Technopolis 39

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NUMERO 39 | GIUGNO 2019

STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

LA SCOPERTA DELLA TRASFORMAZIONE STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

Opportunità e rischi della digital transformation per imprese, cittadini e istituzioni. Le testimonianze di chi la sta analizzando e di chi l'ha già affrontata.

INDUSTRY 4.0 GIUGNO 2019

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La fabbrica intelligente è una realtà ancora sfocata: un'impresa manifatturiera italiana su quattro al momento la snobba.

API ECONOMY

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Molte banche sono ancora lontane dal diventare "open". Un processo che richiede di aprire dati e interfacce all'esterno.

I DATI VALGONO

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A un anno dall'entrata in vigore del Gdpr, l'intervista a Giovanni Buttarelli, Garante europeo della protezione dei dati.


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SOMMARIO 4 STORIA DI COPERTINA STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

N° 39 - GIUGNO 2019 Periodico mensile registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012 Direttore responsabile: Emilio Mango Coordinamento: Gianni Rusconi Hanno collaborato: Alessandro Andriolo, Piero Aprile, Valentina Bernocco, Roberto Bonino, Andrea di Pretoro, Maurizio Decina, Massimiliano Dragoni, Carlo Fontana, Roberto Masiero, Maurizio Montagna, Paolo Tasca, Elena Vaciago Progetto grafico: Inventium Srl Foto e illustrazioni: Istockphoto, Adobe Stock Images, Shutterstock

la scoperta della trasformazione

“La tecnologia è solo un elemento abilitante”

Milano metropoli digitale al servizio del cittadino

11 IN EVIDENZA

Frammentazione e ritardo tecnologico, l’italia digitale paga dazio

Lo spazio di lavoro è integrato e in cloud

“Gli hacker vivono tra noi”

L’open source alla conquista della Pubblica Amministrazione

I dati sono un patrimonio, ma vanno usati in modo intelligente

21 ITALIA DIGITALE

Una roadmap per il sistema Paese 4.0

24 INDUSTRIA 4.0

La fabbrica intelligente è ancora lontana

29 BANKING

Api economy cercasi

La banca aperta fa crescere i ricavi

40 EXECUTIVE ANALYSIS

Documenti al passo con la trasformazione

44 STARTUP & PMI INNOVATIVE Editore e redazione: Indigo Communication Srl Via Correggio, 48 - 20149 Milano tel: 02 36505844 www.indigocom.it Pubblicità: Economy Srl tel: 02 89767777 Stampa: Rotolito - Pioltello (MI) © Copyright 2019 Indigo Communication Srl Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati. Pubblicazione ceduta gratuitamente.

Il venture capital italiano promette bene

Trentino hi-tech fra natura e scienza

49 GDPR

Il ritorno economico della protezione dei dati

56 INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Capire l’AI per imparare a controllarla

62 ECCELLENZE

Regione Sicilia - Avaya

Fondazione Cineteca Italiana - Zebra

Azienda Dolciaria Forno Bonomi - Vertiv

Fondazione Telethon - Nutanix


STORIA DI COPERTINA

LA SCOPERTA DELLA TRASFORMAZIONE L'uomo è l'anello debole nell'evoluzione digitale. Servono cultura e soft skill per gestire un processo potenzialmente dirompente ma allo stesso tempo rischioso per imprese e persone.

U

na cosa è sicura: la Digital Transformation non è un semplice trend tecnologico, per quanto di grande impatto per le aziende, come sono stati la virtualizzazione e il cloud. Siamo di fronte a un fenomeno che abbraccia non solo il mondo delle imprese o della Pubblica Amministrazione, ma anche le dinamiche della società. Per qualsiasi tipo di azienda trasformarsi in senso digitale non significa semplicemente digitalizzare, come viene ripetuto ormai fino alla noia, bensì implica un cambiamento radicale dei modelli, dei processi, dell’utilizzo delle risorse (anche umane) e degli obiettivi. E non bastano gli ormai logori esempi di casi eclatanti (Netflix contro Blockbuster, Instagram contro Kodak, e poi naturalmente Airbnb, Uber, Ama4

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zon) per spiegare come le organizzazioni debbano essere radicalmente ripensate. Qui siamo di fronte a un fenomeno globale e radicale, che oltretutto, se non ben gestito, rischia di mettere in pericolo il welfare anziché aumentarlo come invece i più ottimisti vorrebbero. Ma andiamo con ordine e osserviamo un paio di macro fenomeni sempre più evidenti. Il primo riguarda la capacità dell’individuo di comprendere e governare la tecnologia. I fenomeni legati allo sviluppo dell’uomo sono in gran parte lineari, crescono cioè a un ritmo che a tratti può essere anche veloce, che può avere delle discontinuità (come quelle introdotte con l’invenzione della ruota o della stampa a caratteri mobili) ma che è sempre sostenibile. La tecnologia, invece, pur essendo frutto dell’attività umana

progredisce molto più velocemente, con scala esponenziale. Ne è un esempio la famosa legge di Moore, secondo la quale, per lungo tempo, i microprocessori hanno raddoppiato le loro prestazioni ogni anno e mezzo, con una curva di crescita molto più ripida rispetto ai fenomeni “umani”. Questa discrepanza tra evoluzione umana (lineare) e crescita tecnologica (esponenziale) porterà, secondo studiosi come Raymond Kurzweil, a un momento di “singolarità” in cui la tecnologia trascenderà le capacità del nostro cervello. Un cervello che però, nel frattempo, risulterà potenziato proprio dalle capacità computazionali delle macchine digitali, e questo trascinerà la civiltà in un crescendo di cui nessuno può prevedere l’esito. La seconda macro tendenza che osser-


viamo è la crescita del welfare rispetto al progresso tecnologico. Qui le opinioni si fanno più sfumate, ma molti analisti sostengono che le conquiste della tecnologia non abbiano affatto migliorato il benessere dell’uomo medio, bensì abbiano contribuito ad aumentare il divario tra chi possiede molto (i tycoon, una categoria che oggi conta numerosi imprenditori del settore hi-tech) e chi poco. È uno scenario affascinante ma anche inquietante, uno scenario in cui le strategie aziendali si innestano e in molti casi anticipano problemi e soluzioni di questa “corsa” allo sviluppo digitale. Così, in un periodo relativamente breve, il modello di azienda vincente si è trasformato da grande a piccolo, da solido a veloce, da strutturato a flessibile, da tradizionale a “ecosistemico”. Le imprese di successo moderne non cercano più di produrre gli oggetti o i servizi necessari ai clienti, ma semplicemente (se così si può dire) di accontentare i loro bisogni portando i beni e i servizi vicino alle persone. È il caso, in senso figurato, di Airbnb e Uber, che sfruttano piattaforme digitali per mettere a contatto domanda e offerta senza possedere alcun asset tangibile se non la piattaforma stessa e i dati dei clienti. Ma è anche il caso, meno figurato, dei food deliver o di Amazon, i quali portano a casa del cliente, efficientemente e rapidamente, i beni fisici realizzati da altri, anche in questo caso utilizzando a piene mani il digitale. Il cambiamento epocale degli ultimi anni è legato a doppio filo al progresso tecnologico, quel progresso che recentemente ha delineato scenari come l’Internet of Things, la realtà aumentata, la robotica smart e l’intelligenza artificiale. Tecnologie che hanno potenzialità ancora più dirompenti delle precedenti e che sono al contempo la più impegnativa sfida e la più grande opportunità per le imprese e per l’uomo. Emilio Mango

INSEGNIAMO IL DIGITALE DEMOCRATICO Nathan Furr, professore presso Insead, è stato il keynote speaker del Wobi on Digital Transformation, tenutosi a Milano a fine marzo. Nonostante l’aspetto giovanile, segue da decenni i processi di cambiamento e innovazione di aziende come Google, At&t e Johnson & Johnson, aiutandole a ottimizzare i propri sforzi tecnologici. Technopolis lo ha incontrato per capire meglio le dinamiche della trasformazione digitale. Professor Furr, che importanza ha l’intelligenza artificiale nel processo di trasformazione?

Produrrà un grande impatto nel lungo periodo, avendo in sé il potenziale di cambiare il mondo esattamente come ha fatto Internet. Il problema semmai è il breve termine: i leader dovrebbero evitare di abbracciare l’AI senza condizioni o cognizione di causa, scegliendo invece con cura che cosa portare in azienda e che cosa lasciare fuori dalla porta. Quindi le macchine non sostituiranno l’uomo?

L’AI deve aumentare le capacità umane, non sostituirle. È la tecnologia che deve servire l’uomo e non viceversa. Come dicevo, sono molto ottimista ma nel breve termine qualche rischio sicuramente c’è. A che cosa si riferisce esattamente?

Al fatto che la tecnologia nel breve termine potrebbe aumentare diseguaglianze e ingiustizie. Per questo la società e i singoli governi devono seguire il fenomeno della trasformazione e dominarlo, in modo che la tecnologia possa essere usata per

Nathan Furr

redistribuire le risorse e non per concentrarle di più. Sul fronte delle imprese ci sono già dei bellissimi casi di successo, come la gallese Hiut Denim, produttore di abbigliamento che, dopo la chiusura delle fabbriche a Cardigan, ha assunto tutte le persone che operavano con le macchine per lavorare i capi a mano. Un esempio controcorrente...

Sì, ma non un caso isolato. Noi di Insead insegniamo alle persone a sfruttare la potenza della tecnologia per risolvere i problemi della società, non per crearne di nuovi. Abbiamo aperto una filiale ad Abu Dabi dove, nel totale rispetto reciproco di culture diverse, mettiamo la dignità delle persone, e non la loro ricchezza economica, al primo posto. Tornando alle aziende, quale sarà il prossimo modello organizzativo vincente portato dalla trasformazione?

Sarà probabilmente l’evoluzione dell’ecosistema, quello che io chiamo “ecosistema adattativo”: un’organizzazione che fa leva su differenti tipologie di partner, comprese le startup.

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STORIA DI COPERTINA

LE IMPRESE ITALIANE: OBIETTIVI, PERCORSI, PREFERENZE

C

ustomer experience e crescita del business sono gli obiettivi che spingono le aziende ad avviare al proprio interno importanti percorsi di trasformazione digitale. La presenza di digital pure-player nella quasi totalità dei settori merceologici, sia che vendano essi stessi prodotti o servizi (finanziari, media) sia che mettano a disposizione di terze parti piattaforme in grado di aggregare domanda e offerta (come Airbnb, Amazon, e Booking) sta portando le aziende a dover ripensare profondamente il proprio business e la propria relazione con i clienti. Questi ultimi, in particolare, sono stati abituati dai nuovi digital player a tempi di risposta ridotti, a una user experience più facile e gradevole, a costi ridotti e a un livello di servizio elevato. Ma quanto le aziende italiane sono pronte a cambiare? Si stanno effettivamente organizzando per portare a termine questo passaggio? Secondo i risultati della “Dbt Survey 2019” di The Innovation Group (condotta tra dicembre 2018 e febbraio 2019 su un campione di 187 aziende italiane di diversi settori di mercato), i modelli di business sono già oggi fortemente impattati. Chiedendo infatti alle aziende quanto il modello di business fosse cambiato negli ultimi anni, nel loro settore di riferimento, come conseguenza della Digital Transformation, la risposta è stata “tra molto e moltissimo” per quasi un’azienda su due. Solo il 28% ha affermato che il cambiamento sia stato minimo. Il problema è che, se andiamo a vedere quanto le imprese 0

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Nella sua azienda è stata formalizzata una strategia generale di Digital Business Transformation? 2,9% 7,6% 21,9%

25,7%

41,9%

SÌ, ATTRAVERSO TUTTA L’ORGANIZZAZIONE SÌ, MA SOLO PER ALCUNI AMBITI DELL’AZIENDA NO, MA STIAMO LAVORANDO AL DISEGNO DI QUESTA STRATEGIA NO NON SO

nuove iniziative si registrano, poi, in si stiano attrezzando per rispondere a di applicazione dei progetti 4.0 tutto l’ambito dell’intelligenza artifiquesta sfida,Gli soloambiti una su quattro ha un ciale e del machine learning, strumenti piano generale di trasformazione digitaconsiderati sempre più fondamentali le, mentre per il 42% il progetto Big Data Analyticsesiste per rimanere competitivi nel mercato. ma riguarda solo alcune aree dell’azienRobotics Soluzioni come il riconoscimento di da. voce, immagini e video, il natural lanGuardando agli attuali cantieri di innoPiattaforma Iot guage processing, gli agenti e i chatbot, vazione aperti nelle aziende si osserva, le simulazioni avanzate, le predizioni da un lato, un uso sempre più spinto Cybersecurity analitiche, e altro ancora, si stanno del cloud computing (sia nella modalità Ai - Cognitive Computing via via diffondendo seppure ancora in di Software-as-a-Service sia come Inframodo iniziale. I vantaggi dell’AI sono structure-as-a-Service eSmart Platform-as-aSensor molteplici: dall’automazione dei proService) per raggiungere gli obiettivi di Altro cessi decisionali al miglioramento deltime-to-market più rapido e digitalizzala customer retention, passando per il zione spinta che in molti si pongono. più rapido di anomalie Architetture e ambienti applicativi0fles-10 20 30 40rilevamento 50 60 70 80 100%e frodi. Una più ampia diffusione dell’AI sibili sono poi alla base di una inedita dovrà però basarsi sulla disponibilità di velocità e un diverso orientamento al strumenti che ne facilitino l’adattacliente: da qui le iniziative (che già oggi mento al singolo contesto: trovare oggi riguardano la maggioranza delle azienesperti in grado di sviluppare soluzioni de intervistate da Tig, e che in prospetspecifiche per la singola azienda è estretiva aumentano nel 2019) per l’innomamente difficile. vazione dello sviluppo del software e Elena Vaciago, associate research le nuove metodologie Agile e DevOps. manager, The Innovation group Una crescita elevata d’interesse e molte 100


STORIA DI COPERTINA

Per Michael Dell, hardware e software sono un fattore necessario, e per certi versi scontato, per la trasformazione. L’elemento strategico è invece la capacità di reinventare la propria azienda. Come ha fatto lui.

“LA TECNOLOGIA È SOLO UN ELEMENTO ABILITANTE”

I

n occasione del Dell Technologies World, tenutosi a Las Vegas tra aprile e maggio, Technopolis ha intervistato dal vivo Michael Dell, per avere un distillato delle strategie dell’azienda che porta il suo nome e per capire come un grande vendor tecnologico gestisca la propria trasformazione digitale, prima ancora di quella dei clienti.

da implementare e gestire. Sotto questo profilo, oggi il messaggio chiave è che Dell è il partner migliore per le aziende che affrontano la trasformazione digitale, perché ha un’offerta integrata che va dai client all’edge computing, dalle architetture convergenti al cloud.

Qual è la missione di Dell oggi, dopo l’integrazione di Emc e poi quella di Vmware?

La trasformazione digitale è un percorso in cui non ci si può mai vantare di essere arrivati, quindi non direi che Dell ha concluso il suo processo: i nostri clienti interni sono contenti, ma non ancora soddisfatti. Detto questo, abbiamo verificato in prima persona che la capacità più importante è sicuramente quella di riuscire a reinventarsi (nell’organizzazione, nei processi, nell’offerta), mentre l’uso di tecnologie innovative è un ele-

Tutto ciò che abbiamo fatto negli ultimi anni e che stiamo facendo è ispirato dai clienti, dalla relazione con loro. Il loro feedback è ciò che guida la nostra strategia. Il dato più evidente è che i clienti non vogliono più fare i system integrator per le loro stesse soluzioni, ma chiedono architetture efficienti, flessibili e facili

Per primi avete affrontato la vostra trasformazione digitale. Quali lezioni avete imparato e potete trasferire ai clienti?

mento che bisogna dare per scontato, è “solo” un abilitante. Quanto è importante, quindi, il fattore umano?

Il successo della trasformazione digitale dipende sempre dalle persone, e il fattore culturale è determinante. Io penso che uno dei segreti stia nel saper gestire la paura, nella trasformazione di questo stato emotivo in unascossa adrenalinica, in uno stimolo a fare sempre meglio e a cercare sempre qualcosa di ulteriore e nuovo. Bisogna navigare nel cambiamento e noi lo facciamo sia con progetti innovativi (in tutte le aree, dal marketing, alle vendite, ai prodotti) sia con risorse fresche: oltre il 25% dei neoassunti in Dell proviene dalle università, un mondo che porta sempre nuove idee ed energie. Emilio Mango GIUGNO 2019 |

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STORIA DI COPERTINA

IL CLIENTE AL CENTRO Lenovo è un’azienda complessa: si muove su mercati diversi, serve sia clienti consumer sia business, agisce a livello globale. Per questo, anche se la tecnologia è la sua specialità, accompagnarla nella trasformazione digitale non dev’essere un compito facile. Ne sa qualcosa Paul Walsh, il chief digital officer della multinazionale. “Il mio ruolo”, dice Walsh a Technopolis, “prevede, tra le altre cose, di saper trovare e risolvere le frizioni del sistema, riconoscendo la massima priorità al customer journey e quindi alla relazione con il cliente. In una trasformazione intelligente l’obiettivo ultimo dev’essere quello di usare bene i dati per comprendere i consumatori, impiegando sapientemente il mix di digitale e fisico. E non è solo un fatto di marketing: è importante comunicare ma è anche

Paul Walsh

importante esserci quando il cliente ha bisogno”. Un approccio umano-centrico, quindi. Ma tecnologie come l’intelligenza artificiale che ruolo hanno?

Credo che l’intelligenza artificiale sia uno strumento importante: ci sono già molti dati oggi sul pianeta, il 90% dei quali è stato generato negli ultimi due anni. Nessun umano può gestire

L’UMANITÀ AUMENTATA

Marco Fanizzi “Sap non è mai stata timida nell’affrontare l’innovazione: siamo stati i primi a fare Erp e i primi a introdurre Internet nelle applicazioni”. A dirlo è Steve Tzikakis, president Emea South della multinazionale, in occasione del Sap Executive Summit di Cernobbio tenutosi a marzo. Il tema della trasformazione digitale è centrale nella sua strategia, ma l’accento (ancor più che per altri vendor tecnologici) è sul fattore umano. “Non abbiamo mai fatto innovazione per compiacere i tecnici”, ha detto Tzikakis, “ma per migliorare la vita delle persone. È per questo, ad esempio, che parliamo di umanità

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questi volumi di dati, solo l’AI può identificare i pattern e aiutarci a capire più velocemente e rispondere alle esigenze dei clienti. Ma anche in questo caso l’uomo non passa in secondo piano: guardiamo ai bot, una soluzione sempre più diffusa. Sono usati in tutti i mercati, ma secondo me il segreto è capire quando il cliente voglia interagire con una macchina e quando con un essere umano. A proposito di uomini, quante persone lavorano nel suo team?

Non parlerei di team. Io lavoro con tutta l’azienda perché tutti sono coinvolti nella trasformazione. I ruoli come i miei sono cross-region, crossmarket, cross-function. Devo fare in modo che tutti i dipendenti partecipino all’adozione del digitale. Il concetto di customer journey vale anche all’interno di Lenovo.

Steve Tzikakis aumentata e non di intelligenza artificiale. Ed è per questo che negli ultimi anni, dopo aver raggiunto la leadership nelle attività di back-office, ci siamo dedicati a migliorare l’interfaccia con il cliente”. Coerentemente con questa visione umano-centrica dei processi di trasformazione digitale, l’anno scorso Sap ha promosso in Europa un panel aperto a contributor esterni e dedicato ai temi etici dell’intelligenza artificiale. “Ma non è solo un’attenzione speculativa quella che dedichiamo all’uomo”, conclude Tzikakis. “Lavoriamo da anni per migliorare l’esperienza del cliente e il livello di intimità tra azienda e con-

sumatore. L’acquisizione di Qualtrics, completata a gennaio di quest’anno, ci ha dato uno strumento in più per capire dai dati quali siano le azioni di marketing più corrette in funzione della soddisfazione del cliente”.


MILANO METROPOLI DIGITALE AL SERVIZIO DEL CITTADINO

È

anche grazie a Roberta Cocco, assessore alla trasformazione digitale del Comune di Milano, se la città è per molti versi un’isola felice della tecnologia al servizio del cittadino. Technopolis l’ha incontrata per capire le dinamiche di trasformazione della Pubblica Amministrazione.

Roberta Cocco

Qual è la sua visione del livello di innovazione raggiunto dalla PA in Italia?

Il problema dell’innovazione è un problema annoso. Tanti hanno provato a risolverlo ma la trasformazione digitale non è entrata nelle agende dei nostri Governi (indipendentemente dal colore politico) per molti anni, mentre altri Paesi mettevano la tecnologia al centro dei loro programmi. Da qualche anno c’è stato un cambio di tendenza e la digitalizzazione è vista come una leva di crescita dell’economia. Siamo comunque indietro di un decennio rispetto alle nazioni europee più avanzate.

app in cui confluiscono le interazioni tra cittadino ed enti pubblici. E il Comune di Milano che ruolo ha avuto in tutto questo?

Milano ha scelto di essere il motore dell’Italia anche sul fronte digitale. Ci hanno offerto di diventare un’area di sperimentazione, un laboratorio di questi progetti. E come è andata?

Qual è stato il punto di svolta?

Due anni e mezzo fa il commissario straordinario per il digitale, Diego Piacentini, ha avuto il merito di identificare i quattro progetti prioritari, che avrebbero potuto in poco tempo accelerare la digitalizzazione, scatenando un circolo virtuoso a cui poi i comuni avrebbero potuto agganciarsi. I quattro progetti scelti erano già definiti prima, ma da anni erano in stato comatoso: l’anagrafe nazionale unificata (Anpr), il Sistema Pubblico d’Identità Digitale (Spid), il sistema Pago PA e l’applicazione IO, un’unica

Diciamo che inizialmente non c’è stato un grande entusiasmo. Ma sono stata sostenuta dai vertici amministrativi e tecnici del mio Comune. Con Pago PA abbiamo introdotto i pagamenti digitali per Tari, tasse scolastiche e infine multe. Per portare avanti il progetto relativo all’anagrafe abbiamo migrato 1,4 milioni di schede anagrafiche in un fine settimana, senza sospendere nemmeno per un giorno i servizi al cittadino. A fine mandato concluderemo anche il progetto Spid. Tutto questo è iniziato con Piacentini ma sta proseguendo anche con Luca Attias.

Quali sono stati i pilastri su cui si è basata questa sperimentazione?

Oltre al supporto del nostro sindaco, sono state strategiche le infrastrutture tecnologiche (come il 5G, già acceso in città), l’educazione digitale dei cittadini e le digital skill, che stiamo curando anche con progetti come quello di “Steam in the city”, i quali ci danno modo di far conoscere il valore della tecnologia e delle competenze ad essa correlate. Ho anche voluto fortemente una serie di partnership con le eccellenze mondiali nell’ambito della Pubblica Amministrazione: la città di Tallin per l’identità digitale, Stoccolma per la cashless society, Telaviv per la sicurezza, Barcellona per le piattaforme di partecipazione, Amsterdam per i sistemi digitali rivolti ai cittadini. Non un “concorso di bellezza”, ma una forma di aiuto reciproco tra città con un Dna tecnologico, per accelerare i tempi della trasformazione e migliorare la vita dei cittadini. E.M.

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IN EVIDENZA

l’analisi

FRAMMENTAZIONE E RITARDO TECNOLOGICO, L’ITALIA DIGITALE PAGA DAZIO Dal Governatore della Banca d’Italia e dal ministro della PA sono arrivati messaggi chiari sui difetti latenti del Paese. Che la Ue certifica.

“L’Italia ha risposto con ritardo alla rivoluzione tecnologica e ne ha risentito marcatamente la crescita economica. Ai settori che compongono l’economia digitale è oggi riconducibile il 5% del totale del valore aggiunto, contro circa l’8% della Germania e una media del 6,6% dell’Unione europea”. L’allarme lanciato di recente dal Governatore della Banca D’Italia, Ignazio Visco, in occasione della relazione annuale sul 2018, non lascia molti dubbi di sorta. Il Paese è partito (colpevolmente) troppo piano nella rivoluzione digitale rispetto ad altre nazioni, e questo ha comportato conseguenze tangibili di mancata crescita. Il ritardo abbastanza generalizzato, secondo l’analisi di Bankitalia, riguardando “quasi tutte le finalità per cui le imprese possono adottare tecnologie innovative, dall’automazione della produzione allo sviluppo delle reti di telecomunicazione di nuova generazione”. C’è, secondo Visco, un problema di “struttura produttiva frammentata, in gran parte composta da aziende piccole, con un alto grado di sovrapposizione tra proprietà e gestione, poco aperte a innesti esterni di capitale, tecnologia e professionalità”. Nel 2017 meno di un quinto delle imprese tra 20 e 49 addetti aveva adottato almeno una tecnologia avanzata come robotica e intelligenza artificiale, la quota sale a un terzo tra le medie imprese e supera la metà per quelle con 250 dipendenti o più.

Altro fronte caldo, che da anni mette in ombra le politiche di digitalizzazione del Paese, è il ruolo svolto dalla PA nell’introduzione delle nuove tecnologie. Il giudizio di Bankitalia si riassume in un aggettivo, “contenuto”, e riflette l’indice di sviluppo dei servizi digitali elaborato dalla Commissione europea, che piazza l’Italia al 19esimo posto a livello Ue. Sulla stessa lunghezza d’onda di Visco si era espresso, qualche settimana prima, anche il ministro della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, che auspicava un ministero ad hoc per il digitale come leva necessaria far ripartire l’Italia secondo una strada ben delineata. “Abbiamo un piano triennale (quello dell’Agid, ndr) e dobbiamo evitare frammentarietà, perché nella PA non si condividono i dati. Siamo all’anno zero e stiamo ancora partendo, e nonostante ci sia una situazione di evidente ritardo ci sono dei segnali confortanti e delle iniziative che lasciano ben sperare”.

Prese di posizioni importanti, quelle di Visco e della Bongiorno, sicuramente condivisibili ma che ci riportano ancora una volta indietro di qualche anno. Nelle posizioni di rincalzo siamo infatti anche nell’edizione 2019 del “Desi”, l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società elaborato dalla Commissione europea. L’Italia è in 24esima posizione fra i 28 Stati membri e resta al di sotto della media Ue in materia di connettività e servizi pubblici digitali. Affidabili o meno, le rilevazioni dell’organismo di Bruxelles ci dicono a chiare lettere che le virtù in tema di disponibilità dei servizi pubblici online, dei servizi medici digitali, degli open data, di copertura e utilizzo della banda larga veloce sono offuscate da altrettanti difetti. Quali? Le competenze digitali, in primis. Tre persone su dieci non utilizzano Internet abitualmente e oltre la metà della popolazione non possiede conoscenze informatiche di base, e tale carenza influenza in negativo l’accesso ai servizi online e la propensione (ancora limitata) alle vendite via Web da parte delle Pmi. Dopo un quinquennio di tentativi più o meno apprezzabili, almeno sulla carta, i vessilli dell’attuale esecutivo sono il mantenimento del piano Impresa 4.0 e il sostegno alla strategia per la crescita digitale. Per migliorare la situazione del Paese, come si può evincere dal “Desi”, di strada da fare ce n’è parecchia. Gianni Rusconi

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IN EVIDENZA

TRAFFICO INARRESTABILE Ericsson rivede al rialzo le stime sull’impatto del 5G. Le reti mobili di quinta generazione saranno un successo molto più rapido del previsto, con 1,9 miliardi di sottoscrizioni attive già a partire dal 2024. Rispetto alle previsioni di fine 2018, si tratta di un aumento del 27%. Considerando tutti gli abbonamenti “umani”, escludendo quindi le connessioni riguardanti l’Internet delle cose (oltre che gli accessi su rete fissa), nel 2024 avremo circa 8,8 miliardi di utenze riconducibili a 6,2 miliardi di persone, delle quali appunto 1,9 miliardi saranno in 5G. Fra cinque anni, inoltre, circa il 65% della popolazione mondiale sarà raggiunta da copertura di rete di quinta generazione nella propria area geografica di residenza, e su questo standard viaggerà il 35% del traffico dati mobile globale. Tra il 2018 e il 2024, secondo i calcoli elaborati da Ericsson, il quantitativo di informazioni generato da smartphone, tablet e altri dispositivi crescerà con incrementi del 30% annuo. In questo arco temporale, la quota riferita ai video passerà dal 60% al 75%.

SMARTPHONE A SEGNO MENO

Nessuno sa come potrà evolversi la condizione di Huawei, azienda “incastrata” nella guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, ma una cosa al momento è certa: nel primo trimestre del 2019 la casa di Shenzhen è stata la campionessa del mercato degli smartphone. La crescita anno su anno delle consegne effettuate dal colosso asiatico è stata impressionante: più 50,3%. Una prestazione che gli è valso il secondo posto stabile, con una quota del 19%, prima di Apple e dopo Samsung. I numeri di Huawei sono ancora più brillanti se considerati nel contesto generale. Secondo Idc, il settore degli smartphone è crollato a volume del 6,6%, per 310,8 milioni di dispositivi consegnati contro i 332,7 milioni del

E-COMMERCE, VINCE IL MOBILE Lo smartphone è il cavallo vincente dell’e-commerce. Nel 2019 gli acquisti online di prodotti e servizi effettuati dagli italiani tramite cellulare genereranno il 40% dei ricavi totali di un mercato che smuoverà complessivamente 31,5 miliardi di euro (il 15% in più rispetto al 2018). I dati dell’Osservatorio eCommerce

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B2c della School of Management del Politecnico di Milano, elaborati con Netcomm, certificano la buona salute del comparto e buone prestazioni soprattutto per l’agroalimentare e l’arredamento, in crescita rispettivamente del 39% e del 26%. A valore, il primo settore rimarrà quello del turismo: 10,8 miliardi di euro.

primo trimestre del 2018. Una tendenza negativa iniziata già nel 2017 e proseguita senza sosta. A pesare, paradossalmente, è stato sempre più il mancato traino della Cina, Paese in cui le vendite si sono ridotte del 15%. Evidentemente, Huawei ha trovato terreno fertile in altri mercati. Tra gennaio e marzo Samsung è rimasta in vetta, con un market share stabile del 23,1% ma con volumi in calo dell’8,1%. Al terzo posto Apple: gli iPhone hanno subìto un tracollo del 30,2%, che ne hanno limato le quote a volume all’11,7%. Idc, comunque, pronostica una ripresa nella seconda metà dell’anno sulla spinta del 5G. Complessivamente, per gli smartphone il 2019 si chiuderà con una flessione dell’1,9%.


LO SPAZIO DI LAVORO È INTEGRATO E IN CLOUD Una piattaforma unica che garantisca accesso sicuro alle applicazioni: è l'idea di Citrix per il "digital workplace". Un dipendente di una media azienda utilizza ogni giorno undici applicazioni differenti, ma solo una piccola parte delle funzionalità disponibili viene effettivamente sfruttata. Una multinazionale, invece, ha 500 software a catalogo: un vero e proprio “caos digitale” che, alla lunga, rischia di ridurre il coinvolgimento delle persone. Per provare a cambiare questa situazione, Citrix ha voluto infondere la giusta dose di “intelligenza” al proprio pacchetto di soluzioni per lo spazio di lavoro digitale: il risultato è una piattaforma in cloud che fornisce accesso sicuro e un’interfaccia unificata per applicazioni e contenuti. In Citrix Workspace sono presenti 150 integrazioni con le più popolari soluzioni enterprise, come Outlook, Salesforce e G Suite. Ogni software viene di fatto “scomposto” in micro applicazioni, che diventano unità di lavoro personalizzate e personalizzabili. La novità, presentata alla conferenza Synergy di Atlanta, è un segnale importante di trasformazione

per Citrix: il vendor ha progressivamente ridotto la propria dipendenza dagli storici servizi per la gestione dell’infrastruttura, come quelli per la virtualizzazione dei desktop. “L’annuncio conferma la strada imboccata dall’azienda, con una strategia che ha iniziato a prendere forma con il passaggio al cloud e a un modello di abbonamento. Non a caso le soluzioni per il digital workplace oggi pesano per il 65% sul giro d’affari”, ha spiegato a Technopolis Mario Derba, area vice president Western & Southern Europe di Citrix. Nell’ultimo anno fiscale l’area Emea ha generato oltre un terzo del fatturato complessivo della società. “Abbiamo creato una piattaforma razionalizzando tutta

l’offerta e abbiamo integrato diversi servizi quando ha avuto senso farlo. Inoltre, c’è la volontà di continuare sulla strada delle acquisizioni. Senza dimenticare comunque la strategia che riguarda il backend e, quindi, le componenti di networking e analytics”. Sullo sfondo, un ecosistema di collaborazioni (Microsoft su tutte, oltre a Google) e partner di canale. “In Italia, rivenditori inclusi, ne abbiamo oltre 400, che ci aiutano a far capire ai clienti il vero valore della nostra proposizione: bilanciare i bisogni di produttività di una forza lavoro sempre più mobile con la sicurezza intrinseca. Non è facile, ma parlando direttamente con i C-level troviamo terreno fertile”. A.A.

CINA COMPATTA CONTRO DONALD TRUMP La storia continua. A metà maggio Donald Trump ha firmato l’ordine esecutivo che impedisce alle aziende americane di avere rapporti commerciali con Huawei in qualità di fornitore o cliente, spingendo Google a revocare (con decorrenza da fine agosto) la concessione delle licenze di Android al colosso di Shenzhen. Nulla è definito, per ora: la stessa BigG sta-

rebbe facendo pressione per rimuovere il provvedimento, mentre è ufficioso il fatto che Huawei stia svilupparndo un sistema operativo mobile proprietario. I principali vendor cinesi di smartphone, Oppo e Xiaomi in testa, avrebbero già iniziato a testarlo, in vista del debutto di questa piattaforma nei prossimi mesi. Sul tavolo un potenziale di circa un miliardo

di utenti. La lotta commerciale fra Usa e Cina si sposterà dunque sugli smartphone? Huawei, intanto, ha fatto il conto dei “danni” causato dal bando statunitense: indiscrezioni, poi confermate dall’azienda, indicano per quest’anno un possibile calo delle vendite internazionali compreso tra il 40% e il 60% e 30 miliardi di dollari di mancati ricavi in due anni.

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IN EVIDENZA

LOGISTICA ROBOTIZZATA

Satya Nadella

TRASFORMAZIONE NELLA NUVOLA Il Ceo di Microsoft punta su cloud e intelligenza artificiale. E alcune aziende italiane hanno abbracciato la sua filosofia. C’è la Microsoft delle origini, quella che abbiamo sempre conosciuto, e c’è quella che dialoga oggi con istituzioni, grandi aziende e università. Satya Nadella, tornato in Italia a cinque anni dalla precedente visita, ne ha illustrato gli attuali assi portanti, spiegando come la sua azienda possa fornire soluzioni e strumenti a supporto della trasformazione digitale. Significativo è il fatto che di sistemi operativi Nadella non abbia quasi parlato, concentrando l’attenzione soprattutto sul cloud (come fondamenta alla base di ogni sviluppo), sulle applicazioni per la gestione dei dati e sull’intelligenza artificiale (come tecnologia ormai democratizzata per ricavare informazioni e prendere decisioni in tempi rapidi). “Dal 1975 Microsoft si pone l’obiettivo di creare tecnologia di base, utile per realizzare le soluzioni necessarie a far crescere il business o a migliorare la vita delle persone”, ha sintetizzato Na-

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della. Il vero pilastro di questa visione è oggi la piattaforma omnicomprensiva Azure. Quello che fino a ieri era Windows, in sostanza, oggi è diventato il cloud. Nadella invita a far leva su un’infrastruttura pubblica, aperta, ricca di strumenti per gli sviluppatori così come di applicazioni ready-to-use per gli utenti finali. L’idea di fondo è di spostare il focus da modelli che nascono su Erp e Crm verso nuove concezioni del business, costruite su sistemi di intelligenza distribuita dalla nuvola verso l’edge computing (dispositivi alle propaggini delle reti, dotati di capacità di elaborazione dati). Di questa visione troviamo esempi di applicazione consolidati anche in Italia. È il caso di Tim, che su Azure ha costruito un’offerta per migliorare l’interazione con i clienti, ma anche di Cnh Industrial, che ha sfruttato le funzionalità di machine learning per avviare un programma dedicato ai veicoli connessi. E ancora Poste Italiane, che lavora a stretto contatto con Microsoft per spostare il proprio modello di business sempre più sui servizi, mentre Natuzzi ha adottato i visori Hololens per offrire ai clienti dei propri negozi esperienze di realtà aumentata. R.B.

Dalle automobili alle consegne. Ford ha deciso di collaborare con Agility Robotics, uno spin-off della Oregon State University, per sviluppare un robot umanoide capace di coprire l’ultimo miglio delle spedizioni. Digit, questo il nome dell’automa, riesce a sollevare pacchi da 18 chili, è in grado di salire e scendere le scale e può anche camminare su terreni sconnessi. Il suo particolare design gli consente di richiudersi e di riporsi da solo sui sedili posteriori o nei bauli dei veicoli senza conducente, chiudendo così il cerchio delle consegne al cliente senza l’intervento di addetti in carne e ossa. Le macchine autonome hanno un grande potenziale per la logistica: in futuro, per esempio, servizi di ride-hailing come Uber potrebbero abbinare il trasporto di passeggeri alla consegna dei prodotti acquistati sul Web. E la sinergia fra vetture e robot come Digit potrebbe rivelarsi vincente. Gli ingegneri di Ford hanno infatti deciso di posizionare il “cervello” dell’umanoide direttamente nel veicolo, garantendo così all’automa leggerezza costruttiva e una maggiore capacità di analisi on demand.


l’intervista

“GLI HACKER SONO TRA NOI” Per Ilya Sachkov, fondatore di Group-Ib, le nuove tecnologie di security potrebbero non bastare a fronteggiare criminali sempre più evoluti. E infiltrati.

gliendo miliardi di dati per effettuare precise correlazioni di parametri specifici. Oggi offriamo soluzioni automatizzate per monitorare e individuare minacce complesse.

Ilya Sachkov

Quali sono i settori più a rischio?

Lo scenario della cybersicurezza è sempre più fluido. Gli hacker cercano in continuazione nuovi metodi per violare i sistemi informatici presi di mira e, grazie anche alla grande disponibilità di tecnologie a basso costo, riescono spesso ad aggirare perimetri considerati impenetrabili. Stanno però cambiando non sono solo i metodi usati dai pirati informatici, ma anche le motivazioni alla base delle loro azioni. “Negli ultimi due anni abbiamo assistito a una trasformazione radicale: dai cybercriminali spinti da motivazioni economiche si è passati a soggetti sostenuti dai governi, che si concentrano più sulle informazioni che non sul denaro, sfruttando malware complessi e attacchi mirati costruiti su più livelli”, ha raccontato a Technopolis Ilya Sachkov, fondatore e amministratore delegato della società di cybersicurezza enterprise Group-Ib, nata nel 2003. “Gli obiettivi veri sono i dati delle transazioni bancarie, utilizzati per tracciare l’origine e la destinazione del denaro a scopi di intelligence. Per non parlare di

brevetti e segreti industriali. Si pensi al ransomware Petya, emerso su scala globale nel 2017: lo scopo principale non era quello di cifrare i dati per chiedere un riscatto, bensì distogliere l’attenzione per sferrare poi altri attacchi diretti a bersagli differenti”. In che modo è possibile rispondere a queste nuove minacce?

I team di sicurezza delle organizzazioni non sono ancora pronti ad affrontare violazioni di questo genere, durante le quali i malintenzionati si muovono molto più lentamente e nel corso di diversi mesi o anni. Le soluzioni tradizionali non riescono a correlare eventi e segnali distribuiti in un arco di tempo così lungo ed è molto più difficile ricostruire quanto successo. Nello scenario classico, durante un attacco di tipo finanziario, gli hacker devono invece agire velocemente ed è più probabile che lascino delle tracce. Nel 2010 capimmo che l’unico modo per anticipare i malware è monitorare il traffico interno ed esterno alla rete dei clienti, racco-

Le infrastrutture critiche sono certamente in pericolo, soprattutto se si guarda agli attacchi sponsorizzati dagli Stati. Per anni queste realtà si sono sentite protette perché non hanno subìto violazioni: sono convinte che aver speso molto in cybersecurity sia stato sufficiente. Ma, se le aziende possono ricorrere alle tecnologie più recenti, chi l’ha detto che non possa farlo anche un malintenzionato? Integrare l’intelligenza artificiale nelle proprie soluzioni di sicurezza non basta. Potremmo dire che gli hacker sono in mezzo a noi: comprano software e hardware dai vendor per testarli in prima persona e partecipano alle conferenze di cybersecurity. La nostra è una sfida quotidiana. Che tipologie di clienti avete in Italia?

Stiamo crescendo anche nel vostro Paese. Al momento, direttamente e con l’aiuto di partner, stiamo lavorando con agenzie governative, compagnie aeree e realtà del settore finanziario. Gli istituti di credito sono i nostri clienti tipici, perché hanno ormai compreso la trasformazione del panorama delle minacce. Alessandro Andriolo

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IN EVIDENZA

CORSA DEL 5G, VODAFONE PRIMA Roma, Milano, Torino, Napoli e Bologna. Sono queste le prime cinque città a già coperte dal 5G targato Vodafone. L’operatore ha acceso la propria rete commerciale di quinta generazione, battezzata Giga Network 5G. I clienti possono scegliere tre modelli di smartphone: Xiaomi Mi Mix 3 5G, Samsung Galaxy S10 5G ed Lg V50 Thinq 5G. A partire da luglio Vodafone offrirà il roaming su reti di quinta generazione in Germania, Spagna, Gran Bretagna e Italia. E si andrà avanti: nel 2021 la copertura dell’operatore dovrebbe raggiungere un centinaio di città della Pe-

nisola e le principali località turistiche. Ma Roma è “toccata” dal 5G anche per un altro motivo. La Capitale è stata scelta da Zte come sede del suo primo laboratorio di cybersecurity europeo. A detta dell’azienda cinese, il centro rappresenterà uno strumento per promuovere la trasparenza e rafforzare la fiducia reciproca tra le parti. Clienti, partner commerciali e regolatori potranno condurre audit, visionare il codice sorgente dei prodotti Zte (inclusi gli apparati per le reti 4G e 5G), consultare documenti procedurali, realizzare prove della scatola nera e test di penetrazione.

Aldo Bisio

NUMERI DI QUINTA GENERAZIONE Tra sei anni il mercato mondiale del 5G varrà 277 miliardi di dollari grazie a una crescita, dal 2019 al 2025, del 111%. La società di ricerca Netscribes ha le idee chiare sui fattori che contribuiranno a questa ascesa. Innanzitutto, la domanda di connessioni a banda ultralarga da mobile, destinata a salire sensibilmente. In secondo luogo, la maggior penetrazione di smartphone e dispositivi indossabili, su cui verrà consumato un nume-

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ro crescente di video. Infine, un elmento decisivo saranno i massicci investimenti nazionali sulla digitalizzazione dei sistemi. In Italia, secondo il presidente di Asstel Pietro Guindani, per sviluppare le reti mobili di quinta generazione e la fibra serviranno dai 22 ai 27 miliardi di euro. Saranno necessari dai 35 ai 45 miliardi, invece, per l’ottimizzazione dell’esistente infrastruttura in 4G e standard precedenti.

XIAOMI ARRIVA A 5 GBPS Costa 699 euro ed è il primo smartphone 5G venduto in Italia. Xiaomi Mi Mix 3 5G ha uno schermo Amoled da 6,39 pollici Full Hd+ (2.340 x 1.080) e impiega chip Qualcomm Snapdragon 855 con modem X50 integrato, che garantisce velocità massime teoriche in download di 5 Gbps. Mi Mix 3 5G eredita la stessa doppia fotocamera con intelligenza artificiale del Mi Mix 3, con funzionalità video al rallentatore da 960 fps. Per i selfie, il cellulare offre una configurazione a doppia fotocamera da 24 megapixel, che sfrutta al meglio il sensore Imx576 di Sony per catturare maggiori dettagli. Il dispositivo impiega un meccanismo a scorrimento magnetico che fa comparire la fotocamera frontale: il risultato è uno smartphone a tutto schermo. Il cellulare è acquistabile nella versione da 6 GB di memoria più 64 GB di storage oppure nella configurazione 6 GB + 128 GB.


L’OPEN SOURCE ALLA CONQUISTA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Il nuovo country manager di Suse punta al mercato delle infrastrutture facendo leva anche sul profilo europeo della multinazionale Dopo l’acquisizione di Red Hat da parte di Ibm, Suse, multinazionale del software che opera nel settore open source, è rimasta la più grande realtà indipendente del suo segmento. “Siamo una piccola multinazionale con circa 1.800 dipendenti”, dice Carlo Baffè, da febbraio nuovo country manager di Suse in Italia, “ma la cosa più interessante è che il 30% del personale è stato assunto nell’ultimo anno”. Cresce velocemente, Suse, e non solo per linee interne, visto che ha pronti circa 400 milioni di dollari da utilizzare per acquisizioni e prevede di spenderne un miliardo in cinque anni. “Siamo in una fase di grande crescita seppur nel segno della continuità”, dice Baffè, “e mi piace sottolineare che c’è una forte impronta europea nel management e

nelle strategie: la Cfo a livello mondiale è italiana e i centri nevralgici dell’organizzazione, oltre che ovviamente negli Usa, sono a Norimberga, Amsterdam e in Uk”. L’Europa non è solo nel management, visto che Suse è controllata dal fondo svedese Eqt Partners (a carattere familiare e specializzato nell’high tech) con una disponibilità di circa 50 miliardi di dollari e con obiettivi di medio-lungo termine. “Abbiamo intenzione di giocarci la carta dell’appartenenza europea”, dice Baffè, “per poter avere più presa nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni, anche in Italia. Il software open source è infatti ormai una realtà affermata anche nelle grandi infrastrutture It (prova ne sia lo sforzo in termini di investimenti che anche Microsoft sta facendo in questo comparto) e la PA è uno dei mercati che può crescere di più in assoluto, con grande beneficio anche per gli utenti finali, vale a dire i cittadini”. Emilio Mango

Carlo Baffè

UN FONDO PER L’INDUSTRY 4.0

L’AI VENDE CASA

L’acquisto di tecnologie digitali da parte delle Pmi è al centro del nuovo fondo Industry 4.0. Il veicolo d’investimento, con base in Lussemburgo, ha un obiettivo finale di 300 milioni di euro e si rivolge alle aziende italiane con un fatturato massimo di 150 milioni. L’iniziativa, promossa dai giovani imprenditori di Confindustria e dalla holding inglese Quadrivio Group, ha come principa-

Vendita dell’immobile in sessanta giorni, massima trasparenza e contatto diretto fra privati, risparmi medi di 8.000 euro a operazione. Sono queste le promesse di Housefy, startup spagnola che ha aperto i battenti anche in Italia, a Milano e hinterland, e prossimamente anche a Roma e Torino. La sua idea? Utilizzare i Big Data e gli algoritmi di intelligenza artificiale per stimare il valore degli immobili.

le obiettivo quello di aprire un nuovo canale di finanziamento per le Pmi italiane che attualmente hanno difficoltà ad accedere alle fonti già esistenti. Secondo Roberto Crapelli, ex amministratore delegato di Roland Berger Italia e uno dei principali sostenitori del progetto, le piccole e medie imprese del nostro Paese hanno bisogno di capitale tecnologico ancor più che finanziario.

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IN EVIDENZA

L’INNOVAZIONE SOSTENIBILE SECONDO HP Il primo gennaio 1939 David Packard e Bill Hewlett fondarono, in un garage di Palo Alto, quella che poi sarebbe diventata una delle multinazionali di riferimento dell’alta tecnologia. Oggi di quel garage resta l’originale, ma anche qualche copia (con tanto di oggetti personali e primi prodotti realizzati, vale a dire oscillatori audio) in giro per il mondo. Uno di questi garage è a Barcellona, in uno dei più grandi centri di ricerca che Hp ha realizzato nell’ottica del “Keep Reinventing”, lo slogan coniato dalla multinazionale per comunicare la sua vocazione all’innovazione continua (ricordiamo che oggi HP gestisce il business di computing e printing, mentre nella società “sorella” Hpe sono confluite le soluzioni per infrastrutture It e i servizi). “La quarta rivoluzione industriale”, ha detto Shane Wall, Cto di Hp, in occasione di una visita organizzata per la stampa al campus di Barcellona, si basa sul digitale ma anche sull’economia circolare e sulla sostenibilità”.

Presso il campus di ricerca di Barcellona, la multinazionale sperimenta le tecnologie più innovative nel settore del printing E in effetti di attenzione all’uomo e all’ambiente è permeato tutto il centro di ricerca, dove soprattutto nell’ultimo anno sono passate tutte le nuove tecnologie di stampa, come quelle su tessuto e quelle 3D. “Tra le tante innovazioni degli ultimi anni”, ha detto Wall, “il 3D printing è sicuramente una killer application,

così come l’immersive computing e la scansione 3D”. Non sarà un caso se negli ultimi mesi gli annunci più importanti sono stati proprio nell’ambito dei visori per realtà virtuale (Hp Reverb Virtual Reality Headset), ma più in generale nell’ambito dell’interazione con il mondo 3D, e delle stampanti a tecnologia additiva (Hp Jet Fusion), due ambiti che hanno anche interessanti punti contatto, come ad esempio Hp Fitstation, la tecnologia che permette di analizzare la conformazione del piede con uno scanner 3D per produrre poi scarpe sportive personalizzate. E.M.

PER RICOH LA TRASFORMAZIONE È NEL WORKPLACE Gli italiani hanno un atteggiamento positivo nei confronti della trasformazione digitale. Lo dice la ricerca Designed for Tomorrow promossa da Ricoh, che ha coinvolto ben 2.550 manager di tutta Europa. I dirigenti nostrani sono ottimisti, con il 65% che considera il cambiamento in atto come un’opportunità piuttosto che un rischio, e solo il 14% che esprime pessimismo per gli sviluppi della digitalizzazione. La speranza è quella di ottenere un vantaggio competitivo attra-

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verso l’adozione di tecnologie smart, che consentono a imprese e utenti di operare con maggior flessibilità, riducendo costi e tempi dei processi. La risposta in termini di soluzioni di gestione documentale da parte della multinazionale rientra nell’ampio ombrello di offerta denominata Digital Workplace. Le nuove multifunzioni intelligenti a colori in formato A3 della serie Ricoh IM sono semplici da utilizzare grazie allo Smart Operation Panel, un pannello touch dotato

di un processore di ultima generazione che velocizza l’utilizzo delle applicazioni installate. L’interfaccia migliora la userexperience e può essere personalizzata per rispondere alle esigenze dello specifico ambiente di lavoro e gestire al meglio i relativi workflow. Con Ricoh Intelligent Support, infine, i tecnici Ricoh possono accedere da remoto alle macchine per garantire per una rapida risoluzione di eventuali problematiche e per effettuare gli aggiornamenti del firmware.


l’intervista

I DATI SONO UN PATRIMONIO, MA VANNO USATI IN MODO INTELLIGENTE Motori di analisi, dashboard intuitive e strumenti di AI aiutano i manager a prendere decisioni. Dan Sommer, senior director di Qlik, spiega come.

Ormai una quota significativa di aziende ha capito di dover trarre valore dai dati che accumula, dunque si è dotata di strumenti di elaborazione e analisi. In molti casi, però, ancora non è chiaro come debba cambiare la relazione fra i dati e il business. Si può mettere a disposizione dei manager la migliore e più intuitiva dashboard, ma questo non basta a stimolare il corretto livello di adozione e comprensione delle tecnologie. E questo può condizionare la fiducia riposta nei dati. Partendo da queste basi, uno specialista dei Big Data come Qlik si è fatto promotore (insieme ad aziende come Accenture, Experian, Pluralsight, Data to the People e altre) di un progetto denominato Data Literacy. Messo a punto a fine 2018, si propone di promuovere iniziative e pratiche utili ad aumentare nel mondo il livello di alfabetizzazione sui dati e rendere questo processo di alfabetizzazione un imperativo all’interno delle organizzazioni e nei programmi formativi delle istituzioni scolastiche, creando allo stesso tempo anche un ecosistema di risorse globali accessibile e completo. Dan Sommer, senior director e global market intelligence lead di Qlik, ci illustra come si è sviluppato il progetto nella sua prime fasi. Da dove siete partiti?

Prima di tutto abbiamo fatto nostra la missione di voler creare un mondo alfabetizzato, in linea con la nostra

Dan Sommer

te per condividere e mettere a fattor comune le rispettive iniziative ed esigenze, cercando di parlare il medesimo linguaggio. Diversi responsabili It hanno sottolineato come nelle loro aziende ci sia una buona attenzione alla qualità e alle modalità di raccolta dei dati significativi per il business. Resta però lo scoglio di come ottenere informazioni rilevanti per migliorare le attività nel quotidiano. Come si supera questa difficoltà?

strategia di corporate social responsibility. Da poco, poi, abbiamo lanciato una community, utile per chiunque voglia rendere pubbliche le proprie best practice in una logica di condivisione e collaborazione interattiva. Quale livello di consapevolezza riscontrate nei vostri clienti e nelle aziende con le quali venite a contatto?

Si è diffusa negli ultimi tempi la figura del chief data officer, ma il paradosso (rilevato da una ricerca che abbiamo condotto su duecento figure di questo genere) è che le priorità indicate non hanno a che fare con la tecnologia, bensì proprio con la cultura e con l’alfabetizzazione in materia di dati. Questo fatto riguarda soprattutto i top manager, che spesso sono i primi a dover capire che cosa dover fare con i dati per creare esperienze di successo. Occorre formare dei gruppi di lavoro che possano incontrarsi periodicamen-

Nel tempo abbiamo assistito a una progressiva centralizzazione delle attività collegate ai dati, che spesso portano a produrre report magari molto puntuali ma di difficile comprensione per chi in azienda si occupa del business. C’è però anche chi ha seguito una strategia opposta, lasciando a ciascuno la libertà di impiegare i dati ritenuti più utili, ma generando quello che si potrebbe definire come “l’inferno di Excel”, ovvero la moltiplicazione di fogli di calcolo gestiti da soggetti diversi, secondo logiche personali e quasi impossibili da governare. L’equilibrio sta nel mezzo, una volta che ci si rende conto che non tutti i dati hanno lo stesso peso. Quelli più critici dovrebbero correttamente essere centralizzati, mentre altri possono essere lasciati sotto il controllo primario dei soggetti aziendali più direttamente coinvolti. Roberto Bonino

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TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX & ACCOUNTING ITALIA DIGITAL TRANSFORMATION | Perpiciatis

OBIETTIVO GRANDI IMPRESE Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia mette le grandi imprese nel mirino. Una divisione apposita affianca la clientela fatta di aziende di dimensioni importanti. Gli studi professionali e le piccole e medie imprese non sono l’unico target di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia. Sotto la guida di Andrea Ferrara, la divisione Large Account si rivolge alle aziende e agli enti di grandi dimensioni. La divisione ha iniziato una riorganizzazione due anni fa concentrandosi su una nuova struttura interna e su cambiamenti di modus operandi e di prodotto. In questi due anni il business operativo, parallelo alla riorganizzazione, ha portato nuovi clienti quali il Centro Nazionale Amministrativo del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Gruppo Bancario Cooperativo Iccrea, Salvatore Ferragamo, ERG, Banca Mediolanum, Decathlon Italia e Prelios, solo per citarne alcuni. Oggi la divisione si appresta a operare con maggiore coordinazione e puntando ad avere un impatto sicuramente rafforzato. Andrea Ferrara, trentacinquenne con alle spalle importanti esperienze tecnologiche e manageriali, è conscio della propria missione ma anche di quanto imparato in questi due anni, sia in termini di operatività sia di costruzione prospettica. “L’automazione e la personalizzazione del processo fiscale”, commenta Ferrara, “sono oggi un vero asset che permette alle imprese di ridurre i rischi. I trend e le esigenze del mercato dimostrano come occorra ora disporre di dati certi e di analisi immediate. Servono modelli di controllo del rischio e condivisione delle informazioni tra i dipartimenti aziendali. La nostra divisione offre soluzioni che garantiscono la corretta governance e il pieno controllo dell’automazione dei processi attivi all’interno dell’azienda, con una progettualità definita e condivisa”. Gli interlocutori naturali della divisione Large Account sono i Cfo, i tax director e manager e i responsabili degli affari legali, ma i professionisti della divisione di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia si interfacciano con naturalezza anche con i Cto, perché la digitalizzazione dei processi e delle attività non può prescindere dalle loro competenze. La funzione aziendale governata dai Cfo ha subìto grandi mutazioni ed è oggi sostanzialmente cambiata. La strategia di crescita di un’impresa passa sempre di più da quella funzione e per orientarla e definirla al meglio bisogna che i processi siano automatizzati, integrati, sicuri, stabili e rispondenti. Sono proprio queste le prerogative delle soluzioni della divisione Large Account. Ferrara chiarisce però che questa business unit non affianca le imprese nel complesso lavoro della tax compliance. “Il nostro approccio e metodo è radicalmente diverso”, precisa. “Noi forniamo un prodotto digitale di

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Andrea Ferrara, responsabile della divisione Large Account di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia

altissima efficienza, in grado di auto-aggiornarsi aderendo all’evoluzione normativa, consulenza ongoing anche da remoto e formazione agli operatori. L’obiettivo è rendere il cliente autonomo nell’utilizzo degli strumenti digitali e consentire alle risorse di sviluppare capacità analitiche e strategiche a supporto della crescita e dello sviluppo dell’azienda. Consideriamo che oggi ancora l’80% delle grandi imprese italiane utilizza Excel come strumento per la compliance e il reporting. Attraverso la digitalizzazione che Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia può garantire si ottengono una decisiva attenzione sul controllo e sulla tracciabilità dei dati, una migliore gestione delle informazioni, un sistema di controllo dei rischi fiscali e, non da ultimo, uno strumento di collaborazione. Le soluzioni che offriamo si chiamano Tax Plugin, dedicata specificamente alla fiscalità italiana e CCH Integrator per quella internazionale”. Come sta rispondendo a tutto questo il mercato? “Il mercato è in grande movimento”, racconta Ferrara. “L’area del fiscale è core per le imprese e una piattaforma diventa un vero asset aziendale in grado di gestire la storicizzazione dei dati e il versioning degli scenari di calcolo e dei documenti, rendendo sempre disponibili le diverse versioni per la comparazione o verifica. Con le nostre soluzioni si riduce e si controlla il rischio fiscale. È garantita la tracciabilità e percorribilità delle elaborazioni svolte, avendo sempre disponibili la fonte dei dati e le modalità di calcolo utilizzate. I vantaggi sono enormi e l’approccio di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia è innovativo perché tecnologicamente avanzato, non invasivo, consulenziale, anche da remoto. La divisione Large Account è diventata una best practice internazionale nella nostra azienda multinazionale”.


ITALIA DIGITALE

Il presidente di Anitec-Assinform individua le linee guida per accelerare il processo di digitalizzazione. La mancanza di visione strategica è il vero ostacolo. Pubblica Amministrazione e piccolissime imprese sono ancora in ritardo.

UNA ROADMAP PER IL SISTEMA PAESE 4.0

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ompetitività, competenze, investimenti: ricorre a questi termini Marco Gay, presidente di Anitec-Assinform (nonché amministratore delegato dell’acceleratore Digital Magics), nel tracciare il futuro prossimo del sistema Italia in un contesto macroeconomico difficile nel suo complesso. Il digitale, secondo il numero uno dell’Associazione che riunisce le imprese Ict, è un punto fermo per lo sviluppo delle imprese italiane e lo sarà a maggior ragione negli anni a venire. Vi sono iniziative che fanno ben sperare ma anche elementi di negatività non trascurabili e specchio di un Paese che, sul fronte dell’innovazione, viaggia ancora a doppia velocità. Un Paese che presenta ancora oggi troppe zone d’ombra.

La strategia per stimolare la spesa nel digitale è più culturale o più economica?

Le risorse finanziarie certamente contano, ma è indubbio che il primo fattore sia più culturale e di visione. Il digitale sta trasformando le imprese, le economie, i rapporti di forza tra sistemi nazionali e le condizioni per creare benessere e occupazione. È la leva più sostenibile che abbiamo per risolvere il problema di efficienza strutturale che frena la nostra crescita. Avere questa consapevolezza culturale, sia come imprese sia come istituzioni, è il prerequisito per trovare le risorse necessarie a stimolare gli investimenti in innovazione, in una logica attenta alle priorità di spesa. La legge di Bilancio, al netto dei correttivi apportati dal Decreto Crescita, ha mostrato quanta strada ci sia ancora da fare.

Quanto manca, ancora, alla PA per diventare il principale motore di sviluppo dell’innovazione?

La PA ha un ruolo chiave nella modernizzazione del Paese, ma è in ritardo. Penso alle aspettative create dall’Agenda Digitale e ai progetti lanciati per l’occasione. Il nuovo piano triennale 2019-2021 dell’Agid promette di andare oltre l’attuale visione, che ha sofferto di eccessiva razionalizzazione, anche rilanciando i progetti di trasformazione digitale avviati e non conclusi. È corretto e coerente l’approccio del Governo verso il digitale?

La Legge di Bilancio, con i passi indietro su Impresa 4.0, è il segno di un approccio più attento agli equilibri che alle sfide, anche se sono emersi elementi positivi, GIUGNO 2019 |

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ITALIA DIGITALE

CLOUD E IOT SUGLI SCUDI, ASPETTANDO IL 5G Oltre 72 miliardi di euro: a tanto potrebbe ammontare il valore del mercato digitale italiano a fine 2019 secondo le stime di Anitec-Assinform, che prevedono un incrementoa valore del 2,5%. Banche, industria e assicurazioni sono i settori che più hanno spinto gli investimenti nel corso del 2018, che si è chiuso a quota 70,4 miliardi, in crescita del 2,7% rispetto all’anno precedente. Sono buone notizie quelle che arrivano dal comparto tecnologico, più ricco di cinque miliardi di euro rispetto al 2015. Parliamo di un settore che non risente (troppo) delle influenze negative del quadro economico complessivo e in cui tutti i maggiori segmenti hanno contribuito al passo in avanti, fatta eccezione per i servizi di rete (la priorità delle telco è ora quella di saltare sul carro del 5G). Positivi, invece, i risultati di software e hardware, che riflettono strategie di aggiornamento applicativo e di riorganizzazione dei sistemi a livello infrastrutturale. Il cloud, in salita del 23,6% a valore, si conferma elemento strutturale di cambiamento del mercato, impattando sia sui bilanci dei vendor sia in quelli delle aziende utenti. La cybersecurity cresce del 17% e riflette l’introduzione del Gdpr (e relativi obblighi normativi) e l’aumento dello scambio dei Big Data in ambito business, che impone l’adozione di soluzioni di protezione dei dati. L’IoT sale

come la proroga del credito di imposta per la formazione di competenze Ict, l’innalzamento delle detrazioni per gli investimenti in capitale di rischio, il fondo per sostenere i progetti su intelligenza 22 |

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ancora, e più velocemente di ogni altro settore (+19%), candidandosi a vero pilastro della società connessa e delle smart city. Il piano Industria 4.0, infine, è stato un grande driver della spesa per tutto il 2018, sia a livello di impianti sia in termini di soluzioni It a supporto della produzione. Secondo il Mise, tuttavia, solo il 13% delle aziende italiane ha fatto uso delle misure fiscali previste dal Governo, confermando la scarsa propensione all’innovazione delle realtà piccole e piccolissime. Sul fronte della PA si attendono gli effetti del nuovo Piano Triennale dell’Agid, varato a inizio marzo, ma PagoPa e la fatturazione elettronica hanno già impattato significativamente (il portale “Io” inizierà a produrre effetti solo dal 2020). Guardando ai prossimi mesi, cybersecurity, soluzioni mobili e business intelligence sono le voci più importanti nei progetti in corso nelle aziende, mentre la proliferazione delle startup (una su tre è attiva nella produzione di software) sarà un ulteriore elemento di sviluppo del digitale. E infine il 5G. I progetti pilota sono tanti e la nuova tecnologia va intesa come piattaforma per la distribuzione di servizi e applicazioni. Secondo alcune dati della Ue, entro il 2025 il 5G potrebbe produrre in Italia 15,7 miliardi di euro di “new business” e creare 186mila posti di lavoro. G.R.

artificiale, blockchain e IoT, l’iperammortamento per il cloud. Il Decreto Crescita ha reintrodotto alcune misure che si erano perse ed è una correzione da apprezzare, ma è certo che questo processo

Marco Gay

“con il contagocce” avrà un effetto sugli investimenti privati inferiore rispetto a quello preventivabile se avessimo subito confermato, e anzi incrementato, tutti gli strumenti finanziari per il piano 4.0. Lei cita come esempio virtuoso il settore manifatturiero: gli incentivi hanno stimolato in modo “definitivo” il processo di trasformazione? O vanno considerati una misura tattica che esaurirà il suo effetto?

Nel business non c’è nulla di definitivo. Detto questo, è evidente che il piano Impresa 4.0 ha creato le condizioni per investire e correre dei rischi. Non è stata una misura tattica, per l’impatto e la spirale di fiducia che ha innestato. E soprattutto non è stato un finanziamento a pioggia: gli incentivi fiscali sono automatici per chi decida di investire, e quindi un sostegno per le sole aziende virtuose. E qui sta il punto. Se non le alimenteremo con programmi in continua evoluzione, queste strategie rischiano di regredire a parentesi. Le Pmi si confermano l’anello debole della catena: c’è un problema di comunicazione con i vendor o è una questione di mancanza di budget?

Le medie imprese non sono un anello debole. Per le piccole, invece, sono vere entrambe le cose. I puri canali distributivi non possono più permettersi di trasmet-


tere conoscenza, e questo avviene mentre nelle piccole imprese si tende a non cogliere il valore della consulenza che una qualsiasi system house può dare. Ma un conto è comprare apparecchiature, un altro è aprirsi all’innovazione digitale e al cloud. Qualcosa deve cambiare, anche sul fronte dei vendor, ma resta il fatto che abbiamo un tessuto produttivo con troppe “imprese-orticello”, poco capitalizzate e con scarse capacità di investimento e di attrarre talenti. Se vogliamo fare un passo avanti, dobbiamo sostenere una qualche concentrazione, anche in un’ottica di inclusione digitale.

Le startup sono considerate un volano: può bastare il nuovo Fondo Nazionale per l’innovazione a garantire i capitali necessari ai Vc e all’intero sistema?

Sono più di 10mila e la metà è nel settore Ict. In termini di fatturato valgono poco ma è il potenziale che conta, perché ogni grande azienda è stata una startup. Per riuscire a crescere è essenziale lo sviluppo di un ecosistema che le valorizzi o le acceleri, non solo dal punto di vista finanziario ma anche del management e del networking. Il Fondo per l’Innovazione, se funzionerà bene, risolverà una parte del problema, quello delle

risorse, con dotazioni per un miliardo di euro fra quelle preesistenti, quelle già in capo a Invitalia e quelle via via apportate da Cassa Depositi e Prestiti. Ma restano il problema della proiezione imprenditoriale e quello dell’integrazione con gli ecosistemi, per quanto i criteri di finanziamento ne possano tenerne conto. A questo contribuisce di più il sistema del venture capital, che finalmente ha trovato stimolo negli ultimi provvedimenti. La strada da percorrere, per riportarsi al passo con gli altri Paesi, è ancora lunga. Ma se non altro l’abbiamo imboccata. Gianni Rusconi

UN VADEMECUM PER TORNARE A CRESCERE Nelle scorse settimane il chairman e Ceo di Cisco, Chuck Robbins, è venuto in Italia per presentare la seconda fase del piano Digitaliani, iniziativa che ha l’obiettivo di accelerare la digitalizzazione del nostro Paese in collaborazione con il Governo, i partner commerciali e le aziende clienti. Ne abbiamo parlato con Agostino Santoni, amministratore delegato di Cisco Italia.

Oggi proseguiamo su questa strada, ampliando l’impegno in funzione della necessaria riqualificazione della forza lavoro e focalizzandoci sulla cybersecurity, tema critico per creare fiducia nel digitale e sfruttarne i vantaggi.

Può riassumere la vostra visione del processo di innovazione del Paese?

Le due tecnologie vanno di pari passo: sono indispensabili l’una all’altra e sono fondamentali per l’avanzamento dell’Agenda. Come Paese ci siamo mossi in anticipo avviando sperimentazioni sul 5G con il modello giusto, basato sulla collaborazione di tutti gli stakeholder e funzionale a una trasformazione che aprirà grandi opportunità per cittadini ed aziende. Abbiamo un vantaggio da mantenere creando le condizioni per essere in prima linea anche quando, nel prossimo decennio, il 5G dispiegherà il suo enorme potenziale, e già da oggi dobbiamo indirizzarne lo sviluppo

Negli ultimi anni abbiamo fatto passi avanti, anche grazie all’introduzione di misure ad hoc, sia per quanto riguarda lo sviluppo delle infrastrutture di rete sia per la digitalizzazione di aziende e istituzioni. Ciononostante, tra sei mesi non avremo raggiunto gli obiettivi della strategia europea 2020. Il nostro piano di investimenti con Digitaliani è nato riconoscendo l’urgenza di agire in modo incisivo per rafforzare le competenze, l’ecosistema dell’innovazione e la trasformazione dei servizi al cittadino.

Reti fisse e mobili di nuova generazione: come si inseriscono nell’attuale processo di sviluppo dell’Agenda Digitale e della PA?

affinché che sia disponibile sul territorio in modo ampio e allo stesso tempo sicuro, trovando un giusto equilibrio anche nella regolamentazione. Quali interventi sono necessari per sostenere e stimolare la competitività della nostra industria?

In questo momento serve rigore, ma dobbiamo stimolare la dinamicità di imprese e investimenti: per farlo si dovrebbe togliere il freno al cambiamento immettendo risorse là dove possono fruttare di più, per esempio verso le nostre eccellenze imprenditoriali. L’Italia può diventare un Paese aperto, sicuro e “programmabile”, proprio come le piattaforme digitali che oggi consentono di ridurre i costi e aumentare la produttività. A tutto ciò deve affiancarsi un piano serio e sistematico per lo sviluppo di competenze tecnologiche e individuali, fondamentali per ottenere valore aggiunto. E questo significa investire sulla formazione, sull’innovazione, sui talenti. R.M.

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INDUSTRIA 4.0

LA FABBRICA INTELLIGENTE È ANCORA LONTANA Un quarto delle aziende italiane è ancora titubante di fronte ai cambiamenti richiesti dai processi legati a Industria 4.0. Il problema delle competenze resta un nodo critico, come suggerisce uno studio di Boston Consulting Group e Ipsos.

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e fosse un ritratto sarebbe senz’altro uno scatto mosso, e non volutamente. La fotografia che descrive il rapporto tra le aziende italiane e il paradigma Industria 4.0, scattata da Boston Consulting Group e Ipsos, presenta ancora delle zone sfocate importanti, che riflettono un approccio non ancora pienamente maturo a questa tematica. Dallo studio “Il futuro della produttività. Diffusione e impatto di Industria 4.0” (condotto su un campione di 170 aziende di una ventina di settori industriali) emerge infatti un’evidente spaccatura: il 22% delle nostre imprese ammette di non aver pianificato a breve alcuna implementazione delle tecnologie che abilitano la fabbrica intelligente, mentre il 78% ha progetti in corso o in programmazione. C’è inoltre una seconda dicotomia, forse più preoccupante: se una consistente fetta di imprese percepisce le soluzioni di Industria 4.0 come un driver di competitività nei confronti dei concorrenti e come leva per il miglioramento interno (soprattutto in 24 |

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termini di aggiornamento tecnologico), il progetti concretamente messi in campo riguardano invece attività a bassa complessità. E solo il 24% delle aziende promuove iniziative che vanno a toccare ogni punto della catena del valore, coinvolgendo anche fornitori o clienti. Abbiamo analizzato questo scenario con Jacopo Brunelli, partner e managing director di Bcg e responsabile operations per Italia, Grecia, Turchia e Israele. Circa un quarto delle aziende italiane sembra snobbare Industria 4.0: perché?

Ci sono due chiavi di lettura per interpretare questo dato. La prima riguarda le piccole imprese, a cui non è semplice applicare i progetti di fabbrica intelligente per mancanza di budget da destinare all’innovazione di prodotto o del proces-

so. La seconda chiama in causa la scarsa disponibilità, a livello manageriale e tecnico, di risorse umane e competenze in grado di portare a compimento i progetti. Esistono sono poche figure apicali capaci di staccarsi dall’operatività quotidiana per affrontare questo paradigma strategico. La percentuale di aziende che conferma di avere progetti in corso indica, comunque, che il piano del Governo per accelerare la digitalizzazione del manifatturiero ha avuto successo. È corretto affermare che non sia una rivoluzione a disposizione di tutti?

Industria 4.0 richiede massima apertura verso l’innovazione e verso la convergenza fra operational technology e information technology e non tutte le piccole aziende possono vantarlo. E il business


case, in generale, non sempre è facilmente individuabile. Proviamo a spiegare anche un altro dato “negativo”: solo un quarto delle imprese implementa progetti connettendo l’intera filiera aziendale o anche extra azienda.

Gli incentivi fiscali hanno prodotto consapevolezza nel rinnovare il parco macchine e gli impianti ma non hanno spinto le aziende a creare qualcosa di più, e mi riferisco a infrastrutture di dati fra reparti, a impianti connessi, a tool di intelligenza artificiale e di analytics. Si è cercato e ottenuto un vantaggio economico, ma questo è slegato dal cambiamento di processo. E i veri benefici di Industria 4.0 sono ancora un punto interrogativo. I robot garantiscono maggiore produttività ma la fabbrica intelligente è qualcosa di più strutturato e complesso, e richiede il ripensamento delle operations. Ha fiducia nel fatto che le imprese possano capire la necessità di questo passaggio?

L’automazione industriale italiana è all’avanguardia e le tecnologie che muovono

ROBOT PER TUTTI, MA SENZA STRATEGIA Quasi nove imprese produttive italiane su dieci, l’87% per la precisione, impiegheranno da qui a tre anni robot di seconda generazione e sistemi avanzati in grado di automatizzare in maniera profonda l’attività industriale. Tecnologie che permetteranno a macchinari e dispositivi di prendere decisioni e compiere azioni in maniera autonoma, adattandosi ai cambiamenti della produzione o delle condizioni ambientali e lavorando anche in situazioni di rischio. Lo afferma una recente indagine a

il paradigma di Industria 4.0 sono note e mature: sensori, dati, cloud, intelligenza artificiale e altre ancora. L’implementazione di queste tecnologie richiede però ambizione, visione e investimenti. Non per nulla le aziende medie e grandi sono favorite in questo processo di rinnovamento. A che punto siamo, realisticamente, in questo percorso?

Abbiamo fatto progressi importanti. C’è ancora incertezza ma la rivoluzione industriale è appena iniziata e non c’è ancora una massa critica di imprese su cui fare leva. In termini di implementazione dei progetti siamo ancora indietro, in fatto di consapevolezza direi che siamo oltre la metà del guado, anche se il rischio di perdere il treno per chi non approccia subito e in modo adeguato questa tematica è molto elevato. Creatività e design hanno permesso alle nostre imprese di essere competitive fino a oggi. Ma sul fattore puramente produttivo, legato al manufacturing, e in termini di attrattività degli investimenti non siamo al passo con gli altri Paesi. firma di Boston Consulting Group (“Advanced Robotics in the Factory of the Future”), condotta su un campione di oltre 1.300 manager di imprese produttive di dodici nazioni, Italia compresa. Si evidenzia come alla consapevolezza delle opportunità offerte dalla robotica avanzata, diffusa fra i dirigenti di impresa, corrispondano per contro solo pochi esempi di adozione strategica e pienamente sfruttata di queste tecnologie. Ben poche imprese, in altri termini, hanno pianificato le tappe per affrontare questo cambiamento e nello specifico appena l’11% delle aziende ha già introdotto con suc-

Il miglioramento delle competenze, infine, un tema molto sentito dalla quasi totalità delle aziende. Dove e come si deve intervenire?

Nella fabbrica intelligente le competenze ricercate saranno più fluide e verrà richiesta la capacità di andare oltre le tradizionali abilità tecniche legate ai singoli ruoli. Se lo scenario di una sostituzione completa della forza lavoro da parte dei robot sembra scongiurato, prevediamo una ricerca di nuove figure professionali con specifiche competenze che coprano aree differenti. È certo, infatti, che il modello di produzione abilitato dalla robotica avanzata produrrà una riqualificazione della forza lavoro e una nuova organizzazione della fabbrica. Aumenteranno di conseguenza i dipendenti più qualificati e con conoscenze interdisciplinari in grado di gestire i processi produttivi automatizzati; diminuirà, invece, la domanda di forza lavoro tradizionale. Rispetto al modello classico, la fabbrica intelligente del futuro avrà una gestione più orientata alla motivazione, al lavoro di squadra e agli obiettivi. Gianni Rusconi cesso i robot di nuova generazione nelle fasi produttive, mentre il 20% ha stabilito un piano per convertire la produzione nei prossimi tre o cinque anni. La maggior parte delleaziende ha detto di essere frenate dall’attuale sistema di sviluppo delle nuove tecnologie, ritenute già mature ed efficaci solo dal 30% del campione. Note positive, il 52% dei dirigenti intervistati a livello globale considera la robotica una parte essenziale della produzione industriale da qui al 2025, mentre l’86% intende impiegarla nel proprio sistema produttivo al massimo entro tre anni.

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INDUSTRIA 4.0

SENSORISTICA UBIQUA Optoi Microelectronics è un'azienda innovativa specializzata in sensori ottici elettronici per le macchine industriali, l’aerospaziale, il medicale e l’agritech.

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ondata nel 1995 a Trento come spin-off del centro di ricerca Irst (oggi Fondazione Bruno Kessler, Fbk), ai suoi albori Optoi si occupava principalmente di realizzare componenti a fotodiodi o a fototransistori destinati al mercato dei trasduttori di posizione. Poi il salto, dettato da quella che era ed è tutt’ora la filosofia di questa impresa: una innovazione concreta e sostenibile. Optoi Microelectronics, una delle tante anime di Optoi Group (un centinaio di persone in organico, la maggior parte ingegneri), è un’azienda che rispecchia in toto qiesto principio nel progettare e realizzare componenti, nella fattispecie sensori ottici elettronici, di valore superiore, pensati per essere facilmente gestibili in svariate applicazioni industriali, fra cui l'aerospaziale (con tanto di collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea), l'agritech e, naturalmente, l’industria. Oggi i suoi prodotti sono installati a milioni in tutto il mondo, con un modello che rispecchia, come dice Alfredo Maglione, fondatore e presidente di Optoi Group, “una logica di ecosistema reale e applicato al fare impresa, una ogica di collaborazione virtuosa tra azienda privata ed ente di ricerca pubblico”. La relazione con la Fondazione Bruno Kessler, in tal senso, è emblematica e fa il paio con quelle in corcon St Microelectronics e con l’avellinese LFoundry: il 90% dei componenti microelettro-

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nici è realizzato con fette di silicio proveniente dal centro di ricerca trentino, poi tagliate e lavorate nei laboratori di Optoi. Qui si montano i sensori sui circuiti stampati e si assemblano i dispositivi finali grazie a linee di produzione automatica e a tecnici specializzati, che operano in una "clean room" certificata secondo lo standard Iso 6, il fiore all’occhiello dell’azienda. Il frutto di questa catena del valore sono sensori (ne vengono sfornati circa 600mila l’anno) che portano intelligenza distribuita nelle centraline delle macchine utensili e di veicoli speciali di vario genere, nelle telecamere ai raggi X per il settore medicale e in altri dispositivi connessi. “Cerchiamo di trasferire la logica della trasformazione 4.0 in ogni settore verticale”, aggiunge Maglione, “combinando tecnologie di data analytics e intelligenza artificiale per facilitare l’utilizzo in tempo reale dei dati anche da remoto, ovunque e in cloud. Il vero paradigma è da una parte l’Internet of Things, e quindi la sensoristica applicata a og-

getti per aggiungere informazioni alle capacità di calcolo e di archiviazione, e dall’altra soluzioni che generano dati certi e lavorabili per controllare quantità e qualità del processo di produzione, a livello di macchina e di impianto”. I vantaggi più tangibili legati all’utilizzo di queste tecnologie sono noti: la maggiore efficienza operativa, la riduzione dei costi dovuti a fermi macchina e magazzino, la manutenzione predittiva. Altri benefici, come sottolinea Maglione, sono più difficili da misurare ma altrettanto rilevanti: “Industria 4.0 ha un ritorno degli investimenti superiore rispetto all’automazione non intelligente, perché grazie ai dati aggiunge la governance della macchina e migliora la gestione di processo in una logica lean”. L’idea di base, insomma, è fare una "innovazione di progresso", sfruttando la sensoristica per migliorare la vita delle persone e quella delle aziende. Gianni Rusconi


INDUSTRIA 4.0

MACCHINE UMANE Sistemi di automazione industriale intelligenti, integrati e interattivi: questa è la ricetta di Omron per la smart factory. Si punta alla flessibilità delle linee di produzione.

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i chiama Forpheus, è un robot altamente sofisticato ed è stata una delle attrazioni dell’ultima edizione di Sps Italia, la più grande fiera dedicata all’automazione industriale. A portare per la prima volta nel nostro Paese questa soluzione di intelligenza artificiale, che rappresenta l’incarnazione del concetto di “innovative automation”, ci ha pensato uno specialista di questo settore quale è Omron. La nuova versione di Forpheus (termine che deriva da “Future Omron Robotics technology for Exploring Possibility of Harmonized aUtomation with Sinic theoretics”) ha un vezzo assai particolare: saper allenare a giocare a ping pong, fermo restando che i suoi compiti dentro la fabbrica saranno naturalmente altri. La sua missione, invece, è quella di dimostrare come le macchine intelligenti possano imparare dalle interazioni con gli esseri umani e (utilizzando nel

caso specifico un gameplay collaborativo) aiutare le persone a sfruttare il loro pieno potenziale. Il robot, come sostiene Massimo Porta, general manager di Omron Italia, è quindi un esempio di applicazione dell’intelligenza artificiale e della robotica in chiave Industria 4.0, con una doverosa premessa di fondo. “I manager devono essere aggiornati sulle tecnologie disponibili per aiutare gli imprenditori a ottimizzare i processi produttivi”, sottolinea Porta, “ed è importante pensare a come poter innovare il processo, guardando sì al ritorno degli investimenti attuale ma sapendo che un prodotto può sempre essere migliorato e che una produzione può essere sempre modificata e semplificata”. L’evidenza della quarta rivoluzione industriale, a detta del manager di Omron, va letta anche rispetto al modo di fare automazione oggi in Italia: “Significa lavorare su due piani, aumentando in entrambi i

casi l’efficienza e la competitività: il primo sono le aziende manifatturiere che utilizzano le macchine per produrre un prodotto finito, il secondo livello è composto dalle imprese costruttrici delle macchine”. La componente di Industria 4.0, osserva ancora Porta “si nota invece nella centralità che hanno assunto i dati, la connettività e l’integrazione” mentre le nuove macchine che vengono installate “devono essere connesse, in grado di raccogliere e gestire i dati e soprattutto capaci di creare una struttura flessibile”. Perché per rimanere competitivi e pensare in ottica di vera “smart factory”, le aziende devono essere in grado di realizzare prodotti in maniera semplice ed economica, in lotti minimi (anche di un solo pezzo, per assurdo) e per farlo è necessario che la linea di produzione automatizzata sia abbastanza intelligente da consentire anche una certa flessibilità. G.R. GIUGNO 2019 |

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DIGITAL TRANSFORMATION

I TANTI VOLTI DEL CAMBIAMENTO A che punto sono le aziende italiane, e come è cambiato il concetto di “trasformazione digitale”? Lo abbiamo chiesto a Jacopo Bruni, marketing manager di Praim.

Jacopo Bruni

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rasformarsi per introdurre nuovi processi, agilità, innovazione e vantaggi competitivi. Di Digital Transformation si parla ormai da anni, ma a che punto sono le aziende italiane? Lo abbiamo chiesto a Jacopo Bruni, marketing manager di Praim, leader nelle soluzioni di postazioni software e hardware thin & zero client.

menti come, per citare i più noti, il Gdpr e nel settore finanziario il RegTech.

Qual è il vero significato della trasformazione digitale?

Quali differenze osservate tra un settore e l’altro?

Negli anni il significato di questa espressione è cambiato, o meglio si è evoluto, diverse volte. L’adozione di metodi tecnologicamente avanzati nella gestione quotidiana dell’azienda è fondamentale, ma non basta. Oggi per trasformazione digitale si intende un insieme di cambiamenti applicati a vari reparti aziendali: IT, management, amministrativo, marketing, produttivo, ricerca & sviluppo, eccetera. Ma soprattutto s’intende un cambiamento drastico di mentalità, un’evoluzione della cultura aziendale.

Come accennavo, i regolamenti di settore hanno dato una spinta. Diciamo che la coercizione non è idealmente la strada migliore per un cambiamento così importante, tuttavia sicuramente ha aiutato. Abbiamo visto, per esempio, il settore bancario e finanziario attivarsi piuttosto rapidamente nell’investimento in nuova tecnologia. E così anche il settore industriale: basti pensare all’automazione dei processi produttivi e all’adozione di sensori nel manufacturing. Infine va citato il settore dei servizi e dell’IT in generale, un pioniere (giustamente, aggiungerei) della Digital Transformation.

Qual è l’attuale stato delle aziende italiane?

Vediamo una cauta adozione di questa nuova cultura, che però, negli ultimi tempi, sembra prendere sempre più piede. Soprattutto le grandi imprese italiane stanno dematerializzando e informatizzando il proprio sistema di gestione, con ottimi risultati. Sicuramente un “aiutino” è arrivato anche da diversi regola-

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Che cosa fa Praim per aiutare le aziende nella trasformazione?

Praim oggi ha raggiunto un’importante maturità nel mercato delle soluzioni per la postazione di lavoro. Sviluppiamo e produciamo sistemi completi, hardware e software, in grado di semplificare la rete degli endpoint aziendali e di migliorare

anche la sicurezza. Il core business quindi parte dalla produzione di una vasta gamma di thin client in grado di soddisfare le esigenze dei settori aziendali più disparati, e che a oggi ci garantisce la leadership in questo mercato in Italia. Ma oggi Praim è soprattutto una realtà in continua evoluzione, capace di importanti investimenti in R&D in software e gestione It. Proponiamo soluzioni che puntano al miglioramento della gestione complessiva, al cloud e alla semplificazione, e che sono complete e interamente disegnate sul cliente. Rilasciamo continuamente release migliorate dei nostri software e abbiamo da poco annunciato un nuovo modello di thin client, progettato per chi necessiti di alte prestazioni in generale e per il mondo finance in particolare. Potete citare qualche caso di successo?

Sba, Servizi Bancari Associati, ha scelto le nostre soluzioni per offrire alle banche clienti un’infrastruttura completamente virtualizzata con postazioni di lavoro sicure e interamente gestite, garantendo la piena operatività e integrazione di tutte le periferiche collegate. Mediamarket, la società proprietaria delle insegne MediaWorld e Saturn, ha creduto in Praim per l’adozione di un parco hardware che garantisce prestazioni elevate, diminuzione dei costi di helpdesk e miglioramento dell’efficienza del management, con il conseguente taglio dei costi di manutenzione di tutta l’infrastruttura, del consumo di energia, dei costi di mantenimento on-site e delle attività off-site. Infine Fercam, importante gruppo italiano della logistica, ha scelto Praim ThinMan Management Console per la gestione remota e centralizzata di tutti gli endpoint del gruppo. A.D.


BANKING & FINTECH

La prima fase del percorso di conformità alla normativa Psd2 ha rivelato come molte banche si trovino ancora dal traguardo dell'essere“open”. I modelli operativi devono cambiare, e qualcuno lo ha già capito.

API ECONOMY CERCASI

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e aziende di credito europee sono in ritardo nel loro cammino verso il paradigma “open banking”. Talmente in ritardo da non aver rispettato una scadenza importante della normativa Psd2, quella che dal 14 marzo 2019 obbliga le banche a rendere disponibili, per ora solo in fase test, le proprie Api (cioè le interfacce di accesso ai dati del cliente) alle terze parti autorizzate: fintech, tech company e altri operatori del settore. Una recente indagine di Tink, piattaforma specializzata in sviluppo di soluzioni per il settore finanziario, ha raccolto dati impietosi: su 442 banche monitorate, solo il 59% ha già “aperto” le proprie Api. Su dieci nazioni europee considerate, ad essere promosse sono Germania (con il 98% di banche conformi), Finlandia (90%) Belgio (87%) e Svezia (83%), mentre Paesi solitamente

considerati efficienti come Norvegia e Danimarca chiudono il gruppo con percentuali davvero preoccupanti (rispettivamente il 19% e il 17%). L'Italia non è stat inclusa nel monitoraggio. In ogni caso il test ha un certo calore, perché le banche esaminate rappresentano il 90% dei clienti in quei mercati, ed evidenzia come il 41% delle banche rischi le pesanti sanzioni previste sia dall’Eba (European banking autority) sia dalle authority degli Stati membri. Tutto questo mentre si avvicina la “madre di tutte le deadline”, e cioè il 14 settembre, giorno in cui le banche dovranno definitivamente aprire le proprie Api. Occasioni perdute

Le banche “fuorilegge”, va da sé, se proseguiranno su questa strada oltre metà settembre non rischiano solo di incorrere

nei provvedimenti delle autorità di vigilanza, ma anche nella disaffezione dei clienti. Questo pericolo, secondo l’analisi di Tink, non è assolutamente da escludere, perché se un correntista decidesse di affidarsi a una startup fintech per un servizio di pagamento e la startup trovasse le Api sbarrate, la transazione fallirebbe. Mettendo il cliente nelle condizioni di cambiare banca. L’apertura obbligatoria prevista dalla normativa può essere non solo un adempimento, ma anche un'occasione per sviluppare nuovo business, almeno per quelle aziende che sceglieranno di accantonare timori e vittimismi e studieranno le opportunità legate al nuovo scenario. Proprio di queste opportunità si è parlato lo scorso marzo in un convegno organizzato da Deloitte. L’apertura delle Api è un concetto facile da scrivere, difficile da mettere in pratica: nella realtà, GIUGNO 2019 |

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BANKING & FINTECH

molte banche hanno vissuto con disagio la nuova normativa, che entra in vigore proprio mentre i dati dei clienti acquistano sempre più valore. E non solo. Con la Psd2 la banca perde il ruolo di mediatore fra cliente e terze parti che (su richiesta del cliente stesso) possono avere accesso direttamente ai dati del conto per effettuare direttamente l’operazione, senza l'intermediazione dalla banca. E questo può valere per un’app di pagamenti mobili o di trading, un servizio di trasporti pubblici o un’applicazione che vende musica in streaming, la visione di film o eventi sportivi. La conseguenza? Come ha sottolineato David Mogini, partner Gfsi di Deloitte consulting, “l’apertura dei dati bancari finirà per determinare, molto probabilmente, un disaccoppiamento fra progettazione, design e gestione dei prodotti da un lato e la loro distribuzione dall’altro”. Tra tanta incertezza, una cosa è certa: nulla sarà più come prima. Le aziende incapaci di adattarsi saranno travolte.

Alla ricerca di un ecosistema

Per le banche esiste secondo gli esperti un solo mezzo di difesa dallo tsunami della Psd2: anticipare la collaborazione con le “terze parti”, invece di subirla. E sviluppare, già prima del 14 settembre, ecosistemi in grado di creare sinergie vincenti per tutti i soggetti in gioco. Il primo passo è il rovesciamento del modello attuale, là dove, secondo Mogini, i confini del mercato creditizio e assicurativo e di quelli adiacenti sono chiari, dove i dati del cliente sono gestiti dalla banca e infine dove i sistemi sono legacy e dunque poco aperti al mondo esterno. Il cambio di paradigma, aggiunge il manager di Deloitte, “porta invece a un ambiente collaborativo, nel quale prodotti, funzioni organizzative e dati vengono condivisi con soggetti esterni per creare servizi a valore aggiunto e nuovi modelli di business”. Gli esempi non mancano, soprattutto al di fuori del mondo bancario. “Uber”, dice Mogini, “lavora con varie altre aziende in una rete

BANCA ONLINE ALLA FRANCESE Pmi, startup e professionisti italiani hanno una nuova scelta per gestire la propria liquidità. Ha infatti aperto nel nostro Paese Qonto, la banca online francese che sta cercando di modificare radicalmente l’esperienza del credito digitale. Nel 2018 la startup ha gestito transazioni per 3,5 miliardi di euro. L’obiettivo di Qonto è offrire agli utenti business un livello di servizio superiore a quello proposto al consumer, attraverso un conto corrente moderno, con un design ottimizzato e processi intuitivi accessibili anche a dipendenti, collaboratori e direttamente ai commercialisti. L'offerta include un conto corrente multi-utente e

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multi-carta, diverse tipologie di accesso e permessi di utilizzo e un sistema di auto-categorizzazione delle transazioni e di dematerializzazione delle note spese. Con questi servizi la startup cerca di semplificare la quotidianità bancaria di imprese e professionisti. L’apertura di Qonto in Italia si inserisce in un programma di internazionalizzazione che prevede l’avvio delle operazioni della società in diversi Paesi europei, fra cui Spagna e Germania. Finora la startup ha raccolto 32 milioni di euro da finanziatori come la Banca europea per gli investimenti e Valar Ventures, società fondata dal cofondatore di Paypal, Peter Thiel.

di collaborazione a due direzioni basata su Api, sfruttando geolocalizzazione, car provider, servizi di e-mail automatizzati e via dicendo”. L’ecosistema, insomma, si basa sempre di più su un know-how distribuito su più soggetti. Le banche devono quindi iniziare a sentirsene parte, conoscerlo e identificare i possibili partner. Esempi di avanguardia

La creazione di un ecosistema porterà all’applicazione di diversi modelli operativi. Quello delle utility offre soprattutto servizi standard, prevalentemente riconducibili alla architettura informatica sottostante. Quello “piattaforma”, che ha il compito di valorizzare la relazione con il cliente grazie a una combinazione di prodotti proprietari e terzi, privilegiando la parte di convolgimento rispetto a quella di processo. Sul modello della "platform economy" e degli ecosistemi, coinvolgendo nel progetto varie fintech, ha puntato per esempio Fabrick: la realtà del gruppo Banca Sella ha avviato un drastico ripensamento della ropria offerta. “Abbiamo smontato e rismontato servizi, anche quelli che andavano bene”, ha dichiarato Paolo Zaccardi, head of open banking business line di Sella group e Ceo di Fabrick. Lo stesso ha fatto Banca 5, la realtà “phygital” del gruppo Intesa Sanpaolo, ndividuata dalla casa madre come incubatore di innovazione. O ancora Poste Italiane, che ha integrato in modo nativo servizi di partner terzi all’interno dell'ecosistema Postepay. Sarebbe sbagliato però pensare che gli ecosistemi aperti siano materia esclusiva per i gruppi bancari medio-grandi. Lo ha ricordato anche Michele Dotti, head of architecture, R&D digital innovation di Cedacri, sottolineando come “l’open banking permetta anche alle banche medio-piccole di offrire i propri servizi e la Psd2 è un terreno su cui tutte le aziende di credito vogliono competere”. Maurizio Montagna


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BANKING & FINTECH

LA BANCA APERTA FA CRESCERE I RICAVI Secondo Accenture, nel 2020 il 7% del fatturato del settore bancario si sposterà verso gli istituti di credito pienamente “convertiti” al nuovo paradigma di collaborazione.

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i sono quelle quasi completamente digitalizzate, quelle che hanno iniziato a “sporcarsi le mani” e, infine, le ritardatarie. Accenture ha deciso di dividere in tre gruppi le banche a seconda del loro tasso di maturazione digitale e dell’apertura al fenomeno del fintech, evidenziando un dato fondamentale: le realtà che innovano guadagnano fino al 40% di valore di mercato aggiunti-

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vo. Gli istituti di credito definiti come “focalizzati sul digitale” hanno avviato piani di trasformazione avanzati, coinvolgendo tutti gli aspetti operativi del business e collaborando con altri operatori in logica di ecosistema. Le aziende “attive nel digitale”, invece, impiegano le nuove tecnologie con un minor livello di intensità. A chiudere, si trovano le banche costrette a inseguire. I vantaggi della digitalizzazione saranno presto

tangibili. Entro il 2020 il 7% dei ricavi generati dal settore bancario in Europa si sposterà verso gli istituti già pienamente “convertiti” all’open banking, un paradigma fortemente incoraggiato dalla direttiva europea Psd2, entrata in vigore il 13 gennaio 2018 e che sarà ulteriormente implementata entro il 14 settembre 2019. Un’apertura di cui beneficerà tutto il sistema: nel 2020 l’impatto in Italia sarà di circa 3,5 miliardi


di euro. Secondo Accenture, dal 2012 a oggi sono stati siglati oltre 400 accordi tra i primi trenta istituti di credito europeo e le startup della finanza tecnologica. Il 70% dei rapporti è basato su investimenti, alleanze e acquisizioni strategiche. Non mancano però nemmeno acceleratori e incubatori, creati direttamente dalle banche. L'intelligenza conta

Le collaborazioni che si sono dimostrate più efficaci hanno contribuito ad accelerare il tasso di innovazione, anche grazie all’introduzione di algoritmi di intelligenza artificiale. La società di consulenza ha stimato che gli investimenti in AI possono incrementare i ricavi del 32% in un arco di cinque anni, avendo un impatto positivo anche sull’occupazione (una crescita del 9%). In altri casi, invece, le interazioni con

le realtà del fintech hanno migliorato il processo di gestione dei prodotti od ottimizzato i sistemi informativi. Circa il 40% delle organizzazioni Fintech analizzate da Accenture offre servizi tecnologici e infrastrutturali finalizzati al miglioramento dei processi operativi (come cybersecurity, cloud, analytics, blockchain, Api). Come spesso succede quando si opera sul fronte dell’innovazione, però, gli attori chiamati in causa sono costretti ad affrontare il tema delle competenze. Secondo Accenture, le banche devono ideare modelli di valorizzazione per gestire i processi "end-to-end" con una chiara definizione delle responsabilità. È quindi necessario comprendere appieno il fenomeno dell’open innovation e delle sue opportunità, continuando a scandagliare il mercato per rintracciare nuove occasioni di collaborazione. Sarà

fondamentale anche creare delle strutture dedicate all’innovazione aperta, dotate di competenze mirate, per pianificare e governare al meglio i progetti. Infine, in parallelo va menzionato anche il settore “gemello” dell’Insurtech, cresciuto sensibilmente nel corso del 2018. L’anno scorso il segmento ha visto aumentare dell’11% il numero di collaborazioni e dell’80,4% gli investimenti ricevuti. L’Europa ha rappresentato l’area a maggiore espansione, con un incremento di tre volte dal 2015. Per non perdere terreno in questo scenario altamente competitivo, le compagnie assicurative tradizionali stanno facendo rebundling, stanno cioè sostituendo alcune componenti inefficienti della propria catena del valore con soluzioni e servizi offerti dalle Insurtech e dagli ecosistemi digitali. Piero Aprile

PER I PAGAMENTI BASTA UN LINK

LA MONETA DI ENEL

MyBank cresce ancora. La soluzione di autorizzazione elettronica che permette di effettuare in modo sicuro pagamenti online e autenticazioni dell’identità digitale tramite l’home banking ha deciso di includere le realtà che si affacciano solo ora al digitale. Grazie ai sistemi di pagamento tramite link offerti da Axepta (Bnl Positivity), da Banca Sella, da Iccrea Banca, da Banca del Piemonte e dal Gruppo Cassa Centrale, anche le imprese poco presenti sul Web potranno incassare con MyBank. “La seconda direttiva sui servizi di pagamento (Psd2) e l’open banking stanno cambiando il modo di fare banca, rivoluzionando le modalità con cui persone e business percepiscono ed effettuano queste attività”,

Enel dà una scossa alla moneta elettronica: lancerà entro la fine dell’estate il servizio Enel Pay per gestire, su richiesta dei clienti, addebiti diretti anche di altri servizi sui conti correnti tramite app mobile. Il vantaggio? Non saranno più necessarie intermediazioni bancarie. Il colosso dell’energia ha deciso di sfruttare le possibilità offerte dalla Psd2, la direttiva europea che obbliga gli istituti di credito ad aprire le proprie Api (interfacce di programmazione delle applicazioni) ad altre società, come quelle impegnate nel fintech. L’obiettivo di Enel è quello di trasformarsi da gestore di infrastrutture a gestore di piattaforme.

ha commentato Giorgio Ferrero, Ceo di Preta, la società del gruppo Eba Clearing che ha sviluppato MyBank. “Tuttavia”, ha aggiunto, “da uno studio condotto da Cetif è emerso come il 68% degli intervistati preferisca la propria banca anche per la fornitura di servizi di pagamento digitali. Per rispondere alle esigenze dei clienti l’online banking può essere uno strumento molto efficace”. Con MyBank il creditore definisce l’importo della transazione e l’oggetto in uno spazio personale attivato tramite la banca, per poi generare un link o codice Qr che può essere inviato via mail, Sms o Whatsapp al debitore. Quest’ultimo deve solo cliccare sul collegamento per completare il processo.

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PER STORMSHIELD DIGITAL TRANSFORMATION | TECHNOPOLIS Perpiciatis

IL CLOUD NON È UN “LUPO CATTIVO”

Nella vasta foresta che chiamiamo Internet, un po’ come fossimo “cappuccetto rosso” finora abbiamo avuto tutto il tempo per tracciare i percorsi più sicuri da seguire. Ma nel corso degli ultimi dieci anni quello che a detta di molti è il lupo travestito da “nonnina” benevolente è uscito dall’ombra: il cloud, che ci offre gentilmente di archiviare tutti i nostri dati online semplificando l'uso di applicazioni e servizi. I timori sul cloud sono frutto della nostra primordiale paura di perdere il controllo. Esternalizzare un servizio o l’archiviazione dei propri dati rende le aziende più vulnerabili all’hacking. Timori giustificati visto che, secondo un recente studio di Kaspersky Lab, nove violazioni informatiche su dieci avvengono proprio nella nuvola. Tuttavia negli ultimi due anni l’adozione del cloud ha registrato un forte aumento, a dispetto delle problematiche legate a questioni di sicurezza oltre che all’evidente incompatibilità tra il Cloud Act sottoscritto da Trump a marzo dello scorso anno e il nostro Gdpr (nello specifico l’art. 48, riguardante il trasferimento dei dati dei cittadini europei). L’adozione è cresciuta forse perché più di questi problemi sono noti i numerosi vantaggi del cloud: l’abbattimento dei costi grazie al noleggio di server e software, la riduzione delle attività di manutenzione e messa in sicurezza dei sistemi (di cui si fanno carico gli operatori) e, non da ultimo, la scalabilità. I servizi cloud possono essere potenziati o ridotti senza le laboriose migrazioni 34

dovute all’installazione di nuovo hardware, grazie a nuove formule commerciali on demand, che comportano la fatturazione in base al consumo effettivo delle risorse dei sistemi. Ne è un esempio Stormshield, che offre l'opportunità di adattare il costo dei servizi di sicurezza fruiti attraverso il firewall virtuale in base al volume delle risorse da proteggere e alla potenza di calcolo dei firewall stessi effettivamente utilizzata. Un prezioso strumento di collaborazione Il cloud è soprattutto un eccellente strumento collaborativo. I dati e le applicazioni nella nuvola, aperte agli ecosistemi aziendali e accessibili da qualsiasi terminale, sono ormai parte integrante dello scambio di informazioni, dell’agilità e della produttività delle organizzazioni che se ne avvalgono. Infrastrutture che accolgono oggi sempre più spesso firewall virtuali al proprio interno, alla stregua di come si faceva tempo fa per proteggere il tradizionale perimetro. Una misura tuttavia insufficiente, se non supportata da una opportuna cifratura dei dati, che impedisca a soggetti terzi non autorizzati di consultare i dati archiviati in caso di compromissione della sicurezza di un fornitore di servizi cloud. La cifratura risponde inoltre all’intercettazione indesiderata da parte del provider, in particolare nel contesto del Cloud Act. Soluzioni come Stormshield Data Security per Cloud e Mobility consentono alle aziende di crittografare i dati archiviati nel cloud e di gestire in autonomia la propria chiave di decrittazione. Sarebbe un errore immaginare che il “grande lupo cattivo” non esista o che la nostra grande “foresta online” sia totalmente priva di pericoli. Una buona strategia di sicurezza IT richiede un'attenta analisi dei rischi associati ai sistemi e alle applicazioni cloud in uso, nonché l'introduzione di adeguate misure protettive che facciano da barriera sia intorno alle risorse fisiche sia a quelle in cloud. E nel valutare i pro e i contro della migrazione verso il cloud, la tendenza mostra che per lo più prevale l’istinto di conservazione: speriamo, allora, che questo porti all’implementazione di soluzioni di sicurezza adeguate.


CLOUD

LA NUVOLA È MORTA. VIVA LA NUVOLA

Il cloud non è più un’alternativa, ma una soluzione ormai consolidata. Il modello che sta vincendo è l’ibrido “multiplo”, quello cioè in cui si utilizzano in modo flessibile più fornitori di cloud pubblico.

N

on si parla più di cloud. O meglio, non si parla più di teoria del cloud, di formule più o meno vincenti. Il cloud si fa e basta, e si fa alla maniera “multipla”, cioè con la totale e incondizionata libertà che poi era uno dei principi ispiratori di questo paradigma. La formula ibrida, in cui la “parte pubblica” viene realizzata con più partner, è quella che a lungo andare si è imposta. Si tratta quindi di una “non-formula”, di un’architettura flessibile. In particolare, secondo una recente ri-

cerca condotta da Gartner, la maggior parte degli utenti aziendali che usano servizi cloud pubblici sfruttano più provider. Questo è esattamente il computing multicloud, un sottoinsieme del modello ibrido ma inteso nella sua accezione più ampia. Nel sondaggio, condotto su utenti di cloud pubblico, l'81% degli intervistati ha dichiarato di collaborare con due o più provider. “La maggior parte delle organizzazioni adotta una strategia multicloud, spinta da una parte dal desiderio di evitare il lock-in del fornitore e dall’altra allo GIUGNO 2019 |

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CLOUD

scopo di sfruttare le migliori soluzioni disponibili sul mercato”, ha detto Michael Warrilow, vice president analyst di Gartner. La società di ricerca prevede che i dieci maggiori fornitori di public cloud entro il 2023 deterranno, insieme, una quota di mercato superiore al 50%. Ma quali sono i vantaggi della formula vincente? Tra quelli più citati dai clienti che hanno già provato i benefici del multicloud ci sono un più efficace disaster recovery e una migrazione più semplice per dati e applicazioni. Il mercato multicloud cresce

Sempre secondo Gartner, la parte della spesa It delle imprese destinata alle offerte basate su nuvola crescerà più rapidamente rispetto alle architetture It tradizionali (non cloud) fino al 2022. Entro quell’anno, l’adozione del cloud nei principali mercati che fanno capo ad architetture It enterprise toccherà il

28%, (partendo dal più modesto 19% raggiunto lo scorso anno. “Organizzazioni che non sono partite già all’inizio con una strategia in cui il cloud è prioritario, privilegiato e promosso, è probabile che paghino uno scotto in termini di competitività rispetto ai concorrenti”, ha spiegato Santhosh Rao, senior director analyst di Gartner. La società di ricerca prevede che il mercato dei servizi cloud pubblici raggiungerà a livello mondiale i 214 miliardi di dollari entro il 2019, con un incremento del 17,5% rispetto al 2018. Il cloud pubblico è sempre più diffuso, innanzitutto perché consente notevoli risparmi sui costi e una maggiore sicurezza per i dati rispetto alle opzioni locali. Ma anche a causa della convinzione, sempre più diffusa, che in pochi anni tutte le infrastrutture finiranno per approdare sulle nuvole. Le strategie cloud-first, quelle che secondo Gartner portano i vantaggi maggiori

PAROLA D’ORDINE: COESIONE Il viaggio verso il multicloud non può prescindere da una trasformazione a livello operativo, che a sua volta riguarda un cambiamento culturale. Non ha dubbi Juniper Networks quando, con un gioco di parole, sottolinea le differenze fra il concetto di "multicloud" e quello di "cloud multipli". Senza un’idea precisa di come si debbano progettare l’architettura di rete e le operations, infatti, si rischia di cadere in una trappola che i team It conoscono fin troppo bene: aggiungere altri silos all’infrastruttura preesistente, complicandone ulteriormente la gestione. In questo modo i vantaggi della nuvola si ridurrebbero drasticamente e, in particolare, verreb-

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bero meno alcuni principi cardine del cloud, come la trasparenza della stessa infrastruttura e la visibilità dei suoi componenti. Il vero obiettivo che si deve tenere in mente quando si progetta un ambiente multicloud è la possibilità di gestire le risorse da un punto di vista unificato, a prescindere dal fatto che si trovino su piattaforme private, pubbliche, nel data center o ai margini (edge) della rete. Seguire una strategia multicloud, specifica Juniper, non significa quindi fratturare ulteriormente l’It in mille schegge che riportino semplicemente l’etichetta “cloud”, ma al contrario significa lavorare ancora di più sull'obiettivo della coesione.

alle aziende, prevedono che le organizzazioni passino rapidamente da un modello di cloud ibrido (che ha quindi sia una componente privata sia pubblica) a un modello multicloud, che prevede il ricorso a due o più fornitori contemporaneamente. Anche se oggi la maggior parte delle organizzazioni si appoggia a un singolo fornitore per eseguire i propri carichi di lavoro, nel breve termine almeno un altro 30% diversificherà una parte del proprio portafoglio di applicazioni ingaggiando un secondo fornitore. “Passare al multicloud non è più una questione di se, ma una questione di quando”, dice Rao, “il computing multicloud riduce il rischio di lock-in da parte dei cloud provider e può dare opportunità migliori per la migrazione e caratteristiche di resilienza del servizio, oltre ai vantaggi centrali tipici del cloud che sono agilità, scalabilità ed elasticità”. A.D.


TECHNOPOLIS PER BROTHER

DIGITALE SIGNIFICA EFFICIENZA E RISPARMIO

La “trasformazione digitale”, di cui tanto si sente parlare, riguarda anche e innanzitutto le informazioni delle aziende, quelle che circolano nei suoi workflow interni ed esterni. Passare dai vecchi archivi cartacei a una più evoluta gestione documentale è conveniente per molti motivi: in forma digitale, le informazioni possono essere archiviate e conservate per un tempo illimitato, senza occupare spazio tra scaffali e cassetti e senza usurarsi; possono essere trasferite e condivise velocemente; possono integrarsi con documenti e processi già esistenti; possono essere veicolate su più canali di comunicazione; possono essere trovate più facilmente, grazie all’indicizzazione e alla tracciabilità; possono essere replicate, con il backup, e protette dal rischio di deterioramento, furto, manomissione; risultano sempre disponibili nel caso si debba fornire copia di giustificativi e documentazione ufficiale, da produrre in forma sempre leggibile. Il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze e Decreto del Cnipa (entrambi del 2004) hanno stabilito che è possibile archiviare e conservare su supporti ottici i documenti cartacei, addirittura potendo eliminare questi ultimi usando la firma elettronica qualificata e la marcatura temporale. In sintesi, i vantaggi elencati si traducono contemporaneamente in risparmi (sui costi di stampa dovuti a materiali consumabili e a energia, sulla manutenzione dell’archivio), in efficienza (velocità di accesso, trasferimento, condivisione dei dati, possibilità di creare flussi di lavoro più agili, facilità di gestione delle informazioni) e in sicurezza (garanzia di tracciabilità, leggibilità, compliance, eccetera). Dunque, si traducono in una sostanziale spinta al buon funzionamento del business. Come scegliere la soluzione più adatta? Uno scanner desktop o compatto si presta a svolgere lavori intensivi e a gestire grandi volumi, tra le 1.500 e le 5.000 pagine al giorno (ma alcuni arrivano a 6.000), prestandosi

anche alle operazioni di scansione in batch. Gli scanner compatti, invece, sono progettati per occupare poco spazio, acquisiscono fino a 500 pagine al giorno e dispongono solitamente di connettività wireless, funzionalità fronte-retro, slot dedicato alle tessere in plastica. Leggeri e alimentati a batteria o ricarica Usb, gli scanner portatili invece sono ideali nelle trasferte e nel lavoro “in campo”, potendo acquisire fino un centinaio di pagine al giorno come volume consigliato. Altra caratteristica da considerare prima dell’acquisto è il software di base associato allo scanner, necessario per ricercare testi e immagini all’interno dei documenti scansionati, per estrarre dati e condividere contenuti. I software o le funzionalità Ocr (OpticalCharacterRecognition) permettono invece di acquisire l’immagine di un Pdf rendendo il documento modificabile dall'utente. Importanti sono anche i driver, che garantiscono la piena interfacciabilità dei dispositivi di scansione con gli ambienti di lavoro in cui devono integrarsi (oggi gli standard più diffusi sul mercato sono Isis, Twain e Sane). In caso si debba gestire documenti di varie tipologie è importante verificare la presenza di un’alimentazione di documenti misti per gestire più spessori di carta, o della modalità foglio lungo, o dell’opzione “percorso lineare carta” per allineare i documenti. Per ottenere finiture professionali, invece, è necessario che siano presenti funzionalità di rielaborazione delle immagini come il raddrizzamento automatico, la rimozione della pagina vuota, la binarizzazione, l’eliminazione delle macchie e l’elaborazione dello sfondo. Altre funzioni avanzate sono la rimozione della punzonatura meccanica, il riempimento dei margini, la divisione dell’immagine, il rilevatore di codici a barre. Se ancora un’azienda non ha considerato l’impiego degli scanner come strumento di trasformazione digitale, ora è arrivato il momento di farlo, per migliorare la produttività e ridurre i costi di gestione. 37


TECHNOPOLIS PER FCA DIGITAL TRANSFORMATION | Perpiciatis

MOPAR CONNECT: PIÙ SICUREZZA E CONTROLLO CON I SERVIZI CONNESSI DI FCA 38 |

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Con l’offerta di servizi connessi è possibile gestire automobili e flotte aziendali, controllare da remoto alcune funzioni, rintracciare veicoli rubati e ridurre i consumi. Mettersi al volante o sul sedile del passeggero è un’esperienza sempre più “connessa”. Ne è dimostrazione l’offerta di Mopar, il brand di Fiat Chrysler Automobiles dedicato ai prodotti e servizi postvendita e che si occupa anche di gestire i servizi connessi disponibili per i diversi modelli di vetture del Gruppo. Questi combinano dispositivi telematici, touchscreen, app e siti Web per migliorare l'esperienza di guida e la gestione del veicolo attraverso funzionalità digitali, come la navigazione, l’intrattenimento, la sicurezza e protezione. L’ultimo nato di questa offerta è Mopar Connect, un insieme di servizi connessi dedicati alla sicurezza e al controllo remoto del veicolo. I servizi di Mopar Connect si integrano con quelli di Uconnect LIVE, ove presenti, aggiungendovi nuove funzionalità: il rinnovato my:Car, my:Assistant e my:Remote Control. È un’offerta che prevede soluzioni su misura per differenti tipologie di clientela. Coloro che scelgono Mopar Connect dispongono infatti di una serie di servizi aggiuntivi, tutti gestiti attraverso l’applicazione per smartphone Uconnect LIVE. Per utilizzarli bisogna richiedere a una Concessionaria Autorizzata di installare il dispositivo Mopar Connect sul veicolo e sottoscrivere il contratto fornendo i propri dati personali e l'indirizzo email. Il corredo dei servizi disponibili è variegato. Include, innanzitutto, l’assistenza stradale (anche in caso di incidente) e la localizzazione del veicolo a seguito di furto. Più precisamente, nel caso avvenga un incidente stradale Mopar Connect invia una richiesta immediata fornendo supporto nell'attivazione dei soccorsi. Stessa dinamica per il furto: il dispositivo rileva lo spostamento del veicolo senza chiave inserita, attiva l'assistenza e invia un messaggio alla centrale operativa, che provvederà a contattare il cliente. Inoltre, è possibile controllare da remoto alcune funzioni, come quella di blocco/sblocco delle porte e, con il sistema Attiva Notifiche, si può essere avvisati se la propria vettura esce da un’area predefinita o se chi è al volante sta guidando a velocità troppo elevata. Mopar

Connect permette anche di visualizzare la posizione della vettura parcheggiata e alcune informazioni sullo stato del veicolo, quali ad esempio il livello di carica della batteria, la pressione degli pneumatici e il livello del carburante. Attraverso questo monitoraggio il cliente dispone in tempo reale dei dati della vettura e viene avvisato nel caso siano necessari interventi di manutenzione. I servizi my:Car, my:Assistant e my:Remote Control sono uno sguardo verso il futuro, un nuovo metodo per avere sempre sotto controllo la vettura, in totale sicurezza. L'esordio di Mopar Connect è avvenuto sulla famiglia Fiat 500 Mirror, la gamma dedicata ai clienti più interessati al mondo della connettività e desiderosi di seguire gli ultimi trend nel campo dell'infotainment. È stato poi parallelamente esteso al mondo aftersales, così da poter soddisfare le esigenze delle vetture già circolanti. Più di recente è stato introdotto anche Mopar Connect Fleet, un set di servizi per l'auto connessa dedicati alla sicurezza e alla gestione flotte di veicoli FCA per i fleet manager di piccole e medie imprese. Mopar ha scelto Targa Telematics come service provider tecnologico per lo sviluppo di una soluzione IoC (Internet of Cars), permettendo così a chi utilizza Mopar Connect Fleet di monitorare l'intera flotta, di localizzare i veicoli in tempo reale, di ricevere alert per possibili furti o manomissioni e di migliorare la gestione del veicolo, l'esperienza di guida e la sicurezza del driver. Con questo nuovo servizio, gestire in modo efficiente il parco auto aziendale diventa semplicissimo e, grazie alla possibilità di farlo direttamente dal proprio ufficio, è anche incredibilmente comodo. Attraverso un’interfaccia semplice e intuitiva e un portale dedicato, accessibile in remoto, il fleet manager può avere un controllo totale sullo stato, sull’attività e sulla manutenzione di ogni veicolo della propria flotta. È sufficiente un click per disporre di tutte le informazioni necessarie. I vantaggi per il fleet manager sono evidenti: il monitoraggio dei veicoli è aggiornato in tempo reale, vengono costantemente fornite informazioni sulla funzionalità dei mezzi, si ricevono alert in caso di furti o anomalie e, infine, è possibile ottimizzare i percorsi, ridurre i consumi e programmare la manutenzione, diminuendo significativamente i costi. Tutte queste funzionalità possono essere consultate da una vera e propria sala operativa virtuale, dalla quale si tiene sotto controllo l’intera flotta, con indicatori e report personalizzabili. Mopar Connect Fleet è disponibile in due pack, Basic e High, adatti a diversi tipi di clientela.

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EXECUTIVE ANALISYS

Si riduce la presenza di carta nelle aziende, ma la stampa non scompare. Piuttosto, questa attività si affianca a processi di dematerializzazione e di smart working e diventa sempre più “condivisa”.

DOCUMENTI AL PASSO CON LA TRASFORMAZIONE

I

l concetto di gestione documentale in azienda rimanda inevitabilmente alla stampa: a un passato legato alla necessità di strutturare e rendere efficienti i flussi di acquisizione, elaborazione, distribuzione e archiviazione di documenti cartacei. Nel corso degli anni le aziende hanno adottato soluzioni tecnologiche capaci di classificare, indicizzare e dematerializzare il più possibile i documenti “fisici” e analogici, ma anche quelli convertiti in formato digitale o nati come tali. La ricerca di efficienza, coniugata alla crescente responsabilità sociale e ambientale delle aziende, le spinge a minimizzare la produzione e la distribuzione di carta, mentre per altro verso la diffusione della mobility e dello smart working spostano l'attenzione verso la disponibilità e l'ac40 |

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cesso universale ai documenti in versione digitale. Tutto questo però non significa che il tema della gestione documentale sia destinato a essere accantonato, anzi. Idc stima che in Europa questo mercato debba crescere ancora del 3,7% annuo da qui fino al 2021, quando raggiungerà un valore mondiale di 550 milioni di euro. Ma a che punto è l’evoluzione della gestione documentale in Italia? Le stampanti sono ancora il principale strumento di produzione dei documenti, oppure la dematerializzazione ha già raggiunto uno stadio maturo? Quanto sono stati automatizzati i processi e come è stato affrontato il tema del digital workplace? Technopolis ha provato a dare risposta con una ricerca qualitativa, nella quale un gruppo di aziende di dimensione medio-grande è

stato selezionato e intervistato per capire quale sia oggi il rapporto fra dematerializzazione e produzione di documenti cartacei. Le sfide della dematerializzazione

In aziende di notevole dimensione e appartenenti a settori come la produzione industriale, il finance, la pubblica amministrazione, i servizi e l’ambito farmaceutico, appare scontato come un certo livello di dematerializzazione documentale sia stato ormai generalmente acquisito, almeno per alcune categorie di documenti soprattutto di natura amministrativa. Cedolini, ordini, comunicazioni interne, contrattualistica B2B e bolle di consegna vengono solitamente creati in formato digitale, salvo che per alcune specifiche


eccezioni. Piuttosto comune, in questi casi, è la diffusione di una gestione completamente elettronica di interi processi, che implica non soltanto la generazione o trasformazione di un documento nel suo corrispettivo digitale, ma anche i passaggi di controllo e approvazione eventualmente correlati, con tanto di apposizione di firma elettronica laddove richiesto. Le buone ragioni del digitale...

Il motore iniziale dei processi di dematerializzazione documentale è stata l’esigenza di ridurre gli sprechi e i costi della stampa, ma anche un bisogno di contenere gli spazi da destinare agli archivi e l’adesione ai principi fondanti della conservazione sostitutiva, regolata anche per legge. A questi fattori se ne aggiungono altri, che possono rappresentare un’ulteriore spinta in direzione della digitalizzazione dei processi. Un primo è certamente rappresentato dalla normativa che obbliga le aziende a utilizzare la fatturazione elettronica, da quest'anno anche nei rapporti con i privati. Nell'ambito del campione esaminato, un certo livello di dematerializzazione era stato già introdotto su questo fronte, ma non sono infrequenti i casi in cui la scadenza normativa ha dato una spinta al completamento di processi già in atto, soprattutto con riferimento al ciclo passivo. Diverso discorso riguarda il Gdpr, il regolamento europeo sulla protezione dei dati entrato in vigore (con l’obbligo di adeguamento da parte dei Paesi membri Ue) l’anno scorso: è sostanzialmente unanime l'opinione che non abbia avuto un'influenza diretta sulle modalità di gestione documentale già acquisite in azienda. Ben altro peso, nell’evoluzione verso il “digital workplace”, cioè un ambiente di lavoro sempre più regolato da processi digitali, hanno avuto due fenomeni epocali come l’adozione dei dispositivi mobili e il cloud computing. Entrambi stanno cambiando non solo il perimetro aziendale, ma anche abitudini e prassi legate alle

modalità di circolazione e condivisione di documenti. Il passaggio a logiche più o meno spinte di smart working è presente a grandi linee in tutte le aziende interpellate, ma divergenti sono le considerazioni sull'influenza diretta che questo passaggio sta avendo sui processi di digitalizzazione. Prevale comunque l'idea che la relazione non sia troppo stretta, ma certamente si tratta di due percorsi convergenti che si alimentano vicendevolmente. … e quelle della carta

Nonostante i molti fattori che hanno spinto le aziende verso la dematerializzazione della produzione documentale, allo stesso tempo ragioni di abitudine o in qualche caso anche di opportunità ben definita fanno sì che gli ambienti completamente “zero paper” di fatto non esistano, perlomeno nelle realtà complesse esaminate nella nostra indagine. Una certa resistenza della carta permane nei rapporti tra le aziende e i loro interlocutori esterni, che si tratti di partner locali oppure di clienti finali. In tutte le imprese analizzate, anche quelle più evolute nella digitalizzazione, esistono aree o funzioni che per ragioni diverse fanno ancora uso della carta. Il mondo delle risorse umane, alcuni dipartimenti amministrativi e le realtà che interagiscono maggiormente con interlocutori frammentati sul territorio sono i soggetti più citati come quelli che si trovano a maneggiare documenti fisici. Sporadicamente, per esempio in campo sanitario, finanziario o nelle società di telecomunicazione, ragioni di carattere normativo obbligano a mantenere processi di natura tradizionale. Più in generale, il dipartimento legale e, in qualche caso, quello amministrativo conservano una certa propensione a maneggiare in modo continuativo la carta, anche per obblighi di carattere normativo, per motivi legati a rapporti con i fornitori e con la clientela (soprattutto quando si tratta di contratti e relative firme da ap-

porre), ma anche perché in diversi casi i processi di digitalizzazione sono ancora in corso. Una stampa più “condivisa”

Nei contesti esaminati, anche in quelli che si sono posti l'obiettivo dell’azzeramento della carta, le stampanti sono ancora presenti, benché in numero certamente ridotto rispetto al passato. Sostanzialmente unanime nel campione analizzato è la presenza di macchine condivise da gruppi di persone, nella maggior parte dei casi con pochissimi esemplari installati a livello di piano o di isole dedicate. I dispositivi personali tradizionalmente collocati sulle scrivanie sono sostanzialmente scomparsi da più o meno tempo. Nella stragrande maggioranza dei casi l’accesso alle stampanti è regolato attraverso il badge personale, che diventa strumento per l’autenticazione e la verifica della titolarità al ritiro del documento inviato alla periferica. La prassi più consolidata prevede che la stampa materiale avvenga solo nel momento in cui il soggetto che ha lanciato il processo si reca personalmente alla macchina e si identifica, evitando in questo modo che altre persone possano intercettare, anche solo accidentalmente, qualsiasi contenuto di proprietà altrui. Nei piani futuri di molte delle aziende della nostra ricerca c’è un rafforzamento della diffusione del digital workplace, che ovviamente porterà con sé un allargamento del perimetro della gestione documentale ma andrà inteso anche come incentivo alla collaborazione digitale. Non è quindi previsto che comporti la necessità di stampare documenti dall’esterno. Molta attenzione viene posta anche sui nuovi strumenti di sicurezza, in direzione dell’analisi comportamentale o dei firewall di nuova generazione, mentre la spinta alla digitalizzazione passerà anche per un aumento del peso specifico di servizi e processi destinati al cloud. Roberto Bonino 41


EXECUTIVE ANALISYS

LE OPINIONI DEI PROTAGONISTI Riteniamo di essere un’azienda avanzata in termini di digitalizzazione dei flussi documentali e di apertura allo smart working per i dipendenti. Ma è inevitabile accompagnare a queste innovazioni un’attenta costruzione di policy di sicurezza che impedisca, tra l'altro, accessi indesiderati o circolazione inopportuna di carta. Paolo Zanotti, IT director International Production Center di Adp Abbiamo abbattuto il consumo della carta e attivato un uso più consapevole, anche grazie ai sistemi di autenticazione, tramite badge aziendale, sulle stampanti e grazie alla loro segregazione in Vlan specifiche, accessibili solamente dai server di stampa. Più in generale, abbiamo introdotto la classificazione dei flussi documentali e cifrato le comunicazioni per gruppi di utenti. 42 |

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Roger Cataldi, responsabile cyber security practice di Almaviva Anche in relazione all’entrata in vigore del Gdpr, è certamente aumentata l’attenzione sulla tipologia dei dati che i documenti recano con sé. La loro classificazione assume un ruolo sempre più importante ed è su questa base che si definisce quale debba essere il livello di protezione da applicare a ciascuno di essi. Simone Campera, corporate IT security & compliance manager di Amplifon Traendo spunto dalla nuova normativa sulla fatturazione elettronica, abbiamo provveduto a rendere digitale tutto il processo del ciclo passivo, risalendo a monte fino alla revisione delle modalità di ricezione delle merci e dei servizi. In termini più generali di sicurezza, in questa fase stiamo investendo sul pro-

cesso di data classification delle informazioni aziendali. Pierpaolo Crovetti, chief information officer di Brembo Come fornitori di servizi di outsourcing informatico per il mondo bancario, abbiamo riservato un’attenzione particolare a un’evoluzione verso la dematerializzazione che tenesse conto di soluzioni come l’utilizzo della firma biometrica o della posta elettronica certificata massiva. Per gestire i processi che continueranno a necessitare di stampa cartacea, abbiamo creato da tempo la società dedicata Docugest. Michele Rivieri, chief information security officer di Cedacri Il nostro obiettivo è di avvicinarci il più possibile all’eliminazione della carta. Internamente, nel 2018 abbiamo portato a termine un processo per la digi-


talizzazione di tutto ciò che prima era presente in archivi e uffici. Grazie alla digitalizzazione dei documenti e delle procedure per i clienti finali abbiamo ottenuto ottimi risultati, e ora stiamo rivedendo i processi con i dealer sul territorio. Marco Tavecchio, digital transformation manager di Fastweb Sicuramente l’evoluzione verso il workplace digitale sta avendo influenza anche sull’andamento dei flussi documentali. Già dallo scorso anno utilizziamo lo smart working per una parte dei nostri dipendenti ed è una logica che quest’anno si allargherà progressivamente a tutta la popolazione aziendale. In parallelo, stanno crescendo gli investimenti in direzione delle procedure di cifratura, soprattutto su dati e file sensibili. Gianluca Pancaccini, chief technology officer di Italia Online La disponibilità delle tecnologie digitali impone un ripensamento dei processi, poiché la semplice modifica di un documento, prima gestito su carta e poi dematerializzato, senza interventi su ciò che sta a monte farebbe perdere il 90% del beneficio. Per noi questo significa anche passare dall’evoluzione della conservazione sostitutiva o della firma elettronica al miglioramento complessivo dell’esperienza di utilizzo. Simone De Giuseppe, responsabile servizi e progetti applicativi di Leroy Merlin La nostra è un’azienda che opera nel mondo del lavoro, dove per tradizione circola molta carta, soprattutto legata ai contratti. Ci stiamo adoperando per ridurre il più possibile questa componente attraverso un rapporto sempre più digitalizzato con il lavoratore, utile per

automatizzare diversi processi formali e per migliorare la user experience. Andrea Cervino, chief information officer di Manpower Il mondo universitario è certamente particolare all’interno della Pubblica Amministrazione italiana. I processi di dematerializzazione sono presenti da tempo in ambiti come la gestione della carriera dello studente, mentre più complessa è la situazione nel campo dei progetti di ricerca e della gestione dei bandi. La stampa va ormai considerata residuale nell’insieme delle nostre attività.

Fabrizio Pedranzini, dirigente area servizi Ict di Politecnico di Milano Il processo di digitalizzazione dei flussi documentali è iniziato da parecchio tempo e ha già generato una notevole riduzione della produzione di carta in azienda. La priorità per noi è ora legata all’evoluzione della postazione di lavoro, che rappresenta un tema di natura non solo tecnologica, ma anche di comunicazione e formazione espressamente mirate a spiegare le potenzialità di questo passaggio. Andrea Arrigoni, responsabile sistemi informativi di Sanofi Aventis

LA STAMPANTE, POTENZIALE PORTA D’INGRESSO PER GLI ATTACCHI Dalla ricerca qualitativa di Technopolis emerge in modo chiaro quale sia l’attenzione che le aziende dedicano alla sicurezza dei dispositivi di personal computing e di comunicazione, mentre lo stesso livello di cura non risulta sempre esteso all’infrastruttura di stampa. Questa tendenza riflette efficacemente la nostra esperienza di fornitore di servizi e soluzioni maturata in questi anni. Come Hp, infatti, interagiamo con aziende italiane di ogni dimensione, dalle Pmi più snelle alle grandi aziende multinazionali, e abbiamo avuto modo di verificare come tale evidenza sia effettivamente più diffusa di quanto si pensi. Oggi le imprese italiane hanno necessità di un’infrastruttura sempre aggiornata e ottimizzata, con performance elevate e costi di gestione ridotti, e per questo decidono di implementare una strategia fondata su soluzioni di Managed Print

Services. Nei casi in cui, come indicato, la sicurezza non risulti un elemento chiave nella scelta di soluzioni di gestione documentale, allora entra in gioco il ruolo di realtà come la nostra, chiamate a supportare i clienti in un percorso di informazione e di assessement, per poter individuare le soluzioni del portafoglio printing, nel nostro caso focalizzate su elevati livelli di protezione in termini di cybersicurezza. È importante ricordare alle aziende che la stampante, se non adeguatamente protetta, può rappresentare una porta aperta per gli hacker. In questo scenario, Hp può mettere in campo la propria esperienza pluriennale di produttore anche nel mondo del computing, e quindi mutuare tali competenze tecnologiche nella protezione di altri dispositivi intelligenti e connessi, come le stampanti. Giampiero Savorelli, print business group director di Hp Italy

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STARTUP & PMI INNOVATIVE

IL VENTURE CAPITAL ITALIANO PROMETTE BENE

Nuovi fondi, deal di maggiore portata e spinta all’internalizzazione: l’ecosistema delle startup sembra avere finalmente svoltato. E non solo in termini di volumi di raccolta.

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l 2019, per il “movimento” italiano dell’innovazione, sarà la prova del nove. E per più di una ragione. Nel corso del 2018, poco meno di 180 fra start e scaleup hanno ufficializzato round per 480 milioni di euro, per un totale di oltre 633 milioni raccolti dall’inizio delle rispettive attività. Il tasso di crescita sull’anno precedente è del 261% 44 |

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(nel 2017 una cinquantina di aziende aveva raccolto complessivamente 144 milioni). Sul fronte dei venture capital (Vc) il dato più confortante è il loro ritorno all’operatività rispetto all’anno precedente, reso possibile dalla raccolta andata a buon fine per i nuovi veicoli lanciati da attori come P101 (con Programma 102) o United Ventures (con il fondo Uv2). Nel terzo rapporto sui venture capital realizzato da P101 Sgr, redatto sulla base dell’andamento degli investimenti fatti sulle nuove imprese tricolori nel 2018, emergono quindi buone notizie: cresce il volume dei finanziamenti, aumentano il valore medio delle operazioni e il numero delle exit, il tutto condito da una maggiore propensione delle startup verso l’espansione a livello internazionale. Se tre indizi fanno una prova, è allora lecito

SGR PIEMONTESE Sella Venture Partners Sgr: si chiama così il fondo di fondi del gruppo bancario piemontese, che si occuperà di investimenti nel mondo del venture capital con l’obiettivo di offrire a soggetti privati e istituzionali un accesso privilegiato all’ecosistema dell’innovazione. Il Ceo della neonata realtà è Pietro Sella, già Ad dell’omonimo gruppo. Il piano strategico della Sgr prevede anche il coinvolgimento nell’azionariato di ulteriori figure professionali e gestori esperti in questo tipo di investimenti.


affermare che gli indicatori dell’attuale stato di salute dell’ecosistema delle startup e scaleup italiane (tutti o quasi positivi) lasciano pensare a quel cambio di passo lungamente atteso. Dicevamo della dimensione dei deal, parametro importante per misurare il grado di interesse degli investitori istituzionali nelle nuove imprese. Le startup e le scaleup che hanno annunciato round superiori ai tre milioni di euro sono 31, mentre 12 sono le operazioni da oltre 10 milioni, per un totale di oltre 408 milioni raccolti (valore più che triplicato rispetto al 2017). Pesa enormemente, in questo conteggio, il settore fintech: Moneyfarm e compagnia hanno rastrellato più di 200 milioni. La capacità di attrarre Vc e finanziatori, che si sono affiancati ai fondi italiani già presenti nel capitale di diverse startup, e l’aumento del numero di exit sono le ultime note positive evidenziate dal rapporto, e per certi versi anche le più promettenti. Con la Manovra si cambia passo

Andrea Di Camillo, managing partner di P101, riferendosi al 2018 ha parlato addirittura di “anno che ha segnato il giro di boa per il venture capital italiano”. Una visione oltremodo ottimistica? Forse, ma fondata su elementi oggettivi: dai volumi di finanziamento decisamente più robusti al mix di fattori che dovrebbero ulteriormente supportare la crescita degli investimenti nelle startup innovative per il 2019. Le misure contenute nella legge di Bilancio, secondo Di Camillo, sono il crocevia da cui transitare per cambiare passo. Qualche incertezza, nonostante i decreti attuativi, rimane ma sulla carta i presupposti per dare nuovo abbrivio ai venture capital italiani ci sono: dall’obbligo per i gestori dei Pir (che hanno raccolto in due anni circa 20 miliardi di euro di capitali privati) a investire il 3,5% del proprio paniere in fondi di Vc, alle detrazioni previste per

i soggetti che investono nelle startup e nelle Pmi innovative e per le aziende che ne rilevano il 100% del capitale, e ancora il varo del Fondo Nazionale Innovazione, che dovrebbe garantire ai venture capital almeno un miliardo di euro di fondi pubblici in tre anni. Chi sono i nuovi imprenditori?

“Insieme alle risorse finanziarie, le persone pronte a impegnarsi in una nuova iniziativa imprenditoriale sono un altro importante ingrediente di un fiorente ecosistema delle startup”: l’analisi a firma dell’Ocse apre una riflessione sul livello di preparazione teorica e pratica degli startupper italiani. Dal punto di vista della formazione, solo il 10% dei fondatori ha un PhD (un dato però in linea con quello europeo e globale) e solo il 7% vanta un master Mba (rispetto all’oltre 20% di Singapore, Spagna e Israele e il 18% degli Usas). A livello di curriculum, invece, gli imprenditori seriali in Italia sono il 24% del totale degli startupper, quelli con un background accademico il 6% , mentre la quota di startup fondate da donne è solo l’11%. L’unico parametro che ci discosta in maniera netta dal resto del mondo è quello relativo ai cosiddetti “inventori”, ovvero coloro che detengono un brevetto da prima della fondazione della startup: la percentuale italiana, 3%, è significativamente inferiore a quella di Israele (dove si arriva al 15%) e degli Stati Uniti (13%). Che cosa suggeriscono questi numeri? Per l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, riflettono “una maggiore distanza tra gli istituti universitari e di ricerca italiani da un lato, e le startup e l’imprenditorialità in generale, dall'altro” ma nel complesso, sempre secondo l’Ocse, i dati analizzati “suggeriscono che l’offerta di imprenditori innovativi in Italia non è molto diversa rispetto agli altri Paesi”. Gianni Rusconi

DESTINAZIONE LAS VEGAS Un palcoscenico internazionale ma anche un luogo dover poter incontrare potenziali investitori italianissimi, che in Italia si fa fatica a trovare. Il Consumer Electronic Show di Las Vegas, anche nel 2020, ospiterà una delegazione di startup nostrane selezionate dalla Italian Trade Agency (Ita) insieme a Tilt (il progetto di incubazione di Teorema Engineering e dell’ente nazionale di ricerca Area Science Park). In questa sua terza edizione, l’iniziativa può contare anche sul sostegno di partner come e-Novia, B-Heroes e Cariplo Factory. “Al Ces 2019 abbiamo dimostrato che l’Italia non è solo sinonimo di cibo e di lusso, ma anche di tecnologia”, ha dichiarato Michele Balbi, presidente di Teorema, durante un recente evento stampa, ammettendo che “per assurdo, questi giovani vanno a Las Vegas per poter parlare con investitori italiani che nel loro Paese non riescono a incontrare”. Il bando di gara è in corso, aperto sia a nuovi partecipanti sia alle startup già selezionate nella passata edizione; chi supererà la prima scrematura potrà frequentare, da settembre a novembre, cinque workshop della Tilt Academy focalizzati su tematiche di business planning, sull’interazione con gli investitori e su consigli pratici per trarre il massimo dalla partecipazione al Consumer Electronic Show. Ma voleranno in Nevada soltanto i progetti che usciranno vincenti dalla selezione finale. V.B.

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STARTUP & PMI INNOVATIVE

Dai sensori per l'apiclutra al recupero degli scarti di lavorazione degli alimenti: sono una quindicina le startup attive nella Regione in ambito agricolo o settori contigui. L'ecosistema punta con successo sulla collaborazione tra pubblico e privato.

TRENTINO HI-TECH FRA NATURA E SCIENZA

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ono almeno una quindicina, su un totale di 260, le startup innovative del Trentino-Alto Adige attive nell’agritech e in settori a esso collegati, come le biotecnologie. Imprese, nella maggior parte dei casi giovanissime, che si occupano di fertilizzanti di nuova generazione; che realizzano arnie sensorizzate per gli apicoltori, che sviluppano sistemi di monitoraggio wireless per vigne e frutteti; che valorizzano scarti agroindustriali per creare anti-infiammatori naturali. In comparto cruciale per l'occupazione regionale come l’agricoltura (impiega il 3,8% dei lavoratori trentini e l’8% di quelli altoatesini) le tecnologie delle startup trovano sponda nei progetti di ricerca a ma46 |

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trice pubblica (la Fondazione Edmund Mach a San Michele all’Adige, specializzata in agronomica e genomica vegetale, e il Centro di Sperimentazione Agraria Laimburg ad Auer) e in diverse aziende tradizionali interessate a innovare. All'interno del Noi Techpark di Bolzano, struttura aperta a fine 2017 per volere della Provincia autonoma, opera Mirnagreen. Primo spin-off della Fondazione Edmund Mach, è stato fondato alla fine del 2015 dal biologo milanese Roberto Viola e poi accelerato e finanziata da Industrio Ventures. Mirnagreen può esibire un vanto decisamente particolare: quello di aver definito, primo al mondo, un modo per produrre su scala industriale estratti a base di microRna

(piccole molecole endogene di Rna) di frutta e ortaggi per contrastare l’insorgere delle infiammazioni che favoriscono malattie come il diabete e il cancro. L’ambito di intervento della startup è quello B2B e in questa chiave vanno letti gli accordi preliminari di fornitura siglati a livello nazionale con alcune importanti aziende del settore nutraceutico. La sua priorità, oggi, è quella di testare l’efficacia del componente e le tecnologie più adatte a mettere in funzione un impianto di produzione che a regime dovrebbe produrre circa un chilogrammo di principio attivo al mese attraverso un processo certificato e protetto da brevetto. I clienti di riferimento, come ha confermato Viola a Technopolis, saranno


principalmente aziende del settore nutraceutico (che vale solo in Italia due miliardi di euro ed è il più grande mercato in Europa) e cosmetico, senza escludere applicazioni in campo agricolo in forma di biostimolanti e fertilizzanti. Per farlo serviranno nuovi capitali oltre al milione di euro finora raccolto e il piano di sviluppo prevede in tal senso ulteriori 35 milioni di finanziamenti entro il 2022. C’è l’idea di partire con la produzione in serie già l’anno prossimo sfruttando, se ci saranno le condizioni, impianti già esistenti e dedicati alla co-generazione. Irrigazione intelligente

Al Noi Techpark ha sede anche Bluetentacles, fondata nel 2017 da tre professionisti trentini esperti nel campo dei sistemi di irrigazione a goccia, fra

cui Marco Bezzi, che di questa nuova impresa è il Ceo. La missione aziendale è esplicita: ovviare al problema della mancanza di acqua, mettendo nelle mani di consorzi agrari e grandi aziende agricole, della Regione e non solo, una soluzione completa in grado di rendere “smart” gli impianti fissi e mobili in tubi in polietilene già esistenti. Come? Utilizzando un mix di tecnologie che include reti LoRaWan a basso consumo energetico, dispositivi gateway a lunga durata, controller elettronici in grado di acquisire i dati raccolti dai sensori posizionati nei campi (fall'interno di ilari e frutteti in particolare), un database in cloud in cui convergono anche le informazioni meteo e satellitari (per cui è in essere una collaborazione con l’Università di Trento) e algoritmi di intelligen-

za artificiale che suggeriscono tempi e modi di attivazione dell’impianto. La convinzione di Bluetentacles è che in questo modo si possa risparmiare fino al 30% sui consumi idrici ed energetici attuali con il grande vantaggio di poter offrire il retrofit della maggior parte degli impianti in essere. A tendere l’obiettivo sarà invece quello di estendere la soluzione a colture intensive come le risaie e le biomasse e di arrivare idealmente alla precisione totale del sistema. “È un work in progress”, spiega in proposito Bezzi, “perché serve tempo per digerire la nuova tecnologia, per fare un corretto trasferimento tecnologico su consorzi e agricoltori e per il cambio culturale che risulta fondamentale per razionalizzare il processo”. Gianni Rusconi

L’ACCELERATORE CHE PARLA AI DISTRETTI DELL’INDUSTRIA 4.0 L'alleanza strategica siglata a maggio con l’emiliana Gellify, piattaforma che connette startup del software B2B e aziende tradizionali, è solo l’ultima mossa di Industrio Ventures, l’acceleratore “boutique” attivo dal 2014 all'interno del Polo Meccatronica di Rovereto. Questa realtà ha fatto molti passi, in pochi anni, per arrivare a dotarsi di ciò che serve per fare impresa a cioè, come spiega il direttore generale di Industrio, Gabriele Paglialonga, “gli ingredienti, ciò che c'è dentro la scatola”. L’accordo con Gellify, votato alla creazione di sinergie in ambito Industria 4.0, va quindi letto come sbocco naturale di una focalizzazione da sempre orientata al mondo dell’hardware e come volontà di crescere nell’area compresa fra Brescia, Bologna, Udine e Bolzano, “dove c’è una ricca e consolidata presenza di distretti industriali, Pmi

Gabriele Paglialonga

e logiche di filiera”. L’obiettivo a tendere, come conferma Paglialonga, è quello di “diventare il primo acceleratore italiano in ambito industriale, spaziando dalla meccatronica al tessile fino al packaging. Noi siamo investitori di startup a livello early stage, nell’ordine dei 50-70mila euro, e l’accordo con Gellify, che lavora a livello di venture capital, si spiega non solo in chiave finanziaria ma anche in ter-

mini di asset e di tecnologia, all’insegna di una totale complementarietà”. Sullo sfondo c’è un percorso di sviluppo che vuole mettere a fattor comune risorse a sostegno di un numero maggiore di startup (sei quelle che entreranno nell'orbita di Industrio fra 2019 e 2020), per essere più attraenti verso le nuove idee, con il plus di poterne testare la fattibilità in laboratori ad hoc come quello di Prom, ospitato anch’esso al Polo Meccatronica. Si punta ad accompagnare le imprese dai loro primi passi (brevetto, realizzazione del prototipo, definizione del business plan) verso la ricerca di un investitore istituzionale, validando l’idea prima che questa arrivi sul mercato. I presupposti ci sono, ma secondo Paglialonga è doveroso “alzare il livello qualitativo delle startup, fare scouting mirato e coltivare open innovation in modo operativo e concreto”. G.R.

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PER ENGINEERING DIGITAL TRANSFORMATION |TECHNOPOLIS Perpiciatis

L'OPEN SOURCE EUROPEO VA IN GIRO PER IL MONDO

Nel 2009 la UE decise di avviare un piano strategico con l’obiettivo di rilanciare l’industria tecnologica del continente. Il risultato fu un’iniziativa battezzata “Future Internet”, una collaborazione tra soggetti pubblici e privati promossa da16 grandi realtà dell’IT europeo. Per l’Italia parteciparono Telecom ed Engineering. Alcuni progetti di ricerca cominciarono a produrre asset software interessanti e la Commissione decise di definire degli ambiti di applicazione: Smart City, Industria 4.0, Smart Agriculture. Fu anche lanciato un programma di accelerazione dedicato a Pmi e startup. L’iniziativa prese il nome di FIWARE e raccolse oltre 500 milioni di euro di investimenti pubblici e privati. La fine dei finanziamenti pubblici pose i partecipanti di fronte a un bivio: concludere il percorso di R&D o trasformarlo in un’iniziativa industriale di mercato, aperta e inclusiva? A protezione e tutela degli investimenti nacque la FIWARE Foundation, realtà indipendente e no-profit, il cui obiettivo è valorizzare, proteggere e far crescere le tecnologie nate all’interno del programma. Oggi può contare su centinaia di membri in tutto il mondo. Engineering, nata già 40 anni fa con una visione della gestione del dato mirata a trarne conoscenza come punto cruciale per definire le strategie di crescita, ha dall’inizio identificato nella rivoluzione open source i grandi vantaggi 48

che questo approccio avrebbe potuto generare per i clienti, i consumatori e i cittadini. Per questo è tra i soci fondatori e promotori di FIWARE. Le aziende che aderiscono alla piattaforma software sviluppano dei “mattoncini generici” completamente open source, utilizzabili per sempre gratuitamente, e su cui costruire proprie soluzioni e servizi. A partire da queste basi, Engineering ha creato la sua piattaforma di ecosistema Digital Enabler: un ambiente cloud raccoglie dati provenienti da sorgenti eterogenee, come i sensori IoT, sistemi di backoffice, open data. Il Digital Enabler, in base agli standard di FIWARE riconosciuti a livello globale, armonizza, analizza, sincronizza e integra i dati per offrire al cliente una più puntuale conoscenza dell’ambiente in cui deve operare, per sviluppare rapidamente nuovi modelli di business e di servizio creando valore grazie a tecniche di Machine Learning e AI. La piattaforma di ecosistema, in cui Engineering mette anche tutta la propria importante capacità di governo delle tecnologie abilitanti più strategiche, è uno strumento estremamente potente, che offre grandi vantaggi in ambito PA, nazionale e locale, con una track record rilevante per Smart Citiy, Industria 4.0, Smart Agriculture ed Energia. Con Digital Enabler, ad esempio, Engineering ha vinto la gara indetta dalle città di Anversa, Copenaghen e Helsinki per la gestione della qualità dell’aria, traffico, sanità. Alcuni dati erano disponibili in ambienti aperti, altri erano generati da sensori e altri si trovavano in repository terzi. L’indipendenza dal dominio e dalle tecnologie del Digital Enabler ha permesso di recuperare, normalizzare e rendere disponibili i dati combinati alle città, senza dover investire in nuove infrastrutture, evitando ogni forma di lock-in. Altro esempio, in Uruguay, è l’operatore nazione Telco ANTEL, che ha adottato il Digital Enabler per gestire informazioni su parcheggi e qualità dell’aria o l’integrazione nella soluzione Smart Agriculture di Engineering. Digital Enabler può anche valutare e migliorare la qualità delle fonti e abilita una gestione in tempo reale dei sistemi. Le sue caratteristiche chiave di usabilità, flessibilità e scalabilità consentono di passare rapidamente dalle slide all'applicazione funzionante. Anche così Engineering porta nel mondo la forza della tecnologia open source europea.


GDPR

Non solo un adempimento previsto per legge, ma anche un'opportunità di sviluppo del proprio business. A un anno dall'entrata in vigore, per il Regolamento europeo sulla protezione dei dati è tempo di un primo bilancio. Positivo.

IL RITORNO ECONOMICO DELLA PROTEZIONE DEI DATI

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l regolamento europeo sulla protezione dei dati personali torna al centro del dibattito, a un anno dalla sua introduzione: c’è chi sostiene che, dentro le aziende, non si sia fatto abbastanza, mentre altri vedono nelle imprese una maggiore consapevolezza verso questa tematica. Abbiamo chiesto un’opinione a Giovanni Buttarelli, Garante europeo della protezione dei dati. Possiamo fare un bilancio di quanto e come le aziende europee si siano impegnate per raggiungere la compliance alla normativa?

Come era prevedibile, il Gdpr non ha provocato alcun cataclisma. È pur vero che riscontriamo ancora una certa fati-

ca nella recezione e applicazione della normativa, ma ritengo che il bilancio sia positivo. Sta via via maturando la consapevolezza che l’attuazione di tale regolamento non è un ostacolo al mercato perché, al contrario, investire nella protezione dei dati degli utenti garantisce un ritorno economico e un incremento del livello di fiducia da parte del consumatore. L’approccio all’applicazione del regolamento, tuttavia, deve essere ‘tailored’, cioè ritagliato su misura.” Le aziende sono diventate più trasparenti per quanto riguarda la comunicazione sulle violazioni dei dati?

Il Gdpr ha introdotto l’obbligo di notifica alle autorità garanti nazionali

entro 72 ore dalla scoperta dell’avvenuta violazione. Il danno economico, oltre che reputazionale, può essere molto alto in caso di mancata notifica. La consapevolezza della protezione dei propri dati da parte degli utenti, nonostante le continue segnalazioni di data breach, fatica a crescere: come si esce da questa impasse?

In questa fase è cruciale il ruolo delle istituzioni. Occorre pertanto garantire una corretta ed efficace applicazione del regolamento potenziando il sistema dei controlli, al fine di sanzionare con prontezza le eventuali violazioni. Parallelamente è necessario facilitare l’accesso degli utenti a quegli strumenti che GIUGNO 2019 |

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GDPR

la normativa in vigore mette prevede e a tutela della privacy. Instaurare una cultura della protezione dei dati è fondamentale. In questa prospettiva il Gdpr mira a favorire gli spazi di connessione le persone, consentendo agli utenti di beneficiare in sicurezza dei vantaggi offerti dalle nuove tecnologie. Il Data Protection Officer, o Dpo, è realmente un elemento chiave?

È fondamentale, ed è al centro di questo regolamento. Le aziende e le pubbliche amministrazioni che si dotano di un Dpo devono capire l’importanza di integrare questa figura professionale in ogni aspetto della propria attività. Il Gdpr fa esplicito riferimento a due principi cardine: la privacy by design e la privacy by default, per i quali è necessario pensare in ottica di riservatezza ogni attività di trattamento dei dati, sin dal principio. In questo contesto il Dpo ha un ruolo cardine, che può fare la differenza in termini di semplificazione dei processi aziendali e che può evitare eventuali sanzioni e contraccolpi di immagine, oltre ai danni per cittadini e utenti. Mark Zuckerberg ha dichiarato di essere favorevole a un Gdpr su scala globale: che cosa ne pensa?

Si tratta di affermazioni incoraggianti ,che tuttavia non hanno ancora prodotto risultati apprezzabili. Il dibattito in questione chiama in causa direttamente il modello di business dei social network, che si basa sulla monetizzazione dei dati personali degli utenti. Non c'è solo un problema legato alla privacy: queste piattaforme sono in mano a pochi soggetti, spesso situati fuori dai confini della Ue, i quali possono orientare i processi democratici a seconda delle decisioni prese dagli algoritmi. Dobbiamo pensare, su scala globale, a un approccio etico alle nuove tecnologie. Gianni Rusconi 50 |

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FRANCIA "REGINA" DELLE INFRAZIONI. MANO LEGGERA SULLE SANZIONI In Europa il Gdpr ha fruttato 56 milioni di euro di sanzioni in poco più di un anno di vita. Il Paese in cui è stato registrato il maggior numero di infrazioni al regolamento Ue è la Francia, mentre l’Italia si è classificata quinta. Nel mezzo si trovano Danimarca, Polonia e Portogallo. Nella Penisola il numero di notifiche di violazioni sfiora il migliaio, contro le 15mila dei Paesi Bassi e le 12.600 della Germania. I dati dello studio legale Dla Piper sottolineano principalmente una cosa: il numero di azioni intraprese a seguito di incidenti è stato molto limitato, con un tasso relativamente basso di ammende. Secondo Dla Piper, in questo primo anno di applicazione le autorità di regolamentazione si sono impegnate a rendere il Gdpr più efficace. Come a dire che il tempo delle sanzioni non è ancora arrivato, ma lo farà presto. Anche perché, come hanno spiegato diversi data protection officer intervenuti al Global Privacy Summit organizzato a Washington dall’International Association of Privacy Professionals, le indagini su eventuali violazioni richiedono almeno sei mesi di tempo per essere portate a termine. Nel ciclo di vita di un’interrogazione le autorità devono prima di tutto determinare la pertinenza dei reclami provenienti da un residente nell’Unione europea. Molti esposti ricevuti nell’ultimo anno si sono dimostrati essere semplici richieste di opt-out della pubblicità, che non sono coperte dal regolamento. Nel caso di

reclami validi, gli enti preposti al controllo devono ottenere maggiori informazioni sullo specifico argomento e sulla tecnologia in questione. Diventa quindi obbligatorio contattare direttamente le aziende oggetto dell’esposto. Punto di partenza, non di arrivo Le imprese, in ogni caso, hanno fatto il minimo indispensabile per la gestione e l’archiviazione dei dati dei clienti. In generale, il primo obiettivo è stato quello di eliminare i rischi per ridurre la probabilità di incappare in qualche multa o in problemi legali. Secondo Veritas Technologies, le aziende hanno innanzitutto cancellato le vecchie informazioni dai propri siti Web e hanno poi aggiunto dei moduli di consenso per richiedere l’autorizzazione all’utilizzo dei dati. Ma il livello più profondo della gestione delle informazioni (inclusa la loro messa in sicurezza) non è stato affrontato in modo organico. Per essere realmente conformi al Gdpr è necessario unire tecnologie, formazione e supporto di vari dipartimenti interni (come legale e It) e di società di consulenza. Il regolamento, già di per sé complesso, subisce inoltre modifiche continue che rendono più impegnativo l’adeguamento. Ecco perché il Gdpr, sottolinea il Gruppo Kirey, deve essere visto come uno strumento di partenza e non di arrivo e va affrontato con un approccio orientato sia al principio di accountability sia al miglioramento continuo dei sistemi di gestione della privacy.


LA BLOCKCHAIN AL TEMPO DEL GDPR: PROBLEMI IN VISTA?

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introduzione del Gdpr ha creato un problema normativo molto specifico per la blockchain. Il nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati si pone il duplice obiettivo di difendere i diritti dei cittadini e di agevolare la libera circolazione delle informazioni personali nell’Unione europea. La legge è stata concepita e scritta prima che la tecnologia blockchain fosse ampiamente nota e, quindi, la normativa parte dal presupposto implicito che una banca dati sia un meccanismo centralizzato per la raccolta, la conservazione e il trattamento di informazioni. Un certo numero di disposizioni del Gdpr è quindi in parziale contrasto con l'approccio decentrato della blockchain. Il punto di tensione più evidente deriva dal fatto che i registri distribuiti sono delle banche dati in costante crescita: i blocchi contenenti le informazioni (in particolar modo negli scenari permissionless, ovvero aperti e senza autorizzazioni) possono essere aggiunti ma non rimossi né modificati. Il regolamento, però, conferisce esplicitamente al cittadino europeo il diritto di chiedere e ottenere la modifica o la cancellazione delle proprie informazioni nel caso in cui non siano più necessarie. Un’operazione difficilmente attuabile senza sconvolgere la serie di blocchi di operazioni, in quanto si altererebbe tutta la sequenza successiva. In una blockchain permissionless, in cui tutti i nodi elaborano e validano i dati,

Massimiliano Dragoni

diventa difficile identificare chi sia il “responsabile del trattamento”, vale a dire la persona o l’entità giuridica responsabile in ultima istanza delle modalità di utilizzo delle informazioni. L'identificazione di tale entità è un requisito fondamentale del Gdpr. Il regolamento stabilisce che i dati possono essere trasferiti a terzi al di fuori della Ue solo se il sito in questione offre livelli di protezione equivalenti a quelli riscontrati in Europa. Molte blockchain senza autorizzazioni sono globali e hanno una copia completa dei dati replicata su tutti i nodi. Non è possibile limitare in modo selettivo la trasmissione dei blocchi ai soli “attori” europei e non a quelli fuori dall’Unione. Questa circolazione dei dati contrasta con le disposizioni del Gdpr, secondo le quali le imprese devono trattare solo le informazioni necessarie per una specifica operazione e successivamente essere in grado di cancellarle. Inoltre, le tutele del regolamento

consentono ai singoli di ottenere il non trattamento automatico dei propri dati personali. In questo le blockchain non sono conformi, poiché generalmente i contratti intelligenti (smart contract) trattano automaticamente le informazioni di una transazione. Alcuni esperti considerano queste tensioni come inconciliabili e pensano che un gran numero di progetti sia probabilmente incompatibile con il regolamento. Altri hanno anche sostenuto che la tecnologia rappresenti una minaccia per la protezione dei dati. Ma è tutto ancora da provare. Sia la blockchain sia il Gdpr sono solo al loro battesimo e la strada è ancora lunga. Conciliare il regolamento e i registri distribuiti non sarà soltanto una sfida per i legislatori ma anche per le aziende, perché l’enorme incertezza potrebbe frenare l’innovazione. Ma si può anche essere ottimisti, poiché sia il Gdpr sia la blockchain condividono l'obiettivo della sovranità dei dati: la “catena di blocchi” potrebbe diventare uno strumento importante per questo scopo. Inoltre, il legislatore potrebbe aggiornare il regolamento per consentire alla blockchain di operare secondo un quadro giuridico preciso. Grazie a opportune modifiche legislative, la tecnologia potrebbe addirittura aiutare piattaforme e applicazioni a essere conformi al Gdpr. Massimiliano Dragoni, senior policy officer della Commissione Ue

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TECHNOPOLIS PER TREND MICRO ITALIA DIGITAL TRANSFORMATION | Perpiciatis

DEVOPS: L’IMPORTANZA DELLA “SECURITY BY DESIGN”

Salvatore Marcis, Technical Director di Trend Micro Italia

Inserire i controlli di sicurezza all'interno dell'intera pipeline del DevOps, anziché nelle ultime fasi, fa risparmiare tempo e denaro. Il DevOps ha portato velocità, agilità e continuità nello sviluppo software, accorciando le attese fra una release e l’altra e riducendo il time to market dei nuovi servizi. Tutte le aree aziendali sono coinvolte dai processi del DevOps, a partire ovviamente dai team dedicati allo sviluppo e alle operations, ma proseguendo anche con i dipartimenti vendite, risorse umane, finance. C’è però un risvolto della medaglia: la sicurezza. Lo spostamento dei workload in cloud, l'uso dei container, l'integrazione automatizzata e la pipeline di comunicazione necessitano controlli di sicurezza efficaci e affidabili, per difendere i processi da una varietà di minacce e attacchi sofisticati. Possibili rischi derivano dall'uso di cloud ibridi o del multicloud, su cui spesso interagiscono manager non tecnici (non di rado, attivando servizi all'insaputa del dipartimento IT). “Il DevOps è un modello di lavoro e non una tecnologia”, spiega Salvatore Marcis, Technical Director di Trend Micro Italia. “Nato ormai da più di

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dieci anni, negli ultimi tre o quattro ha trovato una più ampia diffusione nelle aziende, le quali stanno ora cercando di trovare delle tecnologie che possano assisterle in questo cambiamento”. Tipicamente, nel DevOps finora la parte di sicurezza è stata gestita a posteriori, una volta concluse le fasi di sviluppo e prima del lancio in produzione. Ma questo aggiunge un duplice peso all’applicativo: può rallentarne le prestazioni e anche il time to market. Per conciliare la sicurezza e la flessibilità necessarie a lavorare su ambienti ibridi e multicloud, Trend Micro ha creato Deep Security Smart Check, una soluzione ottimizzata per i DevOps che permette di rilevare eventuali criticità di sicurezza prima che l’applicazione passi dalla fase di sviluppo alla produzione. Deep Security Smart Check, infatti, effettua una continua scansione dell’immagine del container (l’ambiente software che racchiude l'applicazione, i suoi dati e altri elementi necessari al suo funzionamento) per trovare eventuali vulnerabilità o malware in modo efficace e tempestivo. In sostanza, la soluzione di Trend Micro realizza una protezione in runtime e si integra nella pipeline del DevOps senza comportare interruzioni o rallentamenti. “La caratteristica principale di Smart Check”, sottolinea Marcis, “è la possibilità di essere richiamato dai tool di orchestrazione. Questo è utile per le aziende che hanno basato lo sviluppo applicativo su task automatizzati, le quali possono richiamare la piattaforma per lanciare un’analisi del codice e identificare eventuali malware o vulnerabilità. Terminata l’analisi viene inviato un report all’orchestratore e il cliente può decidere se mandare l’applicativo in produzione o se rimandarlo agli sviluppatori, con le indicazioni necessarie a sanare le vulnerabilità riscontrate in base al punteggio di rischio definito”. Un’analisi di questo tipo permette ai team degli sviluppatori e delle operations di avere immediata visibilità sulla situazione, su eventuali modifiche o aggiornamenti da apportare al software per migliorarlo e risolvere potenziali rischi. La necessità di strumenti di protezione più tradizionali, come i firewall, non scompare, ma si modifica l’approccio: per esempio, è possibile adottare politiche di sicurezza meno stringenti, così da limitare l’impatto sulle performance dei sistemi e delle applicazioni. “Con la Security by Design consentita dalla nostra soluzione”, sottolinea Marcis, “il progetto contiene già al suo interno la sicurezza, e quindi arriva in produzione essendo già pronto da questo punto di vista. “Risolvere i problemi di sicurezza durante il processo di sviluppo è molto più veloce e meno costoso, anche trenta volte meno, rispetto a quanto accada se si scopre un bug quando l’applicazione è già in produzione”. È possibile richiedere informazioni e una prova gratuita di Deep Security Smart Check attraverso il sito di Trend Micro, oppure tramite un partner di canale.


CYBERSECURITY

DARK WEB SOVRASTIMATO O PERICOLO REALE? Due diversi studi fotografano il fenomeno del Web “nascosto”: più piccolo di quel che non si creda, ma anche sempre più ricco di servizi per la cybercriminalità.

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e fosse un centro commerciale, si direbbe che i suoi negozi diventano sempre più pieni di una variegata offerta e che le sue vetrine sono sempre più attraenti e continuamente rinnovate. In effetti il dark Web (cioè l’insieme dei “luoghi” digitali non rilevati dai motori di ricerca e basati su dark net private peerto-peer o pubbliche, come Tor è in un certo senso un centro commerciale dove si comprano, vendono e scambiano prodotti di ogni genere: droghe, medicinali, armi e anche, sempre di più, soluzioni pronte all’uso per aspiranti cybercriminali. Un mercato illegale e sotterraneo, nato sostanzialmente insieme al Web già negli anni Novanta, e ancora non debellato. Solitamente i suoi negozi digitali hanno un tasso di mortalità molto alto ma sanno anche risorgere con facilità: scompaiono velocemente, specie in seguito a indagini delle forze dell’ordine che portano alla loro chiusura, ma spesso versioni simili o anche identiche dello stesso marketplace rispuntano a breve distanza di tempo, oppure i loro prodotti trovano nuovi canali di commercializzazione. Dopo la chiusura di Silk Road e AlphaBay, per esempio, i cataloghi di altre piattaforme di dark net sono cresciuti del 28%. In fondo, per l’aspirante compratore è sufficiente sapere dove guardare e possedere il corretto software, la configurazione o l’autorizzazione necessari ad accedere.

Un universo piccolo, ma pericoloso

Va detto che le dimensioni del fenomeno non sono mai state del tutto chiarite, lasciando l’idea del dark net avvolta in una nuvola di fumo, in cui il mito della sua pericolosità ha continuato a vivacchiare. Una recente analisi della società di sicurezza informatica Recor-

ded Future (titolata “Who’s Afraid of the Dark? Hype Versus Reality on the Dark Web”) ha in parte smontato questo mito, accertando il fatto che su circa 55mila domini .onion (quelli usati dalla rete Tor) trovati online, solo 8.400 hanno un sito Web attivo a essi associato. “Il dark web è sempre dipinto come vasto e GIUGNO 2019 |

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CYBERSECURITY

misterioso”, si legge nel report, “suggerendo che su Tor esista un gran numero di siti onion, ma non abbiamo riscontrato questo”. Le dimensioni del Web nascosto, di cui Tor rappresenta una buona fetta, non sono però l’unico indicatore da considerare nel valutare i rischi di questo fenomeno. Un nuovo studio (“Behind the Dark Net Black Mirror”) condotto a quattro mani dalla società di cybersicurezza Bromium e da ricercatori dell’Università del Surrey ha evidenziato che dal 2016 a oggi nel dark Web è aumentato del 20% il numero degli articoli potenzialmente in grado di causare danni alle aziende. Nel gruppo rientrano i malware, i servizi per la creazione di attacchi DDoS, dati aziendali rubati e strumenti di phishing indirizzati a utenti business. Ma che cosa si vende, esattamente? Per scoprirlo, i ricercatori di Bromium e dell’Università del Surrey hanno studiato il fenomeno interagendo con una trentina di rivenditori del dark Web, attraverso forum, scambi di email e canali di comunicazione crittografata. Ebbene, considerando l’insieme degli articoli disponibili, a eccezione delle droghe e di prodotti correlati (addirittura, sono in vendita flaconi di urina sintetica utili per superare le analisi mediche), circa il 60% rientrava nello scopo di creare danni alle imprese, vuoi con un attacco informatico, vuoi con l’acquisto di dati rubati. Tra gli articoli potenzialmente pericolosi per le aziende, il 15% è stato classificato come in grado di causare danni sul medio o lungo termine, quali perdita di reputazione, compromissione del brand, contraffazione; altri strumenti, invece, possono causare danni diretti e immediati con frodi e furti di denaro. Un servizio “sartoriale”

Cresce, inoltre, quello che nel report viene definito come il fenomeno degli “hacker assunti”: persone senza scrupoli 54 |

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che si infiltrano all’interno delle aziende, le studiano e creano dei malware su misura per attaccarle. “La natura sempre più targetizzata e sartoriale dei servizi del dark net”, si legge nel report, “dovrebbe essere un campanello d’allarme per le aziende sui rischi che corrono, riguardanti la competitività, la protezione del giro d’affari, la reputazione e la continuità del business”. Molto significativo, a tal proposito, è il fatto che la domanda di malware “su misura”, creati ad hoc per un certo bersaglio, attualmente sia doppia rispetto alla richiesta di malware preconfezionati, “da scaffale”. Molti siti di rivendita, circa il 60%, propongono software malevoli o strumenti di cyberspionaggio in grado di dare accesso alle reti informatiche di singole aziende, in particolare appartenenti al settore finanziario, alla sanità e all’e-commerce. Come spiegato da Michael McGuire, senior lecturer di criminologia dell’Università del Surrey, “È possibile acquistare malware su misura creato da persone che hanno ottenuto conoscenze su una specifica rete, sulle sue funzioni e misure di protezione. Non si tratta necessariamente di zero-day, ma spesso c’è una combinazione fra cybercrimine fatto dagli esseri umani e sofisticati software”. Valentina Bernocco

VULNERABILITÀ IN ASCESA La presenza di elementi di debolezza nell’hardware, nel software e nelle reti aziendali è in chiaro aumento. Un’analisi realizzata a livello internazionale da Ntt Group, il “Global Threat Intelligence Report 2019”, ha evidenziato la preoccupante tendenza: le nuove vulnerabilità scoperte nel 2016 non raggiungevano quota 6.500, nel 2017 la quantità era più che raddoppiata (14.714) e nel 2018 si è arrivati a 16.555 casi. Una buona parte del problema, sottolineano gli autori dello studio, sta nel mancato aggiornamento di software e sistemi operativi, che risultano zeppi di problemi non corretti dalle patch o dalle successive versioni disponibili. La sanità, in particolare, è forse il settore in cui più facilmente troviamo release di Windows ormai non più supportate da aggiornamenti. Con la progressiva affermazione dei metodi DevOps, inoltre, capita che parti di codice vengano impiegate per diverse applicazioni e laddove esista una vulnerabilità, è facile che questa si diffonda.

IL PEGGIOR NEMICO DELL’EUROPA È L’EUROPA STESSA Nell’immaginario comune gli hacker sono soprattutto cinesi, nordcoreani o russi. Se ragioniamo però solo sugli attacchi informatici sferrati contro le aziende tramite Internet Protocol, questo stereotipo geografico crolla. Un’analisi condotta da F5 Networks sul traffico destinato agli indirizzi IP europei dal primo dicembre 2018 al primo marzo 2019

ha svelato che la maggior parte degli attacchi aveva come origine l’Olanda, seguita dalla Francia. Quanto ai bersagli, nel periodo in esame è stata presa di mira soprattutto la porta 5060, quella usata dal servizio SIP (Session Initiation Protocol) per la connettività Voice over IP verso telefoni e sistemi di videoconferenza.


IL 5G FRA SICUREZZA E PRIVACY Il sistema delle nuove reti mobili, per l'eterogeneità dei servizi applicativi offerti, impone un approccio del tutto diverso. E flessibile.

L

a tecnologia di rete mobile di quinta generazione offre prestazioni di capacità trasmissiva e latenza molto maggiori dei sistemi precedenti e fornisce una piattaforma di supporto per una grande varietà di servizi eterogenei. I contesti applicativi del 5G sono altamente diversificati e certamente sfidanti per quanto riguarda gli aspetti di sicurezza e riservatezza dei servizi offerti e dei dati generati. Si pensi ad applicazioni come il controllo in tempo reale di robot industriali, i veicoli autonomi, i droni, le diagnosi mediche e le operazioni chirurgiche a distanza. Lo sviluppo e la personalizzazione dei servizi sono basati sulla virtualizzazione delle infrastrutture di rete, integrando le funzioni di computing, storage e switching nel cloud e collocandole nei bordi della rete stessa per fare fronte alle applicazioni che richiedono bassa latenza (i servizi cosiddetti “time critical”). Per fare fronte a questo nuovo scenario di integrazione che interessa molti mercati verticali è necessario un approccio alla sicurezza completamente diverso da quello adottato per i sistemi cellulari delle precedenti generazioni. Non è più possibile, infatti, adottare il metodo “one size fits all” usato nei sistemi 2G/3G/4G, ma occorre affrontare la diversità dei servizi applicativi con un approccio di tipo “flexible security”. Nel sistema 5G

viene quindi introdotto un protocollo (Eap-Aka, Extended Authentication Protocol- Authentication and Key Agreement) che funziona da contenitore delle procedure e delle soluzioni di sicurezza diversificate che servono per fare fronte al particolare scenario applicativo considerato. Per il 5G, inoltre, continua a valere l’approccio (già definito per il 4G) della “built-in-security”, e cioè una sicurezza direttamente integrata nelle specifiche di sistema “prima” dello sviluppo in campo. Sicurezza necessaria perché nelle infrastrutture di quinta generazione, quando sono in gioco i servizi legati alla Internet of Things, gli attacchi cibernetici possono sfruttare il malware diffuso nei cluster di sensori e prendere il controllo di milioni di dispositivi, dando luogo a scenari di attacco di scala e impatto senza precedenti. Un ulteriore approccio alla sicurezza del 5G è l’automazione. Le prestazioni di sicurezza dipendono infatti anche dalla capacità di security management della rete da parte degli

operatori, e cioè dai tool introdotti per abilitare un rapido aggiornamento non solo delle attività di gestione, ma anche delle soluzioni di protezione introdotte per nuovi servizi. Non va dimenticato, infine, come la sicurezza del sistema 5G coinvolga tutte le sezioni della rete e dei dispositivi: dall’accesso radio agli elementi di trasporto della rete (traffico dati e messaggi di segnalazione e controllo), dalla protezione dei terminali (smartphone e sensori) all’identificazione degli utenti, passando per la protezione delle piattaforme di servizio e delle applicazioni. Il grande numero di stakeholder coinvolti nei servizi verticali, infine, richiede grande attenzione per la privacy e la rivelazione di dati sensibili, per cui sono necessarie regole per governare le attività di profiling degli utenti e l’impiego delle informazioni sul loro comportamento finalizzato alla personalizzazione dei servizi. Maurizio Decina, presidente di Infratel

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INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Tentare una tassonomia delle tecnologie di intelligenza artificiale è impresa complessa. Ma utile per definire i limiti tra opportunità e rischi all’orizzonte.

CAPIRE L’AI PER IMPARARE A CONTROLLARLA

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convinzione diffusa che l’intelligenza artificiale sia destinata ad avere un impatto profondo sulla vita delle persone, sui modelli di business delle imprese, sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni, sulla crescita e la produttività dei sistemi economici. Allo stesso tempo alcuni esprimono timori per una possibile minaccia ai valori fondamentali della nostra società. Certo, se non adotteremo misure adeguate potrebbero materializzarsi seri rischi per la tutela dei dati personali, la sicurezza delle persone, l’aggravamento delle disuguaglianze sociali ed economiche. Ma questi legittimi timori non possono sconfinare nel catastrofismo dei tecnofobi. A esso si contrappone la visione di coloro che affermano occorra 56 |

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un cambio di paradigma, di prospettiva e di senso. In questo contesto si colloca il recente rapporto (“Artificial Intelligence. Ethics, governance and policy challenges”) del Centre for European Policy Studies, che mostra una fotografia interessante dello stato dell’arte dell’Europa e fornisce strumenti assai utili per una prima tassonomia di un materia che finora è stata interpretata soprattutto per silos disciplinari distinti. In questo studio l’AI viene definita come “uno sviluppo di sistemi software (spesso anche utilizzati in combinazione con hardware) che, dato un obiettivo complesso, sono in grado di agire in modo da percepire l’ambiente che li circonda, acquisire e interpretare dati e formulare una decisione basata sui dati raccolti al fine di raggiungere l’o-

biettivo”. In realtà l’AI è una famiglia di metodi e tecniche, alcune basate su istruzioni e altre sull’apprendimento, in cui il sistema osserva e acquisisce dati senza conoscere le “regole del gioco” ma deducendole dall’osservazione empirica. Una maniera nuova, che può lasciare molti di noi sconcertati perché siamo abituati ad affrontare la risoluzione dei problemi in maniera incrementale. Una distinzione di fondo

Il potenziale di crescita che l’AI può iniettare nei principali settori economici è enorme, ma c’è bisogno di controllo e di direzione. E per garantire le condizioni del controllo è necessario avere una visione complessiva dei metodi e tecniche che costituiscono l’AI. È quindi particolar-


mente utile questa proposta di tassonomia, che il rapporto mutua da un’analisi di Francesco Corea, pubblicata da Forbes. Si identificano tre macro approcci: quello simbolico, secondo cui l’intelligenza umana potrebbe essere ridotta alla semplice manipolazione di simboli; quello statistico, che usa strumenti matematici per risolvere sotto-problemi specifici; quello sub-simbolico, in cui nessuna specifica rappresentazione della conoscenza esiste a priori. Senza pretendere di attingere alla “Artificial General Intelligence”, che rimane al momento una pura speculazione, si distingue fra tecnologie che possono svolgere soltanto dei task specifici (narrow application) o che possono risolvere molteplici task e interagire col mondo meglio di molti esseri umani, oggi o nel prossimo futuro (general application). Accuratezza e trasparenza

Le tecniche delle reti neurali e di deep learning, che hanno dimostrato di riuscire a fornire i risultati migliori in termine di accuratezza delle previsioni, sono anche

quelle meno spiegabili. Mentre è facile capire il loro funzionamento di base, le decisioni che prendono sono difficilmente comprensibili dall’utente finale, e in molti casi anche dallo sviluppatore che ha creato l’applicazione. In che misura, dunque, siamo disposti a sacrificare la trasparenza delle decisioni in nome dell’accuratezza di questi sistemi? Questo è un problema che probabilmente ha soluzioni diverse a seconda delle applicazioni e dei settori. In quello industriale, dove l’efficienza e l’accuratezza del sistema sono considerati giustamente prioritari, si tende a preferire soluzioni meno spiegabili ma più accurate. Se si tratta di spiegare a una persona perché un rene sia stato destinato a un altro paziente anziché a lui, serve evidentemente un diverso livello di trasparenza. Ci sono quindi differenti esigenze da considerare nel momento in cui si definiscono delle politiche pubbliche in questo campo. Queste problematiche diventano ancor più scottanti nel momento in cui ci si chiede fino a che punto siamo disposti a utilizzare tecniche di intelligenza artificiale particolarmente invasive in attività come la prevenzione degli attentati o degli atti criminali (il cosiddetto “Minority report dilemma”). Partendo dalla diffusa richiesta di sicurezza, si rischia in questo modo di avviarsi verso un modello di società che non tutti sono disposti ad accettare, come nel caso del “Social Credit Scoring” cinese: una società perfettamente sicura, in cui a ciascuno viene attribuito un indice di affidabilità, che consente in caso positivo l’accesso a sussidi o servizi, e in caso negativo implica penalizzazioni anche molto gravi. Per discutere degli impatti sociali, etici, di policy e di governance di queste tecnologie, The Innovation Group riunisce aziende, startup, università, centri di ricerca e rappresentanti del governo nel suo “Artificial Intelligent Summit”, in programma il prossimo 3 ottobre a Milano. Roberto Masiero

LA PA ITALIANA DIETRO LA LAVAGNA L’intelligenza artificiale migliorerà la società, come molti sperano, oppure contribuirà ad accentuare le diseguaglianze fra le nazioni? Difficile dare una risposta a una domanda tanto complessa. Ma interessanti indicazioni su un aspetto della questione - il rapporto fra AI, Pubblica Amministrazione e servizi al cittadino - giungono dal lavoro svolto da Oxford Insights in collaborazione con l'International Development Research Center (Idrc) per lo studio “Government AI Readiness Index”. L’intero pianeta o quasi (194 Paesi) è stato valutato sulla base di indicatori come la presenza di leggi a tutela della privacy, l’esistenza di una strategia nazionale sull’intelligenza artificiale, le competenze digitali diffuse tra la popolazione, il numero di startup impegnate nell’AI, l’avviamento di servizi digitali della PA e altri ancora. Nella classifica mondiale della predisposizione della macchina pubblica all’intelligenza artificiale, l’Italia è quindicesima, dopo Singapore, Regno Unito, Germania, Stati Uniti, Finlandia, Svezia, Canada, Francia, Danimarca, Giappone, Australia, Norvegia, Nuova Zelanda e Paesi Bassi. Il posizionamento, pur discreto, appare meno soddisfacente al confronto diretto con le nazioni più vicine e simili alla nostra, dato che in Europa siamo all’ottavo posto e lontani dalla Francia (quinta fra le europee e ottava nella classifica mondiale). Il report riconosce all’Italia un indice di “preparazione” all’AI pari a 7,5, mentre la Pubblica Amministrazione transalpina si merita un punteggio di 8,6. V.B.

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INTELLIGENZA ARTIFICIALE

LE STARTUP PIÙ PROMETTENTI SONO A STELLE E STRISCE Nella classifica delle top 100 aziende stilata da Cb Insights, l’80% sono statunitensi. Nel complesso le nuove imprese dell’AI hanno raccolto oltre 6,2 miliardi di dollari di finanziamenti da oltre 680 fra VC, corporate venture capital e business angel.

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intelligenza artificiale, almeno a livello di startup e scaleup, abita soprattutto al di là del'oceano. Negli Stati Uniti risiede circa l’80% delle 100 aziende che Cb Insights ha selezionato, su un campione iniziale di oltre tremila come le più promettenti per il 2019. Si dividono equamente il podio, con sei aziende, ciascuna Cina, Israele e Regno Unito (Graphcore, Onfido, Medopad, Behavox, Eigen Technologies e Prowler.io). E trovano posto in classifica, con una menzione ciascuna, anche Germania (TwentyBN), Svezia (Mapillary), Canada, Giappone e India. In elenco non c’è nessuna startup italiana e visti i parametri presi in considerazione (attività brevettuale, profilo degli investitori, potenziale di mercato, partnership, panorama competitivo, forza del team) non c’è probabilmente da stupirsi più di tanto. Il mercato dell’AI secondo ultime rilevazioni ha superato nel 2018 quota 7,3 miliardi di dollari, considerando prodotti, sistemi hardware, infrastrutture dati, servizi e soluzioni che sfruttano gli algoritmi di machine learning per il riconoscimento, l’identificazione e la classificazione di oggetti e immagini. E la parte del leone, per il momen-

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to, spetta dunque agli Stati Uniti. Undici delle aziende della top 100, fra cui l’inglese Graphcore, sono unicorni , mentre nel gruppo delle imprese che vantano una capitalizzazione di mercato superiore a un miliardo di dollari il nome che spicca sugli altri è quello della cinese (di Hong Kong) SenseTime. Specialista nel campo della sicurezza e del deep learning, è stata capace finora di rastrellare sul mercato oltre 1,6 miliardi di dollari annoverando tra i propri finanziatori anche colossi del calibro di Alibaba e Qualcomm. Alle sue spalle c'è un altro unicorno cinese, Face+++, che ha convinto a investire realtà come Lenovo Ventures e Foxconn raccogliendo fino a oggi oltre 600 milioni. È californiana, invece, Zymergen, la terza azienda di intelligenza artificiale più finanziata al mondo con 574 milioni di dollari: fra i suoi azionisti ci sono Goldman Sachs e Softbank. Zymergen vanta una tecnologia che impega algoritmi di apprendimento automatico per trovare alternative alla plastica e al

petrolio utilizzabili in campo industriale. Complessivamente, a tutto febbraio scorso, le top 100 dell’AI avevano raccolto oltre 6,2 miliardi di dollari di capitale da oltre 680 fra venture capital, corporate venture capital e business angel. Gv, la ex Google Ventures, guida il plotone degli investitori attivi per numero di operazioni concluse, avendo partecipato a ben 27 deal. Dietro al colosso californiano troviamo nell’ordine Kleiner Perkins con 22 round, Data Collective con 21, New Enterprise Associates con 19, Accel con 16, Norwest Venture Partners e Battery Ventures con 15, Intel Capital con 14, IA Ventures e Ame Cloud Ventures con 13. Un ultimo dato interessante rilevato da Cb Insights riguarda i brevetti. Le più importanti cento startup dell’intelligenza artificiale su scala globale hanno depositato complessivamente seicento brevetti solo negli Stati Uniti. Gianni Rusconi


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BLOCKCHAIN

ECONOMIA APERTA E DECENTRALIZZATA Se si analizzano gli aspetti più promettenti della "catena" dal punto di vista economico, emerge la potenzialità di cambiare i modelli capitalisti attuali. Manca però ancora la volontà politica.

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a blockchain ha una doppia natura. Può essere vista con le lenti della tecnologia pura o come paradigma istituzionale. Nel primo caso, la "catena di blocchi" può registrare la proprietà di asset (interni o esterni alla piattaforma) e i dirittidoveri derivanti da “accordi intelligenti”. Nel secondo, invece, la blockchain può decentralizzare le strutture amministrative per coordinare le persone e per effettuare transazioni. Per capire al meglio gli aspetti più promettenti e rivoluzionari della tecnologia dobbiamo considerare soprattutto il lato economico. Per esempio, la catena può essere utilizzata per sostituire i blocchi fondamentali dei modelli capitalisti attuali e creare un’economia di piattaforma che 60 |

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sia aperta, orizzontale e decentralizzata. Entro pochi anni saranno ancora più evidenti i segnali di una società disintermediata. Una inarrestabile evoluzione che ci condurrà al punto in cui ogni connessione sociale, politica e di business perderà qualsiasi forma di intermediazione su larga scala per lasciare spazio a uno scambio automatico e trustless di dati, beni e valori fra pari e cittadini (anche anonimi e ogni tanto malevoli). Un esempio importante di istituzione è il denaro, che coinvolge molte organizzazioni formali come le banche centrali e i Ministeri del tesoro. Questi attori sono necessari per il corretto funzionamento dei nostri sistemi socioeconomici, in quanto emettono e controllano la valuta, considerata uno strumento di

scambio razionale. Ma quale potrebbe essere il ruolo di istituzioni come il denaro e i mercati in una società basata sulla blockchain, con organizzazioni capaci di autoregolarsi con algoritmi e in cui ogni processo è registrato, a prova di manomissione, auto-applicabile, anonimo e accessibile a chiunque? Per secoli la nostra economia è stata guidata da mercati basati sul meccanismo del prezzo, per coordinare tra loro fornitori in competizione e acquirenti anonimi, oltre che da aziende ben organizzate che hanno sfruttato l’autorità per organizzare una divisione verticale del lavoro. Malgrado queste due forme (mercati e imprese) si siano rivelate adatte per il business “offline”, non si può dire lo stesso per il modello emergente, a piatta-


forma. Le tendenze attuali evidenziano la crescente importanza di comunità di prosumer It (utenti che sono allo stesso tempo produttori e consumatori), i quali svolgono un ruolo importante nelle piattaforme peer-to-peer. Ecco quindi emergere le comunità come nuova forma di organizzazione che punta tutto sulla fiducia, considerata il meccanismo che meglio si adatta all’emergente modello economico. I due principali elementi che fino ad oggi hanno controllato la nostra società (il mercato e l’autorità) e i loro meccanismi corrispondenti (prezzo e potere) saranno sempre più intrecciati con comunità che faranno ricorso alla fiducia come requisito. La blockchain non a caso è stata definita la “macchina della fiducia”. Questa tecnologia si troverà però a dover affrontare alcune sfide. A parte le difficoltà tecniche, legali e di business, tutte superabili, l’ostacolo maggiore sarà rappresentato dalla mancanza di una volontà politica sufficiente a sostenere la trasformazione della società, unita all’eccessiva regolamentazione o

COMPETENZE DI PROCESSO Tracciare i prodotti, gestire i documenti e governare la supply chain: per i manager italiani sono questi i principali ambiti d'applicazione della blockchain. Secondo un sondaggio di Ipsos, la "catena di blocchi" si sta lentamente facendo strada nelle imprese del nostro Paese, anche solo a livello di conoscenza. Sono infatti soltanto il 4% i dirigenti che non hanno mai sentito nominare la tecnologia. Come è scontato, a essere più informati sono i reparti It e non è detto, quindi, che si discuta di blockchain anche ai “piani alti”.

alla manipolazione. Abbiamo bisogno di forza di volontà politica per creare un quadro normativo generale per la società digitale che si appresta a entrare nella quarta rivoluzione industriale. Il problema di fondo è capire come muoversi verso nuove forme di governance che sappiano innanzitutto stare al passo del progresso e, in secondo luogo, trovare il giusto equilibrio tra i benefici e i rischi delle nuove tecnologie. Come tutte le tecnologie, anche la blockchain è neutrale e può essere usata a vantaggio dei cittadini, dando loro nuovi strumenti di controllo del potere. Ma, insieme ai dispositivi dell’Internet delle cose, potrebbe anche essere impiegata per tracciare le attività delle persone e per registrare i dati dandone accesso solo alle autorità. Progettare i giusti modelli di governance dei sistemi socioeconomici distribuiti sarà senza dubbio la questione più importante da affrontare. Paolo Tasca, executive director, University College London Centre for Blockchain Technologies Ma le speranze per il futuro non mancano: il 72% dei manager intervistati considera i registri distribuiti importanti per la propria vita professionale e il 79% ne riconosce il valore per lo sviluppo economico nazionale. La blackchain inoltre dovrebbe portare benefici nell'ambito della sicurezza (elemento citato dal 57% degli intervistati) e nella decentralizzazione dei processi (43%). Fra le competenze necessarie per gestire al meglio il nuovo paradigma, vengono elencate un po' a sorpresa quelle organizzative e di conoscenza dei processi (51%), considerate più importanti rispetto a quelle tecnologiche (indicate nel 25% dei casi).

APPLICAZIONI DA RIVEDERE Nel 2021 il 90% delle applicazioni blockchain in ambito enterprise dovrà essere rivisto e modificato sensibilmente, pena la perdita di competitività e di sicurezza. È il parere di Gartner, che ha evidenziato l’alto tasso di obsolescenza delle implementazioni della catena di blocchi. Una degradazione molto rapida, dovuta principalmente all’ancora scarsa maturità della tecnologia e alle aspettative spesso poco realistiche delle aziende. I prossimi anni saranno fondamentali per il consolidamento del mercato e per l’affermazione di piattaforme blockchain più solide di altre. Secondo Gartner nel 2025 il settore varrà 176 miliardi di dollari, destinati a diventare 3.100 nel 2030.

Le “parole chiave” dei registri distribuiti cambiano se si considerano le opinioni delle persone che non lavorano in azienda: il 31% degli itltaliani pensa come prima cosa alla sicurezza. È bizzarro che i bitcoin non risultino fra i concetti associati direttamente alla blockchain, malgrado le criptovalute siano innegabilmente state le prime responsabili della popolarità della tecnologia presso il grande pubblico. Colpisce anche il fatto che il 62% degli italiani non abbia mai sentito parlare di blockchain, mentre uno su cinque si ritiene abbastanza informato. La conoscenza sale fra gli under 35 con un elevato livello di istruzione.

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ECCELLENZE.IT | Regione Sicilia

ASSISTENZA PIÙ RAPIDA PER IL 112 SICILIANO Beta 80 ha realizzato con i propri software e con quelli di Avaya una centrale unica di emergenza che, da Catania, serve le quattro province orientali della Regione. I tempi di attesa si sono ridotti. LA SOLUZIONE Il Psap di Catania include trenta postazioni, con dai 10 ai 15 operatori per turno, che gestiscono cinquemila chiamate al giorno. Il software di Beta 80 svolge funzioni di gestione chiamate ed eventi, geolocalizzazione, reportistica e Business Intelligence, e si integra con Avaya Workforce Optimization (per la gestione del contact center). Un’app mobile consente ai cittadini un metodo di contatto alternativo alla telefonata.

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a Sicilia può finalmente contare su un numero unico per le emergenze, il 112, ben funzionante. Un territorio tanto vasto, oltre 25mila chilometri quadrati, e caratterizzato da un elevato rischio incendi nei mesi estivi, aveva bisogno di un servizio più rapido, con tempi di attesa ridotti al minimo. La direttiva europea che richiede di attivare un numero unico per emergenze risale al 2002, ma l’adeguamento dell’Italia è ancora in corso. Se ne fanno carico le Regioni, molte delle quali hanno già scelto di realizzare delle centrali operative del Numero Unico 112, in cui le chiamate di emergenza ricevute sul territorio vengono smistate verso i centri operativi di secondo livello: Polizia, Carabinieri, Ambulanza, Vigili del Fuoco. La parte più orientale dell’isola (cioè le province di Messina, Catania, Siracusa e Ragusa) si è adeguata alla direttiva europea, con un salto tecnologi62 |

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co in cui un ruolo importante spetta al system integrator milanese Beta 80 Group e ad Avaya. Mettendo insieme la tecnologia di quest'ultimae la propria, Beta 80 ha progettato e realizzato a Catania una centrale unica di emergenza 112 (anche detta Psap, Public-Safety Answering Point) al servizio delle quattro province orientali della regione (circa 3,2 milioni di residenti), con un volume medio di oltre cinquemila chiamate al giorno. Lo scopo era quello di elevare la qualità dei servizi di emergenza, riducendo i tempi di risposta e migliorando la gestione delle richieste. La sfida principale era rappresentata dall’esigenza di costruire un' infrastruttura "fault tolerant" e inserita in un sistema sempre interoperabile con le centrali Psap di secondo livello esistenti. “Il territorio siciliano ha delle peculiarità legate alla geografia e alla natura”, spiega Luca Bergonzi, amministratore delegato di Beta 80. “Dunque siamo partiti dallo

studio dei progetti già realizzati in altre parti d’Italia, ma anche da un’analisi della Regione Sicilia su precedenti implementazioni”. I lavori di posa dell’infrastruttura sono cominciati in aprile, insieme alle attività di formazione del personale, per arrivare in giugno all’inaugurazione di una centrale operativa composta da trenta postazioni di lavoro, server e risorse di storage. E il servizio non è mai stato interrotto. Gli operatori ora interagiscono con un software di gestione delle emergenze personalizzato che ha permesso di ridurre da minuti a secondi il tempo medio di attesa dei cittadini. “Il progetto è stato realizzato nel periodo di picco estivo degli incendi e senza interruzione di servizio", sottolinea Massimo Palermo, country manager di Avaya Italia. Conclusa questa prima fase, si lavora ora per realizzare una secondo Psap a Palermo, che opererà da sito di disaster recovery per la centrale di Catania.


ECCELLENZE.IT | Fondazione Cineteca Italiana

IL DIGITALE RENDE ETERNA LA STORIA DI UN CAPOLAVORO Due scanner di Epson hanno permesso di digitalizzare oltre mille fotografie d’epoca che illustrano le vicissitudini dell’Ultima Cena, dall’Ottocento a oggi.

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a sua storia è non meno affascinante della sua bellezza: il "Cenacolo" di Leonardo da Vinci, o "Ultima Cena" che dir si voglia, è un indiscusso capolavoro ma anche il frutto di una realizzazione (con tecnica mista a secco su intonaco) che condannò l’opera, ospitata sulla parete più umida del refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie di Milano, a un inevitabile e progressivo deterioramento. Il ventennale restauro concluso nel 1999 ha riportato in superficie parte dello splendore originario, mentre un progetto più recente del Polo Museale Regionale della Lombardia ha fatto ricorso alle tecnologie di imaging - e in modo particolare gli scanner per allestire una mostra ("L'Ultima Cena per immagini", in corso fino a dicembre al Museo del Cenacolo) che in decine di stampe digitali racconta una storia che va dal bombardamento aereo del 1943 alle grandi opere di restauro del Novecento. La Fondazione Cineteca Italiana è stata scelta dal Polo Museale lombardo per realizzare il progetto, digitalizzando in tempi brevi un primo blocco di mille immagini conservate nell’Archivio Fotografico Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Milano. Un materiale eterogeneo, prodotto con

diverse tecniche di scatto e stampato su supporti di tipo, dimensioni, consistenza e fragilità differenti. I formati variavano fra il classico 18x24 centimetri e il 40x50 centimetri, mentre fra le tecniche fotografiche c’erano albumine, gelatine ai sali d'argento su carta baritata o politenata e persino aristotipi (le carte al citrato) di fine Ottocento. Per digitalizzare questo materiale servivano, dunque, strumenti digitali capaci di trattare piccoli e grandi formati, di garantire un’esecuzione rapida e, fatto molto importante, di migliorare la qualità del risultato attraverso funzioni di editing automatico. La Fondazione Cineteca Italiana ha utilizzato quindi due scanner di Epson per il formato A3, modello Expression 11000XL, uno dei quali già in suo possesso e l’altro donato dal vendor proprio per consentire di portare a termine il lavoro in tempi più rapidi. Sono bastate, quindi, cinque settimane per acquisire in forma digitale tutti gli oltre mille originali. "Il nostro compito”, racconta Maela Brevi, catalogatrice per Fondazione Cineteca Italiana, “è stato facilitato non solo dall'intuitività e sempli-

cità d'uso degli scanner, ma anche dalla presenza di varie funzioni che ci hanno permesso di velocizzare il lavoro di acquisizione: dall'anteprima di immagine per valutare il risultato finale, alle opzioni di miglioramento dell'immagine digitalizzata, come l'eliminazione automatica dei graffi e della polvere”. LA SOLUZIONE La Fondazione Cineteca Italiana ha utilizzato sue scanner Epson Expression 11000XL, un modello che supporta la risoluzione massima di 2400x4800 dpi e garantisce acquisizioni senza perdita di qualità fino al formato A3. Due caratteristiche che hanno reso questi scanner particolarmente adatti al progetto sono la funzione di rimozione della polvere e quella di riduzione della grana, con cui è possibile rendere più uniformi le immagini digitalizzate.

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ECCELLENZE.IT | Azienda Dolciaria Forno Bonomi

IL DOLCE SAPORE DELLA CONTINUITÀ OPERATIVA La storica azienda dolciaria del veronese ha adottato Ups e servizi di monitoraggio remoto di Vertiv per risolvere il problema delle micro interruzioni di energia.

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biscotti savoiardi sono il suo orgoglio: Azienda Dolciaria Forno Bonomi è il primo produttore mondiale di questa specialità italiana. Ma la storica società, nata come panificio a metà dell’Ottocento e oggi composta da 170 dipendenti, nel suo stabilimento da 65mila metri quadri di Roverè Veronese attualmente produce molte altre varietà di frollini, frolle e pan di spagna: vengono realizzate ogni giorno circa 90 tonnellate di prodotto finito. E il tutto avviene attraverso flussi di lavoro automatizzati in ogni fase, dallo stoccaggio delle materie prime al confezionamento. Questa elevata automazione è associata a magazzini operativi 24 ore su 24 per sei giorni a settimana, in cui sono all’opera macchinari alti più di trenta metri. “La nostra esigenza era quella di assicurare continuità energetica al nostro impianto, riuscendo al contempo a limitare i costi e gli sprechi di energia”, racconta Giorgio Bonomi, responsabile tecnico dell’azienda. “Il problema delle micro interruzioni era divenuto determinante per l’efficienza della filiera produttiva, soprattutto per un’azienda come la nostra, localizzata in una zona di montagna, dove possono verificarsi anche fino a dieci micro interruzioni quotidiane durante le stagioni invernale ed estiva”. Fin dal 2002 Forno Bonomi aveva in uso dei sistemi Ups (Uninterruptible Power Supply, o gruppo statico di continuità) di Emerson Network Power, il modello Liebert Hipulse da 800 kVA, affiancato da una macchina gemella come ridondanza. A partire dal 2015, però, l’azienda 64 |

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dolciaria veronese ha sentito l’esigenza di adottare soluzioni più efficienti, capaci di eliminare il problema delle micro interruzioni. Dopo un’analisi di mercato Forno Bonomi ha deciso di rivolgersi a Vertiv, ovvero all’azienda precedentemente LA SOLUZIONE Il gruppo di continuità trifase Liebert Trinergy Cube assicura che eventuali interruzioni di energia elettrica nella sorgente principale non abbiano impatto sugli impianti di produzione. L’Ups Liebert GXT4 fornisce alimentazione continua alle utenze collegate, proteggendo le apparecchiature informatiche da eventuali interruzioni, abbassamenti o rialzi di tensione. Liebert Nxc è un sistema a doppia conversione ad alta efficienza senza trasformatore, occupa poco spazio e consuma poca energia.

nota come Emerson Network Power, già suo fornitore. Sono stati installati due Ups Liebert Trinergy Cube da 1200 kW, un Ups Liebert GXT4 da 6000 VA, e un Liebert Nxc 10 da kVA, in combinazione con i servizi di diagnostica remota e monitoraggio preventivo Vertiv Life Services. Queste soluzioni hanno permesso di proteggere gli impianti da interruzioni e fluttuazioni dell’alimentazione elettrica, in modo efficace e affidabile. Inoltre, rispetto all’assetto precedente garantiscono una maggiore disponibilità di alimentazione, potenza ed efficienza energetica. I servizi di monitoraggio da remoto, poi, consentono di ottimizzare le prestazioni degli impianti e di tenere sotto controllo il loro funzionamento, evitando interventi di riparazione. “Gli Ups di Vertiv”, spiega Bonomi, “grazie alla loro compattezza e affidabilità si sono dimostrati la scelta premiante dal punto di vista dell’efficienza tecnologica e del risparmio, soprattutto nei costi di manutenzione delle macchine”.


ECCELLENZE.IT | Fondazione Telethon

LA RICERCA MEDICA FA PROGRESSI CON L’HYPERVISOR La fondazione che da trent’anni finanzia la ricerca scientifica sulle malattia genetiche rare ha realizzato un’infrastruttura iperconvergente basata sulla tecnologia di Nutanix.

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a quasi trent’anni Fondazione Telethon raccoglie fondi per finanziare la ricerca scientifica per la lotta alle malattia genetiche rare. Un’opera complessa, che tuttavia è stata sgravata da alcune difficoltà riguardanti la componente informatica grazie a un progetto di infrastrutture iperconvergenti e virtualizzazione. Due tecnologie strategiche per le realtà geograficamente disperse come lo è Telethon, con le sue sedi di Roma e Milano (dove lavorano circa 140 dipendenti) e le attività portate avanti negli Istituti di Ricerca di Pozzuoli e del capoluogo lombardo (altri 160 collaboratori circa). Negli anni la dotazione hardware e software è stata curata e aggiornata in modo costante, ma recentemente è sorta una necessità di cambiamento più sostanziale. “L’amministrazione di 140 postazioni tra fisse e portatili comportava uno sforzo notevole, soprattutto per quanto riguarda patch e manutenzione hardware, con tempi di ripristino quantificabili nell’ordine di qualche giorno”, racconta il responsabile dei sistemi informativi, Marco Montesanto. Le esigenze del team It erano principalmente tre: ridurre la complessità di gestione, liberare risorse da poter dedicare alle attività “core” e garantire ai collaboratori di Telethon un’esperienza d’uso delle applicazioni più flessibile, priva di vincoli di luogo, tempo e dispositivi. La virtualiz-

zazione dell’infrastruttura desktop è stata la risposta a tutte e tre le esigenze. Per identificare il fornitore più appropriato è stata avviata un’operazione di scouting interno e la scelta è caduta su Nutanix, la cui soluzione risultava adeguata al contesto It esistente e in particolare ai software già in uso (come quello di Citrix). “L’approccio di Nutanix è stato fondamentale”, sottolinea il responsabile dei sistemi informativi, “dato che il software Citrix da noi utilizzato si sposa in modo ottimale per i nostri scopi sia con l’Acropolis Hypervisor sia con la piattaforma hardware”. Con l’iperconvergenza e con nuove postazioni di lavoro virtualizzate è stato possibile “azzerare tutta quella parte di amministrazione dell’infrastruttura che riguarda hypervisor, risorse, provisioning, installazione degli aggiornamenti e gestione del network e dello storage. Questo ha liberato risorse preziose”, testimonia Montesanto. La nuova Vdi (Virtual Desktop Infrastructure) ha anche permesso di ridurre di oltre il 7% il numero di richieste di assistenza per le postazioni fisiche e questo è “un dato rilevante, considerato il gran numero di

macchine fisiche ancora presenti”, assicura l’informatico. “Inoltre, per preparare una nuova postazione fisica prima serviva qualche giorno, mentre ora bastano poche decine di minuti”. Il progetto non è ancora terminato: nel data center secondario presente in sede verrà installata una soluzione di disaster recovery e sarà definito un pool di postazioni chiave che resteranno sempre operative, anche in caso di problemi del sito primario. LA SOLUZIONE La soluzione realizzata impiega il software Acropolis di Nutanix, comprensivo dell’hypervisor integrato Ahv, in abbinamento al software di gestione delle applicazioni Web di Prism e alla suite di Citrix. Anche l'hardware è brandizzato Nutanix: il cluster di produzione è composto da quattro nodi, mentre quello di disaster recovery da tre. Entrambi utilizzano architetture di memoria ibride: hard disk e Sdd.

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