NUMERO 26 | MARZO 2017
STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
Marco Cecchella, Cio di Ubi Banca, racconta come migliorando la qualità del lavoro si può rafforzare il legame con il cliente finale.
LA BANCA È PIÙ VELOCE CON LA TECNOLOGIA HI-TECH 2017
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Le dieci tendenze più "calde" del digitale secondo Gartner: dal ritorno dell'intelligenza artificiale al fenomeno Blockchain.
UTENTI SMART
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Le nuove abitudini nell'era degli smartphone: i risultati di due studi, tradotti in numeri e grafici, di Deloitte e Accenture.
COOP DEL FUTURO
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Il supermercato si evolve: a Milano, nel Bicocca Village, un laboratorio aperto per sperimentare la spesa di domani.
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SOMMARIO STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
N° 26 - MARZO 2017 Periodico bimestrale registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012.
4 STORIE DI COPERTINA Lo sportello è più veloce grazie alla tecnologia
9 IN EVIDENZA Il lungo viaggio di Industria 4.0 L’opinione La migrazione al cloud è un passaggio obbligato L’Iot entra in laboratorio
Direttore responsabile: Emilio Mango Coordinamento: Gianni Rusconi Hanno collaborato: Alessandro Andriolo, Piero Aprile, Valentina Bernocco, Carlo Fontana, Paolo Colli Franzone, Paolo Galvani, Claudia Rossi.
L’intervista: Dialogo e apertura, le fondamenta della trasformazione
16 SCENARI Le dieci tecnologie “calde” del 2017 Sicurezza, il nemico si chiama ransomware Nuove abitudini nell’era degli smartphone
Progetto grafico: Inventium Srl Foto e illustrazioni: Istockphoto, Adobe Stock images, Martina Santimone
22 TECNOLOGIE Healthcare e It, il matrimonio è servito Geolocalizzazione e cloud in ospedale
26 FOCUS ULTRABROADBAND Tutti invitati al gran ballo della fibra Disegno industriale per la banda larga nelle Pmi La corsa verso la società dei gigabit Editore, redazione, pubblicità: Indigo Communication Srl Via Correggio, 48 - 20149 Milano tel: 02 36505844 info@indigocom.it www.indigocom.it Stampa: Elcograf S.p.A. - Verona © Copyright 2017 Indigo Communication Srl Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati. La Freccia non ha partecipato alla realizzazione di questo periodico e non ha responsabilità per il suo contenuto. Pubblicazione distribuita gratuitamente con La Freccia.
34 INNOVAZIONE Il lungo cammino verso il cambiamento Una regia unica per un obiettivo di tutte le aziende
38 ECCELLENZE.IT Gruppo Marcegaglia - Cisco Eco.Lan - Intel
40 ITALIA DIGITALE I piani ci sono, è tempo di attuarli Un ecosistema che nasce dai distretti
47 OBBIETTIVO SU Coop
STORIA DI COPERTINA | Ubi Perpiciatis Banca
LO SPORTELLO È PIÙ VELOCE GRAZIE ALLA TECNOLOGIA La capacità di erogare servizi tecnologici di alto livello può contribuire alla soddisfazione dei clienti finali. Per questo l'help desk interno di Ubi Banca si è evoluto in logica self-service e collaborativa.
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clienti soddisfatti sono spesso lo specchio di un personale altrettanto appagato: collaboratori coadiuvati in ogni attività da una struttura interna che investe in efficienza, per riuscire a garantire a tutti il migliore supporto e le massime prestazioni possibili. Lo sanno bene le banche, oggi impegnate in un’ottimizzazione continua dei processi attraverso la messa a punto di iniziative sempre più mirate. È il caso degli help desk interni, una voce d’investimento su cui proprio il mondo bancario convoglia da anni risorse importanti per riuscire a offrire a tutto 4
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il suo personale una pronta assistenza operativa e, contemporaneamente, per abbattere i costosi downtime d’esercizio. Investe da tempo in questa direzione uno dei maggiori gruppi italiani del settore, Ubi Banca, che già da dieci anni ha deciso di dotarsi di un help desk non solo per gestire tutte le richieste relative all’assistenza tecnica (sistemi It, impianti e dotazioni di sicurezza fisica, impianti real estate) ma anche per supportare il back office amministrativo ed erogare consulenze legali ai numerosi istituti appartenenti al gruppo. “Par-
liamo di uno strumento di lavoro tra i più usati internamente e che oggi rappresenta un asset di massima criticità per l’efficienza dell’intera banca”, spiega Walter Facchi, responsabile It Architecture & Innovation di Ubi Sistemi e Servizi (Ubiss, società interna al gruppo). È quindi fondamentale mantenerlo sempre operativo, aumentandone costantemente l’efficienza: è nato proprio con questo duplice obiettivo il recente progetto di razionalizzazione della soluzione ormai in uso da anni, basata su tre software fortemente customizzati. La loro sostituzione con un unico
TUTTI I NUMERI DI UBI BANCA Walter Facchi
Marco Cecchella
Quarto gruppo bancario italiano per raccolta diretta e per capitalizzazione, Ubi Banca (Unione di Banche Italiane) è nata nel 2007 dalla fusione fra Banche Popolari Unite e Banca Lombarda e Piemontese. Il gruppo opera soprattutto con clientela retail e conta 1.530 filiali, per lo più in Lombardia (750) e Piemonte (oltre 160), ma presenti anche in modo rilevante nelle aree più dinamiche del Centro e del Sud Italia. Con la presentazione del Piano Industriale, nel giugno 2016 ha avviato il progetto “Banca Unica”, che ha previsto la fusione per incorporazione delle sette banche rete interne al gruppo (Banca Popolare di Bergamo, Banco di Brescia, Banca Popolare Commercio e Industria, Banca Regionale Europea, Banca Popolare di Ancona, Banca Carime e Banca di Valle Camonica). L’iter si è concluso il 20 febbraio. All’offerta bancaria si affianca quella di “società prodotto” attive nei settori dell’asset management, factoring, leasing, bancassurance vita, e una banca specializzata in trading online e promozione finanziaria.
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STORIA DI COPERTINA | Ubi Banca
strumento di gestione puntava a standardizzare la piattaforma, per garantire massima semplificazione nella messa a punto di nuovi servizi e per abbattere il total cost of ownership della soluzione. A causa delle numerose personalizzazioni, le modifiche e gli aggiornamenti dei vecchi strumenti erano infatti diventati troppo onerosi sia in termini di costo, sia di tempi di realizzazione. C’era, però, un forte vincolo progettuale: la necessità di mantenere invariati i processi aziendali esistenti, in particolare quelli relativi al change management, per la complessità delle loro procedure di autorizzazione e per il numero di attori coinvolti. Dopo un’accurata fase di selezione, condotta sulle principali soluzioni dedicate alla gestione dell’help desk, Ubi Banca ha deciso di adottare CA Service Desk Manager. “Nella scelta ha giocato indubbiamente un ruolo molto importante il rapporto di fiducia che ci lega da anni a CA Technologies, ma decisivi sono stati anche l’estrema flessibilità dello strumento proposto e il suo costo di gestione”, afferma Facchi, sottolineando la piena collaborazione con CA Services per il buon esito implementativo della soluzione. Si è lavorato a quattro mani anche nell’analisi iniziale dei 6
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processi e, successivamente, nell’ottimizzazione della piattaforma. “A pochi mesi dal go live”, prosegue il responsabile Architecture & Innovation di Ubiss, “CA Service Desk Manager ha dimostrato di essere all’altezza delle aspettative, registrando una piena soddisfazione sia da parte degli utenti che richiedono i servizi, sia da parte degli operatori
che rispondono alle richieste”. Il livello d’efficienza desiderato è stato raggiunto anche grazie all’introduzione di nuove funzionalità, come la creazione di una knowledge base accessibile in modalità self service, che mette a disposizione dei 17.000 utenti interni risposte immediate alle problematiche più comuni con una conseguente riduzione nel numero di ticket aperti. “Attraverso la messa a punto di questo portale abbiamo potuto registrare una diminuzione del 10% nel numero di richieste inviate all’help desk, il quale oggi a parità di risorse può garantire un servizio migliore e più tempestivo sulle tematiche maggiormente complesse”, spiega Facchi. L’obiettivo dell’efficienza richiede comunque un processo di ottimizzazione continua e per questo nel corso del 2017 sono previsti ulteriori affinamenti, che riguarderanno gli ambiti più soggetti a ticketing per proporre interventi capaci di risolvere i problemi a monte. Il tutto rientra nell’ottica di offrire maggiore supporto al personale interno, affinché possa a sua volta erogare servizi sempre migliori ai clienti. Claudia Rossi
La customer experience alla guida del cambiamento Marco Cecchella, Cio di Ubi Banca e condirettore generale di Ubiss, spiega come la trasformazione digitale assicurerà un maggiore livello di servizio ai clienti del quinto istituto bancario italiano per numero di sportelli.
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capo di un team It di circa 800 risorse, Marco Cecchella è responsabile dell’intera macchina informatica del Gruppo Ubi, di cui gestisce non solo le classiche tematiche di core banking, ma anche tutti i progetti più innovativi, relativi a digitale e omnicanalità. A Technopolis, il Cio di Ubi Banca e condirettore generale di Ubi Sistemi e Servizi ha spiegato qual è il ruolo giocato dalla tecnologia nella fase riorganizzativa che il gruppo sta attraversando e quali sono i pilastri portanti della sua trasformazione digitale. Quanto è importante la tecnologia in Ubi Banca?
Sotto la spinta dell’ultimo piano industriale presentato agli azionisti, il Gruppo Ubi Banca sta attraversando una significativa fase riorganizzativa che prevede, tra l’altro, il completo assorbimento al nostro interno di tutte le banche della rete. Quando si affrontano tematiche di banca unica, il ruolo di guida è inevitabilmente affidato all’It, incaricato di
Marco Cecchella
governare la macchina del cambiamento seguendo il disegno tracciato dalle linee di business. Sono loro, infatti, che stabiliscono il punto d’approdo dei nuovi modelli da implementare, ma è l’It che ne concretizza le scelte attraverso l’intervento continuo su ogni singola attività. Quali sono gli obiettivi del Gruppo in termini di trasformazione digitale?
Dal 2014 stiamo lavorando a un progetto di digital transformation in costante evoluzione, focalizzato non solo sullo sviluppo di app per i clienti, ma anche sulla messa a punto di una nuova generazione di soluzioni a supporto del back office. Dal punto di vista organizzativo, il compito di mettere in campo le migliori tecnologie che si affacciano sul mercato è assegnato a un pool di risorse It interamente dedicate alla regia dell’innovazione. Uno dei suoi maggiori punti d’attenzione è rappresentato dai Big Data, tema su cui ci siamo focalizzati da oltre un anno per riuscire a sviluppare offerte
sempre più personalizzate. L’analisi dei dati relativi al comportamento d’acquisto dei clienti permette, infatti, di confezionare proposte finanziarie sempre più mirate e tempestive, capaci di cogliere le emotività delle persone nell’attimo esatto in cui si scatenano, anche online. Un altro aspetto d’interesse è rappresentato dallo sviluppo di interfacce capaci di offrire user experience completamente nuove. I nativi digitali si stanno ormai affacciando al mondo del lavoro e negli strumenti bancari cercano esperienze d’uso diverse da quelle tradizionali. In generale, rifiutano le password, preferendo modalità d’accesso touch o vocali. I nostri sforzi si stanno concentrando nella messa a punto di interfacce in grado di assecondare queste preferenze, sviluppando anche automatismi dialogici. Qual è l’impatto di Blockchain sulle scelte tecnologiche del Gruppo?
Abbiamo avviato il primo progetto su Blockchain ad aprile 2016, con l’obiettivo di gestire in questa modalità tutti i pagamenti interni dei clienti di Ubi Banca. Dopo soli tre mesi abbiamo testato il prototipo sui pagamenti di 200 clienti, saggiando l’estrema rapidità dei tempi di sviluppo delle soluzioni basate su questo protocollo. Tempi rapidi, soprattutto se si considera che in questo ambito non avevamo competenze consolidate e che il ricorso all’open source ci ha costretti a “parametrizzare” il software per adeguarlo ai nostri processi. Indubbiamente oggi il sistema dell’offerta è ancora immaturo, ma in prospettiva Blockchain diventerà strategico per Ubi, tanto che abbiamo già in programma l’estensione del suo utilizzo oltre i 200 clienti coinvolti in fase di testing. C.R. 7
IN EVIDENZA
l’analisi IL LUNGO VIAGGIO DI INDUSTRIA 4.0 Gli incentivi per favorire la digitalizzazione del manifatturiero sono solo un punto di partenza. Il vero salto in avanti spetta alle aziende. Fra le tante figure istituzionali che si sono pubblicamente espresse sul tema della quarta rivoluzione industriale c’è anche la cancelliera tedesca Angela Merkel. Il suo auspicio, perfettamente “politically correct”, assegna a Italia e Germania il ruolo di precursori, pionieri e guida per gli altri Paesi europei in tema di rivoluzione digitale. Un’apertura importante, che ha al centro gli standard di Industry 4.0. Il Ministero dello Sviluppo economico capitanato da Carlo Calenda ha giustamente speso risorse per informare un milione di imprese italiane della natura degli incentivi (vedi articolo a pag. 10). La vera sfida, come ha osservato Francesco Sacco, dell’Università Bocconi di Milano, è però quella di trasformare l’insieme delle misure previste in produttività. In punti di Pil. Come? Cambiando i modelli. E più precisamente, secondo l’economista, dando vita a forme di collaborazione in grado di far funzionare le piccole imprese come se fossero grandi aziende, superando di conseguenza l’atavico difetto “strutturale” del nostro tessuto imprenditoriale. Le tecnologie che il piano Industria 4.0 dovrebbe portare massivamente nelle aziende della Penisola sono un passo necessario del cambiamento, ma non quello decisivo. Sono la trasformazione digitale dei processi (operativi e organizzativi) e la cultura dell’innovazione (degli imprenditori) a poter fare la vera differenza, annullando il problema delle dimensioni delle aziende, aprendo le porte della quarta rivoluzione industriale anche alle Pmi.
Il direttore della Direzione generale per la politica industriale, la competitività e le Pmi del Mise, Stefano Firpo, è molto esplicito sul tema: “Gli incentivi devono fungere da miccia, da chiamata per generare un circolo virtuoso di innovazione, ma l’attuazione vera spetta alle aziende”, ha ricordato di recente. Il partito degli scettici
La domanda che molti si fanno è la seguente: il piano del Governo risponde a una vera politica industriale atta a modernizzare, trasformandole dall’interno, le imprese italiane? Saprà stimolare, concretamente, la propensione a nuovi investimenti? Le opportunità di cavalcare la digitalizzazione, grazie agli incentivi, sono sicuramente maggiori rispetto a un recente passato in cui molte imprese manifatturiere hanno recepito poco (e forse anche male) l’importanza e i benefici delle tecnologie. Le nuove macchine, con nuovo software a bordo, sono viste dagli esperti come il primo anello del percorso virtuoso che si vuo-
le mettere in moto. I dubbi da parte di alcuni addetti ai lavori, circa l’efficacia e il successo del piano Industria 4.0, continuano però ad aleggiare, rispetto alla tesi secondo cui la componente di innovazione che lo accompagna sia solo di facciata e gli incentivi siano un assist favoloso “solo” per i venditori di macchinari. Manca la politica industriale, dicono, manca la regia per calare adeguatamente il piano in un viaggio per la trasformazione digitale a livello di sistema. Permane, inoltre, l’interrogativo sulle risorse pubbliche da mettere in tavola (circa 13 miliardi di euro) e sui lavori per la nuova infrastruttura di rete in fibra prevista dal piano ultrabroadband (a cui dedichiamo il focus di pag. 26) che dovrebbe portare le connessioni a 30 megabit a tutte le imprese entro il 2020. E se, come temono gli scettici, si andasse molto più in là, con tempistiche asincrone rispetto al calendario realizzativo di Industria 4.0? Gianni Rusconi
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IN EVIDENZA
INDUSTRIA 4.0: ECCO COME USARE GLI INCENTIVI Una campagna poderosa, quella che il Ministero per lo Sviluppo Economico ha messo in campo per informare le aziende italiane circa le norme applicative delle agevolazioni previste dal piano Industria 4.0. All’azione dell’Agenzia delle Entrate hanno fatto seguito il milione di email inviate dal Mise alle imprese potenzialmente interessate e la pubblicazione online delle linee guida per l’uso degli incentivi. Il titolare dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ha dato il “la” alle varie iniziative ricordando come il “successo del Piano dipenderà dall’ampiezza con cui ogni singolo imprenditore utilizzerà le misure messe a disposizione”. Le agevolazioni per favorire l’innovazione e la competitività sono note: iper e superammortamento (che prevedono la maggiorazione del 40% e del 150% rispettivamente del costo fiscale di acquisizione di beni materiali strumentali nuovi e ad alto contenuto tecnologico), Sabatini ter, credito d’imposta per le spese in ricerca e sviluppo e sgravi fiscali per chi investe in startup e Pmi innovative. L’obiettivo
Dal Mise le linee guida sulle agevolazioni fiscali previste dal piano. Il ministro Calenda: “Ora tocca agli imprenditori”. finale, come conferma il rapporto inviato a inizio febbraio alla Ue, è quello di stimolare una crescita media degli investimenti dello 0,9% annuo tra il 2017 e il 2019. Circa la natura dei beni oggetto di sgravi sull’ammortamento (le aziende ne possono fruire a tutto il 31 dicembre 2017), la norma specifica come nel provvedimento rientrino per
IL WEARABLE PORTA L’INNOVAZIONE NEL NUOTO Un dispositivo indossabile per nuotatori professionisti e amatoriali, che rileva i dati biometrici grazie a una tecnologia composta da tre sensori biomeccanici indipendenti e ad un algoritmo. Si chiama Xmetrics ed è un’idea di Andrea Rinaldo, alumnus executive Mba del Mip Politecnico di Milano. Un progetto premiato tra le sei iniziative imprenditoriali più in-
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novative del mondo all’interno degli Amba Awards, organizzati da Amba, l’associazione internazionale che certifica gli standard qualitativi dei programmi dei Master in Business Administration di tutto il mondo. I dispositivi Xmetrics ideati da Rinaldo sono al momento due: Fit, destinato agli amatori e Pro, pensato per agonisti e professionisti del nuoto.
esempio gli impianti il cui funzionamento è controllato da macchine computerizzate e/o gestite tramite sensori, nonché i dispositivi per l’interazione uomo-macchina e per il miglioramento dell’ergonomia e della sicurezza sul lavoro in logica 4.0. Ai fini dell’iperammortamento, inoltre, un bene deve avere due requisiti per essere definito “interconnesso”: deve sapere scambiare informazioni con sistemi interni (altre macchine, per esempio) o esterni (clienti, fornitori e altri soggetti) ed essere riconoscibile in modo univoco tramite un indirizzo Ip. P.A.
VENETO SMART Le aziende venete della meccanica non si lasceranno sfuggire gli incentivi del governo per l’Industry 4.0. Secondo l’Osservatorio Mecspe, nel 2017 oltre il 50% delle imprese usufruirà delle agevolazioni previste dal Piano Industria 4.0 per l’adozione di nuove tecnologie e nei prossimi anni oltre l’80% investirà una parte significativa del proprio fatturato in soluzioni smart per il manifatturiero.
l’opinione LA MIGRAZIONE DELLE PMI AL CLOUD È UN PASSAGGIO OBBLIGATO. ECCO PERCHÉ Stando all’ultima edizione dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, solo poco più del 20% delle Pmi italiane si avvale di soluzioni di cloud computing. E si tratta in particolare di servizi nella nuvola di tipo pubblico. Possiamo quindi evidenziare una tendenza abbastanza netta e sicuramente molto indicativa: mentre le grandi aziende si orientano verso soluzioni di private cloud e sempre più spesso verso un cloud ibrido, vi è una propensione delle imprese piccole e medie (tra dieci e i 49 addetti) all’adozione di applicazioni “as-a-Service”, offerte dai provider che popolano questo mercato. In altre parole, il 90% del tessuto industriale italiano, che rappresenta circa il 50% del Pil, ha nel public cloud un’incredibile opportunità di digitalizzazione, una “scorciatoia sicura” per poter ridurre l’onere gestionale delle risorse informatiche utilizzate in azienda. Il vero plus di questo approccio è infatti quello di generare un indubbio vantaggio competitivo, grazie alla maggiore agilità portata ai sistemi informativi e alle operations. Agilità che si riflette in modo decisivo sul business. Le Pmi dovrebbero guardare in chiave strategica al cloud perché rappresenta la soluzione migliore per gestire le più disparate esigenze. Frequentemente si ricollega questo termine al semplice hosting di informazioni, mentre in realtà i servizi nella nuvola più evoluti consentono di risolvere problemi concreti con i quali molte aziende sono costrette a misurarsi ogni giorno, spesso senza trovare una risposta e senza sapere dell’esistenza di un’alternativa.
Dionigi Faccenda
L'utilizzo della nuvola va oltre i servizi di hosting. È un'opportunità unica e low cost per creare efficienza. A mio avviso sono cinque i benefici che la nuvola è in grado di trasferire nei processi di un’impresa. Il minor utilizzo di risorse, innanzitutto: serve meno hardware perché quello disponibile viene sfruttato meglio, riducendo di conseguenza i costi dell’It e gli oneri energetici della sala macchine. Poi la flessibilità, in quanto il fabbisogno di risorse si può modificare in qualsiasi momento, per eseguire operazioni particolarmente complesse o mettere a disposizione di un nuovo collaboratore uno spazio di memoria aggiuntivo. Con il vantaggio tangibile di pagare solo la “quantità” di servizio di cui si ha effettivamente bisogno. In terzo luogo, la trasparenza dei costi: i servizi cloud prevedono un modello a noleggio e un prezzo variabile in base alla potenza di calcolo e alla memoria richieste. La sicurezza, quindi: visto che le componen-
ti hardware e software sono separate, in caso di problemi tecnici il sistema si può semplicemente spostare su un altro server, riducendo le interruzioni del servizio e aumentandone la disponibilità. In ultima analisi c’è il risparmio in termini di assistenza e mantenimento dell’infrastruttura It, voci di costo a carico del provider. Spostare sul cloud parte del proprio sistema informatico (infrastruttura, piattaforme e anche servizi), ipotizzando nel tempo una migrazione più consistente, permette di evitare investimenti in nuovo hardware e di semplificare la configurazione della rete aziendale, godendo delle garanzie offerte dal provider in fatto di affidabilità e disponibilità dei servizi. Il modello di computing basato sul concetto di servizio va verso la dematerializzazione delle risorse Ict, mirata a ottenere massima scalabilità e agilità a fronte di costi contenuti e prevedibili. E questa è una strada che le Pmi italiane non possono permettersi di non seguire. Dionigi Faccenda, Sales & marketing director di Ovh Italia
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IN EVIDENZA
SMART CITY PIÙ RICCHE Le città smart sono al centro della politica lombarda. La Regione ha selezionato i 45 progetti finali tra le novanta candidature raccolte dal bando pubblico “Accordi per la ricerca”. Le iniziative potranno contare su contributi massimi singoli pari a 4,5 milioni di euro. I fondi per i finanziamenti sono stati individuati grazie a una partnership pubblico-privata che ha coinvolto 181 aziende e 95 organismi di ricerca, pronti a mettere sul piatto 279 milioni di euro per diversi ambiti d’intervento, tra cui appunto le smart city. I centri urbani intelligenti si trovano però anche al centro delle politiche europee: l’Agenzia esecutiva per l’innovazione e le reti (Inea) della Ue ha, infatti, confermato l’erogazione di 135 milioni di euro per 14 progetti relativi ai bandi “Smart cities and communities” e “Low carbon energy”.
UNIVERSITÀ IN RETE Investire denaro e fare rete con il tessuto universitario per far crescere le startup. È l’obiettivo della Res Academy del Gruppo Res, progetto nato nel 2015 per sostenere le idee provenienti dal mondo accademico italiano. Nell’ottica di estendere continuamente il proprio network, l’azienda ha di recente annunciato la creazione di un laboratorio di ricerca congiunto con l’Università di Pavia. Si chiama Res Institute for Data Science (Rids) e ha ricevuto un finanziamento di 200mila euro per quattro anni. Somma che si aggiunge a quella stanziata da qui al 2018 per l’intera iniziativa (1,4 milioni).
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L’IOT ENTRA IN LABORATORIO
Gli oggetti connessi alla Rete oggi sono circa cinque miliardi, ma nel 2020 si arriverà a venti miliardi. L’Internet delle Cose è realtà e Tim intende capitalizzare le proprie conoscenze in questo giovane mercato offrendo a clienti, aziende, partner e istituzioni la possibilità di toccare con mano il mondo dell’IoT. Come? Con l’Open Lab, un centro di ricerca e innovazione inaugurato a Torino e dedicato all’Internet of Things con l’obiettivo di favorire e accelerare la crescita dei servizi IoT e delle applicazioni per “smart life” e industrial Internet. L’Open Lab dà la possibilità di sperimentare modalità di utilizzo
Il Tim Open Lab di Torino offre aD aziende, partner e istituzioni la possibilità di toccare con mano il mondo dell’Internet delle Cose, testando le nuove tecnologie in ambienti controllati. della tecnologia Narrowband IoT (NB-IoT), che garantisce una maggiore estensione di copertura radio, un più alto livello di affidabilità e sicurezza e la capacità di gestire diecimila sensori per cella prolungando fino a dieci anni la durata delle batterie dei dispositivi connessi. L’NBIoT può essere adottato nell’ambito dei sistemi di rilevazione dei contatori, nella logistica, nell’agricoltura, nella sicurezza, nei trasporti e nell’automazione industriale. All’interno dell’Open Lab di Tim, realizzato in partnership con Olivetti, è possibile condurre test sui servizi in un ambiente controllato prima del loro lancio commerciale, confrontandosi con esperti del settore. A.A.
l’intervista
DIALOGO E APERTURA, LE FONDAMENTA DELLA TRASFORMAZIONE L'amministratore delegato di TeamSystem spiega la sua filosofia: le soluzioni software, anche se concorrenti, devono comunicare fra loro.
Abbattere le barriere, favorire lo scambio dei dati e l’integrazione dei processi: oggi sempre più le società tecnologiche parlano di “apertura” e di “ecosistema”. Tra i più attivi sostenitori di questa filosofia in Italia spicca TeamSystem, gruppo con quartiere generale a Pesaro e nome di riferimento nell’offerta di software gestionali. Fondato nel 1999 e cresciuto a suon di acquisizioni, oggi è arrivato a contare quasi 250mila clienti e circa 300 milioni di euro di fatturato (stima per l’anno 2016). Ne parliamo con l’amministrtore delegato, Federico Leproux. A che punto sono le aziende italiane nel percorso di trasformazione digitale, di cui tanto si parla?
L’adozione cloud è uno dei modi con cui le piccole e medie imprese possono recuperare produttività. Siamo ancora agli inizi di questo percorso, che però sta accelerando. Finalmente l’offerta inizia a essere sostanziosa, la
nostra e quella dei concorrenti. È una buona notizia: se pensiamo alla digitalizzazione come a una possibilità di apertura verso l’esterno, non ha senso che essa sia rivolta unicamente ai nostri clienti. Funziona, invece, se i clienti di TeamSystem possono dialogare con le tecnologie della concorrenza in un’ottica di “coo-petizione”. È un processo che deve avere massa critica ma sono fiducioso, vedo tutti i nostri concorrenti andare in questa direzione. Come possiamo accelerare ancora?
Questo percorso è favorito innanzitutto dall’evoluzione tecnologica, da software sempre più validi e spostati verso il cloud. L’adozione della fatturazione elettronica nella Pubblica Amministrazione è un buon esempio. Si tratta di cambiamenti che devono essere promossi con incentivi fiscali o di semplificazione burocratica, ma anche rendendo obbligatorie alcune pratiche. Una volta superato l’ostacolo, saranno i clienti a chiederci soluzioni per diven-
PIATTAFORMA O PARADIGMA? Si integra con tutti i gestionali, non solo quelli sviluppati da TeamSystem, e permette di accelerare e sfruttare al massimo i processi di fatturazione elettronica. Per Federico Leproux, Agyo non è solo una nuova piattaforma, già a disposizione degli oltre 250mila utenti dei diversi programmi gestionali sviluppati dalla software house, ma rappresenta un vero e proprio nuovo
tare sempre più digitali e automatizzati. Insomma, siamo a un punto di svolta però bisogna che tutti gli attori facciano la loro parte: i soggetti economici e istituzionali ma anche i vendor, cui spetta proporre soluzioni interconnesse e capaci di dialogare fra loro in ottica di sistema e di piattaforma. Ci spieghi meglio il concetto di “piattaforma”...
Oggi è possibile creare dei sistemi integrati che partono dalla fatturazione per estendersi ad altre attività, quali la valutazione del credito, l’e-commerce, la conservazione sostitutiva, la dematerializzazione dei documenti, i pagamenti, l’e-procurement. Con la nostra proposta di piattaforma b2b aperta ci rivolgiamo ai nostri clienti ma anche a chi utilizza soluzioni di altri vendor, le quali possono dialogare con la nostra. Il bacino potenziale è immenso, includendo le Pmi ma anche i professionisti con partita Iva. Valentina Bernocco
Federico Leproux
corso per il Gruppo, un modo diverso e più moderno di servire aziende e professionisti. In grado di gestire sia il ciclo attivo sia quello passivo, Agyo è anche l’occasione per allargare il mercato a coloro che non necessariamente usano un gestionale: con il nuovo ambiente basta avere una pagina Web per entrare nel magico ed efficiente mondo della fatturazione elettronica. E.M.
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IN EVIDENZA
INDUSTRY 4.0 A MISURA DI PMI
COLTIVARE I TALENTI CON I MASTER Intesa Sanpaolo, Cisco e Tag Innovation School di Talent Garden hanno avviato un corso post universitario sulla trasformazione digitale. L’Università di Pisa punta sulla cybersicurezza. Per far sì che le aziende dispongano di talenti capaci di guidarle con successo sull’onda della trasformazione digitale, è necessario partire dalla formazione dei futuri professionisti. Qualcosa si sta muovendo dal punto di vista accademico, ma non solo. Un esempio di come si possano offrire corsi di formazione anche al di fuori del mondo universitario è arrivato di recente da Intesa Sanpaolo, Cisco e Tag Innovation School di Talent Garden, ideatrici di un master dedicato alla digital transformation. Un corso di 12 settimane (partito a febbraio), riservato a venti vincitori di borse di studio di età compresa fra i 25 e i 35 anni, e costituito da sessioni teoriche e workshop all’interno di aziende e università partner selezionate. Fra i temi approfonditi spiccano l’Internet of Things, i Big Data analytics e il change management. A fine corso, per i venti 14
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iscritti si apriranno con tutta probabilità le porte di una delle società aderenti all’iniziativa. L’Internet delle Cose è anche al centro anche del nuovo master indetto dal Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, nell’ambito però di un programma imperniato più sulla cybersecurity. L’obiettivo del progetto dell’ateneo toscano, a cui partecipa anche l’Istituto di Informatica e Telematica del Cnr, è quello di formare professionisti in grado di individuare le principali minacce informatiche e di progettare contromisure adeguate. Nel mercato della sicurezza sono previsti a livello mondiale oltre 160 miliardi di euro di investimenti da qui al 2020. Più di 209mila posti di lavoro sono attualmente vacanti nei soli Stati Uniti e si prevede che la domanda mondiale di professionisti arrivi a sei milioni entro il 2019, con un deficit d’offerta previsto di 1,5 milioni. Il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa ospita da tempo un gruppo di ricerca sulla sicurezza dell’Internet of Things, coordinato dai professori Gianluca Dini (da qualche mese anche direttore del master in cybersecurity) e Giuseppe Anastasi (direttore del Laboratorio Nazionale Smart Cities & Communities del Cini).
La quarta rivoluzione industriale deve “contaminare” anche le piccole e medie imprese. Va in questa direzione il progetto Industry 4.0 for Smes, voluto dalla Libera Università di Bolzano in collaborazione con altri atenei del mondo per analizzare i bisogni delle Pmi e proporre nuove soluzioni. L’idea è piaciuta all’Unione Europea, che (nell’ambito del programma Horizon 2020) ha destinato 311mila euro direttamente all’università altoatesina per sostenere l’iniziativa di ricerca. Il valore complessivo del bando è di 783mila euro. Fra i partner del progetto figura anche il Mit di Boston.
FILIERA SICURA: ATENEI IN CAMPO La filiera industriale non è affatto immune da attacchi informatici. Per questo motivo è nato un nuovo progetto di ricerca triennale, voluto dal Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica (Cini), che ha l’obiettivo di innalzare il livello di protezione delle infrastrutture critiche contro eventuali azioni degli hacker, proponendo nuove metodologie, tecniche e strumenti. Il progetto si chiama “Filierasicura” e può contare sulla collaborazione di otto università italiane e di due aziende in qualità di partner tecnologici e finanziatori: Cisco e Leonardo. L’iniziativa prenderà in considerazione vari aspetti legati alla sicurezza dei sistemi, dalle componenti hardware a quelle software, passando per il monitoraggio dei malware e delle piattaforme industriali. I test pilota verranno condotti su una smart grid elettrica di proprietà dell’Università di Genova.
TECHNOPOLIS PER BROTHER
SOLUZIONI LASER SPECIALIZZATE IN SICUREZZA
La nuova generazione di dispositivi a colori spinge sulla produttività, garantendo alle aziende bassi costi di gestione e avanzate funzionalità di autenticazione. Interpretare sempre al meglio le esigenze del mercato, offrendo prodotti affidabili e di massima qualità. Un impegno costante che negli anni ha premiato Brother con un consenso crescente da parte della clientela, tanto che oggi lo specialista giapponese di imaging e stampa vanta a livello italiano addirittura una quota di mercato pari al 25% nel segmento delle laser monocromatiche A4 e dell’11,7% nel comparto delle laser a colori A4 (dati Gfk). Percentuali importanti, che continuano a registrare crescite a due cifre anno su anno. Ad essere apprezzato è soprattutto il valore delle soluzioni proposte, un’ampia gamma di prodotti recentemente aggiornata con il lancio di una nuova generazione di dispositivi laser a colori dalle caratteristiche davvero uniche sul mercato. “L’ultima lineup comprende nuovi modelli di stampanti e multifunzione altamente performanti, in grado di migliorare la produttività aziendale, in termini di controllo e gestione dei flussi di lavoro”, chiarisce Gianluca Paese, product specialist laser di Brother Italia. “Inoltre, grazie alle migliorie introdotte sulla tecnologia polimerizzata delle particelle di toner, i nuovi dispositivi sono in grado di produrre documenti ad altissima resa e qualità, riducendo al minimo i consumi”. Compongono la nuova famiglia sette modelli laser a colori, tutti progettati per garantire funzionalità avanzate di sicurezza e un’elevata affidabilità nel tempo, a prezzi competitivi. La piattaforma software a interfaccia aperta consente di migliorare ulteriormente la produttività aziendale at-
traverso il controllo totale dei flussi di lavoro, la personalizzazione della interfaccia utente e la messa a punto di funzionalità ad hoc sulla base di specifiche esigenze. Le stampanti e i multifunzione della nuova gamma Brother integrano anche la tecnologia Nfc (Near Field Communication) per consentire stampe e scansioni da e verso i dispositivi mobili, ma soprattutto per permettere l’autenticazione dell’utente. Dall’ampio schermo touchscreen di cui sono dotati alcuni modelli, inoltre, è possibile dialogare direttamente con la maggior parte delle soluzioni cloud, stampando e acquisendo immagini da e verso la nuvola, attraverso i servizi online più usati. “Il mercato cui si indirizza questa nuova generazione di prodotti”, conclude Paese, “è soprattutto costituito dalle Pmi, oltre naturalmente a tutti quei settori verticali in cui è richiesto un elevato livello di sicurezza o devono essere applicate particolari soluzioni di stampa e archiviazione”. Tra gli ambiti di riferimento specifici vanno annoverati soprattutto la sanità, la logistica, la Pubblica Amministrazione, l’istruzione, l’impiantistica e il settore legale.
BROTHER MFC-L9570CDW
Caratteristiche generali • Multifunzione con velocità di stampa A4 fino a 31 ppm a colori o in b/n • Velocità di scansione A4 fino a 100 ipm a colori o in b/n • Alimentazione carta fino a 2.380 fogli • Fronte/retro automatico • Connettività wireless IEEE 802.11b/g/n ed Ethernet 10Base-T/100Base-TX/1000Base-T Caratteristiche specifiche • Ampio pannello touchscreen a colori (fino a 16,5 cm) • Toner ad altissima capacità per costi di gestione contenuti • Tecnologia Nfc incorporata per l’autenticazione dell’utente • Compatibilità con i servizi cloud per stampa e scansione • Interfaccia e funzioni personalizzabili • Funzionalità di sicurezza avanzate 15
SCENARI | Trend tech
LE DIECI TECNOLOGIE “CALDE” DEL 2017 Dominato da Internet delle cose, realtà aumentata, sistemi conversazionali e "gemelli digitali", il nostro futuro sarà sempre più intelligente. Parola di Gartner
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e dieci tecnologie chiave del 2017 ruoteranno tutte attorno all’intelligent digital mesh, cioè al mix digitale di persone, cose e servizi. A prevederlo è la società d’analisi Gartner, che immagina un futuro sempre più smart, alimentato da Intelligenza Artificiale, applicazioni, Internet delle cose, realtà aumentata, Blockchain, assistenti virtuali e “alter ego” digitali, e ancora da nuove piattaforme e architetture. Vediamo nel dettaglio le dieci previsioni.
INTELLIGENZA ARTIFICIALE
BLOCKCHAIN
APPLICAZIONI INTELLIGENTI
L’apprendimento automatico, o machine learning, permette alle macchine non solo di imparare dall’esperienza ma anche di modificare il proprio comportamento. In futuro, a garantire nuove capacità ai dispositivi saranno una potenza elaborativa sempre maggiore, l’utilizzo di algoritmi avanzati e la disponibilità di enormi quantità di dati in grado di alimentare questi algoritmi.
L’utilizzo del “libro mastro distribuito”, in cui le transazioni vengono raccolte per blocchi sequenziali, sta guadagnando spazio in virtù della sua capacità di trasformare i modelli operativi e di garantire piena visibilità delle informazioni all’interno di ogni anello della catena. La maggior parte delle iniziative è però ancora in fase sperimentale e molte sfide tecnologiche devono essere ancora affrontate.
Gli assistenti personali virtuali, come Siri e Google Assistant, ne rappresentano l’espressione più nota. Accanto a questi software al servizio dell’utente, su mobile o Web, in futuro i principali ambiti di applicazione saranno le analisi di dati avanzate, i processi di business e le interfacce immersive.
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REALTÀ VIRTUALE E AUMENTATA
Queste due tecnologie stanno trasformando il modo in cui le persone interagiscono tra loro e con i sistemi software. Già oggi la realtà virtuale può essere utilizzata in contesti di formazione a distanza; quella aumentata consente di sovrapporre elementi grafici a oggetti del mondo reale e trova applicazione in campo medico e nella logistica. In futuro le esperienze immersive basate su questi strumenti raggiungeranno traguardi sempre più interessanti in termini di costi, andando ad abbracciare tutti i sensi e non solo la vista.
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ARCHITETTURE “MESH APP AND SERVICE”
Il mesh digitale richiede profondi cambiamenti nelle architetture e negli strumenti di sviluppo. La cosiddetta Masa (Mesh App and Service Architecture) è un’architettura multicanale che sfrutta cloud e microservizi per offrire soluzioni modulari, flessibili e dinamiche, capaci di supportare più utenti, in più ruoli, su più dispositivi e su più reti. È un nuovo modo di sviluppare software, che nel lungo periodo segnerà un cambiamento significativo rispetto al passato.
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OGGETTI SMART
Fino a oggi sono stati identificati in robot, droni e veicoli autonomi. In futuro tutti gli oggetti diventeranno intelligenti e passeranno da un modello standalone a uno più collaborativo, per comunicare tra loro e agire di concerto. Evolvendosi, renderanno disponibili ovunque (dalla casa all’ufficio, dalle fabbriche agli ospedali) le capacità offerte dall’intelligenza artificiale.
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GEMELLI DIGITALI
Nel giro di tre o cinque anni, miliardi di oggetti avranno un modello software dinamico associato. Analizzando i dati relativi al modo in cui un oggetto interagisce con l’ambiente e quelli raccolti dai
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sensori, il “gemello digitale” permetterà di migliorare le attività degli oggetti stessi, aggiungendo valore. SISTEMI CONVERSAZIONALI
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Rappresentano, secondo Gartner, una delle tendenze più significative. In futuro non saranno più le persone ad adattarsi alle macchine per interagire con loro, ma viceversa saranno i computer a doversi adeguare alle aspettative delle persone. Le interfacce uomo/macchina non frutteranno più soltanto la comunicazione verbale (voce e testo) ma anche la vista, il tatto e altre modalità combinate fra loro
CINQUE INVENZIONI PER IL FUTURO Machine learning applicato al campo medico, tecnologie di hyperimaging, “macroscopi” (sistemi di elaborazione e previsione di vario tipo, dalle immagini dello spazio ai Big Data dell’agricoltura), laboratori di analisi racchiusi in un chip e sensori intelligenti per l’inquinamento. Sono queste, secondo Ibm, le cinque tecnologie che contribuiranno a cambiare la nostra vita nell’arco di un lustro. L’intelligenza artificiale sembra fare la parte del leone. Per esempio, gli scienziati stanno valutando trascrizioni e registrazioni di colloqui in ambito psichiatrico con tecnologie di apprendimento
automatico, per ricavare modelli di linguaggio utili a prevedere o monitorare patologie come psicosi, schizofrenia e depressione. In futuro, sistemi analoghi potranno forse supportare anche i pazienti affetti da altri disturbi. Il settore sanitario trarrà beneficio anche dai laboratori di analisi “on-a-chip”, che permetteranno di esaminare marcatori biologici e particelle nanometriche per individuare precocemente l’insorgenza di malattie. Nella tutela dell’ambiente, aiutati dalla fotonica del silicio, futuri sensori sapranno trasmettere alla velocità della luce dati sull’inquinamento. A.A.
PIATTAFORME DIGITALI
Le piattaforme tecnologiche rappresentano le fondamenta del business digitale. Secondo gli analisti di Gartner, nel 2017 tutte le organizzazioni ne utilizzeranno almeno una fra customer experience, analytics&intelligence ed ecosistemi IoT. Ogni azienda dovrebbe comunque capire come si evolveranno le piattaforme digitali del proprio settore e, di conseguenza, pianificare la propria strategia tecnologica.
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SICUREZZA ADATTIVA
Di fronte alle evoluzioni delle piattaforme di digital mesh, la sicurezza ha l’obbligo di diventare fluida e capace di adattarsi. Negli ambienti IoT chi lavora sugli aspetti di security dovrà collaborare con gli architetti delle applicazioni per valutare già in fase di progettazione gli eventuali rischi. Ogni azienda necessiterà di una protezione multilivello e di attività di analisi comportamentale su utenti e oggetti. Claudia Rossi
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CHI HA PAURA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE? NON LE GRANDI AZIENDE L’intelligenza artificiale spaventa non pochi osservatori. Lo scorso anno uno studio del World Economic Forum (frutto di interviste a top manager delle 350 maggiori società al mondo) stimava che entro il 2020 i robot occuperanno circa cinque milioni di posti di lavoro, non limitandosi alla manovalanza: mentre la prima ondata del fenomeno ha riguardato soprattutto l’automazione delle catene di montaggio, la seconda potrebbe travolgere professioni impiegatizie, di contabilità e del settore finanziario. Ma c’è anche chi continua a sostenere che il lavoro a valore aggiunto non sarà minacciato da questi fenomeni. Secondo un’indagine di Accenture (“Accenture Technology Vision 2017”) eseguita su 5.400 dirigenti e reponsabili It, l’85% delle grandi aziende intende compiere significativi investimenti in intelligenza
artificiale entro i prossimi tre anni; un 31% di avanguardisti, inoltre, sta pianificando di utilizzare estensivamente gli studi sul comportamento dell’uomo per creare nuove forme di user experience, sempre da qui a tre anni. Vale la pena sottolineare che quelle coinvolte nell’indagine sono realtà enterprise, con fatturato compreso fra 500 milioni e 6 miliardi di dollari, dotate quindi di capacità strategiche e di budget superiori alla media. Un aspetto accomuna, tuttavia, queste grandi imprese alla platea delle Pmi: nell’investire in intelligenza artificiale, analytics e robotica, dovranno stare attente a non trascurare la componente umana. Come emerso dallo studio di Accenture, con la tecnologia si potranno ottenere incrementi di produttività anche del 40%, ma a patto di rafforzare ruoli e competenze delle persone. V.B.
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SCENARI SCENARI || Trend Tech
Dopo il boom del 2016, il fenomeno dei malware “ricattatori” continuerà anche quest'anno. Nel mirino dei criminali finiranno Pc, server e smartphone, ma anche nuovi “ostaggi” come le automobili connesse.
SICUREZZA, IL NEMICO SI CHIAMA RANSOMWARE
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uove ondate di “rapimenti” e ricatti stanno per abbattersi su decine di milioni di computer, server, smartphone e tablet, ma non mancheranno nemmeno di raggiungere nuovi lidi come i terminali Pos, gli sportelli Atm e i dispositivi smart della domotica. Un po’ tutti i principali vendor di sicurezza concordano sul fatto che il 2016 sia stato l’anno dei ransomware, ovvero infezioni malware che prendono in “ostaggio” un device, bloccando lo schermo con un’immagine o crittografandone i contenuti, e che poi chiedono il pagamento di un riscatto in denaro (spesso, in Bitcoin) in cambio della “liberazione”. L’anno scorso, secondo le rilevazioni di Trend Micro, il numero di famiglie di ransomware in circolazione è aumentato del 400%; nel 2017 la crescita proseguirà ma sarà più qualitativa che non quantitativa, essendo la stima di incremento limitata al 25%. Non dovremmo assistere dunque all’impennata esponenziale del recente passato, ma in compenso i criminali colpiranno obiettivi più diversificati, 18
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più sensibili e di dimensioni maggiori. Entrando nella rete di un’azienda, per esempio, potranno non solo prendere in ostaggio dispositivi come i Pc ma anche i server; potranno sottrarre dati preziosi, da rivendere sui mercati clandestini, e solo in un secondo momento installare un malware crittografico e chiedere un riscatto. E non è escluso che questa minaccia inizi a prendere di mira i sistemi informatici che comandano i Pos (Pointof-Sale) e gli sportelli Atm. Un nuovo fenomeno, quest’ultimo, su cui si è espresso anche un altro vendor di sicurezza It, Eset, coniando l’espressione “ransomware of Things”. Nel novero negli oggetti connessi e potenzialmente attaccabili sono inclusi apparati quali Webcam e videocamere di sorveglianza, sistemi di illuminazione e di antifurto controllati da remoto, ma anche – più banalmente – i router WiFi domestici e da ufficio, spesso tappezzati di vulnerabilità software e non protetti da password adeguate. Nel perimetro dell’IoT rientra, poi, anche un altro oggetto di comune utilizzo: l’automobile. “Con lo sviluppo
di sistemi di gestione dei veicoli, come Android Auto, contiamo di vedere nuovi percorsi di ingresso per potenziali criminali”, spiega Florian Malecki, international product marketing director di SonicWall. Non è inverosimile, secondo l’esperto, che si riesca ad hackerare una vettura connessa per ricattare il guidatore impedendogli di aprire una portiera o, peggio, disabilitando il controllo dei freni fino al pagamento del riscatto. E non sono lontani nella memoria, in proposito, gli hackeraggi dimostrati compiuti nel 2015 e nel 2016 da due informatici (poi assunti da Uber) ai danni della Jeep Cherokee di Fca. Anche G Data punta l’attenzione sugli oggetti connessi, prevedendo il crescente utilizzo dell’Internet delle cose come vettore di attacchi. E anche in questo ambito è forte il collegamento al mondo mobile: gran parte dei dispositivi smart passibili di attacco, spiega l’azienda in una nota, sono configurati e controllati tramite smartphone e tablet, altamente vulnerabili. Valentina Bernocco
IL SOGNO AMERICANO E L‘INCUBO DI TRUMP
L‘
American dream è anche un sogno tecnologico. Le storie di immigrazione e di affermazione professionale dei non nativi statunitensi si intrecciano spesso e volentieri con i percorsi delle società It e delle startup, siano esse specializzate in hardware o in software o attive nel Web e nei social network. Dalla California a Seattle, senza dimenticare la East Coast e le culle dei grandi data center, la componente straniera è da decenni parte integrante del mondo tecnologico a stelle e strisce. A detta del Silicon Valley Index, più della metà dei professionisti 25-44enni che lavorano in questa regione non vanta natali americani e la percentuale sale al 74% se si considerano i soli settori dell’informatica e della matematica. Statistiche come questa spiegano bene perché contro la severità anti-islamica sfoggiata da Donald Trump a pochi giorni dall’insediamento si sia schierato un vero e proprio esercito pacifico: da Apple a Microsoft, passando per Google, Facebook, Amazon, Twitter, Netflix e Uber, quasi cento società tecnologiche (97, per la precisione) hanno formalmente appoggiato le azioni legali dello Stato di Washington e, a ruota, di altri 15 Stati federali. Nelle 53 pagine del documento consegnato (a inizio febbraio) a una Corte d’Appello si ribadisce che il Muslim ban indirizzato ai cittadini di sette Paesi a maggioranza islamica “infligge un danno significativo agli affari americani, all’innovazione e alla crescita che ne consegue” e si sottolinea che “gli immigrati e i loro figli hanno fondato oltre 200 delle aziende nella classifi-
ca Fortune 500, tra cui Apple, Kraft, Ford, General Electric, AT&T, Google, McDonald’s, Boeing e Disney”. Già durante la campagna elettorale, d’altra parte, il tycoon aveva criticato le assunzioni di giovani stranieri da parte delle società statunitensi (regolamentate da un programma interno all’Immigration and Nationality Act), applicando anche al mercato del lavoro la sua logica protezionistica. Il cambio di rotta rispetto alla politica di Barack Obama è evidente anche sul tema della cosiddetta net neutrality, il principio per cui gli Internet Service Provider sono tenuti a garantire pari velocità e servizi a tutti i siti Web, evitando di favorire quelli più ricchi o più frequentati. Fortemente voluta dall’ex presidente e approvata dalla Federal Communications Commission nel 2015, la norma sulla neutralità della Rete annovera tra i suoi più fieri oppositori il repubblicano Ajit Pai, cioè l’attuale presidente della Fcc, di nomina trumpiana. È presto per dire se sul Web compariranno “corsie preferenziali”, come auspicano alcuni provider (AT&T e Verizon, innanzitutto), ma la possibilità di nuovi scontri ideologici è già all’orizzonte. A Pai va comunque riconosciuto il merito di un esplicito impegno a portare la banda larga nei fazzoletti di terra ancora sprovvisti di connessioni ultraveloci: “Una delle nostre priorità”, ha detto il presidente della Fcc nel suo discorso d’insediamento, “è quella di eliminare il digital divide e fare il necessario perché i privati realizzino le reti fisse e mobili per connettere tutti gli americani”. V.B.
INNOVAZIONE: USA DIETRO ALL’EUROPA Tra la Silicon Valley e l’area intorno a Seattle, il territorio statunitense è un formidabile concentrato di aziende hi-tech. Non è questo, tuttavia, l’unico criterio che può definire il livello di innovazione di un Paese, e dunque nell’indice realizzato annualmente da Bloomberg gli Usa si piazzano (nell’edizione 2017) solo al nono posto, dietro a Corea del Sud, Svezia, Germania, Svizzera, Finlandia, Singapore, Giappone e Danimarca, e appena prima di Israle. Non meglio va alla pur tecnlogica Cina, ventunesima, mentre l’Italia conquista il 24esimo posto. Numeri risultati dalla somma dei vari criteri di valutazione considerati da Bloomberg, ovvero la densità di imprese tecnologiche attive sul territorio, la presenza di ricercatori, i brevetti depositati, il tasso di produttività, l’efficienza del settore terziario e le attività manifatturiere a elevato valore aggiunto. Gli Stati Uniti, in effetti, eccellono per densità di compagnie hi-tech (primo posto nel mondo) e per numero di brevetti all’attivo (secondo posto dopo la Corea del Sud), mentre il piazzamento è più basso in relazione alla ricerca e sviluppo e alla manifattura a valore aggiunto.
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SCENARI | Data journalism
NUOVE ABITUDINI NELL’ERA DEGLI SMARTPHONE La tipologia di rete preferita per connettersi a internet
80 70 60 50 40 30 20 10 % 0 FONTE: Deloitte Global Consumer Survey 2016
La quotidianità, i vezzi e le manie dell’utente mobile e digitale. A tracciarne il profilo, italiano e mondiale, due studi di Deloitte e di Accenture.
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l telefonino intelligente che diventa causa di litigio in famiglia. I messaggi di Whatsapp e le mail aziendali lette nel mezzo della notte. E ancora, le app che perdono la sfida con i siti Web tradizionali per la consultazione delle news e che invece vincono la partita sui social. Le reti cellulari che si fanno preferire a quelle WiFi per navigare in Rete e lo smartphone che acquisisce valore perché dotato di intelligenza artificiale. Lo scenario che caratterizza l’universo digitale mobile è particolarmente frastagliato, ricco di spunti – a volte sorprendenti – e ben riassunto dagli ultimi studi dedicati all’argomento da Deloitte (“Global Mobile Consumers Survey
2016”) e da Accenture (“Digital Consumers Survey 2017”). Il primo evidenzia, per esempio, come all’Italia vada il primato di Paese europeo in cui più spesso il cellulare diventa causa di discussioni e strumento di “gossip da smartphone” (al fondo della lista, in entrambi i casi, c’è l’Olanda) e come questo inseparabile dispositivo crei scompiglio tra vita privata e lavorativa. La reperibilità “24x7” associata all’uso dei telefonini, infatti, costringe a sacrificare tempo libero e ore di sonno per rispondere alle email (succede nell’83% dei casi). Il 57% dei professionisti in carriera controlla immediatamente il telefono al mattino appena sveglio, il 59% lo
fa più di duecento volte durante il giorno e all’80% capita di addormentarsi con il cellulare in mano. Un fenomeno che interessa tutti, manager e non, è sicuramente quello delle app di messaggistica istantanea, i cui utenti lo scorso anno sono cresciuti del 60% rispetto al 2015: Whatsapp è usato in modo costante e continuativo dal 56% degli intervistati, seguono Facebook con il 39% e Instagram con l’11%. Detto che il proprio smartphone, per oltre due terzi degli italiani intervistati, è promosso a pieni voti e che Samsung si conferma il marchio più gettonato, è interessante osservare come più di un utente su due (il 52% per la precisione) preferisca le reti mobili 3G e 4G al WiFi. Le ragioni principali di questa scelta? La scarsa disponibilità di reti senza fili pubbliche e private, a cui potersi connettere gratuitamente, e poi la necessità di condividere in tempo reale video e immagini. Lo studio di Accenture, invece, apre una finestra sul futuro prossimo degli smartphone confermando come almeno un terzo dei consumatori del pianeta si senta a proprio agio nell’utilizzare le funzionalità di intelligenza artificiale di cui è dotato (in primis gli assistenti vocali, che interessano l’84% dei giovani fra i 14 e 17 anni) e come il 62% ne faccia uso almeno una volta al mese. Curioso, inoltre, il fatto che già a partire dal 2017 tra i fattori che orientano l’acquisto di un nuovo telefonino siano indicati l’assistente medico, il tutor virtuale per la pianificazione dei viaggi e il tool per gestire l’agenda. In generale, infine, un intervistato sue due è a favore di un maggiore “sfruttamento” dei propri dati personali e sensibili in cambio di servizi digitali personalizzati (e naturalmente gratuiti). Tendenza che la dice lunga sull’attenzione alla questione sicurezza da parte del consumatore medio. Eppure, allo stesso tempo, il 90% del campione si dice preoccupato per l’affidabilità delle transazioni finanziarie condotte online o tramite app. Gianni Rusconi
5G AL DECOLLO SOLO NEL 2022 Entro i prossimi cinque anni, in Nord America circa il 25% delle sottoscrizioni ai servizi mobili sarà associato ai network di quinta generazione; gli utenti attivi sulle reti a banda larga wireless rappresenteranno, su scala globale, il 90% drgli 8,9 miliardi di contratti attivi previsti in totale; i dispositivi connessi, sempre entro il 2022, saranno 29 miliardi, dei quali circa 18 miliardi appartenenti all’Internet delle cose. Lo spaccato descritto dall’ultima edizione del Mobility Report di Ericsson conferma alcune tendenze già note. In primis la crescita costante del traffico dati, grazie alla maggiore diffusione di smartphone e all’aumento della fruizione di contenuti video. Nell’area dell’Europa Occidentale, Penisola compresa, il consumo di dati medio mensile per ciascun utente smartphone salirà
fra cinque anni a circa 22 gigabyte, rispetto ai 2,7 GB attuali. In secondo luogo, la popolarità di social network e servizi per la messaggistica istantanea: in Italia le quattro applicazioni che generano maggiore traffico sono Facebook, YouTube, Instagram e Whatsapp. Il futuro è sicuramente del 5G ma per parlare di vero e proprio boom bisognerà aspettare ancora qualche anno. Solo nel 2022, infatti, gli abbonamenti alle nuove reti supereranno il mezzo miliardo, arrivando a quota 550 milioni. A fine 2016, invece, le sottoscrizioni (e quindi le Sim attive) associate a uno smartphone hanno toccato i 3,9 miliardi, con quasi il 90% di queste appoggiate su reti 3G (Wcdma/Hspa) e 4G Lte. Entro cinque anni ci si aspetta che questo numero tocchi i 6,8 miliardi.
Consumatori dell’Europa occidentale che hanno incrementato l’uso delle app mobili negli ultimi 12 mesi
42%
FORMAZIONE
35%
VIDEO STREAMING
50%
MESSAGGISTICA ISTANTANEA
40%
CHIAMATE VIA INTERNET
FONTE: Ericsson ConsumerLab
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| | Sanità digitale TECNOLOGIE SCENARI
Finora l’informatizzazione del mondo sanitario ha toccato soprattutto i processi gestionali. Oggi, però, le componenti cliniche e decisionali sono pronte ad abbracciare soluzioni di Unified communication and collaboration, l'intelligenza artificiale e l’Internet of Things.
HEALTHCARE E IT, IL MATRIMONIO È SERVITO
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l 2017 potrebbe finalmente essere l’anno della svolta, quello in cui comincerà a crescere la domanda di soluzioni Ict direttamente correlate con l’attività clinica (ospedaliera e/o territoriale) a discapito dell’ambito squisitamente amministrativo/gestionale che ha caratterizzato fino a oggi l’informatizzazione di ospedali e aziende sanitarie locali. Anche quello che potrebbe essere considerato “software clinico” per le attività di pronto soccorso o sala operatoria finora è stato finalizzato ad adempimenti di carattere burocratico, a “creare documentazione” utile in caso di contenziosi, a ottimizzare l’erogazione delle prestazioni (prenotazioni, 22
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data entry, eccetera) e a fornire elementi utili al reporting e al controllo. Componenti sicuramente indispensabili e tuttavia mal vissuti dal personale clinico, desideroso di utilizzare le tecnologie Ict per ricevere un supporto nell’attività di diagnosi, di somministrazione delle terapie e di assistenza al paziente. Un inevitabile ricambio generazionale nella classe medica e infermieristica ha introdotto in ospedale e sul territorio una quantità significativa di operatori sanitari (compresi tecnici di diagnostica e di laboratorio) fortemente avvezzi alle tecnologie e consapevoli del ruolo fondamentale che esse potrebbero giocare nella quotidianità del loro lavoro.
A questa nuova domanda potenziale di soluzioni, tuttavia, l’offerta non è riuscita a rispondere in maniera adeguata e questo è dovuto a una serie di ragioni non interamente imputabili ai vendor: problemi di budget nella sanità pubblica, focalizzazione sugli aspetti gestionali-contabili nella sanità privata, e inoltre un eccesso di aspettative verso piattaforme di fascicolo sanitario elettronico che nella stragrande maggioranza dei casi sono rimaste allo stadio di repository di file in formato Pdf, decisamente poco utili all’attività clinica. E dovremmo citare anche una certa miopia di molti chief information officer di aziende sanitarie e ospedalie-
re. Gli effetti di questa discrasia sono piuttosto evidenti: si parte dall’insoddisfazione del personale clinico (una ricerca Netics condotta nel 2016 ha evidenziato come oltre il 62% dei medici e il 51% degli infermieri si dichiarino
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Anche a livello direzionale emerge una quantità significativa di domanda di innovazione, fino a ieri inespressa, in un contesto in cui il budget non viene visto come un problema
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“non soddisfatti” delle soluzioni Ict disponibili in ospedale) per arrivare alla proliferazione del cosiddetto “shadow It”, e cioè all’uso di software e applicazioni esterne al perimetro dei sistemi informativi ufficiali. Anche a livello direzionale, peraltro, emerge una quantità significativa di domanda di innovazione fino a ieri inespressa, in un contesto dove il budget non viene visto come un problema, a differenza di quanto succede ai Cio aziendali, abituati (almeno qui in Italia) a vedersi tagliare risorse e progettualità. L’Ucc guida la domanda
Un cambiamento di paradigma è però auspicabile, perché tutta questa domanda latente di Information Technology sta cominciando a venire a galla. E anche l’offerta sta iniziando, finalmente, a fornire risposte attraverso piattaforme e soluzioni applicative sempre più orientate all’area clinica e al supporto decisionale. Provando a mettere in ordine di priorità i trend di evoluzione della domanda, in cima alla lista troviamo le piattaforme di Unified communication & collaboration verticalizzate in funzione delle esigenze cliniche. In un contesto che vedrà sempre più integrato l’ambito ospedaliero con quello territoriale, dove finalmente la parola “telemedicina” diventerà
d’uso comune, emerge la necessità di comunicare più velocemente ed efficacemente, utilizzando canali differenti (con netta preminenza del mobile) e potendo condividere informazioni più o meno strutturate, immagini e file audio ad alta risoluzione, documenti e dati. Le piattaforme di Ucc “generaliste”, in particolare, dovranno integrare verticalizzazioni cliniche quali per esempio strumenti di clinical portal e clinical collaboration e funzionalità di teleconsulto e di telediagnosi. Abbiamo poi i cosiddetti clinical decision support system: i diversi software dipartimentali rivolti ai processi clinico-sanitari e socio-assistenziali dovranno sviluppare componenti di supporto decisionale comprensivi di tecnologie di machine learning. La terza priorità riguarda le applicazioni che gestiscono la relazione con il paziente. In questo caso si deve superare l’attuale frammentazione, inconsistenza e incongruenza delle informazioni generate dalle numerose relazioni fra il Servizio Sanitario Nazionale e ciascun cittadino, andando verso piattaforme di Crm fortemente verticalizzate in ambito sanitario. Sarà quindi interessante vedere come, quanto e soprattutto quando la sanità italiana reagirà ai nuovi stimoli tecnologici che già cominciano a diffondersi a livello internazionale, dall’Internet of Things (sensori/attuatori per il controllo remoto del paziente, dispositivi elettromedicali con interfaccia Bluetooth) alle tecnologie indossabili e ingeribili, passando per la robotica ospedaliera. Gli analisti vedono il bicchiere mezzo pieno. L’importante è che l’acqua in esso contenuta non rimanga a stagnare troppo a lungo: servono risorse, che il Servizio Sanitario Nazionale può reperire a fronte di un’offerta capace di proporre soluzioni e servizi sostenibili. Soluzioni in grado di ripagarsi attraverso il recupero di efficienza. Paolo Colli Franzone, Osservatorio Netics
RICETTE DIGITALI, BRAVA CAMPANIA La palma di prima Regione a centrare l’obiettivo di dematerializzazione fissato per il 2016 dall’Agenda digitale va alla Campania, con il 90% delle prescrizioni mediche gestite in formato elettronico. Lo ha certificato Federfarma, conteggiando lo scorso settembre circa quattro milioni di ricette paperless, su un totale di 4,4 milioni. Seguono Molise e Veneto, dove si è superato l’89%. Fanalini di coda Calabria e la provincia di Bolzano, ferme al 40,58% e al 12,57%; In Alto Adige, tuttavia, la dematerializzazione è partita solo l’anno passato.
ITALIA AL PARI DELLA LITUANIA La sanità elettronica nello Stivale è ancora un progetto incompiuto. Nella classifica Ue (a 28 Paesi) stilata da I-Com, misurando la diffusione delle tecnologie digitali nel settore sanitario e relativi impatti sulla qualità dei servizi offerti e l’efficienza dei processi, la Penisola è in diciottesima posizione, alla pari con la Lituania. Polonia e Bulgaria sono in fondo alla classifica, mentre la regina dell’e-health è la Danimarca, davanti a Finlandia e Paesi Bassi. A penalizzare l’Italia concorrono l’ancora limitata adozione del fascicolo sanitario elettronico (operativo solo in una decina di Regioni) e lo sviluppo solo parziale della telemedicina e delle soluzioni che permettono un’interazione diretta fra strutture e comunità.
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TECNOLOGIE | Sanità digitale
GEOLOCALIZZAZIONE E CLOUD IN OSPEDALE Aumentano le applicazioni delle nuove tecnologie. Gli esempi del progetto I-locate, in Trentino, e della clinica lombarda Gruppo Multimedica.
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alla localizzazione di oggetti e persone all’interno di ospedali e cliniche, all’archiviazione dei referti radiologici per una più rapida consultazione. Le nuove tecnologie per l’healthcare sembrano ormai essere mature per assistere il personale medico (ma non solo) nell’attività professionale quotidiana. Ne è un esempio il progetto I-locate, finanziato nel 2013 dall’Unione Europea, con un contributo di 2,36 milioni di euro ripartiti su 25 partner pubblici e industriali. Per l’Italia hanno preso parte all’iniziativa tre comuni e l’ospedale di Santa Maria del Carmine di Rovereto, che ha testato sul campo tecnologie pilota di localizzazione indoor grazie al supporto della Fondazione Bruno Kessler e di Trilogis. Nello specifico, all’interno della struttura trentina sono stati definiti nuovi standard per lo scambio e la condivisione delle mappe dei locali, oltre alla realizzazione di un’applicazione e di una piattaforma per l’archiviazione e l’uso delle planimetrie interne degli edifici. Tutte risorse open source e accessibili gratuitamente. I tecnici del nosocomio hanno sperimentato alcuni casi modello, come la navigazione di un utente che deve raggiungere un ambulatorio per una visita programmata o il sistema di assegnazione delle carrozzine e il loro recupero. 24
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La soluzione realizzata da Exprivia per il Gruppo Multimedica ha invece permesso di integrare in cloud il sistema informatico radiologico e quello di archiviazione e trasmissione di immagini dell’azienda lombarda, contribuendo alla completa dematerializzazione di informazioni e dati clinici iconografici. E assicurandone anche un affidabile ambiente di recupero. Inoltre, il software Ris-Pacs di Exprivia si presta a ricevere qualsiasi altra tipologia di dato di provenienza sanitaria, tra i quali referti, filmati e tracciati. L’applicazione consente di fruire delle immagini radiologiche anche all’interno di un presidio diverso da quello in cui si è svolta l’attività clinico-diagnostica, condividendole fra tutti i reparti e gli ambulatori del Gruppo Multimedica, nel rispetto della privacy. A.A.
STARTUP SANITARIE CERCASI Si chiama five.eight l’acceleratore di impresa lanciato da GE Healthcare (divisione di General Electric) per sostenere le giovani imprese innovative impegnate a migliorare le condizioni di salute nei Paesi in via di sviluppo. Sul tavolo ci sono finanziamenti fino a cinque milioni di dollari. Puntando ad accogliere nel programma iniziale almeno dieci startup, five. eight va a potenziare l’Innovation Network di GE, un ecosistema globale di acceleratori di impresa, startup e innovatori al lavoro sulle tecnologie più promettenti.
TECHNOPOLIS PER CANON
TRASFORMAZIONE: NON È PIÙ TEMPO DEI “SE” MA DEI “COME”
Non ci sono più dubbi circa la necessità di adeguarsi alle nuove richieste dei mercati, che vogliono aziende flessibili, efficienti e moderne. Si tratta solo di capire quanto velocemente la digital transformation procederà e da quali fattori sarà spinta. Abbandoniamo e superiamo pure senza rimpianti l’abusato termine “digital transformation”, in quanto i concetti che sottende sono infatti ormai ben radicati nei piani strategici delle organizzazioni appartenenti agli ambiti dell’imprenditoria privata o della Pubblica Amministrazione. L’economia digitale è infatti ormai una realtà che nessun manager o imprenditore può ignorare, procedendo invece con consapevolezza e decisione nella direzione dettata dalle nuove richieste dei clienti e del mercato. La trasformazione ha impatto su tutti gli ambiti aziendali, ma i due più importanti sono sicuramente il rapporto con i clienti e l’efficienza dei processi interni. Nel primo caso rientrano tutte le moderne pratiche di ingaggio e Customer Experience (Analytics, Big Data e Social media), mentre nel secondo caso si fa riferimento a Industry 4.0 per il settore manifatturiero, all’agenda digitale per la PA o ai fenomeni FinTech per il settore bancario. C’è poi un terzo punto, che riguarda le aziende che si muovono in ambito tecnologico: l’adeguamento della propria offerta alle nuove esigenze dei mercati. In questo caso, è necessario non solo cambiare radicalmente il modo di proporsi, ma anche modificare la propria offerta, altrimenti si rischia di mettere in campo prodotti e servizi ormai obsoleti. Anche Canon affronta e promuove questi cambiamenti, che oggi coinvolgono soprattutto la proposta B2B. Il settore delle fotocamere, delle videocamere e delle stampanti consumer sta vivendo ormai da anni una grande trasformazione, e di fatto è già completamente immerso in un approccio digitale. In ambito business, invece, il “bello” sta avvenendo ora, con stampanti multifunzione che diventano il centro nevralgico per soluzioni di information
management complesse e articolate, o da offerte complete di servizi di revisione digitale dei processi documentali e di comunicazione in outsourcing (eseguiti attraverso Integra Document Management, società acquisita da Canon nel 2015). E’ così che Canon si trasforma da product vendor in un’azienda che offre soluzioni e servizi, aiutando i clienti a gestire non solo la digitalizzazione dei documenti, ma tutto il processo end-to-end dell’utilizzo delle informazioni digitali nelle organizzazioni. Le spinte ad accelerare questi processi di trasformazione sono molte e, come dicevamo, la consapevolezza della necessità di attivare questi percorsi di mutazione è ormai acquisita a tutti i livelli. Gli stimoli arrivano, tra gli altri, dal fronte normativo, da quello economico (la ricerca di efficienza) e soprattutto dai clienti, che con le loro esigenze influenzano sempre di più il destino delle aziende e dei mercati. Stessa consapevolezza, diverse velocità Se è vero che tutti vogliono la trasformazione, è altrettanto vero che non tutti la perseguono con la stessa velocità e determinazione. I tempi e i modi sono dettati dalle priorità aziendali, dalle competenze di ciascuna organizzazione, dai budget e spesso anche dall’ordine con cui i progetti di trasformazione sono portati avanti: si può iniziare dal CRM, dall’ERP, dall’e-commerce. Naturalmente dove i sistemi legacy sono più radicati e obsoleti si farà più fatica a terminare i progetti. Dipende insomma dalle esigenze di ogni singola azienda ma anche dagli advisor che ciascuna organizzazione si sceglie: qui entra in gioco anche il ruolo dei vendor come Canon, che prima dei loro clienti devono aver compreso e intrapreso la strada della trasformazione. Secondo Canon, uno dei fattori che sta subendo una maggiore accelerazione nei processi di modernizzazione è il cloud, o più in generale il paradigma “as a service”. Pagare per quello che si consuma permette di essere più scalabili e quindi più agili e flessibili, risparmiando spesso sui costi infrastrutturali. Questo paradigma è interpretato in modo preciso e puntuale da IDM Gruppo Canon, che eroga i propri servizi in modalità cloud attraverso i propri data center. La modalità “as a service” è anche disponibile per le altre soluzioni software, ad esempio per la gestione dei sistemi di stampa Uniflow o il sistema documentale Therefore, oltre ai software di riconoscimento IRIS. A ciò si aggiungono nuovi elementi “as a service” dell’offerta Canon dedicato al settore delle arti grafiche, con il nuovo servizio “Graphic Art As a Service”: il cliente finale può acquistare un prodotto (un catalogo, un libro fotografico) realizzato da uno dei partner Canon in modalità “a servizio”. La strada è ancora lunga, ma la direzione è presa. Passare da prodotto a servizio richiede una trasformazione dei modelli di business, nuove competenze e nuove componenti d’offerta, che possono essere raggiunte grazie a sviluppi interni o attraverso acquisizioni, ed essere così più veloci ad affiancare e supportare i clienti, a loro volta impegnati a diventare sempre più efficienti e flessibili. 25
FOCUS | Ultrabroadband
TUTTI INVITATI AL GRAN BALLO DELLA FIBRA Open Fiber ha monopolizzato la prima gara per le nuove reti nelle aree bianche di sei Regioni. Ma subito sono scattati i ricorsi. Il piano del Governo parte con il freno a mano tirato? Gli accessi a banda larga a fine 2016, intanto, hanno superato i 15,4 milioni.
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a corsa per la posa della banda ultralarga sembra finalmente scattata, dopo almeno una decina d’anni di tentativi andati a vuoto. Comunque vada, siamo sicuramente in ritardo rispetto ai tempi in cui si iniziò a parlare di next generation network, di reti di nuova generazione, di infrastrutture in fibra ottica deputate a portare le connessioni ultraveloci dentro le case e le piccole imprese nelle aree non metropolitane. Nel complesso parliamo di circa 2,5 milioni di abitazioni 26
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coperte con questa tecnologia. In questo 2017 si stanno muovendo soprattutto, con i relativi piani “Fiber to the home” (Ftth), Enel da una parte (forte dell’acquisizione degli asset di Metroweb) e Tim e Fastweb dall’altra. Al balletto della fibra concorrono ovviamente altri operatori, da chi si appoggia alle reti di terzi (Vodafone, Wind e Tiscali, per esempio, tutti clienti di Enel) alla vasta comunità di provider telco, municipalizzate comprese, che cercano spazio con le proprie infrastrutture e dorsali sparse
in tutta la Penisola. Le mosse di ogni singolo operatore si specchiano naturalmente nel piano ultrabroadband del governo. Di cui proviamo a sintetizzare gli esiti della prima gara bandita da Infratel, resi noti a fine gennaio. A classificarsi al primo posto in tutti e cinque i lotti del primo bando da 1,4 miliardi per la realizzazione della rete in fibra ottica in Abruzzo e Molise (lotto 1), Emilia Romagna (lotto 2), Lombardia (lotto 3), Toscana (lotto 4) e Veneto (lotto 5) è stata Open Fiber. MARZO 2017 |
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L’azienda del Gruppo Enel ha ottenuto il punteggio massimo, sbaragliando sia la proposta della concorrente numero uno Tim sia quella dei consorzi e-Via (Retelit, Eolo ed Eds) ed Estra. Chi si aspettava, a valle della decisione presa
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Gli accessi a banda larga da rete fissa sono 15,4 milioni. Le linee con velocità superiore ai 10 Mbit, circa 7,5 milioni, sono il 48,5% del totale e di queste il 12,8% sono connessioni oltre i 30 megabit
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dalla commissione di Infratel, i primi bastoni fra le ruote dell’ingranaggio non ha avuto torto. Telecom Italia ha presentato immediatamente ricorso al Tar del Lazio per chiedere l’annullamento della delibera Agcom alla base delle linee guida di questa prima gara (e cioè le condizioni di accesso wholesale alle reti di banda ultralarga destinatarie di contributi pubblici) e al momento in cui scriviamo i giudici non si sono ancora espressi. Se la richiesta dovesse essere accettata, il bando di fatto sarebbe nullo e bisognerebbe ripartire da zero. E non solo. Detto delle schermaglie subito emerse fra Open Fiber e Tim, che in una nota del 24 gennaio azzerava i possibili impatti dell’esito negativo della prima gara “dal punto di vista gestionale, strategico e di posizionamento di mercato della società” e ribadiva al contempo di voler accelerare la copertura in banda ultralarga fissa e mobile nelle aree a fallimento di mercato, a metà febbraio ecco aprirsi anche il contenzioso sul secondo bando di gara. Quello da 1,2 miliardi di euro, che riguarda 10 regioni (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Marche, Umbria, Lazio, Campania, Basilicata e Sicilia) e la provincia autonoma di Trento: in ballo ci sono infrastrutture che interesseranno il territorio di 3.710 Comuni per raggiungere circa 3,9 milioni di unità abitative
e aziendali. Sul piede di guerra si sono messe la stessa Telecom, Fastweb e le telco del consorzio Eolo; le udienze sono fissate per il 19 aprile. I contendenti di Open Fiber sono quindi più che agguerriti e in vista del terzo bando Infratel (destinato a Calabria, Puglia e Sardegna, che deve essere ancora pubblicato) non sono pochi, fra gli operatori di settore, coloro che temono una diserzione “in massa”. Non manca, inoltre, lo scetticismo sulla previsione di Open Fiber di attivare un contratto al 100% degli utenti raggiunti dalla fibra, a fronte di una media nazionale che oggi viaggia intorno al 10%. Schermaglie, insomma, che certo non sono un buon viatico per l’avvio dei lavori di un piano che dovrebbe azzerare il gap infrastrutturale con gli altri Paesi europei. Oltre due milioni le linee in fibra
Il bilancio di fine 2016 stilato dall’Agcom con la pubblicazione dell’Osservatorio sulle comunicazioni ha contato 15,4 milioni di accessi complessivi alla rete fissa a banda larga in Italia, con una crescita di 630mila unità su base annua. Le utenze in fibra ottica Nga (Next Generation Access) sono salite oltre quota due milioni (con un incremento di 720 mila da inizio anno), soprattutto grazie alla crescita di Telecom e Vodafone. Le linee a banda larga con velocità superiore ai 10 Mbps sono circa 7,5 milioni, il 48,5% del totale, e di queste il 12,8% è rappresentato ormai da connessioni oltre i 30 Mbps. La quota di mercato di Telecom Italia, si legge nel rapporto dell’Autorità per le Comunicazioni, è pari al 46%, in flessione dell’1% rispetto allo stesso periodo del 2015. Fastweb raggiunge l’11,5 % con un’ascesa di 0,7 punti percentuali, di poco inferiore a quella fatta registrare da Vodafone, che sale all’11,2%. Da rilevare anche la presenza di alcuni operatori Fixed Wireless Access (FWA), che mostrano una crescita complessiva dello 0,7%. Piero Aprile
FARE O NON FARE? UN DILEMMA DA 379 MILIARDI Gli investimenti infrastrutturali hanno un peso economico rilevante, ma se distribuiti con giudizio portano un indubbio vantaggio economico al Paese. Cosa che invece non si può dire dell’inerzia del “non fare”. Questa, a sua volta, presenta poi il conto in termini di mancati guadagni: ne è esempio lampante la precaria situazione di copertura della banda larga in Italia, che farà fuggire da qui al 2030 circa 379 miliardi di euro di benefici, corrispondenti a quasi 17.300 euro a famiglia. La stima proviene dal rapporto i “Costi del non fare” realizzato da Agici, società di ricerca e consulenza in settori come le utilities e le infrastrutture. Fra tutti i segmenti analizzati nel documento, vale a dire energia, logistica, idrico, rifiuti, autostrade e ferrovie, il dato relativo alla banda larga è il maggiore (su un totale di 600 miliardi) ed è stato calcolato comprendendo anche i costi e i benefici dell’indotto. Secondo Agici, l’impatto del “fare”, a fronte di quasi 140 miliardi di euro di investimenti, genererebbe 518 miliardi di valore, suddivisi su più voci, tra cui nuovi posti di lavoro creati (3,9 miliardi) e riduzione dei costi (332 miliardi). In quest’ultimo campo la parte del leone spetta all’Internet delle Cose, che tra i tanti vantaggi può favorire la manutenzione predittiva degli impianti, l’ottimizzazione della logistica e lo sviluppo delle smart grid.
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FOCUS | Ultrabroadband
IL VADEMECUM DELL’AGCOM L’Authority per le comunicazioni promette massima attenzione sugli investimenti per le nuove reti. E anticipa le misure per regolare l’ingresso in campo degli operatori incumbent di altri settori.
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er anni il processo di costruzione delle reti di nuova generazione è stato costellato dai litigi fra i diversi operatori, combattuti a colpi di ricorsi e di denunce all’autorità Antitrust. Il varo del piano ultrabroadband, secondo diversi osservatori, dovrebbe aver posto fine a questa deriva deleteria che ha accentuato il gap digitale di cui soffre il Paese. Il Commissario Agcom per le infrastrutture e le reti, Antonio Nicita, in un’intervista rilasciata al CorCom ha affrontato in profondità l’argomento. Eccone i passaggi più significativi. Parlando di altri possibili ricorsi al Tar del Lazio sulle gare Infratel, Nicita ha ricordato come il capitolo in questione sia “cruciale nella situazione attuale perché una concorrenza sulle infrastrutture, più radicale di quella sperimentata fino a oggi, incomincia a configurarsi all’orizzonte e a essere possibile. E il forte impegno istituzionale e finanziario del settore pubblico con le gare Infratel può essere decisivo”. C’è inoltre un effetto benefico immediato, fa notare Nicita, scaturito dagli annunci di massicci investimenti da parte dei nuovi soggetti (e il riferimento, immaginiamo, va a 28
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Open Fiber). Quale effetto? Un’accelerazione significativa della copertura delle reti Fttc, Fiber to the cabinet, da parte degli operatori esistenti. Il punto focale della questione, necessario alla buona riuscita del piano ultrabroadband, rimane però la necessità di una competizione ad armi pari fra i vari soggetti, vecchi e nuovi, che partecipano alle gare. La concorrenza sulla fibra, ha detto il Commissario, “è un fenomeno complesso che impone al regolatore di muoversi su temi diversi, alcuni già conosciuti e altri nuovi, più sperimentali. Se l’investimento andrà a buon fine, e se aumenterà la concorrenza a livello wholesale e retail nella fornitura di servizi a banda larga su rete fissa, si potrà considerare l’ipotesi di sviluppare, nel prossimo ciclo di analisi di mercato, i concetti di differenziazione geografica dei rimedi e di light touch regulation, già abbozzati in quella vigente”. Agcom, nel frattempo, si è ufficialmente impegnata a vigilare anche sugli effetti del piano in termini di investimenti e soprattutto di copertura, aprendo alla possibilità di segnalare a Governo e Parlamento le inefficienze riscontrate e gli eventuali aggiustamenti da apportare. Il tutto, senza trascurare un altro passaggio dovuto e cioè la necessità di affrontare il tema dei “nuovi” operatori incumbent che si muovono nel settore delle telecomunicazioni: Open Fiber, precisa Nicita, ha un’infrastruttura legacy importante che deriva da un’altra rete e per questo “l’Agcom e l’Autority per l’Energia stanno scrivendo le regole perché non ci sia crosssubsidization utilizzando risorse di un mercato a danno dei concorrenti che operano nell’altro”. P.A. MARZO 2017 |
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DISEGNO INDUSTRIALE PER LA FIBRA NELLE PMI
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l primo bando del piano ultrabroadband, salvo stravolgimenti post delibera Infratel, ha assegnato a Enel Open Fiber il compito di posare la fibra nelle aree a fallimento di mercato di diverse Regioni. Fra queste c’era l’Emilia Romagna, per cui concorreva con una propria offerta anche Retelit, puntando sul margine di sviluppo maggiore (lato domanda) di questo territorio e sulla disponibilità di una rete Man e data center di proprietà. Federico Protto, che di Retelit è amministratore delegato, ha parlato con Technopolis prima che Infratel ufficializzasse l’esito della gara e prima della presentazione delle offerte per il secondo bando.
Ci sono le condizioni per svoltare?
La questione è sia di natura culturale sia di carattere industriale. Culturale, perché c’è ancora poca sensibilità delle aziende verso i benefici della banda larga, e basti guardare ai dati di utilizzo dell’e-commerce nelle Pmi per averne una conferma. Industriale, perché il super ammortamento previsto dal piano Industry 4.0 del Governo va nella direzione degli investimenti capex, i macchinari, e meno verso quelli opex, legati ai servizi e alle tecnologie Ict. Le piccole imprese hanno i budget per investire nella banda ultralarga?
I rischi, eventuali, sono legati al congelamento dei fondi europei di quattro miliardi di euro e ai ricorsi, con il conseguente allungamento dei tempi di assegnazione dei lotti.
Nelle aree bianche a fallimento di mercato, l’incentivo all’offerta farà scendere i costi dei servizi a poche centinaia di euro al mese, e quindi alla portata di tutti. Nelle aree grigie, dove gli operatori devono investire in proprio, è ipotizzabile un incentivo alla domanda sotto forma di voucher per abbassare la soglia di accesso ai servizi.
Recuperare il gap infrastrutturale con gli altri Paesi rimane possibile?
Qual è il mercato potenziale della fibra per le Pmi?
In tre anni, entro il 2020, l’Italia può pensare di risalire a metà classifica in Europa. Non abbiamo però una “killer app” come la Tv via cavo nel Regno Unito, che necessita della banda ultralarga per funzionare bene. La nostra infrastruttura in rame è obsoleta a livello tecnologico e il Fiber to the cabinet non è la risposta adeguata, perché non risolve il problema dell’ultimo miglio, dalla centralina all’abitazione, né quello della poca trasparenza dei livelli di servizio garantiti.
Sono migliaia e migliaia di aziende. Vicino alla nostra rete, per fare un esempio, ne abbiamo circa novemila oggi ancora ferme a una linea Adsl. Parlare di capacità a un gigabit simmetrico, in upload e download, non è però assolutamente fuori luogo. È a queste realtà che vanno offerti la fibra e i servizi in un’ottica industriale ed è in questo senso, e cioè verso l’infrastruttura che crea domanda, che va e deve andare il piano del Governo. Gianni Rusconi
C’è il rischio che il piano per l’ultrabroadband rallenti?
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FOCUS | Ultrabroadband
LA CORSA VERSO LA SOCIETÀ DEI GIGABIT
La Corte dei Conti avanza qualche ombra sul piano varato dal Governo per favorire lo sviluppo della banda ultralarga. Pesano i ritardi accumulati negli anni passati nella realizzazione delle nuove infrastrutture. Gli operatori telco, intanto, portano avanti la propria strategia.
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l futuro sarà anche roseo, ma il recente passato invita alla prudenza. Perché il terreno da recuperare, in tema di banda larga, è parecchio. Dalla relazione sull’attività di Infratel fra il 2007 e il 2015, condotta dalla Corte dei Conti, emerge in modo evidente come il digital divide italiano sia stato notevolmente ridotto, dal 15% di fine 2005 all’1,03% del 31 dicembre di due anni fa. Ma anche come la realizzazione delle nuove reti si sia mossa al rallentatore a causa di tempi biblici per il rilascio dei permessi da parte degli enti amministrativi proprietari delle aree oggetto dei lavori infrastrutturali. Recuperare il gap con l’Europa e snellire la burocrazia sono, in sintesi, le raccomandazioni racchiuse nel testo di delibera presentato il mese scorso al Parlamento. Sull’ultrabro-
adband, insomma, siamo indietro anche se i presupposti per accelerare ci sono tutti. Il piano del Governo varato la scorsa primavera, di cui si prevede il compimento nel 2022, è entrato finalmente nella fase operativa con la pubblicazione dei primi due bandi gara, da complessivi 2,2 miliardi di euro. Ma come vivono questo momento gli operatori telco e i fornitori di infrastruttura? Lo abbiamo chiesto a Tim, Ericsson e Huawei. A detta di Luigi De Vecchis, executive vice president di Huawei Italia, il piano del Governo per la realizzazione della banda larga “è finalmente una realtà tangibile, è ambizioso e rappresenta una sfida che il Paese non può permettersi di fallire. Sono in gioco la credibilità del sistema e il recupero del gap tecnologico verso quei Paesi che, prima di noi, hanno MARZO 2017 |
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creduto e investito nelle tecnologie ultrabroadband”. Il manager della multinazionale cinese si dice altresì convinto che “la realizzazione del piano avrà sul territorio importanti ricadute positive per aziende e cittadini, creando i presupposti per nuove iniziative e, nel breve-medio periodo, nuovi posti di lavoro legati alla messa in opera delle nuove infrastrutture, a cominciare dalle società di impiantistica e installazione a cui saranno assegnati i lavori di posa delle nuove reti”. A proposito del piano si esprime invece così Nello Califano, head of network products di Ericsson Italia: “La politica nazionale per la banda ultralarga segue un’impostazione sistematica, in linea con le indicazioni della nuova politica industriale europea in tema di infrastrutture. Occorre ora essere efficaci e tempestivi sul fronte dell’attuazione, mirando a portare i benefici della connettività in tutti gli impianti produttivi distribuiti sul territorio, rispetto a una visione complessiva della trasformazione digitale, a una chiara individuazione delle priorità e alla definizione delle scadenze per il raggiungimento degli obiettivi”. Di strada da fare, insomma, ce n’è ancora molta e il manager di Ericsson fa notare in particolare il bisogno di realizzare in tempi stretti “progetti strategici orizzontali, come la completa razionalizzazione del cloud pubblico o lo sviluppo di maggiore capacità per la connettività mobile, che sta alla base della cosiddetta società del gigabit”. Il ruolo chiave delle reti 5G
Il cammino è quindi solo iniziato e gli ostacoli da superare non trascurabili. “Considerando la morfologia del nostro Paese, il superamento totale del digital divide, persistente anche in alcune aree delle metropolitane oltre che nelle zone periferiche, sarà reso possibile solo dalla disponibilità delle reti mobili 5G e dalla loro integrazione con la rete di accesso in fibra”, osserva in proposito De Vecchis. In casa Huawei, e non potrebbe essere altrimenti, portare connettività a banda
ALLEANZA TIM-FASTWEB, C’È L’ANTITRUST Un’intesa che potrebbe restringere la concorrenza. È questo il sospetto dell’Antitrust, che a febbraio ha aperto un’indagine nei confronti di Flash Fiber, la joint venture lanciata nell’estate 2016 da Tim e Fastweb con l’obiettivo di portare entro il 2020 la fibra ottica fino a casa (Ftth) agli abitanti di 29 città italiane. “Nel contesto di profonda evoluzione tecnologica ed economica che sta interessando il settore delle telecomunicazioni su rete fissa, l’accordo sottoscritto da Telecom Italia e Fastweb […] potrebbe […] risultare potenzialmente idoneo a impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza”, si legge nella nota emessa lo scorso mese dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm). L’istruttoria dovrà concludersi non oltre il 31 dicembre 2017. Ma Tim si è subito opposta, sottolineando “la correttezza dei propri comportamenti e la validità del progetto industriale, che consente di accelerare la
diffusione dei servizi in fibra Ftth in coerenza con gli obiettivi della Strategia Nazionale della Banda Ultralarga”, il piano presentato dal governo Renzi nel 2015. I progetti di Tim per il Paese prevedono undici miliardi di euro di investimenti per il triennio 20172019, di cui cinque sulla banda ultralarga. L’operatore vuole raggiungere nei prossimi due anni almeno il 99% di copertura con la rete mobile 4G Lte, arrivando al 95% per la fibra. Secondo i piani dell’azienda, entro la fine del 2019 saranno cinquanta le città raggiunte dalla rete a 1 Gbps. Nel 2016 la copertura 4G e fibra era di circa il 60% del territorio. Fastweb, invece, cercherà entro il 2020 di servire 13 milioni di famiglie e imprese con la banda ultralarga, di cui cinque con Ftth. Al 31 dicembre la copertura della rete ultrabroadband dell’operatore raggiungeva 7,5 milioni clienti consumer e business, di cui 2,2 milioni con connessioni fiber to the home.
FIBRA E 5G PER LA NUOVA TISCALI Tiscali è più snella e riparte con un obiettivo ambizioso: superare il milione di clienti entro il 2020 rispetto ai 700mila di oggi. Dopo la fusione con Aria Spa, controllata dal fondo russo Otkritie, e dopo la ristrutturazione del debito, l’azienda fondata da Renato Soru è pronta a rimettersi in pista. I primi due traguardi da raggiungere si chiamano fibra ottica e 5G. Il gruppo sardo, guidato da Riccardo Ruggiero in veste di ad, ha una partnership con Enel Open Fiber in diverse città italiane.
A Perugia, per esempio, l’obiettivo è cablare l’80% delle abitazioni coprendo poi le aree digital divide con la tecnologia Lte Tdd. Il focus sulle reti ultrabroadband wireless è importante, perché la banda 3,5 GHz già di proprietà di Aria potrà essere sfruttata in futuro anche per lo sviluppo del 5G, che dovrebbe vedere la luce nel 2020. Per supportare il piano industriale, nel 2017 Tiscali prevede di installare oltre 500 antenne, che si aggiungeranno alle 100 del 2016.
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SPECIALE | Ultrabroadband
ultralarga a tutto il territorio senza soluzione di continuità e in modo economicamente sostenibile è una missione possibile solo attraverso la convergenza fra tecnologie fisse e mobili. Le reti di quinta generazione, dice il manager, “saranno la chiave di volta per la digitalizzazione completa e totale del Paese, un fattore abilitante per l’Internet delle cose, per l’industria 4.0, per le auto a guida autonoma e per la diffusione dei sensori. Grazie alla convergenza, il 5G integrerà risorse di networking, computing e storage in un’infrastruttura unificata, consentendo a miliardi di oggetti intelligenti di connettersi alle reti e di trasmettere in maniera sicura quantità ingenti di dati in tempi ridotti”. Dove la fibra non può arrivare, e questa è la ricetta di Ericsson, “le soluzioni convergenti, come il fixed wireless access, possono fare la differenza, permettendo di raggiungere scuole, aziende e uffici della Pubblica Amministrazione che rischierebbero di restare isolati dal punto di vista digitale”. La vera svolta si chiama, manco a dirlo, 5G. Le reti di quinta generazione, osserva Califano, “saranno un abilitatore della società connessa, apportando notevoli miglioramenti nelle prestazioni alla base delle nuove applicazioni e generando un impatto positivo anche sulle industrie, dai trasporti alla meccanica per arrivare al turismo e alla sanità. Si posizioneranno al centro di un sistema capace di generare grande valore, dove si integreranno le tecnologie wireless attuali e quelle che caratterizzano lo scenario nei prossimi tre anni (fra cui Lora, Sigfox e Wi-Fi advanced), le quali utilizzeranno il 5G come ponte verso le reti di telecomunicazioni”. Le reti costano, meglio farle in due
Secondo Giovanni Ferigo, direttore technology di Tim, “i grandi player delle telecomunicazioni rivestiranno un ruolo primario nel processo di digitalizzazione del mercato, sia come provider di reti a banda larga per servizi verticali di tipo cross industry, sia come aggrega32
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I NUMERI DI VODAFONE ITALIA Dal 4G allo stato di avanzamento della partnership con Enel Open Fiber, siglata ad aprile 2016 e frutto di un investimento per l’utility da 2,5 miliardi di euro. Vodafone Italia dà in numeri e si tratta di cifre in continua crescita. La copertura delle reti mobili di quarta generazione è ormai pari al 97% della popolazione in oltre 6.700 comuni, di cui mille raggiunti dai servizi 4G+ (noti anche come Lte Advanced). La connettività in fibra ottica è disponibile in 444 città della Penisola, per 11 milioni di famiglie e aziende. Per il mondo delle imprese, Vodafone Italia ha lanciato lo scorso ottobre l’ultrabroadband con velocità fino a 1 Gbps, basata sulla propria infrastruttura di rete. Il network è presente in otto distretti industriali del Paese: Moncalieri (TO),
tori di un ecosistema di partner per la creazione di servizi e piattaforme digitali da considerare on top all’infrastruttura broadband”. Per quanto riguarda Tim, la promessa è quella di raggiungere con l’ultrabroadband, entro il 2019, circa il 95% delle unità immobiliari della Penisola, partendo da una copertura del 60% consolidata a fine 2016. L’obiettivo, come conferma Ferigo, non sono però solo le abitazioni perché i grandi vantaggi della fibra ottica si possono portare “anche ai distretti industriali, offrendo soluzioni come la telepresenza, la videosorveglianza e il cloud computing, e alle amministrazioni locali, attraverso i servizi per realizzare il modello di città intelligente, e quindi le applicazioni per la sicurezza, l’infomobilità, le reti di sensori per il monitoraggio ambientale e la telemetria dei consumi energetici. I costi da sostenere per l’installazione e il cablaggio della fibra richiedono però
Cologno Monzese (MI), Carpi (MO), Modena, Forlì Ospedaletto (FC), Modugno (BA), Surbo (LE) e Arzano (NA). Ma il provider ha reso più veloci anche le connessioni dei clienti consumer, grazie alla già citata collaborazione con Open Fiber. La joint venture ha permesso a Vodafone di portare la fibra sin nelle abitazioni (FttH) degli abitanti di Milano, Bologna, Torino e Perugia. L’obiettivo è raggiungere in futuro 250 città con Bari, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Napoli, Padova, Palermo e Venezia in prima fila. L’offerta dedicata alle Pmi prevede anche i servizi Fiber to the Enterprise, prima dedicati solo alle grandi società, con la possibilità di portare collegamenti garantiti (anche in upload) fino a 10 Gbps direttamente nelle sedi delle aziende.
investimenti significativi ed è per questo che nel periodo 2017-2019 abbiamo previsto cinque miliardi di euro per lo sviluppo della banda ultralarga fissa e mobile”. Quanto alle alleanze e all’ipotetico rischio di minori margini di manovra per gli operatori di seconda fascia, le parole del manager sono chiare e fanno riferimento all’accordo stretto con Fastweb (Flash Fiber) per la realizzazione di una rete Ftth nazionale. “Siamo convinti”, conclude Ferigo, “che le partnership siano un modello win-win per condividere i costi di copertura e mettere a fattor comune gli asset. In un contesto altamente tecnologico e competitivo, in cui sono necessari ingenti investimenti, gli spazi per gli operatori di seconda fascia tendono a ridursi. Motivo per cui si sta assistendo, sia a livello nazionale sia a livello europeo, a fenomeni di fusioni che coinvolgono anche operatori non incumbent”. P.A. MARZO 2017 |
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TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX AND ACCOUNTING ITALIA
LA FATTURA DIVENTA SMART E DEMOCRATICA Entro il 31 marzo l’Agenzia delle Entrate richiede l’adesione alle opzioni offerte sia dal DL 127 sia dal successivo DL 193, che prevede incentivi fiscali a favore delle imprese che si impegneranno nelle attività di dematerializzazione delle fatture con conseguente adozione di strumenti capaci di favorire la digitalizzazione delle relazioni B2B. I commercialisti si troveranno a gestire un elevatissimo volume di documenti con tempistiche più ristrette e dovranno anche supportare i propri clienti nell’adozione della fatturazione elettronica B2B. Pierfrancesco Angeleri, managing director di Wolters Kluwer Tax and Accounting Italia, sottolinea la particolarità degli applicativi che l’azienda offre ai professionisti per la dematerializzazione del processo di fatturazione: “I nostri servizi mettono il professionista al centro dell’attività della fatturazione, consentendo loro di mantenere il fondamentale controllo dell’intero processo. Al contempo, alleggeriranno lo studio grazie all’automazione che la digitalizzazione consente e grazie al diretto coinvolgimento della clientela nel processo di dematerializzazione delle fatture”. Nel portale collaborativo webdesk, Wolters Kluwer Tax and Accounting Italia offre i nuovi servizi Fattura SMART, Riconoscimento PDF 100% e Consegna Fatture. Fattura SMART dà allo studio l’opportunità di dotare la clientela di un nuovo prodotto in cloud, pensato per le Pmi, le microaziende e le partita Iva. Uno strumento attraverso il quale si possono emettere note in formato elettronico, inviarle alla propria clientela, registrare il pagamento e ottenere interessanti dati di monitoraggio. Consegna Fatture, invece, permette allo Studio di trasformare automaticamente le fatture dei clienti in registrazioni contabili, mentre Riconoscimento PDF 100% consente, da una parte, al cliente di consegnare al proprio studio la documentazione di vendita e/o di acquisto in modalità Pdf e, dall’altra, allo studio di acquisire tale documentazione eliminando la carta dal processo e potendo concentrarsi sulle attività di contabilizzazione. Fattura SMART, insieme ai servizi digitali di riconoscimento Ocr e di consegna fatture, segna un deciso passo verso la maggiore efficienza dello studio e verso la semplificazione della creazione e della consegna delle fatture da parte del suo cliente. I servizi, resi accessibili dal portale webdesk, consentono il controllo preciso, digitalizzato e automatico
Pierfrancesco Angeleri, managing director di Wolters Kluwer Tax and Accounting Italia
dell’avvenuta consegna dei dati e rappresentano un collegamento tra cliente e studio, disponibile tutto il giorno e tutti i giorni. Attraverso il software, il commercialista acquisisce la traccia delle consegne eseguite dal cliente e del loro stato di avanzamento verso la contabilizzazione, senza doverle ricercare nelle email. Il programma verifica direttamente il punto sulle consegne, demanda al servizio il controllo di codice fiscale e partita Iva (fondamentali per le comunicazioni trimestrali delle fatture), risparmiando così molto tempo, e infine automatizza la registrazione contabile delle fatture grazie alle funzioni di importazione dell’applicativo contabile Wolters Kluwer Tax and Accounting, utilizzato in studio. Le funzioni apprendono autonomamente come importare e come contabilizzare, diventando quindi sempre più efficienti con il progredire dell’utilizzo. 33
INNOVAZIONE | Digital Transformation
IL LUNGO CAMMINO VERSO IL CAMBIAMENTO Diversi studi confermano come per le aziende la strada verso la trasformazione in chiave digitale sia piena di ostacoli. Alcuni settori, tra cui il finance, sono più avanti di altri, ma restano problemi di fondo: investimenti insufficienti e carenza di competenze.
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n’azienda su tre, nel mondo, ammette di essere scarsamente preparata sul tema della digital transformation, e quindi sui processi di sostituzione delle piattaforme e delle reti tradizionali con un nuovo ambiente operativo, fatto di tecnologie e servizi IoT, mobile e cloud. Un ambiente flessibile, efficiente dal punto di vista dei costi e capace di favorire il cambiamento in modo rapido e dinamico. Questo racconta la società di ricerca inglese Ovum, nel suo ultimo “Ict Enterprise Insights for 2017”. Gli oltre settemila decision maker intervistati (per lo più direttori della funzione It appartenenti ad aziende di 63 Paesi) hanno rivelato inoltre come il 60% delle organizzazioni consideri abbastanza avanzato o in corso il proprio processo di trasformazione digitale, mentre un 7% lo ritiene già completato. Il restante 33% del campione, invece, sente di avere poca preparazione e una vision incompleta. Se guardiamo ai singoli settori, quello dei servizi finanziari e bancari è il più sensibile in assoluto (il 60% degli intervistati riporta uno stato avanzato di trasformazione), seguito a ruota dai servizi assicurativi (40%). Il retail, invece, è l’ambito meno pronto e meno ricettivo al cambiamento. Sull’argomento si è espresso anche uno studio di Forbes Insight, realizzato in collaborazione con Hitachi Data Systems, e il messaggio emerso è esplicito: la digital transformation è in cima alla lista nell’agenda strategica delle imprese. 34
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La metà dei manager interpellati si dice convinta che i prossimi due anni saranno fondamentali per affrontare la transizione e prepararsi per il futuro. Le imprese che sono sulla strada giusta verso la digital transformation – questo il monito rivolto alle aziende – hanno compiuto alcuni passi fondamentali. Fra questi, l’investimento in nuove tecnologie è al primo posto tra le priorità nel 51% delle organizzazioni, mentre gli indicatori più significativi del cambiamento sono la crescita del fatturato (citata nel 46%
dei casi) e la riduzione dei costi (43%). Il 91% del campione, invece, ha già sperimentato un aumento dei ricavi grazie all’uso intelligente dei dati. Il problema delle aziende italiane
La trasformazione digitale è, quindi, un paradigma eletto universalmente a motore dell’innovazione e della maggiore efficienza di processi e persone, ma che spesso e volentieri non trova concreta applicazione là dove dovrebbe. E cioè all’interno delle organizzazioni, pubbli-
che o private che siano. Lo conferma anche un altro studio dedicato alla materia, che riflette un gap di competenze e tecnologie lamentato dalle aziende. Stando alla ricerca “Next Generation Enterprise Business Report” di Lenovo, condotta sulle principali funzioni It di 1.400 imprese da oltre mille dipendenti attive in diversi Paesi europei (Italia compresa), l’87% delle divisioni informatiche si sente investito della responsabilità di portare avanti l’innovazione e il valore di business della propria azienda. Emerge, tuttavia, un divario tra le aspettative del top management e le risorse effettivamente allocate per raggiungere gli obiettivi strategici, a causa soprattutto di tre fattori. Per il 22% di coloro che si occupano di tecnologie in azienda, la componente hardware è inadeguata, ovvero non abbastanza flessibile per poter sostenere applicazioni di nuova generazione e in particolare quelle associate all’Internet of Things; il 25% identifica invece nell’incongruità del budget destinato agli investimenti in tecnologie l’ostacolo più importante per attuare la vera digital transformation; un ulteriore 25% giudica le competenze tecniche del personale insufficienti a supportare il deployment e la gestione delle nuove applicazioni. Se restringiamo l’analisi all’Italia, si nota che ben il 91% degli It manager sente la responsabilità di dover guidare la propria azienda nell’innovazione, ma lamenta mancanza di risorse e budget per affrontare la digital transformation. Il 21% del campione conferma le preoccupazioni dei colleghi Emea circa le capacità del proprio hardware di sostenere lo sviluppo di applicazioni di nuova generazione e il 26% si allinea nel ritenere che il personale non abbia le competenze adeguate per lo sviluppo di soluzioni legate all’IoT. Quanto agli ostacoli sul percorso della trasformazione, per il 20% dei responsabili italiani la causa principale sono proprio le competenze tecniche del personale, mentre per il 25% il problema sono le scarse risorse economiche. Piero Aprile
SVILUPPO AGILE, ITALIA PIÙ MATURA Il 71% delle imprese della Penisola ritiene le metodologie DevOps cruciali per una trasformazione digitale di successo. Il 36% è oggi in uno stadio avanzato di adozione. Lo sviluppo agile e la metodologia DevOps stanno contribuendo in modo chiaro al successo delle aziende. Anche di quelle italiane. Il 78% delle imprese del nostro Paese dichiara, per esempio, di aver migliorato la customer experience grazie a questi nuovi paradigmi e strumenti di sviluppo applicativo. Inoltre, per il 71% delle organizzazioni della Penisola le pratiche agili e il DevOps sono cruciali per una trasformazione digitale di successo. I dati provengono da una ricerca commissionata da Ca Technologies a Coleman Parkes (“Accelerating Velocity and Customer Value with Agile and DevOps”) e condotta su 1.770 responsabili aziendali e It. Innovare
il modo in cui le applicazioni vengono sviluppate porta anche a benefici economici tangibili, come un incremento del fatturato. Un’azienda italiana su tre ha infatti registrato una crescita del giro d’affari, riducendo in parallelo fino al 35% i costi associati all’It. Senza contare i guadagni legati alla maggior produttività dei team e alla migliorata efficienza gestionale. Per una volta è possibile sottolineare come i numeri della Penisola siano più soddisfacenti di quelli degli altri Paesi. Secondo la ricerca di Ca, infatti, sul fronte della metodologia agile l’Italia è più matura della restante area Emea: il 36% delle nostre imprese si trova già oggi in uno stadio “avanzato”, con un vantaggio di tre punti percentuali rispetto a Francia, Germania e Spagna. Infine, agile e DevOps vengono impiegati anche in altri contesti, diversi dallo sviluppo applicativo: nei reparti di marketing (66%), nelle operations/produzione (62%) e nella vendita (59%).
CLOUD E CONTAINER SPINGONO I LEADER Più le aziende sono disposte a diventare “digitali”, maggiori possibilità hanno di migliorare la propria posizione sul mercato. È questa la conclusione a cui è giunto lo studio “Traditional Enterprises, the Path to Digital and the Role of Containers” di Red Hat e Bain & Company, svolto su 449 executive, decisori e specialisti It di società statunitensi appartenenti a diversi settori. Le realtà classificate come “leader” sono quelle che si distinguono per
l’utilizzo di tecnologie come il cloud computing, gli advanced analytics e i container. Queste aziende hanno una probabilità di accrescere la propria quota di mercato otto volte superiore rispetto alle imprese che hanno appena intrapreso il cammino di trasformazione digitale. I leader, inoltre, riescono a lanciare nuovi prodotti/servizi e a migliorare quelli esistenti in tempi tre volte più brevi rispetto ai competitor scarsamente digitali.
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INNOVAZIONE | Digital Transformation
Una ricerca di Idc rivela come i dipartimenti informatici siano sempre più impegnati nella risoluzione dei problemi. Dedicando poco tempo e risorse alla trasformazione dei modelli di business.
AUTOMAZIONE IT, FARE DI PIÙ È POSSIBILE
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olo un’azienda su cinque può vantarsi di aver raggiunto la completa automazione delle proprie risorse informatiche. Questo emerge da un’indagine econdotta da Idc, su commissione di Cisco e Dimension Data, intervistando online il personale di 275 imprese di dieci diversi Paesi. Il fanalino di coda è rappresentato da un 9% di aziende che non hanno ancora realizzato nessun tipo di automazione e orchestrazione della propria infrastruttura informatica; si sale quindi progressivamente a un livello basso (il 13% delle realtà), medio (32%) e alto (25%), fino ad arrivare alla punta di eccellenza del 20% che ha già completato il percorso. Ma che cosa si intende per completa automazione dell’It? Laddove possibile, 36
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operazioni di gestione, manutenzione e controllo delle risorse vengono svolte senza interventi manuali e/o in modo programmato, per esempio attraverso un approccio di tipo “software-defined” e soluzioni di virtualizzazione. Contestualmente, il rilevamento delle metriche di prestazioni, efficienza e costi dell’It diventa un’attività continua, mirata a prevenire i problemi anziché a risolverli. La maggior parte delle aziende, dunque, è solo a metà o addirittura all’inizio del percorso e ciò ha una conseguenza pratica molto immediata. Stando all’indagine di Idc, il personale informatico è spesso impiegato in attività a basso valore aggiunto e avide di tempo, tre in particolare: la gestione dei Service Level Agreements (Sla), il monitoraggio e la ri-
soluzione dei problemi occupano ciascuna circa il 13% della settimana lavorativa. Seguono in classifica le procedure di installazione di hardware e software (assorbono il 10,7% dell’orario lavorativo settimanale), la verifica della compliance (9,8%), l’installazione o la virtualizzazione di sistemi operativi (7,1%), la gestione di dati e risorse (7%), il rilascio di agDidascalia giornamenti e patch (6,9%), il controllo delle prestazioni e il tuning (6,9%), l’interazione con fornitori esterni e supporto clienti (6%). La conseguenza? Dovendo farsi carico di tutto questo carico di attività, il Cio e il suo gruppo di lavoro riescono a dedicare, in media, solo il 15% del proprio tempo ad attività direttamente correlate all’innovazione dei processi aziendali. V.B.
UNA REGIA UNICA PER UN OBIETTIVO DI TUTTE LE AZIENDE La trasformazione digitale è un’opportunità anche per le piccole imprese. Vincere questa sfida non può dipendere solo dalla funzione It. Ecco la ricetta del numero uno di Lenovo in Italia.
Emanuele Baldi
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è un divario, evidente, fra ciò che le aziende si aspettano dalla trasformazione digitale e le risorse effettivamente allocate per raggiungere i benefici e gli obiettivi strategici a essa collegati. Pesano, come ha rilevato uno studio condotto da Lenovo (di cui parliamo a pagg. 34-35), l’inadeguatezza delle infrastrutture hardware, la limitata disponibilità di risorse da destinare agli investimenti in nuove tecnologie e un gap di competenze specializzate. Le imprese italiane rischiano quindi, ancora una volta, di rimanere indietro? Ne parliamo con Emanuele Baldi, amministratore delegato e country general manager di Lenovo Italia. La maggior parte degli It manager italiani lamenta mancanza di risorse per affrontare la digital transformation: come si supera questo problema?
Occorrono una visione olistica e un approccio organico, che sappiano conciliare le richieste di innovazione degli It manager e gli obiettivi strategici delle altre funzioni coinvolte in questo processo, dal top management al procurement alle risorse umane fino al chief marketing officer. Se esiste una regia unica per combinare innovazione, esigenze di business e cultura aziendale, allora i limiti possono esse-
re compresi e superati prima di passare alla strategia da attuare, attraverso una rivoluzione positiva che coinvolga tutte le componenti dell’organizzazione. Ed è così che agiamo, con i nostri partner, in Lenovo. Dove è necessario intervenire prima e di più, a livello tecnologico?
Considerato lo sviluppo dell’Internet of Things e delle applicazioni di nuova generazione, bisogna investire in infrastrutture hardware che altrimenti rallentano l’innovazione e diventano un ostacolo. Nella ricerca che abbiamo condotto a livello Emea sulle funzioni It, con una buona parte del campione in Italia, oltre un quinto degli intervistati afferma che il proprio hardware tecnologico è inadeguato a supportare l’evoluzione. Per questo investiamo grandi risorse nell’offerta di data center, dedicando particolare attenzione alla sfera dei Big Data analitycs e high performance computing, elementi centrali nella cosiddetta quarta rivoluzione industriale.
Del cambiamento in chiave digitale hanno più bisogno le Pmi o le grandi aziende? Il manifatturiero o le industry legate ai servizi?
La digital transformation è un obiettivo vitale per tutte le aziende, perché tocca temi quali agilità, semplificazione, competitività e crescita. C’è attenzione soprattutto al manifatturiero, dove appunto si parla spesso di Industria 4.0, ma la trasformazione è un processo di innovazione pervasivo che coinvolge in vario modo la produzione e i servizi. Per entrambi i settori i vantaggi sono maggiore efficienza, migliore operatività a fronte di costi più contenuti e di una velocità al momento impareggiabile nel rilascio di soluzioni, prodotti e servizi. Si tratta di rendere l’azienda pronta ad affrontare tutte le sfide della concorrenza interna ed esterna, a prescindere dalla dimensione. Fattore che spesso, come sappiamo, penalizza le imprese italiane. Quale figura d’azienda potrebbe meglio guidare una politica di investimento sul digitale, che sia strategica e non solo tattica?
Il 91% dei professionisti It che abbiamo censito afferma di sentirsi investito della responsabilità di portare avanti l’innovazione e il valore di business della propria azienda. E queste figure sicuramente possiedono le competenze necessarie per comprendere i nuovi scenari tecnologici e per affrontarli. Le persone dell’It devono però coinvolgere tutte le altre funzioni interessate dal cambiamento, dalle risorse umane ai profili del business, per una regia unica in un percorso di lungo periodo. G.R.
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ECCELLENZE.IT | Gruppo
Marcegaglia
RETI IMPECCABILI PER LA FABBRICA ROBOTIZZATA Con i sistemi di rete di Cisco, l'azienda leader nella produzione di manufatti in acciaio ha ottenuto connettività affidabile, al servizio dell'automazione e dell'ottimizzazione della logistica.
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ei milioni di metri quadri di superficie produttiva, 5.500 chilometri di manufatti in acciaio inossidabile e al carbonio realizzati ogni giorno (corrispondenti a sei milioni di tonnellate di materiale lavorato all’anno), 15mila clienti. L’identikit in numeri di Gruppo Marcegaglia è quello di una realtà posizionata fra i colossi mondiali della trasformazione dell’acciaio. Già dal 2009, ben prima che si iniziasse a parlare di “industria 4.0”, l’azienda ha intrapreso un percorso di automazione industriale prevedendo un investimento di 250 milioni di euro. Il progetto ha riguardato innanzitutto l’ampliamento dei due stabilimenti di Ravenna e Casalmaggiore (CR), dedicati rispettivamente al trattamento e nobilitazione dei coil (le gigantesche bobine di acciaio) e alla produzione di tubature, proprio a partire dai coil. Aggiungere metri quadri non era l’unico obiettivo: si puntava a popolare le due fabbriche con sistemi automatizzati, al servizio delle operazioni di movimentazione della materia prima, dello spostamento e dello 38
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stoccaggio dei prodotti. Più precisamente, a Ravenna si voleva mettere in pista una flotta di navette completamente automatiche, destinate al trasporto delle maxi-bobine fra un impianto e l’altro e verso i luoghi di carico per la spedizione finale; a Casalmaggiore si puntava ad allestire un sistema di carriponte dedicato allo stoccaggio dei pacchi di tubi, raccolti dal sito di produzione e movimentati fino all’area di caricamento sugli automezzi. Gruppo Marcegaglia ha realizzato tutto questo grazie alla robotica, ma non senza un tassello fondamentale: la connettività. Per creare un’infrastruttura di rete cablata e wireless in grado di scambiare dati e informazioni con i nuovi impianti integrati negli stabilimenti, l’azienda si è rivolta alla tecnologia di Cisco, adottando diversi modelli di router, access point e controller, gestiti centralmente. L’intero progetto ha mirato a trasformare il modello produttivo e logistico in quello di una “fabbrica connessa”, come spiega Livio Bonatti, network infrastructure manager, headquarters di Marcegaglia,
“attraverso l’adozione di una rete unificata per l’azienda e gli stabilimenti, in grado di abilitare la reingegnerizzazione dei processi in ottica Internet of Things e lungo una supply chain totalmente informatizzata”. L’azienda ha così potuto ottimizzare l’automazione dei due impianti e realizzare servizi di logistica avanzata, nonché azzerare gli errori di produzione e ridurre alcune spese di manutenzione. “Un blocco o rallentamento degli impianti, dovuto a ordini e missioni non fatte pervenire correttamente, potrebbe generare perdite al business”, rimarca Bonatti. Grazie all’architettura Factory Network di Cisco è stata ottenuta la massima visibilità su tutti i sistemi, il che significa poter individuare elementi critici e intervenire prima che si verifichi un problema. LA SOLUZIONE Sia i carriponte dello stabilimento di Casalmaggiore sia le navette autonome (Automated Guided Vehicle) di Ravenna ricevono e inviano dati da e verso il sistema centrale, che impartisce loro ordini. L’infrastruttura di rete impiega gli switch di fattura industriale della serie Cisco IE2000, mentre la componente wireless comprende gli Access Point Cisco 1600 e 2700 e i controller Cisco Wireless 5500. La sicurezza è affidata ai firewall della serie 5500, alle sonde Ips Sourcefire e al Cisco Identity Services Engine.
ECCELLENZE.IT | Eco.Lan
L'ISOLA ECOLOGICA SI FA CON L'INTERNET OF THINGS LA SOLUZIONE
La società di gestione dei rifiuti del Comune di Lanciano (Chieti) ha realizzato un sistema di connettività IoT e di analisi dei dati, scegliendo le tecnologie di Intel e Sap. Un modo per migliorare il volto e l'efficienza della città.
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na città pulita ed ecologica, capace di migliorare la qualità della vita ma anche di tagliare le spese dei cittadini, rappresenta un’ottima declinazione del concetto di “smart city”. A Lanciano, cittadina abruzzese di 35mila abitanti, la società pubblica di gestione dei rifiuti ha scelto di affidarsi al software di Sap e ai processori di Intel. Eco.Lan (Ecologica Lanciano, attiva anche in altri 52 comuni della provincia di Chieti) aveva un doppio obiettivo: quello di rendere più efficiente tutto il ciclo, dalla mappatura dei luoghi di deposito alla raccolta della spazzatura, e quello di calcolare l’importo della Tari in modo più preciso e dunque più equo. Con l’intervento del system integrator Hiteco si è realizzato un progetto che sfrutta i sensori, la connettività Internet of Things e gli algortimi di analisi dei dati: nove isole ecologiche sono state posizionate in luoghi strategici, dentro ai 66 chilometri quadrati dell’area cittadina, per offrire un punto di raccolta sia
Il processore Intel Edison gestisce l’apertura e la chiusura automatica degli sportelli dell’ecoisola in base al passaggio della tessera con chip Nfc, oltre a raccogliere dati dai sensori collocati sui cassonetti, per inviarli al sistema centrale di Eco.Lan. Quest’ultimo, basato su Sap Business One, comunica con la card dell’utente per contabilizzare i conferimenti e invia comunicazioni email ed Sms verso gli operatori. L’analisi di tutti i dati raccolti permette di creare report periodici, da inviare agli enti di competenza. alle utenze non domestiche (commercianti, bar, ristoranti, pub, eccetera), sia ai condomini che non dispongono di spazi da destinare allo smaltimento differenziato. In ogni isola solo collocati cinque contenitori da mille litri di capacità ciascuno. Non si tratta di normali cassonetti: grazie a sensori e alla connettività IoT, possono aprirsi in automatico quando l’utente accede all’interno dell’area, dopo essersi identificato con una “eco card” dotata di tecnologia Nfc. Il sistema misura la quantità di rifiuti depositata e poi la contabilizza sulla tessera personale, consentendo di calcolare in modo preciso l’ammontare della tassa e di individuare i comportamenti scorretti. E non è tutto, i dati vengono convogliati sulla scheda Arduino affinché il processore Intel Edison provveda a raccoglierli, elaborarli e inviarli al sistema centrale di Eco.Lan. Il ciclo dei rifiuti diventa quindi un circolo virtuoso, sia ecologico sia economi-
co. Alcuni sensori si occupano del rilevamento dei cattivi odori, azionando in automatico un sistema di pulizia dell’aria tramite ventole ed enzimi. Altri, invece, misurano in tempo reale il rempimento dei contenitori, inviando comunicazioni sugli smartphone degli operatori addetti allo svuotamento quando viene raggiunta la capienza massima. Questo, insieme alla localizzazione Gps delle isole, permette di ottimizzare i tempi dei giri di raccolta e i consumi di carburante. Il monitoraggio continuo del funzionamento delle “ecoisole” viene usato anche per individuare eventuali procedure da correggere e per creare report periodici (da inviare agli enti preposti alle attività di controllo e contabilizzazione). Nei prossimi mesi una decima isola ecologica si aggiungerà a quelle esistenti e saranno installate delle compostiere smart per rifiuti organici. Dispositivi intelligenti davvero: sapranno infatti analizzare e valutare la qualità del compost. MARZO 2017 |
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ITALIA DIGITALE | Agenda e PA
Nei dati dell’Istat si legge il ritardo accumulato negli anni passati dagli enti locali nel loro processo di informatizzazione. Oggi la macchina pubblica sembra inadeguata a supportare il cambiamento. Riuscirà il commissario Piacentini, e con lui l’Agid, a invertire la tendenza?
I PIANI CI SONO, È TEMPO DI ATTUARLI
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e polemiche di fine anno sul ruolo del team per la Trasformazione Digitale facente capo al Commissario Straordinario Diego Piacentini si sono, per il momento, placate. L’ombra di costi, oltre 30 milioni di euro per il prossimo biennio, che a molti appaiono esagerati per un’entità “parallela” all’Agid però rimane e con essa la curiosità di capire i primi effetti della cura suggerita dal top manager di Amazon. Fino a oggi, in realtà, è mancata una chiara traccia di sinergia fra le attività del team e l’Agenzia per l’Italia digitale, anche se le due strutture hanno lavorato fianco a fianco alla revisione del Piano Triennale della Pa. Dopo mesi di ritardi, i decreti attuativi della riforma delle Pubblica Amministrazione e dell’A40
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genda digitale dovrebbero presto trovare concretezza operativa. Nel Piano, queste le premesse, saranno classificate e razionalizzate le spese per le amministrazioni in coerenza con gli obiettivi fissati dalla legge di Stabilità; i risparmi ottenuti sulla spesa corrente alimenteranno nuovi investimenti in innovazione. Sulla carta, come spesso capita, è tutto perfetto. Se guardiamo però alla fotografia scattata dall’Istat sul livello di informatizzazione delle Amministrazioni pubbliche italiane a tutto il 2015, emerge in modo evidente come le Pa locali siano chiamate a correre ad alta velocità per recuperare il terreno perduto. Ne va dell’indispensabile riduzione della spesa del settore pubblico e dell’altrettanto vitale miglioramento dell’efficienza dei suoi servizi. Il
DIGITALE PER POCHI Dai dati Eurostat del 2016 sulla società digitale emerge come la percentuale di italiani che non ha mai usato Internet è ancora del 25%. La quota di chi naviga in Rete regolarmente (in crescita di quattro punti) è al 67%. Solo il 43% della popolazione è in possesso di competenze digitali “di base o superiori”, percentuale che lascia dietro di noi soltanto Cipro, Romania e Bulgaria. Preoccupante, infine, è il livello di utilizzo dei servizi di e-government: interessa solo il 12% dei cittadini, contro una media europea del 28%.
traguardo enunciato da Piacentini prima della pubblicazione del Piano (non ancora avvenuta, nel momento in cui scriviamo) è quello di fare in modo che “la digitalizzazione non sia più straordinaria, ma diventi la normalità nella Pa”. Il punto, come qualcuno ha argutamente osservato nelle scorse settimane, è che il desiderio di cambiamento si scontra con una realtà non certo favorevole alla sua rapida attuazione. Mancano, in sintesi, alcuni requisiti senza i quali diventa difficile scaricare a terra le potenzialità della tecnologia: le risorse finanziarie, innanzitutto, e poi competenze qualificate e un’adeguata formazione.
cupa (prevalentemente o parzialmente) di Ict in una Pa locale è forse il dato che più dovrebbe preoccupare Piacentini e il suo team: siamo fermi all’1,4% del totale dell’ente, mentre la quota di dipendenti che ha preso parte ad almeno un’attività di aggiornamento tecnologico (corsi su applicazioni e software) nell’anno precedente non supera il 7,7%. Se la trasfor-
Il ritardo della Pal in numeri
mazione digitale passa, e deve passare, anche per la Pa locale, il compito di chi deve farsene carico non appare dei più semplici. Per contro, è stato proprio il Commissario per l’attuazione dell’Agenda Digitale a ribadire a inizio gennaio che “le amministrazioni locali giocheranno un ruolo decisivo sul territorio, dando impulso all’esecuzione delle innovazioni esistenti e future in maniera integrata, con una metodologia agile e un approccio open data”. La sensazione è che i soggetti direttamente interessati da questo pro-
Solo il 16,8% della Pubblica Amministrazione locale dispone nella propria struttura di uno o più uffici autonomi di informatica. Percentuale che sottende una grande difformità tra le diverse tipologie di enti: tutte le Regioni e le Province Autonome e la maggior parte delle Province (l’86,9%) si dichiarano in quest’ottica virtuose, mentre il baco si insinua nelle Comunità montane e nei Comuni, “equipaggiati” solo nel 22,9% e nel 15,5% dei casi. La rilevazione dell’Istat sulla porzione di personale che si oc-
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La quota di personale che si occupa di Ict in una Pubblica Amministrazione locale è pari all’1,4% del totale dell’ente.
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cesso, cioè gli enti locali, oggi non siano però pronti. E forse non lo saranno neppure a breve. In tema di sicurezza informatica, per esempio, serve intervenire in fretta e in modo sostanziale, perché le amministrazioni presentano sistemi di difesa ancora insufficienti e bassissimi livelli di consapevolezza sui rischi. Il Codice di Amministrazione Digitale (Cad) ha sì migliorato la situazione, ma il ricorso a tecnologie avanzate quali la cifratura dei dati (utilizzata nel 15,6% dei casi) o la presenza di piani di disaster recovery dedicati (siamo al 48,8%) non sono sufficienti a supportare il grande passo in avanti. Simile è il discorso sugli open data, altro cavallo di battaglia di Piacentini, dove si punta ad affermare una nuova interfaccia all’interno della quale le singole amministrazioni possano comunicare e condividere informazioni in modo trasparente: solo un terzo delle realtà locali già rende disponibili in formato “aperto” i propri dati. L’innovazione digitale è sicuramente il dogma e richiede investimenti e competenze, ma senza un salto in avanti culturale e organizzativo la tecnologia potrà fare poco. E di tempo per cambiare teste e processi non ne è rimasto molto. Gianni Rusconi
SPESA ICT, ORGANICO, NUOVI SERVIZI: L’AGID DÀ I NUMERI Per portare a compimento l’attuazione dei progetti dell’Agenda digitale servono più risorse. E non solo economiche. Come si evince da una recente audizione del direttore dell’Agid, Antonio Samaritani, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul livello innovazione della Pubblica amministrazione, all’Agenzia in questione manca personale. “In organico abbiamo solo 93 addetti, ce ne vogliono almeno 250”, il succo dell’intervento di Samaritani. In attesa di novità in tal senso, l’audizione è stata l’occasione per apprendere
molti dei numeri che caratterizzano l’anima “tecnologica” della macchina statale. Innanzitutto quelli relativi alla spesa Ict, che nel 2015 ha superato i 5,5 miliardi di euro (al netto delle spese per il personale e dell’Iva). Quindi i nuovi progetti dell’Agenda, a cominciare dalla piattaforma Italia Login, per cui sono previsti 50 milioni di euro di nuovi investimenti. Il rollout di Spid si sta, invece, concretizzando attraverso questi numeri: cinque provider accreditati, oltre 3.700 Pa attive, circa 4.300 servizi disponibili e (il dato si riferisce a fine gennaio
2017) un milione e 130mila identità digitali erogate. Sono circa 180 invece i prestatori di servizio attivi sulla piattaforma PagoPa, e oltre 1.300 le transazioni completate. Procede più lentamente il cammino dell’Anagrafe nazionale, la cui sperimentazione è iniziata a dicembre 2015, mentre sul fronte della fatturazione elettronica i numeri parlano di poco meno di 55 milioni di documenti processati, di oltre 23mila amministrazioni registrate su Ipa (Indice delle pubbiche amministrazioni) e di più di 56mila uffici fattura attivi.
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ITALIA DIGITALE | Startup & Pmi innovative
UN ECOSISTEMA CHE NASCE DAI DISTRETTI Sono oltre 12mila le startup e quasi 4.000 le Pmi impegnate nello sviluppo di servizi e soluzioni tecnologiche. A mapparle ci ha pensato l’Ufficio Studi del Cerved, che ha anche evidenziato gli otto cluster di focalizzazione, dall’Internet delle cose alla modellazione 3D.
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inizio febbraio le startup e le Pmi innovative italiane iscritte nell’apposito registro tenuto dalle Camere di Commercio sotto il patrocinio del Mise superavano quota 7.100 unità. Un micro-esercito di imprese che alimenta un ecosistema su cui il Paese punta moltissimo per recuperare competitività e credibilità, un ecosistema fatto da migliaia di soci operativi e di addetti che macina un fatturato medio ancora troppo modesto
(nell’ordine dei 150mila euro) rispetto alle potenzialità. L’universo dell’innovazione in Italia, in realtà è più ampio di quello che emerge dai database ufficiali. Sono infatti 16mila le startup e le piccole e medie imprese innovative oggi attive nella Penisola, una comunità di aziende attive in tutti i settori dell’economia che nel 2016 ha generato ricavi per oltre 26 miliardi di euro, impiegando più di 150mila addetti. Il calcolo è opera dell’Ufficio Studi del Cerved, che ha
DALLA UE 360 MILIONI PER LE PMI ITALIANE Dal Fondo europeo per gli investimenti (Fei) sono stati stanziati 360 milioni di euro in tre anni a favore delle piccole e medie imprese dell’Italia centro-settentrionale. Il finanziamento, frutto dell’accordo firmato tra Fei, Artigiancredito Toscano e cinque enti garanti, permetterà a oltre 10mila imprese di
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accedere alle risorse economiche previste dal programma “Cosme” lanciato dalla Commissione europea. Il programma, nello specifico, punta a erogare fondi alle Pmi per sostenerne la crescita, promuoverne la cooperazione intersettoriale e aiutarle a beneficiare dell’innovazione tecnologica.
dedicato all’ecosistema dell’innovazione un’intera sezione del suo tradizionale Rapporto sullo stato di salute delle Pmi italiane. Il punto di partenza è il bacino di imprese iscritte alle sezioni speciali del Registro delle Imprese, ampliato da tutte le “newco” e dalle piccole e medie realtà già esistenti che, pur restando fuori dai registri ufficiali, sviluppano e vendono prodotti e servizi innovativi. Per identificarle, il Cerved non ha censito solo il business delle startup partecipate dagli investitori istituzionali e specializzati, ma anche quello di tutte le realtà tracciate attraverso le avanzate metodologie di “semantic Web” messe a punto da Spazio Dati (una startup trentina di cui il Cerved detiene una partecipazione azionaria). All’ecosistema ufficiale, quindi, si aggiungono circa 6.100 startup e 3.700 Pmi non registrate, per un totale di oltre 16mila imprese che, a vari livelli, si dedicano all’innovazione. “Le attività di sviluppo di queste aziende”, come spiega Michele Barbera, Ceo di Spazio Dati, “si concentrano attorno
Cerved, sottolineando come dall’indagine non siano emersi territori specializzati in particolari tipologie di attività innovativa. Si sono evidenziate, piuttosto, specifiche aree in cui i fattori di contesto favoriscono la nascita e lo sviluppo delle imprese innovative. “Eloquente è il caso di Trento e Trieste, due province in cui la presenza di startup e Pmi innovative è di gran lunga superiore alla media in tutti gli otto cluster tecnologici identificati”, prosegue ancora Romano. “Questo significa che le politiche di contesto, in cui l’operatore pubblico assicura le migliori condizioni per l’innovazione lasciando al mercato la scelta di come sfruttarle, sono
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Le politiche in cui l’operatore pubblico assicura le migliori condizioni per l’innovazione sono preferibili a interventi verticali o di settore, in cui l’operatore pubblico sceglie le aree da sviluppare
a otto principali cluster tecnologici: software e Internet delle cose, mobile e smartphone, ecosostenibilità, biotecnologie, Big Data e app, ricerca e sviluppo, ingegneria e modellazione 3D. Tra questi cluster dominano soprattutto i temi del mobile, con quasi 4mila realtà attive in questo campo, e dell’ecosostenibilità, con oltre 2.500 fra startup e Pmi impegnate nello sviluppo di soluzioni in questo settore”. La nuova scommessa di Nord Est e Sud Italia
L’analisi del Cerved evidenzia chiare direttrici territoriali dell’ecosistema, con le province del Nord Est e della dorsale adriatica davanti a tutte per concentrazione di startup e Pmi tecnologiche, accanto naturalmente ai classici centri urbani. “In Italia la mappa dell’innovazione ricalca quella dei tradizionali distretti industriali, dove si riscontra il maggiore capitale imprenditoriale”, osserva Guido Romano, responsabile Studi Economici e relazioni esterne del
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preferibili a interventi verticali o di settore, in cui lo stesso operatore pubblico sceglie le aree da sviluppare”. Dalla mappa emerge il tipico divario tra le regioni del Nord e del Sud Italia con la sola eccezione di Cagliari, una realtà storicamente importante per l’innovazione digitale. Oltre un quarto delle imprese innovative, infatti, ha sede a Milano (2.675 startup e Pmi) e a Roma (3274). Seguono Torino (798), Napoli (520) e Bologna (450). A livello provinciale, invece, Trento è indubbiamente la realtà più innovativa, seguita da Trieste, Ancona e Pordenone. Analizzando i singoli cluster si scoprono, comunque, realtà interessanti anche nel Sud Italia: Isernia e Potenza si distinguono, per esempio, per le biotecnologie, Enna per l’ecosostenibilità, Oristano per l’ingegneria, Crotone per la stampa 3D, Cosenza per la ricerca e sviluppo e Campobasso per l’Internet of Things. Claudia Rossi
LE AGEVOLAZIONI PER LE STARTUP Atti costituitivi più semplici e finanziamenti più convenienti per le nuove imprese innovative. A stabilirlo è il Disegno di Legge di Bilancio 2017 varato a fine dicembre scorso, che prevede una serie di agevolazioni fiscali a favore delle startup e di chi le finanzia. Il Ddl ha introdotto, per esempio, l’esenzione dall’imposta di bollo e dal pagamento dei diritti di segreteria per l’iscrizione al Registro delle imprese degli atti costitutivi societari, che d’ora in avanti potranno essere sottoscritti con la firma digitale del legale rappresentante o con la sua firma elettronica avanzata autenticata. Per quanto riguarda le agevolazioni disposte in favore di chi finanzia le startup, il Ddl ha elevato da 500mila a un milione di euro il limite d’investimento su cui i soggetti Irpef possono calcolare la detrazione, lasciandolo invariato per i soggetti Ires. Sale a tre anni per entrambi, invece, il vincolo minimo di destinazione dei capitali. Per quanto riguarda gli stanziamenti economici a sostegno delle startup innovative, inoltre, la dotazione del Fondo per la crescita sostenibile è stata incrementata di 47,5 milioni di euro sia per il 2017 sia per il 2018. Sarà permessa, infine, la cessione delle perdite prodotte dalle startup nei loro primi tre anni di esercizio a favore di società quotate, purché ne detengano una partecipazione pari almeno al 20%.
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OBBIETTIVO SU | Coop
DATI E SENSORI SONO IL CUORE DELLA SPESA Inaugurato a dicembre a Milano, il negozio del futuro è un laboratorio aperto di sperimentazione e applicazione delle nuove tecnologie al servizio dell’esperienza di acquisto.
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al “Future Food District” di Expo 2015 al centro commerciale Bicocca Village. A partire dallo scorso dicembre, il prototipo di supermercato del futuro sviluppato da Coop Italia su progetto di Carlo Ratti Associati è un esercizio commerciale vero e proprio. Innovativo e, per alcuni aspetti, unico nel suo genere a livello mondiale. Perché innovativo? Perché è uno spazio di ricerca e un laboratorio sperimentale in corso d’opera, un luogo di relazione con il consumatore in cui la tecnologia gioca un ruolo fondamentale. Nella roadmap delle soluzioni da realizzare figurano sistemi di pagamento contactless e tramite smartphone, un’app mobile per il riconoscimento profilato del singolo utente e l’aggiornamento in tempo reale dei database dell’assortimento grazie ai sensori integrati nei banchi vendita e negli scaffali. La missione del supermercato è quella di raccogliere a getto continuo dati con cui poter migliorare, da una parte, la customer experience (con conseguenti ricadute sulle vendite) e dall’altra l’efficienza dei processi di gestione del negozio. Per i consumatori-clienti la grande novità è invece quella di poter interagire con i 44
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banchi espositivi per avere tutti i dettagli sul singolo prodotto. Un semplice gesto della mano viene infatti riconosciuto dal sistema, grazie a sensori Kinect e meccanismi di “body detection”, e sullo schermo vengono visualizzate una serie di informazioni aggiuntive rispetto a quelle riportate sul packaging. A beneficio dei clienti, il supermercato del Bicocca Village replica anche l’esperienza di Expo con il maxi schermo su cui vengono visualizzati in tempo reale dei dati
raccolti all’interno del punto vendita, evidenziando i prodotti con cui stanno interagendo i consumatori e la hit-list degli articoli più acquistati. Un negozio dinamico e non più statico, dunque, che punta sull’analisi (istantanea e prolungata nel tempo) del comportamento e delle abitudini del cliente. E la vera intelligenza, quella che corre attraverso le informazioni e trasforma i dati in business, diventa una sorta di gioco interattivo per tutti. G.R.
IL NEGOZIO, COSTATO FRA I QUATTRO E I CINQUE MILIONI DI EURO, È IL 56ESIMO DI COOP LOMBARDIA.
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OBBIETTIVO SU | Coop
Il nuovo punto vendita è un esercizio in divenire, utile per affinare un’architettura informatica, del tutto integrata con il sistema It esistente di Coop. Si utilizzano avanzate tecnologie (connettività, cloud, analytics, touchpoint) implementate ad hoc da Accenture, Microsoft e Avanade.
NEGLI 800 METRI QUADRI DEL NEGOZIO TROVANO POSTO SEMILA PRODOTTI E UN CENTINAIO FRA POSTAZIONI INTERATTIVE E TOTEM TOUCHSCREEN.
Il modello realizzato nel centro Bicocca Village è unico ma al tempo stesso flessibile, scalabile e replicabile in un ampio numero di negozi.
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IL “DATA VIZ” È UN SCHERMO DI QUASI 20 METRI DI LUNGHEZZA, COMPOSTO DA 54 MONITOR CHE VISUALIZZANO I DATI IN TEMPO REALE.
L’etichetta “aumentata” dei prodotti fornisce informazioni aggiuntive sull’origine delle materie prime, le istruzioni per lo smaltimento o le promozioni in corso. Vi si accede dai 46 totem-touch dotati di scanner, che possono recuperare informazioni sugli articoli in vendita, indipendentemente dalla loro collocazione.
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VETRINA HI-TECH
VOGLIA DI SMART HOME La casa si popola di oggetti intelligenti, capaci di imparare dai nostri comportamenti per autoprogrammarsi. Gli ultimi ad arrivare in Italia sono i termostati e le telecamere di Nest.
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nternet delle cose, algoritmi e strumenti di analytics, interfacce tattili e ad attivazione vocale, sensori, persino il cognitive computing: dentro le mura domestiche, ormai, c’è un universo di tecnologie in grado di aprire una frontiera che la domotica, anni fa, aveva solo iniziato ad esplorare. La casa, insomma, sta diventando il luogo “smart” per eccellenza. Per dirla con una metafora, come fa Harriet Green, global head Watson IoT di Ibm, “Milioni di sensori forniscono oggi occhi e orecchie ad apparecchiature e dispositivi, aumentando la loro intelligenza integrata e consentendo 48
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loro di interagire con noi in modo più efficace”. Con frigoriferi, climatizzatori o lavastoviglie potremo interagire parlando, e non solo. Gli elettrodomestici come li abbiamo intesi fino a oggi non esisteranno più, grazie a capacità di apprendimento automatico che li renderanno oggetti attivi all’interno delle quattro mura domestiche. Grazie al sistema di supercalcolo di Watson, per esempio, una lavatrice di una tal marca (Whirlpool è già al lavoro con Ibm su questo fronte) sarà in grado di comunicare direttamente con un’asciugatrice del medesimo produttore, informandola sulla tipologia di carico di bian-
cheria atteso e sul programma ottimale da utilizzare, risparmiando così sia sul tempo sia sui consumi energetici. Nuova intelligenza e funzionalità avanzate di video analytics verranno, invece, distribuite alle telecamere di sicurezza e ai rilevatori di movimento, i cui software saranno combinati con capacità di computing cognitivo (la specialità di Watson). L’intelligenza artificiale caratterizza anche la nuova ondata di dispositivi indossabili destinati al monitoraggio a domicilio, non invasivo, delle persone anziane o bisognose di assistenza medica.
Sensori per vivere meglio
Rendere la casa “smart”, programmabile e personalizzabile. L’idea promossa da Nest, la startup fondata nel 2010 dagli ex Apple Tony Fadell (il “papà” dell’iPod) e Matt Rogers (attuale chief product officer dell’azienda) e acquistata quattro anni più tardi da Google per 3,2 miliardi di dollari, non si limita al concetto di un ambiente popolato di oggetti e dispositivi connessi: può essere un luogo che si prende cura del benessere fisico ed economico delle persone, sia aumentando la sicurezza domestica, sia risparmiando energia. Alcuni dei prodotti Nest, cioè termostato, telecamere indoor e outdoor, sono recentemente sbarcati sul mercato italiano, dove dovranno affrontare una concorrenza molto agguerrita e variegata, che vede in testa specialisti come Bticino, Honeywell, Netatmo e Tado ma anche le grandi firme dell’elettro-
CASA A PROVA DI LADRO Rendere più sicuro e intelligente l’ambiente domestico. È questo un componente di peso della mission di D-Link, che ha deciso recentemente di aprire una nuova fase nella propria storia offrendo diverse soluzioni di domotica. Per esempio, un Smart Home Security Kit utile per chi voglia iniziare ad addentrarsi nel mondo della casa connessa. Il pacchetto include un Home Hub (che funziona come ponte tra la rete WiFi esistente e gli altri dispositivi), un sensore per porte e finestre, una sirena e un Monitor Hd con risoluzione 720p. L’offerta D-Link si compone anche di sensori intelligenti per rilevare perdite d’acqua e fumo nei locali, oltre che di prese elettriche smart per monitorare, controllare e au-
nica di consumo (come Samsung e Lg) e del bianco (come l’italiana Candy). Il fiore all’occhiello dell’offerta di Nest è il Learning Thermostat, oggetto che finora è stato capace di far risparmiare circa otto miliardi di kWh di energia grazie a un parco installato di quasi un milione di unità. Bello da vedere, naturalmente connesso a Internet oltre che alla caldaia (tramite una scatoletta fornita a corredo, l’HeatLink), è in grado di osservare giorno dopo giorno i nostri movimenti, di comprendere le nostre abitudini sulla temperatura di comfort preferita in casa, ma anche di adattarsi alla variabile delle condizioni meteo apprese in formato digitale. Così facendo, impara e si programma da solo per gestire in modo sempre più calibrato ed efficiente accensione, spegnimento e temperatura degli impianti. Gianni Rusconi
tomatizzare luci ed elettrodomestici da qualsiasi luogo. Perché uno dei vantaggi della “casa 2.0” è proprio questo: la possibilità di intervenire sugli apparecchi anche a distanza, cambiando impostazioni e parametri solitamente tramite un’applicazione mobile. Nel caso di D-Link, l’app si chiama Mydlink Home ed è disponibile per sistemi Android e iOs. Utilizzando smartphone e tablet è quindi
IL TERMOSTATO DI NEST In vendita a 249 euro. Apprende le abitudini di chi vive in casa, elaborando le informazioni raccolte attraverso i sensori e l’ntelligenza artificiale di cui è dotato. Tramite app si controllano tutti gli impianti da remoto.
possibile programmare accensione e spegnimento delle luci, impostare budget per gestire il consumo energetico, ricevere notifiche push immediate in caso di anomalie e molto altro. D-Link collabora infine con altre aziende, come Assa Abloy e Yale (sistemi di serratura), per realizzare componenti intelligenti con cui gestire gli accessi al perimetro domestico. A.A.
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VETRINA HI-TECH
IL COMFORT SI CONTROLLA CON LA VOCE HONEYWELL
TERMOSTATO LYRIC T6 La nuova generazione di cronotermostati intelligenti di Honeywell è compatibile con Apple Homekit: è quindi possibile gestire i dispositivi utilizzando Siri, l’assistente vocale di iOs. Grazie al geofencing, inoltre, rileva quando l’utente sta tornando a casa e si attiva per accendere la caldaia.
LENOVO
SMART ASSISTANT
SAMSUNG
FAMILY HUB 2.0
PHILIPS
LAMPADINE HUE La luce ambientale si abbina all’umore con le lampadine intelligenti Philips Hue. Tramite l’app per smartphone è possibile scegliere tra 16 milioni di colori diversi, salvando le combinazioni preferite e sincronizzando le sfumature con musica e film. Lo starter kit contiene tre lampadine e l’hub Hue Bridge.
Portare intelligenza e connettività anche nel cuore della casa, vale a dire nei cari e vecchi elettrodomestici. È la smart home secondo Samsung, che si declina nei frigoriferi Family Hub 2.0 dotati di computer integrato, schermo touch e sistema operativo Tizen, oltre che nei robot aspirapolvere Powerbot Vr7000 e nelle lavatrici Addwash.
L’Amazon Echo in salsa cinese si chiama Smart Assistant e, proprio come lo speaker intelligente della casa di Seattle, si basa sulla “collaboratrice” virtuale Alexa. La parte superiore in acciaio ha due microfoni per ricevere comandi vocali, quella inferiore è la cassa vera e propria, composta da woofer e tweeter.
NETATMO
RILEVATORE DI FUMO Netatmo punta sulla sicurezza della casa con rilevatore di fumo e allarme, che si aggiungono così alle due videocamere Welcome (da interni) e Presence (per gli esterni). Grazie all’intelligenza artificiale, i dispositivi valutano in autonomia situazioni sospette e avvisano l’utente sullo smartphone.
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COMUNICARE, INNOVARE, CONDIVIDERE
LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELLE IMMAGINI
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