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NUMERO 38 | APRILE 2019
STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
BENVENUTI NELLA SOCIETÀ DEL 5G STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
Le reti di nuova generazione sono una realtà, ma gli ostacoli tecnologici ed economici alla loro diffusione sono altrettanto concreti. Quali servizi saranno attivati a breve e quali si faranno attendere?
INNOVAZIONE APRILE 2019
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Gli italiani sono ancora poco digitali nel rapporto con la Pubblica Amministrazione e nella ricerca di lavoro.
BLOCKCHAIN
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La tecnologia della catena di blocchi è adottata in modo poco sistematico. Quali sono i limiti da superare?
MONDO DIGITALE
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Smartphone pieghevoli, sistemi per la casa connessa e strumenti per la produttività: le novità più interessanti della primavera.
SOMMARIO 4 STORIA DI COPERTINA STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
N° 38 - APRILE 2019 Periodico mensile registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012 Direttore responsabile: Emilio Mango Coordinamento: Gianni Rusconi Hanno collaborato: Alessandro Andriolo, Piero Aprile, Valentina Bernocco, Roberto Bonino, Vincenzo D'Appollonio, Federico D'Incà, Maurizio Decina, Carlo Fontana, Matteo Tarroni Progetto grafico: Inventium Srl Foto e illustrazioni: Istockphoto, Adobe Stock Images, Martina Santimone
5G al debutto: reti veloci, adozione lenta
La sicurezza “intrinseca” è il futuro
Il 5G cinese fa paura?
11 IN EVIDENZA
Italia “smart nation”: una partita giocata su più tavoli
Spesa Ict: nel 2019 domina ancora il cloud
Italiani innamorati della moneta elettronica
L’economia delle applicazioni è condizionata dalla sicurezza
Parola d’ordine: multi-cloud
Comunicazioni unificate: scende in campo Poly
Fatturazione elettronica, un’opportunità per l’invoice trading
20 DIGITAL TRANSFORMATION
Il futuro del lavoro si fonda sulle persone
Il mappamondo del cambiamento
27 SPECIALE 5G
Rivoluzione annunciata
Prove di ecosistema
La tecnologia abita nelle smart city
Editore e redazione: Indigo Communication Srl Via Correggio, 48 - 20149 Milano tel: 02 36505844 www.indigocom.it
Una trasformazione profonda
Un abilitatore verticale
Il segreto delle nuove reti è la semplicità
Silicio e telefonini di ultima generazione
Pubblicità: Economy Srl tel: 02 89767777
44 STARTUP & PMI INNOVATIVE
Stampa: Rotolito - Pioltello (MI)
47 INTELLIGENZA ARTIFICIALE
© Copyright 2019 Indigo Communication Srl Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati. Il Sole 24 Ore non ha partecipato alla realizzazione di questo periodico e non ha responsabilità per il suo contenuto. Pubblicazione ceduta gratuitamente.
Fenomeno a due facce
Un percorso a ostacoli
58 ECCELLENZE.IT Gruppo Ingo - Rubrik Iccrea Banca - Microsoft InPost Italia - Ricoh
62 MONDO DIGITALE
Vetrina Hi-Tech
STORIA DI COPERTINA
5G AL DEBUTTO: RETI VELOCI, ADOZIONE LENTA
La società digitale vivrà nel segno delle reti intelligenti. Ma servirà ancora qualche anno per una diffusione su larga scala di applicazioni e servizi: nel 2025 solo un sesto delle connessioni si appoggerà alle infrastrutture di ultima generazione.
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l debutto è vicino: almeno in alcuni mercati il 2019 sarà finalmente l’anno del 5G. Dalla realtà virtuale alla guida autonoma, dai droni alle architetture di edge computing, l’allargamento del ventaglio di applicazioni sostenute dalle reti di quinta generazione creerà nuove possibilità di monetizzazione per le telco, ma pone sul tavolo diverse sfide. A cominciare da quella legata alla sicurezza (in cui domina il “caso” Huawei, di cui parliamo ampiamente nelle pagine che seguono). Ma quale scenario si sta delineando in relazione all’ormai prossimo lancio commerciale dei primi servizi 5G? In molti, fra addetti e lavori e non,
la definiscono una rivoluzione. Ma sarà davvero così, e quando? Stando a uno studio presentato in occasione dell’ultima edizione del Mobile World Congress di Barcellona da Gsma (l’associazione che riunisce 750 operatori e 400 aziende del settore), quest’anno il 5G debutterà ufficialmente in 16 macro mercati, che si aggiungeranno a quelli dove le nuove reti sono state già “accese” a fine 2018, e cioè Corea del Sud e Stati Uniti. È indiscutibile che il ritmo delle implementazioni di nuove infrastrutture di rete e quello degli annunci di smartphone e altri dispositivi 5G abbia registrato un’accelerazione (che prose-
guirà nei prossimi mesi, secondo le stime tracciate da Gsma). Ma è anche vero che l’impatto della nuova tecnologia si potrà considerare sostanziale solo fra qualche anno. Nel 2025, infatti, le connessioni su rete mobile 5G in tutto il pianeta saranno “solo” 1,4 miliardi, numero pari al 15% del totale, sebbene Europa, Cina e anor più gli Stati Uniti esibiranno percentuali di adozione decisamente superiori. Le reti 4G, nel frattempo, continueranno a crescere per arrivare a coprire, alla fine dello stesso arco temporale, circa il 60% delle connessioni globali, rispetto al 43% calcolato a fine 2018; parimenti aumenteranno significativamente le connessioni generate dall’Internet of Things, che triplicheranno fino a toccare quota 25 miliardi nel 2025, con un giro d’affari stimato di 1.100 miliardi di dollari. Se l’anno passato le tecnologie e i servizi mobili hanno inciso nella misura del 4,6% sul Pil mondiale (per 3.900 miliardi di dollari) e nel 2023 il loro contributo dovrebbe salire a 4.800 miliardi (4,8% del Pil), i grandi frutti del 5G si vedranno solo nel lungo periodo: secondo la Gsma, il 5G aggiungerà 2.200 miliardi di dollari all’economia mondiale nel corso dei prossimi 15 anni contribuendo in maniera determinante allo sviluppo di un ecosistema (l’industria mobile) che nel 2018 occupava oltre 30 milioni di persone. “L’arrivo del 5G”, ha osservato in proposito Mats Granryd, direttore generale di Gsma, “è parte fondamentale dello spostamento verso un’era di connettività intelligente che, insieme alle evoluzioni di tecnologie come l’IoT, i Big Data e l’intelligenza artificiale, sarà uno dei maggiori motori della crescita economica nei prossimi anni. Le reti e i servizi di quinta generazione trasformeranno imprese e industrie e contribuiranno a ridurre il divario digitale, portando l’Internet su mobile a miliardi di persone che oggi ne sono prive”.
La sfida per gli operatori
Al 31 dicembre scorso, si legge sempre nel rapporto della Gsma, il totale degli utenti mobili nel mondo è arrivato a quota 5,1 miliardi (due terzi della popolazione mondiale) e nei prossimi sette anni si prevedono 700 milioni di nuovi consumatori agganciati alle reti 3G, 4G e 5G, di cui un quarto nella sola India. Da qui al 2025, altri 1,4 miliardi di individui inizieranno a usare Internet in mobilità e il totale degli utenti in possesso di una linea dati salirà a cinque miliardi di persone, cioè oltre il 60% della popolazione. Numeri impressionanti, che trovano sponda in quelli (aggiornati al quarto trimestre 2018) contenuti nel “Mobility Report” di Ericsson, secondo cui il traffico dati mobile totale aumenterà da qui al 2024 fino a cinque volte. E il 25% del traffico sarà trasportato dal 5G, che raggiungerà oltre il 40% della popolazione mondiale attraverso 1,5 miliardi di abbonamenti. A guidare la diffusione delle nuove reti, secondo lo studio, saranno in particolare le regioni del Nord America e del Nord Est Asiatico, dove la penetrazione degli abbonamenti 5G alla fine del 2024 salirà rispettivamente al 55% e al 43% del totale delle utenze mobili, mentre per l’Europa occidentale si prevede saranno il 30%. La sfida fra gli operatori mobili è dunque pronta a entrare nel vivo, giocandosi su più piani e non solo su quello tecnologico. Il più importante, anzi, è forse quello economico. Il dato di Gsma relativo al valore degli investimenti che gli operatori di tutto il mondo stanno destinando all’ampliamento e all’aggiornamento delle proprie infrastrutture di rete in vista del 5G dice abbastanza sul peso strategico della tecnologia di nuova generazione. Parliamo infatti di circa 160 miliardi di dollari l’anno di spese Capex, una cifra sicuramente importante nonostante le forti pressioni imposte dalla concorrenza e dalla regulation. In Europa, come ha
GLI USA ALLA GUIDA Nel 2018, afferma un recente studio di Deloitte, il 5G è stato testato da 72 operatori. Entro la fine del 2019, stando alle previsioni, saranno almeno 25 le telco che lanceranno servizi commerciali, prevalentemente nelle città, e altre 26 seguiranno nel 2020. I telefonini 5G venduti quest’anno saranno circa un milione (su una previsione totale di 1,5 miliardi di smartphone) e altrettante saranno le installazioni di modem 5G e di dispositivi fissi con accesso 5G wireless. Numeri già importanti, ma in realtà le stime sull’adozione dei servizi e dei prodotti di quinta generazione sono piuttosto conservative: il processo sarà lento e costante come già avvenuto per l’adozione del 4G. Quest’ultimo solo quest’anno, a un decennio dal debutto, diventerà a tutti gli effetti la tecnologia senza fili più utilizzata nel mondo. Nel 2025 il 5G sarà probabilmente ancora una tecnologia relativamente di nicchia e diffusa in modo geograficamente eterogeneo, raggiungendo una penetrazione stimata del 49% negli Usa, del 31% in Europa e del 25% in Cina, mentre in America Latina, Medio Oriente e Africa la percentuale sarà a cifra singola. La sua curva di adozione dovrebbe essere relativamente bassa nei prossimi 12-24 mesi e ci vorranno anni affinché possa replicare la posizione dominante del 4G sul mercato. Tra un decennio, insomma, provider e operatori saranno ancora impegnati a proporre servizi di quinta generazione.
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STORIA DI COPERTINA
fatto notare alla vigilia della kermesse di Barcellona il Ceo di Ericsson, Börje Ekholm, aleggia però un alone di incertezza sulla reale velocità di adozione delle nuove reti per una serie di problemi irrisolti, che vanno ben oltre l’affidabilità o meno dei fornitori di infrastrutture: la mancanza di spettro, le normative vincolanti e le grosse spese sostenute per aggiudicarsi le nuove frequenze (in Italia hanno portato nelle casse dello Stato circa 6,5 miliardi di euro). Il 5G, in questo scenario, ha l’obbligo di trovare fin da subito un modello sostenibile per supportare la propria diffusione su larga scala: la via maestra per farlo, secondo vari esperti, potrebbe essere quella di prezzi all’utenza (business o consumer, in funzione delle applicazioni della tecnologia, dall’industria 4.0 al gaming) basati sulla qualità del servizio offerto. Gianni Rusconi
UN MANIFESTO PER L’EUROPA DIGITALE L’obiettivo di fondo è quello di definire una precisa tabella di marcia per promuovere l’innovazione attraverso la tecnologia 5G. Il “Mobile Industry Manifesto for Europe” redatto da Gsma evidenzia la visione degli operatori di telecomunicazione per il futuro digitale del Vecchio Continente in vista delle elezioni del Parlamento europeo di fine maggio. Il messaggio rivolto ai responsabili dell’Unione, si legge in una nota, “è volto a creare le giuste condizioni per una nuova era di servizi e soluzioni di connettività intelligente. Oggi, puntualizzano dalla Gsma, l’Europa vanta il più elevato tasso di connettività mobile al mondo. Il contributo dell’industria della tele-
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TELCO ATTENTE, L’ENERGIA PER IL 5G COSTA I costi necessari per la costruzione delle nuove reti, i bassi ritorni finora ottenuti con gli investimenti sulle infrastrutture 4G e l’incertezza circa il business model legato al 5G mettono in apprensione gli operatori, come espresso dal Ceo di Telstra, Andrew Penn, e di Liberty Global, Mike Fries, in occasione dell’ultimo Mobile World Congress. Il declino dei ricavi dai servizi mobili interessa tutti, dunque un’opportunità per invertire la tendenza è legata alle applicazioni della nuova tecnologia in ambito aziendale e industriale, automazione e robotica in testa. Costruire e gestire le
fonia cellulare al Pil della Ue dovrebbe passare da 550 miliardi di euro all’anno a 720 miliardi entro il 2022, anche grazie al 5G. “Affinché si possa beneficiare di questa innovazione”, ha dichiarato Afke Schaart, il numero uno di Gsma in Europa, “dobbiamo affrontare le barriere che frenano l’industria della telefonia mobile in Europa attraverso una regolamentazione progressiva”. Il manifesto descrive nel dettaglio due sfide da affrontare: l’infrastruttura di rete e i servizi digitali. Per quanto riguarda la prima, l’attuale quadro politico europeo è considerato come non sufficientemente favorevole agli investimenti nelle nuove reti. L’offerta di connettività 5G porterà le risorse finanziarie degli operatori al limite: come soddisfare gli obblighi di copertura del servizio in assenza di una giustificazione commerciale? È stato
infrastrutture per il 5G però costa, e la voce “consumi energetici” rischia di essere fra quelle più pesanti. Secondo un’analisi condotta internamente da Vertiv, il passaggio ai network di nuova generazione potrà determinare entro il 2026 un aumento della domanda di energia nella misura massima del 150-170% . Un dato decisamente rilevante che si specchia in un altro studio condotto per Vertiv da 451 Research, secondo cui il 90% degli operatori teme un’impennata delle bollette dovuta al 5G. La maggior parte degli operatori intervistati è dell’idea che l’era del 5G debba cominciare non prima del 2021.
stimato che il costo di introduzione del 5G in tutta Europa sarà significativamente più elevato di quello del 4G, e compreso tra i 300 e i 500 miliardi di euro. Per questo la Gsma invita le autorità nazionali a promuovere gli investimenti, riducendo gli oneri fiscali sullo spettro e i costi di localizzazione e a non limitarsi a trasferire la regolamentazione in essere per le attuali reti ai network 5G (altamente differenziati) di domani. Sul fronte dei servizi digitali, invece, l’appello degli operatori va in direzione della maggiore trasparenza e maggiore responsabilità nell’uso dei dati richiesta dagli utenti. L’industria della telefonia mobile chiede quindi alle istituzioni Ue di applicare le stesse regole in tutto il mercato unico digitale e un nuovo riferimento per la sicurezza delle reti, basandosi sulle norme esistenti.
STORIA DI COPERTINA
LA SICUREZZA ”INTRINSECA” È IL FUTURO DELLE RETI Pat Gelsinger, Ceo di Vmware, racconta la sua idea di 5G: le nuove applicazioni richiederanno un approccio diverso dal passato.
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on l’arrivo delle reti e dei servizi 5G, anche il mondo delle telecomunicazioni dovrà mettere la cybersicurezza al centro dei propri pensieri, come forse finora ha potuto permettersi di non fare o per lo meno non al pari dei vendor dell’informatica. Anzi, forse alla parola “cybersicurezza” si dovrebbe sostituire il più completo concetto di sicurezza, digitale e fisica, dato che molte delle future applicazioni basate sul 5G avranno a che fare con l’erogazione di servizi critici ai cittadini e con il funzionamento delle città. Di questo cambiamento Vmware è pienamente consapevole: al 5G servono reti più sicure di quelle attuali, intrinsecamente sicure. L’amministratore delegato, Pat Gelsinger, lo ha ribadito rispondendo alle domande dei giornalisti presenti a Barcellona durante il Mobile World Congress.
L’approccio alla sicurezza nelle telecomunicazioni dovrà cambiare?
In generale la sicurezza è uno dei grandi temi del 5G. Ma tradizionalmente è stata importante nell’information technology più di quanto non sia stata nelle telecomunicazioni. Nell’It esiste un’incredibile varietà di applicazioni, molto più che nelle telco. Il 5G però cambierà tutto questo, favorendo lo sviluppo di un ventaglio molto più ampio di applicazioni telco. E questo avrà degli impatti sulla sicurezza.
ter aiutare le aziende telco a costruire un cloud adeguato, scalabile e affidabile [...]. Facciamo leva sulle caratteristiche dei prodotti “core”, ma offrendo un supporto specifico per funzionalità delle telco, per esempio per le reti Wan (wide area network, ndr) e per il rispetto degli Sla (service level agreement, ndr).
Pat Gelsinger C’è un modello da adottare?
Ricorro spesso alla metafora del corpo umano: pensate se una persona non avesse i meccanismi di difesa intrinseci. Per le reti è lo stesso, la sicurezza dev’essere integrata nell’infrastruttura stessa. Che cosa proponete, dunque, ai service provider?
La domanda che ci poniamo è come po-
Chi, tra Europa e Stati Uniti, a vostro parere giocherà il ruolo da protagonista nel mercato 5G?
Difficile dirlo. L’Europa vanta migliori policy sull’assegnazione degli spettri, aspetto che negli Stati Uniti non è troppo favorevole. Gli Usa stanno ostacolando Huawei, che è leader in alcuni casi, e questo potrà essere un problema. Ma d’altra parte gli Stati Uniti stanno già fornendo dimostrazioni concrete e investendo in casi d’uso del 5G. La corsa è cominciata, e trovo che sia fantastico. Valentina Bernocco 7
STORIA DI COPERTINA
Dopo la campagna della Casa Bianca contro Huawei, governi nazionali e istituzioni europee si interrogano sui possibili rischi delle infrastrutture di rete di quinta generazione. E le ragioni della politica rischiano di prevalere su quelle dell’innovazione tecnologica.
IL 5G CINESE FA PAURA?
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orse mai come prima d’ora una nuova tecnologia ha scatenato grandi entusiasmi e grandi paure. Come assicurarsi che dentro alle infrastrutture di rete mobile di quinta generazione non ci siano brutte sorprese? In tutta la prima parte dell’anno il dibattito politico e mediatico sul 5G si è focalizzato su Huawei, oggi terzo produttore di smartphone al mondo dietro Samsung e Apple (dati Idc sul 2018), ma soprattutto uno dei principali fornitori di apparati di networking con Ericsson, Nokia Networks e l’altra cinese Zte. La paura di Casa Bianca e Pentagono, ma anche quella espressa tra le righe di molte dichiarazioni del Commissario europeo per il digitale, Andrus Ansip, è che switch, router, reti di accesso e di trasporto possano diventare un cavallo di Troia per attività di cyberspionaggio del governo di Pechino. Un 8
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governo che tiene uno o due piedi nelle aziende considerate strategiche per la difesa della “sicurezza nazionale” e che, con il 5G, potrebbe realizzare sogni da Grande Fratello su scala planetaria. La possibilità tecnica di backdoor nascoste all’interno di apparati di rete, d’altra parte, non è solo teoria: secondo le dichiarazioni di Edward Snowden, in quella stessa America che ora si preoccupa della Cina la National Security Agency (Nsa) avrebbe fatto spionaggio di massa per anni attraverso delle “backdoor” tecnologiche. Ora però la posta in gioco è molto più alta, perché il 5G farà da impalcatura a nuove applicazioni di realtà aumentata, Internet delle Cose, sistemi di trasporto e di distribuzione dell’energia, droni, automobili a guida autonoma e molto altro ancora. In un anno dominato dagli strascichi del Russiagate e dal pasticcio combinato da
Facebook con Cambridge Analytica (con danni alla privacy per almeno 87 milioni di utenti), nel 2018 la prima azienda cinese finita nel mirino di Donald Trump era stata Zte: in primavera era scattato per lei il divieto di rifornirsi da aziende statunitensi. Formalmente motivato con la violazione dell’embargo Usa sul commercio con l’Iran, il blocco avrebbe compromesso le attività di chi, come la stessa aziende cinese, acquista componenti dalle californiane Qualcomm e Intel. Accettata una multa e istituito un comitato di controllo al proprio interno, la società è stata nuovamente ammessa nell’arena commerciale nordamericana. Il caso Huawei è invece culminato a dicembre con l’arresto in Canada della direttrice finanziaria Meng Wanzhou, sempre con l’accusa di violazione delle sanzioni statunitensi contro l’Iran.
Per Huawei nulla da nascondere
Il colosso di Shenzhen, 180mila dipendenti e una presenza in 170 Paesi, ha alle spalle anni di alleanze commerciali consolidate con decine di operatori telco, fra cui Tim, Vodafone Italia e Wind Tre. L’azienda si è difesa più volte in questi mesi rivendicando buona fede e trasparenza. “Non forniremo mai alcuna informazione al governo cinese”, ha detto fra gli altri il fondatore e presidente dell’azienda, Ren Zhengfei, in un’intervista a Cbs. “Non lo abbiamo mai fatto negli ultimi trent’anni e non lo faremo nei prossimi trenta né mai”. In visita a Bruxelles a metà marzo, il ministro degli esteri Wang Yi aveva definito “senza fondamento” e “motivate da ragioni politiche” le accuse, spiegando che “la Cina è pronta a lavorare con i Paesi europei e con gli altri per aumentare la nostra collaborazione con la cybersecurity e trovare regole e principi universalmente accettati”. Un primo passo concreto è stata la recente apertura, proprio a Bruxelles, di un centro di ricerca dedicato alla trasparenza nella cybersecurity che consentirà a clienti e istituzioni politiche di effettuare verifiche sul codice sorgente delle sue apparecchiature e di testare prodotti e servizi legati al 5G. Sicurezza o geopolitica?
Già dall’estate scorsa l’amministrazione Trump aveva formalmente vietato l’uso di tecnologie di Huawei e Zte all’interno degli uffici pubblici e delle istituzioni governative; in autunno, poi, era partita la campagna di reclutamento degli alleati, attraverso incontri tra funzionari statunitensi e manager di aziende di telecomunicazione estere. Da allora gli schieramenti hanno cominciato a delinearsi, condizionati non si sa bene se più dalla paura del cyberspionaggio cinese o da quella di perdere l’appoggio nordamericano. Canada, Nuova Zelanda e Australia si sono allineati agli Usa in virtù della comune appartenenza al gruppo di intelligence Five
Eyes, mentre il quinto membro dell’alleanza, il Regno Unito, ha adottato una linea intermedia. Nonostante la volontà di British Telecom di escludere Huawei dalla propria rete “core” (processo iniziato già da anni e che non riguarda le componenti “non core”, come le antenne), non c’è ancora una posizione netta del governo britannico sul 5G. Per ora il National Cyber Security Center, cioè l’agenzia di cybersicurezza nazionale, ha ritenuto non esistano prove sufficienti a giustificare il veto su un’azienda che rappresenta un “rischio controllabile”. La campagna di Trump non ha convinto nemmeno la Francia (anche se il ministro dell’Economia e delle Finanze, Bruno Le Maire, ha detto che in caso di minacce ravvisate prevarranno le ragioni della sicurezza nazionale), mentre in Germania l’agenzia di cybersicurezza Bsi non ha individuato particolari rischi. La spaccatura italiana
E l’Italia? Il sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci, a Bloomberg ha detto che “la vera questione non dovrebbe essere quella di dire sì o no a Huawei, ma il fatto che produttori di hardware stranieri possano accedere alla tua rete [...] Non vedo Huawei come un
problema, per me è solo uno dei 25 produttori, con prezzi e qualità differenti, tra cui poter scegliere”. La firma, in marzo, del memorandum d’intesa tra il governo e quello cinese per la “Nuova via della seta” è una chiara premessa: l’accordo di agevolazione degli scambi commerciali non è vincolante e non copre le infrastrutture 5G, ma è certo un segno di vicinanza. Davanti al Copasir (il Comitato parlamentare sicurezza della Repubblica), il premier ha comunque ammesso che la questione della cybersicurezza del 5G “merita ulteriori approfondimenti” di pertinenza del Centro di valutazione e certificazione nazionale interno al Mise, che dovrà verificare l’assenza di vulnerabilità e backdoor. Chissà che le valutazioni tecniche possano sanare una spaccatura che al momento è soprattutto politica: da una parte un Movimento 5 Stelle possibilista, dall’altra una Lega allineatissima a Trump e interessata a non perdere il supporto dell’intelligence statunitense. Da un lato le ragioni dell’economia, dall’altro quelle della sicurezza e delle alleanze politiche, verrebbe da dire. L’importante è che il nodo si sciolga e che a prevalere, alla fine, siano soltanto gli interessi dell’innovazione. Valentina Bernocco
L’UE DICE SÌ AL CONTROLLO E NO AI VETI Attenzione alta, ma nessuna messa al bando. Le infrastrutture 5G europee dovranno essere “resilienti e pienamente sicure da backdoor”, ha detto Andrus Ansip, vicepresidente della Commissione al mercato unico digitale, nel presentare nuove raccomandazioni Ue ai 28 Paesi membri. Ciascuno dovrà completare entro giugno una “valutazione nazionale del rischio delle reti 5G” e su questa base “aggiornare i requisiti di
sicurezza esistenti per i fornitori”. Potranno quindi essere imposti “obblighi forzati” e potranno essere escluse dalla fornitura le aziende che creino preoccupazioni di sicurezza nazionale o non conformi “con gli standard e con il quadro legislativo del Paese”. Entro ottobre sarà prodotto un report sui rischi del 5G per l’Ue, ed entro fine 2019 saranno definiti standard di sicurezza minimi e misure di mitigazione dei pericoli.
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IN EVIDENZA
l’analisi
ITALIA “SMART NATION”: UNA PARTITA CHE SI GIOCA SU PIÙ TAVOLI Dall’intesa con la Cina, che riguarda anche le telco e l’e-commerce, al Fondo Nazionale Innovazione per startup e venture capital: arriva la svolta?
Fra memorandum e nuovi piani nazionali, i prossimi mesi rischiano di essere decisivi per il successo dell’esecutivo sotto l’aspetto dell’innovazione. Diversi gli accordi stretti finora, e voluti dal vicepremier e ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio. Promuovere la cooperazione anche nell’ambito delle telecomunicazioni è uno degli obiettivi dell’intesa “Belt and Road” siglata fra il governo italiano e quello della Repubblica popolare cinese, e precisamente “nello sviluppo della connettività infrastrutturale, compresi aspetti quali le modalità di finanziamento, l’interoperabilità e la logistica in settori di reciproco interesse”. Non c’è nessun accenno diretto e specifico al 5G ma è lecito pensare che le parti abbiano sicuramente discusso sulle modalità di realizzazione e sugli impatti delle nuove reti (e che lo abbiano fatto anche, se non principalmente, in relazione al caso Huawei). Certo è che dalle parti di Strasburgo e Bruxelless si sono detti allarmati sulla linea intrapresa dal nostro Paese, come dichiarato dal presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, e dal vicepresidente della Commissione, Andrus Ansip. Per quest’ultimo, affiché la cooperazione con Pechino sia fruttuosa per tutti si dovrà guardare alle questioni di sicurezza, e per questo “l’Italia deve procedere a una valutazione del rischio legato alla costruzione delle nuove reti”. Si parla quindi di azioni volte a promuovere la cooperazione tra le imprese
e i consumatori del commercio elettronico operanti in Italia e in Cina, con l’obiettivo di facilitare i rapporti tra le Pmi e i grandi portali di e-commerce del Dragone. C’è infine, tra i memorandum firmati, anche un capitolo dedicato alle startup e alla cooperazione scientifica e tecnologica fra le nuove imprese tecnologiche tricolori e quelle cinesi. Punto forte di questa intesa è la prevista attività di promozione di parchi scientifici e tecnologici, cluster industriali e investimenti in venture capital “che possano consentire alle startup innovative una prospettiva di crescita internazionale”. Basteranno a ridare fiato al nostro sistema? Come sempre lo vedremo nel prossimo futuro, quando si potrà fare anche un primo bilancio del progetto varato dal ministero dello Sviluppo economico a favore delle startup e dei venture capital. Un miliardo di euro in tre anni di fondi pubblici, ma la cifra a disposizione per dare (nuovo) impulso al processo di
digitalizzazione italiano potrebbe raggiungere quota due miliardi, attraverso gli sgravi fiscali e alle risorse private. Queste le premesse che hanno accompagnato, a inizio marzo a Torino, il varo del Fondo Nazionale Innovazione, un progetto che sarà operativo a partire da maggio. L’obiettivo è noto: creare i presupposti per un ecosistema sinergico e capace di far lavorare in sinergia tutti gli attori interessati, in primis le startup e i venture capital (italiani ma anche stranieri). Un piano che il vicepremier ha battezzato come “strategico per i prossimi 15-20 anni” e che vedrà in cabina di regia la Cassa Depositi e Prestiti, soggetto pubblico cui sarà affidato il compito di riunire e moltiplicare le risorse (pubbliche e private) dedicate al tema dell’innovazione. In fondo al cammino c’è la realizzazione di quella “smart nation” che, negli intenti del governo, dovrà abilitare investimenti ad alto moltiplicatore occupazionale. Gianni Rusconi
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IN EVIDENZA
SPESA ICT: NEL 2019 DOMINA ANCORA IL CLOUD Trenta miliardi e mezzo di euro. È questa la cifra che le aziende italiane metteranno sul piatto nel 2019 per acquistare soluzioni, servizi e prodotti Ict. Sono quindi positive le stime contenute nel “Report Xl” di Assintel, elaborato con Cfmt e Idc, che evidenzia una crescita sul 2018 del 2,3%, con la componente It a fare la parte del leone: la spesa per hardware, software e servizi salirà infatti del a 23,3 miliardi, trainata soprattutto dalle tecnologie riconducibili alla terza piattaforma (cloud, mobility, Big Data & analytics e social). Nello specifico, gli investimenti sulla nuvola pubblica registreranno un incremento del 25%, con un’ascesa sensibile soprattutto per le componenti infrastrutturali e di piattaforma. Di contro, invece, il mercato delle telecomunicazioni per le imprese si contrarrà dello 0,6% a 7,2 miliardi, proseguendo in una flessione che dovrebbe durare fino al 2021. Secondo il report di Assintel, nel 2019 il Nord Italia coprirà il 56% della spesa, anche se la regione più incline agli investimenti sarà il Lazio (6,5 miliardi), per via della gestione centralizzata
Assintel prevede un salto in avanti del 25% per gli investimenti nella nuvola pubblica. La componente It vale 23,3 miliardi di euro. degli acquisti della Pubblica Amministrazione. Seguiranno la Lombardia con poco meno di 6 miliardi, il Piemonte (4 miliardi), l’Emilia-Romagna (3) e il Veneto (2,5). A livello di macroregioni, la classifica è guidata dal Nord Ovest (35%), seguito da Centro (27 per cento), Nord Est (21%) e Sud e Isole (17%). “È però opportuno riflettere sullo spostamento dell’asse
del valore”, ammonisce Assintel. “A dover essere compreso è il livello di strategicità pienamente raggiunto dagli investimenti Ict. Sarà quest’ultima consapevolezza, auspicabile a tutti i livelli, che farà da discriminante. È opportuno quindi riflettere sui fattori che possono rallentare questa presa di coscienza, a partire dalla fotografia quasi invariata che l’indagine anche quest’anno ci consegna”. Il punto dolente, secondo l’associazione, è il rapporto tra la spesa per l’innovazione e le risorse per il mantenimento delle tecnologie legacy già presenti in azienda. Un elemento che “può senz’altro migliorare”.
DIGITALE PER LA COLLABORAZIONE La digitalizzazione come elemento fondamentale per collaborare meglio con clienti e fornitori. È questo il vantaggio più importante della digital transformation secondo l’86% delle Pmi italiane. Il dato emerge da una ricerca condotta da Nielsen per Teamsystem, in cui si evince l’importanza delle nuove tecnologie per aziende e professionisti. Le soluzio-
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ni innovative sono considerate elementi chiave anche in fase di scambio di ordini elettronici (per il 79% degli intervistati), nella gestione dei pagamenti (80%) e per l’accesso immediato alle informazioni sullo stato dei pagamenti (86%). In quest’ottica assume un’importanza sempre maggiore l’obbligo di fatturazione elettronica. A livello di singola tecno-
logia, il cloud è ormai entrato nella vita quotidiana delle imprese: il 72% valuta positivamente l’impatto della nuvola sul business, in particolare per la flessibilità nell’accesso ai dati e per la sicurezza. Il professionista, invece, vede nella digitalizzazione l’opportunità per far evolvere il proprio ruolo e diventare sempre più un consulente aziendale.
ITALIANI INNAMORATI DELLA MONETA ELETTRONICA I pagamenti con carte sono cresciuti a 80 miliardi di euro. Quelli conclusi via smartphone a 530 milioni. Alle famiglie italiane i pagamenti in contanti piacciono sempre meno. L’anno scorso quelli effettuati con carta sono stati il 37% del totale, per circa 80 miliardi di euro su 240 miliardi complessivi. L’aumento sul 2017 è stato del 9% e a crescere è stato anche il numero di transazioni pro capite: 69,6 contro le 60 di due anni fa. In termini percentuali si è trattato del rialzo maggiore a livello europeo, ma a livello numerico il nostro Paese è ancora ben lontano da altre nazioni europee. Gli abitanti di Danimarca, Svezia e Regno Unito, per esempio, effettuano ogni anno oltre 300 transazioni pro capite. Resta il fatto che gli italiani si stanno progressivamente abituando a utilizzare moneta elettronica anche per saldare importi minori. Non a caso, l’Osservatorio Mobile Payment & Commerce del Politecnico di Milano certifica come siano in netto aumento (+53%) le transazioni da dispositivi mobili per pagare parcheggi, taxi e servizi di car e bike sharing, oltre all’acquisto di biglietti per i mezzi pub-
blici. Complessivamente, i cosiddetti new digital payment continuano a crescere a un ritmo elevato (+56%) e rappresentano ormai un terzo del totale dei pagamenti digitali con carta. A trainare il comparto sono soprattutto le carte contactless (oltre un miliardo di transazioni) e i sistemi di mobile proximity payment: questi ultimi, in particolare, hanno registrato incrementi nell’ordine del 650%, per oltre 15,6 milioni di acquisti effettuati nei negozi e saldati utilizzando lo smartphone, e per un giro d’affari di 530 milioni di euro. È inoltre raddoppiato sia il numero di persone che ha utilizzato queste soluzioni, pari a un milione, sia la spesa annuale media, che
ha ormai superato i 500 euro pro capite. Se le attese dovessero trovare conferma, inoltre, il valore di questo mercato potrebbe oscillare fra i 5 e i 10 miliardi di euro entro il 2021. In tema di pagamenti effettuati con dispositivi mobili la ricerca del Politecnico di Milano ha evidenziato infine il peso specifico della realtà italiana più attiva in questo comparto, e cioè Satispay. La piattaforma della startup milanese ha infatti “sostenuto” oltre un terzo di tutte le transazioni, per un valore economico di circa 100 milioni di euro. Quest’ultimo dato rappresenta però il 60% dei pagamenti effettuati con Satispay, che l’anno scorso ha quindi movimentato denaro per 154 milioni.
ACQUISTI DI POLSO Il servizio di pagamento contactless Garmin Pay si espande ancora nel mercato italiano, grazie a Nexi. L’azienda di soluzioni e-payment ha siglato infatti un accordo con il gruppo statunitense per supportare la tecnologia di Garmin su 4,5 milioni di carte di pagamento: in questo modo sarà possibile fare acqui-
sti nei negozi abilitati al servizio con gli smartwatch dotati di chip Nfc, semplicemente avvicinando l’orologio ai Pos abilitati (ormai il 75%). La funzionalità è già disponibile nei modelli Forerunner 645, Forerunner 645 Music, Vivoactive 3, Vivoactive 3 Music, Fenix 5 Plus, D2 Delta e Marq.
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IN EVIDENZA
DIFFUSORI VIRTUALI A BORDO Un sistema audio per i veicoli senza altoparlanti? È possibile. Almeno secondo la giapponese Clarion. L’azienda sta sviluppando una tecnologia basata su una serie di elementi vibranti che ricevono i segnali dall’impianto stereo dell’auto e trasformano il cruscotto dell’abitacolo
in un “diaframma” capace di riprodurre l’audio. Inoltre, un dispositivo di vibrazione situato dietro lo specchietto retrovisore indirizza l’aria verso il parabrezza: tutti gli elementi funzionano in modo corale, dando fiato a un vero e proprio subwoofer virtuale.
GUADAGNARE CON L’AI Dopo lo sbarco in Italia di Alexa, avvenuto lo scorso ottobre a braccetto con l’omonimo Skills Kit (la soluzione che permette agli sviluppatori di aggiungere gratuitamente nuove funzionalità e servizi all’assistente digitale), Amazon quest’anno ha ulteriormente rafforzato l’impegno rivolto alla comunità dei developer ufficializzando la disponibilità italiana dell’Alexa Developer Rewards. Il programma è stato creato per remunerare ogni mese gli autori di mini-app per la “piattaforma” di intelligenza artificiale, o meglio gli autori in grado di catturare maggiori interessi sulla base dei minuti di utilizzo totalizzati, del numero di sessioni eseguite, delle recensioni ricevute dall’applicazione e di altri criteria ancora. Gli sviluppato-
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ri e hanno la facoltà di creare più skill e pubblicarle in più mercati. In Italia negli ultimi mesi il numero di skill è cresciuto esponenzialmente per sfiorare quota duemila (sono qualche decina di migliaia nel mondo). Finora il programma ha già distribuito milioni di dollari a sviluppatori di 23 diversi Paesi, attraverso compensi in denaro e crediti promozionali da spendere nei servizi erogati da Amazon Web Services (come per esempio le 750 ore di tempo di elaborazione mensile dell’Elastic Compute Cloud). Sono previste dieci categorie di skill: Consultazione e istruzione, Cibo e bevande, Giochi, Umorismo e curiosità, Bambini e ragazzi, Salute e benessere, Stili e tendenze, Musica e audio, Produttività. G.R.
FATTORINI ROBOT Pizze, ricambi per auto, borse della spesa: le consegne di Fedex sono portate a termine dai robottini Sameday Bot. Il colosso delle spedizioni ha presentato il proprio dispositivo autonomo per coprire il cosiddetto “ultimo miglio” del delivery in giornata. Le aziende possono così accettare ordini dai clienti che abitano vicino ai negozi e affidare i propri prodotti all’automa. Il bot, alimentato a batteria, è progettato per recapitare a domicilio piccoli pacchi in modo sicuro, muovendosi sui marciapiedi e sul ciglio della strada. La soluzione di Fedex si basa sulle tecnologie dell’iBot, un dispositivo per la mobilità delle persone disabili, oltre che su telecamere e su tecniche di telerilevamento. Gli algoritmi di apprendimento automatico permettono inoltre a Sameday Bot di rilevare gli ostacoli, di calcolare il percorso più sicuro e di rispettare il codice stradale. I primi test saranno effettuati con catene statunitensi come Pizza Hut, Walgreens e Walmart.
l’intervista
L’ECONOMIA DELLE APPLICAZIONI È CONDIZIONATA DALLA SICUREZZA Nel percorso di digitalizzazione delle aziende sono protagonisti multi-cloud e DevOps. Molte, però, temono di non sapersi difendere dagli attacchi.
Si è ormai diffusa fra le aziende la consapevolezza che molto del loro valore risieda oggi nei dati e nelle applicazioni correlate. La modernizzazione del portafoglio e delle infrastrutture associate appare una delle sfide più significative per tutte le realtà che, in un modo o nell’altro, si trovano impegnate nei processi di trasformazione digitale. Il report “State of Application Services”, redatto da F5 Networks, evidenzia come per il 72% delle aziende della regione Emea l’ottimizzazione It sia un obiettivo fondamentale, mentre fra le tendenze considerate più rilevanti per i prossimi due-cinque anni spiccano l’adozione del cloud pubblico (48%), il software-defined networking (47%) e le analisi delle minacce in tempo reale (43%). Un percorso avviato che però appare lontano dall’essere maturo, visto e considerato che, in Europa, solo il 57% delle aziende ricorre a più di un fornitore di servizi cloud e il 28% non ne fa uso se non per la componente Software-as-a-Service. Seguendo il flusso di queste dinamiche, il focus di F5 si è spostato negli ultimi anni verso un’offerta indirizzata alla valorizzazione del capitale applicativo. Non a caso, i servizi correlati emergono dalla disaggregazione di funzionalità in passato integrate in dispositivi come gli Application Delivery Controller (Adc). Ne parliamo con Hitesh Patel, direttore product management & application services di F5 Networks.
Hitesh Patel
tipo multi-cloud, per la quale le scelte di ogni azienda puntano a sfruttare le eccellenze proposte da ogni ambiente. Amazon Web Services utilizza la logica del maker e della combinazione di pezzi, Microsoft Azure punta soprattutto sulle soluzioni, Google Cloud Platform sta spingendo sui container e sulla virtualizzazione. C’è una piattaforma che si fa preferire alle altre?
Dal vostro studio emerge come sia vitale poter collegare servizi individuali ad applicazioni basate su specifiche necessità. È corretto?
Il 63% delle aziende in area Emea implementa l’automazione e l’orchestrazione dei propri sistemi e processi It. Nell’era dell’economia delle applicazioni non contano più tanto gli asset fisici o umani, bensì la capacità di scalare, iterare e rendere sicuri i servizi digitali, gestendo e ottimizzando le applicazioni stesse a livello di portafoglio e non più singolarmente. Il 45% degli intervistati prende decisioni in ambito cloud basandosi sull’ambiente più adatto a ogni applicazione. Che cosa significa?
Lo spostamento progressivo verso il mondo off-premise è legato a esigenze di efficienza, scalabilità e riduzione del time-to-market. Su questa base, si sta sempre più affermando una logica di
Ognuno dei tre ambienti più popolari possiede delle specificità ed è importante poter trarre il meglio da ciò che ciascuno può offrire. Capitolo sicurezza: il 35% delle aziende europee mostra poca fiducia nella propria capacità di difendersi dagli attacchi nei vari scenari off-premise, dalle applicazioni SaaS ai data center in colocation. Qual è la sua visione?
La sicurezza non va considerata come un’aggiunta ma come un elemento portante associato a ogni pezzo di infrastruttura o di processo. In un contesto di mercato improntato alla rapidità, i modelli di sviluppo seguono sempre più la logica DevSecOps, in cui tutto è nativamente integrato. Noi stessi ci siamo trasformati per supportare il nuovo scenario, superando l’antica proposizione legata agli Application Delivery Controller per divenire un fornitore a tutto tondo nell’ambito dei servizi applicativi multi-cloud. Roberto Bonino
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IN EVIDENZA
Mario Manfredoni
Dopo aver segnato il passo negli Usa, dove non è stata pronta ad affrontare il fenomeno degli hyperscaler, ora in Europa Juniper Networks cresce più del mercato.
PAROLA D’ORDINE: MULTI-CLOUD Grazie al fenomeno del multi-cloud e alla velocità di reazione delle filiali presenti sul territorio, L’Europa ha restituito il sorriso a Juniper Networks, che nel 2018 aveva vissuto un anno non facile sia per il calo sensibile del segmento del routing (-17% in termini di fatturato nell’ultimo trimestre rispetto al periodo analogo dell’anno precedente) sia per il segno meno (-3%) del fatturato generato con i servizi e con lo switching. Juniper ha pagato qualche errore strategico commesso soprattutto negli Usa (dove, colta di sorpresa dal fenomeno degli hyperscaler, ha visto un calo del fatturato del 15%) in ambito cloud e nel segmento dei provider, e ha subìto la drastica riduzione del prezzo di router e switch. “Il mercato potenziale mondiale era di 49 miliardi di dollari nel 2018 “e sarà di 54 miliardi nel 2021”, ha dichiarato Ken Miller, executive vice president e Cfo di Juniper Networks. “La decrescita del segmento del routing sarà più che compensata dall’aumento del giro d’affari relativo alla sicurezza. Oggi il mercato Emea, che esprime un potenziale di 12,6 miliardi di dollari e una crescita del 4%, pesa sul nostro fatturato per il 27% e ha fatto registra-
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re una crescita del 7%”. Nel Vecchio Continente, quindi, Juniper cresce più del mercato e si prepara (qui come nel resto del mondo) a combattere la propria battaglia nel networking con le armi della semplificazione, dell’automazione e della sicurezza. “In Europa e in particolar modo in Italia”, ha spiegato Mario Manfredoni, country manager per Italia, Grecia, Cipro e Malta, “siamo stati più pronti ad aggredire il mercato enterprise e cloud, anche grazie al canale. Poi siamo in prima linea sul fronte delle nuove reti 5G e più in generale della banda larghissima, avendo siglato una partnership strategica con Ericsson”. “Per semplificare e ridurre il Tco di reti sempre più articolate e ibride”, ha detto Mike Marcellin, chief marketing officer di Juniper, “bisogna ridurre il numero di elementi dell’infrastruttura, portare la complessità a livello di astrazione e automatizzare il più possibile la gestione, il tutto in un mix di privato e pubblico e con esigenze di privacy e sicurezza sempre più stringenti. È per questo che Juniper continuerà, come ha sempre fatto dalla nascita, a investire pesantemente in innovazione di prodotto”. E.M.
ACQUISIZIONI VIRALI Viralize, startup specializzata nel video advertising arricchito dall’intelligenza artificiale, esce dall’orbita dell’incubatore Nana Bianca per finire nella galassia di Vetrya. Dopo aver ha chiuso il 2018 con 14,5 milioni di euro di ricavi (in crescita del 116% rispetto al 2017), Viralize è stata rilevata nella sua interezza dal gruppo ternano Vetrya, fondato da Luca Tomassini e attivo nello sviluppo di servizi digital, piattaforme cloud computing, applicazioni e servizi a banda larga. La startup offre una soluzione che mette in comunicazione diretta editori, creatori e inserzionisti all’interno di una rete composta da oltre cinquemila publisher iscritti e da oltre 500mila video in 18 lingue. Il valore economico dell’accordo è compreso fra 10 e 15,95 milioni di euro e verrà calcolato in maniera definitiva in base ai risultati ottenuti dalla startup nel 2021.
ZUCCHETTI A TUTTA HR Le soluzioni per le risorse umane di Data Management entrano a far parte di Zucchetti. Il gruppo lodigiano ha acquisito il 70% della società specializzata nello sviluppo di applicazioni per le risorse umane delle grandi aziende. Acquartierata a Roma, Data Management ha oltre 460 dipendenti sparsi nelle sedi di Milano, Firenze, Genova e Napoli. Con un fatturato di 35 milioni di euro, la compagnia può contare su importanti clienti in mercati diversi: dal bancario all’industria, passando per le telecomunicazioni e per la grande distribuzione.
COMUNICAZIONI UNIFICATE: SCENDE IN CAMPO POLY, RACCOGLIENDO L’EREDITÀ DI PLANTRONICS E POLYCOM La crescita continua delle soluzioni mobili e dello smart working porterà il mercato mondiale dell’Unified Communication & Collaboration (Ucc) a valere 60 miliardi di dollari nel 2025: i dati sono di Global Market Insights, una società di ricerca statunitense. Nel 2018 lo stesso comparto faceva registrare un giro d’affari di 32 miliardi di dollari. È in questo contesto che va inserita la notizia della nascita di Poly, la multinazionale che unisce le competenze, i clienti e le soluzioni di Polycom e Plantronics (la seconda aveva acquisito la prima a luglio del 2018 ma fino a oggi i due brand erano rimasti distinti). “Flessibilità è la parola chiave per il business moderno”, dice Paul Clark, senior vice president sales Emea di Poly. “Una flessibilità di luogo di lavoro, di modo di lavorare e di l’orario. Per questo, gli strumenti di comunicazione e di collaborazione diventano ancora più strategici per le aziende”. La strategia di mercato di Poly è quella di offrire soluzioni Ucc differenziandosi attraverso il software e puntando a diversi aspetti
Paul Clark
Con un logo e una strategia rinnovati, la multinazionale statunitense punta con decisione a migliorare l’esperienza e la produttività dei lavoratori in azienda e in mobilità. della comunicazione aziendale e dello smart working: soundscaping (la cura dell’ambiente sonoro nei luoghi di lavoro, volta a massimizzare la soddisfazione dei dipendenti e la loro produttività), video e audio conferenze, telefoni
desktop, cuffie, software e servizi. “Il logo di Poly”, spiega Clark, “riprende le sembianze del pulsante play dei dispositivi elettronici, indica movimento e progressione e rappresenta anche le tre P di Polycom, Plantronics e Poly. E sintetizza, in ultima analisi, lo sforzo di portare nella nuova società l’approccio al futuro ma anche l’importante eredità di entrambe le organizzazioni”. Tra gli obiettivi della neonata compagnia c’è inoltre quello di puntare in modo particolarmente aggressivo al mercato delle cosiddette “huddle room”, e cioè stanze per tre-cinque persone allestite per attività di collaboration. “È un fenomeno in grande crescita”, sottolinea Clark, “e noi vediamo grandi opportunità per la nostra azienda, perché solo il 2% di questi ambienti sono abilitati per il video. Ma l’esperienza insegna che almeno il 50% della comunicazione è non verbale, e le huddle room in grado di offrire anche l’esperienza video permettono di incrementare esponenzialmente l’efficacia dei meeting”. Emilio Mango
IL MENTORE È SOCIAL
HOLA H-FARM
L’autovalutazione da oggi la fa il “tutor 2.0”. Flexa è il nuovo digital mentor sviluppato da Microsoft, Mip Politecnico di Milano e B.Digital per aiutare studenti e professionisti ad aggiornare le proprie competenze e a restare al passo con il mercato del lavoro. Grazie agli algoritmi di intelligenza artificiale e al cloud di Microsoft, Flexa permette alle
La società di Cà Tron ha aperto a Barcellona, quarta città per numero di startup tecnologiche in Ue, il suo primo hub orientato alla crescita internazionale, affidando la guida del nuovo centro ad Aleix Valls, ex Ceo di Mobile World Capital Foundation. I progetti di H-Farm si concentreranno in particolare su cultura dell’innovazione e sul tema dell’open innovation.
persone di sottoporsi ad alcuni test di valutazione e autovalutazione delle competenze (soft, hard e digitali), in modo da individuare più facilmente eventuali carenze e raggiungere gli obiettivi professionali dichiarati. Il sistema suggerisce pillole di formazione quotidiana e altre azioni per espandere la propria rete professionale, anche tramite i social.
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IN EVIDENZA
BREVETTI, ITALIA NELLA TOP 10 Stati Uniti, Giappone, Cina, senza dimenticare la Corea del Sud: c’è tanto “resto del mondo” nel mercato dei brevetti europei. Lo European Patent Office (Epo) ha pubblicato le statistiche relative al 2018: un anno di crescita, in cui sono state depositate 174.317 domande per un aumento del 4,6%. A guidare la graduatoria dei Paesi più attivi sono gli Usa, con 43.612 applicazioni, seguiti dalla Germania (26.734) e dal Giappone (22.661). E l’Italia? Siamo ancora nella top 10: con 4.399 richieste di brevetto, il nostro Paese si è classificato decimo, con una crescita anno su anno dello 0,9%. A differenza però dei colossi stranieri, che depositano in media diverse migliaia di domande (Siemens, per esempio, ha avanzato 2.493 richieste, record assoluto), per trovare la prima società tricolore bisogna scendere di molto nella graduatoria. La realtà italiana più innovatrice dal punto di vista dell’Epo è la bolognese G.D., che realizza macchine per la produzione e il confezionamento di sigarette: nel 2018 ha depositato 54 brevetti.
E-COMMERCE TRICOLORE: È BOOM
L’e-commerce italiano non potrà sicuramente sfoggiare i numeri dei colossi d’oltreoceano, ma il settore è comunque florido. Il certificato di buona salute è arrivato da Infocamere e Unioncamere, che hanno attestato una crescita del mercato di oltre il 238% fra il 2009 e il 2018. Il numero delle imprese del commercio operanti nella vendita al dettaglio su Internet ha fatto il giro di boa delle 20mila unità, triplicando il numero di quelle esistenti alla fine del 2009. Un vero e proprio boom, che riguarda soprattutto il Meridione. Se in termini assoluti le regioni a più alta crescita sono state Lombardia, Campania e Lazio (rispettivamente più 2.634, più 2.018 e più 1.555 unità), in termini relativi quelle che
IN TREMILA PER ACCENTURE Accenture pianifica una nuova espansione “digitale” in Italia. Il colosso della consulenza assumerà 3.000 persone entro la prossima estate, arrivando così a una forza lavoro complessiva di circa 19mila unità. L’azienda inserirà inoltre 900 giovani in percorsi di stage formativi. Secondo quanto dichiarato da Accenture,
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il 60% delle assunzioni sarà formato da neolaureati e interesserà le sedi di Milano, Torino, Roma, Napoli, Cagliari e Bologna. La società andrà soprattutto a caccia di laureati e laureandi in discipline Stem, ma non disdegnerà nemmeno percorsi formativi differenti, come quello economico o umanistico.
sono cresciute a ritmo più sostenuto sono state Campania, Abruzzo e Calabria (tutte oltre la media del 35% all’anno), seguite da Puglia, Basilicata e Sicilia con aumenti medi superiori al 25% in ciascuno dei dieci anni considerati. Analizzando i dati in base alla tipologia di impresa, si nota che a farla da padrone sono ancora le ditte individuali, passate in questo decennio da 4.205 a 12.400 unità. Le società di capitale sono invece 6.321 (erano 1.113), mentre quelle di persone sono 1.192 (558 nel 2009). Il successo delle realtà che vendono prodotti sul Web, però, è riuscito a stento a compensare il processo di contrazione degli operatori che ha caratterizzato l’intero settore del commercio al dettaglio, diminuito di oltre 16mila unità.
l’opinione
FATTURAZIONE ELETTRONICA, UN’OPPORTUNITÀ PER L’INVOICE TRADING L’obbligo di emettere documenti digitalizzati è un’ottima occasione per le piattaforme di anticipo fatture. L’esempio del Sud America.
La fatturazione elettronica potrebbe essere un acceleratore per lo sviluppo dei marketplace dell’invoice trading. Le ragioni sono essenzialmente due. La prima, e più importante, è una rivoluzione culturale che porterebbe le Pmi italiane a trattare le fatture ragionando in termini di dati digitali anziché di documenti “pdf”, e quindi a trovare il proprio partner naturale in un portale di anticipo fatture invece che nella classica banca. La seconda sta nella riduzione del rischio complessivo, possibile grazie a un sistema più trasparente, efficiente e controllato: un driver rilevante, questo, che consentirebbe di migliorare il pricing di queste piattaforme ampliando lo spettro dei possibili clienti. C’è una parte del mondo in cui il fenomeno dell’invoice trading è esploso letteralmente. Un luogo che, come ha scritto l’Economist, non è indentificato come leader “né in tema di riscossione fiscale né di tecnologia”. Ma che in tema di adozione della fatturazione elettronica (che crescerà del 32% fino al 2024, secondo uno studio della società di consulenza svizzera Billentis) sta tracciando una strada che altri Paesi, dall’Ue alla Cina, potrebbero seguire. L’obbligo di emettere documenti digitalizzati è stato introdotto come strumento di contrasto dell’evasione fiscale dapprima in Cile nel 2003, per poi debuttare in Messico e in Brasile. Dal 2016 è in vigore in Argentina, dal 2018 in Perù e da quest’anno anche in
Matteo Tarroni
Colombia. Questa misura, nel migliorare l’esposizione al rischio di frodi, ha avuto come effetto collaterale l’efficientamento del mercato, in virtù di costi e tempi di processamento dei documenti molto inferiori rispetto alla procedura manuale. Un ecosistema funzionante nel contempo ha consentito di accorciare i tempi del factoring e i costi di ogni transazione e dunque ha reso profittevoli anche servizi per le piccole e medie imprese che prima erano in perdita. In questo scenario le startup hanno cavalcato l’onda: ne sono sorte diverse specializzate in invoice trading, come le peruviane Trefi e Innovafunding, la cilena Facturedo, la colombiana Mesfix, l’argentina InvoiNet e la messicana eFactor. Un esercito pronto a far crescere il capitale circolante delle Pmi locali e a far decollare i volumi intermediati (eFactor ha già “anticipato” l’equivalente di oltre due miliardi di euro di fatture).
Il caso italiano
Dal primo gennaio 2019 la fattura elettronica è obbligatoria anche in Italia, dove interessa circa 2,8 milioni di imprese e professionisti. In Europa solo in Portogallo vige una normativa paragonabile, ma imposta dalla Troika (Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario internazionale) nel 2013 per risanare i conti del Paese. L’Osservatorio del Politecnico di Milano ha misurato i benefici ottenibili grazie alla novità normativa, evidenziando come con la fatturazione elettronica non strutturata si possano razionalizzare i processi di ricerca e trasmissione dei documenti con un risparmio compreso tra 2 e 4 euro a fattura, recuperando l’investimento iniziale nell’arco di due anni. Il risparmio è compreso fra i 5 e i 9 euro a documento in caso di fatturazione strutturata, mentre la digitalizzazione dell’intero ciclo dell’ordine garantisce un ulteriore aumento di produttività e una riduzione dei costi fra 25 e 65 euro a fattura. Come osservano gli esperti, il potenziale di questo strumento potrà però esprimersi appieno solo quando le imprese investiranno nella digitalizzazione di interi processi operativi e non solamente nella dematerializzazione di un documento. E il cambiamento di mentalità che implica l’obbligo della fatturazione elettronica dovrebbe portare naturalmente le piccole imprese italiane verso il digitale. Matteo Tarroni, Founder e Ceo di Workinvoice
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DIGITAL TRANSFORMATION
IL FUTURO DEL LAVORO SI FONDA SULLE PERSONE L'attuale "digital workplace" non potrebbe esistere senza le tecnologie affermatesi negli ultimi anni. Ma il cambiamento deve avvenire prima a livello di organizzazione e coinvolgimento, per stimolare la collaborazione e una flessibilità consapevole. Idc fotografa un’Italia in movimento, seppure lento.
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a trasformazione digitale, lo sottolineano in tanti, si basa su una forte componente tecnologica, ma si innesca solo quando le aziende iniziano a ripensare alla propria organizzazione e ai processi sottostanti. In una battuta, quando cambia il modo di lavorare. Le tecnologie integrate di comunicazione e collaborazione stanno accompagnando la ridefinizione del cosiddetto “digital workplace”, divenendo elementi chiave delle strategie di trasformazione digitale delle imprese. Chi ha intrapreso questa strada ha scelto di mettere a disposizione dei propri dipendenti e collaboratori degli strumenti mobili, in grado di ricreare il loro ambiente di lavoro nei luoghi più diversi. Gli obiettivi si possono ricondurre a due valori 20 |
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portanti, cioè produttività e collaborazione. Le roadmap tecnologiche vengono in linea di massima rispettate, ma in molti casi altrettanto non si può dire per quelle strategiche: assistiamo a quello che alcuni analisti hanno battezzato come il “paradosso della collaborazione”, in base al quale più gli strumenti a disposizione abbondano e meno si interagisce. Sulle persone, in sostanza, assai più che sulle soluzioni occorre investire. Nel modello proposto da Idc, per esempio, il futuro del lavoro ruota attorno a tre componenti di natura più organizzativa che non strettamente tecnologica. “Cultura aziendale, organizzazione dello spazio e formazione del personale sono gli assi di un processo di trasformazione che si possa definire compiuto”, sottolinea Rober-
ta Bigliani, head of energy, government and health insights, future of work practice executive lead di Idc Europe. Di strada, in questa direzione, bisogna farne ancora tanta e soprattutto in Italia. Una recente ricerca che l’analista ha condotto su scala europea evidenzia come il 61% delle aziende italiane stia ancora indugiando nella definizione di una strategia legata al futuro del lavoro: il 35% ha appena iniziato a muoversi, il 22% lo ha fatto ma su specifiche aree, con un approccio a “silos” teso in direzione opposta rispetto a quell’idea di azienda connessa e collaborativa che dovrebbe essere l’obiettivo primario. Del restante 39%, solo l’11% ha sviluppato e messo in pratica una strategia completa. Fra chi ha fatto passi in chiave innovati-
va, il 51% si è focalizzato sul reskilling del personale e sulla riprogettazione dell’ufficio in ottica smart, mentre il 44% si è dotato di policy e tecnologie di sicurezza aggiuntive. Solo un terzo ha concentrato l’attenzione sulla collaborazione e ancor meno (25%) sulla cosiddetta “employee experience”, in cui sono coinvolti tutti gli aspetti dell’interazione fra i dipendenti e l’organizzazione aziendale. “Stimiamo che nel 2021 almeno il 60% delle prime duemila aziende nel mondo utilizzerà questo elemento come chiave di differenziazione per costruire e mantenere relazioni sia B2B sia B2C”, aggiunge Bigliani. “In Italia si preferisce per ora puntare sulla dotazione di strumenti e soluzioni di supporto al lavoro, di coinvolgimento in progetti di corporate social responsibility e anche di formazione, mentre ancora manca una cultura della flessibilità e degli stimoli al cambiamento”. Se, dunque, le persone vanno messe al centro dei processi di trasformazione
delle modalità di lavoro, anche le metriche di valutazione delle performance devono adattarsi a questa prospettiva. Idc ritiene che nel 2022 il 35% delle aziende avrà sostituito i classici Kpi (key performance indicator) con i più moderni Kbi, sigla la cui lettera intermedia modificata indica il comportamento (behaviour), per includere indicatori capaci di misurare la collaborazione, la comunicazione e le abilità di problem solving. La tecnologia, come abbiamo detto, serve a supportare cambiamenti che dovranno essere soprattutto di natura strategica e culturale. Sono da attendersi evoluzioni non tanto nei dispositivi o nelle soluzioni di collaborazione, già oggi di per sé efficaci e spesso complete, ma nelle modalità di fruizione e interazione con le persone. Da un lato, seppur lentamente si dovrebbe andare nella direzione di un “digital workspace-as-a-service”, dove tutte le componenti del luogo di lavoro diventano un servizio fornito da
terzi e non solo componenti dell’infrastruttura It, applicazioni software o dispositivi, come accade oggi soprattutto in Italia. Dall’altro lato, assisteremo al consolidamento delle tecnologie di intelligenza artificiale e automazione avanzata: Idc stima che entro il 2024 il 50% dei compiti ripetitivi nelle aziende risulteranno completamente automatizzati, mentre tra chi svolge lavoro intellettuale il 20% lo farà con il supporto di soluzioni di AI, che diventeranno in un certo senso dei “colleghi” di ufficio. Questo scenario riguarda anche l’Italia, dove secondo la società di ricerca il 58% delle aziende intendae adottare bot o robot software per compiti ripetitivi nei prossimi 12 mesi (già oggi li usa il 17% del campione analizzato) e dove il 48% pianificherà, nello stesso lasso di tempo, investimenti in assistenti digitali per il knowledge management e droni per attività operative. Roberto Bonino
RACCONTI DA UN’ITALIA IN TRASFORMAZIONE Lo scenario delle esperienze italiane è inevitabilmente frastagliato, con non pochi casi di refrattarietà al cambiamento. Ma l’evoluzione c’è. Un esempio che parte dalla cultura aziendale è rappresentato da Axa Italia, che da circa tre anni ha avviato un progetto denominato “smart working, smart life”. Una rivoluzione organizzativa del lavoro che ha previsto fin dall’inizio il pieno accordo con le forze sindacali e la definizione di piani precisi per la comunicazione, il coinvolgimento e la formazione del personale. “Oggi ogni lavoratore gestisce il proprio tempo, avendo eliminato timbrature, straordinari e presenza di postazioni individuali”, spiega
Pascal Benard, responsabile degli Hr shared services di Axa Italia. “È stato importante aver coinvolto da subito il personale, partendo dal fatto che il 97% degli addetti si era detto favorevole al cambiamento. Il progetto, ormai esteso alla totalità dell’organico, ha dato risultati positivi, ma dobbiamo ancora lavorare sul senso di responsabilizzazione delle persone, un po’ sottovalutato”. A confrontarsi con l’evoluzione del modo di lavorare, in un’ottica di trasformazione digitale, non sono soltanto le grandi imprese. Anche realtà più piccole si trovano a dover definire un’organizzazione in linea con la propria natura e con le nuove tendenze. È il caso di Arsenàl.it,
consorzio di aziende sanitarie e ospedaliere del Veneto specializzato in soluzioni di e-health e composto da poco più di una sessantina di persone. “Lavoriamo a stretto contatto con i nostri consorziati e per questo abbiamo fatto la scelta dello smart working”, dice il direttore tecnico, Claudio Saccavini. “Prima di pensare alla tecnologia, ci siamo preoccupati di fare formazione per far capire come si misuri la produttività per obiettivi e come fare networking in modo nuovo. Tra gli effetti positivi già ottenuti riscontriamo una riduzione del 75% delle spese di trasferta, l’abbassamento drastico del tasso di malattia e un knowledge management spinto per portare le competenze nel modo migliore al cliente”.
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DIGITAL TRANSFORMATION
ITALIANI ANCORA POCO DIGITALI Uno studio dell’Ocse ci pone nelle ultime posizioni della classifica mondiale dei Paesi più avanzati in termini di accesso a Internet e servizi di e-government.
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a tecnologia digitale può migliorare le nostre vite, ma rappresenta anche un grave rischio di allargamento delle disuguaglianze sociali e di utilizzi non sicuri per le persone prive delle necessarie competenze. A stabilirlo è un recente rapporto dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), che si domanda (questo il titolo) “Com’è la vita nell’era digitale?”. Lo studio impiega undici indicatori per definire il livello di benessere sociale dei singoli Paesi, dal reddito alle competenze, dalle relazioni sociali alla sicurezza personale. Ne emerge un ritratto dello stato di avanzamento dei processi di trasformazione digitale di ogni nazione, dal punto di vista degli effetti sulla vita individuale così come su quella economica e collettiva. E l’Italia non ne esce particolarmente bene. L'Ocse, infatti, ci piazza all'ultimo posto in Europa per aumento della soddisfazione nella vita derivante dall’accesso a Internet, nonché al penultimo posto per l'utilizzo di servizi di e-government. Dati che ci pongono, insieme a Cile e Ungheria, in fondo alla graduatoria che valuta il rapporto tra benefici e rischi indotti dalla rivoluzione digitale. In testa invece troviamo la Finlandia, seguita da Canada, Svizzera, Norvegia, Corea e Nuova Zelanda. Siamo al penultimo posto, con la sola Slovenia alle nostre spalle, nella clas-
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sifica che misura il rapporto fra utenti Internet “evoluti” e numero di abitanti. Se il campione esaminato nella ricerca esibisce una media dell'83% di persone che utilizzano la Rete, da noi questa percentuale scende al 73%. L'Italia, inoltre, è la quarta peggior nazione dal punto di vista degli abusi legati alla privacy online, con un 4,1% di cittadini che dichiara di esserne stato vittima nel 2017. La media registrata a livello globale, per intenderci, è del 3%. Poco rassicurante è anche il fatto che nella Penisola i settori di mercato più legati all'informazione abbiano finora contribuito relativamente poco all'occupazione complessiva, così come non tranquillizza sapere che un 15% di professioni si trova nelle condizioni di un alto rischio di automazione, percentuale assai superiore rispetto alla media dei Paesi esaminati. L'Italia si trova esposta anche ad altre categorie di rischio legate alla trasformazione digitale, per esempio dovut alla carenza di competenze Ict. Questo
è vero in particolare a livello di corpo docenti della scuola secondaria: il 36% degli intervistati indica (rispetto alla media complessiva del 20%) una forte necessità di miglioramento su questo fronte. Il settore Ict, quello che dovrebbe fare da traino alla diffusione di una cultura tecnologica nazionale, non sviluppa sufficienti opportunità professionali e ci pone anzi al 29esimo posto su 36 Paesi in termini di occupazione generata. Il canale online, poi, viene sfruttato per cercare lavoro solo dal 13% delle persone, e a questo si aggiunga il fatto che oltre il 90% della popolazione attiva ancora non abbia mai usufruito di opportunità di telelavoro, ponendoci così al penultimo posto con alle spalle solo la Turchia. La Rete è decisamente poco sfruttata anche per l'utilizzo di servizi legati alla salute: solo il 7% degli italiani prenota online appuntamenti medici, e siamo al penultimo posto nella ricerca di informazioni sanitarie via Internet. R.B.
DIGITAL TRANSFORMATION
IL MAPPAMONDO DEL CAMBIAMENTO Uno studio di Dell Technologies mostra un quadro globale ancora lontano dalla maturità e con notevoli fattori frenanti. L’Italia, tuttavia, è in vantaggio su Francia, Germania e Regno Unito.
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i trasformazione digitale si parla già da qualche anno, quasi come in un mantra. Un cambiamento al quale le azienda impegnate nella pianificazione strategica del proprio futuro non paiono potersi sottrarre. All’atto pratico, però, l’evoluzione non sembra procedere al ritmo serrato che analisti e consulenti si ostinano a enfatizzare. L’ultima edizione dello studio “Digital Transformation Index” di Dell Technologies conferma che numerosi programmi avviati sono ancora nella fase iniziale di sviluppo. L’indagine, condotta da Vanson Bourne su un campione di 4.600 dirigenti di aziende medie e grandi in 42 Paesi, fa emergere come il 78% dei progetti non abbia ancora raggiunto un buon livello di maturità. Il 51% delle imprese analizzate si attende di incontrare difficoltà nella soddisfazione delle richieste sempre più dinamiche della clientela. Una su tre inoltre, teme di non riuscire a tenere il passo nei prossimi cinque anni e anche i singoli dirigenti mostrano dubbi sulla propria capacità di
non perdere terreno. A corroborare la sensazione di arretratezza, va sottolineato che solo il 5% delle aziende si può classificare come digital leader. E l’Italia? Tutto sommato non è messa troppo male. Siamo infatti al dodicesimo posto in termini di maturità digitale, dietro Paesi emergenti come India, Brasile e Thailandia (che occupano le prime tre piazze), ma davanti a Francia, Regno Unito, Germania e Olanda (nella graduatoria delle nazioni all’ultimo posto troviamo il Giappone). Anche le prospettive appaiono incoraggianti, visto che il 52% delle aziende italiane ha indicato di aver pianificato investimenti nel settore dell’intelligenza artificiale nei prossimi tre anni e il 71% pensa di rafforzare gli strumenti rivolti alla cybersecurity. Il percorso in direzione della trasformazione digitale è segnato, ma si sta sviluppando in modo lento e meditato. Dal 2016 (anno della prima edizione del “Dt Index”) a oggi è cresciuta di appena il 9% la percentuale di aziende dotate di un piano maturo e di budget adeguati a
sostenerlo. Inoltre, emerge una presenza ancora significativa di fattori frenanti. Il principale elemento di preoccupazione è la sicurezza dei dati, che nel 2016 era collocata al quinto posto. Le leggi e le evoluzioni normative, come il Gdpr di recente introduzione, sono considerate un ostacolo più importante rispetto a quanto rilevato tre anni fa, tant’è vero che un terzo dei dirigenti interpellati mostra scarsa fiducia nelle capacità della propria impresa di allinearsi correttamente alla legislazione vigente. Vi sono anche ostacoli di altra natura, in primis la cronica carenza di budget e di risorse, così come l’insufficiente cultura digitale presente in azienda. Il 32%, infine, mostra scetticismo verso la capacità di proteggere in modo adeguato i dati di dipendenti e clienti. Oltre che verso la sicurezza, nel breve-medio termine gli investimenti andranno anche in direzione delle tecnologie IoT, degli ambienti “multi-cloud” di più fornitori, dell’intelligenza artificiale e di approcci più centrati sul calcolo intensivo. Roberto Bonino APRILE 2019 |
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ITALIA DIGITALE
L’utilizzo dei servizi di e-government nel nostro Paese è ancora limitato: il lancio della nuova soluzione “IO” potrebbe invertire la tendenza. Ma servono più competenze digitali nella macchina pubblica e scelte politiche inclusive.
ALLA RICERCA DELLA KILLER APPLICATION
L’
Italia non sfrutta adeguatamente le opportunità offerte dall’Ict”, scrive la Commissione Ue nell’ultimo “eGovernment Benchmark”. E il problema non sono solo le mancate opportunità che ne derivano: il problema è che la Commissione non dice niente di nuovo.La questione è in parte infrastrutturale, certo, ma il tasto davvero dolente è la mancata percezione di una reale utilità del digitale nelle prassi civiche dei cittadini. Se negli ultimi anni, infatti, il nostro Paese ha quasi raggiunto la media europea per livello di digitalizzazione dei servizi offerti al pubblico, l’esageratamente scarso utilizzo di quei servizi continua a rimanere una spina nel fianco. Quando sono solo due su dieci gli italiani a fare ricorso a servizi di e-government, e il Paese – come precisa l’edizione 2018 del Desi, “Digital Economy Society Index” – resta penultimo in Europa per l’uso di servizi Internet senza 24 |
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alcun progresso negli ultimi dodici mesi, significa che c’è ancora molto lavoro da fare per allineare l’Italia alle altre nazioni sviluppate. Servirebbe quella che in gergo informatico si chiama killer application, e quindi un servizio che risulti talmente seducente e appetibile al grande pubblico da spingerlo, finalmente, a invertire la tendenza. “IO”, l’app sviluppata dal Team Digitale finalizzata a riunire in un’unica applicazione per smartphone, semplice e chiara, tutti i servizi della PA al cittadino, potrebbe diventarlo. Lo dico dopo averla provata, all’interno di una sperimentazione con un nutrito gruppo di parlamentari. Quando pagare una tassa è questione di pochi click, o quando l’avviso di rinnovo della patente arriva tramite una comune notifica su schermo, la vita diventa più comoda. E questo potrebbe motivare i cittadini a comprendere e sfruttare, finalmente, il potenziale dei servizi di eGovernment. Contestualmente, tuttavia,
servono più competenze digitali nella Pubblica Amministrazione. E soprattutto c’è bisogno che esse siano inserite all’interno di un approccio strategico alla trasformazione digitale nel settore pubblico. Per questo parole come interoperabilità, trasparenza, open source sono così importanti. Servono per trasformare le promesse del digitale in buone pratiche, non più a incuriosire soltanto o a spaventare i cittadini ma a rendere i loro rapporti col fisco, le amministrazioni locali, l’anagrafe, il sistema scolastico e quello sanitario davvero più comodi, semplici e immediati. Per riuscirci, necessitiamo di luoghi di discussione e conoscenza adatti al mutato contesto tecnologico. Uno viene dalla spinta del governo verso una strategia nazionale per l’intelligenza artificiale. Un altro verrà dall’istituzione di una Commissione permanente, in Parlamento, che abbia per tema il digitale e l’innovazione: la intendiamo come il luogo
elettivo dove discutere gli aspetti etici e culturali sollevati dall’innovazione. Un luogo che si aggiunga, ma senza sostituirlo, al lavoro delle altre Commissioni, aiutandole così a considerare le conseguenze più profonde e di lungo termine dell’AI. Accanto a questa Commissione, resterà fondamentale l’apporto dell’Intergruppo Innovazione: una squadra di lavoro bipartisan formatasi nella scorsa legislatura e indispensabile per dare il messaggio che una buona digitalizzazione dei servizi pubblici è interesse di tutti, non solo di una parte politica. Perché i benefici della rivoluzione digitale si massimizzano solo se guidati da scelte scaturite come conseguenza di un dibattito pubblico informato e inclusivo. Solo in questo modo la tecnologia resta al servizio del cittadino, impedendo che si verifichi il contrario. Federico D’Incà, deputato, questore della Camera e coordinatore dell’Intergruppo Parlamentare Innovazione
CAPOLUOGHI DI PROVINCIA POCO MATURI Maturità digitale, questa sconosciuta. Si potrebbero così sintetizzare le evidenze emerse dall’indagine condotta da Fpa per conto di Dedagroup Public Services con l’obiettivo di misurare il grado di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione italiana. Analizzando un campione di 107 comuni capoluogo, la ricerca ha preso in esame parametri relativi a tre dimensioni: il grado di accessibilità online di 40 tipologie di servizi comunali e l’integrazione al loro interno delle piattaforme Spid, PagoPa e Anpr, l’anagrafe nazionale; il livello di condivisione e accessibilità dei dati; l’attivazione degli strumenti di comunicazione digitale con i cittadini.
Sui 107 capoluoghi di Provincia considerati, hanno raggiunto un buon grado di maturità digitale 24 (fra cui Milano e Roma), mentre 44 appartengono alla fascia intermedia e 39 sono in rilevante ritardo o esclusi dal processo. Rientrano in questa categoria comuni del Centro-Sud ma anche Aosta, Biella, Vercelli, Gorizia, Pordenone e Pistoia. Se, le città del Nord-est sono fra le più virtuose (9 su 23 si collocano nella fascia più elevata e solo quattro in quella più bassa), un buon numero di capoluoghi delle regioni meridionali, ben 26, rientra nel gruppo meno performante. Nessuna amministrazione cittadina riesce a essere davvero eccellente, a raggiungere cioè il punteggio più alto in tutte le dimensioni prese in esame.
DAL CLOUD ALLA BLOCKCHAIN, LE NUOVE SFIDE DI AGID Novanta linee d’azione, di cui 67 di diretta competenza dell’Agenzia per l’Italia digitale (Agid), suddivise in nove aree tematiche e in 34 paragrafi da considerarsi altrettanti obiettivi: il nuovo Piano Triennale 2019-2021 per la PA digitale, atteso alla fine dell’autunno scorso, è stato approvato circa un mese fa. Secondo la ministra “firmataria” Giulia Bongiorno, “si sono messe le basi per permettere alla Pubblica Amministrazione di cominciare a correre. La transizione al digitale è un percorso appena avviato, che richiede forte coesione tra soggetti istituzionali e mondo delle imprese, per superare difficoltà e ostacoli di carattere strutturale e culturale”. Si tratta di un piano ambizioso e articolato, che
secondo autorevoli addetti ai lavori ripropone le medesime domande che da anni si rincorrono quando si parla di Agenda Digitale e (soprattutto) della sua attuazione. Ce la farà Agid a sopportare tutti gli oneri “produttivi” del piano? E saprà interpretare al meglio il proprio ruolo di soggetto di execution, affiancando le amministrazioni con un ruolo sia di guida sia di coaching? Domande a cui si potrà rispondere solo più avanti. Per il momento occorre accontentarsi di ciò che il piano prevede, a cominciare dal forte impegno in fatto di governance richiesto ai responsabili della transizione digitale all’interno delle rispettive amministrazioni. A livello più operativo viene riproposto il consolidamento di attività già av-
viate, come la razionalizzazione dei data center pubblici e l’adozione del cloud quale soluzione tecnologica prioritaria per consentire risparmi e maggiore sicurezza. L’evoluzione e la capillare diffusione di servizi come la carta d’identità elettronica, Spid e PagoPA rimangono delle priorità e molta attenzione è riservata anche al rafforzamento delle competenze manageriali e digitali all’interno delle strutture pubbliche. Guardando al mondo delle imprese, spiccano le azioni in chiave open innovation, le iniziative volte a semplificare il trasporto delle merci e a ridurre i costi della catena logistica e le strategie per l’adozione su scala nazionale di tecnologie emergenti come la blockchain e l’intelligenza artificiale.
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SPECIALE 5G
Secondo due terzi dei manager italiani, la tecnologia di quinta generazione sarà a regime già entro il 2022 ma per sfruttarne le potenzialità sarà decisivo il ruolo degli operatori. Lo dice uno studio Accenture.
RIVOLUZIONE ANNUNCIATA
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ncora tre anni e il 5G sarà una tecnologia accessibile a quasi tutti gli utenti. Così la pensano due dirigenti di grandi e medie imprese italiane su tre, esibendo un ottimismo molto superiore a quello dei loro colleghi europei e del resto del mondo. Stando infatti a un recente studio di Accenture, due manager italiani su tre si aspettano che il 5G debba presto rivoluzionare il mondo delle telecomunicazioni, mentre in Germania solo il 42% dei manager si attende una diffusione capillare di questa tecnologia entro il 2022, in Francia la percentuale raggiunge il 50% e nel Regno Unito il 58%. Per la maggioranza, in ogni caso, la rivoluzione annunciata è vicina a concretizzarsi. Ma per realizzare completamente le potenzialità delle nuove reti e per immaginare applicazioni reali di uso
quotidiano della connettività ultra veloce, la maggioranza dei dirigenti italiani (il 69%, rispetto al 72% della media mondiale) ha affermato di avere bisogno di un supporto, guardando (nella metà dei casi) alle telco come soggetto principale a cui rivolgersi per avviare progetti o collaborazioni in materia di 5G. Uno sbocco logico e naturale quello manifestato dalle aziende, che però si scontra con un certo scetticismo: il 54% dei dirigenti italiani e il 64% degli intervistati su scala globale imputa agli operatori delle telecomunicazioni di non conoscere in modo chiaro le opportunità di innovazione per i diversi mercati verticali. Si tratta di una preoccupazione fondata? E chi, allora, dovrebbe aiutare le grandi e medie aziende italiane a cavalcare le opportunità offerte dal 5G? A detta di Michele Marrone, communications,
media and technology lead for Italy di Accenture, “Il 5G aprirà la strada a innovazioni che avranno un forte impatto sia a livello commerciale sia per l’intera economia, basti pensare ai video in 3D e alla Tv immersiva, alle auto autonome e alle smart city. Tutte applicazioni che abiliteranno esperienze oggi difficili anche solo da immaginare, e saranno proprio le telco ad avere un ruolo fondamentale nel tradurre queste aspettative in realtà”. Anche in questo caso una visione improntata all’ottimismo, che non va però a oscurare del tutto alcuni fattori che potrebbero rallentare, secondo un terzo circa dei manager italiani, l’adozione del 5G. Nello specifico, la necessità di un investimento iniziale, le possibili criticità legate alla sicurezza e l’esigenza di inserire nuovi dipendenti in organico. Gianni Rusconi APRILE 2019 |
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SPECIALE 5G
Tim, Vodafone, Wind Tre, Open Fiber, Fastweb e Iliad hanno già avviato sperimentazioni e stretto alleanze per concretizzare le proprie strategie. Tutta la "filiera", e non solo il mercato delle telco, è in gran fermento.
PROVE DI ECOSISTEMA
I
l 5G è un’invenzione “epocale” non soltanto per la tecnologia radio, quanto per l'intera piattaforma di telecomunicazioni; è un ecosistema, una rete di parti interconnesse in cui convivono fornitori, reti, servizi, device, clienti e così via. La fase sperimentale è partita in Italia nel 2017: in base alle offerte ricevute dagli operatori, il Mise ha assegnato Milano a Vodafone, Prato e L’Aquila a Wind Tre e Open Fiber, Bari e Matera a Tim e Fastweb. Dal 2 ottobre del 2018, giorno di chiusura della procedura per l’assegnazione dei diritti d’uso delle frequenze per il 5G, tutti gli attori sono in piena attività anche in altre aree del Paese. Lo scorso novembre, in collaborazione con Erics28 |
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son (che ha fornito le antenne di nuova generazione), Tim ha realizzato a Torino la prima connessione 5G con uno smartphone dotato di un chipset Qualcomm Snapdragon X50, componente che verrà integrato dal 2019 in avanti in molti dispositivi mobili che vorranno connettersi alle nuove reti 5G in arrivo, e sta portando avanti una sperimentazione anche a San Marino, dove sono state già realizzate soluzioni in ambito smart city. Vodafone ha invece “acceso” a dicembre la prima rete 5G italiana a Milano, con 120 siti radiomobili già attivi e l’80% della popolazione già raggiunta; a gennaio è scattata l’opera di copertura dei principali capoluoghi italiani ed entro la fine del 2019 saranno completate le prime
cinque città. L’investimento complessivo per il progetto milanese è di 90 milioni di euro e si contano 38 fra partner industriali e istituzionali coinvolti per realizzare una quarantina di "casi d'uso" nei settori sanità e benessere, sicurezza e sorveglianza, smart energy e smart city, mobilità e trasporti, manifattura e industria 4.0, istruzione e intrattenimento. I due principali operatori italiani lo scorso febbraio hanno annunciato una partnership per condividere la componente attiva della rete 5G (e degli apparati attivi della rete 4G) e l'intento di ampliare l’attuale accordo di condivisione passiva per poter consolidare in una sola entità le circa 22mila torri di telecomunicazione, aggregando le rispettive
6,5 MILIARDI A RISCHIO? Non ci sono certezze, nel momento in cui scriviamo, sull’eventuale blocco governativo alla partecipazione di Huawei nella corsa al 5G. Da quanto trapela ufficiosamente dagli operatori, è poco probabile che l’Italia tagli i ponti a un soggetto così importante per la realizzazione delle infrastrutture alla base della tecnologia mobile di quinta generazione. È certo però, e le telco lo sanno benissimo, che per lo sviluppo delle nuove reti servono ingenti investimenti e che le spese iscritte da subito a bilancio troveranno un ritorno solo in futuro, con la sottoscrizione dei nuovi servizi. Il 5G è una scom-
LA TELEMEDICINA CORRE SUL 5G Si chiama Smart Health, l’ha creata Fastweb ed è una soluzione basata su cloud per il telemonitoraggio domiciliare dei pazienti. Attraverso un kit utilizzabile a casa e una piattaforma digitale sviluppata ad hoc sarà possibile inviare in tempo reale al personale medico i propri dati clinici ed essere monitorati da remoto. Diversi i vantaggi: anticipare la dimissione dei pazienti ricoverati, ma anche ridurre disagi e costi degli spostamenti per visite nelle strutture sanitarie. La soluzione è “5G ready” e potrà essere integrata con la nuova tecnologia di rete mobile che Fastweb sta già sperimentando in ambito sanitario a Bari, in collaborazione con l’Irccs “Giovanni Paolo II”.
infrastrutture passive di rete (nel caso di Tim quelle di Inwit, società controllata al 60%). Wind Tre ha sperimentato la rete 5G con successo a L'Aquila, con l’obiettivo di lanciare ufficialmente i nuovi servizi a partire dal 2020 puntando sulla partnership stretta con Zte e Open Fiber. Fastweb, grazie all’accordo siglato lo scorso dicembre Cellnex, potrà utilizzare le infrastrutture e nello specifico le torri della multinazionale spagnola a Roma, Genova, Bari e Matera, dove la società ha già avviato progetti di sperimentazione sulla rete mobile di nuova generazione per progetti legati alla mobilità, alla sicurezza e alla cultura. Iliad, invece, si appoggia alle nuove antenne 5G di proprietà in alcuni centri urbani e prevede una diffusione graduale su tutto il territorio nazionale nell’arco del 2019, usufruendo anche delle infrastrutture di rete di quinta generazione di Wind Tre. Allargando l’orizzonte oltre il mondo delle telco, sul 5G sono impegna-
messa vitale e, dicono convinti vari esperti, presenta un livello di rischio abbastanza elevato, oltre a essere una sfida che abbraccia sia i diretti concorrenti sia i cosiddetti Over-the-top (Facebook e via dicendo). Non si può rimanere indietro, non si può sbagliare modello di business e il rischio di non avere risorse finanziarie sufficienti fa il paio con quello di possibili rallentamenti nel varo delle reti. In capo alle telco, da questo non si scappa, gravano gli esborsi effettuati per aggiudicarsi le frequenze per il 5G: oltre 6,5 miliardi di euro nel complesso. Tim e Vodafone ne hanno messi sul tavolo 2,4 miliardi a testa, a fronte degli 1,2 miliardi di Iliad, dei 516 milioni di Wind Tre e dei 32,6 milioni di Fastweb.
te anche le principali aziende tecnologiche. Qualcomm e Intel, per esempio, stanno sviluppando modem compatibili con le nuove reti destinati a telefoni, automobili, apparecchi per la smart home e altri dispositivi che devono ancora prendere forma. Gli statunitensi Verizon e AT&T hanno in programma di lavorare con Samsung su smartphone 5G, imitate da Sprint e Lg. Apple pare stia pianificando di presentare un iPhone “5G ready” non prima del 2020, aspettando che gli operatori wireless sciolgano tutti i nodi legati alle implementazioni della nuova rete. Come si intuisce, l’ecosistema è in grande fermento: i produttori di chip sui componenti, gli operatori telco sulle sperimentazioni, i costruttori di dispositivi con i nuovi smartphone. Tornando all’Italia, i primi servizi sono attesi per il 2020 ma ci vorranno ulteriori due anni per una loro diffusione capillare. Vincenzo D'Appollonio, partner di The Innovation Group 29
SPECIALE 5G
LA TECNOLOGIA ABITA NELLE SMART CITY Dalla “control room” per la gestione integrata dei servizi urbani alle applicazioni di realtà virtuale: i progetti di Tim per le reti di quinta generazione guardano in particolare alla qualità della vita nelle città. Si parte entro la fine dell'anno.
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sare la realtà virtuale per godere di un’esperienza immersiva in musei e luoghi d’arte, ma non solo. Perché nella città intelligente e connessa di domani le soluzioni abilitate dalla tecnologia 5G sono potenzialmente infinite. I progetti sulle reti mobili di nuova generazione a cui sta lavorando Tim a Torino, Catania, Firenze, San Marino,
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Sanremo, Bari e Matera, dove è già avvenuta in parte l’accensione delle prime antenne, ne sono un esempio reale. L’obiettivo comune è quello di arrivare in tempi rapidi al lancio dei primi servizi. Secondo Attilio Somma, responsabile innovazione do Tim, l’ultimo Mobile World Congress di Barcellona “ha dimostrato la maturità dell’ecosistema dei dispositivi e delle reti di accesso 5G
New Radio di quinta generazione, oltre che le prime applicazioni live nei settori del mobile entertainment e dei segmenti industriali verticali. L’attesa per il lancio commerciale sarà breve, con la previsione di una prima offerta entro la seconda metà del 2019, in parallelo alla disponibilità dei primi terminali e al dispiegamento progressivo della nuova rete sul territorio, a partire dalle principali città
italiane”. Se, come osserva il manager di Tim, il 5G è la prima generazione di tecnologie di rete che punta direttamente alla creazione di soluzioni B2B per settori verticali (come l’industria, i trasporti, la sanità e l’automotive), la manifattura è sicuramente uno degli ambiti più promettenti, specie in un Paese come l'Italia data la natura del nostro tessuto industriale. Con il 5G, sottolinea Somma, “l’automazione e la robotica entreranno negli stabilimenti e nei processi produttivi, assicurando aumento della produttività, la manutenzione degli impianti da remoto grazie all’impiego della realtà aumentata e maggiore sicurezza per le persone. In quest’ottica si inserisce per esempio la nostra collaborazione con Comau ed Ericsson a Torino, collaborazione che ci ha portato a realizzare i primi bracci robotici industriali completamente controllati con la nuova tecnologia di rete mobile”.
La sicurezza è centrale
Tornando alle sperimentazioni di smart city, va citata quella di Tim: una “control room” che permette l’accesso integrato a vari servizi, realizzati sulla rete mobile, per la gestione intelligente del traffico, dell’illuminazione, del verde pubblico e della raccolta dei rifiuti. Al suo interno tutti i dati sono raccolti e visualizzati su cruscotti con diversi livelli di rappresentazione degli eventi in corso nell’area urbana; da qui possono anche essere analizzati per consentire di prendere decisioni in tempo reale. “Bus as a Sensor”, invece, è un servizio che si appoggia ai mezzi di trasporto cittadino durante il loro regolare percorso quotidiano per monitorare in tempo reale la qualità dell'aria. Una batteria di sensori installata a bordo dei veicoli rileva le misure degli inquinanti e le invia tramite rete mobile 5G alla piattaforma Internet of Things di Tim, che a sua volta le smista (tramite un portale Web o una
mobile app) agli addetti della municipalità incaricati di monitorare i livelli di inquinamento nell'aria. Denominatore comune di tutti i progetti è ovviamente la sicurezza delle infrastrutture, un tema che per il 5G, come ribadisce Somma, “è sicuramente centrale. Con l’introduzione di tecnologie di software-defined networking e di virtualizzazione delle funzioni di rete per i servizi verticali, le reti divengono meno fisiche e richiedono l’innalzamento del livello di complessità della protezione, non più soltanto in termini di disponibilità delle risorse, affidabilità e integrità”. In generale, dicono da Tim, il 5G offre l’opportunità di mettere in campo un nuovo approccio difensivo in fase di progettazione, basato sui principi della “sicurezza by design”, per arrivare a un modello olistico in cui infrastrutture, servizi, dati e persone diventano un unico bene da proteggere. Gianni Rusconi
DEBUTTO ENTRO IL 2019, PAROLA DI WIND TRE “Il 2020 è un riferimento decisamente concreto in termini di prospettiva per la disponibilità effettiva su larga scala dei servizi di quinta generazione per svariate utenze e utilizzi”: è fiducioso Benedetto Levi, Ceo di Iliad (società che sta sviluppando una nuova rete già predisposta per le frequenze 5G), sul fatto che la nuova tecnologia possa entrare molto presto, e in modo sempre più pratico a suo dire, nella vita delle persone e non solo nei processi delle aziende. Ancora più pragmatico è Benoit Hanssen, Cto di Wind Tre, il quale in occasione della Milano Digital Week ha rimarcato che “con il 5G ci sarà un salto di qualità nello sviluppo dei servizi. Parliamo di applicazioni in moltissimi campi,
che vanno dalle smart city alla emobility, dall’e-health all’agricoltura 2.0. E tante di queste applicazioni le stiamo sperimentando nei nostri trial a L’Aquila e a Prato con risultati molto significativi, sia in termini di velocità delle prestazioni sia sotto il profilo della qualità dei servizi e delle componenti di rete”. Le sperimentazioni in oggetto, avviate (sulle frequenze da 3,7 GHz a 3,8 GHz) a braccetto con Open Fiber nei centri storici e in alcune zone periferiche dei due capoluoghi, fanno riferimento a un progetto di “città 5G” finalizzato a creare un ampio ecosistema aperto a università, centri di ricerca, industria, Pmi, pubbliche amministrazioni e realtà locali per la sperimentazione di ser-
vizi innovativi. Sui tempi di debutto delle offerte commerciali, l’amministratore delegato di Wind Tre, Jeffrey Hedberg, è stato chiaro: “Avvieremo il 5G entro il 2019 con un importante rollout della nuova rete, che si innesterà sull’attuale processo di consolidamento e di modernizzazione della nostra infrastruttura 4.5 G. Dopo la gara e l’accelerazione sui piani di investimento (la società ha stanziato 6 miliardi di euro in cinque anni, ndr), le telco stanno facendo la loro parte, ma è necessario che tutti gli attori politico-istituzionali e i regolatori diano il proprio contributo per favorire la creazione di un nuovo ecosistema, imprescindibile per sostenere innovazione e crescita”.
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TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX & ACCOUNTING ITALIA DIGITAL TRANSFORMATION | Perpiciatis
IN LAGUNA I CONTI TORNANO
Arca EVOLUTION è il software gestionale scelto da Venezia Terminal Passeggeri (VTP Spa) per fare il salto di qualità. La trasformazione tecnologica cambia anche il mondo del trasporto turistico: può aiutare, per esempio, i porti ad affrontare la crescente domanda di viaggi in crociera. A cominciare da uno tra i luoghi simbolo del turismo italiano. Venezia Terminal Passeggeri (VTP) è fra i principali terminal passeggeri al mondo e dalla sua creazione, nel 1997, ha gestito circa 28,6 milioni di persone in viaggio, tra cui 20,6 milioni di croceristi. Per far fronte a questi numeri, che non mostrano rallentamenti, è assoluta la necessità di infrastrutture che non solo funzionino perfettamente ma siano anche flessibili, innovative, personalizzabili. “I processi di acquisto e quello di fatturazione non hanno delle prerogative comuni”, spiega Elisabetta Sinagra, direttrice dell’area amministrazione, finanza e controllo di VTP Spa. “Per gli acquisti la società è soggetta al codice appalti, dunque per la parte settori speciali la maggioranza degli appalti viene assegnata con gare pubbliche, mentre per la fatturazione attiva abbiamo interlocutori sia pubblici sia privati sia intermediati, come ad esempio gli armatori attraverso le agenzie marittime”. Le difficoltà che si trova a gestire VTP sono dovute essenzialmente alle aliquote Iva adottate dal comparto, determinate per lo più dagli articoli Iva 8 e 9 (servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali, art. 9 D.P.R. n. 633/1972) che vanno a sovrapporsi ad altri trattamenti quali split payment (la società è a controllo pubblico indiretto) 32 |
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e reverse charge. “La complessità della gestione contabile è data appunto dai diversi trattamenti Iva applicabili a volte a un unico fornitore in ragione delle svariate tipologie di beni e servizi che acquistiamo”, sintetizza Sinagra. Per affrontare questa situazione obiettivamente complessa, VTP si è affidata all’innovazione tecnologica prodotta da Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia e ha acquisito Arca EVOLUTION, un gestionale di ultima generazione in grado di risolvere molte complessità ma che soprattutto si presta a essere personalizzato sulle esigenze attuali e future dell’azienda committente. La missione di Arca EVOLUTION è quella di rendere più efficaci ed efficienti tutti i processi aziendali, a partire da quelli contabili, commerciali, logistici, produttivi, documentali, contemporaneamente adattandosi alle esigenze delle imprese in maniera flessibile, personalizzata e puntuale. Al tempo stesso, Arca EVOLUTION offre alle aziende una vasta possibilità di analisi e reportistica, utili per avere sempre sotto controllo il fatturato, i costi, le scadenze, la soddisfazione dei clienti e tutto ciò che concorre a un andamento sano e sostenibile del business. Anche il modulo di fatturazione elettronica di Arca EVOLUTION ha contribuito a rendere semplice e precisa la gestione degli acquisti, grazie al tracciato arricchito e al pannello di riconciliazione delle fatture elettroniche ricevute con i documenti del ciclo passivo. Si è reso possibile importare in automatico dal Sistema di Interscambio (Sdi) le fatture passive e le relative ricevute, per la gestione dei documenti e delle scritture contabili. “La ricerca di un software non è fine a sé stessa”, conclude Sinagra. “In realtà significa fare ricerca verso l’innovazione ed è pervasiva per tutta l’azienda. Un nuovo gestionale impatta sui processi aziendali al 100% e l’innovazione dev’essere condivisa. Arca EVOLUTION è un software che si evolve e si plasma insieme alle nostre esigenze, le quali sono molteplici e mutevoli sia per l’influenza del business sia per quella normativa e legale. Inoltre abbiamo registrato un rapporto davvero positivo con i tecnici e commerciali di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia: un team disponibile, attento, capace, propositivo e risolutivo. Insieme a loro abbiamo lavorato in armonia anche sotto stress. Un’esperienza davvero positiva”. Team direzione, amministrazione, finanza e controllo di VTP Spa
INNOVAZIONE UBIQUA Smart city, industria 4.0 e robotica collaborativa: la sperimentazione di Vodafone a Milano conferma la forza d'impatto del 5G sui processi interni della società e sul rapporto con i clienti.
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l piano industriale che prevede il taglio di 1.100 addetti, presentato a inizio marzo ai sindacati e resosi necessario “per continuare a investire e garantire la sostenibilità futura” (come ha spiegato l’azienda), non dovrebbe rallentare in alcun modo i lavori in corso di Vodafone Italia sul fronte delle nuove reti. Lavori che rispondono in particolare alla sperimentazione di Milano, dove il 5G ha trovato applicazione in vari ambiti: droni dediti alle ispezioni industriali e alla sicurezza infrastrutturale (soluzione realizzata con il Politecnico di Milano e Huawei e in collaborazione con Italdron), un'ambulanza connessa (Ircss Ospedale San Raffaele, Regione Lombardia, Croce Rossa Italiana e Altran), robotica collaborativa per l’Industria 4.0 (Abb), robot per la logistica dell’ultimo miglio (e-Novia, Poste Italiane ed Esselunga). Abbiamo chiesto a Sabrina Baggioni, direttore del programma 5G, come stia andando.
della regolamentazione, ovvero all’evoluzione dell’intero ecosistema che dovrà adottare modelli operativi e di business sempre più collaborativi e di innovazione aperta. C’è un settore verticale che ritenete possa fare da motore per il 5G?
La sperimentazione su Milano sta confermando che il 5G porterà trasformazione nei processi interni all’azienda e nel rapporto con gli utenti finali in tutti i settori. Questa tecnologia, per esempio, ha tutto il potenziale per realizzare la fabbrica digitale, perché permette interventi poco invasivi sugli impianti e quindi abbassa la soglia di accesso e di scalabilità degli investimenti in chiave Industria 4.0.
Alla luce dei risultati ottenuti nei vari trial, quando è ipotizzabile la disponibilità effettiva dei servizi 5G?
Un esempio concreto di applicazione della nuova rete in fabbrica?
Ci aspettiamo che le soluzioni che stiamo testando possano essere disponibili in maniera diffusa già nel 2020. I tempi di sviluppo sono legati ai progressi degli apparati e dei terminali e
Non ci sarà più bisogno di cablare un intero stabilimento, ma sarà sufficiente installare i sensori nei punti critici dell’impianto dove si renda necessario monitorare le prestazioni e il livello di
degrado di parametri come vibrazione, temperatura o rumore. Il 5G, inoltre, è una tecnologia “smart”, in quanto permette di superare i vincoli di capacità di calcolo dei dispositivi e dei robot, gestendo l’intelligenza della soluzione alla periferia della rete o in un sistema dedicato, con potenzialità di elaborazione pressoché infinite. Così si può far evolvere la catena produttiva in termini di flessibilità, produttività e riprogrammabilità. La sicurezza costituisce una reale criticità oppure no?
La sicurezza, a livello di dati, è senza dubbio un aspetto cruciale, indipendentemente della tecnologia. Occorre sottolinearlo: la titolarità del dato non cambia. Nelle applicazioni del 5G in ambito medico, in cui si trattano informazioni cliniche e sensibili, questa non viene modificata in alcun modo e rimane dell’ospedale, indipendentemente dalla soluzione o dal punto della rete in cui risieda la soluzione applicativa. G.R.
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LA TRASFORMAZIONE SARÀ PROFONDA Secondo la visione di Cisco, la tecnologia 5G si distinguerà per efficienza e prestazioni, creando nuovi modelli di business. Iniziando dai settori che garantiscono un chiaro ritorno sugli investimenti e posticipando al 2022 l'impatto sulle applicazioni consumer.
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el 5G come tecnologia abilitante per la trasformazione “4.0” dell’industria, delle imprese e della società si parla ormai da tempo. Molti indicatori lasciano però intuire che la copertura delle nuove reti sarà progressiva e richiederà probabilmente tempi abbastanza lunghi, seguendo un percorso di sviluppo che almeno inizialmente premierà progetti mirati. Senza, dunque, poter saziare subito la “fame” di servizi innovativi del grande pubblico. Per il sistema Italia, in ogni 34 |
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caso, è un’opportunità che va sfruttata al meglio. Ne abbiamo parlato con Paolo Campoli, senior director della regione Emear e SP segment leader di Cisco. Il 5G sarà adottato inizialmente solo dove ci saranno casi d’uso realmente bisognosi di servizi mobili ultraveloci?
Più che di “casi d’uso” io parlerei di ritorno sull’investimento. Il 5G, in una prima fase, sarà implementato dove si vedrà concretamente questo ritorno: come si è capito chiaramente dal Mobile World
Congress di Barcellona, molta della spinta su questa tecnologia viene da settori verticali come il manifatturiero, l’automotive, l’ambito sanitario e l’area delle smart city. Qui si vedono nuovi modelli di business basati su questa tecnologia, che farà la differenza in termini di efficientamento, prestazioni e mobilità estesa. Il 5G non può diventare una commodity perché non è solo una questione di connettività: è una trasformazione molto profonda, che arriverà sicuramente anche al mondo consumer quando sarà possibi-
le creare un valore aggiunto che non sia semplicemente maggiore banda o minore latenza. E quando, non prima del 2022, i costi dei terminali abilitati al 5G diminuiranno in modo significativo. L’Italia rischia di perdere l'ennesima occasione di fare da Paese guida?
Siamo da considerare uno degli ecosistemi early adopter, per due motivi. Il primo: abbiamo accumulato un vantaggio importante con l’avvio, poco più di un anno fa, delle sperimentazioni definite dal Mise in alcune città italiane, sperimentazioni che ci hanno permesso di iniziare a modellare dei casi d’uso per capire come generare valore. Il secondo: l’asta per le licenze 5G ha creato in tempo un quadro chiaro sull’utilizzo dello spettro. Rimane da attuare entro il 2020 la liberazione delle frequenze a 700 MHz , ma avere impostato un framework e un piano certo di assegnazione delle frequenze per le nuove reti è molto importante. È quindi un’innovazione che serve soprattutto all'industria e meno all'utenza consumer?
È un’innovazione in cui soprattutto alcune industrie, considerando la tecnologia allo stato dell’arte attuale, vedono un potenziale di ritorno dell’investimento. Arriverà anche il momento del consumer. Per il cloud gaming, per esempio, che considerando le dimensioni dell’attuale mercato dei videogiochi potrebbe essere estremamente promettente. Ma anche per creare il cosiddetto “Fixed Wireless Access”, un modello che porta la banda ultralarga ai clienti di rete fissa sfruttando la grande capacità radio delle reti di quinta generazione. C'è, a tendere, un rischio di “digital divide” della banda ultralarga mobile per le aree rurali?
Chiaramente all’inizio tutti si muovono sulle aree che promettono di essere più
remunerative. Ci sono però già allo studio dei modelli di business che possono consentire ai service provider di rendere adeguato un investimento in 5G anche per aree a minor densità di popolazione o per imprese, e penso a tecnologie come il “packet core on demand” e a soluzioni di connettività radio per le aree rurali. Esistono fattori chiave per evitare il digital divide: lo sviluppo di architetture pensate proprio per questo tipo di implementazione, la creazione di sistemi 5G intrinsecamente molto competitivi, l’attivazione di politiche nazionali che sostengano l’aggregazione della domanda e incentivino la diffusione della tecnologia anche in aree a bassa densità. In Cisco crediamo molto in queste possibilità, e in particolare crediamo sia strategica la creazione di soluzioni di rete 5G basate su cloud a basso costo. E non solo. Abbiamo anche aderito al progetto Google Station, che per ridurre i potenziali rischi di divario digitale punta a portare la connettività wireless dove il cavo non potrebbe mai arrivare. Quali sono la principale criticità e il principale beneficio osservati nei progetti che vi hanno visto coinvolti?
Il tema critico è separare l’incredibile “promessa” a lungo termine di questa tecnologia da ciò che è fattibile ora, con le infrastrutture che si prevedono disponibili a breve. Allo stesso tempo, le promesse per il futuro sono un grande beneficio perché hanno alimentato un fermento enorme: tantissimi attori, comprese le startup tecnologiche innovative, si sono gettati nell’arena del 5G e tanti stanno realmente lavorando in un’ottica di partnership in ecosistemi aperti. Tutto questo aumenta la capacità di mettere a terra, con una maggiore accelerazione, i casi concreti su cui è imperativo misurarsi adesso per fare di questa tecnologia una ragione di successo anche in futuro. Gianni Rusconi
UNA SOCIETÀ SMART: LE APPLICAZIONI Dalla sanità a distanza alla smart agricolture, dalla videosorveglianza fino al monitoraggio strutturale degli edifici: gli orizzonti di applicazione aperti dal 5G sono tanti ed eterogenei. Tutti, indistintamente, potranno godere di una velocità di trasmissione dei dati superiore ai 10 Gigabit al secondo e quindi della possibilità di veicolare una gran mole di dati con tempi di latenza nell’ordine di millisecondi. Le sperimentazioni avviate fino a oggi confermano che la vera rivoluzione arriverà dal modo in cui le macchine potranno dialogare fra di loro. Gli esempi non mancano. L’ambulanza connessa di Vodafone comunica in tempo reale con il centro di gestione delle emergenze e con i medici dell’ospedale, che potranno supportare sul posto un operatore munito di speciali occhiali per identificare il paziente (se i suoi dati sono presenti nel database della rete sanitaria) e mostrare visivamente i protocolli da seguire. Ci sono poi i test sulle auto a guida remota pilotate via rete mobile portati avanti da Tim a Torino, le soluzioni per rendere “smart” i porti (quello di Bari nello specifico) migliorando con la realtà aumentata il controllo degli accessi e la sicurezza del personale. I sistemi di monitoraggio strutturale basati su sensori, con la rilevazione dello “stato di salute” di edifici e infrastrutture, messi in pista da Wind Tre e Open Fiber a L’Aquila. Il 5G, infine, troverà spazio in campo agroalimentare e nei sistemi per la gestione dei parcheggi, dei semafori intelligenti e del traffico.
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UN ABILITATORE VERTICALE Grazie al cloud e alle macchine virtuali, i sistemi 5G portano in dote vantaggi enormi in termini di scalabilità del traffico dati e di velocità di creazione dei servizi. Dall’industria alla Pubblica Amministrazione.
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a tecnologia 5G promette velocità di connessione in download che vanno dai dieci ai 100 gigabit al secondo, ma non è questa l’unica differenza rispetto al 4G. Il 5G è qualcosa di rivoluzionario rispetto a tutti i sistemi precedenti poiché estende l’uso degli apparati cellulari, dai telefonini personali alle connessioni con gli oggetti intelligenti. Ed è in questa veste che si presenta come una piattaforma abilitante di una grande varietà di servizi per i mercati verticali, spaziando dall’Internet per le persone (con il caso d’uso dell’enhanced mobile broadband) ed estendendosi ai due grandi mercati dell’Internet of Things, ovvero l’IoT “massivo” per sensori a basso costo e a bassa capacità di comunicazione, e quello “mission critical” per applicazioni ad alta affidabilità, latenza inferiore al millisecondo e alta capacità di comunicazione. Per tutti questi scopi, l’architettura del sistema 5G è largamente basata sul cloud, e più precisamente sulla virtualizzazione delle funzioni software delle reti, lasciando nei cosiddetti Pop (Point of Presence) e nei data center la componente hardwa36 |
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re standard generica addetta a funzioni di archiviazione, di calcolo e di switching. La gestione delle funzioni di rete virtualizzate, ovvero le macchine virtuali, è ottenuta attraverso un potente sistema centralizzato di orchestrazione di tutte le risorse distribuite di rete: un sistema che facilita l’erogazione dei servizi dell’Internet delle cose e delle persone con grande agilità, sfruttando cioè elevata velocità di creazione dei servizi stessi, scalabilità dei volumi di traffico e grandi risparmi sui costi. La tecnologia 5G, inoltre, è caratterizzata da nuove interfacce di accesso radio che estendono lo spettro alle onde millimetriche (a 30, 40, 60 e 80 gigahertz) al fine di sfruttare porzioni sempre più larghe dello spettro di frequenze disponibile. Nello spettro di 1 GHz, per fare un esempio, si possono allocare fino a 30 gigabit di dati al secondo. Reti tagliate a “fette”
Il 5G va considerato come un catalizzatore della digitalizzazione dei mercati verticali secondo il paradigma dell’Internet delle cose, che è pervasivo di tutte le attività umane. La sua architettura prevede l’uso di server applicativi esterni alla rete dell’operatore di telecomunicazioni e questo permette di realizzare delle “fette” di rete virtuali multiple, composte con le risorse logiche basate sulle risorse infrastrutturali e attivate dai terminali degli utenti o dai sensori Iot, sessione per sessione. Il sistema centralizzato di gestione del 5G assegna quindi le risorse logiche in funzione dei requisiti delle diverse sessioni, gestendo dinamicamente le risorse infrastrutturali: l’accesso radio,
il trasporto, la sicurezza, il computing e lo storage, per arrivare alle risorse poste nei terminali e nei sensori. Il vantaggio? Le “fette” di rete virtuali possono essere dedicate ai vari scenari applicativi gestiti dal 5G, a specifici mercati verticali (media, sanità, energia, trasporti, manifattura, utility, agricoltura, ambiente,
retail e altri ancora), all’utenza business con la realizzazione di vere e proprie “reti aziendali virtuali” e agli operatori Overthe-Top, oppure ancora ai servizi erogati dalla Pubblica Amministrazione e a quelli di sorveglianza ed emergenza. Maurizio Decina, presidente di Infratel Italia
UNA PARTITA DA NON PERDERE “Il 5G rappresenta una vera e propria discontinuità tecnologica, perché oggetti e macchine potranno comunicare in tempo reale con altri oggetti e altre macchine, e in questa prospettiva possiamo comprendere quanto le sue infrastrutture siano un elemento chiave per la competitività di intere nazioni e dei relativi sistemi industriali”. L’analisi a firma di Giuliano Noci, professore ordinario in Ingegneria Economico-Gestionale al Politecnico di Milano, apparsa sul Sole 24 Ore qualche settimana fa, entra giustamente nel merito del perché le nuove reti mobili devono essere considerate un asset strategico. Il ruolo che potrà giocare il nostro Paese in questa partita planetaria, secondo Noci, è marginale ed è il risultato di scelte fatte vent’anni fa. “Negli anni Novanta”, ricorda l’esperto, “eravamo tra i leader delle telecomunicazioni con imprese come Italtel e Telettra, le cui divisioni di ricerca sono state cedute a Siemens e Alcatel rispettivamente. Il risultato? La ricerca sul 5G e la costruzione degli apparati è del tutto fuori dal nostro Paese e vede protagonisti giganti come Qualcomm, Huawei, Nokia ed Ericsson”. L’Italia, a detta del professore del Politecnico,
è sostanzialmente uno spettatore passivo di questa rivoluzione tecnologica e in futuro non avrà alternative: non potendo rinunciare all’infrastruttura 5G, le imprese operanti sul territorio nazionale dovranno inevitabilmente acquistare apparati di telecomunicazione da fornitori stranieri. Effetto servitizzazione In un quadro in cui la partita a livello infrastrutturale si gioca fuori dai confini domestici, il Paese saprà conquistare qualche spazio di innovazione nel prossimo futuro? Le opportunità ci sono, secondo Noci, e in particolare in alcuni domini verticali e in specifici ambiti applicativi (vedi l’Internet of Things e i sistemi per la mobilità), ma a certe condizioni: “Il 5G ci porterà definitivamente nel mondo della servitizzazione, ovvero in uno scenario nel quale produzione manufatturiera ed erogazioni di servizi non saranno più nettamente separati. Serve dunque uno sforzo immane di sensibilizzazione e creazione di competenze per evitare che dopo la partita delle infrastrutture 5G l’Italia perda anche quella delle applicazioni industriali. E sarebbe letale per la seconda manifattura d’Europa”.
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SPECIALE 5G
IL SEGRETO DELLE NUOVE RETI È LA SEMPLICITÀ L’AQUILA VIDEOCHIAMA IN 5G È stata effettuata nel corso del Mobile World Congress, a fine febbraio, la prima videochiamata in streaming fra due telefoni 5G di Zte, il nuovo modello Axon 10 Pro: uno era collocato nello stand della Fira di Barcellona, l’altro nel centro di ricerca e innovazione europeo sulla tecnologia mobile di quinta generazione della società cinese, che ha sede a L’Aquila. Nella città abruzzese, in collabo-
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razione con Wind Tre e Open Fiber, è stata realizzata nell’ambito della sperimentazione Mise 2018-2020 anche la prima rete pre-commerciale 5G nel Vecchio Continente. Per la demo, conforme allo standard 3GPP R15, sono state impiegate diverse soluzioni tecnologiche end-to-end di Zte, fra cui rete Ran (Radio access network), rete centrale, rete carrier e dispositivo.
Secondo Huawei, l’adozione del 5G si realizzerà in meno tempo rispetto alle precedenti tecnologie, grazie a costi fissi e variabili inferiori.
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e consegne delle stazioni base per il 5G marchiate Huawei sono iniziate lo scorso settembre e procedono, secondo i manager della multinazionale, a ritmo serrato. “Sono più piccole del 55% e più leggere del 23% rispetto alla generazione precedente”, ha dichiarato Ryan
Ding, executive director e Ceo della divisione reti di Huawei, “ma soprattutto richiedono meno tempo e meno spazio per essere installate e consumano meno energia. Rispetto a una base station 4G, i nuovi apparati possono essere messi in posizione e attivati in metà del tempo, circa quattro ore”. Gli ingegneri di Huawei hanno ottimizzato l’impiego di energia elettrica (circa il 30% in meno rispetto ai prodotti analoghi della concorrenza, secondo fonti della multinazionale, il che si traduce in un consumo complessivo delle reti 5G inferiore per il 10%) e i fattori di forma, costruendo apparati “all in one” in grado di gestire anche le reti precedenti (3G e 4G). La società ritiene che la semplificazione della rete e la sua automazione rappresenteranno le direttrici di sviluppo delle infrastrutture mobili del futuro. Sulla semplificazione degli apparati (di trasmissione, ma anche delle antenne e degli alimentatori) e sull’automazione affidata alle tecnologie di intelligenza artificiale si basa molta della fiducia che i manager Huawei ripongono nelle loro soluzioni. E se a gennaio di quest’anno la multinazionale aveva presentato il primo chip-modem per smartphone 5G, il Balong 5000 (utilizzato sul cellulare pieghevole che tanto ha riscosso interesse e curiosità dopo il suo annuncio a fine febbraio), altrettanto strategico è stato l’annuncio del chipset per stazioni base 5G, il Tiangang, che insieme a tutti gli altri circuiti sviluppati “in casa” da Huawei rappresenta un tassello fondamentale del nuovo ecosistema messo in campo dalla società (e osteggiato da alcuni Paesi) per vincere la competizione sulle nuove reti. “Le reti 5G si svilupperanno molto più velocemente rispetto agli standard precedenti”, ha aggiunto Peter Zhou, chief marketing officer di Huawei Wireless Solution. “La maggior parte delle
FRA 4G E ULTRABROADBAND FISSO La strada che conduce ai servizi di quinta generazione è fatta anche di alleanze e mirate sinergie tecnologiche. Si veda per esempio l’accordo fra Tim e Vodafone per la condivisione della componente attiva della rete 5G e la possibile aggregazione in un’unica entità delle rispettive infrastrutture passive. Tim si è alleata anche con Cisco, con un accordo per la sicurezza delle nuove reti, e ha presentato al fianco di Ericsson una piattaforma 5G appoggiata in cloud e sviluppata estendendo la tecnologia 4G vRan (virtual Radio Access Network) già in uso nella propria rete. L’obiettivo è quello di facilitare l’evoluzione verso uno
infrastrutture verranno realizzate fra il 2019 e il 2022, in soli tre anni. I nostri studi indicano che le nuove reti avranno un Total Cost of Ownership (Tco) da due a otto volte inferiore rispetto al passato. Questo consente di accelerare ulteriormente l’adozione dei nuovi impianti; in Corea in soli quattro mesi sono state installate diecimila base station 5G, e già oggi le reti 4G e 5G insieme garantiscono il 100% di copertura del territorio”. Reti rurali e reti volanti
Le reti cittadine non sono l’unica modalità con cui Huawei intende connettere persone e cose. A Londra prima e a Barcellona poi ha mostrato una Book Remote Radio Unit (Rru) 5G che vanta una capacità trasmissiva superiore del 110% rispetto al 4G, ma con peso e dimensioni inferiori di circa il 40%. Questa unità può essere montata su droni e utilizzata per allestire reti
stack radio comune virtualizzato, che includa funzioni di rete mobile di quarta e quinta generazione e in grado di mettere a disposizione un insieme di risorse radio più efficiente. L’accordo stretto fra Samsung e Fastweb, invece, verte sull’avvio della prima sperimentazione 5G Fixed Wireless Access in Italia su frequenze commerciali. In questo caso il fine è di dimostrare come questa tecnologia possa rappresentare una valida alternativa alle reti fisse Ftth (fiber-to-the-home) per realizzare connessioni a banda ultralarga che possano garantire ai clienti residenziali velocità di navigazione nell'ordine dei gigabit.
ad alta velocità in caso di emergenze, come ad esempio terremoti o inondazioni. Sempre nell’ottica della compattezza e della sostenibilità economica, RuralStar Lite è un’installazione all-inone per le aree rurali, che si distingue per l’impiego di una dorsale satellitare alimentata a energia solare. Huawei ha calcolato che per questo prodotto il ritorno sull’investimento è di soli due anni, mentre il Capex scende, rispetto alle attuali installazioni 4G, da 50mila a 20mila dollari. “L’introduzione dei chipset, l’utilizzo di avanzate tecnologie di intelligenza artificiale e queste soluzioni particolarmente efficienti sono il frutto della nostra ricerca di base”, ha dichiarato Peng Song, president of marketing & solution sales dept della divisione reti di Huawei, “portata avanti da 80mila ingegneri e finanziata da investimenti che equivalgono al 15% del fatturato”. Emilio Mango 39
PERSONE E OGGETTI: SAREMO TUTTI CONNESSI Entro tre anni sulle reti 4G e 5G italiane saranno in comunicazione 165 milioni di apparati IoT. Il traffico dati quadruplicherà, raggiungendo i 489 petabyte.
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e “macchine” faranno concorrenza alle persone sul 5G. Le reti mobili di quinta generazione dovranno infatti sopportare, per la prima volta, un enorme traffico generato dai dispositivi connessi che, sempre più numerosi, affolleranno le nostre vite quotidiane e gli ambienti industriali. Nel 2022, secondo le stime del “Mobile Visual Networking Index” di Cisco, le reti italiane Lte e 5G dovranno gestire le comunicazioni fra 165 milioni di oggetti dell’Internet delle cose. Un numero quasi doppio rispetto a quello del 2017, corrispondente a una crescita composta nel quinquennio dell’11,1%. A proliferare, spiega Cisco, saranno anche i moduli machine to machine (macchina-macchina), che nel 2022 rappresenteranno il 58,6% del totale dell’IoT. Ovviamente, al proliferare dei dispositivi connessi corrisponderà un aumento del traffico generato, che dovrebbe quadruplicare in cinque anni fino a raggiungere i 489 petabyte al mese nel 2022. Giusto per fare un esempio, è l’equivalente di 122 milioni di Dvd. Ogni persona dotata di un dispositivo elettronico produrrà in media 8,5 GB di dati, contro i 2,3 GB del 2017, mentre le connessioni
macchina-macchina genereranno 575 MB di informazioni ogni mese. Le maggiori velocità garantite dal 5G (in media 139,8 megabit per secondo) saranno le prime responsabili del diluvio di dati stimato da Cisco. Fra tre anni i collegamenti mobili di quinta generazione saranno ancora relativamente pochi (il 4,6% del totale), ma una connessione di questo tipo produrrà in media 12,5 GB di traffico al mese, cioè più del triplo rispetto all’Lte e una quota pari al 19,5% del traffico complessivo. La costante evoluzione tecnologica consentirà però anche alle reti 4G di progredire sensibilmente dal punto di vista della velocità di download, che nel 2022 toccherà in media i 48,7 Mbps contro i 22,9 registrati nel 2017. Nei prossimi tre anni crescerà anche il numero di dispositivi indossabili posseduti dagli italiani (25,5 milioni) e aumenterà di sei volte, da due a 12 milioni, la disponibilità di hotspot WiFi pubblici e domestici.
Le cifre riguardanti il nostro Paese sono importanti, ma impallidiscono se confrontate con quella che è destinata a diventare la prima economia mondiale. In Cina, nel 2025, ci saranno 460 milioni di persone connesse alle reti 5G, contro i 205 milioni dell’Unione europea e i 187 milioni degli Stati Uniti. Gsma ha sottolineato il ruolo fondamentale del motore cinese per la diffusione delle infrastrutture di quinta generazione. Nel prossimo biennio gli operatori del Dragone investiranno sul 5G quasi 60 miliardi di dollari e nel 2023 le nuove reti contribuiranno all’economia nazionale con 894 miliardi. Ma la società cinese è già oggi iperconnessa: nel 2018 Gsma ha stimato 1,2 miliardi di utenze attive per un giro d’affari di 680 miliardi di dollari, pari al 5,5% del Pil nazionale. L’anno scorso l’ecosistema mobile ha garantito 8,5 milioni di posti di lavoro, indotto compreso, portando nelle casse dell’erario circa 87 miliardi di dollari. A.A.
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SPECIALE 5G
Saranno innanzitutto gli smartphone a portare il "verbo" del 5G alle masse. I principali marchi sono già scesi in campo: Huawei e Samsung sono i primi protagonisti. In attesa di Apple.
SILICIO E TELEFONINI DI NUOVA GENERAZIONE
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l 2019 sarà ricordato come l’anno dell’incarnazione del 5G nei primi dispositivi mobili. Se, molto probabilmente, i servizi che sfrutteranno maggiormente le reali capacità delle nuove reti riguarderanno il mondo aziendale, è indubbiamente vero che saranno gli smartphone a far crescere la popolarità del 5G fra le masse. Secondo l’ultimo “Mobility Report” di Ericsson, nel 2024 verranno generati 136 miliardi di gigabyte al mese di traffico in mobilità, un traffico sostenuto per il 25% dalle reti di quinta generazione. L’orizzonte temporale è lungo, ma i principali produttori di smartphone hanno deciso di mettere le mani avanti e di lanciare già quest’anno i primi dispositivi compatibili. Huawei e Samsung, per esempio, hanno iniziato a battere la grancassa del marketing svelando nelle scorse settimane dei telefoni pronti all’uso. Anticipando Apple, 42 |
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che dovrebbe portare sul mercato un iPhone 5G non prima del 2020, i due marchi asiatici si sono resi protagonisti anche nel campo degli smartphone pieghevoli. Il Mate X della casa cinese impiega infatti il modem Balong 5000 per offrire velocità massime in download di 4,5 gigabit per secondo, circa il doppio rispetto ai processori 4G attualmente in circolazione. Il telefono ha ricevuto il certificato CE emesso dall’ente europeo Tüv Rheinland e verrà lanciato nella seconda metà dell’anno al prezzo di 2.300 euro. È invece già disponibile, anche se soltanto in Corea del Sud, il Galaxy S10 5G: a differenza del Mate X, il prodotto di Samsung non è flessibile ed è quasi uguale agli altri tre modelli della linea S10. Il colosso sudcoreano ha comunque in portafoglio uno smartphone con schermo pieghevole, il Galaxy Fold, al momento prodotto in pochi pezzi ven-
duti a caro prezzo. La strada è comunque tracciata e, secondo Idc, nel 2020 saranno proprio i device 5G e i nuovi form factor flessibili a contribuire alla ripresa del mercato mobile, destinato quest’anno a subire una contrazione dello 0,9%. Gli altri telefoni 5G di cui si sentirà parlare nelle prossime settimane saranno sicuramente lo Xiaomi Mi Mix 3, lo Zte Axon 10 Pro, i Motorola Moto Z3 (dotati di moduli aggiuntivi per abilitare la connessione), oltre ai prodotti di Oppo e Tcl. Il “cuore” di questi cellulari sarà rappresentato da chip proprietari o realizzati da aziende terze (Qualcomm, Intel, Mediatek), che permetteranno di scaricare contenuti multimediali in una frazione di secondo e di godere di nuove esperienze, come la realtà aumentata, in modo molto più fluido rispetto a quanto possibile oggi. Alessandro Andriolo
Next Generation VoIP
Con i suoi 20 anni di esperienza, Snom è uno dei pionieri della telefonia IP. La nostra missione: soddisfare qualsiasi esigenza e superare ogni aspettativa grazie ad un portafoglio completo e di comprovata qualità , perchè un servizio aziendale critico, come la telefonia, merita solo il meglio. Siamo a tua disposizione! office.it@snom.com
STARTUP & PMI INNOVATIVE
FENOMENO A DUE FACCE
Il numero delle neoimprese iscritte nel Registro speciale supera quota diecimila, confermando Milano come capitale dell’innovazione italiana. Ma resta il nodo delle risorse a disposizione dei venture capital.
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n dato a suo modo “storico” ed emblematico, che non equivale certo alla status di totale maturità di un movimento caratterizzato ancora da diversi difetti, ma che rappresenta oggettivamente un buon auspicio per l’immediato futuro. 44 |
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Non siamo ancora una “nazione di startup”, insomma, ma abbiamo superato la cifra tonda delle diecimila imprese innovative iscritte nell’apposito Registro tenuto dal Mise in collaborazione con Infocamere. Il numero preciso aggiornato al 18 marzo è di 10.027, e tante quindi sono le startup italiane (in via di costituzione o già costituite da non oltre 60 mesi) aventi come oggetto sociale esclusivo o prevalente “lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico”. A sei anni dall’istituzione della sezione speciale del Registro, insomma, il bilancio si può definire positivo. Le misure prese a suo tempo dall’allora governo Monti, in fatto di agevolazioni fiscali
e di normative ad hoc a supporto dello sviluppo tecnologico e dell’occupazione, hanno in qualche modo aiutato ad avviare un “movimento” che ora deve affrontare la sua fase di maturità e valicare l’ostacolo più arduo. Quale? Creare un circolo virtuoso di disponibilità di capitali (risorse sia pubbliche sia private) per far diventare grandi molte di queste startup, aiutarle a sbarcare sui mercati internazionali, avviarle a una exit o spingerle tra le braccia di qualche grande azienda multinazionale. Come ha ricordato di recente il presidente di Aifi (l’Associazione Italiana del private equity, venture capital e private debt), Innocenzo Cipolletta, facendo riferimento alle misure a favore delle startup presenti nella legge di Bilancio
“per il venture capital questo e i prossimi anni possono essere molto positivi”. Il punto da cui partire sono i 324 milioni di euro raccolti dai fondi di Vc italiani nel corso del 2018, ben più dei134 milioni del 2017. I numeri dell’ecosistema
A guidare la classifica delle regioni più prolifiche di startup ci sono la Lombardia, con 2.525 imprese innovative, e il Lazio, con 1.116, seguite da Emilia Romagna (888) e Campania (783). Milano continua a rappresentare il principale polo di incubazione del fenomeno, con 1.769 startup (il 17,6% del totale nazionale) mentre Roma, al secondo posto in graduatoria, vanta una popolazione in continua crescita che ha da poco superato quota mille (1.007 per la precisione). Nel complesso sono 1.700 i comuni italiani in cui le neoimprese innovative hanno trovato dimora, e dieci quelli in cui ne sono state registrate almeno cento. I comparti a chiara vocazione tecnologica sono sempre i più affollati: oltre un terzo delle diecimila iscritte al Registro è impegnato in attività di “produzione di software“, il 13,5% in “ricerca
e sviluppo”. Nel settore manifatturiero complessivamente inteso si colloca il 18,5% delle startup. Al 18 marzo scorso, si legge nel rapporto diffuso dal Mise, le startup costituite in modalità digitale (misura operativa a partire dal luglio 2016) erano oltre duemila, tra le quali 953 costituite online nel 2018 (la Sardegna è la regione con il più elevato tasso di adozione di questa procedura). In aumento, infine, è anche il numero delle startup che si aprono a una rete di imprese per uno scambio di competenze digitali e know-how imprenditoriale: a tutto febbraio è stata superata, infatti, la soglia delle cento realtà (114) che fanno parte di un contratto di rete. Le startup innovative che offrono servizi alle imprese (il 78% del totale) sono quelle maggiormente coinvolte in questo modello. La nota dolente? Sempre la stessa: i bilanci 2017 evidenziano come in quattro casi su dieci il valore della produzione sia inferiore ai 100mila euro (e in tre su quattro sotto i 500mila), segno evidente di un “nanismo” che ancora contraddistingue, in negativo, il nostro ecosistema. Gianni Rusconi
INNOVATORI SENZA SITO Poco meno di una startup italiana su due, e precisamente il 44%, non ha un sito funzionante. Un dato migliore rispetto allo scorso anno, quando tale indicatore era superiore al 50%, ma ancora un dato non entusiasmante. Anzi, tutt’altro. La terza edizione del rapporto “StartupSEO” realizzato da Instilla, agenzia digitale specializzata in servizi di conversion marketing, scopre quindi una certa disattenzione dei nuovi imprenditori verso uno strumento base del processo
di digitalizzazione, quale può essere considerato il sito Web. Eppure l’inaccessibilità attraverso il canale online alle startup è diffusa, nella maggior parte dei casi, a causa di problemi di natura tecnica. Sintomatico è il fatto che le nuove imprese supportate da incubatori, acceleratori e investitori istituzionali siano più sensibili a questo “asset” e lo considerino un fattore di competitività, tanto che in tale gruppo la percentuale delle startup prive di sito funzionante scende al 15%.
UNA EXIT CON LA MELA Nei primi anni di vita ha attinto ai finanziamenti raccolti sulla piattaforma di equity crowdfunding Seedrs, ma nelle ultime settimane Stamplay è balzata agli onori della cronaca per essere stata acquisita nientemeno che da Apple. Si tratta di una startup nata nella Capitale sotto l’egida dell’Università Roma Tre, dalla quale provengono non solo i due fondatori Nicola Mattina e Giuliano Iacobelli, ma l'intero team di sviluppo. Per la società adesso è giunta l’ora del grande passo in avanti attraverso un’operazione che dovrebbe aggirarsi, secondo fonti non ufficiali e non confermate, nell’ordine dei 5 milioni di dollari e che prevede anche la permanenza dei fondatori all'interno della multinazionale di Cupertino in qualità di dipendenti. La soluzione di Stamplay è una piattaforma per lo sviluppo di applicazioni in modalità "low code", che riduce la quantità d righe di codice da scrivere. Le sue sedi operative sono a Roma, dove opera il team di ricerca e sviluppo, a Londra e a San Francisco, dove sono concentrate le attività di business development. Prima dell’exit ha attirato le attenzioni di diversi investitori, raccogliendo finanziamenti per circa un milione di dollari (la maggior parte da soggetti internazionali) e nel 2016 ha vinto il progetto “Everywhere Initiative” di Visa.
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INTELLIGENZA ARTIFICIALE
L’adozione dell’AI in azienda, sottolinea Gartner, è salita al 37%. Ma ci aspettano una fase di disillusione, competenze da colmare e questioni etiche da risovere.
UN PERCORSO A OSTACOLI
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utti ne parlano, qualcuno ha imparato a conoscerla, altri ancora stanno cercando di capire esattamente che cosa sia. Perché la chiacchierata intelligenza artificiale ha una definizione ampia, che racchiude tecnologie e destinazioni d’uso fin troppo eterogenee, e talvolta viene citata a sproposito quando basterebbe parlare di apprendimento automatico o di automazione. Possiamo però fidarci se un osservatore neutrale come Gartner assicura che il fenomeno è sostanziale e non solo il frutto delle trovate di marketing dei vendor o di una moda giornalistica. Stando all’edizione 2019 dell’annuale “Cio Survey” (studio basato su interviste di tremila chief information officer di 89 Paesi del mondo), attualmente il 37% delle aziende impiega una qualche forma di intelligenza artificiale o progetta di farlo nel breve termine. Solo quattro anni fa dai son-
daggi di Gartner emergeva un tasso di adozione limitato al 10%, poi cresciuto al 25% nel 2018. Oggi invece, facendo la media dei settori di mercato, più di un’azienda su tre usa o progetta di usare chatbot, algoritmi di analisi predittiva, sistemi di automazione spinta, computing cognitivo e altre applicazioni di AI. Una rivoluzione in fieri? . Entusiasmi e disillusioni
“In superficie, parrebbe rivoluzionario”, commenta il vicepresidente di Gartner Andy Rowsell-Jones. “Tuttavia questo salto nel tasso di adozione dell’AI potrebbe indicare al contrario un entusiasmo irrazionale. I chief information officer non possono permettersi di ignorare questa categoria di tecnologie, ma dovrebbero mantenere un senso della misura”. A detta dell’analista, la più recente ondata di strumenti di intelligenza artificiale deve ancora passare da quella
che Gartner chiama “fossa della disillusione”, una fase che tipicamente consegue a quella dell’entusiasmo esagerato di fronte a una nuova tecnologia. Ciò non significa, naturalmente, che il fenomeno si possa ignorare. “Se sei un Cio e la tua azienda non usa l’intelligenza artificiale, è probabile che la concorrenza lo faccia e questo dovrebbe preoccuparti”, ammonisce Chris Howard, research vice president della società di ricerca. Se siamo ancora lontani da tecnologie capaci di prendere il controllo su interi procedimenti complessi ed estesi, siamo però entrati nel regno del “lavoro aumentato dall’AI” e della “intelligenza aumentata”. Chi ha tempo non aspetti tempo...
L’AI, quindi, per adesso è ancora soprattutto uno strumento di potenziamento delle attività e del cervello dell’uomo, e non ancora una vera “intelligenza” autoAPRILE 2019 |
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INTELLIGENZA ARTIFICIALE
noma. E non è detto che sia un male. Le aziende hanno ancora tempo per colmare quel buco di competenze evidenziato un po’ da tutti gli analisti per le tecnologie che fanno usi evoluti dei dati. Su 800 manager di imprese europee e statunitensi intervistati lo scorso gennaio nell’ambito di uno studio di Microsoft (“Business Leaders in the Age of AI”, realizzato da Krc Research), il 67% vorrebbe un qualche tipo di supporto che lo aiutasse a sviluppare competenze di AI, e tra gli italiani la percentuale sale al 75%. Oltre al sapere tecnico c’è poi la questione etica, delicatissima per applicazioni che coinvolgeranno la privacy (pensiamo ai sistemi di riconoscimento biometrico) e la sicurezza fisica delle persone (droni, veicoli driverless). Tra i colossi impegnati in questa sfida c’è Facebook, che con l’Università Tecnica di Monaco si è impegnata ad avviare un istituto di ricerca sulle questioni etiche dell’AI. Il social network ha già messo a disposizione un investimento iniziale di 7,5 milioni di dollari. Valentina Bernocco
LE STARTUP ALIMENTANO LA CONFUSIONE LESSICALE Che cosa sia esattamente l’AI non l’hanno capito nemmeno molte società di ricerca e analisi di mercato. La confusione lessicale è tale da aver determinato un’etichettatura imprecisa di molte realtà, impropriamente definite come aziende o startup di intelligenza artificiale quando in realtà non lo sono. Lo dice una nuova ricerca condotta dalla società londinese di venture capital Mmc Ventures: attualmente in Europa si contano 2.830 startup classificate come società che si occupano di intelligenza artificiale o di machine learning, ma nel 40% dei casi non c’è prova di questi elementi all’interno delle loro offerte. Dunque, sulle 2.830 totali, l’etichetta “AI” è applicabile solo a 1.600 realtà (500 delle quali ubicate nel Regno Unito). Come è
possibile? In parte c’è stata un po’ di malizia nell’opera di marketing delle aziende stesse: vantare attività di intelligenza artificiale, infatti, consente di attrarre in media dal 15% al 50% di investimenti in più rispetto a una generica definizione di impresa impegnata nel digitale. Ma in altri casi sono state le società di analisi ad aver realizzato classificazioni errate, senza poi che i diretti interessati si siano preoccupati di correggerle. Tra le “vere” startup di intelligenza artificiale, nove su dieci sviluppano applicazioni verticali destinate a salute, finanza, retail, media e intrattenimento. Le tecnologie più esplorate sono anche quelle più consolidate, ovvero chatbot (proposti dal 26% delle neoimprese dell’AI) e strumenti di automazione dei processi (21%).
MACHINE LEARNING, IL NEMICO-AMICO DELLA SICUREZZA Il machine learning sarà allo stesso tempo il migliore amico e il peggior nemico delle aziende rispetto al problema degli attacchi informatici. Una tecnologia potente e gravida di conseguenze, sia che si presti a nobili fini sia che diventi strumento di attività a sfondo criminale. Così la pensa la maggioranza dei responsabili It interpellati nell’ambito di uno studio realizzato da OnePoll per conto di Eset (“Machine Learning Era in Cybersecurity”, 900 intervistati tra Stati Uniti, Regno Unito e Germania): per l’80% l’apprendimento automatico aiuterà la propria azienda
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a guadagnare terreno e reagire più rapidamente alle minacce di cybersicurezza, ma per il 70% renderà le minacce più complesse e difficili da rilevare e per il 66% farà lievitare il numero di attacchi. Negli ultimi anni diversi vendor di sicurezza, chi più e chi meno, hanno introdotto capacità di apprendimento automatico all’interno delle proprie soluzioni, specie per migliorare i monitoraggi del traffico, la scoperta di anomalie e falsi positivi. Ma anche i “cattivi” hanno iniziato a usare gli algoritmi per creare nuovi ceppi di malware, per colpire i propri bersa-
gli in modo più mirato, per fare attacchi automatizzati con le botnet e per nascondere (cioè rendere difficilmente rilevabili) le proprie attività. Nel braccio di ferro tra aziende e cybercriminali, insomma, il machine learning rafforza entrambi e resta da capire quale delle due parti saprà sfruttarlo meglio. Intanto, secondo lo studio di Eset, l’82% delle aziende tedesche, britanniche e statunitensi ha già in uso prodotti di cybersicurezza con capacità di apprendimento automatico, e tra i restanti meno di una su quattro non intende farlo in futuro.
BIG DATA
Idc e Sas sottolineano le difficoltà con cui si scontrano molti progetti aziendali riguardanti dati e algoritmi. Emergono necessità di controllo, di gestione e di nuove competenze.
ANALYTICS IN BILICO TRA SOGNI E REALTÀ
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i Big Data non si parla più? Forse l’espressione è un po’ uscita dal lessico del marketing di chi vende tecnologie, mentre le ricerche di mercato e i giornalisti hanno spostato l’attenzione su altri temi, come l’intelligenza artificiale e l’Internet of Things. Ma non ci sono separazioni nette, né nella teoria né nella pratica. E oggi più che mai i dati (“grandi” o meno grandi, in ogni caso eterogenei per forme e fonti) sono al centro delle strategie di crescita e di trasformazione digitale delle aziende. Lo ha rimarcato recentemente anche una software house specialista di dati come Sas: Fino a pochi anni fa si parlava molto di Big Data, oggi si parla molto di intelligenza artificiale”, ha fatto notare in occasione della tappa milanese 50 |
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del roadshow di Sas Angelo Tenconi, senior presales director South Emea. Il principale sbocco dell’intelligenza artificiale nelle aziende sono gli analytics, o meglio gli analytics avanzati. Un tema forse non nuovissimo, ma solo in teoria: nella pratica, realizzare progetti di analytics realmente trasformativi è per molti un’impresa in fieri, se non ancora intentata. “Nei dipartimenti It quando se ne discute emergono due diverse esigenze: da un lato, cercare di essere agili e flessibili nello sviluppare i nuovi algoritmi; dall’altro necessità di gestione, deployment e scalabilità”, ha testimoniato Tenconi. In fase di progettazione e scrittura delle applicazioni, le aziende vogliono avere possibilità di scelta in merito alle fonti di dati, ai linguaggi di programma-
zione, alle tecniche di analitica da impiegare. Ma c’è un risvolto della medaglia: per sopravvivere nel tempo, i progetti devono essere scalabili, sicuri e a misura di privacy, fattibili dal punto di vista del deployment e della governance di dati e modelli. Sogni e realtà, insomma, faticano a conciliarsi. Alleati e nemici
Alcuni strumenti certo aiutano a semplificare le complessità: il cloud mette a disposizione calcolo e storage a costi accessibili; gli ambienti software a container accelerano e semplificano lo sviluppo e la distribuzione di applicazioni e servizi; l’open source è una cornucopia da cui fuoriescono continue nuove risorse (e c’è chi, come Sas, adegua la filosofia “aperta”
IL CLIENTE AL CENTRO, I DATI ALLA BASE DELLE STRATEGIE
ai livelli di sicurezza e scalabilità necessari alle aziende). Forse, però, non basta. Osservatori come Idc fanno notare due problemi: competenze e cultura. Sul primo fronte c’è sicuramente movimento, ma anche una domanda in parte ancora inevasa di professionisti specializzati nella scienza dei dati. Lo sbocciare di corsi universitari sulla materia risolverà il problema fra qualche anno, ma Idc invita a non aspettare e a sviluppare internamente alle aziende dei “centri di competenza”: persone o team incaricati di definire regole, processi e tecnologie di gestione dei dati, parametri di sicurezza. Dal punto di vista della cultura aziendale, invece, in quella dominante tra i manager si nota ancora una certa incapacità di “ascolto”: se anche i progetti di analytics e Business Intelligence producono indicazioni utili, spesso si continuano a prendere decisioni sulla base di altre logiche, magari di scelte individuali. Nell’imprenditoria l’istinto ha un suo ruolo, ma così facendo il valore dei dati inevitabilmente va sprecato. Valentina Bernocco
ll successo di un’azienda dipende dalla sua capacità di avere una “visione a 360 gradi dei clienti, mettendo loro al centro e focalizzandosi sulle loro specifiche esigenze”. A dirlo sono gli analisti di Forrester Consulting, alla luce di un’indagine che conferma l’importanza della centralità del cliente per le aziende di ogni settore. Nel breve termine (un anno) sette su dieci intendono fare investimenti tesi a migliorare l’esperienza dei clienti e la sicurezza di dati e informazioni. E questo per molte significherà investire in tecnologie di analytics e apprendimento automatico. Dallo studio, commissionato da Experian (società che propone la piattaforma di analisi dati Ascend) e frutto di questionari compilati da 705 manager di Europa, Medio Oriente e Africa, risulta che l’82% dei professionisti riconosce il valore di dati, analytics e AI, mentre l’87% intende confermare o addirittura aumentare i budget destinati alle soluzioni di analisi dei dati. Gli analytics avanzati fanno ormai parte delle strategie di otto imprese su dieci, che li impiegano in diversi processi e dipartimenti aziendali. A detta di Armando
Capone, senior global consultant di Experian, “La trasformazione digitale in atto impone un ripensamento degli attuali modelli di business, che dovranno sempre più tendere verso una centralità del cliente lungo tutto il ciclo di vita della relazione. Come evidenziato anche nel report, le aziende devono fronteggiare nuove sfide legate non solo alla competizione con i concorrenti esistenti ma anche con i nuovi entranti”. Sfide che dunque richiedono strategie e investimenti diversi da quelli dispiegati in passato. “Per lavorare su customer experience, fiducia e soddisfazione dei clienti”, sottolinea Capone, “è necessario sfruttare appieno il potenziale di tutti i dati disponibili sia in fase di on-boarding di un nuovo cliente sia nel corso della relazione successiva, anticipandone bisogni e preferenze”. Oggi ancora prevalentemente usati nell’ambito del servizio clienti e della gestione dei dati, il machine learning e l’intelligenza artificiale diventeranno strategici per “migliorare la capacità di anticipare i comportamenti dei consumatori e competere nella nuova arena digitale”, assicura il manager.
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BLOCKCHAIN
L'ANELLO DEBOLE È LA REGOLAMENTAZIONE Quali sono oggi i principali ambiti applicativi della “catena di blocchi” e che cosa sta facendo la Ue, anche a livello giuridico, per gestire l’innovazione? Il parere di Massimiliano Dragoni, senior policy officer della Commissione europea.
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ata nel 2009, nel corso degli ultimi dieci anni la tecnologia blockchain si è evoluta in molte applicazioni. Ne esistono però due tipologie: quella permissionless, che permette a chiunque di leggere i dati e di far parte della rete, e quella permissioned. In questo caso l'accesso è limitato a una serie di partecipanti o validatori registrati. La prima variante rappresenta la forma più decentrata di blockchain, ma anche le seconde soluzioni, caratterizzate da un numero più limitato di soggetti, permettono di decentralizzare le operazioni e di garantire l’affidabilità dei dati. Grazie a questi meccanismi la “catena di blocchi” potrà a breve trasformare sia il settore pubblico
sia quello privato. La tecnologia offre a cittadini e imprese un nuovo strumento relativamente facile da usare per effettuare transazioni dirette tra le parti, emettendo token e impiegando smart contract capaci di mettere in discussione l'autorità (e la necessità) delle banche e di quelle strutture che oggi detengono un monopolio virtuale nella salvaguardia e nello scambio di valore. Le blockchain permettono inoltre di costruire mercati grandi, diretti e peer-topeer per prodotti, servizi o informazioni. Attraverso il meccanismo del token (spesso indicato come offerta iniziale di monete o Ico), aziende e startup possono raccogliere denaro vendendo “gettoni” direttamente agli investitori, aggirando i
lacci del venture capital e delle investment bank, cioè dei tradizionali veicoli di finanziamento. Il lancio del token fornisce un buon esempio di come la blockchain tocchi importanti questioni giuridiche. A questo livello vi è un intenso dibattito in merito a che cosa si intenda per token e a quali norme debbano disciplinarne il rilascio e l’uso. L'esito di questa discussione sarà fondamentale per l'evoluzione della blockchain e per le sue applicazioni. Il rischio è che in assenza di un quadro regolamentare e giuridico internazionale unico che garantisca le responsabilità delle operazioni (token e smart contract), le aziende non investano e non si fidino di un sistema che assicura la tracciabilità e l’autenticità, ma non la veridicità della transazione e dell’informazione scambiata. La blockchain infatti non garantisce che il dato sia vero e genuino, ma ne tutela “solo” l’incorruttibilità durante le transazioni. Per esempio, se un prodotto non corrisponde alla qualità pattuita o se una operazione finanziaria è di dubbia provenienza, la “catena di blocchi” non ne può assicurare la genuinità ma soltanto la veridicità della transazione e della sua immutabilità. Infine, uno dei limiti della blockchain è la sua limitata interoperabilità con soluzioni distribuite diverse e con le tecnologie legacy già presenti in azienda. Nell’era dell’intelligenza artificiale e dell’Internet delle cose, la compatibilità delle piattaforme e degli algoritmi blockchain è essenziale ed è ancora più rilevante nel caso delle tecnologie di cybersecurity. Il rischio è che, in assenza di una perfetta interoperabilità e compatibilità, la “catena di blocchi” non sia introdotta né sfruttata nel modo più appropriato. Il contributo del legislatore
L'Unione europea ha risposto con una serie di importanti iniziative per esplorare e sostenere questa nascente industria: dalla creazione di un Osservatorio e forum spe-
cializzato, sotto l'egida della Commissione europea, alla formazione della European Blockchain Partnership con l'adesione di tutti gli Stati membri (oltre a Norvegia e Liechtenstein). Il partenariato europeo blockchain (Ebp) di recente costituzione è uno sforzo da parte dei governi nazionali per promuovere l'innovazione e sostenere la creazione di applicazioni blockchain per i servizi pubblici e governativi. Questa primavera, inoltre, la Commissione lancerà la European Blockchain Service Infrastructure, per l'attuazione di casi d'uso nel pubblico (ad esempio l’identità digitale e la tassazione indiretta) e ha contribuito alla nascita dell'Associazione internazionale delle tecnologie di blockchain (Inatba), con sede a Bruxelles. Non vanno dimenticati nemmeno il Blockchain for Social Good Prize e la recente risoluzione della Commissione per l'industria, la ricerca e l'energia del Parlamento europeo, che riconosce il ruolo innovativo della “catena di blocchi”. Finora sono stati stanziati circa 80 milioni di euro per progetti relativi a diversi settori, ma la Ue ha già annunciato un aumento dei finanziamenti fino a 300 milioni nell’ambito del programma Horizon 2020. L'Europa è inoltre in prima linea in settori cruciali come la crittografia, i cui principi sono alla base del funzionamento di molte blockchain, e l'intelligenza artificiale, considerata una tecnologia ausiliaria importante. I registri distribuiti hanno attirato anche l'attenzione degli imprenditori, catalizzando così un gran numero di attività “sul campo”. I ricercatori europei, infine, stanno affrontando un'ampia varietà di temi, anche dal punto di vista giuridico: dalla scalabilità alla gestione dell'identità, dalla catena di approvvigionamento ai servizi pubblici, passando per finanza, sanità, media, città intelligenti e smart energy. Massimilano Dragoni, senior policy officer della Commissione europea
L'ITALIA SPENDE PER IMPARARE La blockchain inizia lentamente a farsi strada anche tra le aziende italiane. Nel 2018 le imprese della Penisola hanno investito 15 milioni di euro per sviluppare iniziative basate su questa tecnologia. Va detto però che su 150 progetti censiti dall’Osservatorio Blockchain & Distributed Ledger solo dieci sono diventati operativi. Nella maggior parte dei casi (130) la spesa si è concentrata su corsi di formazione e consulenze per arricchire le conoscenze interne sulla materia. Le realtà che stanno provando a puntare su questo paradigma sono state esclusivamente quelle di grandi dimensioni, oltre alle startup “native” che hanno cercato supporto economico lanciando le proprie offerte di moneta iniziali (Ico, initial coin offering). Le principali barriere all’adozione della blockchain sono la mancanza di competenze, la difficoltà nel valutare i benefici attesi e la scarsità delle risorse a disposizione. La maggior parte delle imprese, infatti, non ha né un budget né un team dedicato a questa tecnologia. Solo il 4% ha investito più di 500mila euro e meno di una società su dieci può contare su figure specifiche. Nel 2018, secondo l’Osservatorio, a livello europeo l’Italia si è classificata terza come numero di progetti dopo Regno Unito e Germania, mentre su scala mondiale l’area geografica dove si sperimenta di più è quella asiatica (32% delle iniziative), mentre l’Europa che è riuscita a tenere testa agli Stati Uniti (27% versus 22%).
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La FUtura GENerazione degli investimenti è arrivata.
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE AL SERVIZIO DELLA FINANZA Due comparti long/short che investono nei principali mercati (Azionario, Obbligazionario, Forex, Materie Prime).
INNOVAZIONE
TRADIZIONE
QUANT – MACHINE LEARNING
OPPORTUNISTIC
ISIN:LU1885481306
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BLOCKCHAIN
PRIVILEGIO PER POCHI? Per non restare escluse dai benefici della "catena dei blocchi" le aziende dovranno seguire la logica della coopetizione. Lo dice Paolo Tasca dello University College London.
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ntrata di diritto nelle cronache mediatiche a fine 2017, durante l’impressionante rally del valore del bitcoin, la blockchain è una tecnologia sempre più studiata anche nelle aziende di qualsiasi dimensione. Le imprese si stanno però muovendo ancora in ordine sparso e prima di poter liberare pienamente il potenziale della “catena di blocchi” è fondamentale che vengano superati alcuni ostacoli. Il più importante, secondo Paolo Tasca, executive director, University College London Centre for blockchain technologies, è quello legale.
Quali sono oggi i principali limiti della blockchain in ambito aziendale?
La blockchain è un paradigma che può svolgere il ruolo di fondamenta di molti progetti, ma si trova ancora nella cosiddetta “era del fermento”. Una fase ricca di incertezze tecnologiche, grande mutabilità, rivalità e competizione. A livello di adozione siamo ancora in una fase embrionale, popolata da innovatori ed early adopter che non hanno però scopi ben chiari. Sono quindi evidenti le difficoltà che devono essere superate. Da un punto di vista generale, sono convinto che le sfide legali siano le più importanti, ma è proprio in questo campo che sono stati fatti meno progressi. L’uso di smart contract, per esempio, non pone alcun ostacolo tecnico. Ma l’incertezza del regolatorio e le diverse interpretazioni sull’applicazione dei contratti intelligenti (e la loro validità legale) stanno impedendo alle aziende di utilizzarli in modo ampio, sia internamente sia
esternamente. Prima che la tecnologia possa effettivamente prendere piede, è necessario che questi problemi vengano affrontati dagli uffici legali delle imprese e dagli enti regolatori. Gli altri limiti sono la mancanza di standard e di interoperabilità, di figure competenti e di un ecosistema sviluppato. Non va però dimenticato che la blockchain non significa per forza fiducia. È vero
che si tratta di un registro immutabile e decentralizzato capace di contrastare le frodi evitando che i dati vengano alterati, ma le informazioni prima di essere scritte devono essere corrette. Per questo motivo le aziende che vivono di fiducia e verifica (come le assicurazioni e le banche) continueranno ad aver bisogno di altre soluzioni tradizionali per proteggersi da un rischio del genere. APRILE 2019 |
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Come si superano questi ostacoli?
In linea generale, per assistere all’adozione di massa servirà uno sforzo enorme da parte di tutti gli stakeholder coinvolti nella filiera, che dovranno superare l’attuale logica di competizione per abbracciare la coopetizione.
Paolo Tasca
In quali settori verticali si sta sperimentando di più?
In termini di numero di proof of concept, trial e sperimentazioni, le aree più attive sono la finanza (compensazione e pagamenti), verifica e archiviazione dei dati, gaming e scommesse, tokenizzazione degli asset, social media e comunicazione. Se guardiamo però ai capitali investiti lo scenario cambia, portando al primo posto le infrastrutture It distribuite e decentralizzate, seguite da soluzioni per l’elaborazione delle informazioni, servizi finanziari, comunicazione e gaming. Non tutti i progetti, però, sono stati resi pubblici, quindi è difficile stimare il numero esatto di realtà coinvolte. Le criptovalute hanno ancora delle potenzialità o la “bolla” è ormai scoppiata?
Non c’è dubbio che le criptovalute abbiano un grande potenziale e che ci troviamo ancora in una prima fase di sviluppo. Quando l’opinione pubblica parla di “bolla che scoppia” si riferisce al prezzo delle criptovalute, portato su livelli insostenibili dalla “moda” e dagli acquisti frenetici e seguito da un rapido declino. È quello che è successo al bitcoin diverse volte, l’ultima a fine 2017: nel 2014 il cambio di rotta è durato quasi 12 mesi. Ma si tratta di un processo dovuto alla speculazione, non all’innovazione. A differenza di cinque anni fa, però, l’ecosistema blockchain è più sviluppato. Se, invece di considerare la speculazione quotidiana sui token, ci concentrassimo sull’adozione della tecnologia in produzione, potremmo sicuramente affermare che nel lungo periodo la blockchain 56 |
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prenderà l’abbrivio. Ma è fondamentale distinguere fra valute digitali e “catena di blocchi”, considerandone l’utilizzo concreto. Come considera l'annuncio di Jp Morgan su una propria valuta digitale?
È sicuramente un indicatore importante delle potenzialità del fenomeno e non ne modifica la rilevanza solo perché il prezzo
del bitcoin fluttua. Ciò non toglie che le persone continueranno a speculare sulle criptovalute perché sono asset di valore. Il Jpm coin rappresenta comunque più un token che non una vera cryptocurrency e serve per mostrare l’utilità pratica della blockchain nell’ottimizzazione dell’infrastruttura finanziaria sottostante. Non vuole essere una nuova forma di denaro. Alessandro Andriolo
SMART CONTRACT ANCHE PER I FONDI I fondi di investimento di Gimme5 diventano intelligenti grazie ai contratti smart “scritti” sulla catena di blocchi. L’azienda impegnata nel risparmio gestito Acomea Sgr ha completato un test di sottoscrizione di quote di fondi comuni (e relativo pagamento) sfruttando la piattaforma blockchain FundsDlt di Fundsquare e le tecnologie Open Banking dell’ecosistema aperto Fabrick, promosso da Banca Sella. L’istituto di Biella fornisce il conto corrente di appoggio ad Acomea. Con questa sperimentazione è stato possibile semplificare l’esecuzio-
ne delle operazioni, dimostrando anche l’efficienza e l’economicità delle soluzioni digitali di nuova generazione. La tecnologia di Fabrick è stata scelta di recente anche da Bper Banca per offrire, soprattutto ai clienti più giovani, una serie di servizi da mobile particolarmente snelli e facilmente fruibili. A fare da sfondo il concetto di open banking, promosso dalla direttiva europea Psd2 sui pagamenti digitali che, tra le altre cose, obbliga gli istituti di credito della Ue ad aprire le proprie Api a terzi, come per esempio le startup del Fintech.
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UN BACKUP PIÙ SEMPLICE, VELOCE E AMICO DEL GDPR La piattaforma Rubrik ha consentito alla società di servizi di contact center di migliorare la gestione dei dati: tempi ridotti, minor impiego di risorse tecnologiche e piena conformità alle normative. LA SOLUZIONE Il software di Rubrik gestisce il backup su un’architettura che include soluzioni iperconvergenti di proprietà di Gruppo Ingo e risorse cloud (pubblico e privato) variabili. L’azienda ha introdotto macchine Rubrik della famiglia R3, configurate al massimo della capienza. L’utilizzo di un’unica console di controllo ha velocizzato e semplificato le attività di gestione dei dati.
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a sua specialità è aiutare le aziende a gestire le relazioni con i clienti, ma per farlo al meglio Gruppo Ingo ha dovuto cambiare il modo in cui conserva e protegge i propri dati. Si tratta di una realtà con sede a Milano e con 700 dipendenti, circa 300 aziende clienti e oltre 900 progetti in corso, portati avanti dalle sue tre controllate: Phonetica si occupa delle soluzioni di contact center, Intoowit è il fornitore di soluzioni tecnologiche, Oppplà è la società di web sales del gruppo. Recentemente è sorta l’esigenza di modificare l’approccio al backup su un’infrastruttura distribuita su diversi data center e per l’80% virtualizzata. I dati vengono archiviati per metà in una data farm iperconvergente e per metà in cloud privato. “I nostri principali bisogni”, sintetizza Christian Orlandi, chief operating officer di Intoowit, “erano di centralizzare l’infrastruttura di data management e far evolvere la stessa in modo da gestire su un’unica piattaforma i dati storicizzati e l’archiviazione consistente 58 |
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dei sistemi core della nostra organizzazione. La precedente situazione prevedeva l’utilizzo di array tradizionali localizzati nelle singole farm. Tale configurazione non permetteva più di svolgere operazioni adeguate ai nostri bisogni di centralizzazione e gestione del dato”. Accanto agli obiettivi di prestazioni e velocità nelle operazioni di backup e di generale semplificazione delle attività di gestione dei dati, l’azienda puntava ad altri due traguardi: l’ottimizzazione del cosiddetto “footprint” delle sale macchine (riduzione dello spazio fisico e dei consumi energetici) e l’aderenza agli standard di qualità e sicurezza (PCI/DSS e ISO/IEC27001) e al Gdpr. Il rispetto del regolamento europeo di recente introduzione è particolarmente importante per Gruppo Ingo, dato che le sue società gestiscono anche e soprattutto dati di altre aziende e dei loro clienti. Come fornitore di soluzioni tecnologiche interno al gruppo, Intoowit ha gestito l’intero progetto, a partire dalla scelta del vendor. “La soluzione Rubrik, oltre ad avere
tutte le funzionalità richieste, è quella che ci ha permesso di introdurre la tecnologia velocemente e realizzare gli step successivi semplicemente aumentando il numero dei dispositivi, senza rivedere alcuna configurazione iniziale”, racconta Orlandi. In una prima fase, durata poche settimane, la precedente soluzione è stata sostituita con la nuova piattaforma; si è poi proceduto con l’installazione di nuovi sistemi specifici per il backup. E sono stati raggiunti tutti gli obiettivi: un miglioramento delle prestazioni del backup del 50%, una forte riduzione del tempo da dedicare a queste procedure e annesse attività di gestione (da quattro ore a mezz’ora alla settimana), un drastico taglio delle risorse fisiche impiegate (da 20U a 2U), una più completa integrazione fra l’ambiente on-premise e il cloud (non solo per lo storage ma anche per il backup) e la piena conformità al Gdpr. Il software di Rubrik, infatti, cifra tutti i dati “a riposo” e quelli in transito e consente di creare report in facilità.
ECCELLENZE.IT | Iccrea Banca
ANALYTICS E COLLABORAZIONE TRASFORMANO LA BANCA Le soluzioni di Microsoft Power BI e Teams hanno migliorato i processi decisionali e il lavoro di squadra, supportando l’evoluzione della società, ora capogruppo per tutti gli istituti di credito cooperativo aderenti.
C
hi più di una banca ha bisogno di comprendere e tenere sotto controllo una miriade di dati differenti, dai quali trarre orientamento per le proprie strategie? Forse solo una banca che fa da raccordo e capofila a un insieme di altri istituti di credito, come quelli del Gruppo Bancario Cooperativo Iccrea. Con i suoi 4,2 milioni di clienti, tra aziende e privati, è la quarta holding del suo settore in Italia per attivi, 152,8 miliardi di euro, e la terza per numero di sportelli, con circa 2.650 filiali. Il timoniere di questa realtà è Iccrea Banca, nata negli anni Sessanta e dal 2016 diventata la capogruppo per tutte le banche di credito cooperativo aderenti. Per sostenere questo cambiamento, la divisione “Miglioramento Continuo e Innovazione” della società ha scelto di appoggiarsi alle tecnologie di Microsoft per diversi scopi: la produttività, in generale, ma soprattutto il miglioramento della capacità di analisi dei dati e il supporto allo smart working. Al primo obiettivo ha contribuito l’adozione della suite di Office 365, al secondo il software e servizio di analytics visuali Power
LA SOLUZIONE Microsoft Power BI è usato dalle Hr attraverso una dashboard di monitoraggio, su cui confluiscono dati relativi alle risorse umane. Il “cruscotto monetica”, invece, permette di analizzare la redditività dei prodotti delle banche del gruppo. Il project management usa la Business Intelligence per gestire progetti in più fasi, come quelli di conformità al Gdpr. Microsoft Teams è usato per il lavoro da remoto e si integra con Power BI, SharePoint, OneNote e con soluzioni di terze parti, creando un’unica piattaforma di comunicazione e collaborazione.
BI e al terzo la piattaforma di collaborazione Teams. Attraverso Power BI, in particolare, si puntava sia a rendere più efficienti i processi interni sia a fornire un orientamento alla trasformazione dell’identità e del ruolo di Iccrea Banca. Questo prodotto si è prestato poi alle finalità specifiche di tre divisioni aziendali: le risorse umane lo usano per monitorare e analizzare i dati di HR, gli agenti commerciali per fornire orientamento ai direttori generali delle banche del gruppo, l’area project management per gestire le iniziative più complesse. “Intendiamo fare in modo che Microsoft Power BI diventi nei prossimi anni uno strumento di lavoro quotidiano”, spiega Marco Distefano, manager Miglioramento Continuo e Innovazione della banca. “Oggi è normale aprire Outlook e le varie soluzioni di produttività individuale. Domani sarà ugualmente normale, per ogni manager, accedere a Power BI ogni mattina e avere subito a disposizione i dati necessari per il proprio lavoro, monitorando le eventuali problematiche e i Kpi”. Ma le ambizioni di Banca Iccrea guardano ancora oltre. “Per il futuro” aggiunge Distefano, “prevediamo di utilizzare la soluzione di Microsoft per sviluppare sistemi di predictive analytics, naturale evoluzione di quelli di Business Intelligence, integrando i dati aziendali con informazioni esterne all’organizzazione per rendere le decisioni coerenti anche con le evoluzioni del mercato”. L’uso di Microsoft Teams ha invece permesso di avviare nuove modalità di lavoro “smart”, anche da remoto, nonché di migliorare la collaborazione, la comunicazione e la gestione dei progetti condivisi. APRILE 2019 |
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ECCELLENZE.IT | InPost Italia
LOCKER PIÙ NUMEROSI, CLIENTI PIÙ SODDISFATTI La filiale italiana della società gestisce 350 armadietti automatizzati, che arriveranno a 600 entro un paio d’anni grazie all’hardware e ai servizi di Ricoh.
I
locker, o armadietti automatizzati per il ritiro dei pacchi, sono un’idea vincente in tutto il mondo: la soluzione al “problema dell’ultimo miglio” dell’ecommerce, dato che grazie a essi il cliente può recarsi quando vuole a recuperare il proprio acquisto nel punto più comodo. Uno dei protagonisti di questo mercato è la polacca InPost, la cui rete conta in una ventina di Paesi circa diecimila locker, in grado di ospitare complessivamente 100 milioni di pacchi. Attraverso le alleanze attivate con Poste Italiane e alla Rete Punto Poste, e servendo clienti del calibro di Avon, Decathlon, ePrive e Ibs, la filiale italiana della società gestisce oltre 350 armadietti sparsi lungo lo Stivale e punta ad arrivare a 600 entro il 2021. Obiettivo: garantire una maggiore capillarità, riuscendo così a migliorare il servizio e a rafforzare la fidelizzazione. InPost Italia necessitava, dunque, di un partner tecnologico che si occupasse sia dell’installazione sia della manutenzione dei nuovi dispositivi per lo storage e la consegna automatizzata dei pacchi: da qui la scelta dei servizi di Smart Lockers System Integration di Ricoh. “In Ricoh abbiamo trovato rilevanti competenze e know-how nella gestione di infrastrutture tecnologiche distribuite sul territorio”, racconta Gianluca Gabriele, country manager di InPost Italia. “Oltre a una capillare rete di assistenza tecnica, Ricoh offre scalabilità e flessibilità, nonché 60 |
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possibilità di personalizzare i servizi che ci offre sulla base delle nostre specifiche necessità. Inoltre, è un player internazionale con una forte presenza locale nei principali Paesi europei e questo per noi è fondamentale dal momento che ci stiamo espandendo e continueremo a farlo nei prossimi anni”. Un ulteriore criterio a favore della scelta di Ricoh è il fatto che la sua offerta includa assistenza tecnica e manutenzione preventiva, due elementi che assicurano il buon funzionamento degli armadi automatici (non solo riparando eventuali problemi, ma anche giocando d’anticipo per prevenirli). L’intero processo di consegna è ottimizzato, grazie alla semplificazione e all’automazione di molti passaggi: il corriere recapita il pacco, firmando su un terminale elettronico e inserendo un codice a barre nel locker dopo averlo acquisito via scanner; il software (Smart Locker Portal) riconosce l’articolo e, comunican-
do con il cloud, lo associa al cliente per inviare un’email di notifica contenente il codice di ritiro. “I locker stanno rivoluzionando il mondo dell’e-commerce, dando un nuovo impulso al mercato e diventando sempre più popolari tra gli operatori di questo settore”, assicura il country manager. LA SOLUZIONE Gli Smart Locker di Ricoh possono essere posizionati sia all’interno di edifici sia all’esterno. La privacy è completamente garantita, essendo il codice di ritiro (che l’utente riceve via email) univoco e personale. I dati sui pacchi in consegna, sui ritiri e sui clienti possono essere analizzati per migliorare e personalizzare l’offerta di servizi.
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MONDO DIGITALE
VETRINA HI-TECH HUAWEI MATE X Pieghevole e già pronto per il 5G: il Huawei Mate X non si fa mancare proprio niente. A partire dai due display da 6,6 e 6,38 pollici che, una volta affiancati grazie a un meccanismo brevettato dall’azienda cinese, vanno a formare un mini tablet da 8 pollici senza cornici. Tutti i componenti principali dello smartphone sono contenuti nella barra laterale: oltre alla tripla fotocamera, qui si trovano il chip Kirin 980 e il modem 5G Balong 5000. Secondo Huawei, il Mate X garantisce prestazioni di rete dieci volte superiori rispetto ai cellulari 4G. Il prezzo dell’innovazione siglata Huawei è ovviamente alto: 2.229 euro.
SAMSUNG GALAXY S10 I top di gamma di Samsung quest’anno si sono fatti in quattro: tanti sono i modelli portati sul mercato dalla casa sudcoreana (considerando anche la variante 5G). La versione più pregiata è incarnata dal Galaxy S10+: schermo Dynamic Amoled da 6,4 pollici con Infinity-O (che nasconde in un foro la doppia fotocamera frontale), fino a 1 TB di spazio di archiviazione, 8 GB di Ram e tripla fotocamera posteriore. Il dispositivo impiega per la prima volta un lettore di impronte digitali a ultrasuoni, che assicura una maggiore accuratezza del riconoscimento. Si parte da 1.029 euro. Chi vuole spendere meno può scegliere l’S10 “standard” (929 euro) o l’S10e (779 euro).
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SENNHEISER AMBEO SOUNDBAR È un vero e proprio oggetto di design e di arredamento la nuova soundbar Ambeo di Sennheiser. Disponibile da maggio al prezzo suggerito di 2.499 euro, questo sistema audio 5.1.4 è realizzato con una scocca in alluminio laccato e spazzolato che ospita 13 altoparlanti e una tecnologia di virtualizzazione sviluppata in collaborazione con l’istituto Fraunhofer Iis. Il sistema di calibrazione è intuitivo e, grazie al microfono esterno incluso, si adatta automaticamente e ottimizza l’acustica in base all’ambiente. La soundbar dispone di cinque modalità (film, musica, sport, news e neutra) e supporta soluzioni di connettività come Google Chromecast e Bluetooth.
APPLE IPAD AIR Con i suoi è 2.224x1.668 pixel di risoluzione e una nuova tecnologia di bilanciamento del bianco (True Tone), è il perfetto gadget multimediale di lusso. All’occorrenza però può trasformarsi in uno strumento di lavoro, se collegato alla Smart Keyboard o a una tastiera Bluetooth, o di creatività se si scrive a mano con la Apple Pencil. Leggerissumo e sottilissimo, racchiude in 456 grammi di peso (nella configurazione solo Wi-Fi) e in 6,1 millimetri di spessore un dispositivo dalle prestazioni migliorate del 70% rispetto ai precedenti modelli, grazie al chip A12 Bionic con motore neurale. Presenti il lettore d’impronta digitale e due fotocamere. Prezzi da 569 a 879 euro, a seconda dello storage (64 o 256 GB) e della connettività (solo Wi-Fi o Wi-Fi+Cellular).
AMAZON ECHO SHOW Un po’ tablet, un po’ altoparlante intelligente. L’Amazon Echo Show di seconda generazione è un dispositivo per l’intrattenimento domestico con le tipiche opzioni della linea Echo: riprodurre brani musicali, consultare le notizie, ascoltare le previsioni del meteo scandite dall’assistente virtuale Alexa e molto altro. Ma, a differenza dei tradizionali altoparlanti, e dà la possibilità di effettuare videochiamate grazie allo schermo touch Hd da 10 pollici e alla webcam integrata da 5 megapixel. L’Echo Show permette di controllare altri dispositivi connessi e dà accesso a tutto il catalogo di film e serie Tv di Amazon Prime Video. Costa 230 euro.
SONY LSPX-S2 Il Glass Sound Speaker di Sony è un diffusore Bluetooth e wireless che si può posizionare in qualsiasi angolo della casa. Compatibile con il formato Hi-Res Audio, è costituito da una colonna in vetro organico che integra tre attuatori per un’acustica a 360 gradi. Il dispositivo ha 32 livelli di luminosità e ha una modalità “lume di candela” per creare l’atmosfera adatta a qualsiasi occasione. Utilizzando Spotify Connect, infine, basta un pulsante per effettuare lo streaming di brani musicali. L’Lspx-S2 costa 600 euro.
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MONDO DIGITALE
VETRINA HI-TECH WIKO VIEW3 PRO Siete in cerca di un telefono che non si scarichi sul più bello? Il View3 Pro di Wiko garantisce un’autonomia di due giorni, grazie alla capiente batteria da 4.000 mAh con ricarica rapida. L’ottimizzazione energetica svolta dal processore, inoltre, può ridurre i consumi del 15%. Lo smartphone, pur collocandosi nella fascia media del mercato, offre un ampio schermo Fhd+ da 6,3 pollici con notch a goccia (la “tacca” frontale che ospita la fotocamera), fino a 128 GB di spazio di archiviazione e un massimo di 6 GB di Ram. I prezzi partono da 249 euro.
PANASONIC LUMIX S1R Con un sensore da 47,3 megapixel, la nuova fotocamera mirrorless full-frame di Panasonic non teme confronti sulla risoluzione delle immagini. Ma il limite dei 47,3 megapixel è solo teorico, perché la modalità High Resolution, che unisce le informazioni registrate in otto scatti consecutivi, permette alla Lumix S1r di arrivare a ben 187 megapixel. Le nuove microlenti asferiche su ogni pixel migliorano la capacità del sensore di catturare la luce, in modo da mantenere basso il rumore anche ad alti valori Iso (massimo 25.600).
ACER TRAVELMATE X514-51 L’ultima proposta di Acer per il business è pensata soprattutto per le persone che devono lavorare in mobilità. Lo schermo da 14 pollici Full Hd del Travelmate X514-51 è circondato da cornici abbastanza sottili, mentre le leghe di magnesio-litio e magnesioalluminio della scossa hanno permesso al produttore di contenere il peso del notebook (980 grammi). Internamente trovano posto Cpu Intel Core i7 di ottava generazione, fino a 16 GB di Ram e storage a stato solido. La tastiera è retroilluminata, per poter lavorare comodamente anche in ambienti bui. La configura zione base costa 999 euro.
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FITBIT VERSA LITE EDITION La versione “ridotta” del popolare smartwatch Fitbit Versa offre tutte le principali specifiche del fratello maggiore: rilevamento automatico dell’attività fisica, monitoraggio del battito cardiaco e delle fasi del sonno, 15 modalità di allenamento basate su obiettivi, Gps condiviso e interazione diretta con lo smartphone a cui viene collegato. La batteria dura oltre quattro giorni. Che cosa manca, quindi, in questa versione? L’altimetro, la registrazione delle vasche durante l’allenamento in piscina, il chip Nfc e l’archiviazione di brani musicali da Pandora e Deezer. Caratteristiche trascurabili, per 159 euro.
NOKIA 9 PUREVIEW Se tre fotocamere posteriori in un cellulare possono sembrare troppe (nonostante siano ormai diventate quasi uno standard), che dire di cinque? Nokia ha voluto esagerare e, riconfermando la storica collaborazione con Zeiss, ha sviluppato un blocco ottico da prima della classe. Ogni foto scattata dal Nokia 9 Pureview è in Hdr, con tutti e cinque i sensori che lavorano insieme per migliorare la qualità dell’immagine: tre sono monocromatici e gli altri due lavorano sui colori. Lo smartphone dispone di uno schermo 2K pOled da 5,99 pollici e di ricarica wireless. Costa 649 euro.
XIAOMI MI 9 Ancora una volta Xiaomi ha puntato sul prezzo per rendere il più possibile appetibili i propri modelli. Il Mi 9, malgrado sia proposto a 449 euro, non ha nulla da invidiare ai marchi più blasonati. A bordo dello smartphone si trovano 6 GB di Ram, fino a 128 GB di storage, chip Qualcomm Snapdragon 855, schermo Amoled Full Hd da 6,4 pollici con lettore di impronte digitali integrato, tripla fotocamera posteriore (con sensore principale da 48 megapixel), Usb-C e tecnologia di ricarica rapida senza fili.
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