Ticino7

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№ 26 del 27 giugno 2014 · con Teleradio dal 29 giu. al 5 lug.

Playboy addio?

dai mitici seduttori degli anni cinquanta e sessanta al fai da te tecnologico degli ultimi anni

SPINAS CIVIL VOICES

SERIAL KILLER L’acqua contaminata uccide più persone delle armi.

Bisogna agire ora: www.helvetas.ch

Ticinosette n. 26 del 27 giugno 2014

NATASCHA FIORETTI .................................

4

DANIELE BERNARDI...........................................................

7

Agorà Ruanda. A vent’anni dal genocidio Letture Il rumore del sole

DI

FRANCESCA RIGOTTI ...............................................

8

ROBERTO ROVEDA ............................................................

9

Media Jolly Roger. Pirati a dritta!

Impressum

Visioni Reali di cartapesta

DI

10

GAIA GRIMANI ....................................................................

12

GIANCARLO FORNASIER; FOTO DI SIMONE MENGANI ...............

37

Società Miti estivi. Playboy addio?

Chiusura redazionale

Vitae Claudia Canova

Editore

Reportage Fercasa

Venerdì 20 giugno Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor

DI

DI

MARCO JEITZINER .............................................

Tiratura controllata 66’475 copie

DI

A CURA DI

DI

ALESSANDRO TABACCHI; FOTO DI REZA KHATIR ........

42

PATRIZIA MEZZANZANICA ED ELVIN MONTESSINO ........

44

Svaghi ....................................................................................................................

46

Luoghi Navigli. La Milano nascosta Cucinare Dalla parte del cibo (4)

DI DI

Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

Stampa

(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

Il “cacciatore” digitale Illustrazione ©Bruno Machado

Non solo radio e TV...

I complimenti non possono che fare piacere: non potevamo dunque non pubblicare lo scritto di questo cortese lettore giunto in Redazione a seguito di un contributo a firma della nostra giovane collaboratrice Keri Gonzato, “Vegan (r)evolution”, apparso nell’edizione dello scorso 23 maggio.

dire che sulla vostra rivista questo genere di approfondimenti sono frequenti e infatti non la si legge solo per “sapere cosa c’è alla TV” ma anche per questi interessanti spazi culturali.

Quindi complimenti a voi e complimenti alla signora Gonzato, anche da parte di diverse persone che hanno letto questo articolo e (perché no) sono certo da parte degli animali e della natura tutta!

Un cordiale saluto e buon lavoro!

L. B. (Lugano)

Spettabile Redazione, vi scrivo questo mail (...) perché tenevo a farvi un meritato complimento. Sono vegan da anni e mi occupo di divulgazione di questa scelta in vari modi.

Sono purtroppo abituato a leggere di questo tema in modo superficiale (forse comprensibilmente visto che è una scelta che si sta affermando poco per volta da tempi non lontani, almeno alle nostre latitudini). Addirittura – cosa invece ben più grave – spesso sui media vi è un preciso intento denigratorio (e gli esemTra coloro che hanno scovato i 5 palloni da calcio presenti pio sono molteplici e tra le pagine del n. 24 di Ticinosette, sono stati estratti: anche recenti).

Il numero 21 di Tici1 2 3 nosette è invece stato Vanda Cavagna Antonio Sassi Turati Giuseppina un raggio di sole: fiGiubiasco Morbio Inferiore Vezia nalmente un articolo ben scritto, che denota che vincono rispettivamente CHF 250.–, 150.– e 100.– il lavoro di approfondiin buoni acquisto. Complimenti ai fortunati lettori! mento (culturale, scientifico ecc.) fatto dalla vostra Il Concorso è stato promosso in collaborazione con brava redattrice, che chiarisce (nello spazio disponibile) alcuni aspetti del tema e non dimentica di segnalare la realtà locale. Devo

SCOPRI I PALLONI!

Mondiali Brasile 2014

A vent’anni dal genocidio Ruanda. Il giornalismo, grazie a internet e agli sviluppi in campo tecnologico, si sta impadronendo di nuove metodologie e forme di comunicazione. Fra queste spicca il web documentario, che il giornalista Giordano Cossu ha utilizzato per raccontare che cosa è oggi il Ruanda, a vent’anni dal terribile genocidio1 di Natascha Fioretti; fotografie ©Arno Lafontaine

O

Agorà 4

ggi, grazie al web e ai nuovi strumenti digitali, i giornalisti hanno a disposizione una molteplicità di tecniche e di linguaggi per raccontare le loro testimonianze. Per esempio, il web documentario, una forma di storytelling non lineare, multimediale pensato per la fruizione e la diffusione su internet. Una modalità che consente una maggiore interazione con lo spettatore che può personalizzare il percorso narrativo secondo i suoi tempi e la propria modalità di fruizione. Il web documentario è oggi materia di laurea in comunicazione dei nuovi media (per esempio, alla MFA in Integrated Media Arts Program, Hunter College, New York, come Web Documentary course information) ed è stato istituito anche il Premio RFI-France24 dedicato al web-doc all’interno del Festival internazionale di fotogiornalismo di Perpignan.

Come ha raccontato Domenico Quirico, inviato de “La Stampa”, in uno dei recenti incontri al Festival internazionale del giornalismo di Perugia riferendosi proprio allo storytelling “non si tratta di un problema di tecnologia. Se raccontare è passione, allora vedere diventa l’atto fondamentale del giornalismo e questo, purtroppo, è diventato sempre più difficile. Non esistono tecniche del racconto perfetto perché l’unica via praticabile è quella di immergersi nella narrazione stessa.

Raccontare è come buttarsi in un pozzo: arrivi fino in fondo e quando risali, ti ritrovi sulla pelle gli odori, i sapori del tuo viaggio ed è da qui che inizia la storia. Il mio sforzo è offrire a chi legge il personaggio che ho incontrato, rimettendolo in vita. «Raccontare» non significa rimanere sul bordo del pozzo e limitarsi a guardare. La vertigine più straordinaria del giornalismo è la trasformazione di storie in parole. Il suo linguaggio, la sua nitidezza espressiva è la ragion d’essere del giornalismo: questa è la più grande avventura”. Ed è proprio questa l’avventura che ha intrapreso il giornalista e documentarista Giordano Cossu, italiano trapiantato a Parigi che dopo un primo documentario sulla ricostruzione di Haiti dopo il terremoto ne ha realizzato un secondo dal titolo Ruanda 20 anni dopo. Ritratti del cambiamento.

Il rischio dell’oblio L’interesse di Cossu per il Ruanda e le sue sorti nasce durante un suo viaggio nel 2009. Già allora, quindici anni dopo il massacro, era rimasto toccato dal vedere come la gente vivesse insieme cercando di ricostruirsi una vita dopo un evento che aveva messo in discussione le relazioni

sociali. C’è un fil rouge dunque che unisce il primo web documentario di Cossu sulla ricostruzione di Haiti e quello realizzato in Ruanda: l’interesse per le questioni umane e sociali difficili, precarie, toccanti che spesso trovano voce e attenzione sui media per poco tempo, l’attimo della notizia, l’occasione della ricorrenza e poi via, tutto ricade nell’oblio. Cossu nei suoi lavori racconta le vicende partendo dal basso e instaurando un legame profondo con le persone con cui entra in contatto.

Una differenza fondamentale che ha riscontrato rispetto al precedente lavoro, è il fatto che ad Haiti era molto più facile parlare con la gente, tutti avevano una grande voglia di raccontare mentre in Ruanda il lavoro è stato più lento. Innanzitutto, perché i temi sono più difficili ed è considerato tabù parlare del proprio passato, dei drammi psicologici; in secondo luogo, perché il contesto politico e sociale in Ruanda appare molto complesso. Ad Haiti ai tempi non esisteva un governo mentre in Ruanda il governo e le autorità sono molto presenti e da sempre controllano il processo di riconciliazione. Inoltre, sussistono grossi limiti alla libertà di espressione e viene esercitata un’ampia vigilanza su tutto quello che la popolazione può fare o dire: “È un contesto in cui difficilmente le persone si esprimono da subito in maniera aperta. Anche per questo sono stati necessari tre lunghi viaggi di un mese e mezzo ciascuno, anche per rincontrare le stesse persone, per poter parlare con loro, vedere come vivono con il proprio vicino, rendersi conto che le differenze fra hutu e tutsi oggi non ci sono più nel paese ma sono ancora presenti a livello di villaggio”.

Dunque, perché scegliere un linguaggio crossmediale per raccontare il Ruanda vent’anni dopo? “Ci sono casi in cui la crossmedialità si adatta bene alle storie complesse. Molti colpevoli del genocidio in Ruanda sono tornati nei villaggi dove abitavano e analizzare la situazione a distanza di venti anni è stata una sfida interessante. Il web-doc è un video interattivo in cui si passa da un personaggio all’altro e si spiega il suo ruolo nella vicenda. Diversi sono i contenuti addizionali e diamo la possibilità all’utente di scegliere il percorso narrativo: l’obiettivo è quello di far assumere prospettive diversificate in modo da esplorare tutti gli aspetti della storia”. Su quale sia il valore aggiunto del web-doc a livello giornalistico Cossu vede le due forme, scritta e visiva, complementari: “In un mondo in cui c’è sempre meno tempo per seguire certi temi, per raggiungere una certa profondità, il web-doc consente all’utente di trovare

Una bambina nei campi di piretro del nord del Ruanda, nei pressi dei vulcani Virunga

gli aspetti che lo interessano di più. Inoltre, proprio perché non lineare, offrendo varie strade e molteplici collegamenti, si adatta maggiormente a certi soggetti e meno ad altri. In questo caso, la storia sul Ruanda non era un progetto lineare ma si focalizzava su un villaggio in modo da comprendere le relazioni tra i suoi abitanti, che cosa pensassero uno dell’altro e quali problemi sussistevano. In una prospettiva del genere, il web-doc è perfetto perché ti dà l’impressione di trovarti davvero in quel contesto specifico, per cui decidi tu dove andare e che cosa vedere.

Conosci una persona, poi va al bar e casualmente ne incontri un’altra… È questo il meccanismo che ho cercato di ricreare”.

Sei personaggi in cerca di identità Cossu per il suo documentario ha girato tutto il paese e ha raccolto le testimonianze di più di cento persone ma alla fine ha scelto il villaggio di Rwinpongo nella regione di Bugesera e i suoi abitanti: “Questo villaggio mi ha colpito subito: i contatti con le persone sono stati particolarmente aperti fin dall’inizio, e ho trovato più spontaneità che in altre zone.

Il problema della convivenza tra chi è uscito di prigione e chi è sopravvissuto al genocidio, con i suoi problemi e opportunità, è emerso fin da subito. Il villaggio era inoltre sufficientemente lontano da qualunque posto dove avessero messo piede dei bianchi, il che ha permesso di farmi accettare più facilmente.

Rwinpongo si trova in una regione che è stata profondamente colpita dal genocidio in quanto contrassegnata da una percentuale di tutsi maggiore della media, e quindi dove il ricordo del massacro era più vivo e importante. È anche un’area tra le più aride, malgrado la presenza di laghi, e visto che il mio scopo era mettere in relazione la vita collettiva con il contesto di sviluppo agricolo del paese, il fatto che la popolazione abbia

dovuto dividere la terra con i nuovi venuti di ritorno dall’esilio, Agorà mi è sembrato che aggiungesse spunti interessanti”.

5 I protagonisti del web-doc sono sei, tutti scelti accuratamente in base alla loro disponibilità e alla loro storia. Osée Muhebera, 49 anni, tornato nel suo villaggio dopo 15 anni di prigione, autore di grandi massacri di tutsi nel 1994, è stato riconosciuto colpevole di genocidio; Andrè uno dei tutsi tornati dopo la guerra; Alphonsine, 49 anni, accusata di saccheggi nel genocidio è stata 15 anni in prigione per avere ucciso; Jeanne, 32 anni, sopravvissuta del genocidio, madre di due bambini; Bonaventure, ex detenuto rimasto senza terra ed Èsperance sopravvisuta al genocidio che ha perdonato i suoi torturatori. Nel documentario non si dice apertamente ma tre di loro sono hutu e tre sono tutsi.

E se anche all’apparenza gli uccisori come Osée sono stati perdonati, le relazioni umane sono messe a dura prova anche per le condizioni di estrema povertà nelle quali vive la popolazione: “Oggi nei media si parla di Ruanda soprattutto come esempio di grande sviluppo dopo il genocidio ed è vero che ci sono enormi risultati, però è altrettanto vero che la maggior parte della popolazione vive in condizioni di minima sussistenza. E alcune delle modifiche del governo non hanno avuto gli effetti sperati e non sono ben viste dalla popolazione che però non lo può ammettere apertamente. Poi ci sono tante altre storie individuali o di riconciliazione o di difficoltà, di ricostruzione della vita… è incredibile come una tragedia del genere resti comunque sotto pelle. In un meccanismo di narrazione non lineare ogni personaggio aggiunge un tassello alla storia e solo vedendoli tutti e sei si comprende che cosa sia il Ruanda oggi. Non viene espresso nessun giudizio, su questo sono stato particolarmente attento”. (...)

Agorà 6

Osée, 49 anni, ha scontato quindici anni di carcere per genocidio

Qualcuno su twitter si è chiesto come si possa a dare la parola a una persona che è stata in prigione e ha commesso questi atti orribili. È vero, ma dal punto di vista giornalistico è interessante, anche perché si tratta di individui che hanno ormai scontato la propria pena, fissata dalla giustizia ruandese in quindici anni di carcere, un periodo di detenzione ritenuto sufficiente anche per chi ha ucciso cento persone. Dal punto di vista della realizzazione è interessante il supporto ricevuto da realtà mediatiche come “La Stampa” e “France24”: “Ho immaginato e pensato il progetto e poi l’ho sottoposto a una serie di media europei. France24 e La Stampa lo hanno ritenuto valido e l’hanno appoggiato aiutandomi, oltre che nella divulgazione, a coprire i costi vivi di produzione”.

Oltre al web-doc una mostra fotografica La realizzazione del web-doc è associata a un lavoro fotografico che in realtà lo ha preceduto e ne ha permesso di fatto la realizzazione. È infatti grazie alle immagini scattate dal fotografo francese Arno Lafontaine, appassionato di Polaroid, che Cossu è entrato più facilmente in contatto con le persone: “Ci presentavamo a volte anche in maniera casuale, a volte chiedendo se volevano essere ritratti avendo la possibilità di sviluppare la foto anche in mezzo alle colline,

sul posto dandogliela dopo un minuto. Era una sorta di scambio e grazie alla fotografia la persona era già meglio disposta nei nostri confronti perché non vedeva più il fotografo straniero come colui che arriva nel paese a rubare immagini per arricchirsi. Molti di loro, quando li ho rivisti tempo dopo, sono corsi in casa a prendere la foto per mostrarla con orgoglio”. La mostra dunque narra il progetto fotografico realizzato con Lafontaine. Sono dei ritratti, a volte in primissimo piano, di persone nel mondo rurale in situazioni un po’ scelte e preparate secondo un concetto fotografico antico nel quale ci si mette in posa. L’esatto contrario del digitale. “Tutti, la persona e quelli che stanno intorno, sono ben coscienti che stiamo facendo una foto e da un punto di vista qualitativo è un’immagine di grande effetto perché c’è una grandissima profondità di campo e si possono ottenere effetti artistici notevoli”. Le fotografie, una trentina di ritratti, sono state esposte a Roma fino al 28 maggio scorso, corredate da testi che consentivano di conoscere la vicenda della persona rappresentata.

Le fotografie sono state raggruppate per temi: c’è una sezione per quelli che sono stati condannati per atti di genocidio e hanno scontato il periodo di prigione, ci sono ragazze orfane con la propria storia a volte negativa a volte positiva, madri rimaste sole a crescere i loro figli, senza alcun sostegno in una società che è a economia rurale e quindi basata sul modello di famiglia uomo-donna spesso con una prole numerosa: “Con la mostra si voleva fornire uno spaccato di che cosa è la vita in Ruanda vent’anni dopo il genocidio, partendo dall’idea di sviluppo e miglioramento di certi aspetti ma anche raccontando che cosa non va bene”.

Dopo Roma la mostra sarà allestita probabilmente a Torino, poi a Parigi… magari in Svizzera? “Sarebbe bello farla girare.

Anche in Belgio dove c’è un forte interesse per il Ruanda. Addirittura sto prendendo contatto per poterla esporre nel Ruanda stesso dove non ci sono mai state mostre sul genocidio. L’approccio che sta alla base del progetto, cioè di dare la parola alla popolazione, alle singole voci e di rappresentare le persone per quello che sono è interessante, ed è il valore aggiunto di tutto il lavoro”. per saperne di più Il web documentario di Cossu e Lafontaine è visibile al seguente indirizzo: rwanda20ansapres.net (in francese e in italiano; presto sarà disponibile anche in lingua inglese). note 1 Era il 6 aprile del 1994 quando l’aereo del presidente e dittatore hutu del Randa, Juvénal Habyarimana, venne abbattuto dando inizio a una serie di massacri frutto della contrapposizione fra le minoranze hutu e tutsi. In poco più di cento giorni, dal 7 aprile alla metà di luglio del ’94, furono uccise almeno un milione di persone, la maggior parte a colpi di machete, migliaia furono le donne stuprate e i bambini arruolati come soldati.

Letture Il rumore del sole di Daniele Bernardi

“La

poesia nasce (…) negli anni intollerabili della vita” ha detto il poeta cinese Gu Cheng.

Questa affermazione ad alcuni potrà certo risultare assolutista. Oppure forzatamente negativa. Ma non a un poeta come Ivano Ferrari, autore della raccolta di versi La morte moglie, edita da Einaudi nel 2013. Ferrari non è un autore molto conosciuto, ma la sua voce non è sfuggita al romanziere Antonio Moresco, che l’ha definita “marginale”, perché nota a pochi, e, al contempo, “centrale”, per la sua levatura all’interno del panorama letterario italiano di questi anni. L’autore, nato a Mantova nel 1948, ha esordito nel 1995 nell’antologia Nuovi poeti italiani 4. Successivamente ha dato alle stampe i libri La franca sostanza del degrado (1999) e Macello (2004).

E proprio a partire da quest’ultimo prende il via la sua nuova pubblicazione. Infatti, i materiali che compongono la prima parte de La morte moglie (Bestie imperfette) provengono da un vecchio quaderno dimenticato, contenente testi risalenti all’epoca della sua seconda silloge. I protagonisti di queste poesie sono

quindi, ancora una volta, gli animali segregati tra le mura del mattatoio. Basta leggere i versi a p. 7 per recepire quanto il racconto del loro massacro faccia eco a una più vasta carneficina dai toni di una visione storica infernale: “Sono bovini diversi / di pelo corto / folti ciuffi sulla fronte / e manti che tendono al chiaro, / il primo della fila / riceve un colpo secco, / una volta appeso lo si sgozza / e chi tra noi ha esperienza / prende un bicchiere di carta / e assaggia il sangue caldo, / jugoslavi, dice”. Dopo aver attraversato pagine su cui giacciono sparsi versi frammentati come gli arti delle bestie fatte a pezzi, si giunge alla seconda parte del libro (La morte moglie). Si passa ora, con un balzo temporale di trent’anni, a quegli “altri modi di morire” a cui accenna il verso di chiusura della prima sezione. Ora è la morte umana a essere dichiaratamente al centro della scena. Ferrari, dedicando questi testi alla moglie scomparsa, ci riferisce del calvario che conduce verso quel luogo in cui “il sole non fa più rumore” o, come scrisse Ungaretti, dove i morti “Non fanno più rumore / Del crescere dell’erba”.

La morte moglie di Ivano Ferrari Einaudi, 2013

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Pirati a dritta!

Erano il terrore dei mari e delle grandi compagnie commerciali; oggi lo sono del web e della “vecchia politica”. Renato Giovannoli ne ha fatto un libro tutto da scoprire di Francesca Rigotti

Media 8

Tra tanto navigare di vascelli pirati simbolici nei mari metaforici dell’informatica – è bene non dimenticare che questa disciplina fu denominata originariamente “cibernetica”, letteralmente arte di pilotare il naviglio, dal greco kybernétes, timoniere –, come non occuparci della bandiera dei pirati, quelli “veri” che infestavano il Mediterraneo e il Mar dei Caraibi e dai quali gli attuali gruppi politici fautori della libertà della rete traggono la loro denominazione? Del celebre drappo nero col teschio e le tibie incrociate, delizia dei giochi infantili di bambini pre e post-digitali? È quel che fa il libro dell’ingegnoso, per non dir geniale, scrittore, saggista, insegnante e giornalista ticinese Renato Giovannoli, intitolato proprio Jolly Roger. Le bandiere dei pirati (Medusa, 2011). Ma attenzione: questo non è un simpatico libro per ragazzi e nemmeno un agile lavoro di simbologia per dilettanti. Giovannoli quando fa ricerca la fa sul serio, con tutto l’impegno dello studioso di classe e così avviene anche per un tema soltanto apparentemente frivolo come le bandiere dei pirati. Origine, significati, simbologie e filosofie piratesche – sì, anche i pirati avevano la loro filosofia – sono acutamente indagati e presentati con un ricco apparato di immagini a base di teschi, tibie e ossa di morto in genere, cuori cruenti, gocce di sangue, spade incrociate, teste tagliate.

Un simbolo ricco di storia Jolly Roger, spiega Renato Giovannoli, sta per “l’allegro Ruggero”, personaggio diabolico, sorta di patrono della pirateria nonché compagno ideale di Robin Hood nella loro comune discendenza dal dio nordico Odino, tanto più che il nome Ruggero (Roger, da rogue) designava un vagabondo poi diventato criminale dei mari. Teschio e ossa come pure clessidra e freccia si collegano all’iconografia medievale della morte e più in generale – spiega Giovannoli – al simbolismo funebre occidentale. Ora, se le compagnie di pirati non erano precisamente delle Confraternite della Buona Morte che si occupavano di seppellire i morti e di pregare per le loro anime, sempre la morte era comunque il loro mestiere: da una parte i pirati la affliggevano alle loro vittime, dall’altra erano essi stessi “civilmente morti” per es-

sere usciti volontariamente dal consorzio civile (ancor oggi il teschio con le ossa incrociate indica sui flaconi di veleno e sui tralicci dell’alta tensione il pericolo di morte).

Il pirata è “già morto” perché ha ricevuto un’iniziazione guerresca con la quale ha messo in conto la propria morte, anche se egli non si considera completamente un criminale o un malfattore quanto piuttosto qualcuno che si fa giustizia da solo e che saccheggiando gli altri navigli con la sua piccola imbarcazione compie meno danni dei governanti degli stati che rapinano più in grande e protetti dalla legge.

Significativa la reazione di un pirata catturato da Alessandro Magno, che gli chiedeva perché infestasse i mari: “E tu perché infesti le terre? Io lo faccio con la mia barchetta e mi chiamano malfattore; tu con una grande flotta e ti chiamano imperatore”. L’aneddoto, che ancor oggi circola in varie forme anche proverbiali (“chi ruba poco va in galera, chi ruba tanto fa carriera”) è riportato nientemeno che da sant’Agostino ne La città di Dio (4,4), a sostegno dell’argomento che gli stati senza giustizia non sono che bande di malviventi.

I nuovi pirati Sull’aspetto prevalentemente criminale dei pirati giocano gli studiosi della politica che hanno effettuato l’accostamento tra pirati e terroristi per spiegare le caratteristiche di questi ultimi: terroristi e pirati hanno in comune il fatto di essere nemici globali interni a un sistema, da combattere ovunque li si incontri. Pirati e terroristi sono predoni, non nemici legittimi dunque, contro i quali viene intrapresa una guerra in piena regola; e come i pirati, i terroristi sono nemici del genere umano, come diceva dei primi Cicerone e ribadiva Svetonio, una via di mezzo tra militari e banditi.

Malviventi di certo i pirati in ogni caso erano, pur se era attribuibile loro una certa cultura e filosofia, quella del compagnonnage, della goliardia, del teatro popolare ma soprattutto della corporazione di mestiere; filosofia e cultura esplicate nella loro “guerra santa” sorretta da desiderio di vendetta ma persino da volontà, per quanto condotta in maniera perversa, di giustizia. Tutto questo e molto di più sui pirati e le loro bandiere nel libro di Renato Giovannoli.

Visioni Reali di cartapesta di Roberto Roveda

La vita di Grace Kelly sembra la sceneggiatura di un film: una ragazza della buonissima società di Filadelfia diventa una diva di Hollywood, vince l’Oscar e poi sposa il principe Ranieri di Monaco. Quindi trascorre il resto dei suoi giorni come sovrana di uno degli stati più esclusivi al mondo, per poi morire giovane, tragicamente. Compito facile per un regista raccontare questa storia, a meno di non voler “strafare”, come è accaduto a Olivier Dahan in Grace di Monaco. Il regista francese, infatti, colto da evidente ansia da prestazione, affastella un groviglio senza requie di inquadrature simili a cartoline patinate, scene madri, musiche e dialoghi roboanti e battute a effetto da far impallidire i vecchi kolossal anni cinquanta di De Mille e soci. E con tanta materia a disposizione sulla principessa-attrice e il suo mito sceglie la via semplice, raccontando la classica storia di ascesa, caduta e resurrezione nel nome della famiglia e del dovere.

Così vediamo Grace lasciare la fama e gloria per il matrimonio, sentirsi estranea al mon-

do del marito e insoddisfatta, incapace di farsi comprendere dai suoi sudditi. Per poi superare tutto grazie alla forza di volontà, a un maestro di buone maniere per teste coronate e, naturalmente, all’amore per il suo principe. A conti fatti la versione sbiadita del Discorso del re (2010), altro filmone mieloso e girato però con ben altro ritmo.

Materia soporifera come poche, quindi, quella di Grace di Monaco, ravvivata con vero sprezzo del ridicolo ricorrendo all’immancabile intrigo di corte orchestrato dalla sorella di Ranieri, Antonietta Grimaldi, per impossessarsi del trono e addirittura raccontando col fiato sospeso – o era uno sbadiglio? – una crisi internazionale (!) che porta la Francia e Monaco quasi alla guerra (!).

Direte: e Nicole Kidman, che interpreta la protagonista? Al confronto della vera Kelly pare algida e rigida come uno stoccafisso e, in quanto a fascino, sta a Grace di Monaco come una statuetta presa tra i souvenir può stare può stare a una scultura originale.

Vedere per credere.

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Grace di Monaco di Olivier Dahan USA, Belgio, Italia, Francia, 2014

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Playboy addio?

Dagli anni cinquanta e sessanta dei grandi seduttori di attrici famose al Gianni di Ascona che conquistava le turiste svizzero tedesche.

Il playboy si è estinto? Cosa o chi l’ha sostituito?

di Marco Jeitziner

Ci siamo chiesti: ma sono mai esistiti i playboy in Sviz-

zera? “Ce n’erano, una volta, ma non hanno mai goduto di grande prestigio” ha scritto Riccardo Aragno1. Sono rimasti nell’ombra come ogni buon impiegato di banca che coltiva la proverbiale discrezione elvetica? Mah. L’ambiente di cui necessita un playboy sono: ricchezza, donne belle e famose, mondanità. Abbiamo la prima cosa, la seconda in parte (fama), non la terza. La mondanità, il jet-set, che noi svizzeri non abbiamo mai voluto, o soltanto saputo creare, è dunque la chiave che ha reso famosi, forse leggendari, i seduttori d’Italia, di Germania, Stati Uniti e Brasile negli anni cinquanta e sessanta?

Società 10

Quelli che “giocavano” Playboy, tradotto alla lettera significa “uomo che gioca”, ma il termine è alquanto vago e di misteriosa origine. Per il Treccani è “uomo, dotato di bellezza e fascino, generalmente ricco, la cui unica occupazione consiste nel fare vita mondana accompagnandosi a donne, giovani e meno giovani, ma sempre belle e famose”. Parliamo del “Baby” Pignatari dei fasti della Roma che fu, o dell’avvocato Agnelli che – l’aneddoto è esclusivo e di fonte degna di fede – volendosi togliere lo sfizio di mangiare una bistecca di orso, se ne fece portare uno intero in elicottero all’albergo di St. Moritz dove alloggiava. Parliamo del Gigi Rizzi che ballava a piedi nudi sui tavoli dell’allora mitica Saint Tropez, ultimo sopravvissuto di una specie data per estinta, morto stupidamente l’anno scorso per colpa di una tartina andata di traverso. E parliamo dei vari Günter Sachs, Porfirio Ruby Rubirosa, dell’Aga Khan, Julio Iglesias ecc., nomi che – ne siamo certi – fanno ancora palpitare il cuore di alcune nostre lettrici. Erano rampolli ricchi (o lo sono diventati) che “giocavano” là dove c’erano le attrici famose, belle e inarrivabili per molti, da sedurre e poi abbandonare, ma mai con cattiveria e vanto fine a se stesso, bensì con “molta leggerezza, nessuna ideologia. Uomini belli, che amavano divertirsi, giocare a carte e corteggiare le donne” scrive la collega Terry Marocco2. Be’, ci chiediamo, dove son finiti?

Belli forse, ricchi sempre Andando a ripescare le fotografie di questi antichi alfieri del verbo e del bacio, per non dire altro, ci pare di capire che, contrariamente al Treccani, la bellezza non fosse una prerogativa assoluta. Se il Sachs era bello, allora chi scrive è il Pitt di turno. Comunque, avevano fascino indiscusso, virtù che – a sentire amiche e conoscenti – nell’uomo d’og-

gi è diventata rara tanto quanto i panda. Eppure il fascino non dipende da un canone estetico, tanto meno da quello oggi imperante, piatto e standardizzato. Il portafogli, invece, quello sì era spesso bello pesante. Confessiamo assieme, suvvia, cari lettori maschi, una certa invidia: la loro unica attività consisteva nel fare vita mondana e divertirsi. Detto ciò, ora tenteremo di risollevare la nostra autostima, o se non altro di suscitare dei ricordi positivi. Abbiamo scoperto che anche il piccolo Ticino di provincia, stretto tra un paese diventato famoso anche per i suoi playboy e una realtà di oltre Gottardo che ne è stata pressoché orfana, ha conosciuto i suoi “vitelloni” di felliniana memoria.

Seduttori di borgata Per saperne di più sui seduttori nostrani non potevamo non cascare sul compianto collega Eros Costantini, brillante e ironico osservatore di vizi e virtù. Correva l’anno 1979. Noi cominciavamo a malapena a capire cosa fosse il gioco e cosa la vittoria, quando nella Locarno e nella Lugano turistiche pullulavano i nostri playboy di borgata e di paese. Non andavano certo per lussuosi alberghi o ambite destinazioni di mare, bensì per grotti, balere e porti lacustri! Scriveva il Costantini: “playboy autentici, veraci, erano Gianni e Ugo che operavano in coppia al Grotto Chiodi e nelle tavernette di Ascona; Angelo che buttava le sue vellutate lenze sul lungolago di Lugano; e, addirittura incredibile, un playboy al cubo era Pino, che riusciva ad annettersi le cinque forestiere imbambolate che sbagliavano treno a Bellinzona”3.

Aiutati da quell’aura di avamposto mediterraneo che è il Ticino, incarnavano benissimo l’amateur fumando le loro sigarette nostrane (mica i sigari), con in tasca qualche franchetto (mica milioni), bevendo birrette da cinquanta centesimi (mica champagne), operando attorno a laghi e osterie (mica a mari e alberghi). Ma funzionava?

“Certe belle donne...”

Il Costantini narrava dell’Eugenio, colui che “riusciva a immedesimarsi nella parte del dongiovanni da villaggio e setacciava con successo nel Lido di Locarno e nelle balere di Brissago”. E citava il Sergio di Melide per cui “su dieci abbordaggi che intraprendi otto, in genere, si risolvono con uno smacco, ma due, più o meno, riescono”. E precisava il Sergio: “conviene sempre puntare su esemplari a 24 carati, anche se non sei convinto di essere un Adone; certe belle donne, ricordati, amano la mediocrità in tutti i sensi”. Ora, su

turna non più spensierata, ma volgare; i media e i paparazzi non più rispettosi ma “violenti” ecc.

Non dimentichiamo il vil denaro: rispetto ad allora, i soldi sono più importanti. “Oggi lo sono terribilmente e gli eredi dei vecchi playboy sono solo ottimi uomini immagine di loro stessi” scrive la Marocco.

Già, continua, “forse anche perché non ci sono più le donne mito: inarrivabili icone come BB, algide come J. Kennedy, (...) bellissime come Veruschka”.

Gunter Sachs e Brigitte Bardot (interest.com)

quest’ultimo aspetto non possiamo esprimerci, mentre presumiamo che sul numero di tentativi ci sia del vero.

Ma erano “abbordaggi” veri, reali, mica a distanza, tramite le chat e le reti sociali. Forse non a caso certe donne di oggi se ne lamentano, chiedendosi: “ma dov’è finito l’uomo d’un tempo?”. Be’, diciamo che lamentarsi è lecito, ma a che serve rimpiangere un tipo d’uomo appartenuto a un’altra generazione e che, soprattutto, pare non esista proprio più?

Tra estinti e nuovi arrivi Secondo certa stampa i Lapo Elkann (erede dell’Agnelli) o gli Stavros Niarchos Jr. (erede dei grandi armatori greci), e persino Roger Federer (!), incarnerebbero i playboy di oggi. Be’, allora un’epoca è definitivamente sepolta e ha un po’ ragione la Marocco: se il Gigi Rizzi conquistò la Bardot facendo festa tutta la notte, un po’ di sport e una buona cena, oggi “quale uomo ti porta a letto dopo aver fatto sci d’acqua e mangiato uno zuppone di pesce?”. Ce lo chiediamo noi e lo domandiamo alle lettrici. Secondo chi gli anni ruggenti li ha vissuti, oggi la seduzione non sarebbe più un gioco ma quasi un “dramma”; la vita not-

“Donna Giovanna”?

Il mondo dello spettacolo è cambiato assai, ma crediamo che il mito resista, così come l’icona, magari più abbordabile della BB, più focosa della Kennedy, più carina che bellissima dell’ex modella Veruschka. Certo la donna di allora non è più quella d’oggi: si dice che non si fa più scegliere dall’uomo, ma sceglie. Lo fanno le cosiddette cougar (letteralmente “puma”, donne 40-50enni che si accompagnano a ragazzi molto più giovani) coi loro toyboy (“ragazzi giocattolo”). Dunque i grandi Don Giovanni sono scomparsi per lasciare il posto alla “Donna Giovanna”? Nessuno nega che le grandi seduttrici non siano esistite, ma ci pare che il corrispettivo femminile del playboy sia azzardato, così come il paragone tra quelli d’un tempo, tanto che “oggi si è arrivati ai grezzi playboy russi”, come diceva Costantini4. Se è vero che oggi “i maschi fanno fatica anche solo a immaginare di corteggiare una donna”, afferma la Marocco, allora chi è che corteggia? Chi seduce chi? Estinto il Sachs o l’Aga Khan d’un tempo, i ricchi rampolli ci sono ancora, ma appaiono più annoiati, scaltri e narcisi che non divertenti, ingenui e spensierati. Il futuro della seduzione umana è forse in mano a donne ricche e conquistatrici come può esserlo l’ereditiera Paris Hilton, che è tutt’altro che inarrivabile e bellissima? O forse dipende da playboy moderni come Carl Hirschmann, il franco svizzero di professione nipote del fondatore della Jet Aviation, erede milionario condannato per aver avuto rapporti sessuali con delle minorenni della cosiddetta “gioventù dorata” di Zurigo?

note 1 “Il ritorno del playboy”, Illustrazione ticinese, 15.10.1999.

2 “Dal playboy al toyboy”, Panorama, 10.7.2013.

3 “L’estate ripropone il mito del playboy”, Azione, 19.7.1979.

4 “Rischiosa la vita dei nuovi playboy”, Azione, 23.11.2009.

Società 11

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Vitae 12

ono nata a Reggio Emilia e ho abitato a San Martino in Rio, una località situata nell’area della bassa Padana, quella di Peppone e Don Camillo per intenderci. A San Martino si trova il bar Mario, citato in una delle prime canzoni di Ligabue, il noto “rocker”, e di cui vengono dipinti i fantomatici frequentatori.

La mia famiglia d’origine è composta da papà Riccardo, mamma Franca e da mia sorella minore Rita con la quale ho condiviso tante cose, a partire dalla camera da letto, luogo privilegiato delle nostre confidenze per sconfiggere paure e smacchi degli anni della giovinezza.

Dopo le scuole dell’obbligo ho ottenuto il diploma di maturità magistrale, avendo sempre desiderato, fin da piccola, di fare la maestra. Sono stata un’allieva diligente, ambiziosa, che s’impegnava nello studio, nonostante abbia riscoperto solo da adulta l’importanza e il piacere di approfondire certe materie, che mi hanno suscitato il desiderio di proporre alla mia comunità un ciclo assai apprezzato di conferenze sui classici. Ottenuto il diploma, per approfondire la conoscenza della lingua tedesca, ho deciso di frequentare un corso intensivo sul lago di Costanza, corso determinante per la mia vita perché vi ho conosciuto mio marito Giuseppe. Dopo alcuni anni di pendolarismo abbiamo deciso di sposarci ed è quindi avvenuto il mio trasferimento in Svizzera. Lasciare famiglia, parenti, amici e luogo natio è stato motivo di sofferenza, ricompensato, però, dall’amore da cui ero circondata e dall’arrivo di Lisa e Letizia, le mie figlie, alle quali mi sono dedicata totalmente, senza rimpiangere nulla.

Il mio avvicinamento alla politica ha seguito un iter particolare: mi sono messa a disposizione, su richiesta del mio partito, per la legislatura 2004-2008 per completare la lista dei candidati al Municipio. Quattro anni dopo è arrivata l’elezione a municipale (prima donna nell’esecutivo del comune di Morbio Inferiore); nell’aprile 2012 sono stata riconfermata e addirittura eletta sindaco del nostro paese.

Essere sindaco di una comunità, piccola o grande, è un com-

pito assai impegnativo e comporta molte responsabilità, per il tanto tempo da mettere a disposizione, per la pazienza necessaria a vedere conclusa e realizzata un’opera, per la difficile assunzione di alcune decisioni e le tante opinioni con cui ci si deve confrontare. Ma se si è animati dalla passione per il compito per il quale si è stati eletti, si sacrifica il proprio privato, si superano momenti di difficoltà e gli ostacoli della burocrazia, delle mancanze di risorse, delle sterili discussioni, privilegiando il dialogo, l’ascolto, la mediazione, la pazienza, la sobrietà e la gentilezza.

Essere contemporaneamente mamma, moglie e sindaco non è impossibile, ma non è nemmeno sempre facile. Ci sono ritmi assai intensi e si sacrifica il proprio tempo privato: io mi alzo molto presto e ogni giorno dedico almeno un’ora all’attività fisica prima di mettermi a studiare dossier o partecipare a riunioni o incontri. C’è poi sempre un giorno alla settimana che è tutto mio nel quale penso solo a me o agli impegni privati per ricaricarmi. Essendo nata in Emilia, terra che vanta una cultura gastronomica di prim’ordine, uno dei miei hobby è la cucina. Sono però anche sportiva: cammino sia in montagna che in città, gioco a tennis e pratico jogging regolarmente. Credo inoltre che la cultura, nelle sue varie forme espressive, rappresenti una grande opportunità per mantenere la vivacità intellettuale personale e di una comunità. Essa è l’occasione per riflettere sul passato, sul presente e sul futuro: produce pensiero, identità, cittadinanza.

Avvicinare le persone alla cultura, significa far trovare loro ragioni e stimoli per affrontare anche una situazione di crisi come quella che stiamo attraversando. Qualcuno dice che con la cultura non si mangia: è un errore, perché non solo il corpo ha bisogno di nutrimento, ma anche lo spirito e solamente ripartendo da quello che siamo e che ci rende unici al mondo, potremo tornare a crescere.

CLAuDIA CAnOvA

Prima donna sindaco del Mendrisiotto, ha saputo conciliare famiglia, politica e interessi personali. Ritiene la cultura elemento essenziale per una comunità, anche quando la crisi si fa sentire

testimonianza raccolta da Gaia Grimani fotografia ©Flavia Leuenberger

Fercasa

La casa d’appartamenti costruita negli anni sessanta nel comune di Novazzano è una preziosa e originale sintesi di utilizzo parsimonioso del territorio e ricerca di una migliore qualità di vita nell’abitare a cura di Giancarlo Fornasier fotografie ©Simone Mengani

B

enché costruito attorno alla metà degli anni sessanta del novecento e situato al di fuori del maggiori agglomerati urbani del cantone, la casa d’appartamento Fercasa di Novazzano è uno dei pochi (una dozzina in tutto) palazzi destinati all’abitazione che l’Ufficio beni culturali di Bellinzona segnala come “meritevoli di tutela cantonale” (La tutela del Moderno nel Cantone Ticino, Dipartimento del territorio, 2012).

Portata a termine nel 1966 su progetto degli architetti ticinesi Alberto Finzi (classe 1931) e Paolo Zürcher (1935), Fercasa nasce con l’intento di costruire delle abitazioni per gli impiegati delle Ferrovie federali svizzere. Sono gli stessi

in queste pagine: la tromba delle scale in cemento armato che, assieme all’ascensore, costituicono un corpo a forma ellissoidale separato dalla parte abitativa del complesso di appartamenti.

Costruita tra il 1965 e il 1966 su progetto degli architetti Alberto Finzi e Paolo Zürcher, Fercasa era originariamente destinata agli impiegati delle Ferrovie federali svizzere in apertura: tra i pregi della casa di appartamenti di Novazzano, si segnala anche l’inserimento paesaggistico “isolato”. Certo, oggi il panorama circostante è assai mutato rispetto agli anni sessanta, e con esso anche l’equilibrio che originariamente esisteva tra il territorio e l’edificio

progettisti a proporre alle FFS l’acquisto di un grande sedime a in via Torraccia, idea accettata assieme al progetto dalla omonima cooperativa promotrice dell’edificazione.

Come si legge nella scheda elaborata dal Servizio inventari/ Servizio monumenti (IBC) del già citato Ufficio beni (vedi bibliografia; www4.ti.ch/dt/dstm/sst/ubc/), “il complesso si trova in posizione isolata sul pendio della collina e caratterizza, con la sua monumentale presenza, il paesaggio collinare del basso Mendrisiotto”. La casa d’appartamenti occupa meno del 10% (700 m2 per la precisione) degli 8.500 m2 della particella: l’edificio “è costituito da due volumi distinti: un sottile parallelepipedo staccato da terra su pilotis, con 50 appartamenti

duplex sistemati su 5 livelli, e una torre a pianta ellissoidale nella quale sono inseriti il corpo scale e l’ascensore. Le due facciate del corpo principale sono risolte differentemente: quella a sud è caratterizzata dall’alternanza regolare di volumi chiusi e parti vetrate, mentre quella a nord, più dinamica e plastica, è contraddistinta dai volumi in aggetto dei ballatoi”.

L’intero manufatto è stato realizzato in calcestruzzo a vista, oggi intonacato, “la cui finitura grezza ha il vantaggio di accentuare la notevole qualità scultorea dell’edificio. Il volume sospeso su pilotis crea un portico utilizzabile in diversi modi che sostiene la parte abitativa organizzata da ballatoi esterni che distribuiscono la circolazione verso le entrate dei singoli (...)

Simone Mengani Nato a Perugia, classe 1978, si trasferisce all’età di cinque anni a Vacallo, dove inizia a coltivare la passione per il territorio.

Dopo gli studi liceali si iscrive all’Accademia di Architettura di Mendrisio, dove si diploma nel 2004. Dopo alcune esperienze di lavoro, nel 2006 inizia l’attività come fotografo indipendente, prediligendo la fotografia di architettura. Collabora con diverse riviste e settimanali, operando anche nell’ambito della fotografia panoramica. Per ulteriori informazioni: fotomengani.ch

in queste pagine In senso orario: vista della torre con le scale e l’ascensore, le “passerelle” che la collegano al corpo principale modulare, dove si riconoscono le singole componenti abitative duplex bibliografia Testi e pubblicazioni segnalati nella scheda “Novazzano. Casa d’appartameti Fercasa” prodotta dall’Ufficio beni culturali (IBC, fondo n. 513, 30.5.2012): • “Chiasso, ai confini della città”, ARCHI, n. 6, 2000 • “Restaurare il Moderno”, ARCHI, n. 2, 2000 • AA.VV., Guida d’arte della Svizzera italiana, Bellinzona, 2007, p. 463 • Accossato Katia, “Chiasso anni ’60”, ARCHI, n. 6, 2000, pp. 30-35 • Disch Peter, Architettura recente nel Ticino 1980–1995. Con un riassunto degli anni 1930–1980, Lugano, 1996, p. 40 • Fumagalli Paolo, “Architettura e case torri negli anni ’50 in Ticino”, ARCHI, n. 1, 2008, pp. 16–23 • Gianola e Schaub, “Fercasa Novazzano. Una piccola unità d’abitazione 50 «casette» accostate e sovrapposte”, Rivista tecnica della Svizzera italiana, n. 58, 1967, pp. 204–209 • Guida dell’architettura svizzera 1920-1995. Vol. 3: Svizzera occidentale, Vallese, Ticino, (redazione Christa Zeller), Zurigo, 1996, p. 312 • Kaehr Paolo, “Il degrado delle costruzioni”, ARCHI, n. 1, 2009, pp. 52–55 ringraziamenti Un sentito grazie al capo Servizio inventario dell’Ufficio beni culturali di Bellinzona Giulio Foletti per la preziosa collaborazione

appartamenti (...)”. Le unità abitative, che dispongono di doppi servizi, “sono suddivise su due piani collegati da una scala, con la zona giorno posta inferiormente alla zona notte. Il tetto, originariamente, presentava un concetto di Le Corbusier e cioè le toit jardin; era infatti data la possibilità di utilizzarlo, munito di un adeguato parapetto, come giardino “privato”; in seguito, apparentemente a causa di infiltrazioni d’acqua, è stato coperto con delle lastre di eternit”.

Un’espressione del suo tempo La costruzione di grandi complessi abitativi sul territorio cantonale ha avuto un’esplosione proprio negli anni sessanta. Una tipologia costruttiva ben rappresentata dunque. Ma non tutto il costruito merita di essere protetto (e nemmeno sarebbe possibile farlo); che cos’ha Fercasa che altri “palazzoni” non hanno? Nel paragrafo “Significato e valore: motivazioni della tutela” l’Ufficio beni culturali

contestualizza la scelta: “Con il rapido sviluppo economico e sociale del dopoguerra cresce anche in Ticino la necessità di edificare abitazioni sociali a basso costo. Le nuove edificazioni del Moderno corrispondono a questa particolare tipologia edilizia offrendo edifici dalle grandi qualità spaziali e funzionali. Molti architetti ticinesi si dimostrano abili nel creare spazi abitativi di modeste dimensioni ma funzionali e di buona qualità, costruiti con mezzi finanziari limitati. Contro la standardizzazione funzionale e l’omologazione collettiva, l’attenzione è volta a ogni singolo inquilino, alla caratterizzazione dei diversi appartamenti e alla valorizzazione della componente privata. Dal punto di vista urbanistico, dopo un periodo di crescita selvaggia delle città, la nuova generazione di architetti affronta il problema creando nuovi riferimenti per l’espansione urbana. Sorgono quindi numerosi edifici di qualità ai margini degli agglomerati che cercano non solamente di inserirsi nel paesaggio, ma di costruire il paesaggio stesso. È questo il caso della Fercasa di

Novazzano”. Questa casa d’appartamenti “coniuga il rigore dell’architettura razionalista con un’attenzione particolare alla definizione delle singole unità abitative”. Il progetto, che viene definito “Una piccola unità d’abitazione 50 «casette» accostate e sovrapposte”, e gli intenti degli stessi Finzi e Zürcher erano di “garantire ad ogni «casa» una posizione privilegiata, per salvaguardare il paesaggio; per offrire delle abitazioni ottime e a basso costo” (Gianola e Schaub, p. 204). Una visione della conservazione del verde e dello spazio/territorio che si traduce in uno sviluppo in altezza (e non orizzontale) della costruzione (“salvaguardando così gli spazi verdi del sedime”).

E quantomai lungimirante e di pressante attualità, alla luce di quanto avvenuto negli ultimi decenni in Ticino quale conseguenza della “politica delle casette monofamiliari”, a loro volto diventate oggi finanziariamente quasi inacessibili (se non in aree geograficamente discoste).

Fercasa pare ispirarsi all’ “Unité d’habitation” di Le Corbusier (Marsiglia, 1946), ma nel caso di Novazzano non vi sono servizi e negozi, è stata costruita “per ospitare esclusivamente abitazioni”. “L’architettura (...) non vuole – giustamente – rivaleggiare con quella del Maestro, ma offre comunque degli spunti progettuali molto interessanti. In primo luogo per la presenza nel territorio, con l’edificio adagiato con maestria nell’ondulato paesaggio fatto di morbide colline, dalle quali si erge con la severità del suo volume allungato. E poi per le scelte tipologiche interne e per le qualità formali dell’architettura stessa, con la torre dell’ascensore isolata dal corpo principale e l’alternanza dei volumi chiusi con quelli delle parti vetrate, e il piano terreno libero che poggia su pilotis” (Fumagalli, p. 23).

Navigli. La Milano nascosta di Alessandro Tabacchi; fotografie ©Reza Khatir

fonda, e in fondo oscura, di Milano. Una città che, come il teschio tempestato di diamanti di Hirst, sotto gli occhi compiacenti dei suoi abitatori, rischia di morire pian piano agghindata dallo scintillio di una falsa ostentazione.

Luoghi 42

Per capire il volto nascosto della Milano di oggi, palcoscenico di nuove velleità internazionaliste affiancate a un diffusissimo (e mitizzato) precariato sociale e spirituale, può essere utile farsi una passeggiata serale lungo i Navigli.

Innanzitutto, aiutiamo chi meneghino non è: col termine “Navigli” s’intende una zona specifica della città, nell’area della Darsena, all’incrocio fra il Naviglio grande e il Naviglio pavese. Una volta la rete delle vie d’acqua era molto più estesa e suggestiva (come documentano i pittori lombardi dell’ottocento), ma lo sviluppo disordinato della città novecentesca e la ricostruzione dopo i bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale hanno alterato irrimediabilmente il paesaggio urbano originale.

E anche i Navigli sono stati deviati, prosciugati, interrati.

Laddove organizzano ancora la geometria della città si è venuto a creare negli anni un tessuto sociale economico incentrato sulla movida.

“Andare ai navigli” significa andare a farsi un ape (leggi: aperitivo), una pizza, una birra o un superalcolico, in uno degli innumerevoli locali per tutte le tasche che dominano questo lembo meridionale di Milano che si anima, dopo cena, di una massa vociante e anonima.

Proprio nella confusione sommessamente sguaiata, condita dal bestemmiare ostentato di adolescenti vestiti da rappers griffati e dalle risate aiutate da una birra o una vodka di troppo, in questo miscuglio di persone radunate per celebrare i riti di una socialità esteriore, in questo ondeggiare di solitudini sommate, sento pulsare la natura più pro-

Sotto i ponti Melting pot di vite i cui cuori battono altrove. Un oceano oscuro di destini intrecciatisi per caso in una metropoli che fatica assai a farsi amare per quello che è. Milano è infatti una città cui è toccata troppe volte in sorte la sventura di essere considerata alla stregua di un arnese da lavoro, o di un centro commerciale, o di parco divertimenti adult oriented. Qualcosa da cui, timbrato il cartellino, o pagato lo scontrino, ci si deve allontanare, pur rimanendovi. Senza correre il rischio di cadere in luoghi comuni, la verità è semplice, e un po’ triste: nella maggior parte dei casi, a Milano ci si va, ci si entra, ci si vive, ci si trasferisce, innanzitutto per lavorare, o al massimo per fare shopping, tutto il resto è conseguenza. Del resto, al di là di una diffusa retorica localistica e campanilistica volta a vendere per eccellenza quella che è solo una normalità amministrata, Milano è una città che soffre di un progressivo e drammatico straniamento sociale, uno straniamento che vedo ben espresso dalla fauna umana dei Navigli, contraltare suo malgrado all’elitarismo becero e botulinico del quadrilatero della moda. Come avrete ben capito, passeggiare la sera per i Navigli mi infonde una certa malinconia.

E ad alimentare questo senso di perdita, a volte s’intromettono squarci paesaggistici struggenti che riportano alla memoria le immagini della città che fu, scorci poetici di case di ringhiera specchiantisi su queste vie d’acqua ormai private della loro originaria funzione, metafora di un’intera città.

Perché, sia ben chiaro, penso che il cuore profondo di Milano sia sicuramente qualcosa di molto più grande di una grigia riunione di sradicati più o meno benestanti, dediti al culto della produzione, dell’apericena e dello shopping compulsivo, un cuore profondo che si può ancora ritrovare nelle memorie di una città che fu austera capitale morale e culturale di un’Italia che pare lontana anni luce; o nell’attualità coraggiosa delle associazioni di volontariato dedite ad aiutare chi dall’ondata sfavillante è stato sbattuto dolorosamente a riva dopo il naufragio; o ancora nel silenzio operoso di coloro che scorgono ancora nell’etica e nella cultura la via maestra per il futuro.

Dell’antica Milan col cor in man ben poco rimane se ci si ferma all’impressione che si riceve da una passeggiata serale ai Navigli. Ma forse il suo spirito si è solo nascosto sotto un ponte, o in un cortile solitario.

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Fatto in casa Cucinare p. 44 – 45 | di Patrizia Mezzanzanica ed Elvin Montessino

Ritrovare i sapori di una volta, sorprendersi dotati di una manualità che pensavamo dimenticata.

Non ci vuole molto per scoprirsi dei bravi artigiani.

Basta scegliere gli ingredienti giusti e fidarsi del proprio istinto

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arà per via della difficile situazione economica, sarà perché nessuno – e spesso, ahimè, neppure l’azienda produttrice – sa davvero cosa contengono i cibi pronti, sarà che siamo tutti sempre più attenti al nostro benessere, fatto sta che l’home made è diventato una tendenza e, almeno in questo caso, una tendenza decisamente positiva.

I corsi di panificazione spopolano ovunque e su internet è reperibile ogni genere di consiglio per coltivare un orto.

Chi non possiede un giardino, né un terrazzo, e neppure un balconcino, si arrangia come può. L’imperativo è provarci comunque. Perché bastano un paio di foglie di quella piantina di basilico che annaffiamo ogni sera e fa bella mostra di sé sul davanzale della nostra cucina, per rendere la nostra caprese di mozzarella e pomodoro speciale, più profumata, più sana.

E non è un’impressione. È vero. Cucinare è una questione di cuore. È passione, è attenzione, è desiderio di prendersi cura di sé e degli altri. Pensare che tutto questo vissuto non “passi” in ciò che mangiamo, rendendolo migliore e più saporito, ci sembra un’assurdità: la madeleine tanto amata da Marcel Proust, un piccolo dolce soffice a forma

di conchiglia da inzuppare nel tè, non poteva che essere stata preparata con amore. Così tanto amore da trovare spazio nel suo più grande capolavoro, Alla ricerca del tempo perduto, dove le pagine dedicate al cibo sono intense e numerose. In Dolce come il cioccolato di Laura Esquivel, la protagonista seduce l’amato con squisiti manicaretti e in Donna Flor e i suoi due mariti, il capolavoro di Jorge Amado, ogni sezione si apre con una divagazione sulla cucina brasiliana di Bahia.

ESERCIZI SPIRITUALI

Preparare il cibo passo dopo passo, cominciando dalla base, è un piccolo viaggio che ci offre straordinarie opportunità di conoscenza di noi stessi e della nostra storia. Lavorare gli ingredienti, sentirli fra le mani, riappropriarsi di gesti antichi, lasciarsi trasportare da un rituale che da millenni ci appartiene è molto più che cucinare. È quasi un esercizio spirituale.

Molto meno complicato di quanto sembri. È piuttosto spiegare come arricciare un’orecchietta o lavorare una trofia a essere complicato ma una volta compreso il meccanismo, una volta riconosciuto quel gesto

che ancora è dentro di noi, ripeterlo diventa semplice.

E il risultato è sì, genuinità e risparmio ma anche piacere, soddisfazione, orgoglio.

Specie se, poco a poco, si riesce a far propria una ricetta, aggiungendo o togliendo elementi a piacimento, decidendo quanto sale, o zucchero, o burro utilizzare per renderla unica e irripetibile.

Quindi il vero problema è: da dove iniziare? Cosa si può preparare di semplice e al tempo stesso appetitoso, come prima volta? Direi di cominciare da una bella focaccia al rosmarino, morbida e saporita. Da gustare con del formaggio e qualche salume che, magari, saremo andati a comprare in cascina (sul web si trovano facilmente nomi e indirizzi) o nei mercati dell’equo mercato ormai presenti in ogni città. Come primo, opterei per una pasta tradizionalmente senza uova, quindi più leggera, come le tofie liguri, da condire con un classico pesto di basilico (ma senz’aglio), facile da realizzare e di stagione. Per terminare, una torta alle pesche con la cannella. Anche le pesche sono di stagione e la cannella è un ottimo digestivo, un antiossidante naturale e, secondo gli antichi romani, un potente afrodisiaco.

La focaccia è da servire tassativamente nella carta oleata, come una volta, in modo che non si secchi. Non nei tovagliolini di carta, come spesso succede, che assorbono tutto “il buono”. La pasta al pesto, verde e brillante, è perfetta nella ceramica bianca, o meglio ancora bianca e blu, i tradizionali colori delle maioliche liguri che vengono tuttora prodotte ed esportate in tutto il mondo. Se vi rimane il tempo di impiattare la torta e non viene divorata ancora calda direttamente sul piano dove l’avete lasciata a raffreddare, sceglierei un piatto in vetro, dotato di coperchio, per poterla conservare in caso avanzi.

Qualche ricetta

FOCACCIA AL ROSMARINO (teglia 25 x 40 cm) 300/320 g di semola rimacinata di grano duro, 190 ml di acqua, 20 ml di olio extra vergine di oliva, 1 cucchiaino di malto, 1 cucchiaino di zucchero di canna, 1 cucchiaio di sale fino, 17 g di lievito di birra Sciogliere il lievito nell’acqua a circa 40 °C e aggiungere il malto, lo zucchero e il sale. Incorporare la farina e l’olio mescolando bene per circa 20 minuti. Avvolgere il composto nella pellicola e lasciarlo riposare per 2 ore.

Versare dell’olio sulla teglia e adagiarci la focaccia stendendola con le mani. Lasciarla riposare per 20 minuti al riparo da correnti. Versare acqua salata a pioggia sulla superficie, un po’ d’olio e il rosmarino tagliato grossolanamente. Infornare a 200 °C per circa mezz’ora.

TROFIE AL PESTO 300 g di farina, 100 ml di acqua tiepida salata, un pizzico di sale; (per il pesto) 3 mazzetti di basilico, 100 ml di olio, 300 g di parmigiano, 200 g di pinoli (o mandorle), 2 cubetti di ghiaccio Preparate il pesto, frullando tutti gli ingredienti a media velocità. L’uso del ghiaccio eviterà che le foglie di basilico perdano il loro colore verde brillante. Lavorare la farina, l’acqua e il sale fino a ottenere un impasto piuttosto sodo. Fare riposare in frigorifero per un’ora. Lavorarlo ancora brevemente e, staccando dalla pasta dei piccoli pezzetti, arrotolarli sul piano di lavoro o strofinarli fra le mani, fino a ottenere dei cordoncini lunghi tre o quattro cm, più spessi al centro e assottigliati alle estremità.

Lasciateli asciugare su un telo infarinato e lessateli al dente in abbondante acqua salata a bollore, sgocciolandoli man mano che vengono a galla.

TORTA SOFFICE CON PESCHE E CANNELLA 200 g di burro, 200 g di farina, 150 g di zucchero, 5 uova, 1 bustina di lievito vanigliato, 5 pesche gialle, 1 stecca di cannella, 1 bicchiere di latte, cannella in polvere quanto basta Lavorare il burro con la frusta fino a ottenere una crema poi lavorare i tuorli d’uovo con lo zucchero fino a ottenere un composto omogeneo e soffice. Montare gli albumi a neve con un po’ di sale. Nel frattempo, scaldare la stecca di cannella nel latte e tagliare tre pesche a dadini e due pesche a fettine sottili. Incorporare il burro e le uova, aggiungere la farina e il lievito, mescolare bene e aggiungere il latte. Per ultimo aggiungere gli albumi.

Mettere il composto in frigorifero per due ore. Quando l’impasto è freddo versategli sopra le pesche a pezzetti e, con le fettine, coprite tutto andando a comporre una spirale che parte dal centro verso l’esterno. Spolverare con zucchero di canna e cannella in polvere a informare a 180 °C per 40 minuti circa.

La domanda della settimana

Ritenete che la classica vacanza estiva al mare sia più rigenerante rispetto alla montagna?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 3 luglio. I risultati appariranno sul numero 28 di Ticinosette.

Al quesito “Ritenete che lo sport del calcio, a livello mediatico, abbia troppa rilevanza rispetto ad altre discipline sportive?” avete risposto:

SI

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NO

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Astri ariete Viaggi e nuove opportunità. Sfruttate al massimo le vostre doti creative.

Colpo di fulmine con Acquario o con il Leone. Conflittualità con il partner.

toro Particolarmente favoriti tra il 2 e il 4 luglio grazie al transito lunare nella quinta casa solare. Amori e gite.

Cambiamenti per i nati in maggio.

gemelli Potrete coniugare la vostra aspirazione all’amore con il vostro individualismo. Iperfrenetici e determinati i nati nella terza decade. Idee brillanti.

cancro Siete al centro di un magnifico trigono d’acqua. Avanzamenti professionali e nuovi guadagni. Controllate di più l’aggressività.

leone Rinnovamento di una situazione affettiva. Favorite le relazioni con Ariete e Gemelli. Creatività e nuovo fervore in ordine alle attività professionali.

vergine Tenderete a sfogare le ansie eccedendo nel cibo. Possibile indulgenza verso se stessi. Evitate di fare spese pazze. Maggior riposo tra il 2 e il 4.

bilancia Momento topico. Cambiamenti in arrivo a tutti i livelli. Possibili imprudenze, quindi maggior cautela.

Venere e Mercurio sono con voi.

scorpione Allargate ogni vostra prospettiva. Momento adatto per frequentare gruppi che si occupano del risveglio della coscienza o per fare un viaggio.

sagittario Mercurio e Venere in opposizione.

Possibili superficialità nella gestione della vita affettiva. Sentimenti di autoindulgenza. Spese voluttuarie.

capricorno Marte e Giove disarmonici. Prima di attaccare gli avversari centratevi di più in voi stessi. Fate ricorso alle facoltà intuitive. Bene tra il 2 e il 4.

acquario Grazie a Urano saranno premiati i soggetti intraprendenti. Colpi di fulmine con persone più giovani.

Situazioni inaspettate.

pesci Momento d’oro per i nati nella terza decade. Disturbate le relazioni sentimentali dai transiti di Mercurio e Venere nel segno dei Gemelli.

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 28

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 3 luglio e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 1. luglio a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Orizzontali 1. Lo sono anche Europa e Australia • 10. Cantone svizzero • 11. Rosicchiare • 12. Curano le malattie delle orecchie • 14. I confini di Essen • 15.

Una vignetta dell’enigmista • 16. Componimento • 18.

Agnese a Madrid • 19. Oscure • 20. La fine di Aramis • 21. Gatte striate • 24. Lindore • 26. L’imbocco della strada • 27. Attraversa Berna • 28. Egregio, illustre • 30.

Aggettivo in breve • 32. Regali • 33. Cani africani • 36.

Austria e Norvegia • 37. Accusativo in breve • 38. Gas luminoso • 40. Rettile velenoso • 41. Lo rispetta l’autista • 43. Preposizione semplice • 44. Si empie di tifosi • 46.

Il pronome che mi riguarda • 47. Il noto Tse Tung - 48.

Fiume engadinese • 49. La Raffaella con il caschetto • 50. Negazione • 51. Blasfemie • 52. Fra due fattori.

Verticali 1. Noto film del 2001 di S. Hicks con Anthony Hopkins • 2. Bel fiore a palla • 3. La sposa di Anfione • 4. Fiore lilla • 5. Negazione bifronte • 6. Bandi, leggi • 7. Nord-Est • 8. Un solvente del pittore • 9. La belva striata • 13. Moscovita • 17. Il noto da Rotterdam • 19. Il dio greco della guerra • 22. Stato USA • 23. Una droga • 25. Indizio, orma • 29. Proprio stupido • 31.

Mezza gara • 34. Mitico aviatore • 35. Fu re di Pilo • 39. Grovigli • 42. Le indossa il sub • 44. Ampia veste indiana • 45. C’è quel del vero • 47. Motoscafo militare • 49. Mezza cena.

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La soluzione del Concorso apparso il 13 giugno è: TRANELLO Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Marinella Riva via San Jorio 9 6512 Giubiasco

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Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!

Questa settimana ci sono in palio 100.– franchi in contanti!

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