ARRIVANO I NOSTRI

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Periodico edito dal "Centro Studi Officina Volturno"

ANNO XIX - NUMERO 217 - MAGGIO 2021

Copertina di Antonello Dell'Omo

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Maggio 2021

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Editoriale

di Antonio Casaccio

Q

uando questa tragedia è iniziata e i morti si contavano a migliaia, l’umanità si è stretta nella speranza che questo dramma, alla fine, potesse unirci come uomini; poteva essere possibile, perché il nemico era unico per tutti e tutti eravamo legati a un medesimo destino. La prima vera crisi del mondo globale aveva bisogno di una risposta globale, di una presa d’atto dell’imprescindibile connessione che esiste tra ogni essere umano, ogni comunità, ogni Paese. Inizialmente ci sono stati dei segnali di una sensibilità diversa, migliore; una vicinanza che si è cantata dai balconi, la solidarietà tra paesi e una reale vicinanza alle popolazioni più in difficoltà. Finalmente l’Etica e la Morale ponevano la salute pubblica come valore superiore a quello del denaro. Ma è durato poco: ancora una volta il danaro ed il potere hanno vinto, le case farmaceutiche hanno pensato unicamente al profitto, creando un vera “asta” dei vaccini da parte di singoli paesi; addirittura i singoli Stati hanno creato il turismo del vaccino (covid-free). Nazioni che hanno approfittato del fatto di essere detentori del brevetto. La pandemia ancora in corso ha rivelato, ancora una volta, che a comandare è il potere dei soldi. L’Europa si è inchinata davanti alle multinazionali dei farmaci, facendosi prendere in giro, umiliandosi per qualche stock di dosi in più; il tutto ovviamente a scapito di qualcun altro.

Un povero più povero dell’altro. Nessuno è più in grado di fermare la deriva del potere delle multinazionali e il dominio incontrastato del turbocapitalismo. L’uomo è ridotto a calcolo, numero, oggetto speculativo, basta che consumi, basta che non pensi e che sia inglobato. Il primato della politica era morto già da tempo, avendo abdicato dinnanzi ai potentati economici. Questa poteva essere la grande occasione per ritrovare equilibri mondiali più solidi e improntati alla solidarietà, alla percezione di essere una sola umanità. Non è andata così. E oggi siamo più divisi, più incazzati, più frammentati che mai. E le disuguaglianze non sono mai state così forti. Questo mondo, così, fa davvero paura. Molto più di un virus. Altro segnale dell’egoismo dei ricchi, che vogliono essere sempre più ricchi, è venuto dal calcio: l’iniziativa di 12 super-club europei, poi miseramente fallita grazie alla reazione immediata dei tifosi scesi in piazza. Anche in questo settore, che seppure ha delle regole da modificare e non tutte condivisibili, il capitalismo sfrenato vincerà e la forbice delle disuguaglianze continuerà ad allargarsi, anche nello sport più popolare del mondo. La nostra Italia, infine, dove 500 sindaci del Sud sono scesi in piazza a Napoli il 25 aprile, per rivendicare la giusta e corretta ripartizione dei fondi del Recovery Plan. Anche se Draghi ha rassicurato il Parlamento, temiamo che continui la diseguaglianza tra Nord e Sud, con furberia e arroganza, a danno sempre dei più deboli. Ancora una volta, poveri tra poveri in guerra. Ringrazio il collega Ettore De Lorenzo per lo spunto di riflessione datomi per questo editoriale.

ANNO XIX - NUMERO 217 - MAGGIO 2021 Periodico mensile fondato nel 2002 Registrato al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n° 678 Edito dal Centro Studi Officina Volturno Presidente Tommaso Morlando

Sede Operativa Piazza delle Feste, 19 Pinetamare - 81030 - Castel Volturno (CE)

Tel: 0823 18 31 649

E-mail: redazione@informareonline.com IBAN: IT 83 V030 6974 8731 0000 0001 835 Direttore Responsabile

Hanno collaborato

Antonio Casaccio

Alessandra Criscuolo Angelo Morlando

Caporedattore

Anna Copertino

Carmelina D'Aniello

Antonio Casaccio

Vicedirettore Web

Chiara Del Prete Chiara Gatti

Daniela Russo

Clara Gesmundo Claudia Tramaglino

Vicedirettore

Marco Cutillo Caporedattore web

Fabio Di Nunno Giorgia Scognamiglio Giuseppe Spada Joel Folda

Donato Di Stasio

Lorenzo La Bella

Rapporti Istituzionali

Luisa Del Prete

Antonio Di Lauro

Marco Cutillo Marco Polli

Responsabile scientifico

Marianna Donaddio

Angelo Morlando

Mariasole Fusco Nicola Iannotta

Responsabile legale

Pasquale Di Sauro

Fabio Russo

Rossella Schender

Graphic Communications

Roberto Sorrentini

Giancarlo Palmese

Silvia De Martino Simone Cerciello

Web master

Teresa Coscia

Nicola Ponticelli

Vittoria Serino

© 2021. È vietata la riproduzione (anche

LEGALITÀ

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«La mia esperienza al servizio della Campania». Intervista all'ass. regionale Mario Morcone.

Guida Editori: la forte risposta per la cultura partenopea. Intervista all’editore Diego Guida

ATTUALITÀ

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L’emotività ha conquistato il mondo. Politica e società al servizio delle emozioni del pubblico.

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«Il terzo settore è un punto di forza reale». L’incontro con la Presidente US ACLI Regione Campania Francesca Dattilo

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COPERTINA

ARRIVANO I NOSTRI

Terra dei fuochi: una nuova caserma dei Vigili del Fuoco per il contrasto ai roghi tossici di Antonio Casaccio e Luisa Del Prete

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el mese di maggio 2021 verrà inaugurata la nuova sede dei Vigili del Fuoco nel Comune di Giugliano, ma che sarà a servizio di tutta la vasta area denominata "Terra dei Fuochi". Un segnale importante per un territorio devastato dai roghi tossici, ma soprattutto un punto di svolta e un grande messaggio per la cittadinanza. Abbiamo intervistato il Comandante provinciale di Napoli dei Vigili del Fuoco Ennio Aquilino che ha sottolineato la dedizione e la passione con la quale svolgono questo lavoro. A questi professionisti del soccorso e al loro impegno nel contrasto ai roghi tossici, e non solo, va il nostro massimo riconoscimento e la copertina del magazine di questo mese. Giugliano è uno dei territori che maggiormente ha sofferto il dramma dei roghi tossici. Quanto è importante questa apertura e cosa significa per Giugliano? «Ho fondato la mia esperienza proprio a Napoli, sul risolvere i due nodi che erano rimasti insoluti da anni: uno di questi era proprio Giugliano. Trovo che per estensione ed importanza del territorio, essendo il trentesimo comune d’Italia per abitanti, era davvero una stortura di sistema il non aver avuto dallo Stato una risposta adeguata; senza considerare l’elemento della “terra dei fuochi” che aggiunge rilevanza al tutto: era qualcosa di inaccettabile. Devo dire che ho trovato terreno fertile nell’amministrazione e questo ha facilitato il perseguimento di un obiettivo che penso fosse un atto dovuto nei confronti dei cittadini di Giugliano. Noi adesso partiremo con la prima “sperimentazione” di quest’idea di dispositivo, ma chiaramente il passo già definito è quello di andare ad un distaccamento permanente e definitivo della sede perché non era pensabile, per indice di rischio e rilevanza del sito. Tutti gli indicatori che noi utilizziamo ci dicevano che “questo matrimonio s’ha da fare” e quindi siamo davvero contenti di questo risultato. Abbiamo fatto un sopralluogo col Direttore Regionale

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Il Comandante Ennio Aquilino e la sua squadra operativa

"Non eroi impavidi, ma professionisti del soccorso per una risposta più concreta alle problematiche dei cittadini" per verificare che tutti gli apprestamenti necessari al corretto funzionamento siano predisposti per poi iniziare l’attività sul territorio che comporterà anche un “servizio di ronda” per i luoghi più a rischio, che noi abbiamo geolocalizzato, proprio per garantire la massima copertura del servizio. È un passo importante e sta andando nel verso giusto». Quando sarà operativa e se, soprattutto, si inizierà già da quest’estate. «Assolutamente, siamo in dirittura d’arrivo per farla partire già da maggio». Operativamente come si svolgerà il ruolo di “Vigile del Fuoco” sul territorio? «In questo momento non abbiamo ancora del personale specificamente dedicato. Facendo un piccolo excursus, parto col dire che la procedura è abbastanza complessa perché nell’ambito degli aumenti di organico, decretati dal governo per il Corpo Nazionale, bisogna individuare per i nuovi distaccamenti il personale che andrà permanentemente a prestare servizio lì. Nel caso di Giugliano si va da 24 a 36 unità

che devono essere individuate con un decreto del Ministro dell’Interno che va a decretare il nuovo distaccamento, ovvero la nuova sede permanente dei Vigili del Fuoco. Nel frattempo, proprio per dare una risposta immediata alla popolazione, siamo riusciti a ricavare, per ora, 14 unità che presteranno servizio nelle ore diurne con orario 8-20 presso la sede di Lago Patria, che, con un accordo, il Comune ci ha messo temporaneamente a disposizione. Intanto è già stata individuata la nuova sede e siamo in fase avanzata con l’Agenzia per i beni confiscati alla mafia, avendo individuato uno stabile che acquisiremo e lì faremo i lavori dove metteremo la nuova sede e le nuove unità. Posso già dare ampie garanzie in questi termini poiché il processo è già avviato da un anno e quindi arriverà la decretazione finale per Giugliano e riusciremo a garantire ai cittadini un servizio 24/h». Non solo Giugliano: il vostro obiettivo è anche quello di coprire comuni e territori limitrofi, giusto? «Assolutamente, il servizio non è mai solo comunale. Attualmente

Giugliano è coperta sia da Pozzuoli che da Scampia. Le nostre sedi, in funzione dell’orografia del territorio, coprono più comuni: da Qualiano a tutta l’area circostante. È chiaro che ha un ambito di competenza territoriale che non si limita al comune, bensì al territorio». Parlando dei “modelli operativi”: il 7 luglio del 2020 c’è stato questo vertice a Napoli per disporre una strategia comune sui roghi tossici... Quali i modelli attuali? «Abbiamo un accordo garantito attraverso la Prefettura che riguarda tutte le Forze dell’Ordine, Vigili del Fuoco compresi, per un presidio d’area più consistente al fine di garantire la sicurezza del territorio. Dall’altra parte c’è un accordo con la Regione proprio per la terra dei fuochi con personale aggiuntivo durante i periodi di massimo rischio, che si va ad aggiungere al dispositivo ordinario. In più, chiaramente, quest’anno andiamo ad aggiungere il presidio 8-20 del distaccamento speciale di Giugliano che è un ulteriore rinforzo del dispositivo comprensivo che abbiamo sul territorio. Il tema è molto attenzionato e si sta cercando di dare una risposta quanto più concreta possibile alla problematica. I nostri dati ci dicono che il fenomeno di livello d’inquinamento del sottosuolo inizia ad essere meno importante su quest’area rispetto ad altre aree del Nord Italia; a volte pensiamo sempre che il Sud sia al centro di tutti i mali, ma le risposte che si sono accumulate negli anni piano piano stanno riportando il fenomeno verso una legalità ed il territorio verso un controllo maggiore. La guardia non va mai abbassata, ma lo sforzo congiunto tra Governo, Prefettura, Forze dell’Ordine tutte, sta dando effettivamente un calo significativo alla problematica. Noi continuiamo e non ci fermiamo». Qual è il rapporto tra Vigili del Fuoco ed il terzo settore? «L’aspetto del volontario è sempre estremamente rilevante; in Italia ha portato al conseguimento di obiettivi significativi e, se oggi ab-


biamo risultati, molto è dovuto ai Comitati Civici che hanno spinto sulla politica locale e nazionale affinché prendesse in carico il problema». Qual è il rapporto con la cittadinanza e come viene gestito il lavoro ogni giorno? «Certamente lo strumento principale per noi rimane il 115 perché è sempre la nostra risposta immediata che ci garantisce un rapporto con il cittadino. Oggi a Napoli sono circa 1200/1300 le richieste che arrivano ogni giorno al nostro centralino e che vengono gestite dai 18 (quasi 19) segni territoriali dei Vigili del Fuoco: insomma, ci siamo. È chiaro che poi va sempre tutto organizzato perché ci sono una serie di operazioni che vanno condotte con una metodica e le risposte a macchia di leopardo non soddisfano un’esigenza complessiva che deve essere garantita». Qui in Italia, ma soprattutto in altri paesi, i Vigili del Fuoco sono considerati degli eroi: gli impavidi che si gettano nelle fiamme per salvare vite umane o per salvare l’ambiente. Cosa l’ha spinta a diventare un Vigile del Fuoco? «Io ho fatto il Comandante per tutt’Italia, avendo modo di lavorare sui piani di gestione in molti comandi provinciali. Successivamente ho iniziato la mia carriera da Comandante e sono stato a Grosseto, Viterbo, L’Aquila, Venezia, Napoli. Inizio ad essere un comandante “di lungo corso” quindi posso sicuramente affermare che: come prima cosa, lascerei da parte l’aspetto dell’eroe impavido per sostituirla con una figura di un “professionista del soccorso”. Quello su cui noi puntiamo tantissimo e che ci accomuna, è dare una risposta di alto livello professionale, impegnandoci con corsi ed aggiornamenti.

Nuova caserma operativa sul Lago Patria

L'incontro al Comune di Giugliano per l'apertura della nuova caserma

Qui a Napoli c’è una professionalità che non è seconda a nessuno, sia per il territorio particolarmente fragile, sia perchè si passa da un’emergenza all’altra continuamente. Fare il Vigile del Fuoco a Napoli deve essere motivo di orgoglio e impegno per la rinascita. Siamo la seconda Scuola Nazionale, dopo Roma Capannelle, ed in questo momento abbiamo tantissimi corsi con personale di rilevanza proprio perché Napoli è considerata un fiore all’occhiello per tutta l’Italia e, da Comandante, posso dire di esserne fiero perché amo tantissimo questa città». Ci sono delle problematiche che lei riscontra negli interventi? Cosa andrebbe migliorato? «Il problema è sempre ciò che ti circonda. Troppo spesso siamo chiamati a sostituire, nei loro

compiti, altri enti, in particolare territoriali, e questo è il tallone d’Achille di questo territorio; molte volte si vede nei Vigili del Fuoco la risposta a tutti i problemi, che vanno dall’abitativo al sociale, e che tendenzialmente non sarebbero un conto strettamente nostro, anche se subentriamo in sostituzione di carenze. Sarebbe importante, invece, l’assoluta condivisione delle problematiche per dare soluzione. Certamente, l’area metropolitana di Napoli non è una realtà semplice, ma proprio per questo necessita dell’utilizzo al meglio delle risorse. Cito una per dirne cento: il problema della Mostra d’Oltremare. Da settembre scorso la sede è chiusa a causa di una diatriba infinita di rimpalli e di responsabilità tra Comune ed Ente che da

40 anni andava avanti. Fortunatamente mi sono un po’ imposto e stiamo andando verso una soluzione anche su questo, perché verrà finalmente acquisito il bene dal Ministero dell’Interno e si potrà ristrutturare la sede e renderla sicura e dignitosa. È un punto di Napoli davvero irrinunciabile. Un’altra nostra perenne richiesta è di avere pari dignità economica rispetto alle altre strutture operative dello Stato, non ci sentiamo migliori, ma nemmeno inferiori... sarebbe importante avere delle risposte su questo punto da chi ci governa». Un messaggio finale che lei lancia alla cittadinanza per quest’estate: questa volta i Vigili del Fuoco a Giugliano ci sono e bisogna segnalare e continuare a denunciare. «Ci sono due cose: in primis i comportamenti poiché ognuno deve pensare che il suo, anche se considerato banale, nel contesto è quello che determina una collettività, quindi la gestione dei rifiuti. Non lasciare mai i rifiuti per strada, perché sono pericolosi sia per la salute che per l’ambiente per gli incendi; avere comportamenti idonei e civili riqualifica e riesalta le più belle città d’Italia. Bisogna ritrovare quell’orgoglio napoletano nella vita di tutti i giorni: saper portare a petto alto la propria identità. Segnalare, avere comportamenti idonei, non pensare che solo l’altro crea il problema, ma anche spingere sulla differenziata, evitare di accendere fuochi non controllati, avere un atteggiamento di rispetto nei confronti di ciò che ci circonda perché aiuta non solo il lavoro dei Vigili del Fuoco, ma anche e soprattutto per vivere meglio tutti quanti. Se devo fare un appello, lo faccio in questa direzione e sono sicuro che i campani sapranno rispondere».

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A TTUALITÀ

di Silvia De Martino

Verso una nuova legislazione per il giornalismo A tu per tu con Carlo Verna, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti

“O

gni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Questo è quanto sancito all’art.19 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. La libertà di parola è un diritto inalienabile ed in quanto tale va tutelato e protetto. Per questo motivo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha decretato il 3 maggio come Giornata mondiale della libertà di stampa. Informare, divulgare il sapere e diffondere le notizie è un diritto per l’uomo, che deve sempre avere la possibilità di conoscere e far conoscere la verità. Il mestiere del giornalista è l’espressione di tale libertà, ma anche nel XXI secolo non mancano i problemi di difesa a questo baluardo. Secondo i dati riportati dall’ONG Reporter Senza Frontiere, infatti, nel 2021 a livello mondiale sono stati uccisi otto giornalisti e quattro assistenti dei media e sono stati imprigionati circa quattrocento giornalisti. Numeri alla mano, in Italia circa 20 reporter sono attualmente sotto la protezione della polizia 24/h a causa di gravi minacce subite da associazioni mafiose. Dati da brividi, se si pensa che l’unico crimine posto in essere da queste persone è quello di affermare un diritto inalienabile. Ma le intimidazioni fisiche non sono le uniche da cui un reporter deve guardarsi le spalle. In Italia vi sono anche diversi problemi di natura

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legislativa che compromettono tale libertà. Per indagarli a fondo abbiamo intervistato Carlo Verna, personalità di spicco del panorama giornalistico partenopeo, Presidente del consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti dal 2017. Ha mai vissuto in prima persona o di riflesso delle situazioni di occlusione della libertà di stampa? «Io personalmente no. Ho avuto la fortuna di lavorare in una grande azienda come la Rai, dove l’unico vero problema è la dipendenza dalla politica. Infatti, come Segretario Nazionale dell’Usigrai – Unione sindacale giornalisti Rai – prima e adesso come Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, contesto i meccanismi di nomina del gruppo dirigente, che dipendono evidentemente dal soggetto controllato. L’informazione è un potere di controllo nella moderna

democrazia ed è curioso che il controllato possa nominare il controllore, come accade con le attuali norme. Dunque, non è che a me sia mancata la libertà, però alle volte non mi sono stati affidati posti di comando in Rai, a causa di un meccanismo per il quale occorre una certa appartenenza. Il giornalista dev’essere persona indipendente e sempre alla ricerca della verità da raccontare ai cittadini per riuscire a concretizzare quel diritto che la Corte costituzionale ha ravvisato come rovescio passivo dell’articolo 21 della Costituzione, ossia il diritto del cittadino ad essere correttamente informato. Nel momento in cui i servizi vengono assegnati dai capi, che sono scelti attraverso questo meccanismo che arriva al controllato, si verifica certamente un limite della nostra libertà». Il filo che separa la voglia di affermare questa libertà e la paura di subire ripercussioni è molto sottile. Secondo lei, nel mestiere del giornalista, quanto spazio si può dare alla paura? È giusto tutelarsi e magari fare un passo indietro in certe situazioni o per il bene dell’informazione bisogna sempre scavare a fondo e trovare la verità anche nel marcio? «Chi ha paura muore sempre due volte. Non è possibile fare questo tipo di professione avendo paura, perché sicuramente lo si farà male. Nonostante ciò, un conto è non avere paura, un altro è non avere prudenza, che sarebbe un er-


rore: anche Falcone sentiva il pentito Buscetta poco alla volta, perché c’era bisogno che tutte le rivelazioni fossero gestibili. All’Osservatorio, che è stato costituito al Viminale e a cui partecipa l’Ordine dei Giornalisti, insieme alla Federazione della Stampa, chi sta dall’altra parte – prima il ministro Minniti, poi il ministro Salvini, che non lo ha mai convocato, ora la Lamorgese, che invece lo ha riunito più volte – ci raccomanda di tenere una condotta che sia sempre corretta e lineare alla funzione informativa che dobbiamo svolgere. Ricordo in particolare il Presidente capo della polizia Franco Gabrielli che affermava la presenza di un filo diretto di tutela, ma consigliava comunque di mantenere un profilo di prudenza, perché assumendo un atteggiamento sfrontato con un soggetto malavitoso, si corrono sicuramente dei rischi che possono essere evitati». Per quel che riguarda il tema delle querele temerarie ai danni dei giornalisti e il fatto che in Italia manchi una legge a tutela di questo abuso, come si pronuncia l’Ordine dei giornalisti? «Come Ordine dei Giornalisti abbiamo sostenuto la proposta del Senatore Primo Di Nicola che ha spinto perché ci fosse un risarcimento per il giornalista chiamato ingiustamente a giudizio. Il punto è questo: il diritto alla reputazione è assolutamente meritevole di tutela, ma non si può fare un’iniziativa ad un giornalista al solo fine di mettergli il bavaglio. Nel momento in cui l’accusa si disvela, non basta assolvere il giornalista perché ha svolto correttamente il proprio lavoro. Dopo essere stato esposto ad offese giudiziarie e perdite di tempo, non è sufficiente ricevere solo una condanna alle spese. Su questo occorre che il legislatore si dia una mossa, altrimenti sulle classifiche della libertà di stampa saremo sempre in basso». Perché si trova così tanta difficoltà in Italia a calendarizzare questa proposta di legge? «Bisognerebbe chiedere a chi si oppone in tutti modi: è andata avanti in commissione, è stata emendata, è stata anche resa più blanda rispetto a quella che era la proposta iniziale. A noi basterebbe il principio: nel momento in cui si arriva al convincimento che l’iniziativa è stata finalizzata a bloccare il racconto e non a tutelare la reputazione, deve essere garantito un risarcimento. Non è possibile che la partita finisca 0-0: con le attuali leggi il giornalista o perde o pareggia».

Ci sono altre battaglie su questo fronte che l’Ordine sta conducendo? «C’è la questione del carcere giornalistico, per cui l’Ordine è costituito davanti alla Corte Costituzionale. Sussiste ancora una pena che prevede la possibilità di incarcerare il giornalista per un errore professionale, dato che il reato di diffamazione ha sempre una natura dolosa. Se si dice una cosa negativa su qualunque soggetto è possibile essere incriminati, ad eccezione data dalla verità dei fatti e dalla rilevanza sociale della cosa che si racconta. Al contrario, se un medico amputa una gamba sbagliata ad un paziente e lo fa per errore, incorre in un reato colposo: è paradossale. Speriamo che questa situazione, sulla quale la Corte Costituzionale si pronuncerà il 22 giugno (se il Parlamento non avrà proposto nel frattempo una nuova legge), venga equilibrata. Un altro problema da risolvere è la diffusa precarietà del mestiere del giornalismo, che pregiudica la libertà di stampa. Se un giornalista viene pa-

No ai meccanismi di appartenenza nella Rai. Il giornalista dev'essere sempre indipendente e alla ricerca della verità

gato 3 o 5 euro a pezzo ed è quindi costretto a farne venti per riuscire a mettere il piatto a tavola, come fa ad analizzare veramente la notizia e a portarla al cittadino in maniera corretta? Non è possibile coniugare un’informazione di qualità con lo sfruttamento di chi è chiamato a produrla». Rispetto al passato, c’è stato qualche passo in avanti in questa direzione? «No, troppe enunciazioni di principio, ma nessuna attenzione alla nuova legislazione per il giornalismo, per la quale mi sto battendo da quando sono Presidente. Purtroppo sono impattato in quattro diversi governi, per cui è anche difficile avere un’interlocuzione. L’unica nella quale confido è la Presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, che attualmente ricopre la carica di Ministro della giustizia nel governo Draghi. Questo mi lascia molto spe-

ranzoso, perché ha capito che il problema non si può risolvere con un meccanismo ON/OFF, ma occorre definire alcuni dettagli. C’è differenza tra uno che compie un semplice errore e uno che incorre in un meccanismo di macchina del fango, per il quale è giusto che ci sia una sanzione, perché si verifica una corruzione della funzione informativa. Ma, nel 95% dei casi si tratta di un giornalista che commette un errore e su questo non è possibile dare una pena detentiva: è contrario a qualsiasi principio di democrazia e di libertà di stampa. Io ho voluto che l’Ordine si costituisse, con l’avvocato napoletano Giuseppe Vitiello, davanti alla Corte costituzionale e questo può essere un punto di partenza per arrivare a discutere questa famosa legislazione per il giornalismo». Secondo lei, l’avvento dei social ha influito positivamente o negativamente sulla libertà di stampa? Nel senso, ha più peso il fatto che chiunque possa esprimere liberamente la propria opinione su piattaforme di diffusione di massa o che questo possa comportare una grave disinformazione? «Ci sono entrambe le cose: quando c’è un cambiamento bisogna metabolizzarlo e saperlo gestire, non ci si può mai opporre. I giornalisti prima avevano la prerogativa di poter parlare da uno a tanti attraverso il giornale, la radio e la televisione, mentre adesso può farlo chiunque. Da un lato, non c’è più la possibilità di una completa omologazione e la tacitazione di alcune tesi, come avveniva, invece, in passato con l’etere limitato e il problema del conflitto di interessi. Dall’altro, però, ci sono talmente tante piattaforme che purtroppo anche persone non qualificate hanno lo spazio per inquinare l’informazione. In quest’ottica, secondo me, il giornalista deve essere ancora più formato e deve agire come medico delle fake news, guarendo l’ecosistema da questi elementi negativi di falsificazione. Oggi c’è la necessità di un soggetto garante come l’Ordine, che curi la formazione e l’accesso alle attività giornalistiche, garantendo in tal modo la comunità». L’Ordine dei giornalisti è quindi mobilitato per la definizione di una nuova legislazione per il giornalismo, che tenga conto di questi problemi che inficiano la libertà di stampa. Se è certamente complesso arginare le minacce fisiche, ciò non vuol dire che non si possa agire in alcun senso per aumentare la portata di questo diritto inalienabile, per il quale non solo i giornalisti, ma anche i fruitori dell’informazione dovrebbero battersi.

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L EGALITÀ

di Antonio Casaccio

«La mia esperienza al servizio della Campania»

L’assessore regionale Mario Morcone parla dei lavori in corso e del rilancio del litorale domitio

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icurezza, Legalità e Immigrazione. No, non sono solo le priorità del litorale domitio bensì rappresentano le deleghe dell’assessore della regione Campania, Mario Morcone. Nel suo background ci sono esperienze professionali di altissimo livello in anni cruciali per il futuro del nostro Bel Paese. L’assessore Morcone, non solo ha creato e guidato per anni l’Agenzia nazionale dei beni confiscati e sequestrati alla mafia, ma è stato Capo Segreteria del Ministro Mancino nel 1992 (gli anni delle stragi di mafia) e Capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno. Insomma, un’esperienza di gran livello sui temi di immigrazione e sicurezza che, oggi, è al servizio della regione Campania. L’assessore Morcone ha visitato la redazione di Informare e non si è sottratto alle tante domande. Qual è la sua visione del litorale domitio? «Sono legato al litorale domitio, oltre che per i tanti ricordi giovanili, per il lavoro che ho svolto al Ministero dell’Interno dal 2006 al 2016. Oggi resta l’amarezza di vedere un territorio che ha perso quella bellezza un tempo, dove a fare da biglietto da visita c’era un mare meraviglioso. Tutto questo è stato compromesso anche dalla nostra incapacità di guidare e governare un flusso migratorio che ha avvelenato questi territori. Comuni come Castel Volturno hanno pagato a caro prezzo questa situazione incontrollata, ma negli ultimi anni, soprattutto grazie al Terzo settore, si sta cercando una risalita sulla quale va tutto il nostro impegno. Dobbiamo riconquistare l’immagine di questo territorio partendo dai percorsi di inclusione dei migranti, seguendo ovviamente le nostre regole».

Dobbiamo riconquistare l’immagine di questo territorio partendo dai percorsi di inclusione

Considerando le deleghe del suo assessorato, Castel Volturno è una priorità? «È assolutamente una priorità. Castel Volturno è già in un punto di risalita, noi in questo momento dobbiamo sostenerla con tutte le nostre forze e la nostra passione. Questo territorio non merita un’immagine di degrado». Come funzionario ha ricoperto incarichi di prim’ordine in periodi difficili per la storia d’Italia. Cosa ricorda di quel passato? «Sul profilo della Sicurezza pubblica ho vissuto due periodi bui, ma professionalmente entusiasman-

ti. Ero un giovane funzionario al Gabinetto del Ministro Scalfaro in Segreteria speciale, durante gli anni del terrorismo; abbiamo vissuto i peggiori attentati degli anni di piombo e di un terrorismo che diventava internazionale a causa dei dirottamenti aerei, ricordo molto bene quelle notti in ufficio. La seconda finestra su questi temi l’ho vissuta da Capo segreteria del Ministro Mancino, durante l’anno delle stragi di mafia, tra le quali quelle di Falcone e Borsellino. Ricordo un altissimo numero di scioglimenti di Consigli comunali per infiltrazioni mafiose, con un’ostruzione evidente dei percorsi democratici». E poi c’è stata l’Agenzia nazionale dei beni confiscati e sequestrati alla mafia. Ha dato vita a questa Agenzia e guidata per oltre 10 anni… «Ho amato tantissimo tale incarico anche perché ho lavorato direttamente e duramente alla sua creazione. Il lavoro per far nascere l’Agenzia, nel 2010, era frenetico a causa delle imminenti elezioni amministrative che purtroppo spingevano per la celere creazione di questo strumento. L’Agenzia, quindi, è nata con una spinta

elettorale dal basso, ma solo dopo la politica ha capito la potenza di quest’arma. Il passaggio dal vecchio Commissario all’Agenzia, con la confisca definitiva di beni e patrimoni molto importanti, ha apportato danni straordinari alla mafia. E io dico che ha fatto danni anche ad una parte politica che non immaginava la potenza di questo strumento». Qual è il ricordo più forte che conserva di questa esperienza? «La Balzana. L’ho presa nell’ottobre del 2010, nel tempo in quei terreni erano state nascoste le armi della camorra. Dopo la bonifica, in una notte particolarmente piovosa, siamo andati a prenderci quei terreni. Quel giorno lo Stato riprendeva in mano quei territori, inutile dire che fu un’emozione davvero speciale. Mi ci sono ritrovato adesso, da assessore, dovendo giocare una partita che francamente non mi piace poiché un po’ ipocrita. Ho l’impressione che in questi territori sia iniziato il campionato per “lo scudetto dell’eroe anticamorra”. Io non partecipo a questa gara, a me interessa aiutare tutti i comuni all’utilizzo e valorizzazione dei beni confiscati». Su cosa sta lavorando attualmente? «La regione Campania sta facendo un tentativo importante che vi anticipo e speriamo davvero possa concretizzarsi. La mia scommessa è quella di far entrare la regione Campania nel consorzio Agrorinasce. Quest’ultimo non sarà più un vero e proprio consorzio bensì una società partecipata dalla regione (in posizione di minoranza). Oltre questo, c’è la necessità di mettere a punto una nuova piattaforma che possa sostenere e indirizzare i sindaci dei comuni che hanno progetti importanti per la valorizzazione dei beni nei loro territori». Maggio 2021

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P OLITICA

La Redazione

«Completare il ciclo integrato dei rifiuti»

Il capogruppo della Lega in Campania Zinzi tuona contro De Luca

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ianpiero Zinzi, capogruppo Lega in Consiglio regionale della Campania e Presidente II commissione speciale Anticamorra, ha fatto visita alla nostra redazione per una lunga intervista. Al centro i temi ambientali, rifiuti e la visione della Lega sullo stato del litorale domitio, tra conseguenze dirette e cose da fare. Tra i temi toccati anche quello inerente Domenico Giancotti, fino a metà aprile rappresentante della Lega a Castel Volturno (dimessosi e sostituito da Salvatore Mastroianni N.d.R.) che era presente in diverse indagini anticamorra. Il Sud porta ancora addosso i segni delle tante invettive antimeridionali della Lega Nord. Cosa ci fa in questo partito? «La Lega Nord associata alla Lega è come associare il PCI al PD. Tempo fa, essendo ragazzo del Sud e meridionale convinto, di certo non avrei militato tra le file della Lega Nord. Il partito ideato da Salvini è, invece, un sindacato di territorio ed è proprio così che io interpreto l’attuale Lega. Io svolgo un lavoro di rappresentanza del territorio, battendomi per la sua salvaguardia e provando a vincere le “partite” cruciali della provincia di Caserta». Qual è l’impegno della Lega per il contrasto ai roghi tossici? «La “Terra dei fuochi” è un tema ambientale primario che è diventato il cavallo di battaglia della Lega al Sud. Bisogna lavorare per costruire una nuova sensibilità ambientale. È sempre passata l’idea che unicamente nel centrosinistra ci fosse una prospettiva ecologica, mentre il centrodestra era la coalizione dei “palazzinari” che non avevano amore per il nostro ambiente. Oggi la sensibilità ecologica è parte integrante del pensiero liberale, ciò lo si può vedere chiaramente nell’impegno di tanti amministratori di centrodestra. Ritengo che a livello nazionale ci sia una filiera importante che può dare un con-

STUDIO LEGALE RUSSO

tributo importante al nostro territorio». Qual è la sua idea sul ciclo dei rifiuti e quali sono i limiti della Campania? «Siamo favorevoli al completamento del ciclo integrato dei rifiuti: è necessario che una regione si renda autonoma. De Luca ha approvato un piano rifiuti totalmente sconnesso nato per raggiungere l’obiettivo del 65% di differenziata, che doveva giustificare la mancata programmazione di realizzazione di impiantistica. Questi impianti finali di ultima generazione ci danno la possibilità di completare il ciclo integrale dei rifiuti, ma al momento la regione spende milioni di euro per portare i nostri rifiuti all’estero (vedi lo scandalo Tunisia). Grazie a queste inefficienze i cittadini campani pagano le tasse sui rifiuti più elevate d’Italia. La Campania ha chiaramente bisogno di un nuovo impianto, oltre quello di Acerra, e dato che i nostri territori hanno già abbondantemente dato sarebbe interessante l’ipotesi di una costruzione nel salernitano». Sulla rimozione delle ecoballe qual è il punto? «Nel 2016, a Taverna del Re, De Luca e Renzi promettevano di liberare la Campania dal 100% delle ecoballe entro 3 anni. Ad oggi è stata liberata del 16% delle ecoballe, interrogato da me sul tema l’Assessore regionale all’ambiente Fulvio Bonavitacola mi rispondeva dicendo che nel 2019 hanno completato il procedimento bu-

rocratico. Quindi, ci volevano 3 anni per l’iter burocratico non per liberare finalmente la nostra terra dalle ecoballe! Per cambiare questo territorio ci vuole una volontà che De Luca non ha». Il litorale domitio nel frattempo resta abbandonato a sé stesso… «Parliamo con convinzione della bellezza e delle potenzialità del litorale domitio. Ci sono stati grandi opportunità per questo territorio, ma purtroppo ci sono stati finanziamenti persi o non capitalizzati. Dobbiamo dire che questo è il frutto di una chiara volontà politica che si muove in chiave “Salernocentrica”, in cui il litorale domitio è identificato come un pezzo residuale nelle politiche della regione Campania. De Luca nel 2015 raccontava di voler trasformare questo litorale in una nuova riviera romagnola, con la differenza che noi abbiamo un mare bellissimo e giornate di sole molto più frequenti. Dopo 6 anni non abbiamo visto nessun risultato, erano promesse di campagna elettorale per un modello che, non solo era fallimentare, ma che non è neanche esistito!» Il sindaco di Castel Volturno Luigi Petrella ha dichiarato che il rappresentante (non eletto N.d.r.) della Lega a Castel Volturno è tale Domenico Giancotti, presente in diverse indagini antimafia sul territorio. Dopo la nostra inchiesta su questo tema cosa risponde? «Per me parla la mia storia e il mio impegno, i miei princìpi restano fedeli al valore della legalità e la scelta della Lega va in questa direzione. Dopo aver letto il vostro articolo ho aperto una riflessione con me stesso ed è il motivo per il quale rappresenterò ai vertici del mio partito il problema che avete segnalato». N.d.R. Dopo l’intervista, precisamente il 16 aprile, Giancotti si è dimesso da rappresentante della Lega a causa di “motivi strettamente personali”.

Avv. Fabio Russo Penalista - Foro di S. Maria C. V.

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C ASTEL VOLTURNO

di Angelo Morlando

Per l’approvazione del P.U.C. ancora tanti passaggi, ma soprattutto ancora tante lacune

Nell'ultimo atto della giunta comunale di Castel Volturno non c'è alcun indirizzo tecnico e politico

È

stata recentemente pubblicata sul sito istituzionale del Comune di Castel Volturno, il verbale di deliberazione della giunta comunale n° 26 del 07.04.2021, avente per oggetto: “P.U.C. piano urbanistico comunale – atto di indirizzo e nomina progettista”. È giusto ricordare che abbiamo sempre presentato note critiche ai precedenti redigendi P.U.C. degli ultimi 20 anni e quasi sicuramente ci abbiamo visto giusto, perché proprio grazie anche alle nostre note, i precedenti P.U.C. sono stati bocciati. Già da qualche anno è in corso l’iter per giungere all’approvazione da parte del consiglio comunale del P.U.C. e della Valutazione Ambientale Strategica (VAS). In data 18.11.2017 presentammo le nostre note/osservazioni sul preliminare di piano (PdP) che sono rimaste inascoltate. In tutto il preliminare di piano, approvato con deliberazione di giunta comunale n° 35 del 20.04.2018 (disponibile sul sito dedicato: (www. puccastelvolturno.it), non c’è un solo riferimento alle discariche, Bortolotto e So.Ge.Ri. Non c’è uno studio, anche di massima, sulle forniture idropotabili; non c’è un cenno alla necessità di un sistema di monitoraggio di tutte le componenti ambientali. Dopo circa 4 anni, sono state deliberate le linee di indirizzo per il PUC coerenti (???) con le “Linee programmatiche e indirizzi generali di governo 2019-2024” prece-

dentemente approvate con delibera di Consiglio Comunale n. 44/2019. Un documento che necessitava di un maggiore approfondimento e di maggiore competenza. Sfortunatamente ne esce fuori una paginetta dai contenuti sarcasticamente “memorabili”: “riportare all’antico splendore le zone litoranee del territorio castellano” “piantumazione di alberature idonee su tutte le strade principali (e non)”. “l’Uomo al centro dell’azione amministrativa…” E non dimentichiamo il “Centro Storico” e “il Castello”, citati per ben 9 volte in appena poche righe. Eppure Castel Volturno si estende per circa 27 chilometri di costa con molteplici località, ma l’indirizzo politico, per l’attuale giunta del Comune di Castel Volturno, sembra favorire solo il Centro Storico e il Castello. Si doveva fare meglio. Nel verbale è stato inserito un grafico dell’iter procedurale, ma sarebbe stato utile capire dove siamo e quanto tempo ci vorrà per concluderlo, visto che qualcosa è stato scritto nello stesso verbale. Ovviamente, non c’è alcun riferimento alle priorità, quali le infrastrutture inerenti al servizio idrico integrato ovvero l’individuazione delle discariche So.Ge. Ri e Bortolotto che, ancora una volta, non sono menzionate. Nemmeno nel rapporto preliminare ambientale, la cosiddet-

ta fase di scooping. Manca ovviamente qualsiasi riferimento alla filiera idropotabile, pertanto, sono sinceramente curioso di capire da dove prenderemo l’acqua potabile laddove effettivamente riuscissimo a divenire 40/50 mila residenti effettivi. Da oltre due anni è stato inaugurato un nuovo serbatoio idrico in località Monteleone: qualcuno si sta interessando presso la Regione Campania? Nel progetto originario, a Castel Volturno erano destinate diverse decine di litri al secondo di acqua potabile: siamo sicuri che tutta l’acqua non si fermerà alla nuova base NATO di Lago Patria? Non c’è un cenno al sistema di collegamento extra-comunale, cioè quando avverrà la messa in funzione dei due ponti. Non c’è un minimo riferimento alla protezione e difesa delle coste. Non c’è un’idea su cosa fare dell’enorme patrimonio immobiliare ormai disabitato e decadente.

Semplicemente non ci sono idee e pertanto non c’è un indirizzo tecnico, tantomeno politico. Non c’è un indirizzo: in verità manca proprio anche il numero civico. *sulla testata web di Informare sarà pubblicato l’articolo completo con tutti gli allegati Maggio 2021

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M EDICINA

di Vittoria Serino

«Il modello del SSN non è più sostenibile» Le riflessioni del dott. Sparano, segretario Fimmg della provincia di Napoli

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l 23 dicembre 1978, con la legge n. 833, fu istituito il Servizio sanitario nazionale (SSN) finalizzato al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali. Contestualmente nacque la figura del “medico di fiducia”, attraverso il diritto della persona alla libera scelta sia del medico che del luogo di cura. Di qui la spontanea difficoltà a comprendere come si concilia questo diritto con la creazione di appositi hub vaccinali ontologicamente estranei al vincolo di fiducia che lega il paziente alla medicina generale. Le nuove dinamiche che si stanno innervando portano a delegare di fatto la somministrazione del vaccino a medici che, per esigenze di celerità e funzionalità, sono impediti a tenere adeguatamente in debito conto il patrimonio di informazioni e documentazioni relativi allo stato di salute del vaccinando, patrimonio maturato e acquisito nel corso di un più che decennale rapporto instaurato con il medico di famiglia. II dottore Luigi Sparano, medico di medicina generale e segretario provinciale di Napoli Fimmg (federazione Italiana medici di medicina generale), ha cercato di fornirci un’analisi più dettagliata della questione in esame. «Il medico di famiglia ha le facoltà e i mezzi necessari per affrontare e curare la malattia in quanto

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è l’unico che può conoscere la “storia” del paziente. Un vero e proprio antropologo che prende in carico la persona e impara a conoscere tutte le espressioni delle malattie nell’arco della vita perché rispetto agli altri medici gode di un vantaggio: il tempo». Ha trovato difficoltà ad “educare” i suoi pazienti alla necessità della vaccinazione? «Nonostante il forte rapporto di fiducia instaurato con il paziente nel corso temporale, i medici stanno incontrando non poche difficoltà nel sedare il panico generale scaturito da un’informazione mediatica confusa e controproducente, che genera convinzioni errate difficili da sradicare. I vaccini, sono tutti sicuri ma sono stati stigmatizzati perché le logiche della loro distribuzione si sono rivelate fallaci. L’errore principale sta nel fatto che, in un primo periodo, i vaccini sono stati consegnati a strutture e centri multifunzionali che se da un lato

hanno raccolto il maggior numero di persone possibile, dall’altro hanno reso la vaccinazione un puro atto prestazionale, freddo che non tiene conto dello stato di salute del paziente in quel momento, esponendolo inevitabilmente a dei rischi. Un medico di famiglia invece convocherebbe il paziente solo quando esso si trova nello stato di salute migliore per la somministrazione del vaccino, così da limitare al più possibile i danni legati non tanto al vaccino in sé quanto a una condizione di salute in quel momento precaria». Qual è il valore che attribuisce in questo momento alla vaccinazione? «La vaccinazione è prima di tutto un atto fiduciario e tutto ciò che sta dietro l’esecuzione di quest’ultima è una conoscenza specifica che solo il medico di famiglia può avere, perché presuppone la conoscenza del paziente. Se si distrugge questo paradigma, si distrugge anche il sistema dei vaccini. La partita dunque si vin-

ce negli studi medici, grazie alla medicina di prossimità che, paradossalmente, resta forte nei territori che presentano ancora disagi. D’altronde, il ruolo del medico è fondamentale anche per questo: mantiene l’equilibrio sociale sul territorio, abbattendo le disuguaglianze». Oggi ritiene che sia ancora sostenibile il modello del SSN? «Questo modello non è più sostenibile come un tempo a causa dell’aumento della spesa sanitaria (circa 111 miliardi l’anno): la conseguenza più evidente di un invecchiamento costante della popolazione che diventa sempre più malata. A ciò si aggiunge la prospettiva che nei prossimi tre anni la medicina generale vedrà una diminuzione del 70% dei suoi professionisti in seguito ai numerosi pensionamenti che la vedranno protagonista, ma con una sostituzione che oscilla soltanto tra il 35 e il 40%. Uno scompenso decisamente allarmante, ma che è maggiore soprattutto nelle aree del Nord Italia, una realtà caratterizzata da un’eccellenza sanitaria di secondo e terzo livello ma del tutto carente nel primo». Non sorprende dunque come la Lombardia abbia pagato le conseguenze di ciò durante l’emergenza pandemica, perché «il COVID è una battaglia che si vince sul territorio, ma se mancano i medici di prossimità quella battaglia è persa in partenza».


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A TTUALITÀ

di Giorgia Scognamiglio

“Lavoro o famiglia?” La scelta che ci allontana dall’uguaglianza di genere

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fido a trovare una donna che non abbia mai ricevuto la fatidica domanda: “lavoro o famiglia?”. In Italia, il 65% delle donne fra i 25 e i 49 con figli piccoli non lavora, una donna occupata su tre ha un impiego part time e una donna su quattro lascia il lavoro per cause familiari. Il che non dovrebbe meravigliare affatto, considerando che oltre la metà degli italiani è d’accordo nell’affermare che «il ruolo primario della donna è occuparsi della cura della casa e dei figli» (Eurobarometro) e che «può essere opportuno che una donna sacrifichi parte del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi alla famiglia» (Censis). Due percorsi paralleli, spesso incompatibili, in un modello di società che non ha saputo stare al passo. Ma di chi è la colpa? Ne abbiamo parlato con Chiara Saraceno, una delle sociologhe italiane di maggior fama, conosciuta per i suoi studi su famiglia, genere e politiche sociali. Nel 2020 si è registrato un nuovo minimo storico di nascite in Italia. Spesso, la responsabilità viene attribuita all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. «Fino agli anni ’80/’90 del secolo scorso se confrontavamo il tasso di fecondità dei Paesi ad alto tasso di occupazione femminile (come quelli nordici) e a basso tasso di occupazione femminile (come l’Italia), la fecondità era più alta nei secondi. Oggi c’è stato un rovesciamento. In un contesto di bassa fecondità generale, sono le società che si sono attrezzate a questa novità, con più servizi e maggiore parità nella divisione del lavoro di cura, quelle in cui si può “fare” con più agio. Per sostenere le scelte di fecondità, che devono essere libere, dobbiamo riconoscere che chi fa figli ha un costo in più e lo sostiene per la collettività, ma anche

sostenere la possibilità delle donne di restare nel mercato del lavoro, per proteggersi contro la povertà». Anche se negli ultimi anni la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, specie tra le nuove generazioni, si è avvicinata ai livelli europei, l’Italia continua a presentare i più elevati tassi di inattività femminile. Soprattutto per le donne con carichi familiari, bassi tassi di istruzione e residenti nel Mezzogiorno, dove l’offerta di servizi carente fa della famiglia il pilastro principale, forse l’unico, dell’assistenza. «L’organizzazione del lavoro non è family-friendly, la divisione delle cure non esiste e i servizi mancano, soprattutto per la prima infanzia. Comparativamente con gli altri paesi siamo abbastanza messi bene, con un livello di copertura elevato nella scuola per l’infanzia, ma nel Mezzogiorno la maggior parte delle scuole è a tempo parziale, senza mensa e solo la mattina. Per i bambini tra 0 e 3 anni, invece, c’è pochissimo e in modo molto diseguale sul territorio (n.d.a per gli asili nido, la copertura della domanda è del 3% in Calabria e 29% in Emilia-Romagna). La copertura è del 23-24%, ma il pubblico da solo non arriva al 13%. Questo significa che al nido vanno i figli dei ceti medio-alti, il che crea problemi non solo alla conciliazione ma alle diseguaglianze tra bambini». Si parla sempre di politiche di conciliazione come strumento di pari opportunità e promozione del lavoro femminile, quasi legittimando un modello culturale (e familiare) in cui è solo la donna ad avere le responsabilità di cura. «La questione della conciliazione è sì cruciale per le donne ma le discriminazioni, la divisione dei compiti in famiglia, i problemi che le donne

Chiara Saraceno

incontrano nell’accedere al mercato del lavoro, nella politica o nell’essere riconosciute nelle loro competenze prescindono da questa. Puntare solo sul problema degli asili nido e sul persuadere le ragazze a specializzarsi nelle materie scientifiche cancella tutto ciò che avviene poi». Siamo andati verso la “mascolinizzazione” della vita femminile, per come concepita dal modello occidentale, ma facciamo fatica a realizzare il contrario. Un tentativo in questa direzione è il congedo parentale per gli uomini. I dati, però, mostrano come la maggior parte dei padri sia restìa a richiederlo. «Dal punto di vista formale abbiamo sia il congedo di paternità che il congedo genitoriale con una quota riservata a entrambi i genitori. Ma il fatto è che il padre prende il congedo solo quando la mamma non è lì. C’è un 5060% della popolazione, maschi e femmine, che ritiene che gli uomini non siano adatti alla cura. Siamo in un Paese in cui si dice che il bambino soffre se la mamma lavora e in cui un padre accudente è chiamato “mammo” in modo un po’ dispregiativo. Così come le mamme che vanno a lavorare hanno dovuto superare delle resistenze culturali, anche i padri devono farlo. Ma devono anche essere incentivati, visto che di solito, aimè, il reddito dei padri è più alto di quello delle madri e con una riduzione così grossa (c.d.a il congedo genitoriale in Italia è pagato solo per il 30%) bisogna essere anche un po’ masochisti oltre ad avere un certo modello culturale. I figli non sono solo delle mamme ma anche dei papà, non solo dal punto di vista del reddito ma anche della cura e questo va pensato».

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A TTUALITÀ

di Silvia De Martino

«Sono fatto di mille colori» Una storia contro le discriminazioni

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incenzo Tedesco è un influencer campano classe ’97 che ha spopolato sul mondo di YouTube grazie alla sua ironia e ad un immancabile sorriso. La sua vita, però, non è stata sempre rose e fiori, anzi. Nel suo libro “Proud of me – Ditemelo adesso che sono sbagliato”, Vincenzo racconta la sua storia: la storia di ragazzo che si è fortificato, facendosi strada tra le discriminazioni e le insicurezze, trovando il coraggio di emergere sul web. “Non sarei arrivato dove sono senza la mia paura: è grazie a lei che ho scoperto di essere coraggioso”. Si dice che la vita è il 10% ciò che ti accade e il 90% come reagisci: si può dire che quello che sei adesso è il risultato del tuo coraggio e della tua reazione, piuttosto che di ciò che ti hanno fatto? «Assolutamente sì. Alla fine del libro, infatti, ringrazio tutte le persone che mi hanno fatto vivere momenti in cui ho dovuto inevitabilmente trovare la forza per reagire, perché senza di loro o senza tutto ciò che mi è accaduto, credo che non sarei quello che sono adesso. Ad oggi mi rendo conto che mi hanno fortificato e dato coraggio e voglia di affrontare qualsiasi cosa». Spesso si tende a sminuire i problemi dei giovani: quanto è delicata, invece, la fase adolescenziale? Nella tua situazione personale, avresti avuto bisogno di qualcuno che ti stesse vicino? «Io credo che tutti vivano a pieno la fase adolescenziale, chi in modo più leggero, chi più pesante. Quando sei piccolo, e quindi inesperto, un problema grande ti sembra enorme e a quel punto sta tutto nel come reagisci. Non so se mi avrebbe aiutato qualcuno che capisse le mie sofferenze, però sicuramente il protagonista di Glee lo ha fatto. Per me era come se fosse reale: nessuno mi capiva e lui è stato come un

migliore amico». Libertà di esprimere sé stessi: la chiave di lettura principale del tuo libro, dei tuoi video e della tua esperienza di vita. Credi che con ciò che fai puoi aiutare qualche ragazzo che sta affrontando le stesse situazioni che hai vissuto tu? «Agli eventi è successo che sono saliti sul palco ragazzini che mi hanno ringraziato per aver trovato la forza di fare coming out, di lottare contro un bullo o di sorridere nonostante i brutti momenti. Mi hanno detto talmente tante cose, che ho capito di avere questo “potere”. Si sogna sempre di avere un superpotere come i supereroi e io ho scoperto di avere questo: senza rendermene conto, con una risata, riesco a

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far stare bene anche gli altri». Nel libro c’è un tono ironico ricorrente che tende un po’ a attenuare argomenti impegnativi. Quanto è importante l’ironia nella tua vita? E quanto ti ha aiutato contro gli atti di bullismo? «Mi ha aiutato tantissimo, perché prendendomi in giro da solo, non soffrivo più come prima quando lo faceva qualcun altro. Nel libro l’ironia è stata una chiave che ho voluto inserire. Ho avuto una persona, Alessandra, che mi ha aiutato a scrivere e mi sono reso conto che a volte toccavamo argomenti pesanti e volevo far capire che nonostante le difficoltà, ora sono in grado di riderci sopra e di trovare il lato positivo». Citando il libro, l’omosessualità è stata la ciliegina sulla torta tra le varie cause di discriminazioni che già subivi. Effettivamente questo non è l’unico argomento che affronti. «Infatti, le persone pensano che in questo libro si parli unicamente di omosessualità, ma in realtà è solo uno dei temi. Il messaggio che voglio mandare è che ho ricevuto discriminazioni di ogni tipo, come le ricevono tante persone, e vorrei che questo libro fosse rivolto a tutti». Il coming out alla tua famiglia: quanto è stato importante il loro sostegno? «È stato fondamentale, anche se avevano paura che mi esponessi per le persone che potevano farmi del male. Gli ho fatto capire, però, che non volevo vivere con la paura in un mondo in cui non potevo essere me stesso, preferivo rischiare ed essere libero di esprimere ciò che sono». In “Proud of me” si legge la storia di un ragazzo che è riuscito ad imporre al mondo tutte le sue sfumature, nonostante le difficoltà. La verità, però, è che non dovrebbero sussistere così tanti ostacoli alla libertà di esprimere sé stessi, che, come diritto umano, dovrebbe essere garantita a tutti.

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A TTUALITÀ

di Pasquale Di Sauro

MACELLAZIONE: TRA VERGOGNA E ORRORE Giulia Innocenzi e il suo viaggio negli allevamenti intensivi

L’

inchiesta di Giulia Innocenzi ha puntato i riflettori sull’invisibile catena alimentare industriale. Tutto denunciato nel suo libro “Tritacarne” e mostrato nei reportage di “Animali come noi”, programma da lei condotto, in onda su Rai 2 nel 2017. Giornalista, scrittrice, conduttrice tv, oggi a “Le Iene”, invita a riflettere sul tema poco conosciuto degli allevamenti intensivi. Cos’è un allevamento intensivo? «Un’invenzione americana che serve a contenere tanti animali in capannoni chiusi, farli ingrassare velocemente per mandarli al macello. Non esiste una definizione legale, questo aiuta l’industria zootecnica che addirittura è arrivata a negarne l’esistenza. In Italia il 90% della carne e del formaggio viene da questi luoghi che io definisco tortura legalizzata nei confronti degli animali. Vengono negate loro le condizioni naturali, imbottiti di antibiotici per farli sopravvivere». Quali sono i danni? «Sono responsabili di circa un quarto delle emissioni di gas serra. L’ONU raccomanda un passaggio a una dieta vegetale per fermare il cambiamento climatico. Nessun politico ha il coraggio di dire ai cittadini di mangiare meno carne, continuando a comprarla autorizziamo l’apertura di nuovi allevamenti intensivi. Produciamo il 105% di carne di pollo rispetto al fabbisogno nazionale, più che aprirli dovremmo abolire quelli esistenti». L’uccisione degli animali avviene nascosta al nostro sguardo. «Tolstoj disse che se i macelli avessero avuto le pareti di vetro probabilmente saremmo tutti vegetariani. Le pubblicità mostrano animali felici che pascolano, è finzione. La realtà è fatta di sofferenze, la macellazione è un luogo terri-

bile. Per legge è previsto lo stordimento che in molti casi è inefficace, gli animali sono coscienti quando vengono dissanguati. Il problema è anche per gli operai, in provincia di Mantova, macellano quattrocento maiali l’ora. Immaginate la vita di un uomo addetto a smembrare tutte quelle carcasse». Al supermercato l’unica informazione del prodotto è il suo prezzo. «Il consumatore cerca la convenienza. Con i 5 Stelle presentammo una proposta per l’etichettatura obbligatoria dei metodi di produzione, dichiarare se il prodotto viene da allevamento intensivo, ma chiaramente una legge del genere non passerà mai. Dovremmo dire che il prosciutto di Parma o il San Daniele, la Grana Padano o il Parmigiano vengono da quei posti. Non lo permetterebbero». Quali sono i costi invisibili della nostra cena? «Dai report, i costi della carne in Italia sono, in un anno, trentasei miliardi di euro in termini di salute e ambiente. Per quanta carne si consuma meno si vive. Malattie cardiovascolari, diabete, obesità. Un vegetariano è in media tra i cinque e i dieci kili in meno degli onnivori». Il biologico è un’alternativa?

«No. Prendiamo l’esempio del latte biologico. La sua produzione non prevede l’obbligo di pascolo delle vacche. Per legge vivono esattamente nelle condizioni di un allevamento intensivo con la differenza che non mangiano OGM. È un male minore, non la soluzione. Chi controlla poi sono gli enti pagati dal consorzio biologico stesso, questo invalida le verifiche». Il Ministro Cingolani ha invitato i cittadini a limitare il consumo di carne. Il sistema industriale può cambiare con l’intervento delle istituzioni? «Il cambiamento è partito dai cittadini con le scelte diverse al supermercato. Queste arrivano all’economia ed è allora che deve intervenire la politica. Quando Cingolani ha fatto quella dichiarazione, l’industria zootecnica lo ha assalito. Gli auguro di tenere botta, se sei Ministro della transizione ecologica il consumo di carne è uno degli aspetti da cui devi partire». Per le tue inchieste, sei arrivata nelle campagne casertane. «Sono venuta a Casal di Principe alla ricerca dei bufalini maschi, le vittime dell’industria della mozzarella di bufala. Sono considerati inutili perché non fanno latte quindi vengono uccisi, lasciati morire di fame, buttati nei fiumi, per evitare costi di mantenimento. Cercavo una carcassa, mi ci è voluto poco per trovarla. Scoperta dall’allevatore, dopo avermi intimato di spegnere la telecamera, ammise le sue colpe. Riuscii a documentare mandando i filmati in onda su Rai 2. Chiusero l’allevamento illegale per due settimane, poi riaperto. In Italia le leggi sono deboli». Mangiare carne è un atto di dubbia moralità? «Di egoismo. Invito tutti a informarsi per poi fare le proprie scelte».

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Too Good To Go Un'app per ridurre i tanti sprechi alimentari

di Marco Polli

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ulla Terra sono oltre 820 milioni le persone che soffrono la fame. Il paradosso è che, secondo i dati raccolti dalla Food and Agriculture Organization (FAO), ogni anno quasi 1/3 del cibo prodotto viene perduto o sprecato. Si tratta di circa 1,3 miliardi di tonnellate. Come agire nel concreto? Too Good To Go è una delle risposte. Si tratta dell’app anti-spreco, nata in Danimarca nel 2015, che permette di collegare utenti ed attività commerciali che hanno cibo invenduto o in eccesso. Ne abbiamo parlato con Pierluigi Simmini, Area Manager del Centro e Sud Italia. Too Good To Go è attiva in Italia dal 2019. Qual è stata la risposta all’arrivo dell’app nel nostro Paese? «Abbiamo iniziato creando una rete di commercianti e utenti nelle principali città italiane, da Nord a Sud. In un primo momento ci siamo dovuti confrontare con uno scetticismo generale, specialmente da parte dei negozianti: non appena hanno compreso la mission di Too Good To Go, hanno deciso di affidarsi all’app e si sono resi conto di quanto sia intuitiva da usare e capace effettivamente di adattarsi a quanto invenduto c’è giornalmente. Anche per i consumatori l’elemento semplicità, oltre che l’effetto sorpresa, fa la differenza: con pochi veloci click possono scaricare gratuitamente l’app, geolocalizzarsi per trovare i negozi nelle vicinanze e acquistare la propria Magic Box, un sacchetto di prodotti invenduti che potrà essere ritirato nella fascia oraria indicata dal negoziante. A due anni di attività il riscontro è davvero molto positivo, siamo ormai arrivati ufficialmente in più di 50 città italiane, con oltre 10.000 esercizi commerciali aderenti all’iniziativa e 3 milioni e mezzo di utenti registrati. In Campania al momento siamo attivi su Napoli, città

che abbiamo lanciato ufficialmente a novembre 2019. Sul territorio contiamo oltre 700 negozi, tra pasticcerie, panifici, caffetterie, ristoranti e supermercati, e grazie ai nostri utenti solo in questa regione siamo riusciti a salvare circa 50.000 Magic Box». Vi occupate anche di divulgazione e sensibilizzazione. Quanto è importante proporre idee per spingere le persone ad agire concretamente? «Per noi è fondamentale informare e sensibilizzare tutti sulla tematica dello spreco alimentare, perché siamo convinti che ognuno nel proprio piccolo possa davvero fare la differenza. Per questa ragione, oltre al nostro core business, abbiamo integrato un reparto “Movement” - Movimento contro lo spreco alimentare, un dipartimento interno a Too

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Good To Go che si fa promotore di iniziative e campagne anti-spreco a tutto tondo, lungo la filiera e verso i consumatori, per accrescere la consapevolezza su questa problematica. In più, proprio perché il 53% dello spreco alimentare avviene tra le mura domestiche, cerchiamo sempre di offrire ai nostri utenti consigli utili anti-spreco». Too Good to Go ha lo stesso scopo di tante associazioni benefiche: ci sono delle collaborazioni? «L’iniziativa abbraccia il contrasto allo spreco a 360°, anche grazie ad azioni di sensibilizzazione e informazione per evitare lo spreco domestico e in contesti come le scuole, dove si formano i waste warriors del futuro. Le collaborazioni con il terzo settore sono quindi altrettanto fondamentali: abbiamo inserito una modalità sull’app per permettere di effettuare donazioni dirette e a stiamo portando avanti una partnership con Croce Rossa Italiana all’interno del nostro progetto di Patto contro lo Spreco Alimentare». La lotta allo spreco alimentare è presente nel dibattito pubblico da diverso tempo e le persone sembrano aver preso coscienza della sua importanza: si iniziano a vedere i risultati? «Sì, effettivamente l’Italia, insieme alla Francia, è uno dei due Paesi dell’Unione che ha una vera e propria legge che cerca di combattere gli sprechi, non solo alimentari: la legge Gadda 166/16. Oggi sicuramente c’è molta più consapevolezza e sensibilità circa le implicazioni sociali, economiche e ambientali che lo spreco alimentare comporta ed è per questo che il tema viene percepito ora come una vera problematica da affrontare. La strada rimane comunque ancora molto lunga ed è necessario l’impegno costante da parte di tutti per raggiungere modelli più virtuosi capaci di rispettare le esigenze del pianeta, oltre che della società».

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SPECIALE

di Antonio Casaccio

L’EMOTIVITÀ HA CONQUISTATO IL MONDO Politica e società al servizio delle emozioni del pubblico, lo spiega il professor Davies della Goldsmiths University in un’intervista esclusiva

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rofessore di Politica Economica alla Goldsmiths University of London, William Davies è uno dei sociologi moderni maggiormente apprezzati per i suoi studi sull’analisi dell’attuale società, le sue contraddizioni e i suoi aspetti narcotizzanti. Oltre a collaborare con testate giornalistiche di prim’ordine, come il Guardian, il professor Davies è autore di numerosi saggi, tra i quali “Stati nervosi: come l’emotività ha conquistato il mondo” edito da Einaudi e pubblicato nel 2019. Un vero e proprio spaccato sull’attuale realtà politica, di un elettore che è sempre meno influenzato dai fatti documentali e che, invece, è maggiormente attratto da ciò che gli provoca una forte emozione. Tutto ciò è un bene in politica? Percepire Draghi come “il migliore”, Conte come “l’avvocato del popolo” e Salvini come “il capitano”, ci dice men che zero sui loro programmi politici e sulle azioni che vorrebbero compiere. Sempre più elettori decidono di pancia, o forse di cuore, senza prestare più attenzione all’analisi dei dati per il bene comune. Com’è avvenuto questo cambiamento radicale nella nostra società e come i politici stanno utilizzando la potenza dell’emozione è la mission di questa lunga intervista al Professor Davies.

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La protesta dei sostenitori di Trump a Capitol Hill

Cos’è la psicologia delle folle e come può essere applicata ai social network? «C’è stato e c’è tutt’oggi un grande interesse per il modo in cui le folle assumono caratteristiche psicologiche che gli individui non possiedono da soli. L’asserzione esplicitata da molti “psicologi della folla”, dalla fine del XIX secolo, è che i sentimenti viaggiano attraverso le folle contagiando gli individui, influenzando sentimenti e comportamenti senza che loro se ne rendano conto. Questa teoria è stata applicata per analizzare proteste di strada o di piazza ed ha spinto molti intellettuali a trovare una spiegazione per l’ascesa di demagoghi e fascisti nel XX secolo. Questi studiosi notarono che tali personalità politiche riuscivano ad evocare emozioni in una folla impermeabile alla ragione e

ai fatti. Un contagio che viviamo ancora oggi nella rete e nelle nostre comunità online, dove meme, immagini, video e brevi frammenti di testo possono circolare ad altissima velocità, mettendo d’accordo le persone prima che chiunque possa verificarne la veridicità. Come in una folla di piazza, una rete online offre un senso di appartenenza e identità, che molto spesso è più potente del pensiero critico o dei fatti documentali. È questo il nodo centrale dei temi riguardanti “fake news” e “post-verità”: condividere un sentimento potrebbe essere politicamente più persuasivo dell’identificazione dei fatti. Non è una novità, ma i social media hanno offerto un nuovo strumento per sfruttarlo». Quindi, per il pubblico i fatti do-

cumentali derivanti da metodi scientifici sono diventati meno prioritari dell’impatto emotivo che colpisce l’individuo. Com’è stato possibile questo passaggio? «I metodi e i fatti scientifici non sono mai stati particolarmente intuitivi o democratici. L’esclusione del pubblico è sempre stata una condizione per la creazione di fatti scientifici ufficiali e consolidati, sin da quando furono fondate le prime società sperimentali nel XVII secolo. C’è sempre stato un sospetto pubblico nei confronti della scienza, della medicina moderna, degli esperti e dei giornalisti, il cui compito è stabilire “il consenso” sulla realtà. Ecco, questo sospetto pubblico nei confronti della scienza è stato occasionalmente mobilitato da leader politici senza scrupoli, che vedono nella caduta dei “fatti” un’opportunità per guadagnare potere. I social media aggravano questo problema in due modi. In primo luogo, consente alle persone comuni di condividere e pubblicare affermazioni sulla realtà, a costo zero. Quindi, i gruppi Facebook e i canali YouTube possono offrire comunità che nascono attorno a temi no-vax, teorie del complotto sull’immigrazione o sulle “élite globali”. Queste comunità sono


sempre esistite, ma in passato bisognava dedicarsi molto per crearle, producendo volantini, giornali amatoriali e organizzando incontri. Chiunque può prendere parte a una di queste comunità eterodosse che trovano la loro identità al di fuori della visione “mainstream” della realtà, confortandosi a vicenda sul fatto che solo loro hanno la “visione autentica del mondo”. QAnon e la base di Trump sono fondamentalmente di questa natura. In secondo luogo, i social media accelerano la circolazione delle news, superando di gran lunga la velocità delle Istituzioni, le quali vengono tradizionalmente invocate per stabilire se le parole vengono utilizzate con onestà intellettuale o meno. Ci sono sempre stati bugiardi, anche sulla stampa, ma quelli che hanno cercato di opporsi a tali bugi non hanno mai subìto gli svantaggi che subiscono oggi». La vittoria dell’emotività corrisponde a una maggiore attrazione per la violenza? «Partiti di estrema destra sono soliti trattare la violenza in termini eroici e spettacolari. Ancora una volta i social media e gli smartphone sono cruciali dato che consentono di catturare e condividere atti di violenza, in modi che non sarebbero avvenuti 20 anni fa. Ma c’è anche il rischio che gruppi online si mobilitino per scopi offline. Questo è ciò a cui abbiamo assistito il 6 gennaio 2021, con l’assalto al Campidoglio di Washington DC, che era stato evidentemente pianificato in anticipo. Quella era una folla esisteva già in contesti online!». Quali sono i rischi concreti per la nostra società alla luce di queste riflessioni sulla violenza? «Il rischio è che le persone che desiderano apparire “eroiche” nell’esecuzione di azioni violente, o pericolose, possano ora trovare un pubblico riconoscente molto più facilmente. Pensiamo all’esempio di Brenton Tarrant, il giovane che nel 2019 ha compiuto un omicidio di massa nella moschea di Christchurch mandando il tutto in diretta-streaming per un pubblico online e che aveva sulla sua arma dei “meme” decifrabili da una comunità web di nicchia. L’altro rischio è che anche il potenziale per mobilitare una comunità violenta per strada sia molto maggiore. Infine, vale la pena riconoscere un potenziale ancora maggiore nella capacità dei social media di far sentire le persone spaventate dalla violenza, anche quando non è presente; questo

può far sì che gli individui rispondano con più “simpatia” ad azioni violente e autoritarie. Un chiaro esempio è costituito dalla circolazione di fake news sulle violenze commesse dai rifugiati: armi nelle mani di nazionalisti e autoritari». L’emotività è fondamentale per i leader politici per conquistare l’elettorato. Quanto è importante, secondo lei, la capacità memetica di un politico? «Una delle difficoltà per le democrazie liberali oggi è che i media supportano molto di più i politici che cercano di smantellare o attaccare “il sistema”, rispetto a coloro che desiderano stabilizzarlo e rafforzarlo. Ciò è dovuto, in parte, all’enorme quantità di contenuti multimediali che vediamo ogni giorno, in cui i politici devono parlare attraverso brevi frasi: solo una singola riga di un discorso verrà trasmessa o condivisa, ed è probabile che sia quella più dirompente e oltraggiosa. I lunghi dibattiti e specificazioni sulle sfide politiche non vengono condivi-

«Sì, anche se il grosso problema dell’attuale democrazia è che le differenze vengono esagerate e armate in un certo modo. Nei social viene stabilita una determinata caricatura di un “liberale” o di un “conservatore” o di un “musulmano” o di una “femminista”, ma queste immagini vengono diffuse da coloro che si oppongono a quelle categorie e che hanno tutto l’interesse ad implementare una visione sfumata di quelle identità. Diamo uno sguardo alle cosiddette “guerre culturali” che circolano tutt’ora nelle università e nei musei, con i media conservatori che bollano tutti gli accademici, storici e rappresentanti delle élite culturali come “nemici della nazione”. Ciò è intenzionale e dannoso, non contribuisce realmente alla comprensione di nuove prospettive o identità: è semplicemente antagonismo». In Italia le crisi di governo sono ormai abituali. Per nascondere trame e fatti politici, i leader dei partiti italiani cambiano ogni

Un momento di preghiera per commemorare la strage di Christchurch

se o ascoltate adeguatamente. Una capacità memetica è, quindi, estremamente utile per i politici che cercano di stare costantemente sotto i riflettori come Trump. La grande forza di Trump è che i media lo trovavano irresistibile, dato che generava pezzi di contenuti eccitanti e fuori dall’ordinario, che catturavano indipendentemente dal contesto o dalla relazione con la realtà. La creazione di questi tipi di contenuti può essere un tratto inestimabile per le campagne elettorali nell’era dei social media. Tuttavia, capacità memetica e contenuti eccitanti sono completamente inutili quando si tratta di governare. Un esempio è la crisi dettata dal Covid-19, che pone ai politici una serie di richieste differenti e che personaggi come Trump non sono riusciti assolutamente a soddisfare». Il boom emotivo, rafforzato dai social media e dalla globalizzazione, porterà il pubblico a una maggiore consapevolezza delle differenze sociali?

giorno dichiarazioni e attaccano l’avversario concentrandosi sulla sfera emotiva. L’emotività è un’arma solo per i “populisti” o può essere utile all’establishment moderato (come sta accadendo in Italia)? «Il concetto stesso di “populismo” deve essere trattato con una certa cura, proprio per i motivi che suggerisci. Menzogna e politica vanno di pari passo da tempo (come molti filosofi politici hanno capito), quindi non c’è niente di così diverso o eccezionale in questo improvviso arrivo dei “populisti” dal 2008. La politica è in qualche modo l’arte dell’inganno. I populisti sono andati oltre nell’imbrigliare il potere della rabbia nei confronti del mainstream e nel dare voce a un senso di furia che vede “il sistema” come ignaro del dolore e della frustrazione delle persone. Ma ciò è in parte dovuto al fatto che sono più attenti alla rabbia e, in un certo senso, più bravi a cogliere come stanno le cose per chi è al di fuori del mainstream politico. Questo non vuol

dire che tali politici siano onesti o autentici - molti di loro sono completamente cinici - ma potrebbero avere un’antenna migliore per il sentimento popolare rispetto all’establishment moderato». Cosa si intende per “intelligenza artificiale emotiva” e come influenzerà le future elezioni democratiche? «L’intelligenza artificiale emotiva è l’uso di algoritmi informatici per analizzare grandi quantità di dati differenti, attraverso i quali pretendono di apprendere il significato emotivo di diversi comportamenti ed espressioni. Quindi, è possibile per l’IA emotiva (Intelligenza artificiale N.d.r.) nominare correttamente le emozioni espresse su volti diversi, rilevare le emozioni in frasi o toni di voce individuali. Già, tecnologie come Amazon Alexa (l’assistente digitale domestico) implementano l’intelligenza artificiale emotiva per cercare di rilevare quei membri di una famiglia che potrebbero provare varie emozioni. Utilizzata come tecnologia di sorveglianza, l’intelligenza artificiale emotiva è stata utilizzata dai ricercatori di mercato, e anche dai servizi di sicurezza, per cercare di rilevare come le emozioni potrebbero manifestarsi nel linguaggio del corpo di potenziali terroristi o essere palpabili nei post sui social media come prova di possibili disordini futuri. Come esattamente potrebbe essere usato in contesti democratici è una domanda difficile a cui rispondere. Potenzialmente, gli attivisti potrebbero indirizzare i loro messaggi alle persone che sono più arrabbiate con il mainstream (come presumibilmente accaduto con lo scandalo di Cambridge Analytica che circonda l’elezione di Trump nel 2016), o persino valutare il successo di un determinato discorso in termini di impatto emotivo su una folla. Molte di queste tecnologie sono meno efficaci di quanto affermano i loro inventori, quindi è importante non farsi entusiasmare troppo dalla campagna pubblicitaria. Inoltre, il fatto che una macchina possa attribuire correttamente un nome a un particolare comportamento (l’immagine di un sorriso equivale a “felicità”, per esempio), non significa che la macchina possa comprendere le emozioni o interpretare realmente ciò che le causa. Ma chiaramente queste tecnologie di sorveglianza e queste forme di audit alla fine trovano la loro strada nell’arena della politica, spesso dopo aver iniziato come tecniche di ricerca di mercato. Quindi possiamo scoprirlo!». Maggio 2021

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Formare il nostro tempo: la sfida dell’Università Mercatorum di Luisa Del Prete

Roberto Nicolucci

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na sfida per formare donne e uomini del nostro tempo: è questa la proposta lanciata dall’Università Mercatorum e che, grazie all’appoggio del “Gruppo Pegaso” sta diventando sempre più forte ed influente su tutto il territorio italiano. Un’intervista a Roberto Nicolucci, responsabile della promozione culturale dell’Università Mercatorum, che ci parla dei temi e dell’impegno culturale di questa nuova realtà e soprattutto del loro nuovo obiettivo: non fermare il tempo, ma formare il tempo. Come nasce questa nuova realtà e come si sviluppa l’apprendimento telematico? «Istituita e riconosciuta con decreto ministeriale da tre lustri pieni il “gruppo Pegaso” non ha inventato l’apprendimento telematico, questo è chiaro, ma è stata la prima università in remoto a porre la dialettica professore-allievo nei termini, nuovi e insieme antichissimi, di educazione civica. Nel 1958 un uomo di Stato come Aldo Moro, che amava l’Italia, contribuì ad assodare l’importanza dell’insegnamento e dell’educazione civica nella scuola dell’obbligo. La materia che ancora veniva impartita nella vecchia scuola non è mai apparsa così di attualità impegnativa. Noi non dobbiamo solo fornire gli elementi basilari di un sapere umanistico e pratico insieme, ma siamo coscienti che ogni apprendimento, per essere veramente utile e nobilitante, debba svolgersi su una piattaforma di vivere civile, di educazione alla memoria e rispetto per il proprio passato».

Quali sono gli obiettivi che l’Università pone ai fini dell’insegnamento? «Insegnare, lo si è sempre detto, è una missione. Come il medico, l’apostolo o l’esploratore. Con tutti i rischi, le delusioni e le impagabili soddisfazioni cui va incontro, oggi come ieri, è un’opera missionaria. Ma si dovrebbe avere il coraggio di estendere la cosa a coloro che apprendono. Proprio così: ascoltare e sviluppare autonomamente un pensiero, hanno ormai tutti i contrassegni di una missione. Non fermare il tempo, ma formare il tempo: questo è stato, fin dagli esordi, il progetto del “gruppo Pegaso” e in questi quindici anni nulla è sopraggiunto che ci sollecitasse a cambiare rotta e velocità di crociera». Come si è integrata questa nuova realtà in Italia? Come sono gestite le sedi? «A valutare in blocco le numerose sedi del “gruppo Pegaso” sale una specie di autoritratto italiano, che comprende diciotto regioni, isole maggiori comprese. Una mappa del paese completa e complessa. A cose già arcinote, di cui occorre rinfrescare la memoria (da Rimini a Venezia a Roma o a Firenze), se ne oppongono altre che sono altrettanto importanti, ma meno frequentate (dai territori della bergamasca, così tragicamente toccati dalle recenti vicende, al Palazzo De Vio di Gaeta fino al Palazzo della Dogana di Foggia e ai magnifici Palazzi Mazzarino di Palermo e Paternò di Catania).

Le sedi del “gruppo Pegaso” non si ritrovano lungo percorsi da manuale, o quantomeno non sempre. La loro collocazione legittima e sollecita di per sé la possibilità di una diversa geografia dell’arte, ma attenzione: non mancano sorprese anche nelle città più grandi e trafficate. La mappa delle sedi del “gruppo Pegaso” obbedisce a questa doppia griglia: far conoscere il paese e, per ciò stesso, imparare a rispettarlo e a valorizzarlo. La scommessa per noi è quella di promuovere e sollecitare un dialogo culturale collocandoci al centro esatto». Cosa aspira per il futuro? «Ci piacerebbe che frequentassero i nostri corsi donne e uomini in grado di abitare e vivere con impegno il loro paese perché lo conoscono. Conoscere significa amare. Amare significa conoscere. Se l’equazione è nata per definire, almeno in via teorica, i rapporti umani (e sentimentali), essa trae il massimo valore una volta che la si adoperi nei campi del sapere. Mentre l’università tradizionale ha finito per imboccare il vicolo cieco di una conoscenza autoreferenziale e verticale, da noi si cerca di tenere quanto più aperto possibile l’obiettivo. Siamo formatori prima che informatori: e questo non dobbiamo dimenticarlo. L’Italia, diceva qualcuno, non ha sempre avuto gli abitanti che merita. Il “gruppo Pegaso” intende dimostrare che, chiunque fosse, aveva torto».

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"Storie di Napoli"

Raccontare le ricchezze della città partenopea attraverso i social di Marco Cutillo

Vogliamo costruire quel ponte che ancora oggi separa il linguaggio della cultura da quello digitale

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apoli è una città fascinosa che affabula i turisti, ma anche suoi abitanti, da tempo immemore. Come spesso capita ai luoghi dalla storia millenaria, per diminuirne la complessità della comprensione, Napoli è stata ridotta ad una serie di loghi comuni. Non se ne conosce la natura vera, intima. Ed è qui che entrano in gioco i ragazzi di Storie di Napoli (li trovate su Instagram e non solo). Dal 2014 sono impegnati a raccontare l’anima della città partenopea, riportando alla luce gli aneddoti sommersi dalla polvere accumulatasi gli anni. Del progetto ci parlerà Federico Quagliuolo, uno dei membri fondatori del gruppo, nonché grande appassionato del territorio e delle sue leggende. Come nasce l’idea di Storie di Napoli? «Storie di Napoli nasce per gioco e per passione nel 2014. Eravamo un gruppo di amici del liceo che, nel weekend, andava in giro per la città a far fotografie,

esplorando posti abbandonati o quartieri fuori dai classici percorsi turistici, nei quali spesso si auto-confinano anche gli stessi napoletani. Cominciammo così a scoprire cose che ci sembravano incredibili: dalla Torre del Palasciano al Tempio della Scorziata, arrivando al Vallone di San Rocco, oppure penso ai borghi nascosti del Vomero o al fascino doloroso del Cristo Spezzato di San Carlo all’Arena. Gli amici ci cominciavano a chiedere curiosità, altri ci commissionavano vere e proprie esplorazioni. E così, al netto di Wikipedia, ci chiedevamo come fosse possibile che le notizie sui luoghi visitati erano tutte confinate in libri, in persone spesso inarrivabili ai più o in biblioteche difficili da raggiungere. Il senso di Storie di Napoli è la divulgazione: vogliamo costruire quel ponte che ancora oggi,

nel 2021, separa il linguaggio della cultura da quello digitale: noi esploriamo, studiamo e impariamo cose nuove ogni volta che usciamo di casa o parliamo con qualcuno. E poi raccontiamo tutto sul nostro sito. Alla fine dei tre fondatori sono rimasto solo io, mentre nel corso del tempo si sono avvicendate una cinquantina di persone fra disegnatori, scrittori e fotografi. Oggi siamo 20». Dove trovi/trovate le storie da raccontare? «Le storie ti rincorrono, sono loro a trovare te. Letteralmente. Emblematico è il caso di una notte di qualche anno fa (sono abbastanza gufo, scrivo sempre in orari notturni!) per riposarmi volevo giocare un po’ con la Playstation. Accendo la TV e, mentre mi appresto ad accendere la console, sento la parola “… studiò a Napoli”. Si accendono le antenne. Fermo tutto, apro l’app

notes del cellulare e scopro così la storia di Ancel Keys, il papà americano della Dieta Mediterranea. E così, alle due e mezza di notte, fino alle quattro meno un quarto, mi ritrovo a prendere appunti per cominciare le ricerche il giorno dopo». Il covid vi ha messo in difficoltà? «Paradossalmente è stato un’opportunità perché abbiamo registrato il più grande balzo in avanti in termini di risultati. E soprattutto mi ha portato alla risoluzione che ha trasformato Storie di Napoli da gioco a impresa digitale. Ritrovarci chiusi in casa, a marzo 2020, ha portato tutti a varie riflessioni: c’è chi ha lasciato il gruppo ed è andato a lavorare, chi invece ha capito che voleva giusto continuare per passione. Io invece ho capito che il futuro che sognavo era esattamente davanti ai miei occhi da 7 anni. Storie di Napoli non lo consideravo come un futuro possibile perché tutti mi dicevano “che bella passione, ma poi chi ti dà la certezza dello stipendio?”. Aggiungi l’elemento culturale, che per l’opinione pubblica è cosa no profit, e capisci che agli occhi di tutti era un progetto fallito in partenza. Invece il covid ci ha fatto fare un balzo avanti di un ventennio in termini di approccio con il mondo informatico. Abbiamo però molta strada da fare se pensi che ancora oggi, quando si parla di impresa digitale, ancora le persone mi dicono: “…che bella passione, e poi che lavoro fai?”».

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L’antico teatro di Neapolis I tesori nascosti e abbandonati della Napoli antica

di Teresa Coscia

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on capita proprio tutti i giorni di affacciarsi dal bancone di casa propria e poter ammirare i resti di un antico teatro romano mentre si stende comodamente il bucato. O almeno, non succede tutti i giorni a noi. A Napoli, invece, succedono anche cose così, dell’altro mondo, e le mura di due palazzi possono nascondere un tesoro impossibile da trovare altrove. L’antico Teatro di Neapolis, per esempio, è uno di questi. Conosciuto anche come teatro romano dell’Anticaglia, questa straordinaria testimonianza di architettura romana, verosimilmente risalente al I secolo avanti Cristo, abbellisce il centro storico di Napoli, costituendo anche una delle tappe della Napoli sotterranea. Sono tantissime le testimonianze di autorevoli storici e letterati antichi che ne parlano: da Svetonio a Tacito, passando per Cicerone; è evidente che ai tempi di questi au-

tori il teatro fosse un vero e proprio gioiello per la città, luogo di manifestazioni e rappresentazioni teatrali anche di attori e cantori non proprio convenzionali, primo fra tutti Nerone. E gli stessi ritrovamenti archeologici lasciano pensare a un ambiente veramente maestoso, che sorgeva poco distante dal foro della città, capace di ospitare oltre 5000 spettatori, in particolar modo sulle gradina-

te che, ad oggi, ci pervengono in alcuni punti ancora perfettamente intatte. Una prima congiuntura negativa per le sorti del teatro romano – sorto a sua volta molto probabilmente sui resti di un antico teatro greco – risale già al primo secolo: dopo il terremoto del ‘62 secondo alcuni, l’eruzione del ‘79 secondo altri, l’intero edificio fu completamente distrutto e ricostruito, ma era destinato ad

essere abbandonato con il crollo dell’impero appena qualche secolo dopo. La vera e propria sommersione dei suoi resti, che ancora oggi indigna e fa rabbia, risale probabilmente al 16°-17° secolo. Il forte incremento demografico che la Napoli del tempo vive spinge i dominatori stessi ad autorizzare – o almeno a lasciare impunita – una selvaggia costruzione di edifici, realizzata senza alcuna considerazione per le vere ricchezze che la città ancora custodiva. Proprio a questo periodo, infatti, risale la costruzione di palazzi che tutt’oggi accerchiano il teatro, scoperto soltanto a fine ‘800 e del quale sono state riportate alla luce tutte le parti che l’edilizia più recente aveva risparmiato, rendendolo almeno in parte ad oggi fruibile. In fondo, Napoli è anche questo: la città in cui cielo e mare si incontrano, in cui coesistono bellezza e brutture, passato e presente.

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di Simone Cerciello

Una Dad così non l’avete mai vista (...forse) Paolo Caiazzo spiega la nuova web-serie tutta da ridere

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a didattica a distanza è da più di un anno entrata prepotentemente nelle vite e negli schermi degli studenti di tutta Italia. Problemi di connessione, docenti colti alla sprovvista e studenti un po’ furbetti hanno talvolta trasformato le lezioni in veri e propri spettacoli comici. Da questi presupposti, Paolo Caiazzo e Daniele Ciniglio, in collaborazione con tanti volti noti della comicità, hanno trovato le basi per sviluppare una vera e propria web serie sulla DAD. Un progetto che ha riscosso grande successo, nonché grasse risate, svelando tutti i retroscena di ciò che quotidianamente accade dietro alle quinte, o agli schermi se preferite, delle nostre lezioni. Ne abbiamo parlato proprio con Paolo Caiazzo per farci raccontare dettagli e aneddoti di questo format vincente. Come è nata l’idea di questo progetto? «Durante lo scorso lockdown mi è stato segnalato un monologo di un ragazzo talentuoso: Daniele Ciniglio. Guardai il monologo e gli scrissi per complimentarmi. Da quel momento ci siamo confrontati spesso sulle nuove frontiere della comicità, che la pandemia mi costringeva ad esplorare. Mi propose di fare qualche video insieme a lui ed una parodia dei collegamenti in DAD. L’idea mi stuzzicava, ma avevo bisogno di una classe o almeno di un numero di alunni che desse quella sensazione. Scrivemmo di getto il primo copione e contattammo gli amici più vicini e disponibili. Il successo immediato del video ha sorpreso anche noi e come sempre le cose nate per gioco sono quelle che riescono meglio per la loro genuinità». Qual è la sua opinione su questa DAD? «È un bell’esercizio di recitazione a distanza. Ognuno di noi, infatti, registra non ascoltan-

do gli altri, ma in piena solitudine ed in smart working a casa. La freschezza del progetto e l’analisi satirica del momento ha contribuito alla sua diffusione, ma chi ha occhio clinico intuisce che nasconde un lungo lavoro di scrittura, prova e post-produzione». Come si registra una web serie ai tempi del distanziamento sociale? «Essere obbligati a restare a casa ha sviluppato l’innato istinto di arrangiarsi, che noi del Sud abbiamo. Così abbiamo riproposto una serie di situazione tipiche da emergenza sanitaria, che impedisce il contatto umano: dalla DAD agli esami universitari a distanza, dalle videochiamate alle dirette social. La tecnologia fortunatamente ci aiuta e ultimamente, grazie ad essa, stiamo simulando dialoghi tra due personaggi nella stessa stanza, ma anche questi rigorosamente fatti da remoto.

Con un po’ di fantasia si possono aggirare gli ostacoli, ma siamo in attesa di poter dare vita ad altri progetti che richiedano la presenza, ed appena questo sarà possibile, ci vedremo tutti insieme sullo stesso set». Il Web può rappresentare un Teatro 2.0? «Assolutamente no. Un filtro inevitabile ci distanzia dallo spettatore, che fruisce del prodotto attraverso uno schermo, e questo purtroppo non potrà mai sostituire le vibrazioni che il live regala». Daniele Ciniglio, Rosalia Porcaro, Federico Salvatore e tanti altri artisti hanno preso parte a questo progetto, in base a cosa avete formato questa “squadra”? «Il rapporto con i colleghi era precedente a questa situazione di emergenza ed il desiderio di divertirsi insieme, anche se a distanza, ha fatto il resto. Sono molti gli artisti che in questo periodo sono presenti attivamente sui social, con la consapevolezza che questo nuovo strumento ed il suo linguaggio moderno è assolutamente sfidante. Nel frattempo ti tiene anche in allenamento, in attesa di tornare quanto prima al nostro amato spettacolo dal vivo». Se dovesse scegliere un solo percorso tra Web, Teatro e Tv, cosa sceglierebbe e perché? «Non sono il primo e non sarò l’ultimo a dichiarare il mio amore per le tavole del palcoscenico. È la forma di spettacolo più antica e sempre attuale, perché quello a cui assisti succede lì, in quel momento ed a pochi metri da te. Per te che sei invece sul palco è una piacevole ed inebriante responsabilità perché sai che devi dare il massimo!». Cosa si augura per questo 2021? «Che si tragga insegnamento da quello che stiamo vivendo! E mi auguro un ritorno alla normalità capendo quanto sia “speciale”».

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F OTOGRAFIA

di Marianna Donadio

Scatti di denuncia dal Medioriente La mission del fotoreporter siciliano Alessio Mamo

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volte una singola foto può rappresentare una denuncia più potente di mille parole. È questa la missione di chi, come il fotografo siciliano Alessio Mamo, ha dedicato la propria vita al fotogiornalismo. Alessio ha iniziato la sua carriera nel 2008, concentrandosi su questioni sociali, politiche ed economiche riguardanti specialmente l’area del Medio Oriente. In questi anni ha ricevuto importanti riconoscimenti; nel 2018 ha vinto il World Press Photo Award per i ritratti con la foto di Manal, una bambina di 11 anni sopravvissuta ad un’esplosione in Iraq che le ha sfigurato il volto, e nel 2020 è ritornato tra i finalisti del premio mondiale nella categoria “General News” con uno scatto intitolato “Madre russa e suo figlio al campo di Al-Hol”. Ti sei laureato in chimica, quando e come hai preso la decisione di puntare tutto sul fotogiornalismo? «Ho intrapreso questi studi perché mio padre insegnava chimica all'università di Catania e a 18 anni pensavo che la cosa più naturale fosse seguire le orme paterne. Mi laureai e iniziai a lavorare in un'azienda del catanese, ma nel 2009 entrò in crisi e non mi rinnovò il contratto. Così colsi questa occasione e

mi lanciai senza paracadute, seguendo la mia forte passione per la fotografia e iniziando a viaggiare. Avevo già 30 anni ed era un passo abbastanza azzardato, però provai: iniziai frequentare i festival, a conoscere altri fotografi. Nel 2011 è avvenuta la mia prima pubblicazione e da lì ho iniziato ad avere delle collaborazioni soprattutto dalla Sicilia. Il 3 ottobre 2013, poi, avvenne una delle più grandi stragi nel Mediterraneo, a Lampedusa, e da quella data mi dedicai totalmente alla questione dei migranti ricevendo commissioni da giornali nazionali ed esteri. Nel 2015 ho iniziato a viaggiare in Medio Oriente perché volevo assolutamente vedere i luoghi da cui

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scappavano le persone che vedevo arrivare sui barconi a Lampedusa e sulle coste della Sicilia». In quale dei tuoi lavori ti riconosci di più? «Uno di quelli che mi ha più appassionato, anche perché mi ha dato la possibilità di conoscere a fondo le persone che ho fotografato, è il lavoro che ho fatto in Giordania, ad Amman, nell’ospedale di Medici Senza Frontiere. Il progetto l’abbiamo chiamato “L’ospedale di tutte le guerre” perché accorre tutti i feriti di guerra del Medio Oriente. Questo lavoro con MSF è durato 3/4 mesi in cui ho instaurato un forte legame con queste persone. La ciliegina sulla torta è stata la foto della bambina Manal che vin-

se nel 2018 The World Press Photo nella categoria People. Questo lavoro ad Amman mi ha dato la possibilità di creare una rete, un network di persone che vado a trovare spesso». Pensi che le immagini che ci restituisci sulla situazione in Medio Oriente possano svolgere un ruolo politico, spingendoci a riconoscere le responsabilità occidentali? «Qualsiasi fotogiornalista che segue certe storie ha l'ambizione di provare a denunciare affinché le cose cambino. Io penso che più che grazie alle singole foto sia grazie ad un racconto di più sguardi che coprono una realtà, con l'apporto di televisioni, fotografie e altri mezzi mediatici, che la denuncia arrivi al mainstream. Sono rari i casi in cui una sola foto diventa un'icona in grado di mettere in discussione alcune questioni politiche; penso alla foto del bambino siriano Alan Kurdi che nel 2015 è stato trovato morto sulla spiaggia in Turchia. Quella foto fece ridiscutere diversi trattati europei sulla questione delle frontiere. Se fai questo lavoro non lo fai perché vuoi diventare ricco, lo fai perché ci sono delle questioni che ti stanno a cuore e che vuoi assolutamente denunciare. Questa è la base del nostro mestiere».


A RTE

di Chiara Del Prete

IL PIBE DE ORO TRA LE CASE POPOLARI

Le opere e la visione dell'artista italo-spagnola Leticia Mandragora

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eticia Mandragora è l’artista italo-spagnola nativa di Madrid giunta in Italia a 15 anni. Trasferitasi a Napoli, l’arte dei graffiti l’ammalia a tal punto che oggi è nota per i suoi ritratti blu. L’ultimo realizzato è un imponente Maradona. Come nasce il tuo percorso artistico? «Ho iniziato ad interessarmi al mondo underground legato alla cultura dell’hip hop tra cui c’è la disciplina del graffito. Prevede l’utilizzo delle bombolette spray su tessuto urbano, i primi anni sono stati di sperimentazione. Ho seguito vari artisti per apprendere le tecniche poi, ho adottato un filo artistico più coerente rappresentando i miei soggetti con il blu». Quale significato attribuisci all’uso del blu? «È un colore particolare, mi è capitato per caso. Con il tempo ha trovato una sua razionalità, ho riscontrato attinenze tra il mondo spirituale dell’immagine femminile. A me serve per estrapolare la visione materialistica della persona ed elevarla alla sfera sentimentale. Solo gli occhi lascio colorati perché per me sono la finestra tra spirito e realtà». Come approcci alla realizzazione dei tuoi progetti? «Il mio rapporto con i murales è particolare. È difficile sapere come sarà l’opera che mi accingo

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a realizzare. Mi piace lasciarmi guidare dall’istinto e così, come in un puzzle, tutto trova la propria posizione». Come nascono le tue collaborazioni per i murales? «Dipende dal contesto. O si tratta di commissioni private o progetti. Sia progetti artistici come festival, per esempio a Miami ho partecipato all’Art Basel che è uno dei festival più importanti di arte contemporanea, o associazioni che si occupano del sociale e decidono di operare nelle aree periferiche». E per il tuo ultimo murales? «Nel caso del murale di Maradona la dinamica è stata diversa. È stato voluto da un gruppo di ragazzi, hanno deciso di adoperarsi per donare una facciata a un quartiere popolare, una palazzina di Via Rossini a Frattamaggiore».

Ha avuto molta risonanza a livello mediatico… «Sì, il muro che hanno scelto ha una visuale impattante. Affaccia sull’imbocco dell’Asse Mediano per Frattamaggiore ed è visibile lungo il tragitto in auto. È piaciuto molto e ne sono contenta, ho ricevuto parecchi complimenti dall’Argentina e da diversi giornali all’estero, persino in Russia. Ha dato soddisfazione anche alla gente del posto». Quanto hai impiegato a realizzarlo? «Una settimana, poi ne ho realizzato un altro a Gragnano un mese prima per cui ho impiegato più tempo». Quale ti sei divertita di più a realizzare? «Sono diversi. Quello a Gragnano è un Maradona di fine allenamen-

to con il completo della squadra. È un Maradona in bianco e nero che ho posizionato in un campo di grano per omaggiare la città della pasta. Quello a Frattamaggiore mi appartiene un po’ di più. Rappresenta la fede come spirito propositivo, la maglia bianca simboleggia il calcio popolare, non il calcio legato al mondo dei soldi. Lo sfondo è oro perché queste strutture popolari vanno impreziosite e con il pibe de oro non potevamo scegliere colore diverso». Che filosofia attribuisci alla connessione con l’opera? «C’è bisogno di unione e comprensione. Tengo al tempo impiegato alla realizzazione dell’opera e non solo alla realizzazione fine a sé stessa. Creare qualcosa non solo perché funzionale ma anche a livello intellettuale. Se non c’è un minimo di poesia, se non c’è un po’ di poetica dietro le cose poi diventano sterili. Questo mi spinge a continuare su questa strada». Qual è il tuo rapporto con Napoli? «Napoli è amore e odio. È una città che per tanti aspetti mi ha chiuso porte. È meravigliosa però la sua funzionalità, a volte è ostacolata da troppi interessi. Esser donna e lavorare nell’urbanistica è difficile, non ha la stessa credibilità che avrebbe per un uomo. Potermi esprimere a Napoli tutt’ora è una lotta».

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L IBRI

di Nicola Iannotta

“Nina”: Il nuovo racconto di Adelia Battista Una storia di libertà e coraggio nel cuore di Napoli

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i sono storie particolari, storie che riemergono dal fondo oscuro del passato reclamando il diritto di essere ascoltate, di non dissolversi dimenticate… Questa è la storia di Nina. Nina è una giovane ragazza, un’orfana. La sua storia vive nella storia della città di Napoli, e grazie al suo spirito partenopeo, Nina canta. E la melodia della sua voce risuona nei pressi del Vico Storto Concordia, precisamente dalla piccola casa recante il numero 10. “Nina, Vico Storto Concordia 10” è il nuovo libro pubblicato dalla casa editrice Dante & Descartes, nel mese di marzo 2021. La storia di Nina è il nuovo successo editoriale della storica casa editrice napoletana: ben due stampe nel giro di un mese (dopo i trionfi di “Averno” - L.Gluck ; “Napoli porosa” – W. Benjamin); l’autrice del libro è invece Adelia Battista, giornalista, instancabile attivista per i diritti femminili, saggista ma, soprattutto, cultrice e amica intima della grande scrittrice Anna Maria Ortese. Abbiamo intervistato l’autrice per farci raccontare chi è Nina e da dove viene la sua storia. Adelia, chi è Nina? «Fra questi documenti, un fascicolo corposo riguardava la storia di una ragazza, Nina. Leggendo la sua storia mi sono imbattuta in una creatura indifesa. Nel mio libro ho presentato una ragazza sofferente, chiusa in sé

stessa, Nina quasi non parla con nessuno. La sua vita difficile, il dolore subito, la portano a chiudersi nei confronti del mondo. Sarà solo la nonna, col suo esempio di amore, di abnegazione, pazienza e af-

fetto che riuscirà a vincere le sue barriere; e il ricordo della figura materna (contrapposta a quella paterna) la porterà a comprendere quale strada seguire nella sua vita. Nina dovrà scegliere chi di-

ventare». Sentiremo ancora parlare di Nina? «La composizione di questo piccolo libro è stata lunga, paziente. La mia preoccupazione principale era riportare, nonostante la filtrazione letteraria, la sincerità e la verità di Nina. Ho sentito questa creatura sulla mia pelle, l’ho accudita come avrebbe fatto sua nonna Rosa. Nel lavoro di revisione mi ha aiutato molto l’editore, Raimondo, al quale vanno i miei più sinceri ringraziamenti: l’intervento di Raimondo di Maio è stato decisivo. Dunque, nel nuovo lavoro seguiremo Nina nella sua crescita, le saremo vicini mentre insegue la sua vocazione da cantante. Ovviamente gli ostacoli saranno tanti, soprattutto per una ragazza del popolo come lei, ma troverà altre vie, seppur tortuose, per continuare a rincorrere i suoi sogni». Un finale emblematico, Nina decide di cambiare cognome. Ci può spiegare questo episodio? «Quando Nina sceglie deliberatamente di cambiare il suo cognome, non lo fa come atteggiamento culturale, ma lo fa perché sente di appartenere alla madre. Cambiando il proprio cognome Nina sceglie a chi appartenere, questo gesto porta la ragazza a disconoscere il padre: disconosce la sua autorità, la sua genitorialità. Il gesto è terribile, tanto più infamante se si pensa al maschilismo delle nostre istituzioni».

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E DITORIA

di Anna Copertino

Napoli risponde alle chiamate culturali Intervista all'editore Diego Guida

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uida Editori rappresenta per Napoli un grandissimo punto di riferimento culturale, una grande spinta per il sapere da oltre cento anni a questa parte. Abbiamo intervistato Diego Guida, attualmente editore della casa editrice, che ci ha raccontato del grande impegno, non solo dal punto di vista territoriale, ma anche nazionale. Cosa rappresentano i libri per lei? «Certamente una priorità, e non solo professionale. Ho lanciato una sfida con me stesso: sforzarmi di contribuire, nel mio piccolo, ad essere in grado di mostrare all’esterno della nostra cinta daziaria, il nostro territorio più vivo, vivace e costruttivo a dispetto di quanto, invece, se ne racconta: Napoli è in grado di essere anche un riferimento culturale per il resto d’Italia». Con la Guida Editori, da lei fondata nel 2012, si è alla terza generazione di Editor. Nel 2020 avete festeggiato 100 anni di storia dalla prima libreria; un catalogo con più di 3000 titoli e tanti progetti sempre in attivo. Qual è il segreto per lavorare di squadra e bene, anche in un momento così critico per tutti a causa della pandemia? «Ho voluto che l’ultima nata in ordine di tempo tra le aziende Guida fosse identificata già nella sua ragione sociale, nel nome, la sua sigla, come una “casa editrice al plurale”: Guida editori e non Guida editore; credo questo sia un chiaro programma di lavoro. Sono convinto che il miglior risultato, anche in tempo di restrizioni sanitarie, sia il più equilibrato lavoro di squadra, e il riscontro lo stiamo ricevendo anche in termini di presenza sul mercato dei nostri libri». Quando alla Guida Editori arrivano testi di autori emergenti, come si capisce quale può

lettura a Napoli: troppo grave l’assenza di un evento per il libro in Città. “Napoli Città Libro” è stato inserito di diritto nella rete Europea dei Saloni del Libor, la “Aldus”, riconosciuta dalla UE. La terza edizione, come tutte le fiere e i saloni del mondo, sta subendo ritardi e rallentamenti per l’emergenza sanitaria. Nonostante ciò, però, stavolta non saremo da soli: va riconosciuto alla Regione Campania il sostegno perché questa edizione si possa tenere a luglio nei giorni dal 1 al 4. La sede sarà presso Palazzo Reale, altra location straordinaria, così come straordinaria è stata la disponibilità del direttore di Palazzo Reale, Mario Epifani, a concedere gli spazi per le attività di promozione della lettura: dunque Napoli sa rispondere alle “chiamate” di qualità!». Lei è Presidente Nazionale del Gruppo Piccoli Editori e Vicepresidente Nazionale dell'AIE, Associazione Italiana Editori, aderente a Confindustria, ed è il primo editore meridionale a ricoprire questo prestigioso incarico, in 152 anni di storia dell'editoria italiana; quanto ci si sente gratificati e come si vive questa responsabilità? «Sono orgoglioso sia per il risultato personale, che conferma ancora una volta il valore del “gioco di squadra”: sono riuscito a ricompattare in un gruppo gli editori del Sud e insieme stiamo mostrando anche la capacità del Mezzogiorno, di Napoli, di sapersi presentare con progettualità e concretezza nelle attività. L’attenzione delle istituzioni sta crescendo anche per l’editoria: i decreti del Governo degli ultimi mesi che hanno consentito che il libro fosse inserito tra i “beni di prima necessità”: ora tutta l’Italia sta riprendendo a leggere, un piccolo zampino dal Sud. Napoli c’è, anche in questo risultato».

diventare un best seller? «Purtroppo, le scelte dei testi da pubblicare non sono sempre facili: riceviamo moltissimi manoscritti, tanti anche davvero belli, dover “scegliere” quelli che solo “a naso” possiamo prevedere possano avere successo, non è una decisione semplice. Il mondo dell’editoria è costellato da casi di testi rifiutati da grandi editori, realizzati poi da piccole realtà editoriali che hanno avuto successi inaspettati: “Il Gattopardo” pubblicato da Feltrinelli, dopo il rifiuto di Mondadori, è diventato un caso di scuola». Dal 2009 eravamo orfani di Galassia Gutenberg, nel 2018 la prima edizione del Salone del libro a Napoli. Ci racconti il lavoro di squadra e se si riuscirà a realizzarla quest’anno. «Che faticaccia, è stata l’organizzazione della prima edizione del Salone del libro Napoli Città Libro, nel 2018. Con enorme entusiasmo ho voluto riprendere le attività di promozione della

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Previdenza - Lavoro - Civile


Informare on the Road a cura di Anna Copertino

La Giusta via Daniela Merola Cos’è la realtà se non un campo di battaglia dove combattere le delusioni e le sconfitte? È quello in cui credono i protagonisti di questa storia tumultuosa, Margherita e Augusto. Non è difficile addentrarsi in essa, basta crederci, e Margherita lo fa. Cosa significa ama-re? Margherita è una donna che vive mondi trasversali di cui non conosce i confini. È la sua realtà oppure è il suo incubo? Sullo sfondo di uno scenario sentimentale vertiginoso si muovono le due città di Roma e Napoli. Il finale capovolgerà le convinzioni sui fatti narrati e rimetterà tutto in gioco con uno sce-nario imprevisto.

Il morbo di Gutenberg Mauro Giancaspro È inutile che il computer s‘illuda di averlo debellato. Il morbo di Gutenberg, da quando è nato il libro a stampa, sta sempre in agguato con i suoi virus nascosti tra le pagine dei li-bri, nelle biblioteche, nelle librerie, sulle bancarelle, dovunque si legga e si parli di libri. Un libro ironico, sarcastico, a tratti cinico, divertente, ma anche una galleria di ritratti di lettori, di scrittori, di librai, di collezionisti con le loro manie, le stranezze, le astuzie, le fol-lie. Tutto per quell’amor di libro che diventa passione, mania, ossessione, bibliofilia, follia: in una parola morbo, morbo di Gutenberg.

Il segreto di Lazzaro Letizia Vicidomini

Lazzaro Romano ha vissuto una vita intensa, con una frattura profonda: aver dovuto lasciare la sua ter-ra, la Puglia bella e selvatica, per scappare in Argentina, nel 1978, in una notte che lo cambierà per sempre. La traversata in mare, l’arrivo a Buenos Aires, la miniera, l’amore per Manuela, la professione di fo-tografo, le oscenità della dittatura di Allende: questa È la vita di colui che in Argentina chiamano el nubero, l’uomo delle nuvole. Trent’anni dopo Lazzaro ritorna a casa, per riappropriarsi dei propri legami e per fare giustizia, e solo ora conosceremo il suo segreto.

Il Leone di Belo Horizonteluis vinicio Paquito Catanzaro Venti secondi. Fu il tempo necessario a Luís Vinício per far breccia nel cuore dei tifosi del Napoli. Prima come numero 9, poi come allenatore, il Leone di Belo Horizonte si è fatto apprezzare tanto in Brasile quanto in Italia. Una vita calcistica, la sua, che ha i connotati del romanzo: lunghi viaggi tra due conti-nenti, compagno di squadra del picaresco Garrincha, cui insegnò a scrivere, e protago-nista di sfide epiche. Un campione amato ovunque che per la prima volta ha deciso di raccontare la sua sto-ria, con immagini e testimonianze inedite.

Il centravanti in giacca e cravatta Tommaso Mandato C’era una volta un ragazzo che sognava di giocare a calcio come Maradona. Pur non eguagliandone le gesta, quel giovane attaccante ha realizzato il suo sogno e ha tenuto testa al Pibe de oro in una partita amichevole da raccontare ai posteri. Un centravanti atipico che, dopo il triplice fischio, ha scelto la carriera di procurato-re calcistico e promotore di eventi sportivi e qui ci racconta, dall’interno, il mondo non sempre dorato del calcio di periferia. In fondo, le scarpette da calcio si abbinano perfettamente all’abito elegante.

Quel cretino del mio capo Manuale di sopravvivenza per dipendenti aziendali Renato Votta In maniera leggera e divertente l’autore ci accompagna nella vita d’ufficio, raccon-tandoci aneddoti e statistiche, e facendoci riflettere su tematiche come l’esercizio del potere, le piccole ingiustizie e soprusi, le ipocrisie e le ritualità spesso vuote e con-venzionali a cui tutti i lavoratori dipendenti hanno spesso assistito e partecipato con riluttanza. La parte finale è dedicata a test e questionari per autovalutarsi in maniera ironica sul proprio stile di leadership, di lavoratore di gruppo, o sul livello di stacanovismo che si è raggiunto.

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di Lorenzo La Bella

Zack Snyder’s Justice League E pensavate che avrebbe fallito

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uando Justice League è stato un colossale flop e si è sviluppato il movimento #ReleaseTheSnyderCut, tutti pensavamo che avrebbe fallito. Del resto, la versione girata da Joss Whedon era, per usare un termine fantozziano, ‘una cagata pazzesca’. E se non c’era riuscito Joss Whedon, che ha lanciato il MCU, questo titano popculturale, la versione di Snyder doveva essere ancora peggio. Per di più, lo sceneggiatore di entrambe le versioni, Chris Terrio, era responsabile tanto di capolavori premiati con l’Oscar come Argo di Ben Affleck quanto vere offese al medium cinematografico e all’intelligenza degli spettatori come Star Wars IX: L’Ascesa degli Skywalker. Eppure, quando la Snyder Cut è arrivata sugli schermi ha sbalordito tutti. Perché la visione perfezionata e inadulterata di Zack Snyder è stata, a sorpresa, coerente, toccante e a tratti anche divertente. È un film un po’ lungo, non lo nego. È un film di quattro ore, e ci sono circa venti minuti di scene che qualche volta vanno un po’ alla lunga. Tuttavia, nonostante la straordinaria lunghezza, il pacing (lo scorrimento) fila che è una meraviglia. La CGI ha qualche barcollo qua e là, ma è gli effetti visivi sono fenomenali, stavolta, e spesso in diverse scene è impossibile capire cosa sia reale e cosa no.

Ma, soprattutto, i personaggi stavolta sono ben delineati. Pensiamo agli eroi del film. Se prima Superman, che era sempre stato in dubbio su come potesse essere davvero un eroe con tutto il suo potere, oscillando tra samaritano abnegante, brutale risolutore e messia sacrificale in MoS e BVS raggiunge un picco nel suo arco narrativo, comprendendo che sono i suoi legami terreni che lo rendono umano e lo devono spingere a essere il difensore della terra, diventando il paragone di umiltà e resistenza che è la sua controparte nei fumetti. Wonder Woman elevata da supereroina generica a mamma del team e fonte di esperienza insieme a questo Batman pentito dei suoi eccessi quasi fascisti di BVS; entrambi superano la loro misantropia dei film precedenti per diventare gli idealisti che sono nei fumetti. Acquaman, da semplice frat bro, è il mezzosangue che cerca di bilanciare due culture diverse e a sua volta si trascina del pregiu-

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dizio tanto verso una delle proprie (gli Atlantidei) quanto quella di Wonder Woman (le Amazzoni, nemiche di entrambe le culture di Acquaman, Uomini e Atlantidei), ma che la supera e si assume le responsabilità della propria gente. Prima Flash era un’inutile macchietta comica, ora è il vero eroe del film, un ragazzo timido che cerca di affermare la propria identità con un padre in prigione e riesce a salvare tutti trascendendo le sue paure andando così veloce da far tornare indietro il tempo. Cyborg, grande assente della precedente versione, con l’attore Ray Fisher bistrattato da Whedon, è l’altro vero punto focale del film insieme a Flash, un ragazzo anche lui alle prese con un complicato rapporto col padre e che riesce ad affermare la propria identità. Ed è molto azzeccato, secondo me, che gli attori di questi tre ultimi personaggi, siano un hawaiiano, una persona nonbinary e un afroamericano. Tutti e tre si portano dietro il tema identitario

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del film e sono "i più giovani", sostenuti dalla "vecchia guardia". È sottile, spinto dal casting più che dalla narrazione esplicita, ma il messaggio che questo film lancia è proprio di integrazione, di affermazione di chiunque, non importa a quale minoranza appartieni, e dell’importanza che il contributo dei privilegiati può avere in questa affermazione. Non posso non spendere una parola sul cattivo del film. Per una volta, abbiamo un cattivo nei film di supereroi che possiamo comprendere e compatire. Steppenwolf, precedentemente ridotto a macchietta cattivona nella versione precedente del film, è qui un semplice generale che distrugge mondi solo perché costretto a farlo per poter tornare a casa dopo un alto tradimento, e addirittura ammira i suoi avversari. E la sua morte proprio a un passo da casa non fa che renderlo quasi tragico. E c’è poi il suo capo, il nipote Darkseid, villain shakespeariano di punta dei fumetti DC, che qui si mostra per pochissimo nel suo nichilismo spietato di voler pacificare l’universo sotto il proprio controllo mentale. In definitiva, Zack Snyder ha una marea di problemi come regista. Però Zack Snyder’s Justice League mostra la sua maturazione, ci mostra un regista che è cresciuto oltre questi problemi e lì sta superando.


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di Fabio Di Nunno

CERAMICA E PORCELLANA MADE IN NAPLES Una visita alla Real Fabbrica di Capodimonte e alla Scuola della Porcellana

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l Parco di Capodimonte ospita la Real Fabbrica di Capodimonte e l’Istituto di Istruzione Superiore ad Indirizzo Raro “Giovanni Caselli”, istituito nel 1961 con lo scopo di continuare l’antica tradizione artigianale, ma anche di ideare e sperimentare delle innovazioni. La scelta di ubicare l’istituto nell’antico edificio che fu sede della prima Real Fabbrica della Porcellana, fondata dal sovrano Carlo di Borbone nel 1743, rappresenta simbolicamente l’intenzione di tracciare una linea di continuità con la storia. L’Istituto detiene il marchio di fabbrica, unica realtà produttiva a fregiarsi del giglio borbonico per le opere realizzate. Nell’Istituto ha sede il MUDI - Museo Didattico della porcellana di Capodimonte, nel quale sono in esposizione e vendita i manufatti storici e musealizzati, le nuove linee produttive firmate da rinomati artisti e designer, l’archivio degli stampi della Real Fabbrica di Capodimonte, gli antichi forni del ‘700 e i macchinari dell’antica produzione, laboratori didattici per adulti e per bambini. Le attività, oltre che fonte d’autofinanziamento, hanno valore promozionale e una valenza didattica, perché permette agli allievi di conoscere tutte le fasi di lavorazione necessarie alla produzione d’oggetti finiti. Il Museo didattico del Caselli possiede anche una biblioteca che raccoglie tutte le ricerche scientifiche e storiche sulla porcellana di Capodimonte dal ‘700 ad oggi. La scuola non solo è l’unico centro in Italia istituzionalmente preposto alla preparazione di personale qualificato e di tecnici specializzati nel settore della ceramica e della porcellana, ha una missione specifica: promuovere, studiare e tutelare la tradizione ceramica del territorio rilanciando, in particolare, la produzione della porcellana. L’impegno si completa con il

Forno Civico, iniziativa originale e di notevole richiamo, già aperto al pubblico e messo a disposizione di realtà imprenditoriali e artigiane che vogliano avvalersi di questo servizio per le rispettive produzioni. Valter Luca De Bartolomeis dirige l’Istituto Caselli, la Real Fabbrica di Capodimonte e il MUDI, di cui è anche fondatore; egli ha illustrato a Informare le peculiarità di questo mix.

«L’impostazione è proprio quella di una scuola che ha un modello fondamentalmente già noto, quello della Bauhaus, con l’opificio, la produzione, le arti maggiori e le arti minori che dialogano, il design, l’architettura, le arti, le arti applicate. Un laboratorio di sperimentazione creativa dove il learning by doing, l’imparare anche facendo, diventa strumento di metodologia che consente una crescita molto forte, non soltanto della nostra istituzione, ma anche dei nostri giovani artieri, chiamati da me così perché acquisiscono consapevolezza dell’importanza della tradizione che loro stanno prendendo in carico e verificano facendo, quindi non solo un approccio teorico, concettuale, ma anche la possibilità di trasformare la concettualizzazione in qualcosa che pian piano viene a configurarsi in qualcosa di reale. L’artigianato dà la possibilità di trasformare la realtà, con le proprie mani, con il proprio pensiero, di mettere in collegamento la mente, il cuore e le mani. Quello che è accaduto, per esempio, con Calatrava, con il quale non solo abbiamo costruito un nuovo ed importante momento storico della scuola e della fabbrica ma anche dell’arte in generale, è una rarità in Italia, un innesto contemporaneo che va a dialogare con la storia. Ogni volta che noi dialoghiamo con questi personaggi di livello internazionale abbiamo costantemente conferme dell’unicità e della rarità del nostro territorio, che io definisco sempre come un “laboratorio creativo permanente”. Proprio perché lo scambio è continuo tra le diverse forme di arte ed i risultati sono soddisfacenti, stiamo abbattendo quei confini concettuali ed ideologici che storicamente sono stati frapposti tra i divari ambiti, tra la scultura e la manifattura, tra l’architettura e il design o l’arte contemporanea».

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S TORIA

di Claudia Tramaglino

Stessa città, due diverse pandemie

L'Archivio Storico di Napoli protagonista di un ponte tra covid e la peste

L

a pandemia dovuta al Covid-19 ormai imperversa da più di un anno e Napoli, così come il resto del mondo, ne porta le ferite. Tuttavia, se si dà uno sguardo al passato ci si rende presto conto che questa non è la prima volta che una malattia sconvolge le vite dei napoletani. Una delle mostre virtuali, messe a disposizione dall’Archivio Storico di Napoli, illustra proprio come si possano trovare notevoli analogie tra l’attuale situazione pandemica e l’epidemia di peste che tra il 1656 e il 1658 pervase il regno di Napoli. Nella primavera del 2020 abbiamo dovuto affrontare il primo lockdown, mentre nella primavera di quattro secoli fa, precisamente nel maggio del 1656, i nostri antenati assistettero all’inizio della diffusione della peste bubbonica. Anche se le due malattie sono molto differenti da un punto di vista scientifico, le reazioni del popolo, le dinamiche politiche e i comportamenti dell’autorità presentano delle notevoli somiglianze. Proprio quando iniziò la diffusione del contagio, infatti, il Consiglio Collaterale, ovvero l’organo di magistratura più alto in quel periodo che assisteva il Viceré nell’azione di governo, ordinò di scrivere alle Piazze napoletane affinché questi dessero mandato ai medici di individuare i malati che avessero necessità di essere portati altrove. Anche se ai giorni d’oggi quest’organo non esiste più, e l’attuale governo si trova a dover gestire una popolazione e un territorio molto più vasto di quello del Regno di Napoli, anche allo scoppio dell’epidemia del SARS Covid-19 si è cercato di trovare al più presto una cura e di isolare i malati. Pur non conoscendo la natura del contagio,

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le raccomandazioni del Collaterale date alla popolazione furono pressoché simili a quelle che il Governo ci ha dato, ovvero: limitare i contatti con gli altri, separare i malati dai sani, portando i primi a San Gennaro dei poveri, e in determinate condizione guarire gli infetti nelle proprie case senza però avere contatti con nessuno. Mentre nel 1656 i malati erano mandati a San Gennaro dei poveri, nel 2020 erano mandati, e lo sono tutt’ora, al Cotugno. Le autorità, proprio come oggi, tentarono di arginare i contatti tra le persone, come dimostra una lettera di Francesco Gaetani, duca di Sermoneta e principe di Caserta, indirizzata al Marchese di Matonti, presidente del Sacro Regio Consiglio. In questa lettera il duca denuncia al Sacro Regio Consiglio spostamenti non autorizzati di persone dal Comune di Napoli verso quello di Caserta, senza il rispetto dell’obbligatoria quarantena. Tutto ciò ci ricorda gli obblighi della zona rossa (e non solo): le autocertificazioni, l’impossibilità di spostarci tra comuni e regioni diverse, l’obbligo di qua-

rantena in caso di contatto con un positivo e così via. Ovviamente era molto più difficile all’epoca controllare che le norme precauzionali fossero rispettate e così il contagio si diffuse rapidamente causando gravissimi danni demografici ed economici. Il tasso di mortalità, infatti, secondo i calcoli della prof.ssa Fusco, era compreso tra il 20%-30%, determinando in questo modo un crollo demografico. I lavoratori venivano a mancare, mentre le tasse continuavano a salire. Sempre più Comuni, si rivolgevano al Collaterale per chiedere uno sgravio fiscale. Ad esempio, come testimoniato da una lettera custodita negli Archivi Storici di Napoli, gli abitanti dell’Università di Lauro, chiesero di beneficiare di uno sgravio di un quarto per il periodo che andava dal primo maggio 1657 fino all’agosto del 1658. La richiesta fu accolta. Anche oggi i lavoratori, soprattutto quelli dei settori più danneggiati, come quello turistico, alberghiero e di ristorazione, chiedono agevolazioni fiscali, oltre a ristori economici. Ovviamente l’efficacia di questi aiuti economici dipende dalla situazione in cui versavano le aziende ad inizio pandemia. Quindi, così come nel ‘600, la situazione d’emergenza in cui ci troviamo ha portato a una crisi molto difficile da arginare. Napoli fu la prima città a essere vittima della peste, ma anche la prima a liberarsene. L’8 dicembre del 1656, infatti, le autorità dichiararono estinta la calamità, mentre nel Meridione la peste continuò a imperversare per altri due anni. Chissà magari a distanza di secoli la storia si ripeterà e sarà ancora una volta Napoli a uscire per prima dalla pandemia.


L IBRI

di Angelo Morlando

Padre Raffaele Nogaro: Ritorno a Gesù-Omelie dei giorni della pandemia Recensione dell’ultimo scritto del vescovo emerito di Caserta

Ogni etica senza la compassione per gli ultimi è inganno

P

adre Raffaele Nogaro è sempre stato vicino alle persone, alla gente. Ti guarda sempre negli occhi e ti ascolta con la massima attenzione. Se hai la fortuna di poterlo incontrare, la sensazione di libertà di espressione è massima e il saluto di padre Nogaro, con l’immancabile manciata di caramelle, ti resta dentro e ti accompagna. La prefazione dell’ultimo lavoro è di don Nicola Lombardi, altra persona piena di misericordia e compassione. Il testo raccoglie le omelie di padre Raffaele Nogaro, dal 9 marzo 2020 al 15 agosto 2020. Non è un periodo scelto a caso, è quello della prima ondata pandemica. In questo momento è in corso la terza ondata e riportare alcuni passi delle omelie è sembrato più che opportuno, sia come messaggio di speranza, sia come invito forte a reagire allo stato delle cose. Cito alcuni passaggi delle sue omelie: Prefazione: “Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare (Ger 14,18)”. 22 marzo 2020: “Tu sei venuto per manifestare le grandi opere di Dio e devi soccorrere i tuoi figli che in questo tempo oscuro della pandemia” – “Anche noi ci sentiamo violati dalle istituzioni politiche, che hanno trasformato in un carcere le nostre case, e pure l’istituzione religiosa, convinta di possedere la verità nella sua codificazione definitiva, mette in difficoltà il nostro

bisogno di pregare”. 5 aprile 2020: “Eppure, già i tuoi familiari pensavano che tu fossi fuori di testa (cf Mc 3,21) gli scribi dicevano che tu eri “indemoniato” (cf Mc 3,22) i sacerdoti e i capi del popolo ti condannavano come “un impostore e un malfattore (cf Mt 27,63). E Tu Gesù “per amare gli uomini fino alla fine” accettavi anche la spaventosa agonia del Getsemani e l’abisso del dolore fino alla disperazione d’umanità: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15, 34). Ritorna Gesù, e ancora una volta guarisci tutti i malati e facci ancora guardare e inseguire la vita con occhi di carne”. 12 aprile 2020: “Ci sono i momenti difficili dell’esistenza, sono tanti e Gesù sprona i discepoli e la folla all’esame di coscienza: “Sapere valutare l’aspetto della terra e del cielo: come mai non sapete valutare questo tempo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto” (Lc 12,56-57). Ecco: se vogliamo “ciò che è giusto”, la Pasqua deve diventare il passaggio alla Resurrezione di una chiesa che non è più sopra il popolo, ma che è il popolo. I beni della Chiesa, quindi, non sono da conservare e da aumentare per il prestigio della istituzione, ma sono da distribuire continuamente secondo tutte le necessità della gente. Solo “una chiesa

ospedale da campo” (papa Francesco) può dare testimonianza della Pasqua”. 19 aprile 2020: “Eppure Gesù tu insisti anche in modo provocatorio per la nostra sensibilità e dici: beati coloro che credono senza aver visto (Gv 20,29). Ma noi siamo fatti di sensi e tu lo sai. Abbiamo bisogno di stringerti fra le braccia per farti sentire il nostro amore”. 3 maggio 2020: “Gli uomini di chiesa non possono essere gerarchi, burocrati, professionisti; devono essere unicamente “ministri” di quel Gesù che ha detto loro: “vi ho dato l’esempio perché quello che ho fatto io, facciate anche voi: Io sono venuto non per essere servito ma per servire e dare la mia vita in riscatto per tutti” (Mc 10,45)”. 21 giugno 2020: “Certo, una chiesa che per evangelizzare ritiene di dover raggiungere un “potere” il più possibile competitivo, e proprietà private vastissime, in modo da mettere i segni del sacro dovunque, non penso sia la chiesa voluta da Cristo. Piuttosto la sua spettacolarità ha confuso la testimonianza evangelica al punto che nel mondo cattolico si manifestano le forme più varie di religiosità”. 28 giugno 2020: “Papa Francesco già all’inizio del suo pontificato ha affermato la verità: “Non è la chiesa che salva, è Cristo che

salva”. Purtroppo, oggi Cristo e il suo Vangelo sono poco conosciuti. In realtà Gesù si introduce nel consorzio umano come semplice “uomo della strada”: “percorre tutta la Galilea e annuncia il Vangelo del Regno, guarendo ogni sorta di malattia e di infermità del popolo” (cf Mt 4,23). Un discepolo – testimone del Cristo può essere oggi soltanto “uno della strada” (cf At 9,2) – (così venivano chiamati i primi cristiani)”. 19 luglio 2020: “Chi causa la sofferenza degli innocenti è nemico di Dio. Ogni etica senza la compassione per gli ultimi è inganno. Ogni politica senza la compassione per gli ultimi è tradimento. Ogni religione senza la compassione per gli ultimi è falsa”. 2 agosto 2020: “Ritengo che se la comunità cristiana riconoscesse alle donne gli stessi ministeri dei maschi, non solo la comunità cristiana, ma l’umanità intera ritroverebbero il Vangelo seducente e pieno di grazia. Tutte le età della storia hanno le loro miscredenze. Ma oggi non solo non si crede di più in Dio, non si crede neanche nell’uomo, che è reso funzionale alle cose che consuma. Per giunta l’avvento della pandemia rende molte persone come delle larve umane. Rimasto senza fede e senza principi morali, l’uomo adotta un’etica utilitaristica, per cui ciò che egli è in grado di fare, prima o poi lo fa, anche se le conseguenze possono risultare disastrose. Inoltre, i mezzi di comunicazione sempre più numerosi sembrano organizzati per portare gli uditori allo stordimento e all’esasperazione. L’insensatezza della storia e l’infelicità personale non sono sopportabili. Oggi l’uomo ricorre a tutti i tipi di droga materiali e spirituali, per dare importanza alla sua vicenda terrena. In realtà questa sua opera è contrassegnata dalle “passioni tristi”. Non c’è più un “principio-speranza” che sappia illuminare gli orizzonti dell’avvenire”. Maggio 2021

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S OCIALE

di Luisa Del Prete

«Il terzo settore è un punto di forza reale»

L’incontro con la Presidente US ACLI Regione Campania Francesca Dattilo

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n incontro speciale quello tenutosi nella Redazione di Informare, tra la Presidente US ACLI Regione Campania Francesca Dattilo, il Presidente dell’Associazione Tam Tam Basket Massimo Antonelli ed il Presidente della Squadra di calcio a 5 Junior Domitia Luigi Lauritano. I due Presidenti, Lauritano ed Antonelli, hanno raccontato delle loro associazioni e delle loro attività, propositivi per collaborazioni future con la Presidente US ACLI Dattilo che ha voluto mostrare la sua vicinanza sportiva ad associazioni che vivono in un territorio depresso, che non è assolutamente il più facile, cercando di dare un punto di ripartenza, dopo studio e riflessione, dando vicinanza in un momento così critico ed un supporto reale a chi ne ha bisogno. «Non c’è niente di più interessante di un incontro» afferma Francesca Dattilo. Il Presidente Massimo Antonelli dell’associazione Tam Tam Basket, associata FIP (Federazione Italiana Pallacanestro) che dà sostegno a numerosi ragazzi ogni giorno e che ha inventato questo “nuovo allenamento” con la musica in sottofondo. «Da poco tempo abbiamo avuto in concessione una palestra e vogliamo avvicinare almeno una centinaia di ragazzi soprattutto di questa comunità molto povera» afferma Antonelli. Luigi Lauritano, Presidente della Squadra di calcio a 5 Junior Domitia, affiliata FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio), riconosciuta come la squadra più giovane d’Italia. Da circa tre anni la squadra milita in Serie B (anche con gli under 19), ma a causa della larghezza del campo non possono progettare il passaggio in Serie A dato che quello attualmente utilizzato ha la misura di 36x18, mentre per militare nella prima categoria c’è bisogno di un campo che abbia la misura 40x20. Una società che riesce a rimboccarsi le mani-

Essere presidente non significa solo tagliare nastri, c'è bisogno di essere costantemente a servizio delle ASD

che, che è riuscita a ridare nuova vita al palazzetto per la collettività, ma che da oltre due anni vede praticamente assenti le istituzioni della città, sia da parte della precedente amministrazione che di quella attuale. «La nostra squadra si chiama Junior Domitia, ma quando andiamo in giro per l’Italia non portiamo Junior Domitia, portiamo Castel Volturno» afferma Lauritano. «Circondarci di giovani ci trasmette vitalità» è ciò che afferma Francesca Dattilo che, con 40

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anni di servizio alle spalle, ha incontrato l’US fin da quando era piccola, frequentando la Chiesa, ed alla quale si è sempre di più avvicinata fino a diventarne parte integrante, poiché ha fin dall’inizio ritrovato nell’associazione quelli che erano i valori e gli ideali intrinsechi in lei, grazie alla sua famiglia. Da ex Presidente dell’US ACLI Caserta ed attuale Presidente US ACLI della Regione Campania, afferma: «Il ruolo dei presidenti in questo momento difficile che stiamo vivendo, ha assunto il vero e reale significato. Io non ho sentito mai, in tanti anni, questo senso di appagamento come in questi ultimi due, perché mi sono resa conto di come è importante e di quanto è vero il ruolo del presidente, non soltanto come figura simbolica che sta lì e taglia i nastri, ma come persone al servizio delle ASD». Un ruolo attivo quello dell’Associazione che è riuscita a ricevere un grandissimo riscontro e che vuole comunque continuare a lavorare per nuove iniziative. «Ci siamo aiutati con la rete e con le associazioni che sono una realtà vivace e reale. Il terzo settore funziona: il cittadino ha trovato un punto di appoggio qui più che dagli enti. La cittadinanza attiva è vera - continua la Dattilo - appena usciremo da questa pandemia, possiamo organizzare un bell’evento proprio sul territorio di Castel Volturno e cercherò di coinvolgere tutte le altre province e gli altri presidenti provinciali». Un ottimo auspicio quello della Presidente che, insieme alle altre due Associazioni di Castel Volturno, vuole lanciare un messaggio di speranza e volontà ad un territorio che, per mancanza di luoghi e di cultura sportiva da parte degli enti, è stato per lungo tempo dimenticato. C’è tanto da fare, però bisogna avere la capacità di unire tutte quelle sinergie positive. Il lavoro da svolgere è difficile, ma ce la possiamo fare se riusciamo a “fare rete”.

Casa Albergo per Anziani


S PORT

di Clara Gesmundo

«Inattività fisica è un handicap per i ragazzi» Il presidente del Tam Tam Basket Massimo Antonelli interviene sull’attuale situazione

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l Basket è arrivato già da tempo qui a Castel Volturno grazie alla creazione del team sportivo “Tam Tam Basket”. Abbiamo chiesto a Massimo Antonelli, presidente e coach di Tam Tam, di illustrarci l’organizzazione intrapresa durante questo periodo complesso.

Come sta affrontando il Tam Tam Basket questo periodo di restrizioni causa Covid? «Il blocco delle attività nelle palestre ha causato danni non indifferenti ai giovani sportivi di tutto il mondo. Noi coaches di Tam Tam abbiamo cercato di tenere attivi i nostri ragazzi inviando

Sul territorio campano gli azzurri arrivano ai Play Off! di Clara Gesmundo

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n particolare parliamo della Junior Domitia, che quest’anno ha raggiunto un’importante obiettivo. Tenacia, bravura e ostinazione si sono rivelati fondamentali per arrivare ad un risultato vincente. In occasione abbiamo avuto modo di intervistare Luigi Lauritano, presidente della squadra. Analizziamo dettagliatamente i match svolti nel corso di quest’anno, se potesse tornare indietro, come Presidente, farebbe qualche scelta diversa? «Ci sono state diverse partite che mi hanno entusiasmato e reso felice indipendentemente dal risultato. La prima giocata, quella contro il Fondi, ci vedeva in campo dopo 6 mesi di inattività con un nuovo allenatore, una nuova dirigenza, ed un progetto improntato sui giovani, alcuni dei quali non avevano mai fatto la Serie B Nazionale. Quella partita fu giocata magistralmente e la vincemmo. Spesso è stato riconosciuto alla squadra il valore della prestazione. Se dovessi sceglierne una, però, opterei per quella del ritorno in terra lucana contro il Senise. Rincorremmo la squadra di casa per tutta la partita, negli ultimi 7 secondi segnammo il gol della vittoria, da quel momento abbiamo realizzato la possibilità di arrivare ai Playoff. La squadra, grazie a Mister Luigi Bernardo, si è sempre espressa su massimi livelli, sia tattici che tecnico/fisici. I risultati ottenuti non possono che confermare che rifarei tutto dalla prima all’ultima scelta». L’obiettivo era la salvezza del titolo di B e la Junior Domitia riesce brillantemente ad arrivarci...

«Considerato il tipo di progetto, e le tante problematiche che ci hanno remato contro in quest’anno complesso, l’obiettivo primario della società è stato sempre quello di mantenere la categoria nazionale, arrivando ad una salvezza anche all’ultimo secondo dell’ultima giornata. Sono stato felicemente sorpreso, dalla professionalità che tutti hanno dimostrato nel progetto, la tenacia di raggiungere presto un obiettivo, cosa che abbiamo fatto a 6 giornate dal termine, il resto ormai è storia». Per il prossimo campionato ci saranno dei nuovi “acquisti” per la squadra? «Il prossimo anno, proveremo a trattenere i nostri giocatori ed inserire qualche altra pedina. Ora però siamo in procinto di andarci a giocare i Play Off con la prima squadra, ma anche la Coppa Italia Under 19, cosa che mi inorgoglisce poiché l’attenzione nei confronti dei ragazzi giovani, da parte nostra, è sempre massima».

esercizi da fare a casa e proponendo lezioni in diretta video che riguardavano soprattutto la cura del fisico, aggiungendo qualche esercizio di tecnica da fare con la palla e la musica. Poi grazie alla sensibilità della Fondazione Decathlon abbiamo avuto in dono 21 canestri che abbiamo attaccato ai muri delle case dei nostri ragazzi, questo ha dato loro la possibilità di potersi esercitare e fare la cosa che amano di più». Per quanto riguarda gli allenamenti sono state adottate delle misure di sicurezza particolari? «Come da protocollo abbiamo trovato un meraviglioso e paziente responsabile COVID, Sergio Falco, che vestitosi da buon sergente ha fatto sì che noi rispettassimo le regole per non infettarci a vicenda: controllo della temperatura, distanziamenti, non utilizzare spogliatoi e docce o disinfettare i palloni. Poi ci siamo dovuti fermare per seguire le disposizioni regionali e nazionali di blocco totale dello sport giovanile». I ragazzi risentono di questo “distanziamento sociale” e, se vogliamo, sportivo? «I ragazzi stanno subendo sicuramente dei danni, spero però reversibili. Un anno di inattività fisica alla loro età è un handicap che si porteranno sulle spalle. Hanno sofferto molto: il non poter vivere lo spirito del campo, gli allenamenti, sudare e tornare a casa stanchi ma felici. “Coach quando possiamo riprendere col basket?” è il messaggio che ricevo più frequentemente». Quanto in ambito economico ed organizzativo ha influito questo periodo così complesso? «Il blocco delle attività nel marzo dell’anno scorso ci ha danneggiato moltissimo perché era un momento in cui stavamo per concludere accordi con sponsorizzazioni importanti, tutto saltato. Inoltre, la nostra associazione adesso è diventata ONLUS per le sue caratteristiche finalità sociali. Durante la fase 2 del progetto Tam Tam, abbiamo avuto l’affidamento delle chiavi della nuova palestra: una bella tendostruttura con travi in legno lamellate tutte a vista. Ci aspetta un altro inizio, una bella avventura da vivere insieme a tanti altri nuovi bimbi, e spero a tanti nuovi amici e partner che intendono darci una mano». Maggio 2021

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S PORT

La Confederazione indipendente che dà voce alle minoranze

di Alessandra Criscuolo

Il valore del CONIFA per un calcio di libertà e uguaglianza

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a Confederation of Independent Football Associations (CONIFA) non è una federazione affiliata alla FIFA e vanta uno scopo sociale non semplice. Fondata nel 2013 sull’isola di Mann, ad essa sono affiliate squadre che rappresentano le nazioni, gli Stati senza un riconoscimento internazionale, le minoranze etniche, i popoli senza Stato, rappresentative regionali e micronazioni che non hanno voce negli organismi europei. Nel 2014 ha organizzato la prima Coppa del Mondo CONIFA a Osterstund, in Svezia e nel 2015 la prima edizione della Coppa Europea di Calcio, in Terra dei Siculi, Romania. Costruire un ponte tra persone, nazioni, minoranze e regioni isolate in tutto il mondo attraverso l’amicizia, la cultura e la gioia di giocare a calcio. Questa la mission della Confederazione che lavora per lo sviluppo di membri affiliati e si impegna per il fair play e l’abolizione di ogni forma di razzismo. Si terrà a Nizza, in Francia, la Coppa Europea di Calcio 2021. Dodici le squadre che rappresenteranno il proprio territorio: Monaco, Abcasia, Lapponia, Terre dei Siculi, Ossezia del Sud, Artsakh, Cornovaglia, Armenia occidentale, Ciamuria. E ben tre squadre italiane: la Nazionale delle 2 Sicilie, la Sardegna e la Padania. A sentire i nomi delle squadre che parteciperanno alla competizione si potrebbe pensare ad una mera ricerca di un riconoscimento territoriale, ma non è così e ci tiene a precisarlo il Presidente Alberto Rischio. «Assolutamente non c’è politica nella nostra organizzazione e non ci deve entrare. I parametri per aderire alla Confederazione sono precisi e vi possono partecipare regioni che in ogni caso abbiano un minimo di riconoscimento sociale o territoriale». Nata inizialmente con il calcio maschile, due anni fa CONIFA ha introdotto il primo torneo

disabili europeo e quest’anno avrebbe dovuto esserci la prima Coppa Europea femminile: torneo rinviato al prossimo anno causa Covid. Si lavora su tutti i canali che una federazione deve avere, operatori del calcio e promozione culturale mondiale. Un mondo sommerso che viene fuori, ma anche molto osteggiato soprattutto dall’ignoranza nei riguardi del progetto. Vedere sventolare sugli stadi la bandiera crociata della Padania o il vessillo neo-borbonico, come quello della Catalogna o della Scozia, rimanda subito il pensiero alla politica. Ma l’ottica con cui va visto il progetto deve essere di opportunità di arricchimento, promozione del territorio in sé. «Due anni fa abbiamo fatto l’Europeo in Artassia, regione contesa da Armenia ed Azerbaigian, che sei mesi fa ha vissuto una guerra con diverse migliaia di morti.

C’è anche una foto che rende l’idea con lo Stadio Martuni squarciato da una granata. Ma giocare in uno stadio come lo Stepanakert con 27.000 tifosi che ti fermano dicendo che è il giorno più bello della loro vita. Perché si sono sentiti veramente europei per la prima volta. E’ emozionante e spaventa perché nel mondo occidentale libero non siamo abituati a queste affermazioni semplici ma corrette». Sensazioni che fanno capire bene quanto sia difficile mantenere la neutralità politica, CONIFA promuove lo sport e sicuramente in territori flagellati da guerre intestine diventa difficile, ma necessario restare neutrali. Soprattutto quando l’informazione che ci arriva nelle case è distorta, CONIFA porta nella nostra vita quotidiana dei contesti lontani di cui si hanno notizie filtrate. Come il territorio di Cipro del Nord dove ci si aspetterebbe di vedere soldati armati per strada e invece è uno dei posti più belli del mondo che vive problematiche di guerra e repressione, ma anche un vivibilissimo quotidiano. Un’informazione che vive di notizie tese a suscitare forti reazioni è portata a strumentalizzare anche una semplice partita. «Come quando la rappresentativa della Padania ha incontrato quella Rom e i giornalisti inviati da note testate italiane facevano domande su Salvini, sulla volontà dei calciatori di vivere vicino un campo rom. Che poi dire Rom in Ungheria è come dire lombardi o campani in Italia!». CONIFA cerca solo un’affermazione nell’ambito sportivo e sta ottenendo appoggio soprattutto dalle istituzioni che ospitano gli eventi, coscienti di un ritorno positivo di immagine. Non potendo restare del tutto estranei, i giornali riportano brevi trafiletti sul suo operato, ecco perché occorre dare risalto al messaggio che sta cercando di promuovere.

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S OCIALE

di Mariasole Fusco

L’ACCOGLIENZA È SOLO IL PRIMO PASSO

L’

Associazione L.E.S.S. Onlus - Centro Studi e Iniziative di Lotta all’Esclusione sociale per lo Sviluppo - è attiva dal 1999 sul territorio di Napoli, con lo scopo di garantire a migranti e richiedenti asilo non soltanto accoglienza ma piena integrazione all’interno della società e del mondo del lavoro. Daniela Fiore, Presidente dell’associazione, ci ha raccontato nel dettaglio le attività promosse. Come nasce LESS? «LESS nasce nel ‘99 con lo scopo di tutelare i diritti delle persone svantaggiate, come centro studio e tutela. Negli anni le attività di LESS si sono orientate all’accoglienza e all’integrazione di rifugiati e richiedenti asilo. Intorno ai progetti di integrazione per i migranti ruotano una serie di progetti di sensibilizzazione sui diritti delle persone svantaggiate e sulle pari opportunità, che vanno da percorsi educativi all’interno delle scuole ad attività realizzate con altri enti». Quali progetti sono all’attivo per l’accoglienza migranti? «Per quanto riguarda i progetti di accoglienza dei migranti, LESS è dal 2004 ente gestore del progetto I.A.R.A, progetto di integrazione e accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, in-

serito nella rete del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR). All’interno del progetto IARA sono accolte 132 persone, tra donne e uomini. Dal 2018 siamo anche ente gestore del progetto SPRAR A.I.D.A, attivo sull’isola di Procida, dove sono accolte circa 10 famiglie». Quali servizi vengono offerti all’interno di questi progetti? «All’interno di questi progetti vengono offerte attività di accoglienza integrata, volte al pieno inserimento nella comunità. Offriamo servizi che vanno al di là di vitto e alloggio: assistenza legale o sanitaria, attività di socializzazione ed integrazione sul territorio, corsi di lingua italiana, attività di formazione con attivazione di tirocini formativi, percorsi sull’autoconsapevolezza e sull’empowerment delle proprie competenze, volti allo sviluppo di attività di auto-impresa e lavoro autonomo. Nel corso degli anni, proprio da questo percorso sul potenziamento delle proprie competenze per l’inserimento professionale, nasce una cooperativa autogestita di catering e cucina multietnica, chiamata Tobilì». La pandemia ha creato difficoltà per la continuazione delle attività?

A MBIENTE

BIODIVERSITÀ di WWF CASERTA

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l modello di consumo attuale, paradossalmente, ha messo in crisi il nostro stesso sistema. La filiera di produzione e consumo di cibo, da solo, è causa dell’80% di estinzione di specie e habitat a livello globale. Bisogna promuovere modelli di produzione e consumo alimentari basati sulla conservazione degli ecosistemi. Solo in questo modo possiamo garantire cibo sufficiente e sano per le generazioni attuali, future e per le popolazioni in crisi economica. La sostenibilità ambientale deve essere accompagnata da un quadro di maggiore giustizia sociale: il sistema alimentare deve assicurare equità, eradicazione della fame e diritti dei lavoratori; dall’eliminazione del lavoro minorile alla necessità di prezzi equi per contadini e pescatori, dall’occupazione legale alla salute e sicurezza sociale, dalla parità di genere a condizioni eque per tutti i lavoratori impiegati nel settore agricolo e della pesca, compresi i lavoratori mobili e i migranti. Con l’iniziativa #DoEatBetter i consumatori diventano protagonisti, infatti, il WWF li iden-

«Abbiamo continuato ad erogare a distanza i corsi di lingua italiana, a proporre i percorsi formativi specialistici volti all’ottenimento di qualifiche come quella del mediatore linguistico-culturale. La pandemia ci ha messo a dura prova, ma siamo riusciti a riformulare i nostri progetti in maniera efficace. Abbiamo inoltre attivato un numero verde per le fasce più deboli, con sportelli di assistenza psicologica a distanza e abbiamo consegnato pacchi di beni alimentari alle persone più in difficoltà». Oltre al programma relativo ai richiedenti asilo, quali altri progetti promuove LESS? «Dal 2004 è attivo uno sportello di assistenza legale e sanitaria rivolta a chiunque sul territorio abbia bisogno di supporto. Offriamo poi attività laboratoriali aperte a tutti, come il laboratorio di teatro, o attività di coaching volte ad accrescere la consapevolezza di sé e a sviluppare le proprie competenze lavorative. Altro progetto destinato sia a stranieri che italiani, creato nel 2020, è volto all’accoglienza dei detenuti in uscita dalle carceri che possono scontare l’ultimo periodo della propria pena agli arresti domiciliari, ma si trovano purtroppo senza dimora».

UN’ASSICURAZIONE SULLA VITA tifica come perno centrale per un reale cambiamento verso comportamenti sostenibili e responsabili. Anche a livello locale, se passa il principio #DoEatBetter, avremo benefici importanti: riusciremo a salvaguardare la nostra biodiversità e ad assicurare prosperità alle aziende agroalimentari campane che garantiscono l’eccellenza. Per esempio potremmo garantire, per la provincia di Caserta, la sostenibilità economica e ambientale a quelle aziende che producono: le mele Annurche di Valle di Maddaloni, Il Vino Falerno del Massico, le castagne e lo zafferano del Massiccio di Roccamonfina, le ciliegie di Formicola. Il 2021 sarà un anno cruciale per il ruolo che tutti dovranno svolgere nell’affrontare una delle più grandi minacce per il futuro. Analogo discorso vale per la pesca. La pesca eccessiva, distruttiva e illegale è una delle minacce più gravi per gli ecosistemi marini: il 34% degli stock ittici è sovrasfruttato (nel Mediterraneo questa percentuale sale al 75%) e il 60% è pescato al limite delle proprie capacità di rigenerarsi: ciò significa che non diamo il tempo

ai pesci oggetto di pesca di riprodursi. Inoltre, con la pesca distruttiva, compromettiamo gli habitat da cui essi dipendono. Il WWF lavora con pescatori e acquacoltori affinché adottino pratiche più sostenibili, con le aziende affinché si impegnino a trasformare la loro filiera produttiva e di approvvigionamento, con le autorità nazionali e internazionali affinché garantiscano una gestione adeguata. Quando iniziare? NON C’È PIÙ TEMPO. INIZIAMO DA ORA.

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S OCIALE

Crescere a Villa Laura

Negli occhi di Anna la forza di donare speranza a ogni bambino di Rossella Schender

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aria Montessori diceva che “se v’è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo”. Per questo Anna Scandurra e suo marito Enzo Troise, dopo aver lavorato per anni in carceri e comunità per il recupero dei tossicodipendenti, hanno deciso di voler lavorare affinché nessun bambino potesse perdere la speranza di avere un futuro ricco di luce, senza inciampare negli errori di quelle persone adulte che avevano sempre cercato di aiutare. Così nel 2014 davano vita, sul territorio di Castel Volturno, alla casa famiglia Villa Laura. Da sette anni Anna, psicologa e responsabile della casa famiglia, con la sua equipe accoglie e tutela bambini allontanati dalle famiglie d’origine per motivi quali: abusi, maltrattamenti e negligenze di vario genere. In questo modo ridona loro i diritti e l’amore necessario per poter crescere consapevoli di essere preziosi per il mondo. Prendendo spunto dai coniugi Schiff e applicando la rigenitorizzazione, una forma di psicoterapia in cui l’educatore o il terapeuta assume attivamente il ruolo della figura genitoriale, rimettendo il bambino in condizione di rivivere lo stato dell’esser figlio, Anna aiuta ad affrontare e superare i traumi subiti tra le mura familiari. Dare una continuità affettiva e impiantare nei bambini l’idea che

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non esisterà più l’abbandono e che l’educatore ci sarà sempre, ha fatto sì che anche dopo esser stati adottati o esser ritornati nelle famiglie d’origine, il rapporto di fiducia e di amore reciproco creatosi nell’abbraccio di Villa Laura non sparisse. Anna ci racconta che ancora oggi quelli che son stati i suoi ragazzi nutrono affetto nei suoi confronti e riconoscono in lei un pilastro della loro crescita. Ad oggi più di 100 bambini affidati dai servizi sociali hanno fatto parte della famiglia di Anna, alcuni dei quali avevano i genitori impegnati in un percorso di valutazione con il tribunale. Rimettendosi in gioco con grande senso di responsabilità questi genitori son riusciti ad abbracciare di nuovo i propri figli, mettendo da parte le varie difficoltà che li avevano separati.

«Ultimamente - ha sottolineato Anna - registriamo un incremento di genitori con patologie psichiatriche». Questi non vengono seguiti dalle ASL di competenza per cui tali soggetti, abbandonati a loro stessi, mettono al mondo dei figli i quali inevitabilmente vengono esposti a rischi molto alti. I servizi sociali, in questo, svolgono un ruolo di trincea rischiando di subire vendette e ritorsioni, nonostante con i pochi mezzi e risorse a disposizione cerchino solo di salvare il maggior numero possibile di minori. Anna ci ha spiegato il cammino che affronta un bambino, sin dai primi momenti a Villa Laura: «Quando un bambino arriva viene accolto da tutta la famiglia, cane e gatto compresi, e insieme superiamo i primi momenti desta-

bilizzanti dovuti al fatto che viene portato via di punto in bianco, in un regime di massima sicurezza, e condotto qui. Con l’aiuto delle educatrici, delle mie figlie, di mio padre e, soprattutto, con l’aiuto degli altri bambini in pochi giorni riusciamo a tranquillizzarlo per far sì che Villa Laura possa diventare per lui casa. Quando si vive nel maltrattamento, nell’incuria e nell’abbandono avere un posto caldo e ricevere delle attenzioni è fondamentale. Il bambino in questo modo si lascia andare, abbandonandosi completamente all’abbraccio di chi vuol prendersene cura. Poi il procedimento si apre in tribunale, il giudice inizia a convocare familiari e assistenti sociali per capire quale sia la situazione e dà delle prescrizioni. A quel punto i genitori devono seguire le linee del giudice e quasi sempre vengono a far visita ai bambini, in modo da poter mantenere un contatto e alimentare il rapporto in vista di un eventuale ritorno a casa. Nel giro di un anno solitamente il giudice decide se il bambino deve ritornare a casa o se bisogna procedere con l’adozione; a quel punto poi si cerca la famiglia più giusta». Dopo la permanenza a Villa Laura i bambini rifioriscono e diventano consapevoli delle proprie potenzialità, rientrando nel mondo con dei modelli sani a cui ispirarsi e diventano adulti che cercano, come ci è stato detto: nulla di meno della felicità.


M USICA

di Chira Gatti

“Ricordi a quattro corde” Massimo Abruzzese e Gino Aveta ripercorrono la musica napoletana nel ricordo di Zurzolo

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a rottura con il passato, la nascita di stimoli inediti in grado di stravolgere una tradizione millenaria, la necessità di urlare la propria identità e di rivendicarne la dignità: questi sono solo alcuni dei fili conduttori che hanno portato alla nascita del Neapolitan Power, un movimento culturale armonico che tratteggia il background musicale della Napoli degli anni ‘70. Testimone di quest’epoca d’oro, Massimo Abbruzzese che ha contribuito attivamente all’impresa culturale partenopea come produttore discografico delle eccellenze del periodo: Pino Daniele, Enzo Avitabile, Tony de Piscopo e molti altri. Attualmente direttore di Musicisti Associati, Abbruzzese si è occupato, in collaborazione con Gino Aveta, della realizzazione del libro “Ricordi a Quattro Corde”, un tributo in memoria del grande contrabbassista napoletano Rino Zurzolo, uno dei massimi rappresentanti, assieme a Pino Daniele, del Neapolitan Power. Da dov’è nata la tua passione per la musica e il tuo interesse riguardo la formazione e il perfezionamento degli aspiranti musicisti? «Giovanissimo, a 22 anni, ho iniziato una collaborazione lavorativa con il celebre produttore discografico Willy David, “mente” dei migliori dischi del Neapolitan Power. È iniziato così un periodo

della mia vita contrassegnato da concerti e produzioni di dischi durante il quale ho avuto l’opportunità di stare a contatto con i più noti artisti del periodo: Nina Bonocore, Daniele Fossati, Lucio Dalla, Enzo Avitabile, fino a quando nel ‘96 ho deciso di rilevare Musicisti Associati, dedicandomi a tempo pieno alla didattica ed appassionandomi alla formazione dei giovani, tanto da considerarla una seconda casa. Lavorare con i ragazzi è estremamente gratificante, contribuendo alla loro crescita artistica. Vivendo con loro giorno per giorno, mi rendo conto che come noi adulti ci occupiamo dell’istruzione dei giovani, allo stesso tempo loro insegnano qualcosa a noi in un perfetto scambio umano e sociale». In che modo l’associazione guida gli studenti nel mondo della musica e come intende sostenerli nel raggiungimento dei loro

obiettivi? «La nostra “missione” è quella di stimolare ogni singolo studente nell’esprimere il suo massimo potenziale creativo attraverso lezioni didattiche anche individuali. Sono infatti molti i ragazzi che, grazie alla nostra struttura, sono ora professionisti della musica: Greta Zuccoli che ha partecipato a Sanremo Giovani, Daria Huber che ha concorso per X Factor, ma anche docenti e musicisti». Hai collaborato alla stesura del libro “Ricordi a quattro corde”. Qual è stata l’ispirazione che ti ha portato a dedicarti a questo progetto? «Non la definirei una vera e propria ispirazione, semplicemente la volontà di onorare l’arte e la memoria di un musicista, Rino Zurzolo, un artista che ha fatto onore alla città di Napoli e con cui io e Gino Aveta abbiamo avuto la fortuna di coltivare una bellissima amicizia. Portatoci via prematuramente da un brutto male, Rino ha sempre vissuto questa situazione con estrema dignità e pacatezza, facendo ciò che amava fin quando ha potuto; questo tragico evento ci ha certamente devastati, complice il fatto che siamo entrambi coinvolti direttamente nella medesima battaglia contro il male che lo ha colpito. È con l’evento in suo onore “Happening con note e parole” tenutosi presso la Ca-

sina Pompeiana, che a me e Gino è venuta l’idea di mettere nero su bianco le testimonianze di oltre settanta tra familiari, amici e colleghi di Rino a dimostrazione del suo grande contributo sia umano che musicale alla cultura partenopea». Qual è il tuo più bel “ricordo a quattro corde”? «Uno dei ricordi che conservo con maggior piacere di Rino risale ai primi tempi della nostra collaborazione, eravamo entrambi molto giovani, eppure risultava già impossibile non notare il talento di Rino: aveva uno stile che tutti riconoscevano, il suo suono non si confondeva con gli altri e la sua timbrica portava, indelebile, la sua firma. Ci trovavamo in un caffè a Roma, ascoltando il trombettista di fama internazionale Chet Baker suonare un pianoforte a coda bianca mentre sorseggiava un bicchiere di whisky, nel mentre Rino mi esaltava la bravura di questo artista, colpito dal suo talento. Quella sera, lo stesso Chet, mi parlava di Rino essendone profondamente colpito sia dalla tecnica che dalla musicalità. Ciò che più mi ha affascinato dell’atteggiamento di questi due meravigliosi artisti è il loro modo pacato e sinceramente sentito di stimarsi l’un l’altro eppure non sviolinandosi a vicenda, sintomo questa di estrema umiltà e genuinità».

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M USICA

Luca Rustici e l’arte del sound engineer

M USICA

“A Napoli” un omaggio jazz alla cultura partenopea di Roberto Sorrentini

di Anna Copertino

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al 19 marzo è disponibile Red Rain (L’n’R Productions/Artist First), il nuovo singolo di Luca Rustici omaggio al grande Peter Gabriel. Luca Rustici, nato a Napoli, si trasferisce da ragazzo a Secondigliano. Una famiglia di artisti quella dei Rustici. Da suo padre pittore, ai suoi fratelli musicisti e produttori Corrado e Danilo. Ci racconti il momento che ha segnato la differenza e il tuo salto di qualità nel mondo della musica? «Sono partito dagli Executive Studio, forse come posizione il più bello e frequentato dalla cosiddetta serie A dei musicisti napoletani. Si faceva tutto lì, ho imparato tantissimo e aver fatto parte di quel club mi ha permesso di crescere professionalmente, lavorando con i nomi dei più grandi del panorama campano; da Tullio de Piscolo, a Lina Sastri, a Enzo Avitabile, Nino Buonocore e i Sold Out». Proprio grazie al sacrificio e al lavoro impegnato hai potuto costruire qualcosa di tuo, che ti permette di lavorare anche ai tuoi progetti di artista, non solo come produttore di altri. «Oggi ho un mio studio a Milano, dove vivo or-

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mai da tantissimi anni. Con il mio socio Philippe Leon, autore di tantissimi successi, realizzati insieme e portati da autori quali la Bertè, Mina, Celentano, Negramaro e tanti altri nomi, lavoriamo alla continuazione e crescita di ciò in cui crediamo». Quanto è importante possedere comprensione e percezione umana nel confronto con chi è in sala e deve cantare? «Bisogna essere come degli psicanalisti. Basta poco per rompere degli equilibri, basta uno sguardo per far cadere anche il miglior cantante». Il 19 marzo 2021 è uscito un nuovo disco, ce ne parli? «È il mio omaggio a Peter Gabriel con la una versione di “Red Rain”. È il pezzo che avrei voluto scrivere io, in cui mi riconosco come melodia, emozioni e che sento mi appartenga. Il video è girato a Napoli con la regia di Francesco Polise. Nel disco vi è la partecipazione del grande Peppe Barra, ed un duetto con Raiz. Oltre ad avvalermi sempre delle collaborazioni di musicisti napoletani come Ernesto Vitolo, Rosario Ermano, Pino Tafuto, Gaetano Diodato e Andrea Polidori di Ferrara, ma partenopeo di adozione. Sempre loro, per me sono fratelli ed hanno il mio suono». Cos’è per Luca Rustici la musica? «Devo essere vanitoso e dico che sono io la musica: la musica è quello che vivo, che ogni giorno mi passa per la testa, è quello che è dentro di me, e il non poter stare troppo lontano dalla musica, dalla chitarra e sempre con le melodie nel cuore e nell’anima».

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l 2 aprile è stato recentemente pubblicato “A Napoli”, album musicale di Mafalda Minnozzi, cantante che abbiamo avuto il piacere di intervistare. Il progetto, realizzato in collaborazione con l’artista André Mehmari, comprende la rivisitazione di 8 melodie napoletane, si offre come tributo alla cultura partenopea, particolarmente apprezzata dall’autrice. Mafalda Minnozzi è una jazzista di origine marchigiana, ambasciatrice della canzone italiana in Brasile. Ha composto ben 12 album, 2 DVD ed è presente in 21 compilation. Compone, interpreta, produce colonne sonore e disegna abiti, un talento italiano tutto da scoprire. Mafalda parlaci un po’ di te, della tua vita e delle tue esperienze... «Ho avuto una vita rocambolesca e avventurosa. La spina portante della mia storia è la dedizione alla musica, alla cultura, alla creatività e al suscitare emozioni. Ho alimentato tutto questo, fin da piccola, tramite lo studio, l’ascolto e la curiosità, ma soprattutto attraverso la fedeltà verso una voce interiore che proveniva dal talento. Sono nata a Pavia per poi trasferirmi nelle Marche, regione d’origine dei miei

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C INEMA genitori, ho frequentato le scuole dell’obbligo e allo stesso tempo mi avvicinavo all’arte. Roma, essendo una città artisticamente più aperta, è stato il mio trampolino di lancio per l’Europa, qui ho studiato teatro, danza, dizione e canto. Sono diventata una viaggiante musicante che va in giro per il mondo da 35 anni, con l’intento di divulgare con molta umiltà la nostra cultura». Come ti sei avvicinata al jazz? «Lo conosco fin da ragazza, mia madre ascoltava Caterina Valente e io per osmosi mi sono avvicinata a questo genere. Mio padre invece possedeva un bar, un’attività pubblica con un mini club musicale dove si ascoltavano dischi provenienti dal nord Europa, dall’America, sentivo un’affinità maggiore con artisti come Billie Holiday, Miles Davis e Stan Gets. Pur studiando inglese solo a scuola, mi piaceva simulare Frank Sinatra». È uscito da poco il tuo nuovo album, di cosa si tratta? «Non è una strategia di marketing, né tantomeno una tattica per conquistare nuovi spazi. Si offre come omaggio alla cultura napoletana che, in maniera analoga alla samba brasiliana, rappresenta la voce di un popolo, ha unito la gente in un canto corale. Cantanti come D’Alessio e Finizio definiscono una parte meravigliosa della cultura partenopea, ma rappresentano solo l’attualità di quella che reputo la cultura musicale per eccellenza. Napoli è una città ferita e sofferente perché nessuno la guarda più con amore e rispetto. Ogni angolo dell’Italia è importante ma è il meridione, e nello specifico Napoli, ad aver reso grande il nostro paese. Non ho una pronuncia perfetta, ma spero che compensi la mia passione e la mia totale consegna a una terra che amo». Attualmente sei all’estero per qualche nuovo progetto? «Io abito nel mondo, ho vissuto anche in Colorado, a Lisbona e a New York. Secondo Milton Nascimento l’artista non deve avere fissa dimora, ma andare dove c’è gente pronta ad ascoltarlo. In Brasile mi trovo bene, preferisco comporre qui piuttosto che in Italia. Qui non c’è nessuno pronto a giudicare, mancano i saccenti al contrario di noi italiani sempre pronti a criticare, a dare sentenze, siamo tutti influencer. Lasciamo che la gente si emozioni, rida e si diverta. Cerchiamo di evitare di tagliare sempre le gambe agli altri».

A PPROFONDIMENTO

il peso di un fiore di Giuseppe Spada

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atrimoni, lauree, battesimi e funerali, i fiori sono la costante che accompagna ogni fase della nostra vita. Il fiore, citando Wikipedia, altro non è che “l’organo riproduttivo delle angiosperme, nel quale si sviluppano i gametofiti, avviene la fecondazione e si sviluppa il seme”. Fabbriche di semi? Riduttivo per descrivere un essere vivente che ogni giorno si sacrifica per abbellire e consacrare la nostra esistenza. I fiori sono talmente importanti nelle nostre vite da avere un vero e proprio “galateo” che li circonda e, soprattutto, un business da quasi 3 miliardi di euro l’anno. Pertanto, siete davvero sicuri di sapere quanto pesa un fiore? Sono sicuro che tutti voi, per un’occasione o per un’altra, abbiate acquistato un bouquet dal fioraio e che quest’ultimo vi abbia chiesto per quale occasione fossero i fiori, questo per tre motivi principali: decorazione, numero e tipo di fiore. Partiamo dalla decorazione. Il colore di retine e carte intorno ai vostri bouquet è fondamentale: il verde di solito si utilizza per promesse di matrimonio o inaugurazioni, il rosso si utilizza usualmente per le lauree ma non è di cattivo gusto impiegarlo, insieme ad altri colori caldi come il giallo o l’arancione, per compleanni, onomastici o per un regalo al proprio partner. Il bianco e il rosa, appartenendo ad una categoria di colori tenui e puri, si utilizzano per la

stragrande maggioranza delle cerimonie sacre come battesimi, comunioni e matrimoni. In fine c’è il viola, colore che si utilizza esclusivamente per i funerali, e attenzione, se per errore doveste regalare dei fiori adornati di viola sarebbe un gesto estremamente scortese e di cattivo augurio. Lo stesso discorso si rifà al numero dei fiori che non vanno mai regalati in numero pari e meglio ancora se in un minimo di 7, questo perché i fiori devono essere un gesto che simboleggia cortesia nonché estrema attenzione, il numero pari riporta all’idea di dozzinalità e di un acquisto grossolano. In fine l’argomento più importante: il fiore stesso. Infiniti significati si annidano nei petali e variano da cultura a cultura. Prendiamo in analisi il crisantemo, un fiore bellissimo che purtroppo in Italia viene ghettizzato nell’ambiente funerario, ma negli altri paesi, questo magnifico prodigio della natura è segno di buon auspicio e addirittura in Giappone viene utilizzato per le cerimonie più liete come i matrimoni e il suo significato è “fiore d’oro”. E se pensate che il fiore che meglio simboleggia l’unione di coppia e la passione sia la rosa vi sbagliate, è con un mazzo di tulipani che dimostrerete il vostro più profondo amore mentre, le orchidee, è meglio riservarle ai vostri amori più proibiti poiché essa porta con sé bellezza, mistero ed erotismo. Ma si può andare avanti ancora a lungo, per ogni sentimento esiste un fiore: le dalie, per esempio, sono il fiore che meglio racconta la gratitudine; il girasole l’allegria e tra i significati più interessanti, a mio parere, troviamo le bocche di leone che simboleggiano il disinteresse (magari nei confronti di un amore non ricambiato) e il capriccio in modo garbato e anche la zinnia, il fiore più adatto per un affetto lontano perché simboleggia la nostalgia.

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