Ticino7

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numero

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L’appuntamento del venerdì

REPORTAGE - GIORNICO

La chiesa di San Nicolao AGORÀ Scuola " ARTI Hopper " DOMUS Il bagno

Corriere del Ticino

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Tessiner Zeitung

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numero 50 4 dicembre 2009

Agorà Scuola e integrazione. Tanto rumore per nulla Arti Edward Hopper. Un americano a Milano

Impressum Tiratura controllata 89’345 copie (72’303 dal 4.9.2009)

Chiusura redazionale Venerdì 27 novembre

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Direttore editoriale Peter Keller

Redattore responsabile

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Vitae Valeria Nidola

GAIA GRIMANI

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MARIELLA DAL FARRA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Società Sciascia e Dürrenmatt. La giustizia possibile Domus Il bagno

DI

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GIANCARLO FORNASIER

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FRANCESCA RIGOTTI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . DI

FABIANA TESTORI

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Reportage San Nicolao. La foresta di simboli

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F. MARTINI; FOTO DI A. MENICONZI

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Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via San Gottardo 50 6900 Massagno tel. 091 922 38 00 fax 091 922 38 12

Direzione, redazione, composizione e stampa Società Editrice CdT SA via Industria CH - 6933 Muzzano tel. 091 960 31 31 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch

Stampa

(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

La cripta della chiesa di San Nicolao, Giornico Fotografia di A. Meniconzi

Di quei dischi mai morti Egregia Redazione, qualche settimana fa ho visto sulla vostra rivista (Ticinosette n. 47, ndr.) l’ennesimo articolo che tira in ballo l’alta fedeltà e, non si sa per quale ragione, i dischi in vinile. Guarda caso proprio oggi in un inserto del “Corriere della Sera” un grande articolo parlava ancora dei “vecchi” dischi e già il titolo la diceva lunga sul contenuto: “A volte ritornano. W il vinile”. Mettiamo le cose in chiaro: io stò viaggiando velocemente verso la quarantina e di dischi in vinile nella mia vita ne ho comprati tanti da dover creare una stanza quasi esclusivamente per loro. Non sono l’unico e di amici e conoscenti che in Ticino ascoltano musica anche dai dischi (alcuni di loro, ancora oggi, esclusivamente dai dischi!) ne conosco parecchi. Vedere dunque articoli che teorizzano la rinascita di un supporto che NON È MAI MORTO (e dunque non ha nessun senso affermare che “deve risuscitare”) proprio non mi va giù. Anzi, direi che ne ho anche piene le scatole. Personalmente mi ricordo la moria di negozi di dischi avvenuta in Ticino a partire almeno dalla metà della anni Novanta: mi ricordo del primo e storico Boa Music che aveva sede sopra un autosilo a Lugano, del negozio Disco Match dietro al cinema Forum a Bellinzona, per non parlare del fantastico Halb Tanz

a Zurigo e di tanti altri negozi in Svizzera e a Milano (ma qualcuno si ricorda di Zabriskie Point e dello storico Supporti Fonografici a Milano!). E allora, tutti questi sapientoni che oggi sbandierano il vinile e il suo suono “dolce e suadente”, quelli che oggi si meravigliano che il vinile in qualche modo sta tornando, quanti dischi hanno comprato (dischi in vinile!) negli ultimi 12 mesi? Si sono mai fatti un giro nei negozi on-line negli ultimi anni per vedere quanti vinili venivano prodotti e distribuiti, 365 giorni all’anno? E quanti gruppi (non solo del solito rock “indipendente” e di musica sperimentale) hanno continuato a sfornare 45 giri, 12 pollici, cofanetti speciali e doppi /tripli album? La verità è una: il vinile non è mai morto,

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è l’industria della musica che lo voleva uccidere. Oggi, visto che non è riuscita nella sua “strategia” prova a ricavare del denaro ammaliando quei pochi che ancora la musica la COMPRANO per passione. Occhio ragazzi, siamo alle solite: è tutto e solo business. Salutoni, F. P. (Chiasso) Caro lettore, non pensiamo sia necessario aggiungere altro alle sue parole. Facciamo dunque nostro il suo pensiero, facendole notare che l’articolo da lei citato non faceva che elogiare il buon vinile. E una piccola nota: ma tutti questi dischi (oggi ricomparsi anche nei supermercati), con che cosa li ascolteranno i nuovi “adepti”...? Cordialmente, la Redazione

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Scuola e integrazione. Tanto rumore per nulla

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Agorà

La presenza di alunni stranieri nelle nostre scuole non rappresenta una minaccia per i nostri figli che possono seguire il loro curriculum scolastico con serenità, senza pericolosi rallentamenti dovuti a ospiti di altre lingue. L’integrazione è rapida e non concerne solo l’apprendimento della lingua, ma anche tutta una serie di attività tese a una migliore conoscenza e comprensione della realtà circostante

L’

educazione e l’istruzione dei nostri figli rappresentano senza dubbio un tema che ci sta particolarmente a cuore. Negli ultimi anni si è verificato in tutta Europa un massiccio cambiamento nel panorama etnico dei grandi agglomerati urbani e non solo. Attratto dal luccicare della nostra vita, il popolo dei paesi più poveri, dei perseguitati politici e, purtroppo anche di altri, ha fatto irruzione nelle nostre vite, mettendo alla prova il nostro senso di ospitalità e tolleranza. È cronaca di tutti i giorni l’approdo di barche stracolme di uomini, donne e bambini sulle spiagge della vicina Penisola, come lo sono i bollettini drammatici di naufragi, di tentativi tragici di arrivare laddove la vita promette qualche possibilità in più. Le diverse nazioni hanno accolto questa massa di ospiti in maniera più o meno organizzata, ma è un dato di fatto che il mondo in cui viviamo è cambiato, probabilmente per sempre, e che siamo costantemente posti di fronte al confronto con il problema dell’integrazione di queste persone nel nostro modo di vivere, nelle nostre abitudini e nella nostra organizzazione sociale. Indubbiamente la scuola è uno dei perni attorno ai quali tale organizzazione ruota e il numero di bambini stranieri presenti nelle nostre aule scolastiche ha fatto sorgere in molti genitori angosciose apprensioni: riusciranno i docenti a tenere il ritmo dell’insegnamento in classi affollate di ragazzi non in grado di capire la nostra

lingua? Riusciremo a conservare le nostre abitudini, le nostre tradizioni o verremo sommersi dalla massa degli “invasori”? È opportuno approfondire la questione al di là delle reazioni emotive che spesso ci trascinano lontano dalla realtà e ci inducono a decisioni affrettate, come quelle di far abbandonare ai nostri figli delle classi un po’ troppo miste per rinchiuderli in ghetti dorati dove non sono toccati da questo problema.

La situazione in Ticino Ciò che può far ritardare l’apprendimento e lo svolgersi del programma in una classe è la presenza consistente di ragazzi che non comprendono la nostra lingua o provengono da strutture scolastiche con programmi diversi dai nostri. Per prima cosa bisogna dire che il fenomeno interessa soprattutto la scuola elementare e la scuola media, ma in proporzioni abbastanza modeste: nell’anno scolastico 2007/2008, per esempio, erano presenti nelle nostre scuole 58.287 allievi, di cui il 74,2% svizzeri, l’11,3% italiani e il 14,5% di altra nazionalità; di lingua materna italiana era quindi l’81%, il 3,5% risultava di lingua tedesca, l’1,2% di lingua francese e solo il 14,3% parlava altre lingue, fra le quali primeggiavano la lingua slava meridionale e il portoghese. Il Dipartimento della Pubblica Educazione ha affrontato la situazione, dotando ogni classe in cui siano inseriti ragazzi alloglotti della possibilità di ricorrere a un


materie insegnate. Eccezionalmente è previsto un terzo anno per coloro che, per svariate ragioni, non vi sono riusciti nei due anni previsti. L’insegnamento viene impartito in piccoli gruppi divisi per anno: i principianti e gli avanzati.

Un falso problema La dotazione oraria d’insegnamento per gli alloglotti è gestita dall’insegnante di lingua e d’integrazione secondo le necessità degli allievi e in collaborazione con la direzione che decide i momenti più opportuni per prelevare gli studenti dalle classi e far loro seguire i corsi di lingue. Le ore d’insegnamento impartite in questi corsi vanno dalle due settimanali fino a sei, a seconda che si tratti di principianti o di avanzati e in relazione alla strategia adottata dall’insegnante di lingua che può optare per un insegnamento intensivo agli inizi oppure per un apporto regolare e costante di ore durante l’intero anno scolastico. Ovviamente un principio basilare dell’insegnamento per gli alloglotti è che non ci si limiti a impartire lezioni di lingua italiana, ma che il docente funga da ponte tra la cultura d’origine dell’allievo e quella del paese che lo accoglie, allo scopo di favorire il suo inserimento e

la comprensione della realtà locale. Per ottenere un’integrazione più rapida è essenziale la coordinazione di tutti gli operatori scolastici in modo da favorire l’introduzione dell’allievo nella nuova realtà. Sono infatti previste a questo scopo tutta una serie di attività volte a promuovere i contatti tra la scuola e le famiglie degli studenti stranieri. Bisogna però rendersi conto che il fenomeno interessa una quantità limitata di studenti. In una popolazione totale di scuola media di circa 12.000 persone, per esempio, gli alloglotti sono in media tra i 150 e i 200 per anno. Bisogna anche precisare che essi dispaiono come alloglotti alla fine del secondo o, eccezionalmente, del terzo anno di corso. Questo significa che non possono rallentare lo svolgimento del programma in misura preoccupante o senz’altro non più degli allievi di casa nostra che presentino qualche difficoltà di apprendimento. D’altra parte la presenza in classe di uno studente che proviene da un paese lontano significa per i nostri ragazzi la possibilità di ampliare la loro comprensione del mondo che li circonda preparandoli a un confronto internazionale che, già inevitabile adesso, lo sarà a maggior ragione nel corso dei prossimi anni.

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» di Gaia Grimani; illustrazione di Tommaso, alunno di V elementare

insegnante che impartisca loro lezioni di lingua italiana e integrazione. Bisogna pensare che è sbagliato parlare di allievi alloglotti come se si trattasse di una categoria omogenea, in realtà ci sono differenze di lingua, di cultura, di esperienze di vita, di status sociale, di formazione scolastica e di percorsi migratori. Il caso di un allievo svizzero francese è totalmente diverso da quello di un kosovaro che è fuggito dalla guerra. La scuola deve essere quindi preparata ad accogliere tali allievi con le loro specificità adottando delle differenze curricolari che possono andare dall’esenzione a frequentare certi corsi, alla differenziazione dell’insegnamento in classe, il tutto, come si è detto, sostenuto da un corso di lingua italiana e d’integrazione. Il modello adottato in Ticino è il seguente: in funzione degli allievi alloglotti presenti in un Istituto, viene attribuito un monte ore per organizzare tale corso; le direzioni delle scuole scelgono i loro insegnanti di lingua e integrazione fra i candidati che hanno superato un apposito concorso per questo tipo d’insegnamento. Il corso dura generalmente due anni scolastici durante i quali gli allievi devono raggiungere delle competenze linguistiche sufficienti per poter seguire le differenti

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Un americano a Milano

» di Mariella Dal Farra

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tratto maggior beneficio dalla possibilità di raffronto con le opere compiute. La possibilità di esaminare da vicino la genesi delle immagini di Hopper costituisce peraltro, soprattutto presso gli addetti ai lavori, un’opportunità di rilievo. Le sale successive sono caratterizzate dalla presenza di dispositivi interattivi, quali la riproduzione virtuale di un taccuino dell’artista, sfogliabile attraverso touch screen, e l’installazione del film-maker austriaco Autoritratto di Edward Hopper (immagine tratta da www.tqnyc.org) Gustav Deutsch, che ricostruisce in 3D la scenografia raffigurata nel dipinto Morning Sun (1952), offrendo ai visitatori la possibiI quadri di Edward Hopper re esposte, infatti, solo poche lità di essere ripresi mentre impersonano la delimitano un’area ben ri- appartengono al periodo più figura nel quadro. Una parte della mostra è conoscibile dell’immaginario maturo dell’artista – quelle, poi riservata ai disegni erotici di Hopper che, collettivo: quella che raffi- cioè, con cui solitamente lo come anche tutte le figure femminili dei suoi gura la solitudine intrinseca si identifica – mentre larquadri, ritraggono la moglie Josephine, lei delle persone e dei paesaggi go spazio è occupato dalla stessa pittrice. all’interno degli spazi urba- produzione antecedente gli Si giunge infine all’ultima sezione, che ospita ni, il cui esempio più noto è anni Trenta, con particolare alcuni dei dipinti che l’hanno reso celebre, forse costituito da Nighthawks riferimento alla serie degli fra cui appunto Morning Sun, Girlie Show (1942). Fra i grandi classici “autoritratti” e al lavoro di il(1941), Pennsylvania Coal Town (1947), Second dell’iconografia contempo- lustratore. Questa zona ospita Story Sunlight (1960), A woman in the sun ranea, Hopper (1882–1967) inoltre le opere del periodo (1961). Ed è qui che l’affermazione del pitrappresenta probabilmente “il parigino, fra cui la bellissima tore, riportata su uno dei pannelli esplicativi più popolare e noto artista Soir Bleu (1914) dotata di una che guidano il percorso, diventa percettivaamericano del XX secolo”. forza espressiva pari a quella mente, oltre che emotivamente comprensibiPer questo motivo, l’iniziativa dei dipinti successivi. le: “Quello che vorrei dipingere è la luce del di Palazzo Reale, a Milano, di Complessivamente, nella prisole sulla parete di una casa”, scrive Hopper. ospitare (15 ottobre 2009–31 ma parte dell’esposizione, la E, contemplando questi quadri, si ha l’imgennaio 2010) una retrospet- zona di maggiore interesse pressione che, proprio attraverso l’uso della tiva dedicata all’artista ha cre- è forse rappresentata dalle luce, l’artista sia riuscito a rappresentare visiato grande aspettativa in città, incisioni: piccole acqueforti vamente lo scorrere del tempo, o forse la sua aspettativa corroborata da un di grande impatto emotivo sospensione. Ovvero, a battage pubblicitario a base di affissioni in cui modelli Fra i maggiori artisti statunitensi del secolo rendere visibile l’invisi“non professionisti” (nello scorso, Hopper ha rappresentato l’America bile: quella dimensione che ci racchiude come specifico, persone che si trodella solitudine e del disagio interiore. La una capsula (tempovavano a passare per la piazza) sorreggono riproduzioni dei mostra allestita in questi mesi a Milano la- rale, appunto) e che, in ultima analisi, è ciò dipinti affermando la propria scia però, in parte, perplessi che determina la solipreferenza per il pittore. tudine “ontologica” delle figure hopperiane. Tuttavia, a fronte di una cam- che sembrano racchiudere la Ma, se i “mondi” contenuti nei quadri del pagna promozionale così di- parte più oscura e misteriosa pittore sono vettori in viaggio nel tempo e, stintiva ed efficace, la mostra di Hopper (Night Shadows, in questo caso, anche nello spazio sensibile ha lasciato in chi scrive qual- 1921; Evening Wind, idem). dei visitatori, confessiamo che avremmo che incertezza, disattendendo La sezione dedicata ai disegni preferito se l’organizzazione fosse riuscita a in parte le attese suscitate. preparatori avrebbe invece, intercettarne qualche d’uno in più. Delle circa centosessanta ope- sempre a parere di chi scrive,

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Arti

Mostre

La rassegna è promossa dal Comune di Milano e dalla Fondazione Roma, in collaborazione con il Whitney Museum of American Art di New York e la Fondation de l’Hermitage di Losanna. Dopo Milano (dal 14 ottobre 2009 al 31 gennaio 2010), la mostra si sposterà a Roma (16 febbraio–13 giugno 2010) e a Losanna (25 giugno–17 ottobre 2010).


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trice Adelphi pubblicava Una storia semplice, breve racconto di 60 pagine che Leonardo Sciascia (per espresso desiderio) volle fosse pubblicato il giorno della sua morte, il 20 novembre dello stesso anno. Nato l’8 gennaio del 1921, la vita del grande romanziere e saggista (e parlamentare nelle fila dei Radicali italiani) presenta sorprendentemente

chi giorni prima di Sciascia, il quale renderà omaggio a Dürrenmatt riportando una sua frase (quella trascritta nell’occhiello di questo articolo) come “epigrafe” proprio alla sua Storia semplice. Per la verità, l’ultimo racconto dello scrittore di Racalmuto non si limita solo a “citare” Dürrenmatt; la storia – che di “semplice” ha ben poco – riprende sì il taglio breve che

“Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”. A vent’anni dalla scomparsa, alcune note su Leonardo Sciascia e altre piccole coincidenze riferibili a Friedrich Dürrenmatt contraddistingue molta della sua narrativa, aggiungendo però in quella manciata di pagine elementi di essenzialità e una densità di eventi atipici per lui e per buona parte della letteratura italiana di quei decenni. Semplice è il

brigadiere di polizia protagonista della storia e semplice, modesta, è la sua cultura; apparentemente semplice, scontata e banale è la soluzione al misterioso ritrovamento di una persona deceduta e china sulla sua scrivania, come semplice e immediato il narrato in terza persona utilizzato dall’autore, semplice l’arco di tempo nel quale le vicende si sviluppano (circa una settimana), semplice e familiare allo scrittore l’ambientazione della storia, un paese della Sicilia e i suoi immediati dintorni, terra a cui Leonardo Sciascia è sempre stato da una parte molto legato, ma che dall’altra ha detestato, denunciandone l’omertà mafiosa che la permeava e la conseguente (e inevitabile) deriva sociale. Lo stesso non possiamo però dire per gli eventi che lo scrittore siciliano ci racconta, come semplice non sarà affatto l’opera chiarificatrice imbastita dal poliziotto che si occuperà delle indagini, in parte ostacolate dalle intimidazioni fatte ai pochi testimoni. Un’operazione, quest’ultima, condotta dalle stesse “autorità costituite”, mandatarie e conniventi con il delitto, e che prendono corpo nelle figure del commissario di polizia, del questore, del procuratore, del colonnello dei carabinieri su su sino ad arrivare a un prete (leggasi la Chiesa), colui che della giustizia

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alcuni elementi che ricorrono nell’esistenza di un altro maestro del “poliziesco”, in questo caso geograficamente molto più vicino a noi: Friedrich Dürrenmatt. L’autore de La promessa (1958) nasceva infatti il 5 gennaio 1921, po-

La giustizia possibile

Sul finire del 1989 la casa edi-


atto che non vi sono più possibilità di equità vista l’inconciliabilità tra verità e giustizia umana da un lato, e verità e giustizia giudiziaria dall’altro. Aspetti questi che, legati alla imponderabilità del caso nella ricerca del colpevole da parte delle autorità, sono ribaditi nella Promessa. Una casualità che si fa paradosso in Giustizia, dove la ricerca di un’altra verità da opporre a quella già palese (e di cui tutti sono stati testimoni) assume i contorni di una sfida alla logica degli eventi, dipingendo la giustizia come un “gioco tra parti”. L’elemento della ricerca di un colpevole “diverso”, capace di sviare le indagini lega indelebilmente proprio Giustizia a Una storia semplice; nel racconto di Sciascia, infatti, è la stessa polizia ad adottare una tesi accusatoria di comodo, mentre i fatti – e dunque la realtà degli accadimenti – paiono rimanere appannaggio solo dei diretti interessati. Nel breve racconto dello scrittore siciliano il protagonista/responsabile dell’ordine sarà paradossalmente prima accusato,

Libri

Fabio Pierangeli Indagini e sospetti L’Epos, 2004 L’urgenza della giustizia, il senso della verità, lo scontro tra l’onesto e i poteri: tra sottili e labili confini, l’analisi di questi temi nelle opere di Pirandello, Camus, Dürrenmatt, Sciascia e Betti. AA.VV. L’intreccio delle circostanze. Antologia di racconti giudiziari Sellerio, 1989 “Il racconto giudiziario mette a fuoco il momento in cui la verità sensibilmente passa, e su di essa, nell’aula della corte, il pubblico, i giurati, i giudici posano il loro sguardo, avvertito e inconsapevole”.

» di Giancarlo Fornasier

(non giudiziaria ma divina) dovrebbe rappresentare il lato più alto e “morale”. La classica lotta tra bene e male – come nella migliore tradizione, dai testi biblici ai polizieschi hard boiled statunitensi – trova nelle pagine di Sciascia scenari originali e legati a una società profondamente corrotta e difficilmente decifrabile anche da coloro che ne fanno parte. Nello scrittore siciliano lo stile è veloce e coinvolgente, il narrato basato sul classico esempio di indagine conoscitiva spinta da un preciso indirizzo morale e da una ricerca di giustizia, di senso della verità, di onestà che si oppone al potere politico/economico. In ultima analisi non è tanto la figura umana a frantumarsi, ma proprio la Giustizia e dunque quella linea di separazione che divide inquisito e inquisitore. È, quest’ultimo, uno degli aspetti centrali anche del primo romanzo poliziesco di Friedrich Dürrenmatt, Il giudice e il suo boia – apparso nel 1952, anno nel quale Sciascia di dedica alla poesia e alla stesura di un saggio dedicato al conterraneo Luigi Pirandello –, come pure del già citato La promessa e di Giustizia (1985). Nel primo, lo scrittore elvetico solleva interrogativi sull’emissione di sentenze di colpevolezza riparatorie e si sforza di dimostrare l’impossibilità per la giustizia istituzionale di giungere alla verità, come pure la necessità di prendere

espiando una pena che lo porterà a farsi in seguito giudice supremo con “licenza di uccidere” il vero colpevole in un fortuito e definitivo scontro chiarificatore tra uomini di Stato. È la giustizia criminale che diventa divina; è il caso a stabilire una verosimile (e in questo modo “giusta”) verità. Come Dürrenmatt voleva dimostrare?

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Il bagno Stanza dei fuochi la cucina, stanza delle acque il bagno – dal latino “balneum” – che designa immersione o soggiorno passeggero di un corpo nell’acqua. Luogo di purificazione e pulizia… è un ambiente a cui va riservato il massimo rispetto

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quella che esce dai rubinetti del bagno: perché allora siamo reticenti a bere l’acqua dei bagni e preferiamo magari comprare, per dissetarci, le squallide bottigliette di Pvc? Probabilmente per il motivo che nella stanza da bagno sono state unificate funzioni diverse, per secoli e millenni espletate in luoghi separati: il lavare, pulire, nettare, purificare, profumare e ordinare il corpo, ma anche il raccogliere e l’espellere, ancora grazie all’acqua, residui e secreti fisiologici liquidi e solidi del corpo stesso (anche se non tutte le culture accettano tale contaminazione, come dimostrano le abitazioni francesi dove il w.c. è relegato in uno stanzino a parte). Ai nostri giorni bizzarri, architetti e arredatori, chimici e igienisti ci propinano bagni asettici il cui arredamento segue linee geometriche razionali che dovrebbero insieme evocare e favorire la purezza e la sterilità del luogo: eppure chi, in luogo di quei loculi marmorei che sono oggi, a seconda del formato, lavabi o vasche, non sogna grandi tinozze o vasche poggianti magari su piedini a forma di zampe di leone, catini con brocche da manipolare e maneggiare, e magari specchi barocchi nei quali rimirarsi dopo le pulizie? Come se il nostro benessere mentale, il più importante, fosse determinato da motivazioni utilitariste o precetti igienici. Scriveva il poeta Esiodo, vissuto otto secoli prima dell’era volgare: “Non urinate mai alla foce dei fiumi che si gettano nel mare, neppure alla loro sorgente: guardatevene bene”, e aggiungeva: “Non soddisfate neppure gli altri vostri bisogni: non sarà meno funesto”, e inoltre: “Non urinate in piedi guardando il Sole”. Sono forse precetti igienico-utilitaristici questi, o non sono proibizioni di violare, sporcandole, la maternità delle acque o la maestà paterna del Sole? Non sono forme di oltraggio alla natura che perpetriamo, intorbidando e inquinando le acque, permettendo che ci vengano tolte le fontanelle pubbliche che ci costringono a bene nei bagni se non vogliamo acquistare la bottiglietta, non difendendo stagni, laghi e sorgenti?

» di Francesca Rigotti; illustrazione di Mimmo Mendicino

Domus

Il bagno, quel locale dove vengono condotte le acque per bagnarsi, è anche il luogo (bagno penale) dove si tenevano a scontar la pena i condannati, per il fatto che una volta dovette essere – poveretti loro – la fogna delle galere, o navi dei galeotti. Ma le acque del bagno non sono legate ai grandi temi simbolici acquatici presenti nella mitologia, nella poesia, nella letteratura, del materno e del femminile, della tristezza e della malinconia, della violenza, della morte e della vita. Il richiamo simbolico dell’acqua del bagno, che equivale alla sua funzione materiale, è piuttosto alla purezza e alla pulizia, categorie fondamentali della valorizzazione: ciò che è pulito è buono e giusto per eccellenza, lo sostiene anche Carlo Petrini fondatore di Slow Food, a guisa del corpo che esce della doccia rinfrescato dalla miriade di goccioline in caduta libera. L’acqua – ricorda il filosofo ed epistemologo francese Gaston Bachelard – offre se stessa come simbolo naturale della purezza in quanto è la materia pura per antonomasia, è naturalmente pura. L’immersione nell’acqua, ovvero il contatto più totale e più primitivo con questo elemento, rappresenta un lavaggio morale prima che fisico, una rigenerazione dell’anima prima che del corpo. Nei nostri bagni arredati con oggetti di ceramica colorati, più spesso bianchi dal momento che anche il bianco è simbolo di pulizia e purezza, l’acqua esce a comando dai rubinetti: una specie di acqua di sorgente la cui uscita miracolosa ogni volta si arresta e si rinnova allorché vengono girate e sollevate manopole e leve oppure, in un’era che tende a sottrarci il privilegio del contatto materiale con la realtà, quando si mettono le mani sotto il rubinetto affinché una cellula fotoelettrica provochi l’uscita del liquido. Menti razionali e materialiste come le nostre sanno bene che l’acqua che esce dai rubinetti della cucina ha lo stesso grado di purezza e igienicità nonché la medesima temperatura di


Continuate a farli sorridere e a dar loro speranze

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» testimonianza raccolta da Fabiana Testori; fotografia di Igor Ponti

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stretta, perché io non sono nata commerciante, volevo fare anche altro. Ho cominciato a realizzare mostre di libri per ragazzi in giro per il cantone. In seguito, mi hanno proposto di andare in una biblioteca a leggere dei libri, ma io non sono interessante quando leggo, preferisco raccontare. Ho seguito un corso di narrazione con Roberto Anglisani e ho imparato che raccontare significa dire chi sei, mettersi in gioco. Quando si racconta e si vuole raccontare bene è importante credere e far credere che la storia che stai raccontando sorregga il mondo. Insomma bisogna dare il massimo, altrimenti il Una vita immersa nel mondo dei libri mondo crollerà. Solo così il e della letteratura per ragazzi. La cre- pubblico presta attenzione. Io racconto storie a tutti, dai azione di una libreria e la capacità di bambini del preasilo, ai raraccontare storie che incantano. Valeria gazzi di scuola media e agli Nidola ha sempre raccolto nuove sfide, adulti. Spesso collaboro con senza abbandonare mai del tutto la sua la biblioteca di Besso dove racconto storie per ragazzi. vocazione di insegnante Per un anno sono andata a raccontare storie a Telecicova, fosse mio figlio, infatti fin una trasmissione per bambini della RSI e per dalla sua creazione mi sono due anni ho lavorato alla Rai di Milano con occupata di tutto, dalla dispoRoberto Piumini per una trasmissione radiosizione dei mobili alla scelta fonica chiamata Radicchio durante la quale dei libri. All’inizio non è stato presentavo dei libri. In seguito, ho lavorato facile, perché un maestro sa per un anno per Fate, non parole a Rete3 e fare solo il maestro, non sa ora, da luglio di quest’anno, presento ogni nulla di contabilità, di comsettimana tre libri su Rete1. mercio ecc.. In più, una volta all’anno tengo un corso A volte mi chiedono quali studi letteratura per ragazzi all’Alta scuola di ho compiuto e io rispondo pedagogica di Coira. Raccontare storie mi che ho studiato a Milano, piace, perché posso costruire con le parole perché fa sempre chic dire un’intera sceneggiatura. Credo infatti che le che hai studiato all’estero, parole siano l’arma più potente che possecosì continuano e mi chiedodiamo: possono coccolare, ferire, costruire, no quanto dura la scuola di insomma possono fare tutto. Inoltre, ce ne libraio e io rispondo “la mia sono di davvero magiche, come il “C’era una scuola è durata circa cinque volta”. Quando dico “C’era una volta” tutti secondi”. Tutti allora si stusi fermano e ascoltano. piscono. Non ho progetti definiti per il futuro, anche In realtà, io sono andata da se sono sempre pronta ad affrontare nuove Roberto Denti che è il più sfide. Per il momento collaboro con dei grande libraio per ragazzi itagiornali, racconto storie e, ovviamente, mi liano ed è stato il primo a fonoccupo della mia libreria di cui mi piace dare una libreria per ragazzi seguire tutti i passaggi, dalla scelta e l’acquiin Italia e gli ho chiesto, “Costo dei libri quando mi reco a Milano, fino me si fa a vendere libri?”. La alla vendita, passando per le consegne e la sua risposta? “Basta leggerli”. contabilità. Credo che il Ticino abbia davanti Questa è stata la mia scuola, a sé un futuro roseo per quanto riguarda la così ho cominciato a leggere conoscenza e la diffusione dei libri. Ogni libri e a raccontarli. paesino ha la sua biblioteca e gli incentivi per A un certo punto però la liavvicinare i giovani alla lettura sono sempre breria ha cominciato a starmi di più. Tutto ciò mi rende felice.

Valeria Nidola

Vitae

o avuto un’infanzia felice, alla quale ancora oggi attingo nei momenti di sconforto. Sono cresciuta in un giardino nel cuore di Lugano in Via Franscini. Ho avuto una nonna che era bella come una “nonna delle storie”, ho avuto una mamma che raccontava storie con le stoffe dei vestiti e ho avuto un babbo che ha segnato molto la mia vita. Il mio babbo, per mestiere, faceva il disegnatore. A casa però, era un inventore. Per noi aveva creato un teatrino con le marionette e ci raccontava delle storie. È stato mio padre il primo grande raccontastorie della mia vita. Il teatrino era nella casa di Bruzella, in Valle di Muggio. Quando trascorrevamo lì qualche giorno di vacanza, mio padre ci raccontava le storie. Erano così belle che la signora della casa vicina pensava che fossero trasmesse alla radio e cercava il segnale per poterle far ascoltare anche ai suoi bambini. Ho avuto una famiglia che mi ha dato molta energia positiva e mi ha insegnato a essere felice con poco e ad apprezzare le cose semplici. Il mio sogno era quello di diventare maestra di scuola elementare e così ho frequentato la magistrale. Quando ho terminato gli studi, nel ’78, eravamo in trecento e il Ticino aveva bisogno solo di quaranta maestri. Per i primi sei anni dopo gli studi sono riuscita a insegnare, un po’ nelle scuole private, un po’ come maestra di canto e di sostegno, ma ho anche lavorato con degli handicappati adulti a Sorengo. Purtroppo, si trattava sempre di occupazioni provvisorie che non mi davano alcuna sicurezza. Un giorno, per caso, sono approdata al mondo dei libri. Ho 51 anni e da 26 faccio la libraia. Ho lavorato per otto anni alla Libreria dei ragazzi di Mendrisio e da diciassette ho questa bellissima libreria a Viganello che si chiama Lo Stralisco. È tutta mia, è un po’ come se

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San Nicolao a Giornico

La foresta di simboli

“La verità può essere trasmessa [...] in maniera logica oppure simbolica (Dionigi Pseudo-Areopagita). Il simbolo enuncia l’inadeguatezza del dato o dell’immagine a esprimere il sacro e nello stesso tempo si dimostra quale il mezzo più opportuno per rivelarlo, perché il vero è invisibile, illimitato, inattingibile…”

di Fabio Martini; fotografie di Alessandra Meniconzi


Particolare dei due capitelli all’ingresso della cripta: il fiore in sboccio (a sinistra) e il leone (a destra). Il percorso simbolico è articolato secondo un orientamento sud-nord

Il leone su uno dei due capitelli d’ingresso sembra quasi aggredire il visitatore, come a metterlo in guardia sulla natura sacra e minacciosa del luogo

Il fonte battesimale fotografato in direzione della facciata. Si noti il bassorilievo a carattere zoomorfo

nostra stessa fisicità sembra tramutarsi, mentre i simboli, di cui l’interno delle chiesa è ricco, si accalcano attorno a noi trasmettendoci un’energia oscura e misteriosa. A tal riguardo, il nostro cantone offre i suoi tesori, luoghi e spazi che hanno saputo “resistere” – per qualità intrinseche e un indiscutibile valore storico-artistico – all’impressionante modificazione del territorio accaduta nel corso dei secoli. L’occasione per trattarne è rafforzata dal già citato studio di Francesca Selcioni, nel quale la storica dell’arte prende in esame due piccoli “grandi” gioielli ticinesi, San Nicolao a Giornico – che Alessandra Meniconzi ha fotografato per Ticinosette –, e San Vittore a Muralto; edifici che per valore simbolico, ricchezza delle decorazioni e per le singolari caratteristiche archeo-astronomiche (questo aspetto è analizzato nel volume da un dettagliato contributo del prof. Adriano Gaspani, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica Osservatorio Astronomico di Brera), consentono un excursus di grande interesse sull’esperienza artistica del Romanico ticinese e sui suoi complessi addentellati, spesso ignorati dai manuali di storia dell’arte.

già al tempo della visita di San Carlo Borromeo nel 1570 – rientrava dal 1298 nel priorato benedettino piemontese che faceva capo all’abbazia di San Benigno in Fructuaria, fondata nel 1003 da Guglielmo da Volpiano, alla cui concezione costruttiva è fatta risalire la struttura dell’edificio. Restaurata a metà del secolo scorso, la chiesa, edificata in conci di granito, ha pianta rettangolare con la facciata tripartita e divisa da lesene congiunte in alto da arcate cieche. Al suo interno, seguendo il percorso orizzontale che conduce dalla facciata all’abside, metafora del cammino spirituale dal mondo materiale alla santità, San Nicolao offre come scenografia spettacolare e immediatamente percepibile la visione della cripta a tre navate sormontata dal coro e dall’abside, notevolmente elevati e raggiungibili attraverso due scale laterali (a quella di sinistra è affiancata la struttura del campanile ricavata nello spazio della navata). La dimensione verticale si manifesta con forza agli occhi del visitatore: dalla cripta, simbolo del regno delle tenebre, ma anche luogo di espiazione e rinascita, l’occhio risale alla santità del coro e al mondo celeste, rappresentato dall’abside e dalla volta. La cripta di San Nicolao riveste inoltre una particolare importanza. Come rileva Francesca Selcioni, “… è la più suggestiva del nostro patrimonio artistico (…) Le figure che popolano i capitelli, a parte lo sbocciare dei fiori scolpiti, orientati verso l’entrata della luce, sono per lo più zoomorfe e simbolicamente negative. Dunque, seguendo i dettami della tradizione simbolica,

in apertura di reportage La chiesa di San Nicolao fotografata in direzione nord. Si noti la facciata tripartita e il portale sul fianco rivolto a meridione. Il testo che la accompagna è tratto da: Natale Spineto, I simboli nella storia dell'uomo, p. 7, Jaca Book, 2002

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er motivi facilmente comprensibili legati al culto, al sentimento religioso e a una complessa valenza simbolica, la chiesa antica si configura come un dispositivo culturale capace di restituirci – talvolta in modo non facilmente intelligibile –, non solo la memoria di ciò che siamo stati ma anche le modalità che hanno caratterizzato il nostro passato. Del resto, il termine “tempio”, nel suo significato di “porzione”, “sezione”, condivide la radice etimologica con la parola “tempo” (dal latino templum per tempulum, diminutivo di tempus). È infatti nell’atto di varcare la soglia del tempio che l’uomo si dispone a oltrepassare il margine fra la limitatezza della propria esperienza mondana e l’eternità, la dimensione propria del divino. La navata, le volte, l’abside, le colonne, le pareti stesse delle chiese trascendono la loro fisicità per divenire, per via squisitamente simbolica, superfici sensibili, quasi osmotiche, in grado di trasmettere e trascinare il fedele verso una dimensione cosmica e metafisica: “Il fatto di costruire una chiesa, seppur di piccole dimensioni, aveva lo scopo di aprire i fedeli a una visione dell’universo come veniva concepito allora”, scrive Francesca Selcioni nel suo recente saggio Le pietre raccontano. Le rivelazioni della casa di Dio (Armando Dadò Editore, 2009). È un dato di fatto che – indipendentemente dalle proprie credenze o posizioni religiose – l’ingresso in una chiesa, soprattutto se si tratta di edifici antichi, infonda in noi un senso di straniamento e di profonda suggestione: il senso del tempo appare alterato, la

San Nicolao, l’ingresso nel microcosmo dei simboli Il primo riferimento alla chiesa di San Nicolao in Leventina è presente in un documento del 1202 rinvenuto nell’archivio parrocchiale di Chironico. Inizialmente dedicata ad altri santi (forse Giacomo e Filippo), la chiesa – con un annesso convento, non più presente


La verticalità pronunciata della struttura composta dalla cripta e dall’abside sottolinea il passaggio dal mondo sotterraneo (cripta), a quello terreno (pavimento), a quello celeste (volta). Al centro degli affreschi dell’abside la bella immagine del Cristo racchiusa nella mandorla



L’interno della navata di San Nicolao ripreso verso la zona absidale e la cripta. Sulla destra il fonte battesimale. Particolare la struttura campanaria ricavata sulla destra all’interno della chiesa stessa


la cripta di Giornico è una cripta di purificazione interiore”. La serie di capitelli suggerisce infatti al visitatore un vero e proprio itinerario simbolico in cui a dominare sono le immagini del fiore e del leone. Mentre il primo, presente su più capitelli e colto nelle sue differenti fasi di crescita, indica il percorso di rinascita dell’anima del credente; il secondo, raffigurato due volte in posizioni differenti, ammonisce il visitatore al suo ingresso nella cripta ma al contempo lo guida all’uscita. Le colonne, come tanti alberi di pietra, vengono così a costituire una piccola foresta simbolica, un labirinto in cui l’anima del fedele si può perdere ma in cui il filo simbolico rappresentato dai capitelli – oltre al leone e al fiore, compaiono anche le immagini della lepre, del loup vert, della colomba e del libro – indica la via verso la salvezza.

Le sculture presenti sulle pareti esterne dell’edificio sono tutte rivolte nella direzione della luce, mentre le pareti esterne rivolte verso il “buio” ne sono prive

Una chiesa “spaziale” L’altro aspetto di grande interesse della chiesa di Giornico, è rappresentato dalla sua collocazione spaziale e dal suo orientamento. La simbologia solare attribuita alla figura del Cristo ha profondamente influenzato i criteri di orientamento delle chiese, riassumibili nella formula Versum solem orientem. In realtà la costruzione delle chiese con l’abside rivolta a oriente e la facciata a occidente si registra a partire dal V secolo, ma è nel corso del Medioevo, grazie all’attività trattatistica di Gerberto d’Aurillac, futuro papa Silvestro II (945 ca.–1003) che questi criteri vengono sviluppati, perfezionati e universalmente adottati. Si afferma infatti il principio del Sol Aequinotialis, secondo cui l’orientamento est-ovest degli edifici sacri doveva avvenire in riferimento ai punti di levata e discesa del sole in concomitanza agli equinozi. A parte le numerose eccezioni (San Pietro e San Giovanni Laterano a Roma hanno l’abside rivolta a occidente), il criterio fu mantenuto soprattutto nel corso del Medioevo. San Nicolao presenta però alcune specificità. Misure accurate, effettuate anche grazie ai rilevamenti satellitari, mostrano che l’edificio si discosta di ben 35° verso nord, con un azimut astronomico di circa 55° nella direzione dell’asse longitudinale che dall’abside corre alla facciata. Questa deviazione dal Sol Aequinotialis, notata anche in altre chiese presenti nell’area alpina, è dovuta alla differente percezione dell’orizzonte locale, non corrispondente all’orizzonte naturale per l’ovvia presenza dei rilievi montuosi. Ne deriva che, come dichiara Adriano Gaspani nel suo scritto in appendice al saggio di Francesca Selcioni: “Il valore dell’azimut astronomico di orientazione dell’asse della navata della chiesa di San Nicolao è quindi molto prossimo a quello del punto di levata del Sole al solstizio d’estate, all’orizzonte astronomico locale, durante il XIII secolo”. Manifestazione diretta di Dio, la luce era dunque l’elemento intorno al quale edificare la chiesa, vera e propria imago mundi e luogo in cui si celebrava il confronto serrato e costante fra luce e tenebre. E alla Regione della luce, e al suo massimo splendore, la chiesa di Giornico sembra dunque per sempre appartenere.


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La trama è esile, quasi un pre-

Recensioni

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testo per dar vita a dialoghi brillanti, descrizioni vivaci e invenzioni linguistiche in un libro che si lascia leggere non tanto per quello che racconta, ma per come lo fa. Questo è a grandi linee l’identikit di Contiene frutta secca, agile romanzo scritto intorno metà degli anni Sessanta da Umberto Domina (1922–2006), umorista, scrittore e autore di programmi televisivi, nato a Enna, ma radicatosi poi a Milano. Proprio l’originaria Sicilia e il capoluogo lombardo sono i due universi da cui nascono i personaggi e le vicende dei libri di Domina e Contiene frutta secca non fa eccezione. La vicenda narrata nel libro prende le mosse nel 1965 a Castrojanni, cittadina della Sicilia che altri non è che Enna, chiamata con il suo nome antico. Qui giunge il milanesissimo ragionier Gualtiero Borletti deciso a fare della città il teatro per una grande operazione di marketing, una gigantesca ricerca di mercato che coinvolge l’intera cittadinanza castrojese. A finanziare

Abbiamo letto per voi il tutto è l’AGIRM, l’Agenzia Internazionale Ricerche di Mercato, controllata addirittura dal governo degli Stati Uniti d’America! Da vero settentrionale, anzi “Cisalpino” come lo definisce Domina, Borletti ha il culto delle regole, della precisione e della programmazione, un passione sfrenata per la modernità e l’efficienza americana, ma a Castrojanni entra in contatto con un mondo diverso, stravagante e saggio, regolato allo stesso tempo da follia e un buon senso millennario. Questo mondo ha il suo fulcro in Gaetano Zappalà, fondatore, direttore e unico lettore del solo giornale della città. I due personaggi prima si annusano, poi si scornano, quindi imparano ad apprezzarsi reciprocamente lavorando assieme all’operazione avviata da Borletti. Il loro diventa un incontro – per usare le parole dell’autore – “tra un meridionale che aspira al Nord e un settentrionale, che viene aspirato dal Sud” e da Borletti e Zappalà nasce un uomo nuovo, Borzalà, capace di uni-

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re alcune delle caratteristiche di entrambi. In questo senso il libro è un piccolo omaggio agli italiani e alle loro differenze e lontananze, non così grandi da non sentirsi in fondo simili, accomunati nelle esperienze e desiderosi di assomigliarsi più di quanto siano disposti ad ammettere. Come ci dice l’autore, gli abitanti di Castrojanni, da buoni meridionali, esaltano la bontà dei bucciddati, i tipici dolci siciliani alle mandorle, ma poi mangiano il panettone a Natale. E tanti lombardi come il Borletti si innamorano della Sicilia e la lasciano con nostalgia, anche se magari non lo ammetterebbero mai ad alta voce. Un libro carico di ottimismo, da Italia anni Sessanta, un Paese ancora rurale e provinciale, ma con lo sguardo rivolto all’America e al futuro. Una parentesi di lettura allegra, con un bellissimo ritratto del capoluogo lombardo – anche qui una Milano un poco mitica, tutta protesa nel boom economico del dopoguerra – sempre per bocca del cisalpino Borletti: “Io provengo da

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Giochi

Orizzontali 1. Sbalordita, ammutolita • 9. Il peso con la tara • 10. Una pedina coronata • 11. Preposizione semplice • 12. Riva • 14. Chi lo trova, trova un tesoro • 15. Procedura burocratica • 16. Il nome di Fleming • 17. Le tredici sul quadrante • 18. Arrabbiarsi • 22. Altro nome del Lago di Como • 24. Le iniziali di Papi • 25. Il Paradiso perduto • 26. Si dà agli amici • 28. Pari in leggi • 30. Uruguay e Germania • 31. Piccolo strumento a fiato • 34. Fulva • 35. Nervosi, tirati • 36. Glarona sulle targhe • 37. Consonanza • 39. È detta anche patella • 40. Dittongo in paese • 41. Tiro centrale • 42. Fa buon sangue • 44. Il dio egizio del sole • 46. Jean, indimenticato attore francese • 48. Squadra madrilena • 50. Andati in poesia • 51. Cavità oculare • 53. Vi sosta la carovana • 54. La Lescaut.

città mesopotamica • 19. Grossi animali preistorici • 20. Il pronome dell’egoista • 21. Privo di problemi, sereno • 23. Contrita • 26. I confini di Tremona • 27. Spintone • 29. Allegra, giuliva • 32. Razza canina • 33. La belva che ride • 38. Motoscafo da guerra • 43. Cieca • 45. Il nome di Sorrenti • 47. Lo chiede lo spettatore entusiasta • 49. Uno detto a Zurigo • 52. Le iniziali di Muti.

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Verticali 1. Noto romanzo di Camilleri • 2. Regolamento • 3. Rimorchiare • 4. Cong. eufonica • 5. Corroso • 6. Una droga • 7. Provare, sperimentare • 8. Volersi molto bene • 13. Particella nobiliare • 17. Antica

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