla struttura del “fedipingere. nomeno pittura” e di rifondarne il linguaggio, i nuovi Più approfonditamente, una delle particolarità principittori mettono in atto un processo di riduzione dei pali della nuova pittura italiana è “l’autonomia” della suoi componenti accessori per concentrarsi sugli pittura medesima: escludendo ogni riferimento di caelementi costitutivi ed elementari. L’azzeramento rattere simbolico, metaforico, narrativo o descrittivo, messo in atto da questi artisti consiste principalmenessa viene infatti promossa a soggetto dell’opera d’arte. Filiberto Menna, considerato come uno dei te nell’eliminazione di forme e segni riconoscibili, in favore dell’uso di elementi primari e archetipici – cioè maggiori critici di questa corrente, ha ricostruito il di quelle “figure” prive di significato autonomo di cui percorso verso la dimensione di autonomia rispetto aveva parlato Menna – nella limitazione della gamal referente esterno che la pittura ha intrapreso in ma dei colori, spesso ridotta ai soli primari, e nella era moderna, al cui immaginario traguardo si situa la predilezione per il monocromo. pittura riflessiva (Filiberto Menna, La linea analitica Una terza caratteristica della nuova pittura è il riliedell’arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Tori-

Pino Pinelli, Pittura BL, 1993, tecnica mista, disseminazione di 6 elementi.

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La Nuova Pittura italiana Tratti distintivi (I parte) di Giulia Bucci

Giorgio Griffa, Orizzontale obliquo, 1970, acrilico su tela di juta, cm 35x48.

vo affidato al fondamento teorico e alla progettazione dell’attività operativa degli artisti. I risultati vengono predisposti e continuamente controllati dal calcolo dell’intelletto: gesti e pennellate sono predeterminati in relazione a fattori quali la grandezza e la forma del supporto. È a questo processo operativo soggiacente alla creazione dei dipinti che è rivolta l’attenzione degli artisti: la nuova pittura si configura quindi come una sintesi di progetto e opera, dove il “fare pittura”, in confronto al quale il risultato finito del quadro risulta perdere d’importanza, serve a evidenziare il momento operativo vero e proprio. Le tracce del procedimento non vengono infatti cancellate, ma diventano parte del risultato pittorico: esse sono spesso “portate in superficie” dagli artisti, in modo da rendere evidente la lunga durata e la complessità del processo. Infine, la nuova pittura si caratterizza per il particolare uso dello spazio pittorico. Gli artisti lo scompongono e lo dissolvono attraverso l’eliminazione di certe caratteristiche del quadro tradizionale, come la chiusura della superficie dipinta nei confronti dello spazio esterno e la sua insistenza su di un piano diverso rispetto a esso. Giorgio Griffa “libera” il di-

pinto dalla struttura del telaio esponendo tele libere, non assicurate al supporto, ma fissate direttamente alla parete tramite dei chiodi. Pino Pinelli porta a termine la scomposizione del quadro rompendone ed estendendone i tradizionali confini e spargendone le forme sulla parete nella “disseminazione”. Come in essa, anche nella serie si superano i limiti dell’opera e il quadro viene ridefinito come oggetto composito, leggibile solamente attraverso il confronto di più elementi. Nella serie, adottata nei minimi termini nei dittici di Carmengloria Morales (una tela dipinta affiancata a un’altra lasciata grezza e senza pittura), il senso artistico di un’opera diventa infatti chiaro esclusivamente all’interno del gruppo: i quadri sono pensati per essere esposti e visti uno a fianco all’altro, tanto che, una volta divisi e dislocati, perderebbero parte del loro significato. Per parafrasare Menna, è come se nella struttura seriale l’opera si trasformasse in una sorta di sineddoche, in cui ogni elemento si presenta come soluzione parziale di un problema e rinvia agli altri termini della serie stessa, proponendo un discorso sulla totalità mediante un discorso su una parte.

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Eventi

Il Mediterraneo raccontato da Pedro Cano

Oltre a tutta una vita consacrata alla pittura, sono stati la tradizione orale e il viaggio i principali binari che mi hanno portato fino a qui». Così si descriveva Pedro Cano durante la consegna della Laurea Honoris Causa in Lettere e Storia dell’Arte dell’Università “Alfonso X El Sabio” di Murcia; poche parole che racchiudono l’anima e il carattere di un artista che ha costruito tutta la sua poetica, e la sua vita, sulla ricerca di culture perdute e sulla conoscenza dell’altro da sé. Un cammino che lo ha condotto nelle Americhe, in India, in Oriente, ma soprattutto in quello straordinario bacino di saperi che è il Mediterraneo. Già nel 2007 Pedro mi parlò della sua volontà di intraprendere un progetto che parlasse dei luoghi legati al Mare Nostrum, non in senso meramente geografico, ma piuttosto di quei Paesi uniti da una medesima cultura, in cui la mediterraneità diventa anima, spirito, tempo. Un percorso che doveva prendere vita dalle centinaia di quaderni di viaggio che avevano accompagnato il suo peregrinare, ricchi di preziose pagine dipinte, trasformatisi in 54 grandi acquerelli protagonisti della mostra IX Mediterranei che, dopo Cartagena e Roma, approda a Treviso presso la Fondazione Benetton Studi Ricerche (organizzata dalla Galleria Elle Arte di Palermo e dalla Fundaciòn Pedro Cano de Blanca). Opere che tracciano le tappe di una “geografia affettiva” di uno degli artisti più importanti sulla scena internazionale: da Alessandria a Cartagena, da Istanbul a Napoli, da Maiorca a Spalato, terminando con Venezia, quello che prende forma sotto gli occhi del visitatore è un viaggio, non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Un tempo “proustiano”, non

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di Fiorella Fiore

lineare, di un passato acquisito nel presente, di un ricordo che si mescola alla storia; di un simbolo che non descrive un luogo, ma sussurra sensazioni, quelle provate dall’artista e regalate come un dono prezioso allo spettatore. Alfabeti antichi per ricordare i libri perduti di Alessandria; acquerelli che come un puzzle ricostruiscono la Santa Sofia di Istanbul, nata su un crocevia di religioni e culture; le immagini della smorfia raccontano di Napoli, città di forti contrasti e contraddizioni; lo sguardo sulle finestre del giardino della Certosa di Valdemosa, a Maiorca, è un segreto svelato al turista attento che scoprirà di questa città qualcosa di più del mero connubio sole-mare-divertimento. Di Venezia, per Cano già magistralmente immortalata da Turner e quindi intoccabile, può raccontare solo il segreto delle sue “paline”, i pali che fuoriescono dalle acque della laguna, acque mute, antiche, sotto le quali si nascondono i segreti della città. Questi grandi acquerelli sono immagine di echi lontani, di racconti scoperti parlando con gli abitanti del luogo nel lungo vagabondare dell’artista; una eco che si manifesta anche nella tecnica, unica e riconoscibilissima, dove ogni trama della carta diventa espressione di un tempo presente e di un tempo di memorie, separati da un diaframma fatto da sottilissime velature. La mostra resterà aperta fino a domenica 3 marzo 2013, da martedì a venerdì dalle ore 15 alle 20 e il sabato e la domenica dalle ore 10 alle 20. Durante il periodo espositivo saranno organizzati corsi di acquerello tenuti direttamente dall’artista. Per maggiori informazioni: fbsr@fbsr.it, www.fbsr.it.


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Eventi Un paesaggio suggestivo immerso in un’atmosfera quasi rarefatta, racchiuso in un’immagine che solo pian piano rivela allo spettatore ogni sua particolarità. Si intitola Lento mantovano l’opera del fotografo lucano Giovanni Salvatore, che ha vinto la seconda edizione di IncontrArte, la rassegna nazionale d’arte contemporanea organizzata da “In Arte”. L’evento, che rientra nel progetto espositivo In Arte Exibit, è stato ospitato dal 16 dicembre 2012 al 13 gennaio 2013 nell’ex Convento dei Frati Minori Osservanti di Brienza (PZ). Decine sono state le opere pervenute, ma solo ventisette quelle selezionate ed esposte per un mese all’interno del chiostro risalente alla seconda metà del Cinquecento. Incontrarte, spaziando tra pittura, scultura, fotografia e digital art, si pone come terreno di incontro tra generi diversi, una finestra aperta sulle ultime tendenze nel campo dell’arte contemporanea. Quest’anno molto apprezzato dai numerosi visitatori è stato il singolare contrasto venutosi a creare tra le opere in mostra

Opera II classificata - Andrea Albonetti, Chi c'é qui?

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IncontrArte, II edizione di Giovanna Russillo

La seconda edizione di IncontrArte nel chiostro dell'ex convento dei Frati Minori Osservanti a Brienza (PZ).

e il ciclo di affreschi settecenteschi che è possibile ammirare lungo le pareti del chiostro. L’immagine vincitrice, uno scatto di grande potenza espressiva, ha affascinato la giuria perché capace di abbracciare ad un tempo fotografia e pittura. L’effetto che la fa sembrare ora una foto ora un raffinato dipinto si deve ad una lentissima esposizione del soggetto davanti all’obiettivo. L’artista – del quale potete ammirare altri scatti nelle pagine seguenti – cattura le suggestioni di un paesaggio del nord Italia, in cui da tempo vive, ma in esso si colgono gli echi delle proprie radici, che conducono al Sud, in Basilicata, e ai suoi panorami naturali avvolti dal silenzio. Andrea Albonetti di Forlì si è classificato al secondo posto con l’opera intitolata Chi c’è qui? (olio su tela), apprezzata per l’originalità della prospettiva, per le scelte cromatiche e per la capacità di attrarre l’attenzione dello spettatore verso il soggetto ritratto, grazie alla curiosa mescolanza di spontaneità, ingenuità e magia, specchio di un coinvolgente universo interiore. Terzo posto per Giovanna Lacera di Venosa (PZ) con Horror vacui (tecnica mista su carta), opera dal tratto grafico vigoroso e libero al tempo stesso, resa particolare dall’insolito impiego del caffè come colorante. In essa l’horror vacui è efficacemente espresso dai volti ritratti, che raccontano con immediatezza i moti dell’animo e l’inquietudine dei soggetti. Menzioni speciali sono state assegnate alle


Opera III classificata - Giovanna Lacedra, Horror vacui.

opere di Tiziana Viola Massa (Palermo), Sante Muro (Satriano di Lucania - PZ), Antonio Loffredo (Volla NA) e Mihail Ivanov (Genova). Il 2013 per “In Arte” si apre dunque con un evento di successo, capace di legare l’arte contemporanea al territorio della Basilicata. Il prossimo appuntamento

con il progetto In Arte Exibit è dal 3 aprile al 3 maggio a Forenza (PZ), per la mostra-concorso di pittura a tema sacro intitolata Sacre Visioni, il cui bando è consultabile al sito www.in-arte.org o telefonando al numero 0971 25683.

Opera I classificata - Giovanni Salvatore, Lento mantovano.

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fotoCromie

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Lento foto di Giovanni Salvatore


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Cromie

L’Ottocento al Museo di Capodimonte

È cosa certa che l’Ottocento abbia come vessillo la bandiera francese. Non di meno appare apprezzabile risalire la china e domandarsi in che misura la tradizione pittorica francese abbia inesorabilmente dilagato oltre i confini nazionali. Che l’impressionismo, e prima ancora il realismo condotto con mano poco reticente a qualsiasi concessione di stampo romantico, abbiano individuato e preannunciato l’esito verso cui far declinare la pittura moderna appare senza dubbio inequivocabile. Eppure la storia insegna ad osservare con occhio critico le vicende che ebbero come muti testimoni protagonisti di un tempo caratterizzato da una profonda insofferenza verso le case regnanti. Il Museo Nazionale di Capodimonte, le cui forze vitali restano quanto mai precarie e disgiunte da una politica di valorizzazione adeguata alle esigenze, ha da poco inaugurato una nuova sezione interamente dedicata al secolo su citato. Un’apertura resa doverosa dalla necessità di riscattare un patrimonio molto e troppo spesso oscurato da una costante carenza di risorse finanziarie, nonostante gli encomiabili ten-

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di Eleonora D’Auria

tativi, rimasti spesso tali, di garantire al cronico malato una boccata di ossigeno. La nuova sezione dell’Ottocento, ubicata nell’appartamento al piano ammezzato sul lato meridionale del palazzo, è stata definita come il tassello conclusivo di una idea progettuale coerente con il disegno unitario di progettazione del percorso artistico museale preesistente. L’obiettivo intende raccogliere ed ampliare un discorso già in precedenza avviato sull’ampia panoramica offerta dai maestri del naturalismo come i Palizzi, ai tanti artisti del secondo ‘800 e del primo ‘900 come Morelli, Mancini, Migliaro, Altamura, Toma, Cammarano. Differente la scelta del canale espositivo: ad una fredda sequenza di dipinti e sculture si è preferito far affidamento, forse con eccessiva enfasi estetica, su un allestimento in grado di evocare “al di là di una ricostruzione puntuale, atmosfere ottocentesche allusive di ambientazioni di regge o di palazzi nobiliari dell’Ottocento”. Sarebbe il caso di domandarsi fin dove quell’“al di la di una ricostruzione puntuale” possa legittimare caratteri e scelte espositive forse troppo inclini al compiacimen-


to estetico e poco strumentali alla piena comprensione del percorso. La selezione delle opere, includente diverse testimonianze dell’arredamento ottocentesco della Reggia, permette, non da meno, di apprezzare vari aspetti della cultura figurativa napoletana durante tutto il secolo XIX. Da esempi di autorevole spirito neoclassico, si passa a numerosi dipinti di “figura”, genere particolarmente richiesto dai Borbone per decorare gli ambienti da rappresentanza con temi aulici, eroici o di storia greco-romana. Una selezione di dipinti con paesaggi rimanda alla grande tradizione tutta ottocentesca del “Grand Tour”, che individuava nella città partenopea uno dei punti di maggior prestigio. Non può passare senza nota l’invidiabile parente-

si napoletana della scuola di Posillipo, che vede in Antoon Sminck Pitloo e in Gigante il lirico dipanarsi dell’abbozzo e del non finito. Il naturalismo dei fratelli Palizzi e l’eclettico e contaminato linguaggio di Domenico Morelli orienteranno la pittura napoletana verso nuovi orizzonti, offrendo una valida alternativa a quella pittura “del vero” e “della realtà” maggiormente incline a testimoniare contenuti sociali: Giocchino Toma, Teofilo Patini, Antonio Mancini, solo per citarne alcuni. L’intero percorso espositivo, arricchito da numerose testimonianze dell’arredo ottocentesco della Reggia, appare cadenzato da brani scultori di notevole fattura, rimando necessario per un’adeguata comprensione delle esperienze artistiche di quegli anni.

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Cromie Un libro di Luca Frigerio (Caravaggio. La luce e le tenebre, Ancora, Milano), illustrato a colori, analizza le opere del pittore lombardo nel contesto storico in relazione alla biografia dell’artista. Nell’introduzione c’è la chiave di lettura: «Chi osserva oggi i quadri di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, a prescindere dai soggetti rappresentati, vede una pittura impastata di colore e di sangue, ma anche di lacrime e di risate, di cielo e di terra. Ne intuisce il disagio esistenziale insieme alla gioia di vivere. Ne coglie la disperazione alternata alla speranza. L’esuberante carnalità accanto alla spiritualità più elevata. L’abisso del peccato sovrastato dal vertice della redenzione. La luce e le tenebre, appunto». Vengono presentati una dozzina di episodi evangelici illustrati dall’artista in anni diversi e alcuni più volte. L’Annunciazione dipinta negli ultimi anni della vita

(1608-1610), non è tra le sue opere migliori; come pure una Adorazione dei pastori (forse del 1608), tutta costruita su di una linea diagonale che separa nettamente una vasta zona d’ombra e il gruppo delle persone. Invece il Riposo durante la fuga in Egitto (1595) può annoverarsi tra i suoi capolavori: Giuseppe fa da leggio per un angelo che suona una ninna nanna per Gesù. La fama di Caravaggio è soprattutto legata alla Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, dove negli anni 1599-1600 colloca un insieme di tre tele. Frigerio racconta la storia della committenza e fa un’analisi delle opere. Rileva che la mano di Gesù che chiama Matteo alla missione apostolica è una citazione, da Michelangelo, della mano di Gesù che chiama Adamo alla vita, stabilendo così un parallelo tra la creazione e la redenzione. Sottolinea la centralità della finestra:

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601-1602, olio su tela, cm. 139x195, National Gallery, Londra.

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Il Vangelo secondo... Caravaggio

Cromie

di Piero Viotto

«È proprio la forma a croce di quell'infisso a imporsi prepotentemente al nostro sguardo, tanto da far perdere ai nostri occhi il suo aspetto funzionale per assumere una valenza simbolica. Quella finestra, in quel contesto, diventa la Croce». La citazione michelangiolesca della mano di Dio c’è anche ne La resurrezione di Lazzaro, un’opera tarda (1609) del Museo Nazionale di Messina Un numero considerevole di opere riguarda la passione e la resurrezione di Cristo. Si incomincia con un notturno, la Cattura di Cristo nell’orto (1602), tutta giocata sui primissimi piani dei volti. Segue una tela dipinta a Napoli (dove il Caravaggio era riparato dopo l’omicidio conseguenza di un duello a Roma), la Flagellazione (1606), in cui sono presenti poche figure (il Cristo alla colonna tra i suoi aguzzini), una rappresentazione nella quale la critica vede ascendenze tizianesche. L’opera più importante di questo ciclo è la grande Deposizione (1602). Il corpo di Cristo è deposto nella tomba dall’apostolo Giovanni e da Giuseppe di Arimatea, con un volto che sembra quello di Michelangelo; alle loro spalle Maria e altre

due donne. Due tele riguardano le apparizioni di Gesù. A proposito della Incredulità di San Tommaso (1600-1601), con l’apostolo che, guidato dalla stessa mano di Gesù, penetra con il dito nella piaga del costato, Frigerio constata: «A osservarla bene sembra che la pittura di Caravaggio sia fatta di gesti, di dita tese, di pugni chiusi, di palme aperte. Come se a parlare, nei suoi dipinti, più che i volti siano proprio le mani. Mani che si sfiorano, che si incrociano, che indicano, che toccano, che stringono, che chiedono». La seconda tela, la Cena in Emmaus (1601-1602) illustra il racconto evangelico che, di fatto, ha dato le indicazioni per la Messa (il commento alla parola di Dio e la celebrazione dell’Eucarestia): Gesù lungo la strada spiega ai due discepoli le Scritture, poi a cena “spezza il pane”. Quando nel 1584 il giovane Caravaggio fu accolto nella bottega milanese di Simone Peterzano, un pittore di successo, tardomanierista di scuola veneta, si era sentito dire che per diventare un buon pittore bisognava conoscere i colori e le Sacre Scritture.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Incredulità di San Tommaso, 1600-1601, olio su tela, cm. 107x146, Bildergalerie, Potsdam.

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Architetture Il Nový Most (in italiano Ponte Nuovo), in passato Most SNP (il Ponte della Rivoluzione Nazionale Slovacca), è il più imponente dei ponti che attraversa il fiume Danubio nella città di Bratislava, nella Repubblica Slovacca, collegando il moderno quartiere residenziale di Petržalka con la città vecchia (Staré Mesto). È il 26° membro nonché l'unico ponte al mondo ad essere annoverato nella World Federation of Great Towers (la Federazione Mondiale delle Grandi Torri), un'associazione internazionale creata nel 1989, con sede a Melbourne, che riunisce gli organismi di gestione di torri di grande altezza (sia di osservazione sia di comunicazione) e grattacieli di tutto il mondo. Per essere compresi nella federazione è necessaria sia la presenza di un osservatorio aperto al pubblico sia la predisposizione ad essere attrazione turistica, questo perché lo scopo dell'organizzazione è lo scambio di informazioni per migliorare la gestione, condividere le esperienze ed organizzare la promozione internazionale dei siti riconosciuti. Aderire all'associazione costa all’incirca 1500 dollari l'anno e gli edifici che lo hanno fatto oggi possono contare su un flusso di visitatori pari a 20 milioni l'anno.

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Il Nový Most, dall'architettura audace e dalla mole imponente, è un ponte strallato asimmetrico ad unica campata. Un solo pilone dell’altezza di 84,6 metri, costituito da due rami in mezzo ai quali passa la strada, sorregge l’intera struttura. Questo non si trova al centro della costruzione, ma si eleva sulla sponda destra del Danubio e, per poter sorreggere il peso di tutta la struttura, si presenta inclinato rispetto alla verticale così da poter assecondare il compito statico degli stralli. L’impalcato ha una lunghezza totale di 430,8 metri, una larghezza di 21 metri ed un peso valutabile in 7537 tonnellate. Presenta due piani di percorrenza: uno superiore, con quattro corsie, riservato ai veicoli, ed uno inferiore, costituito da due carreggiate di 2,50 metri di larghezza circa, una per ogni lato del ponte, dedicato al traffico di pedoni e biciclette. Dal basamento, in acciaio e cemento armato, è possibile accedere ad un ascensore che porta direttamente al ristorante posto a circa 95 metri da terra. La costruzione, completamente circondata da vetrate ed a forma di disco, viene chiamata “Ufo” dai cittadini di Bratislava, poiché ricorda un'astronave simile all'Enterprise della nota serie televisiva Star


Un Ufo atterrato a Bratislava

Architetture di Mario Restaino

Trek, e ospita al suo interno un ristorante di lusso, uno skybar e sulla sommità, accedendovi attraverso stretti gradini, una piattaforma dalla quale è possibile ammirare il panorama mozzafiato della città. I visitatori, come detto, possono usufruire di un ascensore veloce nascosto nel braccio sinistro del pilone, mentre nell’altro si trova la scala di emergenza con i suoi 430 gradini. L'ardita struttura del Nový Most, inaugurato ufficialmente il 26 agosto 1972, fu voluta fortemente dal regime comunista dell’allora Cecoslovacchia, su progetto di A. Tesár, J. Lacko ed I. Slameň, per mostrare alla nazione e al mondo intero la sua forza ed efficienza. Sebbene rappresenti un'opera avveniristica e centro di attrazione per i turisti nonché meta di passeggiate per gli abitanti di Bratislava, per la sua costruzione la città ha dovuto pagare un ampio tributo in termini storici ed architettonici. Il Nový Most, infatti, incide pesantemente sulla fisionomia del tessuto urbano, anche in considerazione del fatto che sorge immediatamente a ridosso del centro

storico. La strada sorretta dal ponte passa a soli 3 metri dalla facciata ovest della Cattedrale di San Martino, la chiesa gotica nella quale per 250 anni sono stati incoronati i sovrani ungheresi, le cui fondamenta sono quotidianamente scosse dal pesante traffico supportato dal ponte. La medesima strada inoltre ha interrotto l'unicum urbanistico esistente tra il castello ed il centro storico, separandolo dalla fortezza con una via di scorrimento che taglia il centro cittadino in due. La costruzione del ponte ha richiesto anche un ulteriore sventramento del quartiere ebraico di Bratislava, già pesantemente colpito dalla furia nazista che lo aveva praticamente raso al suolo. La porzione meglio conservata delle mura di cinta di Bratislava sono state fortemente danneggiate dalla costruzione dell’opera ed oggi fungono solamente da barriera acustica contro il rumore del traffico urbano. Ad onor di cronaca il “ponte nuovo” a Bratislava non è più il Nový Most, ma l’Apollo Bridge, un ponte costruito nel 2005.

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spinta di presunte forze antinapoleoniche, divengono gli artefici di saccheggi spesso sanguinosi. È proprio la particolare orografia che rende questo territorio un luogo ideale per le loro scorrerie. L’antico centro svela ancora parte dell’aspetto singolare dei quartieri arabi, nonostante le trasformazioni e gli ampliamenti effettuati nei periodi svevo ed angioino. Inoltre, sul versante sud, a valle, si scorgono tratti delle mura di cinta medievali e una porta con torrione quadrangolare. In prossimità della piazza principale si erge la Chiesa Madre intitolata a Santa Maria Maggiore, già esistente nel XIII secolo, sebbene danneggiata e rimaneggiata più volte. L’edificio presenta un semplice impianto a croce latina con una navata centrale ed una laterale sinistra. In facciata reca un interessante portale con fregi in pietra ed una monumentale porta bronzea dedicata a San Valentino, caratterizzata da venti formelle narranti la vita e i miracoli del santo e scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. L’autore è uno sculture lucano contemporaneo, Antonio Masini.

Foto: Archivio APT Basilicata

Nel cuore montuoso della Basilicata, a pochi chilometri dal capoluogo di regione, è custodito Abriola, un caratteristico borgo a circa 957 metri d’altitudine, disposto secondo l’impianto urbanistico medievale “a fuso”, tipico degli insediamenti montani. Il nucleo abitativo si pone in un più ampio quadro naturalistico, che si apre dalla cima fitta di faggi e cerri del Monte Pierfaone alle ripide dorsali delle Dolomiti lucane e alle estreme diramazioni del Monte Volturino, compiacendo gli occhi del visitatore attraverso un incantevole scenario appenninico. Le prime tracce delle origini di Abriola risalgono al IX secolo, quando i Saraceni si spingono fin qui per fondare una cittadella fortificata a presidio della vallata della Fiumara di Anzi. Divenuto feudo del Principato di Taranto, nel corso dei secoli appartiene a molti casati, tra cui quello dei D’Orange, dei Di Sangro, dei Caracciolo ed infine dei Federici, analogamente a tanti piccoli centri lucani. Riceve nuova attenzione dalla storia nel 1809 in occasione di un efferato episodio, ovvero il massacro dell’intera famiglia del barone Federici per mano dei briganti, che, sotto la

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Abriola, antica sentinella dell’Appennino

Foto: Archivio APT Basilicata

di Annalisa Signore

ne della stola a San Idelfonso (1622) del Pietrafesa; il dipinto di Francesco Maugieri, Madonna della Grazie (1797). Rilevante pure la piccola chiesa cinquecentesca di San Gerardo, che conserva pregevoli affreschi del 1566 realizzati dall’abriolese Giovanni Todisco, raffiguranti una Madonna con Bambino, l’Eterno, i Profeti e Santa Elena. Piccoli concentrati di storia, arte e natura incontaminata, i comuni come Abriola rappresentano con riserbo il dipanarsi di una storia millenaria.

Foto: Archivio APT Basilicata

Foto: Archivio APT Basilicata

Al suo interno sono preservate testimonianze religiose e artistiche di notevole interesse. Tra queste, le reliquie del santo patrono del paese, San Valentino, entro un reliquiario in argento che ne riproduce la forma corporea, disposto all’interno dell’altare. La comunità abriolese, difatti, venera da secoli la figura del vescovo e martire romano, anche popolare protettore degli innamorati, che viene qui festeggiato sia il 14 febbraio che il 16 agosto, con caratteristiche manifestazioni religiose e varie attività culturali. Altri beni degni di nota, la settecentesca scultura lignea policroma di San Valentino; la grande tela Donazio-

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Continua il nostro viaggio lungo la penisola alla scoperta dei centri abbandonati, portandoci in Lombardia, Liguria e Piemonte. Anche in queste regioni non mancano realtà cristallizzate in periodi diversi e abbandonate per ragioni differenti. Sono tante queste pagine di storia non scritta, ma costruita dall’uomo, lasciate al dolce brusio del vento e all’alternarsi delle stagioni. Savogno è una frazione del Comune di Piuro, in provincia di Sondrio. Piccolo centro medioevale, è raggiungibile solo a piedi, risalendo oltre duemila gradini o percorrendo tratturi immersi nel verde. Potrebbe trattarsi di un qualsiasi centro medioevale, se non fosse per una particolare organizzazione urbanistica molto razionale e funzionale, con stalle distaccate dalle case a più piani. Non mancano testimonianze architettoniche di pregio, come la

Savogno, scorcio.

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Savogno, panorama.

quattrocentesca Chiesa di San Bernardino. Una realtà suggestiva per la sua ubicazione, isolata rispetto al resto del territorio urbanizzato, ma è proprio il suo isolamento geografico che ne causa il progressivo abbandono. Infatti a partire dal XX secolo si assiste alla migrazione dei già pochi abitanti verso i centri costruiti a valle, fin quando nel 1968 l’ultimo abitante rimasto abbandona per sempre Savogno.


Centri scomparsi tra Lombardia, Liguria e Piemonte di Giuseppe Damone

Balestrino, scorci del Castello.

Spostandoci in Liguria, non si può rimanere indifferenti al fascino dei centri di Balestrino e Osiglia, entrambi in provincia di Savona. Il primo è abbandonato nel 1963 dalla popolazione in fuga, preoccupata per un movimento franoso che minaccia l’abitato. Oggi che gli abitanti vivono in case costruite poco lontano, il castello continua a dominare il vecchio paese, dove un’antica meridiana segna il trascorrere del tempo. Nel versante padano delle Alpi Liguri è ubicato, invece, il piccolo centro rurale di Osiglia. Qui nel 1937 la costruzione di una diga sommerge parte dell’abitato. Ogni dieci anni l’invaso è svuotato e

dalle acque affiorano quelle che un tempo erano case e strade. L’epilogo della storia di Antrona risale, invece, al 27 luglio 1642, quando una terribile frana si stacca dalle pendici del Monte Pozzuoli, ostruendo il corso del torrente Troncone. In poco tempo, a seguito dello sbarramento causato dal terreno, il livello dell’acqua s’innalza, sommergendo il piccolo centro, con le sue quarantadue case e i suoi novantacinque abitanti. Oggi, dove un tempo sorgeva il villaggio, si trova il lago omonimo, nel territorio della provincia del Verbano-Cusio-Ossola.

Balestrino, veduta.

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Il Concorso Opere d’Arte nei 150 anni della Camera di Commercio a cura di Vito Verrastro - Ufficio Stampa Camera di Commercio di Potenza

Compiere un viaggio virtuale verso il passato – per ricomporre le tracce del solido legame tra il territorio e l’arte – e al contempo proiettarsi verso un futuro immaginifico, da leggere attraverso la sensibilità e l’emozione dell’artista. È questa la cornice all’interno della quale si è svolta l’undicesima edizione del Bando Opere d’Arte, iniziativa ideata e promossa dalla Camera di Commercio di Potenza e dedicata alla pittura. Un’edizione speciale, dal momento in cui è coincisa con le celebrazioni dei 150 anni dell’Ente camerale. E allora, si è scelto di ripercorrere parallelamente i centocinquanta anni della storia dell’arte lucana, grazie all’efficace sintesi iconografica di presentazione del Concorso, che ha racchiuso in un’immagine i più grandi artisti del potentino dell’ultimo secolo e mezzo. Le opere d’arte, ispirate alla realtà economica, sociale e paesaggistica della provincia di Potenza, sono state prodotte da una settantina di artisti, divisi nelle categorie “professionisti” e “amatori”. «Siamo soddisfatti rispetto al numero dei partecipanti ma soprattutto alla qualità manifestata in Concorso – ha sottolineato il presidente della Camera di Commercio potentina, Pasquale Lamorte – e ben felici di poter continuare ad impreziosire il patrimonio artistico camerale attraverso un’iniziativa longeva e originale». Le opere vincitrici, infatti, andranno ad arricchire la galleria di opere di diverso tenore (quadri, sculture, manufatti di artigianato artistico) già presente nelle due sedi camerali di Corso XVIII Agosto e Via dell’Edilizia. Un modo per legare la sfera dell’arte a quella economica; un sodalizio che il Concorso Opere d’Arte della Camera di Commercio di Potenza rinnova e tiene vivo, nel solco di una costante attenzione per la creatività che si fa arte e mestiere, nell’accezione più nobile. Il Bando assicura ogni anno ai partecipanti – oltre ai premi in denaro – diverse occasioni di visibilità: una Mostra in Galleria Civica a Potenza, un catalogo cartaceo e un video catalogo, azioni di comunicazione all’interno del sistema camerale e – attraverso i media – all’opinione pubblica.

Sez. Professionisti - Vincenzo Cascone. Vince il primo premio di 2000 €.

Sez. Amatori - Cinzia Batti. Vince il primo premio di 1200 €.

Un momento della cerimonia inaugurale.


Cromie Sez. Amatori - Giuseppe Antonio Arbia. Vince il secondo premio di 1000 €. Sez. Professionisti - Donato Larotonda. Vince il secondo premio di 1500 €.

Sez. Amatori - Serena Gervasio. Vince il terzo premio di 800 €. Sez. Professionisti - Giuseppina Ferrara. Vince il terzo premio di 1200 €.

Sez. Professionisti - Francesco Corbisiero. Vince il quarto premio di 1000 €.

Sez. Amatori - Stefania Galeati. Vince il terzo premio di 600 €.

Sez. Professionisti - Giovanni Cafarelli. Vince il quinto premio di 800 €.

Sez. Amatori - Massimo Chianese. Vince il quinto premio di 500 €.


agendART a cura di Sonia Gammone

Verona Da Botticelli a Matisse. Volti e figure

Padova Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento

Forlì Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre

Fino al 1° aprile 2013 Verona, Palazzo della Gran Guardia Info: www.lineadombra.it

Fino al 19 maggio 2013 Padova, Palazzo del Monte di Pietà Info: www.mostrabembo.it

Fino al 16 giugno 2013 Forlì, Musei San Domenico Info: www.mostranovecento.it

Dopo due mesi di esposizione presso la Basilica Palladiana di Vicenza, ha riaperto il 2 febbraio scorso presso il Palazzo della Gran Guardia di Verona la mostra sul ritratto e la figura proposta da Marco Goldin. Ai capolavori già in mostra a Vicenza si sono andati ad aggiungere quattro opere quattrocentesche su tavola provenienti dal Muzeul National Brukenthal di Sibiu in Romania. Tre sono opere dell’arte fiamminga: un dittico con un Ritratto di uomo che legge e un Ritratto di donna in preghiera, entrambe opere del 1490, di Hans Memling e il bellissimo Ritratto d’uomo con copricapo azzurro del 1429, di Jan van Eyck. Il quarto capolavoro è un rarissimo dipinto di Antonello da Messina, la Crocefissione datata 1460. Nelle quattro sezioni tematiche con le quali si sviluppa il percorso espositivo si incontrano i volti e le figure che hanno affascinato gli artisti dal Quattrocento a oggi: da Botticelli a Caravaggio, Van Dyck, Rembrandt, Goya, Tiepolo, giungendo agli impressionisti e ai grandi pittori del XX secolo, il ritratto dell’uomo nelle mille sfumature della vita.

A Padova, presso il Palazzo del Monte di Pietà, sarà possibile ammirare fino al prossimo 19 maggio una mostra eccezionale, che riunisce dopo secoli in un’unica esposizione opere provenienti dai grandi musei d’Europa e degli Stati Uniti. L’idea che sta alla base di questa iniziativa è quella di riunire le opere di artisti dei quali Pietro Bembo fu amico, mentore, talvolta complice, come Giovanni Bellini, Giorgione, Raffaello, Tiziano, Michelangelo, Jacopo Sansovino, Valerio Belli. Proprio Bembo, con la sua storia di uomo appassionato di arte e di bellezza, che amava circondarsi di opere tra le più splendide, ha fornito lo spunto per dar vita a questa mostra di così alto livello. Saranno esposti anche i capolavori di archeologia di cui Bombo si circondò nella sua casa padovana, insieme ad alcuni tra i più belli esemplari di libri che inventò insieme con l’editore Aldo Manunzio. Una susseguirsi di capolavori per raccontare una storia, quella non di un semplice collezionista, ma dell’uomo che con la sua passione ci permette oggi di rivivere la nascita del Rinascimento.

Presso i Musei San Domenico di Forlì sarà possibile fare un importante viaggio indietro nel tempo, grazie ad artisti del calibro di Severini, Casorati, Carrà, De Chirico, Balla, Sironi, Campigli, Conti, Guidi, Ferrazzi, Prampolini, Sbisà, Soffici, Maccari, Rosai, Guttuso, per la pittura, e Martini, Andreotti, Biancini, Baroni, Thayaht, Messina, Manzù, Rambelli, per la scultura. Attraverso le loro opere emergerà la varietà delle esperienze tra Metafisica, Realismo Magico e le grandi mitologie del Novecento. La mostra rievoca le principali occasioni in cui gli artisti si prestarono a celebrare l’ideologia e i miti proposti dal Fascismo, basti pensare all’architettura pubblica, alla pittura murale e alla scultura monumentale. L’esposizione presenta i grandi temi affrontati nel Ventennio dagli artisti che hanno aderito alle direttive del regime, partecipando ai concorsi e aggiudicandosi le commissioni pubbliche, e da coloro che hanno attraversato quel clima alla ricerca di un nuovo rapporto tra le esigenze della contemporaneità e la tradizione, tra l’arte e il pubblico.




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