Ticino7

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№ 35 del 29 agosto 2014 · con Teleradio dal 31 ago. al 6 set.

DI SPAZI E DI LUCE

La chiesa di Giova in valle Calanca: quando larchitettura dialoga con il territorio e la sacralità

Corriere del Ticino · laRegioneTicino · Tessiner Zeitung · chf 3.–


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Gustosi saluti dalle montagne svizzere.


Ticinosette allegato settimanale N° 35 del 29.8.2014

Impressum

Agorà Famiglia e apprendimento. Una lingua non basta

Patrizia Mezzanzanica ........................

8

Letture Quello che le etichette non dicono

di

Giancarlo FornaSier ...........................

9

Keri Gonzato .........................................

10

Giancarlo locatelli ...........................................

11

Keri Gonzato.......................................................................

12

Media Laura Kaehr. Il cerchio della vita

Chiusura redazionale

Vitae Fatima Ferrini

Editore

Reportage La chiesa di Giova

Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor

4

di

Arti Mal Waldron. Come ombre

Venerdì 22 agosto

Silvano de Pietro ...........

Salute Cibo e sostanze. Ciò che mangiamo

Tiratura controllata 66’475 copie

di

di

di

di

Martina rezzonico; Foto di SiMone MenGani ..........

37

Marco Jeitziner; Foto di ana caSado ....................

42

MariSa Gorza ..............................................

44

Svaghi ....................................................................................................................

46

Viaggi Ticino-Salento. Giù e su

di

di

Tendenze Erbe. Magie sul balcone

di

Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

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In copertina

Valle Calanca. Nostra Signora di Fatima a Giova-Buseno Fotografia ©Simone Mengani

Il padrone del mondo Buongiorno, complimenti per l’uscita dedicata al Festival (del film di Locarno, Ticinosette n. 32/2014, ndr.), evento naturalmente importante per il Ticino ma da un punto di vista mediatico un po’ inflazionato, mi pare. Per due settimane non si parla d’altro e da locarnese ammetto che, dopo i primi giorni di euforia, piadine e bevute sino a tarda ora, anche io non vedo l’ora che finisca (vecchio sano provincialismo, altro che Festival di Berlino! ha ha). Non preoccupatevi, niente Polanski e la famiglia Dadò, è che nel numero in questione ho trovato un articolo sulla fine del DVD e non ho proprio resistito! Quello che avete scritto è certo vero, ma mi pare che da quando canali come YouTube riescono a proporre gratuitamente filmati a una risoluzione accettabile, era evidente a tutti che i supporti, tutti, sarebbero diventati anacronistici e perfettamente inutili. È chiaro che la fine di CD & DVD e il dominio di internet pone tante domande sulla libertà di poter ascoltare, vedere e registrare quello che si vuole: la rete è controllata e facilmente censurabile, sappiamo che ci sono paesi dove informarsi con i motori di ricerca non significa trovare tutto ciò che il web nel resto del mondo propone. Questo vale ancora di più per immagini, video, documentari e film. Oltretutto, ci sono continenti dove prima di avere il web la gente avrebbe bisogno di medicinali e cibo, ma questo aprirebbe altri temi. Chi avrebbe scommesso negli anni ottanta che un giorno nella vita reale (e non leggendo un racconto di fantascienza) uno di noi si sarebbe trovato in un treno che viaggia a 250 km/h sotto il Gottardo a comunicare via Skype con un proprio parente, in tempo reale, che vive dall’altra parte del pianeta? Di diavolerie

nel mondo ne ho viste, ma ogni tanto sono impressionato dall’enorme massa di materiale che è possibile trovare e scambiarsi in internet. Un mio vicino di casa, per esempio, costruisce modellini di aerei ed elicotteri: per lui la rete e i contatti con altri appassionati del fai-da-te è stato un terremoto e anche un pozzo senza limiti per la ricerca di progetti, nuovi prodotti, manifestazioni e raduni in giro per l’Europa. Se oggi gli tirate via internet è come se gli amputaste una gamba... non potrebbe più “camminare” come prima, e come lui chissà quanti altri! Mi ci metto anch’io, che senza la rete, a Locarno, non saprei proprio dove e come riuscire a trovare i lavori in vinile della Mute Records: certo a Zurigo avrei più fortuna, ma sempre e solo se quel disco è in magazzino e in perfette condizioni. (...) Mi pare non ci sia nessuno oggi che non abbia una forma di dipendenza dalla rete, non intendo legata per ovvie ragioni alla sua professione, ma a ciò che gli interessa, ai suoi acquisti, alle sue relazioni ecc. Allo stesso tempo tutto quello che vediamo sul nostro PC e sullo smartphone è così poco “materiale” che a volte non ce ne rendiamo nemmeno conto. Almeno i supporti audio e video ci davano la sicurezza di possedere qualche cosa! Fa un po’ ridere, ma mi pare che la società dei consumi alla fine non stia facendo altro che portarci lontani dalla materialità e sempre più verso la “immaterialità”. Alla fine, oggi sei più rivoluzionario e “diverso” se compri un CD, un disco o un libro di carta, simboli culturali ma anche oggetti di consumo, del “possesso”, di chi può permetterseli. Eh, altro che la rivoluzione contro i padroni e il denaro di qualche decennio fa! Cordiali saluti, D. L. (mail)


Una lingua non basta Famiglia e apprendimento. Bilinguismo e plurilinguismo sono fenomeni che, indotti da situazioni sociali molto complesse quali migrazioni, comunicazioni e scambi, condizionano la vita e i destini di molte persone. Perciò continuano a suscitare grande interesse e ad alimentare dubbi e contrasti. Ne parliamo con il professore Raffaele De Rosa, linguista e germanista, docente e autore di un interessante saggio dedicato a questi temi di Silvano De Pietro; illustrazione ©Danilo Sala

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arlare bene una o più lingue straniere è sempre stato un grande vantaggio. Anche quando era sufficiente un solo idioma per comunicare quasi ovunque, come capitava in passato con il latino e avviene attualmente con l’inglese. Ma oggi la realtà linguistica, specialmente in Europa, è molto complessa a causa della maggiore mobilità delle persone, oltre che delle idee, delle informazioni e del sapere. Aumentano così i matrimoni misti, e quindi le situazioni di bilinguismo o plurilinguismo in famiglia ma anche a scuola. È un bene? O è un problema per bambini e scolari, un ostacolo in più sul cammino della loro formazione? In definitiva, non si va predicando che basta conoscere soltanto l’inglese per soddisfare quasi tutte le esigenze comunicative del nostro tempo, nella professione, negli studi e nei viaggi? Persino da noi, nella quadrilingue Svizzera, l’inglese si va insinuando come “passe-partout” linguistico che tende a relegare in secondo piano gli idiomi ufficiali elvetici.

Molte culture, tanti idiomi, qualche dubbio Ce n’è abbastanza, come si vede, per alimentare valutazioni contrastanti e pregiudizi, non soltanto sull’apprendimento di due o più lingue diverse dalla lingua madre, ma persino sull’acquisizione spontanea in famiglia di parlate “straniere”. Questo non succede soltanto in Ticino, ma un po’ in tutti i cantoni svizzeri, le cui scuole sono frequentate da allievi di innumerevoli nazionalità, provenienti da tradizioni familiari e culturali anche molto lontane dalle nostre. Il rischio di una babele linguistica però non esiste, perché tutti sono obbligati ad apprendere la lingua del posto. Ma la babele delle famiglie plurilingui, pressate dalla necessità dell’integrazione nella società locale, continua comunque a generare il dubbio se mantenere e coltivare le proprie lingue d’origine, oppure rinunciare a trasmetterle nella convinzione che i figli debbano incontrare il minor numero di ostacoli nell’apprendimento della lingua locale. È una situazione complessa, che si può certamente affrontare e analizzare partendo da differenti punti di vista.

Un discorso globale, che li comprenda tutti, è evidentemente impossibile per ragioni di spazio. Ci siamo perciò limitati a porre qualche domanda su alcuni aspetti importanti a uno specialista del settore, il professore Raffaele De Rosa. Linguista e germanista, De Rosa è stato professore di filologia germanica all’università Ca’ Foscari di Venezia e attualmente è docente presso l’Alta scuola di pedagogia di Sciaffusa. Conduce ricerche sull’educazione plurilingue e sull’acquisizione delle abilità di base, come la lettura e la scrittura, in età prescolare nelle famiglie plurilingui. In altre parole, Raffaele De Rosa è un convinto sostenitore della capacità dei bambini di imparare precocemente anche a leggere e scrivere, e non solo a parlare, in diverse lingue. Teoria e pratica delle lingue La sua non è solo teoria. Da padre che parla in italiano con i figli, i quali parlano in svizzero-tedesco con la madre e poi spagnolo, inglese e altro, De Rosa ha scritto Riflessioni sul plurilinguismo. Un dialogo privato su un fenomeno pubblico in espansione (Casagrande, 2009). Un libro con il quale ha inteso dare qualche consiglio, sia ai genitori che volessero sostenere al meglio il plurilinguismo dei loro figli sia agli insegnanti su come comportarsi davanti al plurilinguismo dei loro alunni. Ma ora De Rosa vuole riprendere l’argomento – soprattutto, dice, “tenendo in considerazione certe prese di posizione ancora diffuse a vari livelli istituzionali, politici, autorità scolastiche, insegnanti” – con una nuova pubblicazione (non ancora edita) dal provocatorio titolo Odio il tedesco! Riflessioni sulle lingue imparate e insegnate. Professore De Rosa, bilinguismo e plurilinguismo sono fenomeni piuttosto frequenti in Svizzera. Ma come si possono definire esattamente? La differenza tra bilinguismo e plurilinguismo sta nel numero di lingue in gioco. Un bilingue è in genere in grado di usare senza grandi sforzi nella vita quotidiana due lingue spesso acquisite fin dalla prima infanzia o in età precoce. Il plurilingue è in (...) grado di fare lo stesso con più di due lingue.


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“Il fenomeno del bilinguismo/plurilinguismo è (...) molto più grande, ricco e per certi versi difficile da definire con precisione a causa delle sfaccettature personali e sociali che lo contraddistinguono. Esso riguarda, tuttavia, una fascia di popolazione scolastica ancora ignorata o vista con sospetto a livello istituzionale”

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Lei distingue tra lingue acquisite e apprese. Quali limiti differenziano l’acquisizione dall’apprendimento? Le lingue acquisite sono quelle ricevute dall’infanzia in famiglia o in situazioni sostanzialmente informali. Le lingue apprese sono, invece, quelle imparate a scuola con valutazioni periodiche. Sono convinto che per quanto riguarda l’acquisizione linguistica in famiglia sia fondamentale la qualità della trasmissione, cioè la ricchezza degli stimoli linguistici con i quali sono confrontati i bambini fin dalla nascita. Ascoltare, parlare, leggere e scrivere sono attività comunicative che hanno a che fare con l’educazione dei propri figli indipendentemente dalle lingue usate. Anche a scuola si possono acquisire in modo spontaneo le lingue attraverso il contatto quotidiano con i propri compagni e/o con gli insegnanti. Il problema è che le lingue apprese esclusivamente in modo scolastico spesso non sono molto amate nonostante gli sforzi fatti per renderle “appetibili” sotto vari punti di vista, sia pratici (per esempio, l’utilità professionale) sia idealistici (per esempio, l’apertura interculturale). Forse bisognerebbe fare una seria riflessione didattica e pedagogica sui motivi che portano molte persone, alla fine del proprio percorso scolastico, a provare una sostanziale disaffezione per le lingue apprese a scuola. In ogni caso, attraverso il semplice apprendimento di una lingua straniera per poche ore settimanali a scuola non si diventa bilingui/plurilingui. Al massimo, nei migliori dei casi, una persona può possedere una certa conoscenza della grammatica e lessicale di questa lingua che successivamente può approfondire e migliorare in vari modi, non sempre attraverso le vie scolastiche normali. Ma quanto l’acquisizione è più efficace dell’apprendimento di una o più lingue diverse dalla lingua madre? Il vantaggio dell’acquisizione spontanea è che nessuno dà voti su quello che si produce linguisticamente fin quando la comunicazione funziona in modo efficace. Sta nel buon senso delle persone creare le condizioni ideali affinché questo avvenga. L’apprendimento scolastico classico, invece, tende a valutare costantemente quello che l’allievo produce ponendo l’accento quasi esclusivamente sull’aspetto formale e sull’eliminazione totale di qualsiasi devianza. Con la costante paura di sbagliare può essere difficile apprendere e usare in modo efficace una lingua. Come deve comportarsi la scuola di fronte a ragazzi che già in famiglia sono bilingui o plurilingui? Quali problemi specifici pongono questi allievi? Credo che la scuola debba iniziare a considerare con maggiore attenzione le competenze linguistiche acquisite in famiglia dai bambini alloglotti [parlanti una lingua diversa da quella

ufficiale, ndr.]. In certe attività scolastiche tali competenze possono essere perfino attivamente integrate. Chiaramente all’inizio del percorso scolastico di questi bambini ci possono essere delle difficoltà a causa delle conoscenze ancora “insufficienti” della lingua scolastica. Fondamentale è qui l’atteggiamento dell’insegnante che dovrebbe dotarsi, a mio avviso, di una certa dose di sensibilità, pazienza e apertura mentale. Credo comunque che l’inserimento precoce dei bambini alloglotti nelle strutture prescolari a stretto contatto con i bambini nativi possa essere considerato una misura molto utile per anticipare l’acquisizione spontanea e il successivo apprendimento della lingua scolastica. Gli effetti sarebbero molto positivi. In quali condizioni il bilinguismo e il plurilinguismo rappresentano un reale vantaggio per i ragazzi, in modo certo e documentato? Il bilinguismo/plurilinguismo è innanzitutto una condizione mentale che permette, nella maggior parte dei casi, di avere un accesso privilegiato non solo alle lingue del proprio repertorio ma anche a quelle “straniere” acquisite o apprese successivamente. La capacità di fare, anche intuitivamente, confronti grammaticali, sintattici e lessicali tra le lingue è una strategia cognitiva importantissima che si può sviluppare fin dalla prima infanzia. Molto dipende però anche dalla qualità dei contatti linguistici con i quali si è confrontati e questo vale a qualsiasi età, visto che in certe condizioni si può diventare bilingui/plurilingui anche da adulti. In un mondo dove l’inglese, quale lingua veicolare della cultura, delle scienze e delle relazioni sociali tende a sostituire lo studio e l’uso delle altre lingue nazionali, che senso ha ancora coltivare o imporre a scuola il plurilinguismo? Non rischia, questo, di diventare un peso eccessivo per molti scolari? La conoscenza della lingua inglese è certamente importante per i motivi elencati. Il problema è capire che cosa significa oggi lingua (e cultura) inglese, un tema che necessiterebbe di una approfondita analisi e discussione. Io credo che ci sia ancora oggi un malinteso di fondo dietro a certe affermazioni. Secondo me a scuola non si diventa bilingui o plurilingue. Non almeno nei termini caratterizzati da poche ore settimanali di inglese, tedesco, francese o italiano istituzionalmente imposte da autorità scolastiche in sistemi solo a parole plurilingue, ma sostanzialmente orientati in modo monolingue. Il fenomeno del bilinguismo/plurilinguismo è invece molto più grande, ricco e per certi versi difficile da definire con precisione a causa delle sfaccettature personali e sociali che lo contraddistinguono.


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Esso riguarda, tuttavia, una fascia di popolazione scolastica ancora ignorata o vista con sospetto a livello istituzionale. E così troviamo situazioni paradossali nelle quali l’insegnante pretende dai propri alunni l’uso corretto del “past tense” inglese, ma non si preoccupa affatto se essi conoscono forme analoghe nelle proprie lingue. Il risultato di un tale atteggiamento tradizionalista è che oggi molte persone credono effettivamente che basti la conoscenza dell’inglese e qualche altra lingua “prestigiosa” da inserire in un elenco curriculare per essere considerati bilingue/plurilingue a tutti gli effetti. È vero che con il mondo si può parlare in “global english”, ma la maggior parte della comunicazione sociale (anche nell’era virtuale) avviene in altre lingue. Per me è invece molto riduttivo credere che il bilinguismo/ plurilinguismo di una persona passi esclusivamente attraverso la conoscenza di questa lingua; credo piuttosto che tutte le lingue umane abbiano il diritto di essere tenute nella giusta considerazione indipendente dal cosiddetto “prestigio”. E questo vale sia in famiglia sia a scuola… Quali sono e come nascono i pregiudizi più diffusi verso bilinguismo e plurilinguismo? Per alcuni, una persona bilingue o plurilingue dovrebbe essere in grado di usare perfettamente a tutti i livelli le proprie lingue,

esattamente come un parlante nativo possibilmente scolarizzato a un livello piuttosto elevato. A mio avviso la cosiddetta “perfezione” linguistica è una semplice astrazione comoda per definire certi parametri didattici e pedagogici che però non coincidono con i processi naturali dell’acquisizione delle lingue. Spesso l’unico parametro di riferimento adottato per valutare le competenze degli allievi alloglotti è esclusivamente basato sulla lingua insegnata. Si tratta quindi di una visione “monolingue” e sostanzialmente restrittiva che non tiene sufficientemente in considerazione le competenze linguistiche acquisite in precedenza. Particolarmente inviso a molti, soprattutto negli ambienti scolastici, è anche il fenomeno della commutazione del codice linguistico (“code switching”), cioè il mescolamento delle lingue tipico dei bilingui/plurilingui abituati ad attingere continuamente nella loro comunicazione dalle lingue in proprio possesso. Per i “puristi” si tratta di aberrazioni che rispecchiano eufemisticamente una certa “confusione”. Sono invece semplici strategie comunicative dalle quali emerge la capacità di utilizzare in modo ottimale le proprie competenze in certe situazioni. I temi legati alle lingue, alla loro evoluzione e alla comunicazione umana sono in effetti molti e tutti estremamente importanti… Ma il discorso da fare, come si può immaginare, diventerebbe piuttosto lungo e molto complesso.


Ciò che mangiamo Alimentarsi in modo corretto è importante, ma quanti di noi lo fanno? Chi conosce i cibi utili al nostro organismo? E chi legge con attenzione le informazioni presenti sui prodotti alimentari? di Patrizia Mezzanzanica

La forma fisica dipende da quello che mangiamo. Una buona alimentazione dà al nostro corpo l’energia di cui ha bisogno, aiutandolo attivamente nella prevenzione di disturbi e malattie anche molto gravi (tumori, cardiopatie, ipertensione, diabete, morbo di Parkinson, Alzheimer e altre ancora). Le regole da seguire non sono poi molte e, decisamente, alla portata di tutti. Ne parliamo con la dott. ssa Anna Villarini, autrice di Scegli ciò che mangi (Sperling & Kupfer, 2011) e biologa nutrizionista a Milano presso l’Istituto dei tumori e il Day service ipertensione del Policlinico.

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pensano che anche il vitello faccia parte di questa categoria... Falso: il vitello, come il manzo, fa parte delle carni rosse ed è quindi da consumare con moderazione, non più di una volta alla settimana. Ciò che va assolutamente evitato sono, invece, tutte le carni conservate. Non solo quelle in scatola e i salumi ma anche la bresaola, per esempio. Gli insaccati e il cibo confezionati contengono conservanti dannosi al nostro organismo che possono attivare fattori infiammatori e svolgere addirittura un’azione cancerogena. Formaggio e cioccolato come sono considerati dal punto di vista nutrizionale? Il formaggio è tendenzialmente un alimento molto grasso, quindi non si deve esagerare. Ma uno studio condotto proprio in Svizzera sul consumo di formaggi fatti con latte di vacche allevate libere in montagna e mortalità evidenzia, in chi segue una dieta di tipo mediterraneo, una protezione rispetto a chi non ne consuma affatto. Parliamo sempre di un consumo modesto. Altro discorso per il cioccolato, ottimo se fondente. Purtroppo quello al latte, seppur molto buono, non aiuta nella prevenzione poiché il latte impedisce l’assimilazione delle sostanze antiossidanti che sono poi le sostanze protettive del cioccolato.

Ritorno alla natura Ricominciare a consumare cibi vegetali è il primo passo – afferma senza indugi la dottoressa Villarini –. Con questo non intendo, come molti erroneamente sono portati a credere, che è necessario diventare vegetariani o vegani ma semplicemente ristabilire un equilibrio, nella nostra alimentazione, che si è andato sempre più perdendo negli ultimi settant’anni circa. Dalla fine della seconda guerra in poi, il consumo di alimenti animale è cresciuto in maniera impressionante a discapito di altri cibi altrettanto importanti. Da evitare, quando è possibile... (comunicati.net) Mi riferisco in particolar modo ai cereali integrali: riso, farro e orzo decorticato, miglio, quinoa, amaranto e i legumi, dalle lenticchie ai ceci, dai piselli alle taccole, dai fagiolini alle fave. Sono tutti Arriviamo al punto cruciale: la spesa. Come riconoscere alimenti che, abbinati a verdure di stagione, danno un grande la qualità di quello che acquistiamo? apporto di proteine, vitamine, antiossidanti e fibre fondamentali Per quanto riguarda i cibi freschi meglio scegliere quelli biologici. per la nostra salute. Il chicco integrale è sempre da preferire al Oggi si trovano facilmente in qualsiasi supermercato e il controllavorato, ma se parliamo di pasta integrale e pane integrale il lo è maggiore. Penso a pollo e tacchino, per esempio, che vengono loro consumo è comunque importante. allevati a terra con mangime non inquinato ma anche alle uova, alla frutta e alla verdura. Le etichette, invece, sono spesso Quali altri alimenti sono consigliati? ingannevoli per cui è necessario attenersi a qualche regola. Mai Sicuramente frutta e verdura di stagione da cui però, sono scegliere alimenti che nei primi quattro ingredienti riportino escluse le patate che non contengono né antiossidanti, né le seguenti voci: a) olio di palma, che favorisce la formazione vitamine, né fibre, i tre componenti più importanti di ogni di placche nelle arterie; b) zuccheri semplici quali fruttosio, alimento. Meglio un buon piatto di pasta che ha un impatto destrosio, zucchero, sciroppo di fruttosio e destrosio, sciroppo di inferiore sul nostro indice glicemico oppure, se proprio si desidera destrosio; c) grassi vegetali idrogenati, che contengono acidi inmangiare patate, abituarsi a considerarle un piatto unico e non saturi chiamati trans, pericolosi per le arterie; d) sale di nitrato o un contorno. Il pesce, specie quello azzurro, aiuta nella preven- sale di nitrito, generalmente indicati con i codici da E249 a E252; zione ma dovremmo limitarlo a due/tre volte alla settimana. e) additivi: addensanti, conservanti, coloranti, aromatizzanti. Così come le carni bianche di pollo, tacchino e coniglio. Molti Più ce ne sono, più la materia prima è stata modificata.


Letture Istruzioni per l’uso di Giancarlo Fornasier

La

sensibilità verso gli ingredienti e le sostanze contenute negli alimenti che acquistiamo è molto aumentata negli ultimi anni. Una buona abitudine che, di pari passo con la sempre crescente presenza in negozi e supermercati di prodotti indicati come “bio”, mostra come i consumatori siano sempre più coscienti dell’importanza di una sana e controllata alimentazione. Filiere corte e prodotti regionali hanno un grande impatto anche sull’ambiente, e molte aziende oggi evidenziano la capacità di incidere il meno possibile sull’inquinamento, sia nella produzione sia nel trasporto e nella distribuzione dei loro prodotti. Le note presenti sulle etichette e la tracciabilità di ciò che mangiamo sono dunque sempre più necessari e importanti, ma è altresì essenziale saperli leggere e interpretare... e soprattutto intuire che cosa significano e che cosa – aspetto assai rilevante – non dicono. L’esempio della dicitura “oli vegetali” è sintomatico: che cosa vuol dire? Che cosa sono, chi li produce e da dove vengono?

E soprattutto, quali sono le loro caratteristiche chimiche e nutrizionali? L’editoria a volte fa brutti scherzi, con libri e saggi di indubbio interesse che per anni rimangono “non disponibili” o “esauriti”... Un mistero che avvolge anche l’introvabile Non c’è sull’etichetta. Quello che mangiamo senza saperlo, un libro scritto dalla giornalista inglese del Guardian Felicity Lawrence apparso in italiano nel 2005 per Einaudi. Il volume è un raccolta di inchieste e indagini sullo stato dell’arte del settore alimentare, con una ricca bibliografia (seppur datata di un decennio) per approfondire molti temi che coinvolgono produttori e consumatori. In alternativa, potete cercare l’ultima edizione di Quello che le etichette non dicono, una guida di oltre 200 pagine con istruzioni e consigli per leggere le etichette dei prodotti, con particolare riferimento a quelli industriali e da supermercato. Ma anche per orientarsi a una scelta consapevole e attenta di quello che mettiamo nel nostro carrello, in frigo e infine sui nostri piatti.

Quello che le etichette non dicono. Guida per uscire sani dal supermercato di Pierpaolo Corradini Editrice Missionaria Italiana (EMI), 2013

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Il cerchio della vita Come può l’eredità del passato continuare a informare e a fiorire nel presente? L’artista Laura Kaehr risponde a suo modo di Keri Gonzato

Alcuni mesi fa mio nonno, Aurelio Gonzato, è partito per il grande viaggio oltre la vita lasciando nel mio cuore e sul territorio le sue opere, quelle sognate e quelle realizzate. Questa scomparsa mi ha portato a riflessioni che ho di recente ritrovato nella storia di Laura Kaehr: il suo cortometraggio dal titolo 1927 (si veda 1927.ch, da cui abbiamo tratto l’immagine, ndr.) è infatti il frutto di un sogno seminato quasi cent’anni or sono dal bisnonno tra le piante del Monte Verità. L’opera – presentata per la prima volta a “L’immagine e la parola”, evento primaverile del Festival del film Locarno e attualmente in viaggio verso altri festival: verrà mostrato a Winterthur il prossimo novembre – crea una danza organica tra la storia collettiva e quella privata, uno spazio in cui passato e presente coesistono. Media 10

Incontro tra le arti Laura Kaehr, classe 1978, di Minusio, è intimamente legata al mondo delle arti performative. Lo studio approfondito della danza l’ha portata a ballare in molti paesi del mondo. È uno spirito libero e ama costruire ponti e arcobaleni tra le arti: assieme alla danza ha sempre coltivato il teatro, un binomio che all’età di 20 anni è sfociato nella sua prima opera di teatro-danza, creata in occasione del centenario della Fondazione Monte Verità. La sua crescita artistica continua con gli studi di recitazione e letteratura teatrale a Parigi, tra la Sorbonne e poi l’Actor’s Studio, che la portano a lavorare come attrice per la televisione e per il teatro. In seguito ha potuto partecipare al master transdisciplinare in film, teatro e danza della Zürcher Hochschule der Künste. Si tratta del primo programma di questo tipo in tutta Europa e sulle 15 persone selezionate lei era l’unica ticinese. “Questo master mi sta aprendo molte nuove porte che vedono l’incontro del cinema con quello della danza”, racconta. “A maggio mi sono occupata della coreografia di due scene di danza del nuovo film di Sabine Boss, mentre in settembre mi attendono diversi progetti appassionanti”. 1927 in poco più di 20 minuti attraversa quasi 100 anni. L’ombelico geografico del film è il Monte Verità, luogo in cui leggenda e realtà si incontrano. Come noto, sul monte si ritrovarono artisti dalle dimensioni mitologiche: Kandinksy, Paul Klee, Hermann Hesse, Isadora Duncan e altri nomi illustri diedero vita a una delle più importanti comunità sperimentali del secolo scorso. Assieme, immersi nella natura

della regione, ridefinivano l’arte e la vita. Friedrich Kaehr, bisnonno di Laura e poetico giardiniere del Monte, ne faceva parte. Partendo dalla dimensione intima e personale della sua storia familiare, la regista ci porta in un viaggio storico, filosofico, artistico e onirico indietro nel tempo. Vita, morte, guerra e pace L’opera nasce da un seme piantato nel terreno del Monte Verità da Friedrich. In seguito al Patto di Locarno del 1925, preoccupato per la situazione politica dell’Europa, questi scrisse Friedens Oper, “un’opera di pace mai realizzata, un’eredità che sanguina da cent’anni”. La storia di una creatura malvagia che dalla sua montagna vuole uccidere tutti i fiori stranieri che si battono per un mondo fatto di democrazia e tolleranza. In questo piccolo film, attraverso memorie personali, tracce artistiche, lettere e immagini di archivio, si ripercorre la storia di coloro che volevano la pace e coloro che scelsero la guerra… “Il progetto è stato una vera scoperta di me stessa ,della mia famiglia e delle mie origini” spiega l’artista. “Penso che per noi tutti sia importante capire da dove veniamo: incontrando mio bisnonno, attraverso le sue lettere, ho scoperto tanti lati di me stessa. Il suo desiderio di comunicare un messaggio di tolleranza e pace mi ha ispirata: il fatto che non fosse riuscito a mettere in scena la sua opera a causa della guerra mi ha dato la spinta. Questo corto è solo l’inizio, perché l’opera è lunghissima e tra qualche anno vorrei continuare il racconto”. La storia di una comunità di fiori stranieri, accomunati da un desiderio di unione, vivere in un mondo fatto di democrazia e libertà. 1927 è anche un’opera lirica in cui parola, musica e immagine trovano un loro spazio. L’interdisciplinarità è totale. Danza, opera, riflessione filosofica e indagine storica si incontrano, creando nello spettatore un’esperienza stratificata in cui si alternano stati di riflessione, emozione, contemplazione e puro stupore: vita e morte, guerra e pace, fiori che sbocciano e incendi che bruciano… E poi la rinascita, oggi, con una nipote che riporta in vita un fiore il cui sviluppo era stato bloccato prematuramente. Spesso passa molto tempo prima che il seme di un’idea germogli e sbocci in un sorprendete fiore: in questo caso sono stati necessari cent’anni perché la terra raggiungesse l’equilibrio perfetto e permettesse al sogno di sbocciare. Un sogno che oggi è realtà.


Come ombre

Pianista e improvvisatore, Mal Waldron ha segnato con intelligenza e lucidità la storia del jazz della seconda metà del novecento di Giancarlo Locatelli; illustrazione ©Micha Dalcol

Nel 2011, per celebrare quello che sarebbe stato l’86esi-

mo compleanno di Mal Waldron, Ted Panken, scrittore e giornalista jazz americano, ha postato nel suo blog (tedpanken.wordpress.com) una lunga intervista frutto di due incontri col pianista avvenuti negli ultimi sedici mesi della sua vita. “Ascoltano e cercano di adattarsi a quello che fai. Come ombre”: inizia così, riferendosi a Reggie Workman (contrabbasso) e Andrew Cyrille (batteria) suoi accompagnatori del momento, la lunga chiacchierata fra i due. Ma è molto interessante scoprire alcune informazioni riguardo la vicenda umana e musicale del pianista americano. Della cerchia di amici che negli anni cinquanta condividevano gli stessi interessi di Waldron facevano parte musicisti come Randy Weston, Walter Bishop, Cecil Taylor, Herbie Nichols e Jackie McLean. Bello e istruttivo il ricordo di Herbie Nichols: “Era un musicista fantastico per il fatto che aveva un suo suono, cosa che a me mancava a quel momento. Ero interessato a capire come il suo suono si adattasse alla sua personalità”. Waldron continua affermando che fu l’esempio di Nichols a fargli comprendere che “il tuo suono deve essere la tua personalità”, e che si deve cercare di suonare così come si parla o come ci si muove per essere più vicini al proprio suono. I pianisti di riferimento citati da Mal Waldron (quasi sempre descritto come monkiano) sono quattro: Duke Ellington, Art Tatum, Bud Powell e Thelonious Monk. Sempre riguardo a Monk, Waldron racconta come non ne fu subito attratto e come gli sembrasse strano, inizialmente, il modo in cui colpiva i tasti: “Ma in seguito iniziò proprio a piacermi è un gusto acquisito”. In un altro punto dell’intervista Panken cita una dichiarazione radiofonica di Waldron su Monk: “Per me Monk era la perfezione perché non diceva in dieci parole quello che poteva dire con una”. Waldron nella stessa trasmissione citata definisce Monk: economico, basilare e sottile alla stesso tempo, e di avere imparato da lui l’importanza del silenzio. Altro incontro fondamentale nel processo di maturazione fu quello con Mingus, definito fratello maggiore, che dissuase Waldron ad imitare Bud Powell, cosa che in quel momento Waldron cercava di fare: “Non farlo, non è quella la strada. Un musicista ordinario può suonare come chiunque, ma un musicista jazz può solo suonare se stesso”. Waldron riferisce anche di aver realizzato a quel tempo che il pianoforte è uno strumento a percussione e come tale deve essere suo-

nato. È curioso notare come lo strano colpire il pianoforte di Monk sia poi diventato uno dei tratti caratteristici sui quali Waldron ha costruito il proprio stile pianistico, a mio parere per molti versi così personale da non poter essere solamente considerato come una continuazione di quello di Monk. Stimolato a commentare come anche i suoi amici Randy Weston e Cecil Taylor erano giunti, pur con differenti risultati, alle stesse conclusioni riguardo il pianoforte, Waldron dichiara: “Prima di tutto realizzammo che il jazz era musica di protesta, musica di persone che volevano cambiare lo status quo… Questo significava voler reagire… Colpire il pianoforte come avresti colpito qualcuno che si trovava sulla tua strada”. E aggiunge: “Il jazz è ancora musica di protesta, esatto”. La via di un maestro Interrogato riguardo al difficile periodo, durante gli anni sessanta, dovuto ai postumi di un’overdose, Waldron racconta in modo esplicito come sia rimasto privo di memoria e controllo per circa sei/sette mesi e di come non riuscisse più a ricordare nulla riguardo la musica e il pianoforte. Uscito da tutto ciò ebbe l’opportunità di trasferirsi in Europa. Notevole il lapidario commento: “In America essere neri e musicisti significava avere due fattori contro di te, mentre in Europa essere neri e musicisti erano due fattori a tuo favore”. Mal Waldron in uno dei suoi ultimi lavori pubblicati su CD, One more time, scrive: “Paragonata all’eternità, la durata della nostra vita è molto breve, per questo motivo sono estremamente felice di avere realizzato questo disco che considero fra i miei punti più alti” (14 giugno 2002). Il lavoro contiene 8 brani: 2 in solitudine, 6 in duo con Jean-Jacques Avenel e 2 in trio con l’aggiunta di Steve Lacy, abituale e solidale compagno di avventure. Waldron sarebbe morto a 77 anni dopo alcuni mesi, il 2 dicembre dello stesso anno. Nel 1986 in una Diano Marina assolata e calda, durante il primo stage di Mal Waldron e Steve Lacy organizzato da Gabriella Ravazzi per Spazio Musica Stages, passeggiando in compagnia di Mal Waldron cercavo, annaspando, di dire quanto fosse importante penetrare lo spirito dei musicisti che andiamo studiando. Mal con un’espressione molto simile alla foto riportata sul retro di copertina di One more time mi disse pressapoco: “Che cosa ti fa pensare che il mio spirito sia meglio del tuo?”. In poche parole, aveva condensato gli insegnamenti di Mingus, l’esempio di Herbie Nichols e una pratica durata una carriera.

Arti 11


S

ono una truccatrice freelance. A 22 anni, alimentata dalla mia passione per il trucco e sostenuta dai miei genitori, ai quali sono molto grata, mi sono buttata in quest’avventura. Correva il 2005 e, troppo giovane per essere impiegata in posti di lavoro ambiti come la televisione, decisi di aprire il mio studio a Gordola dove lavoro tutt’oggi in modo indipendente. Una via che ha tanti vantaggi ma non è di certo facile. Sebbene io possa scegliere i miei orari, spesso lavoro di più degli impiegati in ufficio. Ma, l’amore per quello che faccio, assieme alla determinazione che fa parte del mio carattere, mi dà la carica per affrontare le sfide. L’aspetto che mi piace in assoluto e che mi spinge a girare il mondo, per lavoro e per i corsi di perfezionamento, è il lato artistico del trucco: vedo il volto come un foglio bianco su cui poter creare tutto quello che voglio. Mi affascina la possibilità di poter esprimere un concetto dipingendo e modificando quel volto. Nella quotidianità del mio studio, chiaramente, lo scopo è soprattutto quello di rendere le persone felici, mettendo in luce la loro bellezza naturale, valorizzando i pregi e nascondendo i difetti. In parallelo però, per dare spazio al mio estro creativo, lavoro nella moda e nello spettacolo dove l’approccio cambia. Si opera in team per realizzare un concetto specifico ed è necessario fare una vera e propria ricerca. Grazie al trucco mi sono innamorata della storia, adoro esplorare le diverse epoche tramite i libri, le fotografie e i film. Ogni luogo e ogni periodo hanno il loro stile specifico, influenzato dalla politica, dalla religione, dalla società. Da questa curiosità nascono molte idee che poi si trasformano nelle mie creazioni. Moda, cinema, spettacolo, a me piace tutto. C’è chi dice che bisognerebbe specializzarsi in un ambito, ma io preferisco essere una professionista trasversale, per questo sono in continua formazione. Ho bisogno di stimoli sempre nuovi e rifuggo la routine. Recentemente, per esempio, ho collaborato con la produzione di un film creando “effetti speciali”, con ferite finte e trucco da zombie: un lavoro artigianale dove si impiegano e manipolano materiali come il silicone e il lattice. Sono

convinta che più cose sai fare più sei in grado di creare un look dalla A alla Z in modo indipendente, spaziando con facilità tra le varie tecniche: dal trucco ai capelli fino agli eventuali effetti speciali. Mi piace l’idea di essere completamente autonoma per poter dare sfogo alla mia creatività. Il negozio per fortuna mi permette di essere libera, di prendere e partire quando voglio... Chiaramente, per poterlo fare è necessario essere dotati di buona capacità organizzativa e senso pratico per gestire al meglio i vari impegni. Quando raggiungo un obiettivo, penso già al prossimo. Lo svantaggio è che a volte mi godo poco il momento presente, il vantaggio invece, è che sono in continua crescita. È più forte di me, non mi fermo mai. Amo la musica e il mio sogno più grande sarebbe di poter lavorare come truccatrice per gli artisti musicali, sviluppando dei look che mettano in risalto la persona e la musica. Mi piace l’idea di lavorare con un team a un obiettivo comune. Tramite un percorso a tappe, combinando esperienze formative e professionali, la mia idea è di arrivare su quel palcoscenico. Detto questo, non mi voglio fissare troppo perché ho notato che nella vita possono arrivare occasioni inaspettate che non avevi considerato e, per poterle cogliere, è importante mantenersi aperti. Essere flessibili e sapersi adattare è fondamentale per fare questo lavoro, essendo un ambito artistico le regole sono labili e spesso si lavora con persone estremamente diverse: se non sei forte, centrata e allo stesso tempo adattabile non ce la fai. Nel mio mondo il rischio più grande però è quello di perdere la creatività, di diventare standard e lavorare come in fabbrica ripetendo sempre la stessa cosa. Io coltivo la mia apertura facendo corsi e lavori all’estero, dove apro la mente, conosco gente incredibile, raccolgo ispirazioni e creo contatti e nuove opportunità. Nella vita, se si ha un sogno da realizzare, bisogna darsi da fare, fregarsene se non si parla perfettamente l’altra lingua. Rischiare, andare, buttarsi…

FATIMA FERRINI

Vitae 12

Giovane e intraprendente truccatrice, vede il volto delle persone come un foglio bianco sul quale dipingere. Una passione che è anche fonte di ricerca e di sperimentazione

testimonianza raccolta da Keri Gonzato fotografia ©Flavia Leuenberger


Valle Calanca Geometrie di luce di Martina Rezzonico; fotografie ŠSimone Mengani


sopra: la chiesa di Giova, terminata alla fine degli anni ottanta su progetto degli architetti Mario Campi e Franco Pessina in apertura: un dettaglio del fronte principale e della cupola, una somma di linee, superfici bianche e forme geometriche


(...)


A

Giova, in valle Calanca, una costruzione si distingue nettamente dagli altri edifici del piccolo villaggio. Si tratta di una chiesetta progettata dagli architetti ticinesi Mario Campi e Franco Pessina, edificata negli anni 1984-1988 ai margini del paese. Frazione del comune di Buseno, Giova si trova su un pianoro a quasi mille metri d’altitudine e conta oggi solo una quindicina di abitanti fissi. Prima della costruzione della chiesa, dedicata alla Madonna di Fatima, il villaggio non possedeva nessun edificio religioso; il prete di Buseno veniva a leggere la Messa nella scuola e dopo la sua chiusura, nel 1952, la si celebrava all’aperto. L’edificazione di una chiesa era voluta dagli abitanti e così, grazie alla fondazione “Cappella della Madonna di Fatima - Giova”, nel settembre del 1988 si poté festeggiare la sua inaugurazione. Da allora, tranne che nei mesi invernali, veniva celebrata una Messa ogni sabato; solo negli ultimi due anni la regolarità è venuta meno a causa della carenza di personale ecclesiastico.

Simone Mengani Nato a Perugia, classe 1978, si trasferisce all’età di cinque anni a Vacallo, dove inizia a coltivare la passione per il territorio. Dopo gli studi liceali si iscrive all’Accademia di architettura di Mendrisio, dove si diploma nel 2004. Dopo alcune esperienze di lavoro, nel 2006 inizia l’attività come fotografo indipendente, prediligendo la fotografia di architettura. Collabora con diverse riviste e settimanali, operando anche nell’ambito della fotografia panoramica. fotomengani.ch

Geometrie e simboli La costruzione, dalle forme ben delineate grazie alle sue pareti bianche, è ben visibile da lontano. Il bianco rimanda da un lato all’architettura mediterranea, dall’altro all’arte moderna. Si accede alla chiesa da est, salendo sei gradini e oltrepassando un cancello. Il fronte principale può ricordare sia le facciate dei rustici del luogo sia la forma classica del timpano. Esso – insieme al muro perimetrale – nasconde le scale che conducono alla “passeggiata” circolare sul tetto, da cui si gode di un’ottima vista sul Bellinzonese e il Piano di Magadino. Il corpo centrale quadrato è sormontato da un tronco di cono, sostenuto da otto colonne disposte in cerchio. Il retro è suddiviso in tre locali: quelli laterali, chiusi da porte in acciaio, ospitano un deposito e la sacristia, mentre quello centrale dona


sopra: l’originale cupola conica vista dal basso a sinistra: in alto, il fronte principale. In basso, la cappella con l’altare e la statua della Madonna di Fatima

spazio all’altare ed è sormontato dalla torre campanaria. All’interno della cappella, fra le colonne, sono disposte una cinquantina di sedie. A destra dell’altare una statua della Madonna appoggiata su un piedistallo di cemento osserva i fedeli. Sulle pareti le tappe della Via Crucis, opera della ceramista Irma Bosio, sono rappresentate da oggetti simbolici in rilievo sopra una croce che porta inciso il numero della stazione. Inoltre, vicino all’entrata sono presenti un contenitore delle offerte triangolare e l’acquasantiera semisferica. Anche sul pavimento ritroviamo forme geometriche: due linee incise si incrociano al centro dell’edificio, e due cerchi concentrici congiungono le colonne fra loro. La forma del corpo centrale con la sua “cupola”, grazie anche alle piccole finestre rotonde sui lati e soprattutto alla possibilità di accedere al tetto, ricorda un belvedere o un faro... E proprio quest’ultima idea era voluta anche dai promotori del progetto: la costruzione di una chiesa, mediazione fra Dio e il mondo, come “faro che illumina il quotidiano cammino dell’uomo”. Inoltre la pianta centrale simboleggia l’universalità della Chiesa, mentre lo sviluppo verticale dello spazio crea una relazione diretta col cielo, sottolineata anche dalla luce che entra – ed esce grazie a fari tenuti accesi durante la notte – dalla sommità della cupola conica. La luce naturale (supportata in caso di necessità da quella artificiale) entra anche da una finestra posta fra il locale centrale e la torre campanaria, creando un armonioso gioco di luce e ombra sulla parete dietro l’altare.

Caduta dal cielo… L’immagine complessiva dell’edificio richiama l’idea della Turris eburnea, uno dei titoli di Maria. L’espressione appare nel Cantico dei Cantici (Ct 7,5): “Il tuo collo assomiglia alla Torre d’avorio”. E San Girolamo vi si riferisce quando dice: “Cristo è il capo della Chiesa e la sorgente di tutte le grazie, ma la Vergine Maria è come il collo attraverso il quale queste grazie passano, per rigenerare le membra del Corpo mistico di Cristo”. Trovandosi la chiesa al margine del paese la sua architettura non è da confrontare con quella delle costruzioni rurali del villaggio, ma come elemento isolato è piuttosto da rapportare al terreno e alla natura che la circonda. La cappella può apparire in un primo momento “caduta dal cielo”, ma questo gioco di contrasti è frutto della volontà degli architetti: la rigidità delle forme geometriche si contrappone all’irregolarità e alla libertà della natura, i materiali finiti a quelli grezzi e il bianco splendente ai colori tenui del paesaggio. La tensione dovuta a queste antitesi in realtà crea un legame stretto fra opera umana e natura. Quest’architettura aveva per la sua modernità inizialmente diviso la popolazione in favorevoli e contrari, oggi però la chiesa è ben accettata ed è entrata a far parte del patrimonio comune. Mario Campi e Franco Pessina – che insieme a Mario Botta, Luigi Snozzi e altri ancora hanno segnato profondamente l’architettura ticinese – hanno colto la sempre più rara occasione di progettare una chiesa facendo confluire al meglio la tradizione degli edifici religiosi con elementi architettonici caratteristici delle loro opere.


Ticino-Salento. Giù e su di Marco Jeitziner; fotografie ©Ana Casado

Viaggi 42

Sentirsi un po’ Kerouac, un po’ Miller. Soltanto un po’, ma comunque sulla strada, ecco. Oltre duemila chilometri d’asfalto bruciato, spensieratezza e sorprese. Via da un luglio pazzo qui a settentrione, verso quel sole nascosto da qualche parte dentro noi “svizzeri meridionali”. Tangenziali milanesi e caselli, oltre il prosciutto di Parma, oltre l’aceto di Modena, ciao Bologna, l’autostrada a centotrenta e il mare che fa capolino dallo spartitraffico di oleandri in fiore. La Marche e la purezza salentina Stazione di servizio, pausa sete, fame e gabinetto, ma la crisi non si placa: degli italiani vendono tre paia di fantasmini a cinque euro. Chiudiamo l’auto a mano e non a distanza: ci hanno detto di non lavorare troppo coi telecomandi… non si sa mai. Mai viste le belle Marche noi, che son colline di grano arato e campi di girasoli. A San Severino è la sera di Svizzera-Argentina nel bar del paese. Un gruppo di giovani bianco-azzurri è qui ad apprendere la nostra lingua, la batosta è in agguato, rete, esplode la gioia, volano sedie e tavolini. Ci sfottono ma sarà gioco leale e ci si darà la mano. Finiamo al ristorante con l’Orfeo che ama il vino bianco e con due signore argentine. Notte in campagna. Poi sarà tappa a Loreto tra i pellegrini della Madonna patrona degli aviatori e, speriamo, anche di noi automobilisti. Per la cena da Silvio sulla scogliera ci perdiamo, ma il garçon del ristorante ci viene a cercare in auto, manco fossimo persone importanti. Roba che da noi... Riecco lo strano vezzo italiano del “coperto” al ristorante. Un salto a Macerata e c’è la bellezza di Palazzo Buonaccorsi. Poi Pescara, il Gargano, Foggia, Bari e i trulli. Le indicazioni stradali sembrano fatte apposta per sbagliare. Certi camionisti ci fanno venire i capelli grigi. Litoranea di Brindisi, poi Lecce, Maglie ed eccoci nel paese col nome più “divertente” del mondo: Depressa. L’amica salentina ha preferito la vivace semplicità della sua terra

alla noiosa opulenza di Lugano. Il tramonto serale è da film, come pure il parco antistante della strana famiglia Winspeare. Taralli, birra Peroni a ottanta centesimi, sugo casereccio, “friselle” e rosato Castel di Salve. Alla paiara, vista mare tra cactus e ulivi, la caletta di Acquaviva, scogli taglienti, ricci e pomodori marini, indigeni con la “cicciammare”, padri che sbattono e grattano polpi sul cemento a mo’ di pubblicità D&G e ci vien da ridere. La costa dell’Albania è vicina e la radio ce lo ricorda. Spigole fresche (ma greche) alla brace, fritture miste, spritz alla Chianca dove i camerieri sono incapaci di darti del “tu”, dove tutti sanno di tutti ma nessuno deve sapere di niente. Ottimi piatti per pochi euro e qualche fregatura (chiedi sempre il prezzo prima). La “grotta verde” dopo il temporale è un cumulo di rifiuti da crociera, ma ci buttiamo lo stesso. Certa edilizia abusiva è mostruosa. La “Costa Concordia” fa notizia: Italia disastrosa, Italia prodigiosa. Notti di fari dei pescatori e delle navi cargo, notte di uno strano mollusco che ci viene a salutare. Sagre di ogni tipo, festa reggaeton in pineta, pizzica a Castro, pomposissime luminarie a Scorrano. “Pezzetti” di cavallo e parecchia ciccia infantile. Tramontana o Scirocco giù sulla punta del tacco, dopo Leuca, sulla spiaggia libera che fu di Pescoluse. Nottata a Lecce, all’osteria di Angiulino, fave e cicoria, sagne e ciceri. Un salto a Otranto ma la movida è altrove. Verso il Gargano Okay, l’accento di Lino Banfi nei ruggenti settanta/ottanta è davvero caricaturale. Ciao Pietro, geometra triste ma di cuore, le tue cozze marinate e la tua pescatora al nero di seppia. Senz’auto ti perderesti la magnifica Baia dei Turchi e la costa del Gargano dobbiamo meritarcela: ci tocca tutta la suggestiva Foresta Umbra di notte a cinquanta all’ora. A Rodi è la “non-spiaggia”, bagno Rino concessione numero 54, frastuono di radio commerciali e quasi non senti il mare. Gli ambulanti del Bangladesh tirano il loro carro zeppo di stoffe e pelli invendute. Sotto un cielo plumbeo sembro l’unico svizzero felice di salutare due svizzeri (zurighesi) in furgone. A volte ci spacciamo per comaschi. Mah. Faraglioni, grotte scavate nel tufo e trabucchi li vedi solo in barca, mentre l’erede di Banfi spara stupidaggini ai turisti sul “teschio del gigante”, sulle immagini sessuali nel tufo... e c’è persino Padre Pio. Ma la sosta è magica: mare verde sopra pietruzze levigate. Cena mai dopo le ventidue, altrimenti c’è “solo” la grigliata mista. Le Tremiti chiamano, come le canzoni del buon Dalla che c’aveva tre ville, la barca si chiama “Freccia Azzurra” ma ci mette un’eternità. Frontalmente la scogliera di San Domenico è bella, da dietro è un po’ discarica per ristoranti.


Viaggi 43

Sfuggiamo la calca domenicale con un gommone verso un isolotto di soli gabbiani e rocce lunari. Scogli molto aguzzi, terzo taglio ai piedi come ricordo. Toscana in un soffio Della costa a San Benedetto del Tronto siamo delusi, evviva le olive ascolane. Via dal dozzinale, caotico e anonimo lungomare. Tagliamo in due lo stivale, direzione Umbria, aggiriamo i Monti Sibillini e sbuchiamo tra i prosciutti e i tartufi di Norcia. Poi verso la bella Perugia anche se ci pare freddina, ma il giovane oste di Padova ce lo conferma. La donna dell’alberghetto? È pazza. Si va in treno ad Assisi ma non vale il costo del taxi, al limite per l’interno della basilica francescana. Torna il sole e torna la voglia di mare. Si va per i colli in Toscana che io mai li ho visti. San Gimignano è splendido, Siena pure ma non tutte le sue osterie. La Maremma è vi-

cina, ci fermiamo, biciclettata fino alla prima spiaggia col Giglio finalmente liberato. Ahi noi non è terra di ciclisti, dicono che ci tocca un pezzo d’Aurelia e così facciamo, sembrando dei matti. Solo dopo veniamo a sapere che i sentieri ci sono. C’è il faro di Talamone, molti romani nella ristorazione e l’oste che dice che Renato Zero è suo amico. Le stradine verso il mare dell’Argentario sono quasi tutte private, gli accessi bloccati, ma invadiamo lo stesso una proprietà e chi se ne frega. Per la “Cala del Gesso” dobbiamo scarpinare come stambecchi. Quarto taglio alle dita. Se non ci fosse il sosia di Sting e quello di Putin, Porto Santo Stefano sembrerebbe Cesenatico. Ultima cena, ultimo pesce, domani si torna sotto un potente acquazzone ligure. Che certo non laverà via il ricordo di una parte splendida d’Italia, (quasi) senza cellulare, poco Wi-Fi ma occhi parecchio sgranati. Lucidi, curiosi e arricchiti.


Le magnifiche nove Gli antichi maghi ritenevano sacre ventidue piante. Il numero nel medioevo scese a sedici, ma ve ne raccomandiamo nove (numero già magico di per sé), tra le meno esigenti e complicate da curare

Basilico. Cresce ovunque senza tanti problemi. Essendo un’erba governata da Marte, regala coraggio fisico e morale, tanto da rendere temerarie le persone più timide e insicure nell’affrontare le situazioni. Basta tenerne qualche fogliolina in tasca o strofinarla sulla pelle, come fanno le donne abissine, per attirare l’amore e le amicizie maschili. Il basilico è associato pure ai riti celtici di iniziazione e ai festeggiamenti di Imbolc.

Edera. Le tradizioni celtiche volevano che l’edera venisse intrecciata con caprifoglio e sorbo rosso per creare coroncine da indossare durante i matrimoni e assicurarne così l’esito felice. Rito valido anche oggi, in particolare se è la sposa a indossare un serto dei suoi tralci. Una ghirlanda appesa sulla porta di casa assicura, invece, che nessuna entità malvagia vi possa entrare. L’edera è inoltre legata alla festa di Beltrane e ai riti della femminilità in generale. Camomilla. Tutti conoscono le proprietà calmanti e rilassanti del suo infuso, tuttavia, essendo una pianta governata dal Sole, porta energia e successo sia bruciandone i fiori come incenso, sia chiudendo una buona manciata delle sue piccole corolle in un sacchetto di tela da tuffare nell’acqua di un bagno rituale in cui immergersi completamente. Ciò è efficace particolarmente durante il solstizio d’estate e nelle festività di Yule.

Erica. Anche la romantica erica, nel mondo nordico, è considerata di buon auspicio per il matrimonio, soprattutto inserita nel bouquet della sposa. Accresce comunque il fascino femminile e lo preserva portandosi sempre appresso un sacchettino dei suoi fiori essiccati. E pare che bruciare come incenso un composto di erica e felce attiri la pioggia e l’abbondanza.

Felce. Molto menzionata negli antichi testi di Magia Bianca, serve a difendere la privacy e la serenità, specialmente se raccolta alla vigilia del solstizio d’estate. Mentre le ceneri dei suoi semini o delle spore, messe vicino all’orecchio durante il sonno, suggeriscono sogni profetici. Inoltre, poste a contatto con delle monete, hanno positive ripercussioni sulla situazione finanziaria, attirando denaro a profusione.

Gelsomino. Erba associata alle divinità femminili, protettrici della maternità e dei parti. Bruciare dei fiori di gelsomino ha esiti positivi sull’aura e sviluppa la creatività e le idee innovative. L’effetto benefico di queste corolle profumate è moltiplicato quando se ne mette una manciata in un sacchettino insieme a un frammento di quarzo: si potenziano a vicenda nel regalare fortuna in amore.


Magie sul balcone Tendenze p. 44 – 45 | di Marisa Gorza

Un’

ancestrale tradizione, profondamente radicata nelle società rurali, attribuiva alle fate le malattie degli umani e solo un mago o Dottore delle Faeries, poteva porne rimedio, usando la magia delle erbe. Le piante erbacee venivano utilizzate per i loro misteriosi poteri, sia allo scopo terapeutico che propiziatorio. Ricerche scientifiche all’avanguardia, comunque, hanno dimostrato che le piante, al pare degli uomini e degli animali, hanno un’aura vitale che aumenta d’intensità in momenti particolari. Legate a impercettibili forze

Lavanda. Erba fantastica con proprietà davvero grandiose. Da tempi antichissimi viene usata per profumare la biancheria e gli angoli della casa. Anzi, un mazzo dei suoi fiori può servire come ramazza fatata per ripulire lo Spazio Sacro, mentre qualche spigo, chiuso in un sacchettino da porre sotto il cuscino, favorisce il sonno e combatte la depressione. Donando un’aura più leggera, aiuta a guardare il mondo con maggior chiarezza, ottimismo e serenità.

Menta. Bere un infuso di foglie di menta è un ottimo mezzo per aumentare le abilità psichiche ed è utile pure per conciliare un sonno popolato di premonizioni positive. Inoltre una fascina di tralci di menta, intinta in acqua pura, può servire per aspergere le stanze, purificarle e benedirle. Portarsi sempre appresso un sacchettino di foglie disseccate porta fortuna, pensieri gioiosi e ottimismo.

Ortica. L’umile ortica è una vera pianticella magica e medicamentosa, e assai versatile. Considerata sacra a Venere, pare sia un eccellente afrodisiaco e predisponga alla voluttà. Una ricetta di Petronio suggerisce, onde risvegliare i rapporti sessuali languenti, di porre sotto il giaciglio un sacchettino contenente delle foglie debitamente seccate. Mentre fumigazioni con foglie fresche eliminano le negatività presenti in un ambiente e respingono il maleficio al suo mandante. Nondimeno i santoni messicani contemporanei raccomandano di mettere tralci di rami di ortica nell’acqua di un bagno purificatore. La purificazione è indispensabile per assorbire con più intensità le vibrazioni positive.

esoteriche e grazie alle loro emanazioni magnetiche, sembra che posseggano un’influenza benefica, anzi... magica. Né va dimenticato che la natura è un infinito crogiolo di incanti e di incantesimi. Vogliamo cimentarci in qualche piccola, innocente magia? Vi segnalo (dopo aver effettuato qualche dovuta ricerca) alcune delle pianticelle più facili da coltivare in giardino, per chi ha la fortuna di averne uno, o magari nei vasi locati sul balcone. Provare per credere.

… e le altre, da non dimenticare! Dopo le nove citazioni delle erbe più diffuse, non resta che aggiungere una sintetica carrellata di altre piante dai poteri insospettati. Tra queste non può mancare l’alloro, difatti basta scrivere un desiderio su una delle sue belle foglie e bruciarla perché questo si esaudisca. Che dire poi del biancospino dato che un suo rametto fiorito è perfetto come bacchetta fatata? Che è magico almeno quanto la mandragola, la cui radice entra in tutte le pozioni fin dai tempi biblici. Due parole ancora sulla mela, anche se non è un’erba ma un frutto con all’interno i semi posti a pentacolo. Una stella a cinque punte: esoterico amuleto di rinascita e sapienza. Alle novelle streghe bianche o verdi auguriamo la buona riuscita dei loro prossimi riti, ricordando che l’ingrediente migliore è sempre la buona fede.


La domanda della settimana

La recente vicenda di Roman Polanski e la sua rinuncia al Festival del film Locarno hanno nuociuto all’immagine del Ticino?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 4 settembre. I risultati appariranno sul numero 37 di Ticinosette.

Al quesito “Avete già utilizzato un portale internet di incontri per la ricerca di un/ una partner?” avete risposto:

SI

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NO

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Astri ariete Con Venere l’amore si reindirizza verso espressioni più edoniste. Tra il 2 e il 3 spazio ai creativi. Comunicazioni disturbate dal 3 settembre in poi.

toro Calo energetico. Siate più flessibili, ma liberatevi degli ostacoli che si pongono di fronte alla vostra evoluzione. Opportunità professionali.

gemelli Bipolari tra il 2 e il 3 settembre. Partner lunatico. Piuttosto fortunati in amore i nati della terza decade protetti da Venere fino al 5 settembre.

cancro Se saprete guardare lontano potrete realizzare progetti assai importanti. Ambivalenze tra il 4 e il 5 settembre. Prudenza quando parlate in pubblico.

leone Marte e Saturno impongono azioni decise. Tagliate con il passato se non vi appartiene. Irascibili se minacciati. Alla grande i nati nella prima decade.

vergine Momenti di confusione. Con Nettuno in opposizione, dubbi e superstizioni. Particolarmente vivaci i nati nella terza decade. Novità tra l’1 e il 2.

bilancia Nuove energie mentale per i nati nella prima decade. Importanti novità. Fortuna e promozioni. Abbandonate i vecchi schemi se si sono rilevati perdenti.

scorpione Momento vivace per i nati di tutte le decadi. Andate dritti verso i vostri obiettivi senza disperdervi in innumerevoli giri di valzer. Passionali.

sagittario Assai fortunati grazie all’ottima configurazione di Giove con Urano. Speculazioni finanziarie per i nati nella prima decade. Incontri tra il 2 e il 3.

capricorno Dal 3 settembre in poi, con l’arrivo di Mercurio in Bilancia, maggior cautela. Soprattutto in riferimento a un eventuale fronte legale.

acquario Si sta per compiere una rivoluzione copernicana. I vostri tradizionali schemi di pensiero stanno per essere spazzati via. Attaccate con discernimento.

pesci Difendete ciò che ritenete giusto. Crescita spirituale per la prima decade. Momento giusto per iniziare un percorso verso l’effettiva conoscenza di sé.


Gioca e vinci con Ticinosette

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Orizzontali 1. Spazientirsi, infastidirsi • 10. Elevata • 11. Altrimenti detto... • 12. Segue la sera • 14. Antico documento romano • 15. Tragicomico • 16. Mezzo uovo • 17. Pari in fiato • 18. Priva di compagnia • 20. Ingordi • 22. Consonanti in Luigi • 23. Regalo • 25. Un disinfettante • 27. Rabbia, furore • 28. Le iniziali della Magnani • 29. Rettile che stritola • 31. Oriente • 33. Tessono tele • 35. Uruguay e Ohio • 36. Questa cosa • 38. Un anestetico • 40. Piccoli avvisatori acustici • 43. Il segno dell’analfabeta • 45. C’è quel del vero • 46. Il pupo dell’Iris • 47. Lucerne • 49. Il palazzo del presidente francese • 50. Vocali in prolissa. Verticali 1. Una varietà di rubino • 2. Un disinfettante per piscine • 3. Due al cubo • 4. Pessimo, malvagio • 5. Dittongo in giada • 6. Bella località marina savonese • 7. Più che agiato • 8. Sazi • 9. Nome di donna • 13. Parti di chilo • 19. Mese estivo • 20. I pulcini dell’anatra • 21. Scordato • 24. Danno un punto a scopa • 26. Numero pari • 28. Il nome di Branduardi • 30. I confini di Osogna • 32. Che gli appartengono (f) • 34. Belve striate • 37. Due romani • 39. L’abbandono dalla gara • 41. La città francese degli arazzi • 42. Subisce gli influssi lunari • 44. Tonalità (pl) • 48. Nord-Est.

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 37

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 4 settembre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 2 set. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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La soluzione del Concorso apparso il 16 agosto è: TRANELLO

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Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Renata Di Marco 6821 Rovio Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!

Premio in palio: buono RailAway FFS per l’offerta “Monte Brè” RailAway FFS offre 1 buono del valore di 100.– CHF per 2 persone in 2a classe per l’offerta RailAway FFS “Monte Brè” da scontare presso una stazione FFS in Svizzera. Ulteriori informazioni su ffs.ch/montebre.

Con RailAway FFS sul Monte Brè. Una montagna per tutti i gusti. In treno a Lugano, con il bus a Cassarate per poi salire a bordo della funicolare e raggiungere la vetta del monte Brè a 933 m.s.m. Ad attendervi escursioni all’aria aperta, punti d’interesse naturalistici e artistici, ma anche momenti gastronomici da assaporare contornati da uno scenario mozzafiato.

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Circa 10’000 articoli di nostra produzione.

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Ciò che ci sta più a cuore lo facciamo noi stessi. Per esempio, il nostro Ice Tea, che produciamo in una delle nostre imprese svizzere. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––

Maggiori informazioni su: www.noifirmiamo-noigarantiamo.ch


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