Ticino7

№ 5 del 30 gennaio 2015 · con Teleradio dall,1 al 7 febbraio

HoTel suisse

Cent,anni or sono Faido era tra le maggiori mete turistiche del cantone. un glorioso passato tutto da riscoprire

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Ticinosette allegato settimanale N° 5 del 30.01.2015

Impressum Tiratura controllata 66’475 copie

Chiusura redazionale Venerdì 23 gennaio

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

4 Letture Charles Lewinsky. Il fardello di Goldfarb di daniele beRnaRdi ......................... 7 Arti Hilma af Klint. Lo spirituale nell’arte di alba Minadeo ......................................... 8 Levante Integralismo. Né Charlie, né terrorismo di MaRco alloni............................ 9 Kronos Linguaggio. La parola pervertita di caRlo baggi ......................................... 10 Visioni True Detective. Il cerchio piatto di Fabio MaRtini ........................................ 11 Vitae Giacomo Ferrari di RobeRto Roveda ................................................................ 12 Reportage Faido. Hotel Suisse di giancaRlo FoRnasieR; FotogRaFie di Reza KhatiR ....... 37 Luoghi Piottino. Nella gola di daniele Fontana ....................................................... 42 Tendenze Mountain Bike. La ruota ideale di giulio caRRetti................................... 44 Svaghi .................................................................................................................... 46 Agorà Psicofarmaci. La mente chimica

di

RobeRto Roveda ........................................

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs ticinosette è su Facebook

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In copertina

Hotel Suisse, Faido Fotografia ©Reza Khatir

Censura, satira, libertà La censura, intesa come controllo e sanzione delle libertà di parola, di stampa e di espressione in genere, è una brutta cosa. Ancora più brutta è l’autocensura, quando sia praticata per opportunismo, paura e convenienza, da parte di chi dovrebbe diffondere notizie o commentare eventi o altro.

L’autocensura non è più tanto brutta a mio parere se viene esercitata per rispetto; non per generico rispetto delle religioni, nel caso specifico delle vignette sulla religione islamica, su Maometto e i musulmani, ma per rispetto verso se stessi e soprattutto verso i deboli e gli oppressi.

Sono disposta a riconoscere l’importanza della satira per gli scopi per i quali è nata, si è diffusa e continua a esistere, ovvero il prendere in giro i potenti in maniera piccante, come vuole il suo nome. La satira infatti non ha nulla a che fare coi satiri ma è un termine che viene dalla cucina degli antichi romani, dove designava un manicaretto ripieno (saturo), variato, speziato, vivace e saporito, esattamente come la farsa (da farcire).

La satira dà sapore, prende in giro, talvolta bonariamente talvolta in modo pesante e volgare, come nelle cosiddette Pasquinate, i foglietti che nella Roma papalina si attaccavano alla statua di Pasquino per denunciare, deridendoli, personaggi pubblici importanti, potenti e corrotti.

Pure nell’antica Grecia la satira era un modo per attaccare i potenti rendendoli ridicoli, ed è in questo senso che a mio avviso ha da continuare a esistere. Non dico queste cose per far sfoggio di erudizione – le occasioni non mi

mancano – ma soltanto per giungere a porre una domanda specifica: ma che satira è una satira contro i deboli? È vero, ancora una volta, che la satira, per essere efficace, può e deve essere cattiva, feroce. Ma che satira sarebbe se rivolta contro disabili, diseredati, perseguitati, sfruttati, rifugiati, profughi, malati?

Ovviamente chiunque affermi cose simili rischia di essere tacciata di moralismo e oscurantismo. Eppure continuo a ritenere, alla faccia dei denigratori del “politicamente corretto”, che si possa e si debba far della satira su Barack Obama in quanto presidente degli USA, ma che sarebbe di cattivo gusto farla sul colore della sua pelle.

E in questo quadro come possiamo collocare gli integralisti islamici? Sono anch’essi dei deboli?

Probabilmente no, ma di certo sono dei poveri maledetti disgraziati, nonostante i loro armamentari da guerrieri stellari e la brutalità che sono in grado di esercitare, disgraziati che non esitano a trucidare ragazzini che guardano la partita o a immolare bambine per i loro folli piani terroristici. E li definisco poveri non per afflato evangelico, ma per la loro ignoranza, i loro pregiudizi e il loro disprezzo per la libertà e la democrazia (per “la felicità della democrazia”, come suona il titolo di un bellissimo libro di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelski), per il loro abominio verso la parità dei sessi, e il rispetto dei diritti, e la laicità, e la secolarizzazione, che sono la vera grande bellezza della parte di mondo in cui ci è capitato di vivere.

Francesca Rigotti

La mente chimica Salute. Gli psicofarmaci hanno rivoluzionato la medicina del ventesimo secolo. Il loro utilizzo ha infatti fornito gli strumenti per affrontare tutta una serie di disturbi mentali rispetto ai quali medici e terapeuti erano di fatto disarmati o quasi. Continuano però a sussistere dubbi sul loro utilizzo e sulla loro reale efficacia.

Ma sono perplessità sensate? E quali i loro limiti effettivi? di Roberto Roveda

L Agorà 4

e origini della rivoluzione farmacologica in psichiatria risalgono agli anni cinquanta e sessanta del novecento quando iniziarono a diffondersi i primi farmaci destinati alla cura dei disturbi legati alla schizofrenia e malattie affini a essa, a cui si sono via via aggiunti gli ansiolitici, gli antidepressivi e i sonniferi. A cavallo degli anni novanta sono entrati in commercio psicofarmaci con minori effetti collaterali che hanno avuto anche una maggiore diffusione: pensiamo al famoso Prozac, subito ribattezzato “la pillola della felicità”. Insomma, per alcuni decenni si è guardato alla via farmacologica come a una sorta di panacea in grado di risolvere, se non subito, in un futuro prossimo, patologie gravi e invalidanti come, per esempio, la depressione, le psicosi, gli stati di ansia acuti. Una sorta di dittatura della psicofarmacologia in cui si sviluppano linee guida di trattamento, si riscrivono classificazioni diagnostiche, si pubblicano manuali per i giovani psichiatri in formazione utilizzando come unico fulcro del meccanismo terapeutico l’uso del farmaco “giusto per lo specifico bisogno del paziente”.

Psicofarmaci: discuterne è un bene Rimangono aperti però svariati interrogativi su questi farmaci che agiscono principalmente sui processi mentali determinando modificazioni del comportamento sia normale, sia patologico, con effetti sedativi e stimolanti.

Prima di tutto, anche se ridotti rispetto al passato, gli effetti collaterali continuano a persistere e sono di vario grado e intensità: dalla nausea, alla soft neurological sign (calo della memoria, distraibilità, distacco emotivo), al calo della libido e anorgasmia, aumento ponderale e stipsi, cefalea e ipertensione fino al rischio di viraggio maniacale farmacoindotto. Inoltre, anche i farmaci di “seconda generazione” continuano a essere piuttosto costosi a fronte di un’efficacia che non presenta vantaggi rilevanti rispetto ai predecessori.

Rimane soprattutto delusa, spesso dolorosamente, l’attesa di una guarigione dopo la sospensione del farmaco. In 2/3 dei casi, dopo il primo o i successivi cicli, segue, infatti, una ricorrenza di malattia e cresce la prospettiva di una terapia da assumere per lungo tempo se non a vita. Da qui

il sospetto da parte di molte persone verso queste categorie di farmaci, il rifiuto a priori, il loro considerarli “roba da matti”, sostanze con le quali non si è più padroni di se stessi.

Insomma, parlare di psicofarmaci significa spesso ritrovarsi in un ginepraio di opinioni discordanti e contrapposte.

Una reazione che rappresenta comunque una buona cosa se ci aiuta a riflettere sul tema, come ci conferma Luca Genoni, psichiatra e psicoterapeuta consulente presso la Clinica Luganese Moncucco e autore del recente saggio L’unicità del paziente (Armando editore, 2014): Le discussioni sull’utilizzo di psicofarmaci sono indispensabili. In caso contrario le possibilità sarebbero due. Nella prima verrebbero ritenuti una specie di male assoluto, un mezzo diabolico da evitare. In tale ottica, la psichiatria ritornerebbe agli stadi di un secolo fa, dove i mezzi “terapeutici” erano limitati all’isolamento, al contenimento sovente punitivo o a riti d’esorcismo. Nella seconda sarebbero ritenuti una panacea capace di guarire ogni disturbo psichiatrico, considerati l’unico mezzo a disposizione della psichiatria. La prima visione rischia di vedere la malattia psichiatrica quale espressione di oscure forze maligne, la seconda un puro sballamento chimico cerebrale. La prima prospettiva tende a vedere l’uomo quale essere esoterico, la seconda quale mero corpo analizzabile, un “prosciutto vivente” che, quando funziona male, va rimesso in asse “condendolo” con sostanze chimiche psicoattive.

Fra questi due estremi, però, si dibatte da decenni attorno alla questione se la farmacoterapia rappresenti una soluzione concreta oppure sia solo il minore dei mali…

Come spesso accade, la verità sta in una posizione intermedia rispetto a questi due estremi che, congiunti, formano una retta.

In realtà, essa non sta solo in mezzo ai due citati criteri di una unicità misteriosa e di una, a tutti gli effetti, misurabile realtà; vi è una terza ineluttabile dimensione: ogni uomo sta in una ininterrotta reciproca relazione con altri esseri umani e con l’ambiente in cui vive. La verità sta perciò al centro di un triangolo i cui lati sono testimoni delle seguenti tre realtà. La prima enuncia che ogni essere umano è un mondo a sé che trascende ogni tentativo di essere totalmente compreso dalla scienza che misura: nessuno ha conosciuto un essere umano identico a un altro vissuto nel

passato e perciò confondibile con quest’ultimo o visto due esseri umani identici. Di conseguenza ogni uomo è inconfondibile nei confronti del passato, unico nel presente e irripetibile nel futuro.

La seconda afferma che nessuno ha mai visto un essere umano senza corpo. La terza afferma che nessun essere umano è un puro inizio; ogni individuo è stato generato da chi l’ha preceduto, accolto alla nascita, inserito in un discorso già avviato e dotato di un’identità, quella di figlio. In seguito, tutti necessitano fino alla morte di una o più identità che vengono conferite dal mondo esterno; senza almeno un paziente che richiede una minima prestazione nessun professionista può dire di essere a pieno titolo un medico. Le tre realtà sono intimamente collegate.

Ma questa visione in che modo incide nel momento in cui un medico o un terapeuta si trovano ad affrontare una malattia psichiatrica?

Da una tale visione dell’essere umano la malattia psichiatrica assume dei connotati ben più precisi di un male oscuro, di un malfunzionamento biologico o di comportamenti bizzarri. Essa è sempre sofferenza soggettiva non misurabile, perciò nascosta, che solo il paziente può svelare e confidare. Nel medesimo tempo è sia un malfunzionamento biologico sia un distacco dagli altri, che proseguono nella loro corsa giornaliera, mentre il malato rimane impalato sul posto. Nelle malattie psichiatriche e affettive il distacco può diventare emarginazione. Si tratta di tre aspetti dell’uguale malattia, che formano un tutt’uno. La strategia terapeutica è consequenziale. È essenziale che il terapeuta comprenda la soggettiva sofferenza del singolo malato. Condizione

indispensabile è che non dimentichi quello che l’esperienza della vita quotidiana insegna, ossia che ogni persona è un mondo a sé.

Di conseguenza non esistono problemi piccoli o grandi come tali; esistono unicamente problemi vissuti dal singolo come marginali o di centrale importanza. Il curante deve inoltre porsi le seguenti domande: quali sono i problemi che il malato vuole risolvere o quale sofferenza desidera mitigare? Raggiungendo quale risultato si ritiene contento o soddisfatto? Quali mezzi terapeutici è disposto ad accettare? Oltre a ciò, il terapeuta deve possedere solide conoscenze su possibilità curative e limiti dell’utilissima scienza, ossia quella che ha un influsso fisico e chimico sul corpo del malato. Infine, le capacità relazionali del curante, affini alle cure psicoterapeutiche, sono indispensabili per poter fare breccia nell’isolamento che la malattia provoca al malato e stargli accanto fino alla guarigione.

In quali casi, a suo parere è preferibile prediligere una terapia farmacologica ad altri tipi di terapia?

Ogni psicofarmacoterapia deve essere adeguata alle caratteristiche del singolo paziente e in modo particolare atta a raggiungere traguardi condivisi da paziente e medico che devono essere per il malato significativi e raggiungibili. Si tratta di prescrizioni su misura, una misura che va continuamente aggiornata durante tutto il decorso della malattia verso la guarigione. Un paziente sofferente di malattia psichiatrica può essere curato senza o con minime dosi di psicofarmaci. Viceversa la psicofarmacoterapia può rappresentare il perno di una cura psichiatrica. Nel primo caso è possibile che la sofferenza psichiatrica non risponda o (...)

IL RISULTATO : SI COMMENTA DA SÉ

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“La discussione non può essere ridotta alla domanda se lo psicofarmaco curi e risolva un problema o se si limiti a tenerlo sotto controllo, ma va ampliata considerando se sia possibile condurre una vita normale grazie agli psicofarmaci. Con certezza medica posso affermare che una psicofarmacoterapia senza una buona relazione paziente-medico, e perciò senza un minimo di psicoterapia, ha poche probabilità di raggiungere un durevole effetto auspicato”

risponda solo parzialmente ai medicamenti. Nella seconda situazione si tratta sovente di una sofferenza che mostra sull’arco degli anni, senza evidente causa scatenante modificabile, una ciclicità, una ricorrenza di episodi di malattia. Allora si impone una terapia stabilizzante, rispettivamente preventiva a lungo termine.

Agorà 6

Gli psicofarmaci aiutano a condurre una vita normale?

La discussione non può essere ridotta alla domanda se lo psicofarmaco curi e risolva un problema o se si limiti a tenerlo sotto controllo, ma va ampliata considerando se sia possibile condurre una vita normale grazie agli psicofarmaci. Con certezza medica posso affermare che una psicofarmacoterapia senza una buona relazione paziente-medico, e perciò senza un minimo di psicoterapia, ha poche probabilità di raggiungere un durevole effetto auspicato. Ogni cura prescritta deve contenere tutto il necessario per il raggiungimento di traguardi significativi e raggiungibili dal paziente, ossia deve essere priva di “buchi”, e nel medesimo tempo essere libera da “pesi morti”, di inutile zavorra. Per proporre una tale cura il terapeuta deve possedere una profonda preparazione scientifica, una solida esperienza personale, una buona conoscenza del singolo malato e soprattutto flessibilità e libertà nei confronti del proprio saper fare. Se mancassero le prime due condizioni il paziente diventerebbe oggetto di terapie che precipitano su di lui; se venissero a mancare le ultime due il malato verrebbe ancorato nelle profondità della scienza, ridotto a un puro punto di applicazione della sua tecnica. Se fossero assenti tutte quattro si troverebbe coinvolto in una guerra civile in cui regna l’anarchia. Le soluzioni migliori nascono dal dialogo, che significa dire e lasciarsi dire qualcosa, anche sulle psicofarmacoterapie, senza mai dimenticare il bene dei malati, di ogni singolo paziente.

Esiste la possibilità di fare a meno della terapia farmacologica, una volta che la si è iniziata?

Parto dal presupposto che il “non poter fare a meno” significhi quanto segue: dopo la sospensione della terapia psicofarmacologica il paziente o soffre di disturbi legati alla mancanza del farmaco come tale, perché diventato psicofisicamente dipendente da esso, oppure ricade nella malattia. Con una diligente prescrizione degli psicofarmaci che possono causare dipendenza – in modo particolare gli ansiolitici riconducibili al gruppo delle benzodiazepine, ossia le figlie e le nipoti del Valium, e i sonniferi – è quasi sempre possibile evitare la prima situazione. La seconda è più complessa. Esistono scompensi acuti di vario tipo, ansiosi, depressivi o anche psicotici, che da

una parte, grazie a una psicofarmacoterapia, possono essere contenuti sia nell’ampiezza e durata della sofferenza stessa sia nelle conseguenze secondarie della malattia, come il prendere decisioni inappropriate dettate dall’affezione. D’altra parte, una volta terminate le manifestazioni acute, la psicofarmacoterapia può essere ridotta progressivamente fino a giungere alla sua sospensione. Tali isolati scompensi esistevano già prima della scoperta degli psicofarmaci. Anche prima della loro introduzione si osservavano malattie con decorso cronico oppure recidivante.

Quando in tali situazione la psicofarmacoterapia semplicemente sostituisce e prende il posto dei mezzi “terapeutici” che li hanno preceduti (isolamento, contenimento sovente punitivo o riti d’esorcismo) la sospensione della psicofarmacoterapia è sovente seguita da un peggioramento della malattia. Là dove invece la psicofarmacoterapia è parte integrante di una visione del paziente, e perciò della malattia, che oltre a riconoscere il suo aspetto biologico tiene conto sia di quello soggettivo, perciò unico, sia di quello relazionale, l’utilizzo dei farmaci può essere ridotto e talvolta anche sospeso. In tali situazioni il paziente, proprio grazie alla psicofarmacoterapia, è riuscito a costruirsi un nuovo contesto di vita quotidiana più confacente alle sue caratteristiche e maggiormente in sintonia con l’ambiente che lo circonda.

Dal punto di vista farmacologico vi sono state scoperte rilevanti negli ultimi anni?

Da circa vent’anni le nuove scoperte psicofarmacologiche sono state marginali: le psicofarmacoterapie somministrate vent’anni fa si differenziano poco da quelle prescritte attualmente. L’unica eccezione riguarda il contenimento delle benzodiazepine per una maggior consapevolezza dei loro effetti collaterali, incluso quello di provocare dipendenza. Continuando a utilizzare psicofarmaci vengono fatte inevitabilmente nuove esperienze, ma i nuovi spazi terapeutici scoperti e le nuove limitazioni individuate tramite tali osservazioni sono pure state marginali.

Come immagina il futuro della psicofarmacologia?

Non sono in grado di descrivere come dovrebbe essere lo psicofarmaco del futuro. Lo posso delineare in modo generale: il più possibile privo di effetti collaterali e molto efficace sia nel contenere disturbi in eccesso quale l’ansia, sia nel far rinascere ciò che la malattia sopprime, per esempio la forza e la gioia di vivere. So invece benissimo come dovrebbe essere il terapeuta del futuro: profondamente preparato e aggiornato sul piano scientifico e nel medesimo tempo dialogante con ogni singolo paziente e con terapeuti che la pensano diversamente.

Letture Il fardello di Goldfarb di Daniele Bernardi

Charles

Lewinsky, zurighese, noto per La fortuna dei Meijer (Einaudi, 2007) e di cui è apparso in Italia il romanzo Un regalo del Führer (Einaudi, 2014), ci consegna un sagace e tagliente monologo che, in poche pagine, tratteggia mirabilmente la peculiare condizione dell’identità ebraica.

Come scrive Vittorio Dan Segre nella prefazione, quella ebraica è una “famiglia allargata, aristocratica per via di una «elezione» alla quale” i suoi membri “hanno sempre cercato o di sottrarsi o di adeguarsi, sublimandola”.

Si tratta, in un certo senso, di qualcosa che supera l’idea di popolo e di religione e che definisce una condizione esistenziale. Non essendo uno studioso di cultura ebraica non mi dilungherò in congetture. Ciò che è più interessante, nella breve pièce, è la questione di un’irrisolvibilità intrinseca che contraddistingue un sentire antico di cui la nostra Storia è permeata (“La Storia” dice Emanuel Goldfarb, protagonista della vicenda, “è la malattia ebraica per eccellenza”).

Goldfarb è un giornalista che vive in Ger-

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Service

mania. Un giorno, un insegnante, il signor Gebhardt, gli invia una lettera invitandolo a partecipare a un incontro con gli studenti, durante le “lezioni sulle società”, per parlare della propria cultura di appartenenza. Da principio Goldfarb si oppone: “Non sono ancora maturo per il museo”, afferma senza mezzi termini. Ma, in seguito, non riesce a trattenersi e, dettando al dittafono la propria contrariata risposta, comincia uno scavo nella propria memoria e in quella della sua famiglia. La scelta della registrazione audio, strutturalmente, può essere vista come una sorta di richiamo-omaggio a L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, oppure la situazione, più in generale, può vagamente ricordare quella grottesca de Il contrabbasso di Patrick Süskind. Nel riferire la propria storia Goldfarb incapperà in quelli che sono i nodi della trama di cui è costituita la sua eredità. Volente o nolente, egli si porta sulle spalle “un fardello di quattromila anni” e la sua irraggirabile condizione pesa su ogni situazione che lo vede coinvolto.

Un normalissimo ebreo di Charles Lewinsky Abendstern, 2014

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Lo spirituale nell’arte A settant’anni dalla scomparsa, il mondo dell’arte riscopre Hilma af Klint, pittrice svedese e antroposofa, sconosciuta ai più. Radicale anticipatrice di un’arte che si allontana dalla realtà visibile, sviluppò un linguaggio astratto già nel 1908.

Prima di Kandinsky, Mondrian e Malevich di Alba Minadeo

Dalla

Arti 8

finestra del suo studio, a Stoccolma, Hilma af con la madre a Munsö e, dopo la morte di lei, nel 1920, a Klint (1862–1944) vedeva la torre del telefono di Brunke- Helsingborg, con l’ex infermiera della madre Thomasine bergstorg. Era la fine dell’ottocento e da poco in America Andersson, anch’essa antroposofa, che diventò la sua erano state scoperte le onde elettromagnetiche, il telegrafo compagna di vita. e i raggi-x mediante i quali improvvisamente si poteva Le due donne trascorsero un anno a Dornach, dove invedere sotto la superficie delle cose. Insieme con queste contrarono Rudolf Steiner, ma nei dipinti di af Klint è invenzioni, giunse in Europa anche la moda dello spirituali- difficile individuare un’influenza degli impulsi del pensatore austriaco. Il lavoro dell’artista smo e si diffuse un grande interesse svedese si compì in parallelo con per ciò che è invisibile agli occhi. lo sviluppo dell’arte astratta di altri La dimensione spirituale era già pittori come Mondrian, Malevich, entrata nella vita di Hilma af Klint Kandinsky e Kupka, e si inserisce dopo la morte della sorella Herminel contesto della ricerca moderna, nel 1880. Ancora molto giovanista di nuove forme d’espressione. ne, partecipò a sedute spiritiche e, Alcuni critici le hanno apposto il in seguito, trasferì le sue visioni su marchio di pittrice antroposofica: grandi tele, segrete ed enigmatiche, in realtà, le sue immagini esotericon colori insoliti per il suo tempo. che hanno un loro specifico caratHilma af Klint credeva nell’esistentere e uno stile ultra-moderno. Nel za di una dimensione spirituale del 1935, si trasferì a Lund, e cinque quotidiano, voleva rappresentarla anni dopo, alla morte di Thomasie fece qualcosa che non era all’orne, a Djursholm, dove visse con la dine del giorno per una donna. cugina fino alla fine.

Come molti suoi contemporanei, fu influenzata da correnti filosoIl futuro è ora fico-esoteriche, in particolare dal “Si potrebbe dire che più di cento movimento teosofico di Madame anni fa Hilma af Klint ha dipinto Blavatsky e, più tardi, dall’antroHilma af Klint nel suo studio di Hamngatan, Stoccolma, 1895 (hilmaafklinten.louisiana.dk) per il futuro”. Questo sostiene Iris posofia di Rudolf Steiner.

Müller-Westermann, la curatrice della retrospettiva che si è tenuta al Moderna Museet di La pioniera dell’astrattismo Il 21 ottobre 1944, Hilma af Klint morì in un incidente stra- Stoccolma nel 2013 (nello stesso anno, la Biennale di dale in una cittadina dello Svealand, qualche giorno prima Venezia ha presentato alcune tele della pittrice). Hilma af del suo ottantaduesimo compleanno. Nata a Solna, vicino a Klint lasciò più di mille opere, ma durante la sua vita espose Stoccolma, trascorse le sue estati nella fattoria di famiglia ad solo i quadri naturalistici e non mostrò mai i suoi lavori Adelsö nel lago Mälaren e, grazie al contatto con la natura, astratti. Nel testamento scrisse che questi dovevano essere mostrò precoci abilità nelle arti visive. Quando si trasferì resi pubblici a vent’anni dalla sua morte. Era convinta che con i suoi familiari a Stoccolma, iniziò la sua educazione solo allora il pubblico ne avrebbe compreso il significato. artistica presso l’Istituto tecnico (oggi Konstfack). Tra il Nel 1970, la fondazione Hilma af Klint fece dono dell’in1882 e il 1887, oltre a seguire i corsi dell’Accademia di Belle tera collezione – comprensiva anche di opere su carta e Arti dove incontrò Anna Cassel, una delle quattro artiste pastelli, 125 quaderni e studi botanici ad acquerello – al con cui lavorò poi in De Fem, un gruppo che condivideva Museo d’Arte Moderna di Stoccolma che la rifiutò. Fu la un nuovo pensiero mistico, raccolse in un libro i messaggi ricercatrice Åke Fant, in una conferenza ad Helsinki nel pervenuti da spiriti superiori e creò la pittura automatica. 1984, a far conoscere al mondo l’artista. La prima mostra Dopo gli studi, af Klint dipinse ed espose ritratti e paesaggi di Hilma af Klint si svolse a Los Angeles, nel 1986. L’ultiin stile naturalistico, e nel 1908 approdò a una pittura geo- ma ha avuto luogo quest’estate al Louisiana Museum of metrica inventiva, un linguaggio visivo che esteriorizzava Modern Art di Copenaghen. Chissà che la prossima non forze invisibili dei mondi interiori. Nel 1918, si trasferì venga allestita in Svizzera…

Né Charlie, né terrorismo Il sindacato dei giornalisti egiziano ha organizzato al Cairo una manifestazione di sostegno alla grande marcia di Parigi tenutasi dopo i tragici eventi che hanno colpito il periodico “Charlie Hebdo”. E gli egiziani che ne pensano? di Marco Alloni

La quasi totalità della popolazione egiziana di buon senso

e dall’altra, in forme naturalmente (naturalmente!) incom­ – cioè la quasi totalità degli egiziani – si dissocia senza se e parabili, si agisce (legittimamente e illegittimamente) in senza ma da quanto accaduto a Parigi. Tutti i musulmani direzione dell’istigazione all’odio e alla violenza. moderati – cioè la stragrande maggioranza dei cittadini – ha Questo rivendica l’Egitto. Questo rivendica il mondo mu­ espresso cordoglio per le vittime e ribadito a chiare lettere sulmano. Che non si faccia di tutta l’erba un fascio. Che che l’Islam non approva né la violenza, né il terrorismo. A si affermi a chiare lettere che “Le Coran c’est de la merde” parte isolate eccezioni su cui non val la pena spendere un filo travalica ampiamente i limiti della satira (dal punto di vista e secondo la sensibilità di inchiostro, il mondo islami­ islamica). Che si riconosca che co è dunque schierato contro “Le Coran c’est de la merde” non il terrore e il radicalismo arma­ procura alcun beneficio ad al­ to in difesa della pace, della cuno dei difensori del dialogo tolleranza e dell’Islam come e della pace. E che si riconosca religione di pace e tolleranza. che questo non significa in È questo sufficiente a ras­ nessun modo promuovere e serenare gli animi? Niente giustificare il terrorismo. In affatto. Si chiede all’Islam nessuna sua forma. moderato – cioè all’Islam non integralista, cioè all’Islam eo Un peso, una misura? ipso – di “dissociarsi pubbli­ Ora, la questione è delicata. Ma camente” e perentoriamente finché non ci si renderà conto dai criminali. Si chiede in­ che in un mondo globale è somma ciò che apparirebbe ormai obsoleto arroccarsi nella assurdo chiedere all’occidente Illustrazione tratta da universitypost.dk definizione di occidente come cristiano qualora fosse in cau­ sa un’azione di stampo terroristico da parte del Ku Klux di “casa nostra” – senza considerare che esiste un mondo Klan. “Je ne suis pas Ku Klux Klan”. Si è mai preteso tanto globale che è ormai, piaccia o non piaccia, anche casa di dall’occidente di buon senso? Mai! Né mi pare che da un “altri” – e finché non ci si renderà conto che qualche buona italiano venga preteso di dissociarsi dalla mafia a ogni due ragione alligna anche in chi avrebbe voluto considerare per tre e cioè a ogni rinnovata azione di violenza di Cosa “casa propria” l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Palestina e via elencando – e ha viceversa visto tali terre occupate Nostra o affini. militarmente, politicamente ed economicamente dai paesi dell’alleanza atlantica –, finché insomma non ci si deciderà Musulmano = Terrorista?

Eppure ai musulmani moderati – cioè ai musulmani tout a leggere la storia nella sua ambiguità e polivalenza, nella court – questo privilegio di essere naturaliter, senza bisogno pluralità dei suoi punti di vista, il casus belli resterà sempre a di ulteriore esposizione, contrari al terrorismo non viene disposizione di ogni oltranzismo, che ne farà di volta in volta concesso. A noi sì, a loro no. Perché? La risposta è semplice. vilipendio delle religioni, appello alle crociate, terrorismo di Perché si sta diffondendo una perniciosa dicotomia, molto stato e di fazione, leghismo di bassa lega, terrorismo islamico simile a quella evangelica e “bushiana”: chi non è con noi e via dicendo. Insomma, è ora di uscire dal misunderstanding è contro di noi. Come se davvero le lancette fossero tornate e di non dimenticare che chi oggi è stato condannato per indietro. “O con l’America o con il terrorismo”. Ma perché aver raffigurato la Kyenge come una scimmia paga un tri­ mai? “O con lo Stato o con le BR”. E chi ha deciso che questa buto sull’altare della civiltà, non della censura oscurantista.

Certo, nessuno l’ha assassinato per questa ignominia. Ma dicotomia debba avere alcunché di dirimente?

No, il mondo islamico non ha nessuna intenzione di essere finché le sanzioni saranno unilaterali ci sarà sempre chi, a preso in questa contrapposizione. Il mondo islamico affer­ una condanna civile sensata e moderata (la galera) mancata, ma con chiarezza, anche se attualmente in sordina (vista vorrà rispondere con una condanna estremistica e intolle­ l’emotività che accompagna le reazioni alla strage parigina): rabile (l’assassinio) riuscita. E non credo ci sia da augurarci “Né con Charlie né con il terrorismo”. Perché da una parte che l’imprevidenza à tout prix paghi un prezzo così alto.

Levante 9

La parola pervertita Il poeta Heinrich Heine scrisse che là dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini. Karl Kraus, saggista e umorista, in piena Belle Époque comprese che l’Europa si stava avviando verso un tempo in cui “i guanti sarebbero stati fatti di pelle umana” di Carlo Baggi

Sia Heine (1797–1856) sia Kraus (1874–1936) annunciarono

Kronos 10

prime della schiavitù creandone così, inevitabilmente, altre le terribili future realtà del ventesimo secolo non perché più sottili. Non si deve tuttavia pensare che i tragici eventi fossero dei veggenti ma perché, come veri profeti, capirono parigini siano solo il frutto di menti assassine e d’ideologie che i segni premonitori del loro tempo avrebbero causato fondamentaliste, perché ciò che è accaduto manifesta un più il “divorzio tra l’umanità e il linguaggio”1. Quest’atto si ma- ampio attrito tra una cultura da secoli dominante e un’altra terializza ogniqualvolta si manifesta un sistema che induce che ritiene la sua visione della società totalizzante e definitila società a banalizzare il senso profondo delle parole allon- va. I possibili sviluppi di questa situazione dipenderanno dalla capacità delle masse moderate di tanandole dalla verità. Non è solo entrambi gli schieramenti di sottrarun fatto culturale o di costume, ma si alle onde emotive, attizzate ad arte una condizione che, fratturando gli dai rispettivi estremismi. Per quanto abissi della dimensione trascendenconcerne i cittadini dell’occidente tale dell’“essere umano”, determina essi si troveranno a fare i conti con il travolgimento di ogni suo aspetto, prove severe, che riguarderanno non anche il più superficiale. In questo solo la difesa della propria cultura tragico inizio d’anno quel divorzio dal fondamentalismo esterno, ma tra umanità e linguaggio si è mostraanche la tentazione paradossale di to, ancora una volta, in tutta la sua difendere la libertà attraverso una drammaticità. Ancora una volta la limitazione delle libertà. Tutte le sedicente “giusta” violenza permette peggiori dittature del ventesimo di conferire un significato a uomini secolo sono state giustificate dalla che in realtà non sono in grado di necessità di difendere la nazione o dare un perché ai loro atti. Non certo il popolo da estremisti o da controper la loro “fede” che è bestemmiata rivoluzionari. Da ciò si può comdal sangue versato, né per la loro Parigi, 7 gennaio 2015 (vdj.it) prendere che la difesa delle nostre frustrazione sociale che è piuttosto alimentata da liturgie culturali ossessive e neppure per la loro istituzioni dal terrorismo islamico non può essere separata “politica” che è schiava del risentimento. Quegli omicidi dal rafforzamento profondo dei valori che contraddistinguohanno un rapporto pervertito con la “parola” attraverso la no l’occidente. Essi non sono tutelati dai proclami o dalle peggior manifestazione che una mente prigioniera possa adunate, se non sono più insegnati correttamente e, quindi, concepire: lo zelo fanatico. Questa pulsione è alla base di vissuti intimamente. ogni ideologia della guerra santa, che è senza confini e che è il trionfo del male nel suo gioco preferito: mimare il bene. La fine del terrore La prima battaglia che deve essere vinta nella guerra al terrorismo è quella culturale. Essa passa per il ripristino Una sfida complessa La nostra società, essendo parte della medesima umanità, di quell’unione tra umanità e linguaggio, di cui Heine e è coinvolta in questo impasto, proprio in un periodo di Kraus intravvidero la lacerazione. L’attacco all’occidente è grande debolezza sociale e identitaria. Questa condizione ha anche la messa in mora della Storia, affinché esso riscopra reso palpabile la vera natura delle oceaniche manifestazioni e difenda il suo significato e la sua ragione d’essere. Una di piazza, che non era un’affermazione d’identità, ma un plurimillenaria tradizione spirituale e di pensiero impone grande esorcismo collettivo del terrore. La libertà “repub- di chiudere le brecce che lo svilimento dei significati ha blicana”, che si è invocata, è segnata già nel seno di quella causato. Solo così le emozioni cederanno il posto alla vera Rivoluzione, che proclamandola assieme all’uguaglianza e passione civile e il valore della dignità dell’essere umano alla fraternità, la consegnò in breve tempo a una dittatura. farà svanire nel nulla il terrore.

Segno predittivo, perché la vera libertà, quella senza aggettivi, non è un’eredità acquisita ma un’impronta interiore che note può resistere solo se si conserva la memoria della schiavitù. 1 George Steiner, Grammatiche della creazione, pagg. 245, 258, Garzanti (2003) Il nostro progresso, invece, prospera nell’oblio delle cause

Visioni Il cerchio piatto di Fabio Martini fra due uomini piuttosto diversi: Rust Cohle (McConaughey), un ex infiltrato della narcotici con un pesante dramma familiare alle spalle, una grande intelligenza e una propensione alla riflessione filosofica, e Marty Hart (Harrelson), in apparenza il classico “family man” ma in realtà un uomo dedito all’alcol e alle relazioni extraconiugali. Una coppia di sbirri che, uscendo dai soliti cliché, ci conduce in un inferno di oscurità e desolazioni umane ma sempre a ritmo lento, senza scossoni, senza l’assillo falso ed efficientista delle serie “scienza e obitorio” propinate a orario di cena. La ricerca dell’assassino diventa per gli autori lo spunto per raccontare due esistenze e i demoni che in esse si agitano mentre i dialoghi, le schermaglie, i litigi familiari sono così realistici, intensi e potenti da lasciarci senza fiato. Gli stessi corpi dei protagonisti, il loro modificarsi nel tempo, sembrano emanare sofferenza e, al contempo, un grande, immenso desiderio di pace. Neppure un genio dell’hard boiled come James Ellroy ci sarebbe riuscito…

True Detective di Nic Pizzolatto, Cary Fukunaga HBO, USA, 2014

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Questa è probabilmente la miglior serie televisiva mai apparsa sugli schermi. Fra l’altro, definirla serie non è esatto perché si tratta in realtà di una serie “antologica”, in cui ogni vicenda, con i suoi personaggi e le sue ambientazioni, si conclude all’interno di una stagione. Concepita in casa HBO, emittente via cavo della Time Warner che nel corso degli ultimi tre decenni si è affermata nel mercato delle serie televisive grazie alla qualità e originalità dei soggetti (I Soprano, Sex and the City, Boardwalk Empire, Game of Thrones, Girls, The Newsroom, per citarne alcune), True Detective ha ricevuto una caterva di premi e riconoscimenti. Scritta da Nic Pizzolatto (classe 1975) e diretta da Cary Fukunaga (1977), la prima serie è un poliziesco dai toni cupi, ambientato in una Louisiana sporca e desolante, e interpretato magistralmente da due grandi attori americani Matthew McConaughey e Woody Harrelson. La vicenda, che oscilla fra presente (il 2012) e passato (inizia nel 1995), è in sostanza il racconto di un’amicizia difficile

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S

Vitae 12

ono nato ad Arzo il 14 novembre del 1914, ma non sono stato sempre qui. L’infanzia, insieme a una sorella tuttora vivente, l’ho trascorsa altrove perché a sette anni ho perso mio padre e mia mamma, restando vedova ed essendo costretta a lavorare, ha dovuto mettermi in un orfanotrofio a Bellinzona.

Eravamo in tanti, l’educazione delle suore era rigida, insomma dovevamo ubbidire e, come si dice, fare i bravi. Lì ho frequentato le scuole elementari e sono rimasto fino a undici anni, poi mi hanno dovuto portare a Locarno, dove ho frequentato i tre anni di scuola maggiore all’Istituto Sant’Eugenio.

Sono stato a Locarno fino ai quattordici anni. A quel punto dovevo trovarmi un lavoro, imparare un mestiere e così sono tornato ad Arzo, da mia zia, la sorella di mia mamma. Ho scelto di diventare sarto e ho fatto l’apprendistato di tre anni a Mendrisio, quindi fino a diciotto anni e mezzo. Una volta imparato il mestiere mi sono trasferito nella Svizzera interna, a Grenchen, nel canton Soletta. Cercavano un sarto, io ho risposto all’annuncio dicendo che ero interessato, e mi hanno subito preso. Quando sono partito per andare lì era il mese di marzo del 1934. A Grenchen sono rimasto fino alla fine del 1939, poi è scoppiata la guerra e mi hanno preso al militare e sono dovuto tornare a casa per prestare servizio.

Gli anni della guerra sono stati brutti, perché mancava tutto, soprattutto il lavoro e così un po’ io, un po’ mia mamma, un po’ mia sorella cercavamo di tirare avanti. La maggior parte della gente era via al militare, specialmente i giovani. Noi eravamo vicini al confine, che però era sempre chiuso e questo ci garantiva una certa serenità. Dal 1940 a oggi sono sempre rimasto ad Arzo. Dopo la guerra mi sono messo in proprio per fare il sarto e in paese ho affittato un locale dove poter lavorare. Il mio lavoro mi piaceva, l’ho scelto io e ho continuato la professione fino a molto tardi, fino a oltre gli ottant’anni, anche se negli ultimi tempi svolgevo soltanto lavori da poco, piccole riparazioni. Quando ho smesso di lavorare non ho dovuto lasciare a qualcun altro la mia attività, perché stavo semplicemente in affitto

e così oggi la mia bottega non c’è più. Non mi sono mai sposato, sono invece ritornato in famiglia e da allora ho sempre vissuto insieme a mia mamma, che è mancata nel 1972, e mia sorella. Quando non lavoravo, durante il sabato e la domenica, amavo camminare per i boschi: finalmente potevo respirare un po’ di aria buona e sgranchirmi le gambe, visto che la settimana la trascorrevo nella bottega perlopiù seduto, tra aghi, fili e tessuti. Mi piaceva anche giocare a bocce e a calcio, così, tra amici.

Giunto alla mia età, posso dire di aver visto cambiare profondamente il mio paese: quando ero ragazzo eravamo circa 600 abitanti e ci conoscevamo tutti, dal più piccolo al più anziano. Oggi mi hanno detto che saremo almeno 1400 persone; ci sono molte più case, le abitudini sono cambiate e non ci si conosce più, purtroppo.

Come dicevo, anche mia sorella c’è ancora e saranno otto anni che vive nella casa per anziani Santa Lucia. Ogni tanto vado a trovarla, l’ultima volta sono stato lì per la vigilia di Natale. Quando era giovane lei faceva la camiciaia, in paese c’erano sette, o forse otto camiciaie e mia sorella lavorava come stiratrice. Ha lavorato anche lei fino alla pensione. Noi della classe 1914 eravamo in tredici e io ero il più mingherlino, gli altri un po’ alla volta sono mancati tutti, anche i due amici a cui ero più legato. Io invece sono ancora qui e a volte mi chiedo: come mai proprio io, tra tutti? È proprio il destino della vita!

Oggi trascorro le mie giornate leggendo, ascoltando i notiziari con la radiolina e guardando la TV. Ricevo le visite degli addetti all’aiuto domiciliare: c’è una signora che si occupa delle pulizie in casa e mi fa la spesa una volta alla settimana, mi fa il bucato e lo stira. Il pranzo me lo portano, mentre per la colazione e la cena mi arrangio io, per fortuna non sono un mangione. Mi ritengo soddisfatto e fortunato perché, nonostante l’età, vivo nella mia casa e riesco ancora a fare la maggior parte delle cose in autonomia.

GIACOMO FERRARI

Un’infanzia non facile, poi il mestiere di sarto durato per cinquant’anni. Oggi, centenario, vive sereno nella propria casa

testimonianza raccolta da Roberto Roveda fotografia ©Flavia Leuenberger

Hotel SuiSSe di Giancarlo Fornasier; fotografie ŠReza Khatir

Centâ&#x20AC;&#x2122;anni or sono Faido era un importante centro turistico ai piedi delle Alpi, con alberghi moderni e un clima salutare. un luogo dove soggiornare, passeggiare e riposare

L

a stazione ferroviaria è sotto le sue grandi finestre, e questo certo non è un caso. In un’epoca in cui le automobili erano (ancora) una rarità, chi voleva spostarsi comodamente tra nord e sud del Gottardo non poteva che farlo in treno. In verità, coloro che almeno una volta sono stati a Faido si saranno accorti della “strana” posizione della stazione ferroviaria; distante dal centro del borgo leventinese, deve la sua dislocazione a ragioni tecnico-ferroviarie (e forse anche alle “esigenze” di un’importante famiglia del posto, come vedremo più avanti…).

“I viaggiatori sono pregati di scendere…”

La costruzione della Gotthardbahn iniziò nel 1872. Se le prime sezioni tra Biasca-Giubiasco-Locarno e Lugano-Chiasso vennero aperte nel 1874, l’intera linea tra Lucerna e Chiasso fu inaugurata a maggio del 1882. Era, come sappiamo, un manufatto ingegneristico senza precedenti, tanto che per oltre vent’anni il Gottardo fu il traforo ferroviario più lungo al mondo (sostituito poi dalla galleria del Sempione, 1906).

Nella sua parte meridionale, la Leventina è una valle assai stretta e la sua risalita impegnativa: per giungere in treno da Biasca (293 metri s.l.m.) ad Airolo (1.141 m) fu dunque necessario costruire i due tunnel elicoidali della “Biaschina” (e arrivare a Faido, 755 m), altri due per superare la gola del “Piottino” e da lì proseguire verso il Gottardo. I treni erano

in queste pagine: la facciata e alcuni particolari dei ferri esterni in apertura: stucchi decorativi in uno dei saloni

a vapore (l’elettrificazione tra Biasca ed Erstfeld arrivò nel 1920) e l’acqua fondamentale al loro funzionamento. Il riempimento delle caldaie e il carico del combustibile avveniva quando il treno era fermo, e dunque su un terreno esteso e pianeggiante, che aiutava anche la ripartenza. L’arrivo della ferrovia funse da volano per alcuni settori: quello turistico (che giocava le sue carte sulle qualità paesaggistica e dell’aria) ne trasse i maggiori vantaggi, con viaggiatori che potevano scendere dalle carrozze e ritrovarsi nella tranquillità, in una natura rigogliosa e una società ancora rurale.

Faido: una storia pioneristica La presenza di strutture come l’Hotel Suisse (e altri edifici di fine ottocento/inizio novecento di notevole interesse) sono ciò che è rimasto di un’epoca (la “Belle Époque”) che evidentemente non esiste più da tempo. Le vicende dell’albergo – in seguito casa di appartamenti, “aggiornato” e rimaneggiato più volte al suo interno – sono sintomatiche di un declino che sia il turismo sia l’economia valligiana

hanno subìto nei decenni a seguire: su tutti lo scoppio del primo grande conflitto mondiale e, poco dopo, di una seconda devastante guerra. In mezzo la crisi economica del 1929. I benestanti milanesi (grandi frequentatori della regione) sparirono improvvisamente, e con loro le strutture si svuotarono. E pensare che Faido era stata pioniera dell’elettrificazione civile (era il 1889) tanto da diventare con Locarno e Lugano tra i più noti poli turistici a sud delle Alpi (“Station climatérique intermède très renommée pour le climat temperé sec et salubre” si leggeva in un foglio pubblicitario dell’epoca), che si poteva raggiungere in circa quattro ore di treno dalla capitale lombarda.

Mai come in questo caso, le vie di comunicazione sono state una pedina determinante per la fortuna (e “sfortuna”) della Leventina: si pensi, in decenni più recenti, all’apertura del traforo autostradale del Gottardo (1980) e al completamento dell’autostrada A2 nel Sopraceneri, ai grossi problemi di traffico sulla strada cantonale oggi scomparsi, e con loro anche il transito e le possibilità di sosta da parte dei turisti. (...)

Particolare del tetto, con le travature e i coppi originali (1905)

Una delle numerose sale da bagno, alcune perfettamente conservate

Serramenti e infissi sono dellâ&#x20AC;&#x2122;epoca

Decorazioni originali sul soffitto di una stanza ai piani superiori

ringraziamenti Un sentito grazie a Daniele Zanzi (animatore del Comune di Faido) e ai proprietari dello stabile per avere permesso la realizzazione delle immagini, come pure alla signora Diana Tenconi (curatrice del Museo di Leventina, Giornico) per la collaborazione e disponibilità.

Uscita secondaria rivolta a nord, verso il giardino dell’Hotel Suisse a Faido

I Pedrini e il territorio da riscoprire Oggi l’Hotel “Suisse” è in mano privata. Fu costruito a partire dal 1905 dagli architetti Bernardo Ramelli e Giuseppe Bordonzotti per conto di Ferdinando Pedrini (1841–1907), originario di Osco ed emigrato prima in Lombardia poi in Australia. Tornato in Ticino, ebbe fortuna nel commercio di vini (al tempo anche strumento di pagamento...). Chi conosce la regione sa che a pochi metri da questo albergo esiste una seconda struttura, oggi sede proprio di un’enoteca gestita dagli eredi del fondatore: l’edificio che la ospita fu a partire dal 1882, anno d’inaugurazione della ferrovia, il primo albergo di famiglia (il “Faido”), struttura che nelle sue cantine cela ancora i segni della storia, “tecnologica” e alberghiera di Faido. A cavallo tra otto e novecento i Pedrini costruirono altri alberghi (come il “Milano”) e case da affittare; un contributo che fu determinante per la crescita anche demografica del capoluogo leventinese.

Spinti dal desiderio di valorizzare e promuovere la valle, il suo passato come pure un meritato futuro, il comune di

Faido (faido.ch/turismo) e il Museo di Leventina (museodileventina.ch) già nel corso del 2014 hanno avviato una serie di iniziative che mirano a far riscoprire, anche a chi abita in valle, l’importanza di questi luoghi; sia in un’ottica storicoeconomica sia da un punto di vista artistico-architettonico.

Come una visita tra le vie di Faido (rigorosamente a piedi) e nella regione circostante – da Giornico a Chironico, da Piotta ad Airolo – non potranno che confermare.

bibliografia • Claudio Ferrata, La fabbricazione del paesaggio dei laghi, Edizioni Casagrande, 2008.

• Simona Martinoli, “Architettura del periodo 1850–1920 nei territori periferici del Canton Ticino”, in Kunst + Architektur n.

46, 1995 (pp. 293–302).

• Fabrizio Viscontini, Alla ricerca dello sviluppo. La politica economica nel Ticino (1873–1953), Dadò, 2005.

• Attilio Nisoli (a cura), Dazio Grande, Fond. Dazio Grande, 2005.

• “Turismo della Belle Époque. In villeggiatura a Faido”, trasmissione radio, Squadra esterna, 28.5.2012, Rete Uno, RSI.

Piottino. Nella gola di Daniele Fontana; fotografie ©Giuliano Vananti

risalire questa gola tremenda per sbucare poi nella pace e nella gioia della piana che ci prepara alla grande sfida con il San Gottardo. Prima la strada romana, poi quella urana e adesso la cantonale. E però a vincere è ancora lei, la natura aspra e selvaggia, indomita e incurante.

Quando poi a darle una mano non ci si mette pure la natura umana. Come adesso, con questo Pocobelli e questo Fogliani ad azzuffarsi, e a portare la baruffa sin dentro al Governo, sui modi, sui tempi e sui costi degli interventi per risistemare i danni della piena e riaprire la strada ai traffici. Cambieremo mai noi ticinesi?

A.D. 1834

Luoghi 42

È

quattro giorni che piove. Senza smettere mai. Una caterva d’acqua che in queste gole si fa cascata da ogni dove. E rombo di tuono senza sosta. Fanno già paura col sole queste pareti, figurarsi ora, con questo buio e questa pioggia maledetta. Che sotto gonfia il Ticino da far spavento e tutto attorno ti avvolge come turbine e t’infradicia sin dentro al cuore. Che non sai più se è acqua o terrore.

Ne ho ancora di strada, e difficile, da fare prima di arrivare al Dazio Grande, per trovare un tetto, una zuppa e terra dove un piede e l’altro possano muoversi allo stesso livello.

Siamo agli inizi di ottobre e pare già il buio e il freddo di novembre.

La piena maledetta di fine agosto ha fatto danni che neppure l’inferno. Ponti spazzati via e frane a ostruire il passaggio, la strada cantonale strozzata e strappata in questa gola del Piottino che sempre più assomiglia all’orrida sorella che sta di là dal Passo. Quella Schõllenen che per secoli ci ha tagliati fuori dal traffico delle genti. Persino san Carlo passando di qua rimase impressionato dall’“orrido muggito delle acque”. Ma il 27 agosto avrebbe perso ogni speranza pure lui. Dicono che per un momento le acque del Ticino si siano come abbassate per poi, una volta superata la barriera di alberi e legnami ammassati nella stretta, ritornare all’improvviso, gigantesche e spaventose. L’iradiddio. E noi di colpo siamo stati catapultati a prima del 1803, con la frontiera tracciata dalla verticale del Monte Piottino e, là sopra, il Dazio Grande a marcare con i suoi pedaggi i transiti sin dal cinquecento.

Quante fatiche, quante vite ci abbiamo buttato dentro per scavare nella roccia e unire con ponti azzardati un tracciato che ci consentisse, uomini animali e cariaggi, di

Intanto pure il tempo non cambia e il buio non mi aiuta di certo a trovare un varco sicuro tra quel che resta di macerie e cantieri. Tra poco, dicono, la via sarà di nuovo praticabile, anche se un rapporto sullo stato dei danni spalma nero supplementare sopra questo buio. “Insieme allo scoscendimento del muro si è formata una caverna lateralmente sotto la strada, il cui volto consiste solo nel nudo impietramento, e la caduta di questo condurrebbe con sé necessariamente anche quella di considerevole tratta di strada. Non solo una mina, ma direi quasi un forte soffio di vento basterebbe a trascinare e l’arco e la strada che quasi miracolosamente si sostiene”.

Io però non posso aspettare. Ho cure, preoccupazioni e affetti lassù. Una moglie e due bimbi piccini. È più di un mese che carri non ne arrivano. E le scorte, di questa stagione, sono vitali. Con il freddo che comincia a morderti il giorno e la notte.

Ho ancora un bel pezzo di strada davanti, ma la conosco.

Anche al buio. Anche ora che le forze della natura l’hanno sconvolta. E che le mie cominciano a venir meno. Chissà se un giorno ci vorranno ancora fatica e incertezza e lentezza per unire nord e sud. Di qua e di là dalla grande barriera delle Alpi.

Appoggiato a questi pensieri, il mio corpo pare farsi meno pesante, l’andatura più salda. È come se la piana di Rodi si abbassasse a ogni passo. Arrivo Adele. Arrivo figlioli. Ancora quest’ansa stretta, ingombra di massi, questo varco accidentato e poi, superato quel ponte, l’ultima salita. Aspra, ma infine, con la piana, mi si spalancherà pure il cuore.

Ecco, sono arrivato al ponte. Si muove al mio passaggio.

Incerto più dei miei passi. Sento un rumore appena, e poi, più sotto, un tonfo confuso nel rimbombo delle acque. Mi prende una paura fredda, lucida. Come una premonizione.

All’improvviso dalla gola s’alza un soffio di vento. Di più, una sferzata impetuosa. Un colpo secco. Uno schianto.

Luoghi 43

La ruota ideaLe Tendenze p. 44 – 45 | di Giulio Carretti

L’evoluzione tecnologica nel campo delle mountain bike è costante e riguarda non solo i materiali ma anche la struttura e le caratteristiche fisicodinamiche del mezzo. Uno degli ambiti su cui le case produttrici sono maggiormente intervenute in questi anni (e di cui si discute parecchio) è proprio quello concernente le ruote e la loro dimensione ideale…

Qualche anno fa, in procinto di acquistare una bicicletta per mio figlio, mi ero recato in un noto centro specializzato in mountain bike. Fu lì che per la prima volta ebbi l’occasione di vedere un modello con le ruote da 29 pollici. L’idea mi parve parecchio strampalata, se non addirittura una sorta di mostruosità per quelle sue bizzarre proporzioni. Corsi quindi a chiedere spiegazioni al negoziante che, con competenza, mi chiarì l’arcano: l’idea era venuta a Gary Fisher, ciclista professionista e costruttore, unanimemente riconosciuto come uno dei padri della mountain bike, e da un punto di vista fisico-meccanico aveva la sua buona ragion d’essere.

“La ventinove”, mi spiegò, “è perfetta per chi si dedica ai percorsi più tecnici: il raggio più lungo della ruota consente un approccio più efficiente alle difficoltà del terreno. Sassi, radici si superano meglio e anche a velocità più basse si ha l’impressione di poter affrontare qualsiasi cosa”. Insomma, l’unica era provarla.

Ci sono voluti quasi dieci anni e finalmente l’occasione è giunta: un amico, Mad Max lo chiamano, ne ha una, un modello con le sole sospensioni anteriori adatto a un primo approccio, ed è disponibile a prestarmela per un’uscita. La prima domenica di sole approfitto della sua cortesia.

Fa freddino, ma l’aria del mattino è frizzante e dopo un po’ di riscaldamento affronto la salita che dal faro di Brunate conduce alla via delle Baite e successivamente al Bollettone.

In generale, la sensazione è positiva anche se, come era immaginabile, il mezzo risulta più pesante e la posizione in sella differente. Sul tratto più facile e lineare mi pare decisamente meno fluida della tradizionale 26 pollici ma appena cominciò a trovare le prime asperità tutto cambia: in effetti, si ha la sensazione di poter vincere meglio i piccoli e medi dislivelli e la motricità appare molto buona. Il problema si presenta quando si tratta di rilanciare il mezzo che proprio per la sua maggiore pesantezza reagisce con più fiacca e minor rapidità. Ma questo era immaginabile. Il comfort è comunque buono nonostante il carro sia meno compatto e maneggevole e l’orizzontale più lungo.

Ma il meglio viene quando inizio la discesa. Qui le ruote grandi si fanno sentire davvero: l’aumento della velocità ti dà la sensazione di superare gli

PESO Il peso complessivo della ruota da 27.5’’ è solo del 5% (+140g) in più rispetto a quella da 26’’.

La ruota da 29’’ pesa invece l’11% in più (+430g).

29’’

+11g

+5g 29’’

27.5’’

26’’

27.5’’ 26’’

ostacoli con una facilità incredibile e al contempo si ha la sensazione di un maggiore contatto con il terreno (fatto ovvio, se si considera la dimensione della circonferenza). Tutto sembra più facile rispetto a una normale 26 fino a quando non devo affrontare dei tornantini o tento di alzare la ruota anteriore: qui le dimensioni tornano a farsi sentire e stavolta in negativo. Certo, il senso di immediatezza e di maneggevolezza che offre il diametro inferiore viene compensato dalla stabilità e dalla notevole scorrevolezza che si ottiene sui passaggi tecnici oltre che dalla sensazione più rilassata che si ha stando in sella. La lunghezza del carro, decisamente maggiore rispetto alla mia 26 proprio a causa delle ruote grandi, contribuisce coerentemente alla sensazione di tenuta che si prova ma al contempo rende tutto più grosso e impacciato. In conclusione alla mia uscita, deduco che nel confronto fra la 26 pollici e la 29, la prima riesce meglio proprio là dove la seconda fatica e viceversa.

Riporto le mie sensazioni a Mad Max che mi batte una mano sulla spalla e mi chiede: “Caro Giulio, la vuoi conoscere la soluzione?”. Di fronte al

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ANGOLO DI ATTACCO Incrementando il diametro della ruota, diminuisce l’angolo di attacco. Questo significa affrontare ostacoli più grossi in modo più agevole.

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mio assenso fa cenno di seguirlo e in fondo al suo garage scorgo qualcosa di nuovo: una mb all mountain full suspended nuova di pacca. “È questa la soluzione”, afferma convinto, “la 27 pollici e mezzo”. Non mi azzardo a chiedergli di farmela provare… magari, fra qualche mese. Tornato a casa, mi fiondo su internet e comincio a indagare. In effetti, sembra essere questo l’ultimo asso uscito dalla manica delle aziende costruttrici, la via di mezzo in grado di offrire, soprattutto all’escursionista, un mezzo in grado di coniugare i vantaggi di entrambi i formati liberandoci dal quesito che per tutto il pomeriggio ci siamo posti: sarà meglio la 26 o la 29? Anche perché, almeno a detta loro, “permette una maggiore libertà in fase progettuale, consentendo una più ampia definizione delle quote geometriche”. Insomma, roba da fisici…

Ma, a quanto vo scoprendo in questi mesi, la “natura” della mb sta evolvendo a passi rapidi. Uno degli elementi che stanno cambiando è per esempio l’orizzontale virtuale: in pratica, la distanza che corre fra l’asse del reggisella e l’asse del canotto della forcella, distanza che si sta allungan-

PIÙ TRAZIONE La superficie più ampia del battistrada assicura una migliore trazione rispetto alle ruote più piccole, un maggiore controllo e una frenata migliore

do e da cui dipende il comportamento del mezzo. A ciò è corrisposta, a titolo compensativo, una riduzione notevole della lunghezza delle pipe del manubrio. I vantaggi? Una maggiore stabilità alle andature veloci, più sicurezza nei tratti in pendenza o a gradoni e un rischio inferiore di sollevamento dell’anteriore in salita.

Lo svantaggio resta però quello della maneggevolezza, soprattutto nei passaggi più stretti.

Un’ulteriore innovazione è data dall’abbassamento del movimento centrale: aumentando il diametro delle ruote e sollevando la posizione del “pilota” il baricentro si alza. Ecco allora che, per conservare la stabilità bisogna in qualche modo ricorrere ai ripari abbassando le corone. Risultato? Maggiore stabilità, sensazione di stare davvero attaccati al terreno ma anche il rischio di urtare sassi e radici con i pedali! Insomma, è il solito discorso: tovaglia piccola e tavolo grande. C’è sempre chi resta a bocca asciutta ma intanto la “nostra” vecchia bicicletta cresce, si modifica, trasformandosi sempre più in un mezzo ad altissima efficienza e capace – bontà dei nostri muscoli, s’intende –, di condurci nei luoghi più impervi e meravigliosi.

La domanda della settimana

Ritenete che la decisione della Banca nazionale di svincolare il franco dalla moneta europea creerà dei problemi all’economia cantonale?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 5 febbraio. I risultati appariranno sul numero 7 di Ticinosette.

Al quesito “Alla luce dei recenti tragici fatti di Parigi, ritenete che la satira politica debba porsi dei limiti nella sua funzione critica dei fenomeni sociali, politici e religiosi?” avete risposto:

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Astri ariete Un progetto che sembrava fallito dà all’improvviso risultati inaspettati. Rompete gli schemi! Particolarmente sagaci e lucidi i nati nella prima decade.

toro Grazie a Nettuno potrete vivere delle atmosfere romantiche. Seguite il cuore, Siate più discreti per quanto riguarda la vostra situazione professionale.

gemelli Tentazioni irresistibili. Non si può dire di no… ma utilizzate la testa. Correte comunque il rischio di confondervi le idee. Bene tra il 3 e il 4. Sorprese.

cancro È giunto il momento dell’amore. Fatevi guidare dall’istinto. Fortunate le località in riva al mare o vicino all’acqua. Determinate le seconde decadi.

leone Calo energetico. La retrogradazione di Giove, unita ai buoni aspetti con Urano, porta risultati inaspettati. Fortuna e riconoscimenti professionali.

vergine Con Venere e Nettuno è difficile resistere al richiamo delle emozioni.

Aumento degli appetiti sessuali e del proprio fascino erotico. Bene l’1 e il 2.

bilancia Colpi di fulmine o rotture improvvise.

Situazioni inaspettate in ordine agli aspetti con Plutone e Urano angolari. Bene tra il 3 e il 4 febbraio.

scorpione Momento adatto per dare impulso alla vostra vita sentimentale e darsi alla caccia amorosa. Nettuno favorisce gli incontri per i nati nella prima decade.

sagittario La vita familiare si fa un po’ confusa, soprattutto quando si tratta di riuscire a fare la quadra con il vostro partner. Spese inaspettate per la casa.

capricorno Atmosfere romantiche durante un incontro sociale. Colpi di fulmine o, paradossalmente, rotture improvvise.

Attenzione tra l’1 e il 2 febbraio.

acquario Mercurio transita nel segno in buon aspetto con Saturno. Questo aspetto vi rende sagaci e determinati. Seguite l’intuito. Controllate l’alimentazione.

pesci Ragione o sentimento? A chi la vittoria?

Rinnovamento tra l’1 e il 2. Aggressivi i nati nella seconda decade stimolati da Marte. Scaricatevi con lo sport.

Gioca e vinci con Ticinosette

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 7

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 5 febbraio e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 3 feb. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Orizzontali 1. Dare lustro ai muri • 10. Un malessere da mal di mare • 11. Un combustibile • 12. Esulta per il trionfo • 14. Altare pagano • 15. C’è quel del vero • 16. I confini di Sonvico • 18. Uno detto a Londra • 19.

Spagnoli • 22. Dittongo in baita • 23. Intacca la vite • 24. Parte di dollaro • 26. Nel centro di Roma • 27.

Si orna con candeline • 28. Misure di superficie • 31.

Fiume francese • 32. Medico • 34. Consonanti in liuto • 35. Giaggiolo • 36. Scalda e illumina • 38. Conto Corrente • 39. Al di là del limite • 41. È ai piedi del Gottardo • 45. Indigeni della Nuova Zelanda • 46. Aspri, acidi • 48. Vi sostano i treni • 50. È ghiotto di miele • 51. Hanno l’aureola.

Verticali 1. Causa l’interruzione della partita di calcio • 2. La capitale del Kenya • 3. La indossa il meccanico • 4.

Posto centrale • 5. Gas luminoso • 6. Attraversa Berna • 7. Gara, competizione • 8. Stoffa lucente • 9. Eccessivo, smodato • 13. Il capitello con le volute • 17. Record • 18.

Pari in forca • 20. Informate • 21. Il pronome dell’egoista - 22. Arcipelago dell’America centrale • 25. Epoca • 27.

Grosso camion • 29. Fiaccola • 30. Malattia infantile - 33.

Oriente • 37. Stato USA • 40. I confini di Locarno • 42.

Diana, cantante statunitense • 43. Campicello coltivato • 44. Che mi appartengono • 46. Cortile agreste • 47.

Pari in granito • 49. Zambia e Svezia.

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La soluzione del Concorso apparso il 16 gennaio è:

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CENACOLO Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta sono stati sorteggiati: M.T. Storni, S. Capriasca A. Fieschi, Moleno D. Broggini, Losone Complimenti ai vincitori!

Premi in palio: due carte regalo per le Agenzie viaggi FFS Le Ferrovie Federali Svizzere offrono 2 buoni viaggio per un valore totale di CHF 100.– a 2 fortunati vincitori.

Ulteriori informazioni visitando il portale ffs.ch/agenziaviaggi

Agenzia FFS – un mondo di vacanze alla stazione.

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Potenza innovatrice e tecnologia d’avanguardia.

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La nuova Passat.

Signorile come voi.

Basta salire a bordo per capire cosa significa viaggiare con signorilità. Oltre a distinguersi per il suo aspetto sportivo e il suo generoso abitacolo, la nuova Passat offre in opzione brillanti innovazioni come l’Active Info Display – la prima strumentazione completamente digitale in una Volkswagen. Senza dimenticare altri highlight: ad esempio, sono disponibili sistemi d’assistenza supplementari come l’assistente alla guida negli ingorghi, la visione perimetrale a 360° Area View, oppure i servizi online mobili Car-Net. Già da fr. 31’300.–* presso il vostro partner Volkswagen. Approfittate di un giro di prova per scoprire tutta la signorilità della nuova Passat.

Maggiori informazioni: www.passat.com

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* Passat Berlina 1.4 TSI BMT, 125 CV, cambio manuale a 6 marce, consumo energetico: 5.3 l/100 km, emissioni di CO2: 123 g/km (media di tutte le vetture nuove vendute: 144 g/km), categoria di efficienza energetica: C. Modello raffigurato Passat Variant Highline 2.0 TDI BMT, 150 CV, cambio manuale a 6 marce, incl. equipaggiamento supplementare (esterni R-Line, vernice metallizzata, fari a LED, cerchi in lega leggera da 19", tetto panoramico): fr. 51’320.–. Con riserva di modifiche dei prezzi.

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