UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CATANIA FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN FILOLOGIA MODERNA
________________________________________________________ Maria Nunziata Parrinello
La memoria si racconta Parole alate su Maletto
Tesi di Laurea
Relatore Chiar.mo Prof. Ignazio Donato
________________________________________________________ Anno Accademico 2010-2011
INDICE Introduzione
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I
pag.
1
9
C'era una volta un nonno, una bambina...ora madre Capitolo primo La Memoria e il Racconto I.1
La memoria
pag.
I.2
Memoria individuale e memoria collettiva
pag. 11
I.3
La modernitĂ e il rischio della presentificazione
pag. 13
I.4
Il valore pedagogico della memoria e del suo racconto
pag. 15
I.5
Il racconto della memoria
pag. 19
Capitolo secondo Le culture della memoria II.1
Il parlante e l'ascoltatore
pag. 23
II.2
L'oralitĂ : l'arte del narrare
pag. 24
II.3
Tessitori di memoria
pag. 26
II.4
Il linguaggio ripetitivo e originale dell'oralitĂ
pag. 27
II.5
Il potere delle parole alate
pag. 30
Le parole alate
pag. 33
Capitolo terzo Si racconta...Maletto C'era una volta la principessa Maletta
pag. 127
III.1 La storia del Paese e dei suoi abitanti
pag. 128
Capitolo quarto Ladri, santi...contadini IV.1 Un popolo si chiede chi è
pag. 149
IV.2 Il Santo del popolo
pag. 155
IV.3 Cadrà la pioggia?
pag. 166
IV.4 Il Santo dei principi
pag. 168
IV.5 Offerte, inni e giuochi di fuoco
pag. 169
Capitolo quinto Da “stilli a stilli” V.1
Principi, duchi, marchesi...Contadini
pag. 175
V.2
Contadini all'<<antu>>
pag. 178
V.3
E' tempo di menar per l'<<aia>>
pag. 181
V.4
Non solo contadini
pag. 185
V.5
L'errante Figaro
pag. 187
V.6
I chiazzaroti
pag. 188
Capitolo sesto Le note contadine VI.1
La parola alla ciaramella
pag. 192
Capitolo settimo Principesse...mogli, madri, massaie VII.1
La reggia contadina
pag. 201
VII.2
Regine madri
pag. 206
VII.3
Una serata in famiglia
pag. 209
VII.4
Leggere, far di conto o...
pag. 214
VII.5
E' ora di trovar marito
pag. 220
Capitolo ottavo I briganti di Maletta...a Maletto VIII.1 Ladri devoti
pag. 233
VIII.2 Quel barbaro assassinio
pag. 226
VIII.3 La storia del carrettiere e della moglie
pag. 232
Capitolo nono Le guerre dei contadini IX.1
Lacrime di fuoco dal cielo: Agosto 1943
pag. 233
IX.2
I contadini apron gli occhi
pag. 238
Appendice
pag. 249
Conclusioni
pag. 252
Bibliografia
pag. 254
Ringraziamenti
pag. 256
Introduzione La memoria e il racconto: un'endiadi indissolubile. La memoria necessita di essere raccontata se non la si vuole immobilizzare, se non la si vuol perdere. Essa è generatrice della poesia, della narrazione. Chi racconta, poeta, aedo, narratore è un uomo posseduto dalla memoria, testimone ispirato di tempi che non sono più. La poesia, identificata con la memoria, è sapienza. Il poeta maestro di verità. Raccontare è ricordare, è trasmettere verità. Dietro ai proverbi, ai “cunti”, ai riti religiosi, alle storie di vita giace la memoria dell'esperienza umana disposta nel tempo e soggetta a trattazione narrativa. Ma qual è questo tempo? Il passato, non fissato ma continuamente reinterrogato e reinterpretato, riletto e ripensato alla luce del presente e delle aperture progettuali del soggetto. La memoria è dinamica: più che come registrazione dell’avvenuto si presenta come progetto su ciò che può avvenire, vogliamo che avvenga, a partire da cui si va poi a rileggere e ricostruire il passato, per ritrovarvi le prefigurazioni di quella identità che stiamo invece costruendo. E' luogo dove si costruisce il futuro. E' procedere in avanti non a ritroso. Nell'attualità l'esperienza come continuità, garantita dalle tradizioni, si perde. E' la “presentificazione”, l'eternizzazione del presente: ogni istante assume significato in sé e per sé, scompare la progettualità, elemento costitutivo che dona profondità al futuro e il tempo della memoria, insignificante, è annullato. Si assiste alla “perdita dell'intervallo”, l'intervallo del silenzio che consente lo sguardo che si volge all'indietro e si dà il tempo di ri-raccontare e unificare le proprie esperienze. Se non c'è l'opportunità di connettere le esperienze che si vivono, se la memoria è soltanto quella a breve termine, svanisce lo spazio che fa emergere il “bisogno”, quel bisogno che si interroga sul senso della relazione individuale col mondo, che sottrae il tempo al suo puro accadere, e che ridona al soggetto la consapevolezza del vivere e di operare scelte, dell'appartenere ad un tempo e ad uno spazio. Bisogna recuperare l'intervallo perduto. Ricordare e raccontare per continuare ad essere! La memoria è conoscenza, è il luogo dell'esperienza, è vita, è cultura. Il racconto è la voce della memoria che suscita emozioni, trasmette, tramanda le regole della I
società, tiene coese le società. Oggi più che mai abbiamo bisogno di risentire le "parole alate" degli uominimemoria, per apprendere e ri-prendere possesso della nostra cultura, della nostra identità che è prima di tutto identità comunitaria, collettiva. Fissare per iscritto storie vissute, raccontate e tramandate oralmente dai nostri padri, dai nostri nonni “analfabeti”, canzoni colme di amori, timori, ansie religiose, di vita e di morte; rileggere e perché no, reimparare a memoria, i loro indovinelli, i loro proverbi, intrisi di saggezza e d'essenza di vita, potrebbe far rinascere quel senso di appartenenza ad una comunità che i nostri “narratori” sentivano e che noi e i nostri figli andiamo perdendo. Potrebbe essere un modo per ricostruire quell'identità collettiva che rischiamo di far svanire. Lasciamo, allora, che la memoria si racconti!
II
C'era una volta un nonno, una bambina...ora madre Da piccola mio nonno Nino mi prendeva tra le sue braccia e mi diceva:
<<Veni
cca', a me gioia giuitta, chi ti cuntu un cuntu!>> e iniziava a raccontare. Io guardavo la sua bocca, i suoi luminosi occhi verdi, le sue belle, grandi, eleganti, venose mani e ascoltavo, ascoltavo, incantata. Quando si interrompeva chiedevo ancora che continuasse o iniziasse un nuovo racconto. Non so quante volte ho sentito raccontare le stesse storie ma per me, e penso anche per gli altri nipoti, ogni volta era come la prima. Le storie di Giufà, la storia di Ulisse e Polifemo e altre raccontate da lui erano meglio dei cartoni animati. Spesso il mio Narratore preferito mi raccontava episodi della sua vita da soldato e lo faceva con gli occhi pieni di lacrime, di rabbia per le durezze affrontate ma anche con tanti sorrisi quando mi parlava della bella Renée che aveva conosciuto in Corsica e che aveva amato di un amore puro, giovanile. Mi raccontava della generosità delle persone che aveva incontrato, persone che non avevano esitato a dare aiuto ad uno sconosciuto, ad un soldato ridiventato da poco solo un “uomo” che cercava di ritornare a casa dopo l'armistizio dell'otto settembre, sfuggendo ai tedeschi che portavano i soldati italiani nei campi di concentramento in Germania. Mio nonno per me era l'eroe: l'eroe che aveva affrontato mille pericoli, ed era finalmente approdato come Ulisse nella sua Itaca, dove una famiglia e tanti figli e nipoti erano lì ad attenderlo per ascoltare i suoi racconti. Quando divenni un po' più grande le sere marito e moglie, seduti accanto alla stufa a legna, intenti a pulire la verdura che mio nonno aveva di buon mattino raccolto in campagna, mi raccontavano, sollecitati dalla mia curiosità, episodi della loro vita giovanile, di loro fidanzati, come trascorrevano le giornate e soprattutto le serate. Avevano una gran voglia di raccontare ed io di ascoltare! Erano tempi duri quelli da loro narrati, gli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Vivevano a Maletto, un paese di pochi abitanti, dove tutti lavoravano, instancabilmente e senza notevoli guadagni, la terra, quella terra che era in mano a pochi grandi proprietari terrieri che
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avevano sostituito i grandi feudatari con l'abolizione del feudalesimo, avvenuta in Sicilia nel 1812. Mi raccontavano i soprusi dei padroni, dei “campieri”, dei latifondisti, episodi di violenza, ma il loro modo di raccontare era così sereno che quelle storie non mi facevano paura, mi facevano capire che si deve lottare per le cose giuste, per i propri diritti, anche se a volte si è costretti a sottostare alla legge del più forte per continuare a vivere, ma non per questo si è meno dignitosi, anzi. Le spalle larghe di mio nonno, il suo aspetto fiero ma mai superbo, testimoniavano ai miei occhi il coraggio, la forza, la nobiltà d'animo di un uomo che insieme a tanti altri suoi compaesani era riuscito a difendere la propria dignità e libertà. E soprattutto e nonostante tutto erano felici! Felici di ritrovarsi insieme a casa di qualche amico per sorseggiare in compagnia un bicchiere di vino e ascoltare e raccontare cunti, storie fantastiche, cantare e ballare al suono della fisarmonica o del “friscarettu”. Quel mondo raccontato da mio nonno mi sembrava meraviglioso, incantevole. E i protagonisti, gli eroi, le principesse erano persone in carne ed ossa che io conoscevo. Era costituito da poche anime Maletto, ma dai suoi racconti sembrava che fosse una grande e solidale Comunità. Tutti sapevano tutto di tutti, intrighi, amori, faide, anche se spesso, dinnanzi a fatti molto cruenti, facevano finta di non vedere, sentire e conoscere. Per omertà? Per vigliaccheria? forse per una sorta di atavico rispetto. Anche quando di mezzo c'era la vita. Mio nonno, ma l'ho sentito raccontare da tante altre persone e anche da mio padre, mi raccontava spesso un fatto realmente accaduto a Maletto, subito dopo la seconda guerra mondiale. Il rapimento a scopo di estorsione di Rosario Sgrò, conclusosi con l'uccisione del suddetto perché, sfortunatamente, aveva visto in volto, riconoscendolo, uno dei rapinatori. Un fatto molto cruento che è ancora nella memoria dei Malettesi più anziani, narrato da mio nonno come un romanzo giallo, ricco di particolari e di commenti morali. Quando lo sentivo raccontare mi sembrava veramente di vivere l'atmosfera ricostruita da mio nonno, di partecipare alle attese, alle speranze, alle delusioni dei familiari, degli amici del rapinato. Persone che erano poco più che ragazzi in quel periodo, ricordano e raccontano di Orazio Strano, cantastorie che veniva spesso in quegli anni a Maletto, per raccontare con la sua
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chitarra e la sua voce, fatti realmente accaduti nei paesini o storie inventate. Proprio negli anni del rapimento, venne nel mio Paese a cantare il barbaro assassinio di Saro Sgrò. Orazio Strano osò cantare quell'episodio sugli scalini prospicienti la Chiesa, proprio mentre il corteo funebre abbandonava la chiesa. Fu allora invitato dagli stessi familiari del defunto a interrompere il canto, a lasciare il paese e a non ricantare più quello che avevano appena sentito. Troppe ferite aveva aperto quell'episodio, in tutta la comunità malettese, ferite che non si sarebbero forse mai rimarginate. Sono andata alla ricerca di qualcuno che, ancora a distanza di più di sessant'anni, ricordasse quella canzone, spinta dal desiderio di capire qualcosa di più. E' la musica col suo ritmo che spesso, soprattutto nelle menti delle persone poco o per nulla alfabetizzate, aiuta a ricordare, a fissare indelebilmente nella mente storie e accadimenti. L'ho trovata e per me è come se avessi trovato un tesoro, un tesoro appartenente a Maletto e penso che come tale debba essere conservata, custodita gelosamente da noi malettesi, perché è un tassello della nostra storia, della storia dei nostri padri che hanno lottato e sofferto tanto per sopravvivere, a volte non riuscendovi. Una storia che fatta ascoltare e conoscere ai ragazzi di oggi ha ancora tanto da insegnare. Sono convinta che le storie, anche se piccole e apparentemente poco rilevanti dal punto di vista della storia nazionale, siano molto importanti. La grande storia si nutre e vive delle piccole storie. Raccontare e tramandare, fissare per iscritto quelle storie realmente accadute a Maletto, le storie vissute e raccontate dai nostri nonni, dai nostri padri, quelle canzoni che parlano dei loro amori, dei loro timori, del loro sentimento religioso, del sentimento della vita e della morte, rileggere e perché no, reimparare a memoria i loro indovinelli, i loro proverbi, pillole di saggezza e rivelatori dell'essenza della vita, potrebbero servire a far rinascere nei giovani quel senso di appartenenza ad una comunità che i nostri nonni, i nostri padri sentivano e che noi e i nostri figli andiamo perdendo. Potrebbe essere un modo per ricostruire l'identità collettiva sempre più minacciata dall'individualismo cieco e malato. Vi è questo sentimento che percorre ed alimenta la mia ricerca. Ricerca che nasce dalla voglia di raccontare ai miei figli, Carla e Marco, divoratori insaziabili di storie, le
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storie raccontate a me bambina. E questo, non solo per arricchire il mio repertorio ma per creare, per far nascer ed alimentare, nutrire in loro quel filo che lega padri e figli al posto dove si cresce, dove si vive. Per insegnare e imparare, assieme a loro, a vivere in questo luogo non come se ci trovassimo in un posto qualsiasi, non come stranieri, ma consapevoli che siamo a Maletto, luogo dotato di proprie peculiarità, fatto prima di tutto di persone, di storie che arricchiscono il nostro essere e il nostro divenire, che ci permettono di essere in un modo anziché in un altro, che collaborano alla costruzione sempre più ardua della nostra identità. Ma forse per imparare tutto questo è necessario partire e poi ritornare. Questo lavoro nasce proprio dal riallacciato legame affettivo col mio paese, il mio vecchio gruppo di amici dell'infanzia e dell'adolescenza, i miei genitori. Riallacciato perché per lunghi anni ho vissuto a Catania, lontana pochi chilometri fisicamente, ma con la mente tanto distante. Sono stata lontana, proprio negli anni della giovinezza, quando il mio desiderio, condiviso da quasi tutti i giovani di Maletto, era fuggire dal mio paese che non offriva niente, né lavoro, né divertimenti, né cultura. Catania, miraggio fin dall'adolescenza, si prospettava come un mondo opposto, ricco di tutto quello che un giovane desiderava. Ecco che in quegli anni il legame affettivo col mio paese si è molto allentato. Ritornavo, di tanto in tanto, fortunatamente ne apprezzavo ancora gli odori, i vicoli, gli affetti familiari e le amicizie ma...non volevo ritornare. Ormai pensavo che il mio futuro non prevedesse Maletto, ma una grande città. Ecco che Carla, il mio reale presente e futuro mi riporta nel mio passato, a Maletto. È grazie a lei che ho risentito forte quel vincolo che mi legava al mio Paese, alla Mia casa, la casa dove hanno vissuto i miei nonni, e soprattutto ai miei ricordi, al mio passato, che rivedevo pieno di cose belle da trasmettere alla mia bimba. Carla, bimba come tutte le altre, dotata di quel naturale dono dell'ascolto; poi Marco anche lui infaticabile ascoltatore. Ecco che la sera, ma non solo, comincio a raccontare storie classiche, storie inventate, storie che mi raccontava mio nonno tra le sue braccia e sulle sue gambe forti. Ad un certo punto la mia memoria si arresta e non ricordo più quello che mi narrava, ricordo solo che quando sentivo la sua voce il
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mondo per me si fermava, entravo in un mondo magico, senza tempo. E poi il rammarico, per aver detto a me stessa infinite volte che avrei dovuto mettere per iscritto i racconti dei nonni, la rabbia per non averlo mai fatto, convinta che li avrei sempre ascoltati dalla loro viva voce. Proprio quando
mi sono resa conto che
cominciavo a perdere la memoria di ciò che mi era stato raccontato ho avvertito l'esigenza di recuperarla attraverso questo lavoro. Voler scrivere le loro storie, ma anche quelle delle persone che amavano raccontare e ascoltare come loro, significa per me riallacciare i rapporti col mio passato, col mio Paese, con la sua cultura, la sua identità. Potermi sentire madre, padre come loro lo sono stati per me. Alla base di questa mia ricerca anche un'altra forte motivazione: la curiosità, la voglia di capire perché e come le persone anziane ricordano avvenimenti lontani nel tempo, storie ascoltate quand'erano bambini, come fanno ancora a raccontarle, e da dove derivano quelle capacità “teatrali”, attoriali, che affascinavano me bambina e affascinano ancor di più me adulta. Perché gli anziani detengono mirabili capacità mnemoniche mentre noi giovani dimentichiamo con troppa facilità quello che i nostri occhi hanno letto pochi minuti prima? Colpa dell'alfabetizzazione? Inoltre, non nego che mi piacerebbe affidare a questo lavoro uno scopo didattico, semplice eppure a volte, e parla adesso l'insegnante che è in me, difficile da perseguire e da raggiungere: la riscoperta del piacere dell'ascolto, un piacere antico come l'uomo che però è sempre più minacciato. Forse queste storie, preghiere, proverbi, indovinelli, cunti che ho raccolto risulteranno privi di interesse per i nostri ragazzi, molti dei quali non capiranno nemmeno la lingua, (volutamente non tradotta in italiano perché è la lingua di mio nonno, di mio padre, dei miei narratori, ed è ancora mia) ma forse uno di loro, dopo un primo ascolto chiederà: “me ne racconti un altro?”. E lo scopo sarà raggiunto l'importante non sarà nemmeno capire ma ascoltare la voce dei nostri padri, ascoltarla con la mente e col cuore, perché sono convinta che non finiremo mai (se vorremo!) di imparare da loro, da loro che “analfabeti” sono stati per secoli custodi di un gran sapere, quello della vita, dell'amore per essa, per la propria e quella degli altri. L'amore per la propria Terra, dura ma incomparabile ad altre, unica!
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Mio nonno analfabeta narratore dell'Odissea! E' stato proprio questo pensiero ad originare il presente lavoro. Una mattina mi son svegliata (chissà cosa avevo sognato!) con questo pensiero, da lì una voglia irrefrenabile di sapere come mio nonno avesse conosciuto la storia di Ulisse e Polifemo, raccontata a me e poi ai miei nipoti sempre alla stessa maniera. La domanda che stupidamente mi ponevo era questa: “mio nonno: analfabeta, non ha mai frequentato la scuola, non è mai uscito da Maletto, tranne per andare a fare il soldato, come fa a conoscere la storia di Polifemo e di Ulisse?quella storia che io ho letto sui libri?” Ecco un'ignorante istruita! Come se leggere i libri fosse l'unico modo per conoscere, apprendere. E tutta la vasta tradizione orale che passa di bocca in bocca, da orecchio ad orecchio, di cui sono portatori e trasmettitori anche persone illetterate, analfabete, non ha senso? Forse oggi ha perso il suo significato, in una società che non sa più ascoltare, non sa più narrare, ma ai tempi di mio nonno e fin dalle origini del tempo la cultura orale era fondamentale, era l'unica, come unica è la vita alla quale uomini, eroi di altri tempi, si aggrappavano con tutte le loro forze. Ed era proprio per difendere questa vita, per sfuggire alla dura realtà quotidiana, per dimenticare le atrocità della guerra, i soprusi dei padroni, che cantavano, ballavano, raccontavano e pregavano. Quel “narratore” non aveva frequentato la scuola, così come tanti altri suoi coetanei, solo due, tre giorni della prima elementare; gli sarebbe piaciuto avere un'istruzione, intuiva il valore di questa, ma... non era stato possibile. Era fiero di veder me, sua nipote, studiare a casa sua. Era dovuto andare a lavorare la terra col padre per sfamare la famiglia e permettere ai fratelli più piccoli un'istruzione. Eppure per me lui era l'uomo più colto che conoscessi, a qualsiasi domanda rispondeva e solo lui, e non mille testi letti in seguito, ha saputo trasmettermi conoscenze fondamentali. Non smetterò mai di ringraziarlo. Lui mi conduceva per mano all'alba in campagna, mi ha insegnato ad apprezzare l'odore della terra, dell'aria mattutina, delle fragole appena raccolte, e anche se era una fatica seguire i suoi passi da gigante, tenergli la mano e vedermi accanto a lui era la felicità. Ora che vive nel mio cuore e nel mio pensiero è ancora più grande. Mi ripeteva
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sempre “le cose o le fai bene o non le fai”, e io cerco di tenerlo sempre presente. Spero di non deluderlo. Lui è stato la mia musa ispiratrice, lui è la mia stella polare in ogni singola parola che scrivo ed è a Lui che dico Grazie. Grazie perché nella sua “ignoranza” di analfabeta mi ha dato l'amore per la cultura, per la conoscenza, per il mio paese, la mia terra, la mia famiglia, il mio passato che non è solo quello che ho vissuto personalmente, ma quello che ho rivissuto ascoltando le sue storie, i suoi cunti, le sue canzoni, le sue poesie che dette con quella voce un po' rauca, con quel sorriso e quegli occhi scintillanti sono parte di me. Inizialmente l'idea mia era quella di andare alla ricerca, di raccogliere, attingendo soprattutto dalla viva voce degli anziani del mio paese, quel che rimaneva della tradizione orale malettese, intendendo con questa le poesie, i canti, le preghiere, i cunti in dialetto che erano stati tramandati da padre in figlio. Ma, recandomi presso gli anziani ho scoperto un mondo molto affascinante. Prima di tutto, la loro irrefrenabile voglia di raccontare. Passavano le ore e me ne accorgevo solo perché a volte il telefonino squillava, richiamandomi a casa. Gli uomini-memoria chiedono, tacitamente, ascolto! Andavo per sollecitare il racconto di una particolare storia, dopo quella, ecco che iniziavano a raccontarmi la loro vita, di quand'erano bambini, andavano a lavorare, di com'era il paese ai loro tempi... E allora, è divenuto necessario estendere il mio lavoro e far sì che parte essenziale di esso divenissero i racconti di vita di queste persone, rivelatisi cornice naturale di preghiere, cunti, canti, poesie. Non si possono capire questi se non si conosce, comprende chi le ha recitate, perché, e con quale spirito. I contadini e le loro mogli hanno un mondo immenso da raccontare e da trasmettere, un mondo che è quello in cui sono nati, un mondo che hanno con il loro duro lavoro, coi loro immensi sacrifici trasformato in meglio per le generazioni future. Loro hanno lottato duramente per consegnarci un paese migliore di quello dove erano nati..e ci sono riusciti. Ci hanno regalato un paese libero da pastoie feudali, da ricatti umani, da faide interne; ci hanno consegnato un paese civile, democratico, dove tutti possono andare a scuola tranquillamente, un paese dove le differenze sociali non sono
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più così importanti. Loro ci hanno permesso di essere quello che siamo. E' nostro dovere ringraziarli: non con parole, non con atti eroici, semplicemente donando loro il nostro ascolto e comprendendo il passato per far sì che, alla luce di quello, possiamo vivere intensamente il presente e progettare il futuro. E' questa l'eredità che ci hanno consegnato; a noi giovani e ai nostri figli l'arduo compito di custodirla e
farla ancora una volta fruttare. Tocca a noi continuare,
riprendere la loro lotta per far sì che Maletto possa nel 2012 ancora una volta, come nei secoli passati, risvegliarsi. I malettesi del Duemila abbiamo bisogno di riscoprire la nostra identità, di rinsaldarla per non far ripiombare Maletto in quella clausura feudale che lo ha caratterizzato fino alla metà del Novecento. E' questo principalmente il fine pedagogico che vorrei dare al mio lavoro. Insegnare ai giovani che un mondo migliore è ancora possibile, spetta a noi costruirlo. Il nostro Paese è adesso molto diverso da quello dei nostri padri, migliore o peggiore? non tocca a me giudicare. Sicuramente un paese, come tutti gli altri, che per continuare a permanere nel tempo ha bisogno di nuova linfa, di trarre ancora alimento da quel terreno sempre fertile che hanno coltivato con dovizia e amore chi ci ha preceduto. Coltivare e non abbandonare. Sarebbe veramente un oltraggio al passato arrendersi dinnanzi alle difficoltà odierne, e scegliere altre vie, molto più semplici. I nostri padri, fino agli anni settanta, sono stati costretti ad abbandonarlo in cerca di lavoro, ma sono ritornati e il loro lavoro all'estero è servito a migliorare Maletto, a costruire nuove possibilità. Rimbocchiamoci le mani e consegniamo ai nostri figli un paese dove si possa vivere e crescere da persone del XXI secolo.
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Capitolo primo La Memoria e il Racconto Rappresentano un'endiadi indissolubile, l'una non può esistere senza l'altro. La memoria necessita di essere raccontata se non la si vuole immobilizzare, violando così la sua natura che è dinamica, così come dinamico è l'io di cui contribuisce a costruirne l'identità. La memoria è generatrice della poesia, della narrazione. I Greci ne fecero una dea, Mnemosine, la madre delle nove muse, generate durante le nove notti trascorse in compagnia di Zeus. Ella richiama alla mente degli uomini il ricordo degli eroi e delle loro grandi gesta, presiede alla poesia lirica. Il poeta è pertanto un uomo posseduto dalla memoria, è il testimone ispirato dei “tempi antichi”, dell’età eroica e, ancor oltre, dell’età delle origini. La poesia, identificata con la memoria, è sapienza. Il poeta “maestro di verità”. Verseggiare è ricordare e trasmettere verità.1 I.1. La memoria Ma cos'è la memoria? “...la capacità di tenere in un che di coerente i molti eventi che investono l'esistenza personale, in modo che l'io possa riferirli a sé, inanellandoli in una storia che lo riguarda, che lo fa consistere”. 2 La memoria assume il valore di una ricerca delle radici del sé, che favorisce la presa di coscienza del proprio essere storico, unitamente al senso del proprio cammino individuale. “Una società o un individuo che perda il senso del rapporto con il proprio passato perde uno degli elementi fondamentali della propria identità, cioè la capacità di percepire la propria continuità.”3 Ed ecco che emerge la funzione della memoria. Questa consiste non tanto nel 1 Jacques Le Goff, Memoria, voce dell'enciclopedia Einaudi, vol. III,Torino, Einaudi,1979, pagg.17,18 2 Salvatore Colazzo, Per una pedagogia della memoria, in Medias Res, Rzeszow 2010, pag.105 3 Paolo Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità . Memorie e società nel XX secolo, FrancoAngeli Editore, Milano, 2002, pag. 98
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fornire immagini “fedeli del passato”, ma nel
preservarne gli elementi che
garantiscono ai soggetti il senso della propria continuità e l'affermazione della propria identità. E' il presente che evoca, ridestandolo, il passato e ci conduce a riconnetterlo alla nostra vita. “Rammentarsi di qualcosa vuol dire sempre coglierla in relazione al nostro presente che costituisce non soltanto il luogo da cui si misura la lontananza di quel passato ma anche il motivo evocatore che lo ridesta e, insieme, la ragione che ci invita a rammentarlo, per metterlo nuovamente in relazione con la nostra vita. Ne segue che il ricordo non è il luogo in cui si dipana una trama in cui il tempo si è definitivamente accomiatato dal “pathos” del divenire, perché quella stessa vicenda si rapporta nel suo senso e nella sua funzione al presente e al suo trascorrere.”4 Il passato custodito dalla memoria e ricordato non è un passato registrato più o meno fedelmente, che ritorna, ma un passato che viene continuamente reinterrogato e reinterpretato dagli interessi del presente e dalle aperture progettuali del soggetto, e perciò costantemente sottoposto ad un'opera di selezione, sintesi e ricostruzione. “Il passato struttura attraverso i suoi lasciti il presente, ma è il presente che seleziona questi lasciti trattenendone alcuni e abbandonandone altri all'oblio, e che costantemente riformula l'immagine dello stesso passato, raccontandone sempre di nuovo la storia. La capacità di raccontare sempre di nuovo la storia è la capacità di dialogare con il nostro passato: ciò che, in senso proprio, è l'aspetto essenziale della nostra esperienza.”5 La memoria non riguarda esclusivamente la ricostruzione del nostro passato né la sola dimensione del presente; la memoria è anche, e forse paradossalmente soprattutto, una costruzione prospettica che guarda al futuro, alla immagine di noi che in quel futuro vogliamo proiettare. La memoria si presenta così, più che come registrazione dell’avvenuto, come un progetto su ciò che può avvenire, su ciò che vogliamo che avvenga, a partire da cui si va poi a rileggere e ricostruire il passato, per ritrovarvi le prefigurazioni di quella identità che stiamo invece costruendo. 4 Paolo Spinucci, Lezioni sul tempo, la memoria e il racconto, CUECM, Milano, 2004, pag.230 5 Paolo Jedlowski, op.cit.pag.126
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Una simile dialettica non vale solo per gli individui, ma anche per le società e le culture: la costruzione di un’identità collettiva si fonda e presuppone al tempo stesso una memoria collettiva. La memoria è quindi un insieme dinamico, luogo non solo di selezioni, ma di reinterpretazioni e riformulazioni del passato, luogo dove si costruisce il futuro. In questo la memoria rappresenta un procedere in avanti anziché a ritroso. In questo si differenzia dalla nostalgia. Nella nostalgia a prevalere è il rimpianto per qualcosa che si è irrimediabilmente perduto, che appartiene al passato, recuperabile solo attraverso il ricordo. Rimpianto che si colora di tristezza. Rievocazione di un qualcosa idealizzato. Pervaso da questo sentimento il soggetto o si lascia andare ad un estenuante struggimento, divenendo incapace di autenticamente progettare il futuro, o si organizza in modo da recuperare il passato. Atteggiamenti per nulla costruttivi. La nostalgia è sentimento che pervade l'uomo lontano da casa (da intendere nel suo significato simbolico di “luogo in cui ci si avverte accolti”), cioè chi si senta sradicato dal suo contesto di appartenenza e che, pur trapiantandosi in un altro, non riesce ad adattarvisi abitandolo serenamente. Nostalgia quindi è “un depauperamento della qualità della relazione che il soggetto ha con sé, con gli altri, con l'ambiente che lo circonda.”6 Ma la nostalgia può tramutarsi in memoria se il soggetto nostalgico è disposto a congedarsi da quel passato che ha idealizzato e che non potrà mai essere ripristinato nella sua interezza, a rielaborarlo, cioè ad assorbirlo e superarlo, al fine di sostanziare il presente e alimentare i progetti per il futuro. Si passerà così da una situazione di arresto (nostalgia) ad una di durata (memoria). L'io, non dimenticando gli stati anteriori ma rinunciando ad immergersi completamente in essi, imparerà a vivere serenamente il tempo. I.2 Memoria individuale e memoria collettiva Appartenere ad una comunità, sentirsi parte significante e significativa di essa, essere conosciuto e riconosciuto nel sistema di relazioni in cui consiste, genera nel 6 Salvatore Colazzo, op.cit. Pag.106
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soggetto benessere. “Noi non siamo mai soli”7 anche quando ricordiamo, afferma Halbwachs. Le memorie individuali, quindi, non possono prescindere da una loro dimensione sociale e collettiva: ognuno di noi per ricordare ha bisogno degli altri. La nostra memoria singolare è sempre anche intersoggettiva, culturalizzata, perché sempre intrecciata allo sguardo degli altri. In questo senso si potrebbe dire che la memoria individuale rappresenta un punto di vista particolare sulla memoria collettiva, ma quest’ultima a sua volta condiziona il processo del ricordo individuale, governando dinamiche di memoria e oblio, rimozione e rivendicazione. Memoria e oblio si pongono, dal punto di vista della costruzione della identità, in un rapporto di reciproca implicatura: una forma identitaria si costruisce attraverso la selezione e la riorganizzazione narrativa di alcuni elementi del passato sacrificandone altri. “La memoria collettiva di un gruppo è, per Halbwachs, un insieme di rappresentazioni del passato che vengono conservate e trasmesse fra i suoi membri attraverso la loro interazione. Insieme di eventi e di nozioni ricordati, ma anche un modo condiviso di interpretarli. Aneddoti, racconti, storie di vita, proverbi e frasi fatte, istruzioni per la vita pratica, modi di dire e simboli comuni diventano insiemi di elementi che sorgono nell'interazione e si impongono a ciascuno come una risorsa in qualche modo codificata, quadro entro cui i i suoi racconti assumono forma narrabile e le sue azioni un ordine che è dato per scontato nella misura in cui si riferisce a norme, valori e simboli condivisi e tramandati.”8 La sopravvivenza di questa memoria collettiva, vale a dire della condivisione di ricordi, interpretazioni comuni, valori, dipende dai rapporti affettivi e dagli interessi che legano il singolo al gruppo, sia esso la famiglia, la chiesa, il partito, la minoranza etnica, a cui appartiene. Se il rapporto affettivo del singolo col gruppo viene meno i fatti, i discorsi che si tenevano al suo interno, cadono nell'oblio. La memoria collettiva trae forza dal legame del singolo col gruppo, questo riceve forza e coesione dalla memoria collettiva: ne rappresenta il passato comune, ne 7 Halbwachs, cfr. Jedlowski, op.cit., pag.51 8 Paolo Jedlowski, op.cit.pagg.50,51
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conferma l'identità all'interno di un tempo sulla cui linea, attraverso date, si segna la storia e si indicano i valori.9 I.3 La modernità e il rischio della presentificazione La memoria collettiva si pone come elemento di sviluppo della comunità, è una forza attiva che favorisce la coesione di un gruppo sociale, garantendone l'identità. Poiché la memoria è strettamente legata all'identità, la crisi della memoria ha inevitabili ripercussioni sull'identità. Rispetto alle generazioni antecedenti la nostra conoscenza del passato, della storia, è molto più ampia, tuttavia il senso dell'identità e della continuità col passato continua ad affievolirsi. “Si è manifestata così una situazione per lo meno paradossale per l'uomo: le barriere del passato sono state risospinte indietro come mai prima d'ora. La nostra conoscenza della storia, dell'uomo e dell'universo si è ampliata in proporzioni e a livelli che nessuna generazione precedente aveva mai neppure sognato. Ma allo stesso tempo il senso di un'identità e una continuità col passato, che si tratti del nostro o di quello storico, non ha smesso di declinare progressivamente. Le generazioni che ci precedettero ebbero del passato una conoscenza minore della nostra, ma ebbero forse il sentimento di una identità e continuità col passato assai più grande.”10 Quell'ordine sociale che un tempo era basato su “comunità” fondate su vincoli di conoscenza, è stato progressivamente disgregato dalla crisi indotta dal progresso tecnologico e industriale. Dalle sue macerie è sorta una società di “estranei” in cui le relazioni si sono moltiplicate ma sono più labili, effimere e distanti. Le comunità perdono
contatto con le tradizioni, il tempo è semplicemente
consumato, l'orizzonte delle attese si riduce. “L'esistenza quotidiana come l'arte appaiono dominate da un veloce succedersi e sovrapporsi di eventi senza sospensione alcuna e senza nessun tempo o spazio di ricambio. 9 Ivi, pag.51 10 H.Meinhoff, Time in Lliteraturecit, in Y.H.Yerushalmi, Zakhor.Jewish History and Jewish Memory, Washington, Washington Univ. Press,1982. Cfr. Paolo Jedlowski, Memoria e modernità. Osservazioni in margine ad Halbwachs, Benjamin e Simmel, Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica, Università degli studi della Calabria, Rende (CS), 1988, pag.3
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Ogni istante assume significato in sé e per sé, l'approccio al tempo diventa estatico, in quanto la coscienza si lascia assorbire da ogni singola esperienza che fa e non ha interesse a ricondurre la somma delle esperienze ad una forma sintetica.” 11 Si assiste così alla “presentificazione”, all'eternizzazione del presente: il tempo viene consumato, non c'è più spazio per le attese, i progetti. Mancando la progettualità, elemento costitutivo che dona profondità al futuro, questo diventa insignificante, fino a scomparire.12 Gillo Dorfles parla a tal proposito di “perdita dell'intervallo”, quell'intervallo che consentiva di ri-raccontare le proprie esperienze.13 La memoria è il luogo dell'esperienza, alla quale la modernità non riconosce più alcun valore, decretandone la fine. ( Benjamin) “Tanto meno l'acquisizione di esperienza è ritenuta nella modernità un obiettivo dell'individuo, tanto meno la memoria appare interessante per se stessa, e tanto più si offre alla sua riduzione a mero strumento dell'agire razionale.” 14 Si sviluppa un atteggiamento disincantato nei confronti della memoria, considerata solo in relazione alle necessità della vita pratica, serbatoio di informazioni che verranno rievocate a tempo debito, lasciando da parte tutto ciò che non è utilizzabile. Anche la memoria diventa “merce” apprezzata solo se “utile”. La modernità è caratterizzata dalla velocità dei mutamenti, dal sempre “nuovo”; le cose accadono e già sono vecchie, non sedimentano nella nostra memoria. Questa modernità sconvolge i quadri di riferimento passati, pone domande inedite reclamando risposte originali. Ma se il mondo muta sotto i nostri occhi a che serve l'esperienza? Il passato non è più in grado di indicare la via al presente. Le forme di sapere tradizionale ne escono delegittimate, con una conseguente sfiducia nella memoria. L'esperienza come continuità si perde, viene meno il sentimento di continuità col passato, garantito prima dalle tradizioni. Emerge un sentimento del tempo come fluire inarrestabile della storia umana in cui passato, presente, futuro sono slegati e diversi 11 Salvatore Colazzo, op.cit. pag.110 12 Marita Rampazi, Il tempo biografico, in A. Cavalli, Il tempo dei giovani, Milano,2008, pag.137. Cfr. Salvatore Colazzo, op.cit.,pag.113 13 Gillo Dorfles, L'intervallo perduto,Skira, Milano, 2006. Cfr: Salvatore Colazzo op.cit., pag.110 14 Paolo Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX secolo, FrancoAngeli, Milano, 2002, pagg.90,91
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l'uno dall'altro. Come sottolinea Jedlowski, la modernità rappresenta nella cultura il passaggio da un mondo del “destino” a un mondo della “scelta”: in parte libero dai vincoli posti dalle tradizioni, almeno in linea di principio, ciascuno è ritenuto capace di scegliere personalmente i propri valori e i propri progetti.15 La modernità muta anche il modo in cui si costruisce un'identità. Se questa, nelle società premoderne, in parte derivava dall'appartenenza ad una data famiglia, ad un determinato gruppo, e quindi nella costruzione dell'identità un ruolo fondamentale aveva la memoria, adesso, le società moderne considerano la memoria dell'individuo fonte e garanzia della sua identità che si fonda solo sui suoi meriti e sulle sue qualità. “Di fronte allo scorrere del tempo, di fronte alla percezione della radicalità della morte in un mondo privo di orizzonti trascendenti, di fronte alla visione del mutamento e del carattere definitivamente passato di ciò che è passato, la memoria è una facoltà ambivalente. Da un lato essa lenisce le ferite del tempo: conservando, mitiga la definitività del tempo perduto. Dall'altro, poiché conserva le immagini del passato solo insieme con la coscienza che esse rimandano a qualcosa che, appunto, è passata, è dolorosa. Consolante e minacciosa insieme: questa è la memoria per chi vive nel tempo umano. La sua riduzione a strumento, l'omologazione della memoria umana a modelli tratti dalla tecnologia delle “memorie” artificiali, tendono a nascondere questo volto, che tuttavia permane.”16 I.4 Il valore pedagogico della memoria e del suo racconto Sono le giovani generazioni quelle più esposte al rischio della presentificazione. Sono loro che soffrono per mancanza di identità, per l'assenza di progettualità, di futuro. Soffrono, anche se non ne conoscono i motivi. I giovani si sentono disorientati all'interno di una società di cui non si sentono parte; avvertono gli altri, anche coloro che stanno più vicino a loro, la famiglia, gli insegnanti, i coetanei, gli amici, come estranei, incapaci di aiutarli, di capirli, di indicargli la via per il presente, incapaci di 15 Ivi, pag.91 16 Ivi, pag.91
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far scorgere loro prospettive future. E allora, per chi crede che l'operare educativo sia contribuire all'edificazione dei soggetti, alla loro formazione, diventa indispensabile e irrinunciabile lavorare sulla memoria e sulla narrazione, superando la logica del frammento irrelato. Il tema della memoria è, per l'educazione occidentale, il tema della propria identità, del disvelamento che riattualizza il passato stabilendo il senso della propria continuità nel tempo e nello spazio. Come sottolinea Duccio Demetrio: “Il tramonto della memoria rappresenta la vera fine di ogni pedagogia, del bisogno antropologico di essere raccolti e reinterpretati, rivissuti e reincarnati da chi sopravvive... Il ricordo è ciò che di più nostro, nella povertà o nel benessere, si possa possedere”.17 Rileggere il passato alla luce del presente per progettare il futuro. Questa la ricetta per sfuggire alla presentificazione, che contrariamente a quanto potrebbe indurre il significante, non ha nulla a che vedere con il presente, anzi. Ed infatti, come sottolinea Marita Rampazi c'è notevole differenza tra presentificazione e rivalutazione del presente. “...per rivalutazione del presente si intende un atteggiamento in cui non compare la negazione del futuro. C'è piuttosto il tentativo di arricchire il presente di significatività per sé. In altri termini si mettono in discussione i riti e i contenuti coatti del presente, cercando di trasformarli in oggetto di scelta personale.”18 Come dar senso al presente e non lasciarsi vivere? Riannodando i fili delle esperienze passate, rinarrando il passato in vista del futuro; in questo modo ci si riappropria del senso della propria dispersa esperienza, del senso dell'appartenere ad un tempo e ad uno spazio. Nell'attualità il nostro agire è continuamente sballottato in mille direzioni: i media telematici moltiplicano vorticosamente le sollecitazioni, gli stimoli, le relazioni. Si assommano storie senza riuscire a costruire “la storia”, quella che ha in sé qualche senso di sviluppo. Ogni istante assume significato in sé e per sé, il tempo è semplicemente consumato, si realizza una forma di appiattimento sul presente, ed il futuro non fa altro 17 Duccio Demetrio, Pedagogia della memoria. Per sé stessi, con gli altri, Meltemi Romanzeschi, Roma, 1998, pag.7 18 Marita Rimpazi, cfr. Salvatore Colazzo,op.cit.pag.113
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che ripeterlo, differendo da esso solo perché quantitativamente più ricco. Per costruire la propria identità è necessario recuperare “quell'intervallo perduto” che è poi l'intervallo del silenzio, in cui ognuno di noi recupera le proprie esperienze e le unifica. Se non c'è l'opportunità di connettere le esperienze che si vivono, se la memoria è soltanto quella a breve termine, viene meno lo spazio che fa emergere il “bisogno”, quel bisogno che si interroga sul senso della relazione individuale col mondo, che impedisce al tempo di scorrere passivamente, e che ridona al soggetto la consapevolezza del vivere e di operare scelte. “... attraverso il bisogno il soggetto scopre la distanza tra sé e il mondo e si interroga sul senso del progetto di relazione umana col mondo. Il bisogno, nell'accezione di Lévinas, sottrae il tempo al suo puro accadere e gli dà un orientamento, lo chiama complicemente a contribuire all'accadimento di un'ulteriorità che è prima tutta nel desiderio umano d'un mondo pienamente abitabile dell'umano. Il bisogno mi consente di recuperare le esperienze passate, di leggerle secondo una prospettiva unitaria e di renderle disponibili alla realizzazione di questo disegno futuro, che in questo modo, attraverso quindi il concorso della memoria, si fa autenticamente progetto. Da qui la crisi di identità che connota l'esistere intransitivamente come una sequenza di azioni definite ab aesterno dal caso, sicché vivere si configura piuttosto un lasciarsi vivere dalle circostanze.”19 Contribuire ad eliminare o quanto meno ad accorciare la distanza tra il soggetto e il mondo, guidare il soggetto alla riscoperta del senso che l'appartenenza ad una comunità dà. Trasformare quella nostalgia che pervade l'individuo perché sradicato dal contesto in cui vive, in memoria, in bisogno di conoscere le esperienze della propria comunità. La nostalgia si nutre dell'ignoranza! Far comprendere che ogni racconto individuale è la declinazione di un racconto più ampio, collettivo, che grazie a quel racconto può evolversi e farsi altro. Questi i compiti di chi vuole educare e contribuire alla costruzione dell'identità dell'individuo. La memoria ha natura relazionale, essa viene coltivata nei gruppi e nelle comunità, costituendone la principale funzione identitaria; attraverso la sua costante 19 Salvatore Colazzo, op.cit.pag.114
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rinegoziazione e ristrutturazione consente l'evoluzione con l'estraneo e la sua integrazione come forza vitale dinamizzata. Nella contemporaneità, caratterizzata dalla pluralità dei gruppi e delle loro memorie collettive, dallo scollarsi della memoria dei singoli da quella collettiva, diventa interessante poter maturare l'idea che l'identità dell'individuo sia il risultato di una pluralità di istanze mnestiche che in qualche modo vengono organizzate, gerarchizzate, messe in dialogo, creando così un universo condiviso di valori. Smarrire la memoria e non coltivarla è non solo un perdere se stessi, ma anche un impedirsi di conoscere gli altri, perché la curiosità verso coloro che ci sono di fronte è pur sempre attenzione al loro passato. Attraverso il lavoro sulla memoria è possibile dare concretezza al bisogno di riconoscimento di individui e gruppi, contribuendo a fondare una società fondata sui valori della libertà e solidarietà, attivare quei processi di cambiamento che traggono alimento dal meticciamento culturale, che altro non è che l'intreccio di memorie e lo slancio verso una progettualità nuova, comune. Intreccio di memorie, intreccio di esperienze che diventano particolarmente pregnanti se reinterrogate, riappellate mediante la narrazione e l'attività riflessiva, per farle diventare base per il nostro orientamento futuro nel mondo. In quest'ottica ridiventa vitale interrogare prima di tutto chi è portatore di memoria, riattivare quel colloquio intergenerazionale, quello scambio tra vecchi e giovani che fino a non molto tempo fa era essenziale per apprendere ad affrontare la vita, per costruire il senso della storia, di cui a volte si è protagonisti, altre vittime, e nella contemporaneità diventa indispensabile per ridare ai giovani il senso del tempo, delle sue trasformazioni ma anche delle sue permanenze. “La comunicazione tra generazioni, il passaggio delle testimonianze, i rituali del ricordo, qualora non vengano nuovamente ripristinati, nel privato come nel mondo sociale, ci destineranno all'apparenza e alla finzione.”20 L'uomo moderno, immerso sempre più nel presente, schiacciato da esso, non sente la necessità di appellare gli anziani come trasmettitori di esperienza, come saggi, come testimoni del passato. Così facendo commette un grave errore, perché oggi più 20 Duccio Demetrio, op.cit.pag.7
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che mai abbiamo bisogno di risentire i loro suoni, di sentire raccontare dalla loro voce il passato, la memoria dei loro vissuti, della loro vita quotidiana per apprendere e riprendere possesso della nostra cultura, della nostra tradizione, della nostra identità che è prima di tutto identità comunitaria, collettiva. Il futuro delle giovani generazioni dipende proprio da questi uomini-memoria, esso non può prescindere dalla riscoperta del flusso temporale dell'esperienza. La memoria è conoscenza, è il luogo dell'esperienza. E' vita, è cultura da trasmettere e da raccontare. I.5 Il racconto della memoria I giovani hanno bisogno non soltanto di conoscere gli avvenimenti storici, ma anche di sentirsi raccontare l’esperienza di vita quotidiana, le consuetudini, i sentimenti del tempo. Nelle società postmoderne dell’Occidente ci sono purtroppo scarse risorse di memoria, perché i vecchi non sono più considerati come biblioteche viventi di storia e di esperienze, e quindi testimoni insostituibili di un passato che pesa nel presente. Oggi gli anziani sono considerati alla stregua di consumatori e, se in condizioni di disagio, emarginati dalla società che corre non si sa verso quale traguardo. Bisogna ridare loro il ruolo che per millenni hanno rivestito nelle società a cultura ad oralità primaria. Essi erano narratori per eccellenza. Cosa stava dietro ai proverbi, agli aforismi, alle storie, agli indovinelli..da loro raccontati? La memoria dell'esperienza umana disposta nel tempo e soggetta ad una trattazione narrativa. Il passato, la memoria resta come immobile se non ha la possibilità di raccontare e trovare ascolto. L'esperienza va raccontata e non messa a tacere come ha fatto la modernità. La modernità, come afferma Benjamin, ha decretato la morte dell'esperienza ed anche la fine del racconto, della narrazione che dell'esperienza si nutriva. “La modernità coincide con la fine della narrazione e del racconto. L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori.. Chi viaggia ha molto da raccontare come colui che è rimasto nella sua terra e ne conosce le storie e
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le tradizioni. ...La narrazione è intesa come la capacità di dare consiglio, di mostrare la propria esperienza originaria. ...Il racconto è inteso come pratica ancorata all’intimità del relatore e incisiva per la vita di chi ascolta (come le storie popolari o i racconti dei miti arcaici). ..l'arte del narrare volge al tramonto perché viene meno il lato epico della verità, la saggezza.”21 Che cos'è il racconto? E' un messaggio di ieri trasmesso al domani dall'oggi. È la voce della memoria. Suscita emozioni, trasmette, insegna qualcosa, tramanda le regole della società, tiene coese le società. Raccontare e raccontarsi è attività profondamente umana, sostenuta prima di tutto dal linguaggio, che permette di “virtualizzare” l’esperienza e la memoria attraverso la ri-costruzione di storie. Senza la lingua non potremmo né porre domande, né raccontare storie, due forme di svincolamento dal presente che al contempo rendono più intensa la nostra esistenza. Gli esseri umani possono staccarsi solo parzialmente dall’esperienza attuale e ricordarsi, evocare, immaginare, giocare, simulare, spiccando così un salto verso altri luoghi, altri momenti e altri mondi. La principale funzione della parola è quella di inventare storie. La capacità di narrare è una facoltà quasi naturale come il linguaggio che nasce con l'uomo. “Siamo così bravi a raccontare che questa facoltà sembra
<<naturale>>
quasi
quanto il linguaggio. Addirittura modelliamo i nostri racconti, senza alcun sforzo, per adattarli ai nostri scopi (a cominciare dalle piccole astuzie per gettare la colpa del latte versato sul fratellino minore) e quando gli altri fanno la stessa cosa ce ne accorgiamo. La nostra frequentazione dei racconti comincia presto nella vita e continua senza sosta.”22 Gli uomini hanno sempre amato raccontare e ascoltare storie: “Fin dalle origini gli esseri umani hanno amato raccontarsi a vicenda storie: storie per consolare, sorprendere, divertire. Ci sono sempre stati narratori, seduti 21 Walter Benjamin, Il narratore,in Angelus Novus, pag.247 22 Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura,vita .Laterza, 2002, Roma-Bari, pag.3
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accanto al focolare o vaganti di città in città, che parlavano, scrivevano, recitavano. Le storie degli uomini, i miti e i racconti popolari hanno definito, conservato e rinnovato le culture, fossero storie di sconfitta e di redenzione, di eroismo e di fallimento; storie che, apertamente o velatamente, offrono modelli e morali, vie d’accesso al passato e al futuro, guide per chi è perplesso; storie che stimolano, indispettiscono e sconvolgono; storie con inizi, parti centrali e finali, strutture familiari, temi riconoscibili, piacevoli nelle loro variazioni (un canto ben eseguito, un racconto ben riferito, una suspense ben costruita). Queste storie possono essere pubbliche o private, svolgersi nel sacro e nel profano, affermare la realtà e giocare di fantasia, appellandosi all’immaginazione.”23 I racconti, dunque, fanno parte integrante della nostra vita. Quando un giorno passa, smette di esistere. Cosa resta? Nient’altro che una storia. Se le storie non venissero raccontate l’uomo vivrebbe come gli animali: senza passato né futuro, in un presente cieco. Per permanere nel tempo è necessario raccontare e trasmettere così ai nostri contemporanei e alle generazioni future le storie più autentiche ed esemplari di quelli che, nel bene e nel male, sono stati, e riconosciamo essere ancora, i nostri padri, la nostra memoria. E' necessario raccontare per essere.24 Attraverso il racconto, i dati della nostra esperienza diventano accessibili alla nostra apprensione, lasciando che la coscienza se ne impadronisca, organizzandoli e dando ad essi forma. Ognuno di noi è prima di tutto il risultato della propria storia: siamo «disposti» lungo un percorso cronologico, impossibilitati e incapaci di prescindere dal tempo. Noi creiamo immagini mentali di noi stessi, degli altri, dei contesti in cui viviamo, delle dinamiche relazionali, e su di loro basiamo le nostre strategie relazionali/sociali che si dispongono, appunto, nel tempo. Questa stratificazione progressiva di immagini e di rappresentazioni che ci costruiamo, chiede senza dubbio un supporto alla memoria. La memoria quindi si nutre di narrazioni: quelle che facciamo a noi stessi, quelle che facciamo su di noi agli altri e nelle normali interazioni (narrative anch’esse). E le narrazioni, come è stato ampiamente dimostrato, strutturano l’identità culturale, 23 Roger Silverstone, Perché studiare i media?Il Mulino, Bologna, 1999, pag.73 24 Gianfranco Pecchinenda, Raccontare per essere, introduzione a Padre e memoria, F. Campbell, Ipermedium, S.M. Capua Vetere, Il Mulino, 2011
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sociale e, di riflesso, personale.
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Capitolo secondo Le culture della memoria II.1 Il parlante e l'ascoltatore In passato la memoria era addestrata, coltivata, in modo da poter contenere, al limite, tutto lo scibile. In mancanza della scrittura si aveva un gran bisogno di ascoltare dai saggi anziani le esperienze di vita, le conoscenze. Ciò che veniva ascoltato doveva essere memorizzato, per metterlo in pratica e ri-trasmetterlo. Si era ascoltatori attivi. Così facendo l'uomo pre-moderno non faceva altro che seguire la sua natura, il suo essere prima di tutto parlante e ascoltatore. L'inclinazione a parlare è inscritta nei suoi geni. L'alfabetizzazione è un'invenzione, è un'imposizione da parte della cultura. “L'essere umano non è naturalmente né un scrittore né un lettore, ma un parlante e un ascoltatore. L'alfabetizzazione, in qualsiasi stadio del suo sviluppo, è, in termini evolutivi, un semplice nuovo arrivato, un esercizio artificiale, un'opera della cultura, non della natura, imposta all'uomo”.25 L'uomo preistorico agiva, pensava e reagiva oralmente. La società era fondata sull'uso del linguaggio orale. Tale eredità viene dall'uomo moderno rinnegata a suo rischio e pericolo, viene messa a tacere, etichettata “primitiva e selvaggia”. Nonostante ciò essa continua silente a essere una parte di noi così come la capacità di camminare eretti o di usare le mani. Fondamentalmente non riusciamo a fare a meno dell’oralità. Si può benissimo togliere la scrittura all’uomo, ma privarlo del linguaggio lo snaturerebbe completamente. L'oralità non è cosa appartenente solo al passato: ancora oggi è alla base del nostro modo di vita. Il linguaggio che usiamo per comunicare per iscritto, quello letto, così come tutti gli altri linguaggi, anche quelli più complessi come quello dei gesti, sono tutti fondati sull’orale. L'oralità è un carattere permanente del linguaggio. Vi può essere oralità senza scrittura ma non scrittura senza oralità26. “Ma in tutti i mondi meravigliosi aperti dalla scrittura risiede ancora, e vive, 25 David R.Olson e Nancy Torrance Raffaello, Alfabetizzazione e oralità,Cortina editore, 1995, Milano, pag.23 26 Walter Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pag.24
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l'espressione orale: tutti i testi scritti, per comunicare, devono essere collegati, direttamente o indirettamente, al mondo del suono, l'habitat naturale della lingua. <<Leggere>>
un testo significa convertirlo in suono con l'immaginazione, sillaba dopo
sillaba in una lettura lenta, oppure sommariamente e per frammenti nella lettura veloce tipica delle culture a tecnologia avanzata. La scrittura non può mai fare a meno dell'oralità.27 II.2 L'oralità: l'arte del narrare Ma cos'è l'oralità? È semplicemente l'arte del narrare, è l'insieme di tutti i tipi di testimonianza trasmessi verbalmente da un popolo sul suo passato. Il racconto di azioni umane è servito, soprattutto nelle civiltà orali, ad immagazzinare, organizzare e comunicare gran parte di ciò che si conosceva. “Sebbene la narrativa sia presente in tutte le culture, essa è in un certo modo più funzionale in quelle ad oralità primaria che nelle altre....esse si servono del racconto di azioni umane per immagazzinare, organizzare e comunicare gran parte di ciò che conoscono. La maggior parte delle culture orali, anche se non tutte, produce narrazioni o serie di narrazioni in qualità rilevante.”28 Nella cultura orale la storia, il sapere, gli usi e costumi, le tradizioni, le regole sociali, tutto si tramandava da bocca ad orecchio, tutto veniva narrativizzato tramite la parola. Tutto veniva memorizzato dal di dentro e non attraverso segni esterni, quei segni dell'alfabeto la cui invenzione, addirittura, venne considerata nefasta per la memoria da un grande filosofo quale Platone. Egli per dimostrare le conseguenze negative di tale invenzione e della sua diffusione fa raccontare a Socrate, nel Fedro, la storia di Thamus, re di una città dell'alto Egitto, che un giorno invita Teuth, dio autore di diverse invenzioni, tra cui i numeri, il calcolo, la geometria, l'astronomia e l'alfabeto, ad illustrargli le sue invenzioni. Ecco ciò che scrive Platone di questo incontro: “Il re - narra Socrate a Fedro - gli domandò quale fosse l'utilità di ciascuna di quelle arti e, mentre il dio gliela spiegava, a seconda che gli sembrasse che dicesse 27 Ivi, pag.26 28 Ivi, pag.198
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bene o non bene, disapprovava oppure lodava. A quel che si narra, molte furono le cose che, su ciascuna arte, Thamus disse a Teuth in biasimo o lode, e per esporle sarebbe necessario un lungo discorso. Ma quando si giunse alla scrittura, Teuth disse: "Questa conoscenza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza". E il re rispose: " Ingegnosissimo Teuth, chi è capace d'inventare un'arte, non è capace di giudicare quale danno o quale vantaggio essa recherà a chi si accinge ad usarla. E anche tu, adesso, padre delle lettere, per benevolenza paterna dici tutto il contrario di quanto si potrebbe. Per desuetudine dallo sforzo mnemonico, questa invenzione produrrà smemoratezza nell'anima di chi apprende, perché s'abituerà non a rievocare le cose da solo e dal suo interno, ma fidando nei caratteri scritti, dal di fuori e col soccorso di segni altrui. Non a pro della memoria, ma della smemoratezza, vale dunque il farmaco da te trovato. L'apparenza, non la sostanza del sapere, tu elargisci ai tuoi discepoli. Divenuti, grazie a te, divoratori di carta scritta, si crederanno enciclopedici, senza che nessuno li ammaestri. Ignoranti per lo più, e sgradevoli a praticarsi, saranno presuntuosi, ma non sapienti.".29 Thamus, Platone, non crede che la scrittura sia il farmaco della memoria e della sapienza. Al contrario, è convinto che essa produrrà proprio l'opposto, l'oblio e l'illusione della sapienza. La scrittura serve solo a chi è già sapiente, ma chi deve imparare non può che farlo attraverso l’oralità dialettica, ovvero attraverso l’insegnamento diretto del maestro. La chiarezza e la comprensione sono infatti proprie dell’oralità. La fine della memoria e della sapienza, quella sapienza che Alberto Magno immaginava come una donna con tre occhi, capace di vedere le cose passate, presenti, future e che ha nella memoria un sussidio fondamentale. Memoria che si nutre della favola, del meraviglioso, delle emozioni che generano metafora.30 In una sola parola del racconto. 29 Platone, Fedro, Cesare Marzioli Editore, Roma, 1954, pagg.143, 144 30 Jacques Le Goff, op.cit.pag.35
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II.3 Tessitori di memoria Ma quale la funzione del linguaggio e del racconto nell'oralità? Quella di conservare la memoria dell'esperienza umana immersa nel flusso del tempo. “..dietro ai proverbi, agli aforismi, alle speculazioni filosofiche e ai riti religiosi giace la memoria dell'esperienza umana disposta nel tempo e soggetta ad una trattazione narrativa. La poesia lirica implica una serie di eventi in cui si colloca o con cui ha a che vedere l'io poetico. Tutto ciò significa che la conoscenza e il discorso derivano dall'esperienza umana, e che il modo elementare di elaborare verbalmente l'esperienza umana è darne conto seguendo più o meno la storia del suo nascere ed esistere, immersa dunque nel flusso del tempo. Il racconto è un modo di trattare questo flusso.”31 La narrazione è il modo attraverso il quale gli esseri umani organizzano e costruiscono il proprio rapporto con la temporalità. La tradizione orale è “tessitura della memoria”. Quindi chi sopravviveva più a lungo, più cose sapeva e più esperienza di vita aveva. Più anziano diventava, più saggio diventava, perché era forgiato dall’esperienza della vita. I nonni tramandavano le regole della società e le storie della comunità tramite favole, parabole ed indovinelli. Era questo un mondo diametralmente opposto al nostro, un mondo che si fondava sulla comunità e non sull'individualismo cieco e bieco, un mondo che riconosceva valore alla tradizione, al passato, alla memoria. Erano gli anziani la memoria storica vivente, portatori attraverso il racconto di un messaggio che dal passato veniva trasmesso al futuro. In ogni modo il valore intrinseco alla tradizione orale è quello della “trasmissione”.
Affinché ci sia
trasmissione è necessario l'ascolto e la partecipazione, l'esistenza di una comunità d'ascolto che senta il bisogno di memorizzare ciò che si è ricevuto ai fini di un'ulteriore trasmissione. Narrare non significa solo parlare mentre gli altri sono in silenzio: l’ascolto prevede che tutti siano cocostruttori dei significati attraverso un atteggiamento partecipativo. “Il rapporto ingenuo dell’ascoltatore al narratore è dominato dall’interesse di conservare ciò che è narrato. L’essenziale, per l'ascoltatore è di assicurarsi la 31 Walter Ong,op.cit.pag.198
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possibilità della riproduzione. La memoria è la facoltà epica per eccellenza. Il ricordo fonda la catena della tradizione che tramanda l’accaduto di generazione in generazione.” 32 Ma come sottolinea sempre Benjamin, le storie narrate rimangono nella memoria e si assimilano alla nostra esperienza solo in presenza di uno stato di distensione che diventa sempre più raro. Si perde la capacità di ascoltare e svanisce la comunità di ascoltatori. E così viene meno “l’arte di narrare storie e quella di saperne rinarrare ad altri”.33 L’oralità implica, quindi, il pubblico, la comunità, mentre la scrittura riguarda l’individuo. Il soggetto è anonimo, scompare nella sua individualità, per divenire elemento significativo, parte essenziale del gruppo. Non avendo un valore individualizzante l'oralità rinserra i legami di gruppo. “L'oralità primaria favorisce personalità in un certo modo più comunitarie ed esteriorizzate, meno introspettive, di quelle degli alfabetizzati. La comunicazione orale raggruppa gli individui; la scrittura e la lettura sono invece attività solitarie, che fanno ripiegare la mente su se stessa... ... Fisicamente costituita come suono, la parola parlata deriva dall'interiorità umana, rende manifesti gli esseri umani tra loro come interiorità coscienti, persone, e li unisce in gruppi coesi.”34 II.4 Il linguaggio ripetitivo e originale dell'oralità Il linguaggio dell'oralità deve essere capace di trattenere nel tempo le conoscenze, di farle sedimentare. La conoscenza, una volta acquisita, deve essere costantemente ripetuta, se non la si vuole perdere. E' un linguaggio che si nutre di ausili mnemonici. Il suo stile è formulaico, la sua sostanza è costituita da frasi fatte, formule ritmiche che passano di bocca in bocca e strutturano non solo la sintassi del linguaggio, che deve descrivere azioni e passioni, non principi o concetti, ma quella dello stesso pensiero, conferendo ad esso la durata. Formulaico e ritmico deve essere il linguaggio orale, ben diverso da quello usato nella conversazione. 32 Benjamin, op. cit. pag.247 33 Ivi, pag.248 34 Walter Ong, op.cit.pagg.103,199
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“Il pensiero deve nascere all'interno di moduli bilanciati a grande contenuto ritmico, deve strutturarsi in ripetizioni ed antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti e espressioni formulaiche, in temi standard..., in proverbi costantemente uditi da tutti e che sono rammentati con facilità, anch'essi formulati per un facile apprendimento e ricordo, o infine in altre forme a funzione mnemonica.” 35 E' un linguaggio che a differenza della scrittura, fondata sull'artificio della linearità, ha nella sua natura la ridondanza e la ripetitività, elementi atti a richiamare contenuti già detti all'attenzione del narratore e dell'ascoltatore. La ridondanza è favorita anche dalle condizioni fisiche dell'espressione orale, cioè dall'avere dinanzi un pubblico numeroso e dalla presenza di problemi acustici, nel qual caso essa è effettivamente più marcata che nella maggior parte delle conversazioni fra due interlocutori. Inoltre è utile all'oratore, gli permette di continuare a parlare pensando cosa dire dopo, anziché stare in silenzio e interrompere la narrazione. La ripetitività porta con sé una mentalità tradizionalista e conservatrice che riconosce ai vecchi saggi un ruolo fondamentale. “La conoscenza è preziosa ed è arduo raggiungerla, per cui la società tiene in gran considerazione i vecchi saggi che si specializzano nel conservarla, che conoscono e possono raccontare le storie dei giorni che furono.”36 La scrittura, invece, immagazzinando la conoscenza al di fuori della mente, degrada i vecchi saggi, semplici ripetitori del passato, ed esalta i giovani scopritori di cose nuove. Ripetitività non vuol dire mancanza di originalità. La narrazione di uno stesso racconto non potrà mai essere uguale anche se eseguita dalla stesso narratore. Nello stesso momento in cui viene memorizzato il racconto udito diventa altro: l'ascoltatore, futuro narratore, non trattiene nella propria memoria parola per parola, ma formule e temi che userà variamente per narrare o meglio creare il suo racconto. D'altronde, come ha potuto constatare e dimostrare Goody, studiando le numerose varianti di uno stesso mito presso i LoDagaa del Ghana Settentrionale, popoli a cultura orale ...la memoria trasmessa per apprendimento nelle società senza scrittura, non è 35 Ivi, pag.61 36 Ivi, pag,70
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una memoria
<<parola
per parola>>, una memoria integrale. Attorno agli uomini-
memoria non si sviluppa un apprendimento meccanico automatico e non per la presenza di difficoltà oggettive ma, perché avvertita come necessaria≫, codeste società
≪meno
≪il
≪tale
genere di attività viene di rado
prodotto di una rimemorizzazione esatta≫ appare a
utile, meno apprezzabile di quanto non sia l’esito di
un’evocazione inesatta≫37 Così, mentre la riproduzione mnemonica parola per parola sarebbe legata alla scrittura, le società senza scrittura, contrariamente a quanto si è soliti pensare, concedono alla memoria maggior libertà e più possibilità creative. Il racconto orale è quindi caratterizzato dalla “instabilità verbale”, determinata anche dalla interazione col pubblico. “I narratori narrano ciò che il pubblico richiede o è disposto a tollerare....l'interazione diretta con il pubblico può influire sulla stabilità verbale: le aspettative del pubblico possono infatti contribuire a fissare temi e formule”. 38 Il pubblico deve essere portato a reagire, anche vivacemente, per cui ogni volta che il racconto sarà ripetuto saranno introdotte varianti anche se minime. E' proprio il rapporto col pubblico, lo scambio tra ascoltatori e narratore, che colora le forme d'arte orale di virulenza e agonismo. “Quando ogni comunicazione verbale deve essere effettuata direttamente con la voce, nella dinamica parla e rispondi del suono, i rapporti interpersonali comportano un alto grado di coinvolgimento, che può essere attrazione o antagonismo.” 39 Così accanto allo sbeffeggiamento o vituperio verbale troveremo la lode esagerata. Il mondo orale tende alla polarizzazione, è agonistico nel bene e nel male, nella virtù e nel vizio, nei suoi malvagi e nei suoi eroi. L'agonismo caratterizza non solo il modo di parlare ma anche lo stile di vita delle società a cultura orale. La virulenza del linguaggio riflette le fatiche fisiche comuni e continue della loro vita. Spesso l'ignoranza riguardo le cause delle malattie e dei disastri naturali può generare ostilità fra le persone, poiché al posto di quelle fisiche, fa loro assumere come 37 Goody, cfr.Jacques Le Goff, op.cit.pag.8 38 Walter Ong, op.cit., pag,99 39 Ivi, pag.73
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causa la malevolenza di un altro simile, mago o strega che sia. “...i proverbi e gli indovinelli non vengono
usati semplicemente per
immagazzinare conoscenza, ma anche per impegnare gli altri in una battaglia intellettuale e verbale: pronunciare un proverbio o un indovinello significa sfidare gli ascoltatori a rispondere con un altro più appropriato, o con uno che lo contraddica.”40 II.5 Il potere delle parole alate Le culture orali non sono ancorate indissolubilmente al passato, non guardano indietro con sguardo nostalgico, vivono immerse nel presente e in perfetto equilibrio con esso. Eliminano memorie che per esso non hanno più importanza. Sono omeostatiche. Tale carattere si riflette anche nel linguaggio. “...la mentalità orale non si interessa alle definizioni, le parole acquisiscono il loro significato solo dal proprio habitat effettivo e costante, che non è rappresentato, come in un dizionario, semplicemente da altre parole, ma include anche i gesti, l'inflessione della voce, l'espressione del viso e l'intero ambiente umano ed esistenziale. I significati delle parole emergono continuamente dal presente, benché quelli passati abbiano influito in modi diversi e non più rintracciabili.” 41 Quando le parole arcaiche perdono il loro referente, non più rintracciabile nell'esperienza vissuta del presente, col passare delle generazioni, anche se non vengono cancellate, il loro significato svanisce e si riducono a sillabe senza senso, a puro suono. “...le rime e i giuochi che oralmente i bambini si trasmettono di generazione in generazione, persino in una cultura altamente tecnologizzata, possiedono di queste parole, che hanno perso il loro significato referenziale originario e sono in effetti sillabe senza senso.” 42 L'oralità è suono. In una cultura ad oralità primaria le parole sono suoni cui non corrisponde alcun luogo: il suono esiste nel momento in cui viene emesso e percepito per poi sparire. Esse sono alate, effimere, eppur capaci di volare in alto ed esercitare un grande potere 40 Ivi, pag.73 41 Ivi, pag.76 42 Ivi, pag.77
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sull'uomo, sul suo pensiero, sul suo modo d'essere, sul mondo che lo circonda. I popoli a tradizione orale spesso ritengono che le parole hanno un potere magico, sono capaci di guarire, di maledire. “...i popoli contraddistinti da una cultura orale pensano comunemente ai nomi come aventi potere sulle cose....i nomi danno effettivamente agli essere umani un potere su ciò che essi denominano: senza impararne un alto numero si è incapaci di capire, ad esempio la chimica, o l'ingegneria chimica, o qualsiasi altra forma di conoscenza intellettuale.”43 Ancora oggi, nelle società alfabetizzate, “nominiamo” per esercitare potere sulle cose, su esseri viventi, umani e animali. L’oralità, il suono è dominio del corpo. “...l'espressione orale è sempre la modificazione di uno stato complessivo, esistenziale, che impegna tutto il corpo. L'attività corporea non è né un elemento peregrino, né un espediente artificioso nella comunicazione orale, ma ne è una componente naturale e addirittura inevitabile. Nell'espressione orale, specialmente se pubblica, l'immobilità assoluta è già di per sé un gesto significativo.”44 Il suono, la parola parlata deriva dall'interiorità dell'uomo. Il suono non sta innanzi ma attorno all'uomo influenzandone il senso che ha della vita, del cosmo, la percezione del suo rapporto con l'universo. “L'esperienza della parola è infatti sempre molto importante nella vita psichica, e l'azione centralizzante del suono (l'ambito del suono non è davanti a me, ma tutt'intorno a me) influenza il senso che l'uomo ha del cosmo. Per le culture orali, il cosmo è un fenomeno continuo, con al suo centro l'uomo che è l'umbilicus mundi, l'ombelico del mondo. Solo dopo l'invenzione della stampa e l'uso esteso delle carte geografiche favorito dalla stampa, gli esseri umani, pensando al cosmo o all'universo o al
<<mondo>>,
lo cominciarono a vedere principalmente come qualcosa che si trova
davanti ai loro occhi, come nei moderni atlanti a stampa, ossia come una vasta superficie o un insieme di superfici pronte per essere esplorate. L'antico mondo orale conosceva pochi <<esploratori>>, pur avendo viaggiatori, avventurieri e pellegrini.”45 43 Ivi, pag.60 44 Ivi, pag.61 45 Ivi, pag. 107
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Ed allora, oggi più che mai è importante riascoltare le parole alate dei pochi uomini memoria rimasti, riascoltare quei suoni magici provenienti dall'interiorità, per riscoprire il senso del mondo, del nostro essere nel mondo e nel tempo. Le parole alate sono effimere, svaniscono appena pronunciate; spetta all'uomo trattenerle e farle diventare parte di sé. Come? Donando loro ascolto. Solo così l'uomo potrà essere liberato dalle catene della presentificazione e rinascere come nuovo Prometeo, ancora una volta umbilicus mundi.
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“può darsi che i contadini e la gente del popolo siano vissuti senza lasciare molte testimonianze scritte, ma non sono scomparsi senza lasciare nemmeno un suono”46
Le parole alate Preghiere e canti religiosi costituiscono la maggior parte della tradizione orale malettese, custoditi dalla ferrea memoria di uomini e donne anziani del Paese. Non poteva essere diversamente. La popolazione malettese è costituita fino agli anni Sessanta del Novecento in larga parte da contadini, profondamente e “naturalmente” religiosi e devoti. Il contadino osserva tutti i precetti della Chiesa, ossequia tutte le pratiche di devozione, rispetta digiuni e astinenze, recita le preghiere quotidiane, il rosario, va a messa prima del lavoro. Il contadino nasce e muore “cristianu,” parla dei suoi simili definendoli “mmari cristiani”,“bboni cristiani,” e per rimproverare una cattiva condotta si chiede “ma chi cristianu si?” Persona e cristianu si identificano. Adora Dio e i Santi, esprime la sua fede, da buon popolano qual è, attraverso il rito, le feste, portando sulle proprie spalle i tanti Santi a cui è devoto, ma non dimenticando la Madonna, Gesù Morto e offrendo loro anche quel poco frutto del suo raccolto. Il primo luogo dove il contadino professa la sua religiosità è la casa. Il padre e la madre sono gli educatori della numerosa prole: con l'esempio ma anche con proverbi, massime, aneddoti, cunti tramandano ai figli il loro elementare ma “vitale” sapere, trasmettono i fondamenti della loro religiosità attraverso preghiere, canti, pratiche devozionali. La giornata del contadino e della sua famiglia inizia all'alba, all'apparire della stella mattutina. Apre gli occhi e per prima cosa rivolge la sua prece a Dio e ai suoi santi; poi la messa dell'aurora. Solo dopo aver ottemperato a tutte le pratiche di devozione, dopo aver chiesto al suo Signore protezione può recarsi a lavoro.
46 David R.Olson e Nancy Torrance Raffaello, op.cit., pag.134
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Preghiera del mattino Oh chi bella jurnata chi jurnaiu ri quantu è bbella ringrazziu a Ddiu o gran Siggnuri ratimi u'ndrizzu 'ndrizzu e riparu chi vegnu stasira chi ppoi rumani mi lu rati megghiu pi ffari lli me festi cunsurari. Nostru Siggnuri a li peri vi veggnu ri veniri 'ndi vu digna non suggnu. Siggnuri ri lu corpu e ddi la lanza m'avit'a pirdunari sta' gnoranza quandu 'nchianati a l'artari santu cririmmu chi ssu pani rri frummentu ma su carnuzzi di segreti santu ora santu rriposu si rapriu intra ci stannu setti sacramenti l'anima di lu corpu e ddi lu ternu Ddiu. Alle quattro del mattino la moglie e il marito si recano in Chiesa per la Messa dell'Aurora. Pregano, ascoltano l'omelia del prete e si â&#x20AC;&#x153;comunicanoâ&#x20AC;?. Ma prima di accostarsi all'altare mormorano a labbra socchiuse, questa bellissima e antichissima preghiera che li preparerĂ a ricevere il SS. Sacramento dell'Eucarestia Antichissima preghiera che si recitava prima della Comunione Iu mi pentu e ccu Ddiu mi pentu aiu uffissu a trarimentu vostra cruci e vostra pena Primma i Ddiu vogghiu muriri non turnari e non trariri ora e sempri vostra Matri maririttu lu piccatu
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mai mai piccari cchiù atimi grazia chi iu non vi offendu mai cchiù. Tu cu li quintini e cu diliri ti pigghi spassi r'estati e r'invernu ma non viri chi ssi a culiri ri la cira chi la morti ti sta ca lanterna. Angiru miu custodi, miu custodi andari mi 'ndi vogghiu a cunfissari ha scuntratu lu nnimmicu furisteri nun m'ha fattu cunfissari, ma iu cu lu nostru Ddiu mi vogghiu pacificari Ora Maria ri scora ferma già nuttati ni sta vigna è china ri macchi e spini ci mittimmu rrosi e sciuri pi ripussari nostru Signuri. Maria di scora ferma già lassatimi 'nchianari sti ddu cori di spremi, ma iu cu Ggesù vogghiu parrari, vogghiu fari paci insiemi, commi o soritu ri fari. Ora Signuri stu cori mi bagnu iu haiu piccati assai interiormenti, ma iu pi esempiu tou tri chiova tegnu Pigghiati lu me sangu e ti fa un bagnu ti ndi veni a lu me regnu. Apriti i porti ru Pararissu chi c'è l'amanti Signuri Non pozzu apriri, chi sunu firmati chi li chiavi l'havi lu cunfissuri Ora patruzzu lu putiti fari: chistu è u veru gibbu ri peccaturi chi tavura e chi convitu chi c'è priparatu!
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Pi li mali e pi li bboni è priparatu, ma cu ci rriva cu cori contritu rriva sazziu ri anima e ri corpu. E chistu è u veru mumentu ri la Santa Cuminioni. Dopo la Messa si dirigono il contadino nelle campagne, la moglie a casa. Lavoreranno instancabilmente tutto il dì, sollevando spesso verso il cielo i loro umili occhi e le loro umili preghiere. Arriverà il tramonto: e già notte fonda a Maletto a causa della oscurità. La famiglia si riunirà intorno al desco. Consumata la magra cena e prima di andare a riposar le stanche membra, moglie e figli attorno al padre che con in mano il rosario recita a voce alta le cinque poste. Accanto al Rosario usuale, la tradizione orale serba Rosari legati a particolari momenti, recitati ad es. per invocare il Signore quando vi è brutto tempo, con la speranza che questo cessi. Erano molto sentiti dai contadini dato che il loro sostentamento, la loro sopravvivenza dipendeva dall'agricoltura, dai suoi raccolti, e quindi dal Cielo! Il Rosario è composto da una serie di poesie in rima detti i Misteri, che sono in tutto quindici, intermezzati sistematicamente da dieci Avemaria, da un Pater Noster e da un Gloria Patri. I Misteri ripercorrono le tappe della vita di Gesù, prendendo spunto sia dal Vangelo che dalla tradizione popolare. Naturalmente non si conosce l'autore, ma vengono tramandati oralmente di generazione in generazione, modificandosi nel tempo e variando da regione a regione. Questa versione in dialetto è diversa da quella che tuttora molte persone recitano e che è in italiano. I Misteri si dividono in tre gruppi o “poste”. I Misteri Gaudiosi che venivano recitati il lunedì e il giovedì e che raccontano della nascita e dell'infanzia di Gesù. I Misteri Dolorosi, recitati il martedì e il venerdì, che raccontano della morte e passione di Gesù. Infine abbiamo i Misteri Gloriosi, recitati il mercoledì, il sabato e la domenica, che ci raccontano della Resurrezione di Gesù, del suo trionfo sulla morte, della morte di Maria e della sua ascesa al cielo.
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Misteri Gaudiosi Primo mistero Ddiu ti manda l'ambbasciata e di l'angiru fù purtata e lu figghiu di Diu Patri già Maria s'è fatta matri Rit.O gran Vergini Maria mi rallegru assai cu ttia. Secondo mistero Si partiu cu na gran fretta vissitari Sant'Elisabetta San Giuvanni n'era natu fù ri Ddiu santificatu.Rit. Terzo mistero 'Nni 'na povira mangiatura parturiu 'nna gran signura 'menzu lu bovi e l'asinellu nasciu Ggesù bambinellu. Rit. Quarto mistero Commu vautri fimminelli piccatrici e puvirelli allu tempiu vinni istuvu e Ggesù lu offreristivu.Rit. Quinto mistero Quandu a Ggesù lu' pirdistuvu lu' circastivu e lu' truvastivu chi'nsignava la dottrina commu Maestà Divina
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I Misteri dolorosi Primo mistero Ggesù all'ortu si disponi e 'ppi ffari n'orazioni e pinsandu a lu piccatu sangu veru già suratu. Rit.O gran vergini Maria la vostra pena ancora è mia. Secondo mistero Quandu a Ggesù lu pigghianu lu spugghianu e lu 'taccanu cu semira bbastunati li so carni fraggillati. Rit. Terzo mistero Re ri burla fu 'ncurunatu cu nna canna svreggognata e dururi 'n testa prova ci su spini commu chiova. Rit. Quarto mistero Ggesù a mmorti fu cundannatu commu un latru scilliratu e la cruci in collu porta nullu c'è chi lu cunforta. Rit. Quinto mistero Alla vista ri so matri crucifissu cu 'ddù latri mossi a fozza ri rururi ù me caru Ridinturi.Rit.
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I Misteri gloriosi Primo mistero Ccristu ggià risurgitaiu ri la morti triunfaiu commu rre ri triunfanti scarzarati i patri santi Rit.O gran vergini Maria mi rallegru assai cu ttia Secondo mistero Doppu quaranta jorna Ggesù Cristu 'n ceru torna e Maria cu li so amici si li brazza e li benerici.Rit. Terzo mistero Reci jorna a ppò passanu e l'apostuli priganu e Maria chi li trattinni e lu Spirutu Santu vinni. Rit. Quarto mistero Vinni l'ura ri partiri Maria 'n ceru vossi iri a cchi bbella morti fù mossi 'n brazzu ri Ggesù.Rit. Quinto mistero Maria 'n cieru triunfaiu armma e corpu 'nceru entrà curunata ri reggina ri la Trinità Ddivina.
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Il Padre Nostro Patri nnostru chi ssiti 'nde celi, santificatu u vostru santu nnommu, venga a nnu lu vostru Rregnu, sia fatta a vostra Santa ddivina volontà 'ni celu accussì 'nterra. Hacci oggi nostru pani cotadiano pirdunàtindi i nostri piccati commu nnu pirdunammu i nnostri nnimmici, non 'ndi lassati cacchi mara tantazioni ma libiraticci r'ogni mmari. Accussì ssia. L'Ave Maria Ddiu sarvi Mmaria, china ri grazia, u Siggnur'è ccu vvu. Vvu siti binirtitta tra tutti li donni e binirittu è lu fruttu di lu ventri Ggesù. Santa Mmaria Matri rri Ddiu prigati pi nautri piccaturi ora e quand'è ll'ura a nostra morti. A ccussì ssia. Preghiera recitata alla fine del Rosario Stu Rrusariu chi cantammu a San Duminicu cciù rammu San Duminucu pigghia amuri pi nuautri piccaturi si c'è carchi mmancamentu mi ravit'a pirdunari
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E Mmaria rispundi e ddici: “Figghiu me non dubbitari c'alla fini ra to morti iu' ti veggnu a ccumpagnari a ttia e a tutti quanti i cristiani O rucissimu Ggesù iu prigari non fazzu cchiù mi ndi rori e mndi pentu llu Santissimu Sacramentu O Mmaria chi m'atu prummissu bbona morti e Pararissu da lu ceru siti carata o Mmaria sempri llorata O che bbella la menz'ura chi nasciu la Gran Signura ndda lu sennu di Sant'Anna o Mmaria sarvatimi l'armatura Ora u Signuri avimmu 'lloratu cantatu avimmu la vostra Avi Mmaria ora lu santu carici pussatu lu sacerdoti a mmanu v'avia e iu stava 'nginucchiatu di lu Santu veru Carminu Mmaria. Misteri dei Rosari recitati per invocare la protezione divina dai temporali o per altri bisogni e necessità Bella Matri r'Annunziata quantu è bella sta jurnata quantu è bellu lu vostru visu mi purtati in paradisu ---
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O Maria di la clemenza guidati sta sintenza pi nnomi di GesĂš sta sintenza non me piĂš --San Ggiusippuzzu guaiu bbellu ch'in testa purtati lu santu cappellu e nta li manuzzi lu santu bastuni comm'aiutastuvu Maria n' Eggittu aiutatimi a mmia ni stu bbisognu strittu. --Ddiu ti salvi SanGgiuseppi ttuttu chinu i caritati vui sapiti lli me bbisogni e i me nicessitati. --Si Mmaria non avissi avutu lu mantu erumu pessi tutti quanti e Mmaria c'avi lu mantu simmu salvi tutti quanti! Preghiere che si recitavano quando imperversava il cattivo tempo A vu prigammu carissima Matri E a vostru figghiu, mi cramma stu tempu Mi murimmu comm'i cristiani Sia loratu lu Santissimu Sacramentu. --Santa Barbara era fora si scantava rri lampi e trona l'angiurellu cci ricia
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rricitati l'Avi Maria Mistero per il rosario del giorno delle tre croci (3 maggio) Quandu lu vventu llu munti passava ti scontra llu nnemicu chi tti dirà u jornu ri santi cruci mi rrissi milli voti Jesu Il rosario è stato recitato, la madre chiude la misera porta di casa e chiede protezione a Maria Quando la sera si chiude la porta Jiu chiuru sta porta mia cu lu mantu di Maria si cacchunu voli mali a mmia non mi trova nno la porta nno la via. Prima di chiudere gli occhi ancora un'altra “Prighiera”, dettata questa volta dalla paura per la morte, per quello che può accadere durante il sonno. In pochi versi vengono invocate le figure principali della fede cristiana. A Maletto le anziane ne ricordano e ancora recitano diverse versioni. Iu mi curcu 'ndi stu lettu cu Maria supra lu pettu iu dommu e Illa vigghia si c'est bisognu ma rivigghia Cincu santi trovu iu ddu ra testa e ddu ri peri 'ni lu menzu San Micheri allu me cantu c'est l'angiu santu
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cu Patri u Figghiu e u Spiritu Santu Iu mi curcu pi dummiri non si sapi si veggnu a muriri Si non trovunu u cunfissuri piddunatimi Signuri. Oh bontà ri Pararissu oh chi mmai v'avissi affissu oh chi sempri v'avissi amatu Mmariritti i me piccati mai mai piccari cchiù vi prumettu miu Gesù megghiu muriri ca' turnari a offendirivi Verbu 'ncarnatu llu me cori fu assai 'ngratu. --Iu mi cuccu ndi stu lettu cu Maria supra lu pettu iu mi cuccu pi dummiri non si sa si e muriri, si non trovu cunfissuri piddunatimi Signuri. Cu Gesù mi cuccu, cu Gesù mi staiu, paura non haiu, u Signuruzzu mi veni patri, a Marinnuzza 'ndi veni mamma, Sarafina mi veni cugina, ora chi haiu sti amici firiri mi fazzu a cruci e mi mentu a dummiri.
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--Iu mi cuccu 'ndi stu lettu cu Maria supra lu pettu iu mi cuccu pi dummiri e non sacciu si haia muriri. Iu mi cuccu, mi cuccavi quattru santi mi truvavi ddu ra testa e ddu ri peri 'nd lu menzu s. Micheri chi mi rissi e chi mi scrissi chi la cruci mi facissi, ( si fa il segno della croce) dommi e riposa, non ti scantari i nulla cosa. S. Anna e me nanna i Zarafini sunu cugini ora chi avimmu sti santi divini 'ndi facimmu a cruci e' ndi mintimmu a dummiri. Altra variante dopo il segno della croce Dormi e rripossa e non pinsari nulla cossa 'ncarunia ci su tri missi pi l'arma chi mi rissi cu la lancia traritu chi ci rava 'ntra lu cori. Chi va facennu me nanna e me soru? Vannu circandu a llu caru figghioru iu lu visti a llu munti Carvariu cu lla cruci 'ncollu e la canna a mmanu,
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sangu rrussu ci curria la facciuzza 'nsanguinata cu llu viri si spaventa. Sia lloratu e ringraziatu llu Santissimu e Ddivinissimu Sacramentu. Preghiera o Crucifissu Santissimu Crucifissu simmu missi 'nnanzi a vvui si lu sangu chi spargisti u spargisti pi nnui Siti figghiu rri Ggesù e Maria Vui sarvati l'armuzza mia biniricitimi Signuruzzu biniricitimi Mmarinnuzza biniricitimi angiri santi biniricitimi tutti fora a chilli bbrutti Ora c'haju l'amici fideli mi mettu a ddurmiri. Preghiera per estrema necessità. Lu Verbu sacciu e lu Verbu vogghiu diri lu Verbu chi diciva nostru Signuri lu nostru Signuri si nni iu in cruci pi sarvari a nui piccaturi Spingi l'occhi a sta bella Cruci quantu è bella e quantu è ata A valli i Gesafà picciri e rrandi amma essiri là
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San Giuvanni alla campea cu lu libbru a manu ca liggeva “Caru Maestru libiratulu vui allu piccaturi” Giuvanni “non lu pozzo piddunari castimmi di la pasqua e di natali su li festi principali. E Maria rispose e dici “figlio figlio ti benedica.” Cu lu Verbu sapi su li dici cu non lu sa si lu impari cu li dici tri voti la notti è liberatu da la mala morti cu dici tri voti in campu è liberato ri trona e lampi cu lu dici tri voti o jornu è liberatu ri peni r'infernu Anche di questa preghiera se ne conservano due versioni Iu verbu sacciu e verbu vogghiu riri 'ncarnatu ri nostru Signuri. 'Nchianastivu a la Cruci ppi muriri ppi riscattari ogni piccaturi. La cruci è tanta ata e tanta digna chi stendi un brazzu in cielu e nautru in terra. Alla valla di Gesaffà picciuri e rrandi amma essiri llà Trimmuriammu di paura
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commu fogghi di lavuri, trimmuriammu di lu cantu commi fogghi di lu campu. Cara Maria cu libricellu va cantandu e va dicendu “O piccaturi o Piccatrici tu non lu senti a mme figghiu chi ddici?” Cu lu senti e nun lu dici è pigghiatu a coppa ri pici. Cu lu sapi e nun lu 'mpara è pigghiatu a coppa i para. Cu lu dici tri vvoti a la via è scanzatu ri trona e ri lampi. Cu lu dici tri vvoti a la notti è scanzatu d'ogni mara morti . Cu lu dici eppò lu torna e ddici campa cuntentu e mmori felici. Preghiere a Maria Quant'era bella Maria quandu nasciu tuttu lu munnu lu 'lluciau Lu Verbu Eternu ri 'n cielu scindiu La rosa vermiglia si 'n carnau Vinni lu tempu e la rosa fhiuriu dopu novi misi spampinaiu lu fruttu ch'app'a fari fici un Diu e la rosa senza macula ristau --Bella matri rra catina
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naiu a nullu ppi vicina aiu a vvu' Matri divina aiu a vvu' matruzza Addulurata aiutatimi sta iunnata. Le donne di Maletto invocavano costantemente la Madonna, Regina dei Cieli. A Lei si rivolgevano cantando o recitando la Salve Regina che variava a secondo del periodo. L'intero mese di Maggio era a Lei dedicato: ogni giorno, nel primo pomeriggio, le vicine di ogni quartiere si riunivano per recitare il Rosario e cantare alla Madonna. Salve Regina (cantata nel mese di maggio) DivÏ salve Rreggina, Maria di lu Rusariu e lu divinu orariu o trissoreri Sintimmu sta prighiera, Maria di nostri amanti e lu Rusariu ante a vui facemu Pintiri 'ndi vulemu ri tutti li peccati lu vostru Ddiu prigati e nd'ottiniti Llu beni lu sapiti lu vostru grand'amuri versu lu piccaturi GesÚ 'ncarnatu nasciu 'ndo viri statu patiu peni e tormenti fu 'ncruci finarmenti chi muriu e quandu risurgiu fistanti e gluriusu perciò Patri amurusu e potenti perciò Matri climenti o Virginella pura
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sinu all'urtima ura non mi scurdati Guardatindi, guardatindi già chi la matri siti si vu vi 'mpignuriti a nui pirduna Pi menzu ra curuna a vui recitammu la gloria poi sperammu 'n Paradisu in Paradisu sia, in Paradisu sia viva di lu Rusariu Maria. Salve Regina dell'Addolorata DivÏ Salve Rreggina, Maria l'Addulurata vi sia raccumandata st'anima mia 'Na grazia iu vurria di chistu cori gratu firitu e trapassatu cu na spada. La vita mia è passata di tanti gran piccati ri grazia Ddiu prigati a vostru figghiu ppi nui dati cunsigghiu. Cunsigghiu cuntrubari ciangendu e lacrimando li me erruri llu cori ppi dduluri spizzatimiru vu
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piccari non vogghiu cchiù, chiuttostu morta. E' Ddiu chi ci cunforta finu all'ultima agonia, commu matruzza mia non mi scurdati 'nsinu a mmia purtati in cielu gluriusu O Matri pietussa eternamenti poi gloriosamenti vi lassu cun tirria viva la Matri, viva l'Addulurata l'Addulurata sia, l'Addulurata sia viva sempri Ggesù, viva Maria. Salve Regina dell'Immacolata (cantata) Divì salve Rreggina o Matri Immacolata vu siti l'avvocata di lu me arrivu Picchì aiu uffissu a Ddiu ri tanti gran piccati o Ddiu ri pietati o Matri Santa u cori miu sa scanta virendu a Ddiu sdignatu lu 'nfernu è priparatu pi mmia rovina e vu Matri divina donna di questo canto sutta lu vostru mantu iu ma difendu maria li grazia stendi supra li piccaturi prigandu a lu Signuri mi 'ndi soffriggi 'na grazia cuncirissi in cielo poi guarissimo cu la Rreggina e l'angioli O Matri, o Matri, o Matri Maria evviva l'alimosine Maria Consolatrice
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( nel canto i versi sottolineati si ripetono due volte) I malettesi hanno eletto alcuni Santi a loro protettori e patroni. Non possono quindi mancare preghiere, canti e anche ninne nanne in loro onore. Preghiera a San Michele Arcangelo (Protettore di Maletto) O San Micheri Arcangilu splindenti, vui siti lu veru angilu di Diu sutta li peri tiniti un serpenti. La spata in manu vi la data Diu Tiniti sa baranza giustamenti pisati stamma e poi datila a Diu e tu, anima mia,statti cuntenta ora ca si in grazia ri Diu. O San Micheri Arcangilu splindenti tu si lu veru angilu di Diu sutta li to peri tiniti un serpenti. La spata in manu ti la data Diu Satana si rribbella inutilmenti nessunu è forti quannu è contru Diu Or tu, anima mia serenamenti 'na battagghia schierati cu Diu Preghiera per la tredicina di sant'Antonio (Patrono di Maletto) Sant' Antunintuzzu vui siti rignanti siti valuri rri tutti li santi e ccu va chiammatu pi avvocatu vui l'aviti aiutatu 'n cassa mia c'aviti vinutu
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viniti ancora e ddatimi aiutu. Sant'Antuninu miu Beatu su Bambinellu c'aviti a llu latu ti l'ha ddatu Ddiu rammi na' grazia Antoniu miu avanti chi ssona l'Avi Maria ralligrati l'amma mia. Sant'Antuninu munachellu finu 'mbrazzi puttati GesĂš Bambinu Tririci grazi aviti in continuu ratimindi una Sant'Antantuninu. --Sant'Antuninu nobbili siggnuri vui ch'mbrazza purtat'a llu Signuri 'na grazia iu vegnu a dumandari speru chi mmata a vvenir'a cunsulari. Ninna nanna Quandu Sant'Antuninu era maratu tutti li santi lu inu a vviriri cu cci purtava un pummu e ccu un granatu. La Matri Santa du pumma gintiri e ci rissi: â&#x20AC;&#x153;Cunortiti maratu chi 'n Paradisu ni immu a viririâ&#x20AC;? --Oh, oh, oh, tutti dormunu e stu figghiu nno. Si so mamma lu sapia munachittu llu facia.
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Oh, oh, oh, tutti dormunu e stu figghiu nno. Dormi figghiu e fa la oh. San Franciscu i Pàura cunzatici sta tavura rri pani e rri pisci chi stu figghiu si ddurmisci Canto dedicato al Bambinello Bambinellu rri Messina siti stancu stammatina, atu fattu longa via Bambinellu ri st'anima mia. Bambinellu rri Cartanisetta tuttu lu jornu faciti quazetta, mi 'ndi faciti un paru a mmia chi vi ricu l'Ave Maria. --Bambinellu scarratinu 'ndò me pettu c'è un giardinu ch'è giratu i rrosi e sciuri 'ndi lu menzu Preghiere, orazioni, canti periodo quaresimale e settimana Santa. Molto sentito e partecipato il periodo quaresimale, denso di appuntamenti religiosi e ricco di preghiere e canti che evocano, soprattutto durante la Settimana Santa, il mistero della Passione e Morte di Gesù Cristo. Bisogna ricordare che, fino a non tanto tempo fa, la messa, compreso il vangelo, era in latino, per cui risultava necessario trovare altre vie per diffondere la Buona Novella tra la popolazione non istruita. Ciò avveniva col racconto, ma spesso anche
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con la poesia, che deve intendersi come racconto in rima per aiutare la memoria più che come componimento artistico. Anche se, forse inconsapevolmente e forse no, l'autore riusciva a calare nel racconto qualche immagine di grande capacità evocativa. Nei componimenti di seguito presentati qualche volta non si comprende il significato di alcune parole imparate a “scatola chiusa”, e la struttura dei versi denuncia qualche sparizione, ma occorre dire che la fonte, Nunziata Portale, quando è stata ascoltata aveva ben ottanta anni, ed ha imparato questi versi a dieci dalla nonna, la quale, a sua volta, chissà quanti anni aveva e a quanti anni l'aveva imparata. Presumibilmente queste preghiere risalgono alla seconda metà dell'Ottocento, sono quindi tra le più antiche che serba la tradizione orale malettese. Della Morti e Passioni, abbiamo anche la firma, posta furbamente dall'autore, in versi, in coda al componimento, poiché in un'epoca in cui il popolo non sapeva né leggere né scrivere quello era l'unico modo di reclamare alla posterità la propria parte di gloria. Ma sono molto rari i componimenti che conservano memoria del loro autore. Probabilmente spesso a comporre canti, poesie e orazioni religiose erano gli stessi preti, uomini di cultura come testimonia il fatto che alcuni di questi componimenti sono quartine di endecasillabi a rima alternata, ma molto vicini alla gente a giudicare dal mezzo linguistico utilizzato e dal contenuto. Quei giovani sacerdoti, freschi di seminario, e subito immersi in quel mondo di ignoranza e di miseria quale doveva essere quello delle parrocchie di piccoli paesi come Maletto; ma anche quei preti o monaci che durante il periodo quaresimale venivano a Maletto, anche da Palermo, per tenere gli esercizi spirituali, i cosiddetti “priricaturi,” o ancora quei “monaci questuanti” che andavano in giro per le aie ad elemosinare un po' di frumento. Altra possibile fonte può essere rinvenuta negli “orbi”, suonatori di violino, di triangoli che andavano come i cantastorie in giro per i paesi, diffondendo preghiere e canti religiosi. Tutti costoro sentivano l'esigenza di trasmettere a quella gente un po' della cultura appresa sui libri e che tanto poco serviva ad alleviare le sofferenze dei miseri. Un mondo, quello dei libri e del sapere universale, da cui quella povera gente era tagliata fuori.
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Quale mezzo linguistico utilizzare allora? Non certo la “Lingua”, che doveva rappresentare, per la popolazione dei paesini, quello che rappresentava il latino per i fiorentini al tempo di Dante. Utilizzavano perciò il dialetto ma facendo attenzione alla rima e alla metrica. Le persone, peraltro, imparavano questi piccoli componimenti a memoria affascinati probabilmente dalla musicalità del verso e attratti dal gioco della rima. Non sapevano né leggere né scrivere, ma avevano, forse proprio per questo loro essere “ignoranti”, affinata una grande capacità quella dell'ascolto e della memorizzazione. Ascoltavano, ripetevano e trattenevano. Facevano propri questi componimenti e quasi come d'incanto si ritrovavano a volte loro stessi ad essere autori di preghiere, ma anche pueti, cantastorie, come quelli che avevano ascoltato. E poi, non va dimenticato che durante tutto l'anno vi era il catechismo, prerogativa soprattutto delle fanciulle, dato che i maschi spesso in tenera età seguivano il padre nei campi. Il testo utilizzato, fino ai primi del Novecento, era quello edito in siciliano nel 1761 dal vescovo Salvatore Ventimiglia ad uso della diocesi catanese ed esplicitamente raccomandato dal Dusmet. “L'uso del siciliano nella catechesi era un fatto comune in Sicilia fin dagli inizi del secolo XVIII grazie all'azione catechistica della Congregazione della Dottrina Cristiana, fondata a Palermo nel 1721. Lo scopo che essa si prefiggeva era di insegnare la dottrina cristiana a tutti usando la parlata dialettale, quella che oggi, con un termine moderno, potremmo definire un'opera di “inculturazione” La catechesi svolta in linguaggio popolare era un prezioso espediente per combattere l'ignoranza religiosa ed esigere maggiore coerenza nella vita cristiana. In questo catechismo la conoscenza di tutta la dottrina veniva presentata come obbligo grave di ogni cristiano, non solo per una cosciente adesione di fede, ma soprattutto come possibilità per ottenere la salvezza:
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S'un Cristianu nun sapi la Duttrina Cristiana, nun avirà la saluti eterna, e
sarà dannatu >>.” Dopo aver ricevuto l'Eucarestia:
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Chi avemu a dumannari a Gesù Cristu? Chi
non avissi a pirmettiri chi piccassimu, nn'avissi a fari santi, e nn'avissi a salvari >>47 47 Padre Nino Galvagno, Maletto e Mons.Palermo: una comunità e il suo pastore, Associazione Prometeo Maletto, Maletto, 1996, pagg. 54,58
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Probabilmente, tra una domanda e risposta del catechismo il prete inseriva qualche canto, preghiera, facili anche questi da memorizzare per le fanciulle che “ignoranti” frequentavano con assiduità il catechismo. Ed ecco perché a ricordar ancora a distanza di lunghi anni questi componimenti siano soprattutto le donne. L'URI Cristu un'ura i notti patiu pena, facia cena Giura miserana nostru Signuri cu-ttuttu sapendu chi la morti si jia cunvicinandu. A li ddu uri li peri cci lavaiu a li tri uri li cuminicaiu j'a li quattr'uri po cci priricau a li cincu uri all'ortu si ndi jiu li sei uri l'angiru carau pi-ccunfurtari all'eternu Ddiu Alli sett'uri la trumba sunau, Cristu ndi li so bbrazzi si rrindiu. All'ottu nd'appi scanti e pietà, a-nnovi fu ri tutti masrattatu, a-ddeci chi ri jancu fu-vvistutu, Ggesù cristu ri pazzu fu-pigghiatu. All'undici appò fu ccarzaratu, comm'avissu piccatu e-ccunvirtutu. A-ddurici fu n'cassa ri Piratu, a-ttririci a la coronna fu ttaccatu.
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Spini pungenti commu un malfatturi fu ncurunatu alli quattoddic'uri. A-qquindici ri rrussu fu-vvistutu, … A-ssirici funu li jurei, … a-ddicessetti morsi n'brassi muri ricennu <<Crucifissi>> a li jurei. A-ddicerottu a la cruci fu missu, a-ddiciannovi sguaddau a ssso matri ruci: <<Donna,
pi figghiu ti lassu a Ggiuvanni>>.
… A-vvinti ch'ha sguardatu a l'eternu patri cc'avissu piddunatu a li tiranni. A vintin'ura acqua ddimandau, appi feri r'acitu e trapassau. A vintiddui a-ppocu si nutau fu morti e na lanciata rriciviu. A vintitri uri poi si seppelliu sarvu è u corpu li l'eternu Ddiu. MORTI E PASSIONI O piccaturi commu sta' domesso, ca non cumprendi a Ddiu li so rururi, chi si-ttu mori ti ndi va ncammisa eternamenti a li profondi scuri!
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Mi pentu e Diu mi pentu rrerenturi, ca vi prumettu cchiù di non piccari, mi pentu c'haiu offessu a lu Signuri ca ndi criaiu cielu, terra e mari; chi-nn'avissa putiri triunfari luvarimi sta mara punioni, la paci cu vVui putissi fari, guariri lu me Ddiu r'i passioni. Signuri quandu vaiu ppi-ppiccari, un chiovu trapanatu allu me cori, e lu me cori cruria 'ngebberia, non si scummovi mai n'pietà. Pietà pi-llu me Ddiu non nd'haiu mai, appi li so santi carni fracillati, pi-trentun dinari si lu vindinu, Ddiu morsi n'cruci p'i me piccati. I me piccati sunu gravi assà, trarivi a Cristu p'un'ommu mundanu, nta li me brazzi u stringivi e u brazzavi e appo' u fracillanu ch'i me mani. Cu li me mani cci spuntu li chiova pi-ddarici cchiù forti lu rururi, u populu ebreu è randi ancora, rammucci morti e non ci rammu vita.
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Ggesù Cristu chi persi la parora, fu ncurunatu ri pungenti spini, e na curuna ri spinati rrutta, fu ncurunata a la so ddegna testa. Lu santu sangu a la vina si jetta, ora fu fatta la cundanna ggiusta, ca Ggesù Cristu u mutanu ri festa. Quannu si visti cu la cappa rrussa, tandu Ddiu rissi: <<Ri mia si fici la festa>>, si fici la festa, si scrissi lu rollu, a Ddiu si lu jucavunu allu sballu. Piratu u cundannaiu e fici trafollu, Petru cu rrinnigaiu cantà lu gallu, Ggiura si missi lu chiaccu a lu collu, <<Trarivi
a lu me Ddiu un'ura i svalliu>>.
Chillu chi nchiana' cu la cruci n'collu u populu ebreu tuttu a cavallu, tuttu a cavallu e lu populu rici e la truppa avanti e Ddiu porta la cruci. La sacra scrittura accussì-ddici: “S'abbrazza sur'a morti omini e-dduci. A lu munti calvanu funu aniti, trarinu a Cristu tutti ri na guci, e a jonnu chiaru si finiu la liti, strugghinu a Cristu e u missunu n'cruci.
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Sendu missu n'cruci Maria vinni: â&#x20AC;&#x153;prestu na scara me figghiu mi scendi, quantu cci bbasu li sacrati carni, commu non mi ciangi, amici ddigni, chi persi un figghiu ri trentatri anniâ&#x20AC;?. Marta cu-mMaddalena e San Lumia facianu chiantu cu ddururi randi, chi ndi-lli brazzi cci finiu Maria, cu na tuvagghia ri vintiddĂš pammi si la nchianu nill'eva ramattia u Verbu ri la cruci scindiu cci lu missunu 'mbrazzi a Maria sintiti a Maria li so lamenti, m'brazzi si visti lu veru Missia : <<Surgi
figghiuzzu quannu jiu cci pensu
sura commu fa l'oddiu e la strania ncasu avisti merici c'u nguentu, chi tuttu miricari vi vurria, vi portunu allu santu murumentu, pi-cchiumpiri sta grandi prufizia>>. Si fa la prufizia notti e gghionnu chi di la motti ri Ddiu rristanu spianti, Cristu chi vinni lu propria jonnu tuttu lu mundu si missi a trimari.
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U populu ebreu missu ll'attonnu guaddandu a Ggesù Cristu a-vviggilanti, sintiti la spartenza di Maria fu sura i la strania smandata fu. Setti pugnati zziccati cc'avia tutti prufiti di la promemoria, vaiu ciangendu sfurtunata mea persi la rraricata ri stu cori; ciangiri ahimè commu hai'a-ffari commu rristà nchiagatu lu me cori. Lu propia jonnu rrisuggitò Ddiu, tuttu vitturiusu e triunfanti uh chi-lligrizza ca parsi santa matri, si ndi nchiananu 'e cereresti n'tribunali. Si ssittanu a sedia di-ll'eternu Patri gloria messiddeu n'terra paci resuggità u nostru Ddiu. A lu munti di aborru si ndi jiu, a tutti i santi apostoli ji'a-ccunsulaiu e San Tomassi chi non lu criria. <<commu
facimmu Signuruzzu meu
ca tutti scumpiti ndi lassati?>> Illu ca so santa bbucca rriviraiu <<Undi
chi c'è a paci lla c'è Ddiu.>>
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ddiu crià l'ommu, cu stenti e affanni, cu li so santi mani li nutriu, Ddiu cci retti mundu e so parenti <<Te'
guarituru pi l'amuri miu.>>
l'ommu a tanti tempi cc'u rrindiu, cc'u retti n'manu allu populu ebreu e-ppi-ddari a l'ommu alla salvazioni nostru Signuri alla cruci fu-mmissu. Tutti 'di jimmu alli profondi scuri, pi-nnoi non c'è cchiù rrimissioni, cunfessa allu spissu u piccaturi, ch'i piccati cummissi vecchi e nnovi. Criu o nostru ddiu ri passioni, i passioni ri questu amurussu sanari o peccaturi mericina. Pueti e dotti ratimi lutrina, senti sti canzuni c'è cacchi mancanza, si c'è quacchi parora e non cunfina m'aviti piddunatu la gnoranza, e-ccu li rururi e li prufeti amuri si scrivi e si rrenota sti parori: <<non
fu pueta di la poesia
e non cc'hiu missu peddita ri tempu>> Sarà di lu santu sacramentu
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evviva di lu Carminu Maria . Spianu cu li fici sti canzuni un ommu ca non sapia l'Ave Maria. E cu li capizzi Giuseppi Missina inta li menzi Peppi Laccania. “U Campanillaru” Ritrovarsi a parlare, anzi andare alla ricerca di una conversazione, un colloquio con le persone più anziane del proprio paese è una preziosa fonte di arricchimento poiché queste sono l'unica fonte da cui trarre notizie, non esistendo della letteratura su Maletto. Parlando, come in un tuffo nel passato, raccontano dell'atmosfera che si viveva durante la quaresima, un periodo vissuto nel pentimento e in uno stato di riverenza per la Chiesa che era più paura che amore. Il tempo passa inesorabilmente in un lento divenire di persone, cose, modi di vivere, e le storie di allora appaiono irreali e mitologiche. Ed ecco che da queste conversazioni, all'improvviso saltano fuori personaggi che sembrano appartene ad altri mondi, come il personaggio del “campanillaru ”. Era questi un personaggio alquanto misterioso che appariva per tutti i quaranta giorni della quaresima, verso il tramonto, suonando una sorta di campanaccio e girando per le vie del paese. Completamente coperto da un cappuccio, affinché nessuno potesse vedere il suo viso, recitava filastrocche che inneggiavano al pentimento, rivolte agli uomini e alle donne. Le persone, richiamate dal suono della campana, uscivano ed offrivano del cibo e un buon bicchiere di vino, che egli consumava volgendo le spalle per non farsi riconoscere. Ancora oggi non si è risolto il mistero di chi potesse celarsi dietro quelle vesti; si sa solo che ogni anno era sempre la stessa persona e che l'incarico gli veniva affidato dal prete. Forse un signore che proprio dal ruolo che rivestiva prese il soprannome di
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“u piccaturi, 'ngiuria ancora presente a Maletto per designare gli eredi. Si provano strane emozioni ad ascoltare dagli anziani queste storie: ci si trova immersi in una realtà per alcuni aspetti assurda che non ci appartiene, ma che è quella vissuta dai nostri nonni e dai padri dei nostri nonni. Purtroppo i giovani sono sempre poco interessati e poco pazienti ad ascoltare tutto ciò, e quando le generazioni più vecchie non ci saranno, allora tutto ciò sarà irrimediabilmente perduto, perché è una memoria che non troveremo mai su nessun libro di storia. Per gli uomini Piccaturi a lettu a lettu chi la morti è pronta e certu Si non lassi 'stu piccatu mori prestu e va dannatu si non lassi sta catina allu 'nfernu ti trascina Per le donne 'O donna vana o sciocca o sprurenti ppi cosa di nenti piddisti a Gesù --Fimminelli ri sta strata chista è l'uttima passata cu non lassa stu peccatu mori prestu e vvà ddannata Preghiera del Venerdì Santo Lu venniri ri Marzu chi spaventu! Comu lu cantu mi scappa lu chiantu. Ggesù lu pigghianu e lu ttaccanu
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cu milli bastunati u ccumpagnanu, lu munti Carvariu u drizzanu, finarmenti 'ncruci u mittinu. Maria e peri ri la cruci chi dicia: “cu fu stu mastru chi fici sti chiova?” mi 'ndi facia un paru a mmia nun tantu rossi e nun tantu suttiri pi ci zziccari a sti carnuzzi fini. Le cinque piaghe O crucifissu, o Patri miu iu cu vu' vegnu a parrari di li vostri cincu chiaghi quari ficinu cchiù mari Figghia me vinisti tu ti lu ricu quari funu: funu chilli ri li peri ch'iu llà non pozzu stari; funu chilli ri lu latu chi ri llà nesci lu sciatu; funu chilli ri la testa chi nnemmici ficinu festa; fu la chiesa un sacramentu o 'nginucchiuni, 'nginucchiati cincu voti mi ra ddiri chi tu 'nfernu non di viri. Il venerdì di quaresima il mistero da recitare durante il Rosario era questo Ora chi simmu alla partitura vvinirrammu a Nostru Signuri
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non avendo chi ci rari u mandannu a sarutari ci sarutammu la santa testa chi ri spini fu curunata, la facciuzza insanguiniata tuttu u mundu ebbi spaventu. Si ludatu e ringrazziatu lu Santissimu Sacramentu Sempre il venerdì santo per la visita ai sepolcri Sepulcru vissitatu chi di lacrimi è llavatu pi la sara, pi la strina pi l'affritta ri Maria iu mi 'nginocchiu pi ddaricci cunfortu chi c'è Ggesuzzu mortu. Canto periodo quaresimale (ricordato il solo ritornello) E trentatrì anni, curuna ri spini, i ferri e catini, mio caro Gesù. Canto Si persi lu Signuri e 'nmenzu i diletturi e lu truvanu e poi lu 'ncrunanu cu 'na spina pungenti viva Maria clementi.
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Chiana la cruci e ccu 'na grandi vuci lu 'ntissi la so matri caru lu ternu Patri e suspirau Campanella a nnona nnona veni l'angiru e la sona Sarvaturi chi ci la canta e quattru seggi di domanda di domanda di rosi e sciuri undi si setta nostru Siggnuri. Nostru Siggnuri a munti Carvariu porta 'na cruci, tri chiva a mmanu Cu ci rava 'na timpurata, cu ci rava ĂŹna sputazzata sangu rrussu ci curria ca era u figghiu ri Maria. Di Maria palermitana 'nchiana e scendi 'sta funtana 'ndi sta funtana c'era un figliolu ch'era vestitu d'argentu e dd'oru. Ci mancava la cammisella faccilla tu o Mariuzza bella, iu ci lu vogghiu ricamari, iu ci lu vogghiu rificari. Pigghia la forbici e u iritaru forbici e firu, forbici e firu pi ricamari. 'Nda li quattru cantuneri ci su missi li quattru artari ca ci balla lu Siggnuri
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Patri eternu, Patri eternu e Ddiu d'amuri 'Nceru la parma e 'nparadisu l'arma. Preghiera del periodo di Pasqua Brigida santa 'nginucchiuni stava davanti Gges' Crisu chi ciangiva e 'ndi 'na manu 'na torcia 'llumata e 'ndi l'atra manu un libbru ca liggia. Strogghimi Cristu de li ti 'ntenzioni rrivelimi la to santa passioni. Quandu lu Iuramarcu mi jurau cu na santa pacella mi firiu centu surdati purtavunu a mmia furriandu cu 'na stilla matutina e poi si vvicinanu ddu surdati, unu cu 'na corda o collu mi tirau pissinu 'ndi Piratu a strascicuni. Piratu era affacciatu a lu barcuni e cu 'nmamtellu ri scarratu finu “Cu è su ommu? Lassaturu andari chi menzu mortu cchiù non po' campari. Tuppi, tuppi 'ndi lu purticatu “Mamma, mamma non pozzu apriri suggnu ttaccatu cu ferri e catini.” possu la manu 'nterra e trovu mogghiu, chistu è lu veru sangu ri me figghiu. Va chiammami a Giuvanni chi lu vogghiu quantu mi iuta a ciangiri a me figghiu. E' ditta sta lizioni ognunu e nostru si rici 'n' Ave Maria e un Patri nostru.
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Canto del periodo pasquale Quandu Maria si 'nzaiaiu lu mantu si lu 'nzaiaiu ri gioveddì santu pi strata ci scuntrau l'angiru santu ci rissi: “und'è chi vva bella Maria”. “Vaju circandu a lu me caru figghiu”. “Non lu circari no chè suttirratu sutta stu peri i portu ri Piratu.(due volte) Maria carau l'occhi 'nterra e visti acqua: “ chist'è lu veru sangu ri me figghiu. Va chiammami a Giuvanni ca lu vogghiu quantu m'aiuta a ciangiri a me figghiu.” o tuppi, tuppi intra stu purticatu “O mamma, o mamma non ti pozzu apriri chi suggnu 'ncatinatu di ferri e catini”. La Marinnuzza va a la forgia pi pigghiari u luci truvau lu mastru chi facia lli cruci “Mastru pi cu li fai sti longhi cruci?” “Li fazzu pi lu figghiu ri Maria non tantu longhi e mmancu tantu fini quantu trapanunu 'sti carnazzi fini”. Rispundi lu cchiuù randi marfatturi “longhi e pizzuti ci raviti a ffari quantu non trapanunu sti carnazzi amari.” A Marinuzza 'nchiana supra u schogghiu iccau 'na grandi vuci pi so figghiu La Marinuzza 'ntissi su lamentu fici scurari lu ceru e lu ventu La Marinuzza 'ntissi su duluri fici scurari lu ceru e lu suri.
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Il periodo pasquale si concludeva con la benedizione delle case. Il prete, ma anche il padrone di casa, battevano sulla “cascia” gridando: “Nesci fitenti chi ttrassi Ddiu l'Unniputenti!” Per ringraziare il prete la povera gente di Maletto offriva qualche bene in natura; durante la costruzione della Chiesa Madre i malettesi donavano pezzi di legna da ardere, utilizzata per sciogliere la calce. Il Natale Non meno della Pasqua era sentito il Natale, festa religiosa prima di tutto. Nelle case, chi poteva, allestiva il presepe e davanti a questo si recitavan le preghiere della novena. Spesso le famiglie facoltose invitavano i vicini contadini, le mogli e i bimbi di questi e dopo aver recitato la Novena offrivano loro frutta secca e qualche dolcetto. Ad allietare il momento “u Ciaramillaru” che suonava davanti al presepe le dolci nenie natalizie. La Novena veniva recitata in Chiesa alle quattro del mattino. All'udir le prime note della ciaramella un continuo passa parola: “Curriti! Curriti ca ciaramella sona!” Allora i padri, nascondevano sotto il loro cappuccio i bambini, proteggendoli così dal freddo e dalla neve che in quei giorni erano più intensi del solito e correvano nella Chiesa di Sant'Antonio, in tempi a noi più vicini nella Chiesa Madre, con la speranza di trovare ancora qualche sedia. La nascita Muvitivi pasturi iti a ttruvari Ggesù, non ritardati cchiù, chi è natu u Gran Verbu. L'incarnatu ri Maria Virginella ndi 'na capannella chi soffri e tacitamente e vi annunzia a paci
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cu 'na lligrizza ranni chi in tutti i ceri si sfa. Si movunu i pasturi. Era un poviru picuraru non avia chi ci purtari porta latti ndi na scisca caciu cavallu e tumma frisca. U poviru cacciaturi non avia chi ci purtari porta un lepuru e un cunigghiu pi la matri e pi lu figghiu. U poviru urtulanu non avia chi ci purtari porta un peri ri cavuru sciuri pi lu nostru caru Redenturi. U poviru lignaiolu non avia chi ci purtari porta un fasciu ri ligna ranni pi sciucarici li panni.. Canto di Natale Quandu Ddiu vinni a lu mundu la nuttata fu troppu scura ve lo dico, ve lo racconto, ve lo dice la scrittura. Rit. E Maria quand'era mamma 'ndi li brazzi lu ia purtandu chi pena ranni: la pagghia, lu so lettu e lli so panni. Quandu Ddiu s'ava 'ncarnari
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manda l'angiru Gabrieri. A Maria ma salutari la rreggina ri li ceri. Rit. E nasciu lu Bambinellu senza un firu ri capillu e lu firu chi ci avia commu l'oru ci llucia. Rit. E partitivi pasturelli amunindi a la capanna c'è 'na donna parturenti ca è figghia ri sant'Anna. (…) Quandu la Matri Santa ià siriri e ià siriri 'ncasa ri sant'Anna (…) Rit. E Maria quand'era mamma 'ndi li brazzi lu ia purtandu chi pena ranni: la pagghia, lu so lettu e lli so panni. Canto di Natale Alluggiati, alluggiati chista povira siggnura Virginella e matri pura chi stasira non ha undi iri chi non li vori null'ancora chi pena ahimei! Starannu fora Viniti 'ndi mia Giuseppi santu, dolce Maria, dolce Maria.
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Si vuliti prinnuttari 'na sta grutta iu vi ci portu non haiu autru spusa dari autru aiutu, autru cunfortu. E Maria Vergini ubbidienti mustra ri essiri cuntenti. Sa sittaru tutti rui 'nterra 'ntornu ri lu focu non putendu qualche pocu E Maria Vergini ubbidienti mustra ri essiri cuntenti. Canto di Natale Bambinellu nisciti a ballari tuttu lu chianu è tuttu lu so Undi passati lu vostru piruzzu ci sunu grasti ri basiricò. 'Ndi scippammu 'na pampanella cià purtammu a Matri bella Matri bella supra l'artari tutti l'angiri chi ci cantunu. I capilli biondi e rrizzi figghiu meu quantu billizzi. Canto di Natale (ricordato il solo ritornello) E' la notti ri Natari chi nasciu lu Bambinellu e ci missiru un nommi bellu Sarvaturi lu piccirillu.
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Altre preghiere O bontĂ ri Pararissu e chi mai avissi affissu e chi sempri avissi amatu mmaririttu i me piccati Mai mai piccari cchiĂš iu promettu miu GgesĂš. Primma i Ddiu vogghiu muriri va turnari e va trariri sangu priziusu lavati e purificati st'arma mia. --Porti felici stati averti un pocu intra cu c'esti: lu figghiu ri Diu Sunu sacramintati a chisti locu E scramu: cori miu servi a Diu! --Chiamatimi Signuri ch'iu vegnu Commu 'na picurella a pperi sugnu Ri me piccati mi 'nde fari un bagnu mi lavu e mi 'ndi vegnu a lu to regnu. E lu me spusu a la cruci muriu mentri chi morsi tistamenti fici: lu piccaturi quandu si rridduggi ci li pirduna l'erruri chi fici. O piccaturi commu non ti penti quandu ti ffacci a chill'artari santu mi critti ch'era pani ri frummentu sanu carni rri Ddiu sacrati santi.
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La religiosità popolare si nutre anche di superstizione. A Maletto molte anziane donne fino a qualche decennio fa, si ritenevano capaci di eliminare malanni con semplici artefici e preghiere rivolti chissà a chi. Molti anziani dicono di non averne serbato ricordo. Forse oggi se ne vergognano un po'. Contro il malocchio Stammattina mi azzai alla missa mi n'andai mi scuntraiu na mara pissuna mi fici na mara sguaddatura cu li occhi mi gguardaiu …. e ci faccimmu lu segnu ri la santa cruci Preghiera per eliminare i vermi (ossiuri) A matina ri Pasqua lu vermu.... e tacca chi ti tacca ti pigghia e non ti lassa nommi ri Maria scuntrastuvu ppi lla via pi lu nommi ri Ggessù fui tanto e non veniri cchiù
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Canti del contadino Se molti sono i canti e le preghiere che ricordano e ancora recitano le donne anziane di Maletto, purtroppo non altrettanti sono i canti che i contadini, i nostri nonni, solevano cantare all'antu mentre mietevano o nell'aia quando “pissavanu”. Resta il ricordo dei suoni, uditi anche dalle donne che attendevano alle faccende di casa, provenienti da quei luoghi e solo qualche frammento, qui di seguito riportato. Di solito a cantare erano i contadini che possedevano e lavoravano con le mule, non con i buoi; cantavano per alleviare la propria fatica e per incitare la “besta” al lavoro. Al suon di musica tutto era più facile o almeno più sopportabile! Sull'aia, quando si “pissa” Tira cuntenti e non ti sbarrugari! Ppi travagghiu non si mori nimmenu tantu assai si po campari ---Llu ferru quandu è cauro stira quandu è friddu si lu mangia la mura Nell'antu quando si miete Me nannu pi llu metiri muriu mi si lu meti cu llu siminaiu Nonostante le fatiche era un gran festa, soprattutto per i più piccini che, proprio per divertirsi un po', a volte venivano posti sopra la pietra che stava tra i due buoi, quella che serviva a schiacciare le spine e così giravan anche loro, come in una giostra.
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Racconta...il contadino La gente del piccolo borgo, fino alla metà del Novecento era povera, mal vestita e mal nutrita, gente stanca e stremata dalle fatiche quotidiane, eppure...aveva tanta voglia di attaccarsi alla vita e alle sue manifestazioni più spontanee, naturali e vitali. Il paese durante il giorno era un risuonare di voci, intonate o meno: le donne intente a lavare i panni che cantano, i contadini che mietono o trebbiano che cantano, i cantastorie che raccontano mondi meravigliosi o storie lacrimose, i bimbi che saltano e corrono per le strade cantando e ripetendo filastrocche. Un mondo pieno di suoni e non di frastuoni. Dalla bottega del fabbro, del falegname qualche nota di musica classica, dal barbiere qualche strimpellio di chitarra e il suono dell'organetto. E poi...tanta voglia di stare insieme allegramente e spensieratamente sorseggiando un bicchiere di vino. Nonostante il freddo intenso invernale, da Natale alla Quaresima era un continuo Carnevale. Nelle case, solo a partire dagli anni Sessanta nelle piazze, era un continuo suonare e ballare. Organettu, friscarettu, armonica a bocca, ciaramella diffondevano allegria. Una sera da un amico, la successiva da un altro, a volte, se si aveva qualche lira per pagare l'ingresso anche nel garage “ru Baruni” che possedeva “la macchina parlante con corda”. E quando arrivavano i tre giorni del Carnevale, la musica e i balli non finivano mai. In giro i “caccavegghi”, mascherati, con in faccia “u mascaruni”, a “tuppuliare” e a chiedere “ma fa ffari 'na bballata?” Il capo della comitiva si faceva riconoscere dall'uomo di casa e se era gradito lo faceva accomodare con tutta la comitiva. I “caccavegghi” entravano, magari nutrendo la speranza di qualche piacevole incontro con una ragazza, e suonavano, ballavano, portando allegria e spensieratezza. In cambio un sorso di vino, qualche biscotto. E via...a cercare altra ospitalità. Il giovedì grasso tutti i ragazzini in giro per le macellerie del paese con in mano l'“ugghia” (ferro utilizzati per lavorare a maglia) che a poco a poco si riempiva di salsicce, lardo, cotenna, pezzi di carne e di formaggio. Era “u lardaroru.” Poi a casa, dove la mamma avrebbe preparato l'ottimo sugo per i maccheroni o gli gnocchi, tipici di quei giorni. E quando le feste finivano e la famiglia rimaneva a casa?
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Nel capitolo VII paragrafo 3 del presente lavoro si parlerà delle serate della famiglia del contadino48. Le lunghe e fredde serate invernali vedevano la famiglia riunita attorno al focolare e attorno ai “narratori”: padri, nonni, zii si avvicendavano e raccontavano, non solo per la gioia dei più piccini, storie fantastiche, aneddoti e cunti. Spesso veicolo di diffusione di questo materiale orale erano i “carritteri” che transitavano a Maletto, un tempo molto numerosi, soprattutto quelli interessati all'acquisto del frumento. Infatti, a Maletto esistevano, fino alla seconda metà dell'Ottocento, due fondaci e una locanda con otto stanze, poi << casa Gruppuso>>. Ma vi erano anche ortolani provenienti dalle vicine zone, prima fra tutte Bronte, che venivano a vendere i loro prodotti; vi era Don Saroru, sorta di pescivendolo che portava in recipienti simili a piccole botti di legno, le acciughe salate.. e altri ancora. Questi spesso per attirare l'attenzione cantavano e “banniavano”, richiamando le donne per strada. E poi c'erano i cantastorie, che durante le fiere del bestiame o qualche festa paesana, o semplicemente durante le domeniche, richiamavano gli uomini e i bambini con la loro chitarra e iniziavano le loro “canzuni” i loro “stornelli”. Ma diamo voce ancora una volta ai nostri fedeli “narratori”, stavolta soprattutto contadini. Vedremo che hanno tanto da “cuntari e cantari”. Storielle morali A volte
capita di sentire dei motti dialettali, modi di dire, di cui non si
comprende il significato. Sono essi espressione di quella saggezza popolare che non si basava su trattati filosofici ma sull'esperienza di tutti i giorni. Spesso si tratta della morale di una storiella che doveva essere una volta di dominio pubblico e che era diventata pertanto luogo comune. Purtroppo col tempo la storiella non è stata più raccontata proprio perché supposta conosciuta; di essa restava solo la morale che, però, sganciata dalla storia diventava poco comprensibile. “Illu chi non quagghia” per esempio è una frase che si sente spesso dire e di cui nessuno dice più il resto: “u curatru chi n'a rrimina”. Forse perché pochi ormai sanno chi è u curatru (chi attende alla preparazione di ricotta e formaggio) e cosa egli rrimina (il latte col caglio). 48 Intra, pag.214 e seguenti
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Ecco di seguito qualcuna di queste storielle. O lupu o ccippàjina. Tipico della cultura orale siciliana è l'esagerazione, il cui fine è quello dell'ostentazione, del mostrare. Abbiamo quel terribile occhio sociale che ci spia inesorabile e da cui vogliamo essere inesorabilmente spiati. Anche se poi qualche volta si esagera anche ad esagerare... Fa comm'a-cchillu chi cci riss'o cumpari: -Visti centu lupi nd'om-bboscu! -sse!ma s'ha ddittu mà? -ca supra l'arma r'i murtuzzi! Chi si non eranu centu, cinquanta cci' avin'a ressiri. -Ma le', chi-vva ncucchiandu? Cinquanta lupi! -Senti, n'e cuntavi, ma reci lupi i visti! -Non cci criu, non ppo-r'essiri! -Ma jiu' na chill'e lup'i visti! -Sa-chi-vviristi! -O lup'o ccipajina, carcossa visti!
A pputtra prena. I sogni e i progetti, chi non li fa? Ma a volte essi si spingono tanto da far patire le conseguenze senza che ancora ci fossero i presupposti. Personaggio tipico dei racconti malettesi è “u bbabb'i Rrandazzu”, paese che dista solo dieci chilometri da Maletto. Se c'era un “bbabbu,” a scanzo di equivoci, meglio che questo non fosse malettese! C'era na vota u rrandazzissi chi cci riss'a mugghieri: - ssend'a me ggiujitta, u ssai chi ppinzavvi? Ora jimu nna ccumari, nni facimu mpristari un'ovvu, cci'u purtamu ndi l'ottra ccumari chi cci'avi a hiocca, je ppoi nasci'u
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ppulicinu. Nottri u nutricamu j'o facimu ddivindari un bielu ggalu. Nnu vindimu je nni ccattam'un purciluzu. Nottr'u nutricamu je quannu jevi bielu ruosu nnu vindimu je ni ccattanu na cciavura. Nottr'a nutricamu, je quannu jevi na biela pecura na vindimu je ni ccattam'un pulittru. Nottr'u nutricamu je quannu jevi un bielu scieccu nnu vindimu je ni ccattamu na biela puttra. Quannu jevi ura a ccuppirtamu... -ssendi, marittinu miu, poi mi fai mmendiri a cavvalu? -Sdisgrazziatta ammara, a pputtra prena, je tu tti mend'a cavvalu? Ffir'on bbastuni je-ccorpa cci ndi retti quantu oj'e ddumani. Versi dialettali Quandu mi maritavu pigghiavu 'na quagghia pi ddota mi purtĂ setti cunigghia pi matarazzi du' sacchi chini 'i pagghia e ppi linzora du' pelli ri cunigghia. Me soggira mi 'ndota 'na tuvagghia ma sira e matina si la veni a pigghia e jiu ci rissi: â&#x20AC;&#x153; si non mi lassati la tuvagghia vi la tornu a vostra figghiaâ&#x20AC;? Il sogno Bella ca 'nda lu sonnu mi vinisti, supra llu me cuscinu t'appuggiasti, quattrucentu bbasuni ca mi rasti, sparti ri li carizzi chi mi facisti Iu mi svigghiavi e non ti visti, duluri 'ndi 'stu cori ca mi lassasti Petra brillanti dove si 'ngastata, intra u me cori ti trovi scropita, cu 'na tirata r'occhiu e 'na guardata
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mi tirasti commu petra ddaramita Si mmoru lassu scrittu a la barata: bella pp'amari a ttia pessi la vita Su 'ngnornu fussi da quarantotturi e tutti 'sti munti divintassiru mari e chistu fini non vinia rrivari primma i lassari a ttia vurria muriri. Serenata Ffacciti bella chi staiu vinnendu lli to suspiri mi stannu chiamandu vatinni vagabundu e va avanti va buschici lu pani a sta figghia pigghiu lu saccu e mmi ni vaiu a pagghia primma ddubbaiu la mamma e ppoi la figghia
Sono soprattutto gli uomini a ricordare e cantare ancora queste canzoni, perché solo loro, non le donne, potevano uscire e fermarsi ad ascoltare i cantastorie, oppure incontrarsi con amici nelle taverne, osterie, putij e mentre sorseggiavano vivo e sparlavano di qualcuno, mettere su una canzone. Le donne ricordano soprattutto preghiere, canti religiosi. Raramente canzuni che ascoltavano nelle serate festose a casa di parenti o amici. L'Amore e i suoi aspetti nella poetica dei puieti La fuitina, il corteggiamento, il sesso mercenario, le canzoni dello sdegno, drammi familiari. E' tutto questo il mondo cantato dai “puieti”, cantastorie come Orazio Strano, Ciccio Busacca, ma anche “puieti” locali.
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A bbutigara ri stoccu e bbaccarà Il componimento è poco velatamente metaforico e i giochi di parole sono popolari. Il tema mostra l'usanza, in tempi che oggi qualcuno rimpiange come puri, dei giovani di primo fiore a istruirsi nell'arte del sesso presso una qualche donna Venera, spesso costretta dalla fame a tale magistero. A-pport'e Jaci c'è na fimminella chi-ppi-mmisteri fa la bbutiggara, so maritu facia lu picuraru illa vindia stoccu e bbaccararu. Un picciuttellu vinia ri primmi hiuri circandu sta bbutiga rritirata <<Signura
Donna Venira und'è a me nsaratina
ri scarunella tenira je-mmenzu a lattuccchina cc'avia lu sangu aspuru m'u vogghiu rrifriscari j'on pezz'i bbaccararu a-mmia m'av'a-purtari>> <<lla-ssussu
r'haiu lu me bbaccararu
ma cu lu vori r'aviss'a-ppagari>> <<e
lei u purtassi tuttu lu bbaccararu frittu>>
Cci rett'un pipajoru e mmi lu fici cottu senza brocc'e-cucchiaru mi fic'a panza paru paru. Ttuppaiu lu picuraru si ntrighin'a strarriari, illa facendu schigghi pi-nn'e fari mmazzari. I canzuni r'u sdegnu I fidanzati solevano portare con amici la serenata sotto il balcone della fidanzata. Ma attenzione, quando il ragazzo veniva lasciato, ossia il fidanzamento era rotto, oppure non riusciva ad avere l'amore della fanciulla agognata ecco che nascono canzoni di disprezzo rivolte alla mancata fidanzata.
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I due brevi componimenti parlano di una presunta relazione precedente nascosta al nuovo fidanzato, mentre la seconda fa riferimento alla presunta differenza sociale alla base della rottura. Ndi li matinatelli mi rridduggiu rrustutu m'u mangiavi lu cunigghiu mi lu mangiavu cu-ll'acit'e ogghiu to mamma ti lu fici lu cummogghiu chi-pprimma r'amar'a-mmia avist'un figghiu. U vo' sapiri picchĂŹ non ti vogghiu? Picch' si-ppizzicata ri lu niggiu ----T'haiu mandat'e t'haiu fatt'onuri je-ttu mi mandasti a dilliggiari ca mancu s'eri figghia ri bbaruni oppuri principissa naturari Ndo to parazzu non ci sta barcuni je-mancu scara chi si cchian'e scendi si-figghia r'un villanu picuruni tantu chi rristast'a mmaritari --Commu un panaru ri menduri amari ju ti amava e ti tiniva cara e ti pinsava milli vuti l'ura crirendu chi eri na donna rrara inveci riniscisti traditura
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Rrita e Matteu (cantastorie Orazio Strano) Questa canzone è una storia d'amore e morte, sacrificio e vendetta. Sentimenti forti, solari, sanguigni, meridionali. Un picciottu carritteri chi si fici firanzatu cu na figghia ri chiancheri chi cci rava lu so hiautu muriggiavin'ammucciuni chi lu patri non vuria Rrita sempr'o bbarcuni ffacciata si viria si parravan'a-llu spissu ma li vistinu li ggenti lu so mar'ha statu chissu, scumpariu temp'un nenti vinn'u patri sapituri chi lu nervu a-mmani pigghia ri lli corpa e lli turturi, cchiu a la matri c'a la figghia A la figghi'a subbissaiu chi mmacari ndi sviniu ddopp'ancora chi-ppinzaiu?.ndi na stanza la chiuriu acqu'e-pani pi-mangiari quandu illu lu vuria sparti n'terra lu curcari quantu prestu ndi muria Rrita visti c'av'offriri la pazienza a lu Signuri chi s'h'a-ffari pentenza s'ha-ssuffriri pi-ll'amuri Quandu amuri è ntra lu cori non si po' ma'cchiu scurdari non c'è -bbeni e -nnon tesori chi si ponu pparagunari Rrita ggiustu parr'a-ddici ma lu patr'e ustinatu Je-mMatteu jorn'e-nnotti cci cantav'alla so zzita <<Non
ti-ffacci, sapurita, forsi, bella, si-mmarata?
Arrispund'armenu, Rrita, si-mmacari si-frimmata>> Quandu chistu illa sintia, lu so cori si rrumpia fort'a cciangiri partia, m'a-mMatteu cci rrispundiu: <<Sugnu <<Lu
chiussa, carzarata, no-mmi jorna cchiu-ddumani>>
to soffrir'è-ppi-mmia, si-ttumori i'appress'a-ttia>>
La matina rRita chiussa non si ntissi cchiu-pparrari comm'a ntissinu piatussa or'a fanu cunfissari
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Cci chiamanu a-llu-ddutturi pi -lluvaricci lu mari ma suffrendu pi-ll'amuri non ci nd'è-mmiricinari Sor'e-ffrati ndi-lla cassa fanu guci ma lla povira svinturata rava cuntu a-cCrist'a cruci Mara ggenti ndi lla cassa si vistinu rrivari Rrita rissi nd'a so menti “ri st'amici chimnd'hai'a-ffari” Favuriss'a llu me hiatu mi m'assisti alla gunia Lu bbrazzassi ndi stu pettu, chi-mmuriss insiemi a mmia Je-mMatteu nd'a so strata la so vita si smaniava chi lla porta si ncugnava ndi lu lettu nvicinava: <<Rrita
bbella sugnu iu>>
Li ddu zziti svinturati si bbrazzanu ri veri cori. Illu rissi: <<Rrita mori: anch'iu all'eternità.>> spar'o patri e-llu mmazza', bbrazz'a-rRita e ssi-spara' U puietu e i suoi divulgatori I nostri anziani sono depositari di una cultura popolare che neanche immaginiamo. Ma che la nostra fonte, il sig. Giuseppe Cairone, alla venerabile età di novantatrè anni, ricordasse queste canzoni ascoltate una sola volta la bellezza di tre quarti di secolo fa, è veramente sorprendente. Il nostro contadino ascoltava nelle fiere, e qualche volta anche in paese, queste canzoni dal cantastorie, che lui chiama u puietu, e poi le divulgava. Infatti ci racconta che veniva invitato nelle “occasioni” ad allietare la compagnia, in tempi in cui la televisione non si riusciva neanche ad immaginare.
U zzitu vistut'i fimmina Si tratta di un componimento che tratta di quell'argomento principe della poesia che è l'amore, e ne tratta in forma umoristica mettendo la piaga sulla problematica
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della prima notte e sul fatto che lui non è meno imbarazzato di lei senza averne però le attenuanti del pudore. Il tema è tra i più cari a questo genere di arte, la fuitina, con tutti i problemi connessi e le soluzioni: i soldi, la carrozza, la zia, l'amico. Si tratta di quartine di endecasillabi o settenari, la cui metrica è sufficientemente rispettata, la rima è spudoratamente baciata e per giunta reiterata, ma può essere gustata tenendo conto che si tratta di una canzone da cantastorie. Un picciuttellu travagghiava a Muntirratu Stu picciuttellu s'ava fattu zzitu Cuntandu tuttu lu magnificatu Ricendu ndi sti jorna mi maritu. Intr'o so mastru propa cci missi stu parrari Figghiu sarà impossibbiri: Non ti pò-mmaritari. su'-mmastru cci lu ricu francamenti La zzita sta-vvicinu e nno-distanti Macari u sanu li parenti Chi-bbellu pettu chi-tteni r'avanti. U mastru torn'e rrepica: si cc'ha bbissogn'i mia A zzita t'a fazzu fuiri stasira all'Avi Maria Lu zzitu cuntintissimu travagghi'ogni-mmomentu
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la zzita s'aviss'a-ffuiri lla sira nfinammenti. A sira luva' mani cchiu-ddaura leva mani cu-lla menti rossa Prighand'a lu cucchieri: Ven'a-ll'ura mi ven'a-sservi cu-lla to carrozza Quand'a carrozza vistinu fimmari l'amicu scanuscenti si nvicina la zzit'è ppriparata, no-ndi facit'accorgir'e parenti Te cca cci rissi cchiappira. 'Na truscia cci bbiaju j'on-mmazz'i carti pi-ddinari s'i sarvà Supr'a carrozza cchianinu Ma randucci bbasuni J'a zzita chi cci rava? Ma sempri pizzicuni L'amicu scanuscenti cci rissi: Un'amm'a-fimmari? Lu zzitu: Ndi me zzia nd'amm'a jiri Chi cc'est u lettu und'amm'a ccuccari Ri fatti commu rrivanu Illu v'a-cchiamm'a-zzia
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Cu fu? Cci rissi raprindi cca cc'è la zzita mia. Ch'i vicini si sarutanu Intra si ndi trassinu So zzia cci ricia pi-mmangiari Nno chi pprestu ndi jimm'a-ccuccari. La zzita si ffruntaiu Non si vorsi spugghiari Illu smurza' la luci E-ssubbitu si spugghiaiu Cu lli spalluzz'arreri Pi non si mortificari J'ora ti rissi bbesia Quar'è a to fantasia Chi-mmancu sent'u hiavuru R'un mmascuru ri tia Lu zzitu ddivinta comm'on-ppagghiazzu mutu si stetti, non potti parrari so zzia cci ricia: Bbesti'e ppazzu, S'affissa commut'a facisti fari. La zzita: chist'è-ccoss'e ffissa t'u ricu 'ncunfirenza c'ora spirdi' a'micizzia
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cu-ttutt'a cunfirenza lu zzitu cunfurtandusi: lu fattu ccussì-ffu chi ora natru mascuru non mmi lu fuju cchiu. A scummissa Anche in questo caso il tema trattato è l'amore ed in particolare il corteggiamento. Non si sa se la storia è a lieto fine perché mentre il Sig.Cairone ascoltava u puietu, e imparava, è stato chiamato e non ha potuto attendere la fine della storia. La morale è un po' maschilista (Cumpari, non cci stari 'nfirucia cu la ronna), ma non bisogna dimenticare che gli autori scrivevano in bel altri tempi. La struttura metrica in questo caso è ben più incerta, vuoi per mancanza di talento dell'autore, vuoi per difetto di memoria della nostra fonte, subito rattoppato in modo che, se la metrica viene compromessa, il filo del racconto è salvo. 'Na vota c'eranu ddu cumpari, cumar'i vinu no? Chi si ndijinu nd'a bbutiga Rrinu'a sso figghia si miss'a-vvantari Ie-Llorenzu a-sso figghia macari. “Me figghia mi ggiura e-mmi spriggiura chi nd'o so cori no-ndi sent'amuri” “cumpari, non cci stari nfirucia ra ronna nd'on mminutu centu voti po-ccangiari” “Nno caru cumpari, me figghia non si vori maritari” “Si-vvir'a Jacintu cc'japr'a porta-ssi lu bbarazza Catarina cu Jacintu si vori maritari”.
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“Nno caru cumpari, siti sbagghiatu cci nd'hanu statu r'i tutt'i culuri” “A scummisa cc'hamm'a-mmentiri Reci lir'e-mmacari cchi'assà A bbutigara cci r'hamm'a-ddari” “Cumpari non pinsati li rinari: Rumani matina m'i vegn'a-ppigghiari”. Rrispundi Lorenzu: “ca non si sapi si ndo me portafogghiu han'a-ttumari”. Commu rriv'a cassa: “Jacintu, c'è na ronna chi ti vinci Non sent'amuri mancu si-cci ciangi A figghia ri Ddon Rrinu Spacche llassa” “Stasira cci vaj'a ccantari cu 'na chitarra mi ment'a-ssunari Si ndi va arrer'a porta e-ssi ment'a ccantari: Hiuri, hiuri r'amuri, senza ri tia non ppozzu stari” “Vattindi ri cca, non mmi nquitari.” “Hiuri, hiuri r'amuri, a nott'a ttia mi vegn'a nzunnari” “Ti rissi vattind'i cca.” Cumbattinu 'na rrancata, all'urtimu chista si bbiria: “Un-mmaru tempu aviss'a-vviniri j'o mari ntempesta t'aviss'appurtari. U piscaturi aviss'a-vviniri j'o piscaturi m'aviss'appiscari ndi la to strata m'aviss'a-vvindiri” “je-ttu a-mmia t'aviss'a-ccattari Iu cu-ttia vogghiu stari”.
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“Ah! chi ti putissinu mmazzari Hai! Chi-mmi facisti 'na firita cu sa bbuccuzza rucizzuccarata Ammirìanticchia ri lla to pumata quantu mi sana sta rossa firita.” “Si-ssugnu mmazzatu rresta lu spirtu sempri cu- ttia r'haiu la testa Trassu comm'o ventu nda to cassa e-ttutt'i siri mi cuccu cu-ttia” “Non ti scantari sugnu iu ch'era mmazzatu.” “Si-ppi-ll'onuri non si-ffintu japri la porta: ti bbrazzu Jacintu”. “Quantu sugnu fissa”, riss'u cumpari, “me figghia mi fici ppizzari li rinari”.
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L'assassinio di Saro Sgrò Purtroppo, non sempre i cantastorie cantano e narrano storie d'amore. Spesso argomenti trattati sono omicidi, barbari assassinii, come quello che avvenne proprio a Maletto alla fine degli anni Quaranta del Novecento. Gli anziani ricordano che dopo l'assassinio del paesano, (se ne parlerà approfonditamente nel cap. VIII del presente lavoro49) vennero a cantare e raccontare l'accaduto sia Orazio Strano che Ciccio Busacca. La prima Canzuni probabilmente, come ricorda la nostra fonte orale è di Orazio Strano. Di seguito riportiamo un'altra, probabilmente cantanta da Ciccio Busacca, il cui foglietto è stato fornito dal figlio della vittima, il professore Salvatore Sgrò. La cuppa r'avi la guerra assassina ca ricchi fici a na poch'ignoranti! Avvicinativi e viriti Marettu unni successi stu barbaru fattu. Ommini senza cori intr'a llu pettu mazzarunu(chitarra) un ommu ca nenti ava fattu Li tri assassini cossa cumbinanu ni lla jurnata ca lu sequestranu tutti tri incarzarati riniscinu Luiggi, Nnninu, Franciscu e Imbroggianu ni la jurnata ca lu sequestranu campagna campagna llu trascinarunu e ndi na grutta si lu purtanu, ndi na grutta si lu purtanu. Unu ri chilli lu tinia accura intra la grutta di la sepoltura lu Saru si pigghiaju di paura senza viriri lustru ri lla ffora suru viria la roccia e li mura 49 Intra pag.236
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dissi “Maronna! chi succeri ora?” e unu ri illi lu tinia accura intra la grutta ri la sepoltura. “e aviti pietà amici cari haiju sei figghi si l'aviti cori” je alla matri e alli sei figghi pinsava e alla famigghiarella ca lassava e alla mugghieri e alla matri pinsava e alli sei figghi persi chi lassava Luiggi Imbroggianu si anvicinava pi viriri chillu chi diceva e nall'insiemi chi ccossa facia. “Non c'è spiranza lo si ddivi ammazzari certu nni canusciu allu parrari”. Ma l'assassini cchiù non raggiunanu cu la rivoltella ci sparanu ma ancora nun si sazianu cu lu fucili dopu llu pungenu . Ddopu li metri chi lu furricanu cori assassinu e facci rri vilenu. L'assassinu scriveva e ddumandava ddinari sempri jie curaggiu facia dicendici ca lu sposu undi stava si la passava bbeni e non suffria. Si la passava bbeni e nun suffria. Sempri ccu fassu nnommi si firmavunu simmu la banda di Turi Giulianu! Ddu anni ri continu seguitanu rrivaju llu jornu e lli scuprenu ri Regabbutu vinia Imbroggianu
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'nda lu stratuni ri Bronti lu trattinenu. Ma la pattuglia pi regolarmente vossi la carta ri ricanuscimentu “Iu sugnu ri Marettu e non lu mentu suru mi trovu 'nda stu tali puntu ma staju jendu pi divertimentu a viriri la festa appena juntu e alla finuta ri divettimenti jiu ritornu a marettu novamenti. Lu marasciallu u critti veramenti però pigghiaju appunti tanti veramenti la festa sa vvirutu”. E ppoi si ndiu a Rreggabbutu . Un jornu u marasciallu era rrisolutu chianaju a Maretto pi lo su ripetu s'informa bbeni e ndi la matri a juto l'informazioni ri tri jorna arretru. la matri rispundiu paroli boni a Rrregabbutu sta ri abitazioni. Llu marascillu cu pricisioni, sunandu tutti a ttonu li campani, rici “chi ssunu belli sti cumbinazioni truvari stu cunigghju fora tana!” A Rrregabbutu a telefonatu subbitamenti dfu arristatu a Rreggabbutu ndi è santu Vitu lu Franciscu Imbroggianu vinni arrestato a Rreggabbutu undi è san vitu. Subbitamenti indi vinni ttaccatu e rrivilaju a botta rri nvati.
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A primma bbotta vuria nigari a poi comm' un gallu cuminciaju a cantari. E i so cumpagni vinniru arristati ru marasciallu e ri carabbinieri e rrivilarunu a botta ri nirvati lu locu e ri tutti l'ammazzati. Ora su bboni missi consirvati si tri assassini commi li viriti trent'anni hannu ratu ri sintenza cussĂŹ quaccunu si rricodda e pensa! Il Barbaro omicidio successo a Maletto (forse di Ciccio Busacca) Avvicinati viditi Malettu unni successi stu brutali fattu omini senza cori 'ntra lu pettu ammazzanu un'omu ca nenti avia fattu sti tri assassini cosa cumminanu Luigi, Ninu e Franciscu Imbrusanu A dda iurnata ca lu sichistranu tutti tri 'nfaccialati ci niscenu e 'ntra na sciara poi si lu purtanu 'ntra la grutta attaccatu lu mittenu e un d'iddi lu tineva accura intra dda grutta di la sepultura Llu Saru s'ha pighiatu di paura senza vidiri lustru di dda fora sulu videva la roccia e li mura dici: madonna chi succedi ora;
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alla mugghieri e la matri pinsava e li sei figghiareddi ca lassava Llu briganti Franciscu, avvicinava cu li cumpagni insemula ci eva pi vidiri di 'nssoccu si trattava e nta li 'nsemi chi cosa diceva, si prisintanu li tri mafiusi dicennuci paroli scalmacusi Llu giuvini dicennuci: “carusi mentri la me fortuna accussì vosi non faciti di mia crudeli abbusi ca vi dugnu dinari ed altri cosi.” Si non mi sbagghiu lu Saru ci dici: “di tantu tempu semu stati amici”. Lu Franciscu Imbusanu si marfici e divintanu tutti tri feroci mentri ca sti paroli iddu dici “semu scuperti ca semu tri soci certu ni canusciu nta lu parrari non c'è spiranza si divi ammazzari.” Appena ntisi fari ddu parrari Saru ci dissi sti duci paroli “aviti pietati amici cari c'haiu sei figghi siddu aviti cori.” Ma l'assassini cchiù non raggiunanu cu la so rivultella ci sparanu.
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Ma l'assassini non si sazzianu cu li muschetti dopu lu pungenu doppu di petri ca lu vurricanu cori assassinu facci di vilenu mentri stavunu ancora a raggiunari la mugghieri ci manna li denari cu la spiranza vidirlu spuntari di chiantu spizzava lu so cori ma non sapennu chi cosa avia a fari erunu persi dinari e paroli ma la mischina non lu immaginava ca lu maritu cchiĂš non riturnava. L'assassinu scriveva e dumannava dinari sempri e curaggiu faceva dicennu ca lu spusu unni stava si la passava beni e non suffreva sempri cu farsu nomu si firmanu semu la banda di lu Giulianu. Altra canzone di un cantastorie (la fonte non ricorda se fosse Orazio Strano o Ciccio Busacca.) Quandu passu rri cca' passu cantandu ma non mi riri ca cantu pi ttia. Chi rrobbi e bbillizzi n'avi chiassĂ rri tia passu rri notti e mi mettu a cantari
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cantu li belli ri tanti maneri si dormi facciu 'n tronu na siritina... e si ti ffacci tu pi mia si luna Vattindi chi ti sacciu cottu e cruru tu si na quagghia ri cu spara spara Oltre ai cantastorie che venivano a Maletto da altri paesi, come Orazio Strano, Ciccio Busacca, Vito Santangelo, c'erano cantastorie locali che non appena accadeva in paese qualcosa di particolarmente stuzzicante per la fantasia, non ci pensavano tanto a mettere su una canzone che poteva o no essere strimpellata per le vie del paese o nelle taverne, nelle putie del vino, o durante le serate danzanti tra amici. Il canto popolare rappresenta una di quelle forme d'artigianato dell'arte con cui chi era lontano dalle grandi opere d'arte, e nei paesini come Maletto erano in molti, dimostrava, in barba alle difficoltà della vita che si conduceva, che l'arte è un bisogno innato anche se inconsapevole. La massificazione della cultura ci permette di accostarci in mille modi all'arte ma ci ha fatto perdere il gusto della creazione, dell'improvvisazione. A Maletto esistevano improvvisatori che creavano stornelli e filastrocche sui fatti più importanti del paese (fuitine, scerre, rapimenti, tradimenti,ecc.). Entrando dal barbiere, dal fabbro, dal tabaccaio non di rado si poteva assistere ad una stornellata con chitarra o all'invenzione di storie tanto incredibili quanto piacevoli. Tracce di storie e stornelli si possono trovare ancora nei modi di dire dei nostri più in età, anche se qualche volta neanche loro ricordano più la storia da cui le prendono. Ecco una di queste canzoni inventata ad hoc, in seguito ad un episodio realmente accaduto a Maletto, da un cantastorie locale. Canzuni Sintitulu arrivari lu tradituri è statu un annu e mezzu un jucaturi ni l'annu ru quarantacincu nna picciuttella
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chiamata Micenza pi ddu anni vinni calunniata ri nessunu undi vinni piscata? nni so cugnata Ninuzza chiamata ri bbanda si missi na urata lu nnammuratu ci fici trassiri je pippinella cummenza a fujri ci rissi <<patri faciti primura lu innammuratu cciavi vostra figghia>> subbitu llu mischinu si sussiu la porta a sso fighia ci tuppuliaiu illa lu innammuratu fora lu mandaiu canari canari si ni scappaiu mancu pi li gutteri chi lassaiu dopo chi l'innamuratu lu mandaiu la porta a so patri ci apriu illu pi la cavigghia l'afferraiu cauci e pugna assai ci nni chiantau ni la cunfusioni Micenza scappaiu scauza e anura commi si ttruva.ju sapiti undi ha ddurmutu la sirata? Nda so vicina chi è ru so stessu candidatu Russuria a cupigghiuna â&#x20AC;Ś. (l'amanti...) Russuria un favuri ma ffari a Micinzella m'a jri a ciccari sutta li ponti a trova chi ciangia
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ci rissi Micinzella non ciangiri chi sunu cossi chi succerunu a tutti sapiti undi ha durmutu la sirata? â&#x20AC;Ś..ndi na amichella chi era ru so stessu candidatu Vuriti sapiri cu fu l'auturi? Un certu Avellinu chiamatu Savvaturi
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I Cunti C'era 'nna vota un vecchiu aviva un saccu vecchiu ogni tantu rrava un puntu spetta chi ora tu cuntu Scrivere e poi leggere questi cunti purtroppo è ben diverso dall'ascoltarli e vederli narrare. Il racconto dialettale è sostanzialmente orale per cui utilizza tutta una serie di mezzi espressivi, quali la modulazione della voce o il gesto, che illustrano il racconto e contemporaneamente rendono inutile una descrizione minuziosa dei luoghi e delle azioni tipica della narrativa scritta. Chi li raccontava usava spontaneamente tutto il corpo, la faccia soprattutto, gli occhi, la fronte, la bocca, ma anche le mani per indicare ad es. luoghi lontani, vicini, cose grandi, piccole, le gambe per rendere ancora più accattivante il racconto. Si è, pertanto, presentata la necessità di scegliere tra la trascrizione del racconto così come raccontato, perdendo parte dell'espressività di chi racconta, e l'invenzione, di sana pianta, di un modulo narrativo dialettale. Si è adottata la prima possibilità nell'intenzione di contribuire a risvegliare il gusto dell'ascoltare chi racconta. U Cunt'i Pippinellu C'era 'na vota un patri ch'avia tri ffigghi. Quandu chiumpiu u so tempu e-ffull'ur'e moriri, stu cristianu, siccommu pusiria suru 'na ficara, chiamm'a un'a un'i so figghi e cci ddumanda: <<Tu>>,
cci riss'o cchiù randi,<<chi-vvo a binirizioni o a ficara?>>
<<A ficara!>>,
cci rrispundiu.
<<Pigghit'a
ficara!>>.
<<Je-ttu>>,
cci riss'o minzanu, <<chi vvo a bbinirizioni o a ficara?>>
<<Jiu
a ficara vogghiu!>>, cci rrispundiu.
<<Ca
pigghit'a ficara!>>.
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<<Je
-ttu , Pippinellu, tu chi-vvo a bbinirizioni o a ficara?>>
<<Jiu <<Je
vogghi' a to bbinirizioni>>, cci rissi Pippinellu.
jiu ti rugnu a me bbinirizioni e-mmacar'a ficara.>>
Stu cristianu bbiniriciu a Pippinellu e ppò pigghia e mmuriu. Vinn'u so tempu j'a ficara fic'i fica: bbelli, rossi, cci curav'o meri. U primmu figghiu, allura, pigghi'on cuffinu, u rinchi ri fica e-pparti pi s'i jir'avvindiri sutt'o palazzu r'u rre. Mentri chi-ccamminava, cci scontr'on vicchiarellu chi cci rici:
<<ggioventù,
chi
pporti ndi su cuffinu?>> <<Petri!>> <<Petri
mi ti ddiventinu!>>, ci rrispund'u vecchiu e ssi ndi va.
Camina chi ti camina u primmu figghiu rriva sutt'o palazzu r'u rre, poss'o cuffinu e ccumenza a bbandiari: <<Haiu
fica! Haiu fica! Oh cchi-ssu-bbelli sti fica!>>
A figghia r'u rre, s'intendu bbandiari, cci vinn'u ddissiu. Va ndi so patri e cci rici: <<Patruzzu <<Certu
me, m'i ccatt'i fica?>>
figghiuzza me!>>
Allur'o rre fa cchiamari a-ccu è chi bbandiava. Quandu guardanu intr'o cuffinu chi vvistunu? Petri. U cuffinu era chinu ri petri. <<Pigghiaturu
j'o mintiti carzaratu>>, riss'u rre, e ccussi fficinu.
U secundu figghiu, quandu fu so tempu, pigghi'o cuffinu, u rinch'i fica e-pparti pi s'i jir'a vvindiri sutt'o palazzu ru rre. Mentri chi ccaminava,, cci scontra llu vicchiarellu chi cci rici: <<Ggioventù,
chi pporti ndi su cuffinu?>>
<<Fica.>> <<M'a
fa ssaggiari una?>>
<<Corna>>. <<corna
mi ti ddiventunu!>> ci rrispund'u vecchiu e ssi ndi va.
Camina chi ti camina rriva sutt'o palazzu ru rre, poss'o cuffinu e ccumenza a bbandiari:
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<<I
fica! I fica belli! I fica ruci! Accattativ'i fica!>>
A figghia ru rre, s'intendu bbandiari e siccommu cc'ava rristat'u ddisiu, va ndi so patri e cci rici: <<Patruzzu <<Certu
me, mi ccatt'i fica?>>.
figghiuzza me!>>
U rre fa-cchiamar'a -ccu è chi bandiava, guardanu intr'o cuffinu e cchi vistinu? Corna. U cuffinu era chinu ri corna. <<Pigghiaturu
j'o mintiti carzaratu>>, riss'u rre, je ccussi fficinu.
Rrivai'u temp'i Pippinellu. Allura pigghi'o cuffinu e ccumenz'a ccogghir'i fica, ma n'o rrinesc'a rinchiri, picchì i megghiu fica si r'avinu ccampat'i so frati, e-ppo i fica erunu nichi e marpatuti. A-r-ogni mmoru Pippinellu si mpon'a coscia e pparti. Mentri chi camminava, cci scontr'ovicchiarellu chi cci rici: <<Ggioventù,
cchi pporti ndi su cuffinu?>>
<<Fica. A vori
ssaggiari una?>>
<<nno,
no! U Signuri mi ti bbinirici>>
Camina chi ti camina rriva sutt'o palazzu ru rre, poss'o cuffinu e ccumenza a bbandiari: <<fica!Fica!
Haiu fica>>.
A figghia ru rre, s'intendu bbandiari e siccommu cc'avinu rristatu ndo cannarozzu, va ndi so patri e cci rici: <<Patruzzu <<Certu
me, m'i ccatt'i fica?>>.
hiatuzzu me! Ma si stavota mi pigghiunu pi ffissa...>>
Fa chiamari a Pippinellu e guardanu intr'o cuffinu pi vviriri sta vota chi cc'era. Intr'o cuffinu cc'erunu fica: ch'eranu bbell'i sbancati: rossi, luciti, chi cci curav'o meri. J'o cuffinu era chinu sozziu. A figghia ru rre virendu nfinammenti lli belli fica si ndi nnamurà ri Pippinellu. <<Ma
guadda>>, cci ricij'o rre a sso figghia, <<n'è ccossa pi ttia.
Ma commu, a figghia ru rre, c'un disgriaziatu ch'i pezz'o curu.>>
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Ma a carussa no'ndi vuria sapiri. Ccussì u rre, pensa chi ti pensa, rissi: <<E
vva bbeni, T'u po pigghiari, ma si ti vori t'h'a mmaritari.>>
fici chiamar'a Pippinellu je-cci-rissi: <<Sillu
chi-vvò a mme figghia h'a ffari 'na varintizza...>>
<<Zzocchegghiè>>, <<...m'h'a-ppurtari <<A cavalla
cci rrispundi Pippinellu.
a cavalla r'u magu>>.
r'u magu?>> rrispundì Pippinellu, << ma commu po-r-essiri?>>.
Je-ssi ndi jiu ciangendu. Niscendu r'u palazzu r'u rre, Pippinellu scontra llu vicchittu r'i fica chi cci rici: <<
Pippinellu chi cc'ha, picchì cciangi?>>.
<<Commu
picchi-cciangiu, jiu j'a principessina ndi vurimmu maritari j'o rre non
vori. J'allura, stu cossa fitussa, mi rissi chi s'a vogghiu cc'aj'a ppurtari a cavalla r'u magu. Ma commu fazzu?>> Llu vicchittu, chi era san gGiusippuzzu, cci riss'a- Pippinellu: <<'on
ti sbarrugari, scut'a mmia. Tu fa cchillu chi ti ricu e vviri ch'i cossi si
ggiustinu. Te sti nivuretti: ogni vvota chi a cavalla bramma tu cci ndi runi una. Sillu chi-ppo si nd'aviss'a-ddunari u magu, tu h'a-ddirr'accussì:“Ommu sugnu, jeffrummicura ddiventu” j'e ssubbitu ddiventi frummicura; quandu non cc'è cchiùppiricuru rici: “Frummicura sugnu, je-ommu ddiventu” j'e ddiventi ommu torne-vvota. Capisti? E nnon ti sbarrugari>>. <<Va
bbeni>>, rissi Pippinellu, e ccussì-ffici.
Jiu ndo magu chi-ddurmia, cci retti ddu nivurett'a cavalla, a strugghiu, si miss'accavallu je ssa purtà. Quand'u rre s'u visti rrivari, a ccavallu lla bella cavalla, pinsà: <<ma
guard'a cchistu, commi ci potti rrinesciri? Ma ora cc'u ricu ju>>.
<<cci
riniscisti allura?>> , cci riss'a Pippinellu,
<<
ma non-bbasta. Sillu chi-vvo a
mme figghia m'ha ppurtari macar'a cutra r'u magu.>> <<A
cutra r'u magu? Je ccommu po-r-essiri? Nfina chi er'a cavalla vabbeni m'a
cutra? Commu fazzu?>>
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Je ssi ndi jiu ciangendu. Niscendu r'u palazzu r'u rre, Pippinellu scontra torn'e vvota san gGiusippuzzu chi cci rici: <<Pippinellu <<Commu
chi cc'ha, picchì-cciangi?>>.
picchi.cciangiu, stu curnutu, mi rissi chi si-vvogghi'a-sso figghia
cc'aj'a-ppurtari a cutra r'u magu. Ma commu fazzu? U magu ddormi sempri j'a cutra è ggiriat'e ciancianelli. Commu pozzu fari? Nfina chi er'a cavalla! Ma a cutra!>>. San gGiusippuzzu, cci riss'a Pippinellu: <<'on
ti sbarruggari, scut'a mmia.Tu fa-cchillu chi ti ricu e vviri ch'i cossi si
sistemunu. Te' stu gghiombur'i cuttuni. Tu va nda cassa r'u magu, ti fa-frummicura je trassi r'u nassell'a porta.Po cci nculluriji stu cuttuni nde ciancianelli, je-ss'u magu si smarina tu ti fa frummicura e spetti chi si ddurmisci. Quandu llesti tti tir'a cutra je-tt'a porti. Capisti? E nnon ti sbarrugari>>. <<Va
bbeni>>, rissi Pippinellu, e ccussì-ffici.
Jiu ndo magu, ri nott'e e-nnotti, si fici frummicura, trassiju r'u nassell'a porta, cci nculluriaj'u cuttuni nd'e ciancianelli, cacchi-ppar'e voti s'app'a-ffari frummicura, si tiraj'a cuperta je-ssa purtà. Quand'u rre s'u visti spuntari c'a cutra r'u magu supr'e spalli pinsà: <<Ma
guard'a-cchistu, commi potti fari? Ma chi s'a vori maritari? Raveru? A-
mme figghia? Ma ora cc'a fazzu viriri iu>>. <<Cci
rriniscisti n'atra vota?>>, cci riss'a Pippinellu, <<ma mancu sta vota bbasta.
Si vvo a mme figghia h'a ffari l'urtima varintizza je-ppo t'a po-mmaritari, o non sugnu cchu u rre: m'h'a ppurtar'o magu.>> <<U
magu???>>
Stavota Pippinellu non dissi nenti. Ava caputu c'u rre a-sso figghia non c'avuria rari propria. Je-ssi ndi jiu rriputandu e gastimiandu. Niscendu r'u palazzu r'u rre, scontra torn'e vvota san gGiusippuzzu je cci rici: <<no-mmi
'dddumandari chi cc'aiu e picchi-cciangiu! A sta vota non si po-ffari
nenti. Llu ddisgrazziat'amaru ru rre mi rissi mi cci port'o magu propia. Non c'è-nnent'i
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fari>>. <<ma
nno! 'on ti sbarrugari!>>, cci rissi san Ggiusippuzzu a pippinellu,
<<jiu
ricu
chi caccoss'a putimmu fari, lassimi pinsari...>> Je ppensa chi ti pensa rissi: <<scut'a-mmia.
tu fa -cchiullu chi ti ricu e-vviri chi sta vota u rre non ti po-ddiri
nno. Tu va nd'o bboscu r'u magu je-ccumenz'attaghiari lignammi. Commu illu si rrisvigghia je-tti ven'a-ddumanda chi sta-ffacendu cci rici: <<Mi senti, u sapi, muriu me patri je-nnon cc'aju mancu ddu tavuri pi cci far'un tabbutu>>. Commu llest'i far'u tabbutu cci rici: “ Mi senti, non s'h'a-ssiddiari, me patri avia a so lunghizza, m'u fa u fauri, u prov'o tabbutu s'a missur'è-ggiusta?” Commu illu si nficca cci rici: “Mi senti, non mi si siddia ma vuria pruvari u cuverchiu s'alivoti cci su'-ffingazzi”, j'ogniffingazza chi i rici cci chianti na taccia. Po tu carrichi nd'o carrettu je-cciu port'o rre.>> <<Va
bbeni>>, rissi pippinellu, e ccussì ffici.
Jiu nd'o magu, ccuminz'a-ttagghiari a lignammi p'u tabbutu, comm'u magu ntissi, nisciu ri n'cassa je cci rissi: <<Je-cchi <<M'o
è stu schifiu, non si potti ddormiri cchiù>>.
sapi>> rrispundì Pippinellu tuttu scantatu,
<<
vossia m'h'a-ppiddunaru, ma
muriu me patri je-nnon cc'aju mancu ddu tavuri pi cci far'un tabbutu. Pi-ffauri, mi non mi caccia, c'annunca n'o pozzu mancu furricari.>> U magu ch'era marvaggiu ma babbasuni, cci rispundiu: <<Va
bbeni, ma spirecati chaj'u sonnu>>.
Commu Pippinellu luva'ri far'u tabbutu, sempri piatussu, cci riss'o magu: <<Vossia
mi senti, non vurissi sbagghiari missura, me patri è a-r-occh'e-ccruci
comm'a-vvu ri atizza, m'u facj'o fauri si mintia intr'o tabbutu pi-vviriri s'è bbonu?>> J'o magu, comm'on pipituni: <<je-vva-bbeni, <<bbona
bbasta chi ndi spiricammu>>.
è ri missura, bbona. Non mi si siddia a chi è lloccu, mi viri si-pparunu
fingazzi cu cuverchiu missu.>> Pippinellu cci ment'u cuverhiu je cci ccumenz'a spiari: <<cci
ndi su'-ffingazzi?>>
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<<sse,
cca.>> je-cchiantava na taccia .
<<Cca.>> <<cci
Je-cchiantava natra taccia.
nd'è chiù?>>
<<Sse,
cca, ri stautru latu.>>
'Nfina chh'u nchiuvà bbellu puritu. Su carricaiu supr'o carrettu je cciu purtà o rre. Quand'u rre, ch'orma'era sicuru chi Pippinellu non si facia viriri cchiù, si visti ttuppar'a Pippinellu c'u magu intr'o tabbutu ch'jiccava bbrammi e screpiti, non cci vuria cririri. <<Vordiri
chi t'a meriti>>, cci rissi, << maritativi c'a me bbinirizzioni>>.
Je-ppo cumandaiu: <<priparat'u
bbanchettu nuzziali e llibbirat'e ddelinguenti ri nd'e priggiuni, picchì
oggi h'a-r-essiri festa pi-ttutti.>> Commu Pippinellu vist'e so frati partij'a cciangiri, picchi ppinsava c'avinu murutu. J'allurr'o rre p'amur'i so figghia e ppi-ll'onur'i Pippinellu i ppiddunaiu e i fici dduchi. Je ttutti vissero felici e-ccontenti, je-vvatri c'a lingua mmenz'i renti! Storia ri ddu frati 'Nna vota c'erunu ddu frati, tutt'i ddu llugati 'ndi na masseria. Unu era cchiu' bbabbittu, lautru cchiù spitticellu. Faciunu i travagghi chi c'erunu ri fari: ivunu 'na stalla, ddubbavunu i picurelli, mungivunu i vacchi. O menz'jornu u principali ci facia ttruvari a tavura bell'a pparecchiata, cu tuttu chillu chi vurianu: 'na bella parillata ri ova , oliva, tumazzu, tuttu chillu chi c'era, vvinu a vuluntà, a tuttu chillu chi vurianu. Un jornu u frati chi si sintiva cchiù spettu pinsaiu: “ma jiu inveci ri stari accussì, picchì non mi vversu 'na masseria macari jiu.?” Comma accussì 'ncuminzaiu a mettiri ri latu caccossa ri soddi. 'Ncuminzaiu rri nenti: 'na vota si ccattajiu ddu picurelli, chisti ci figghiarunu, si cattaiu du vacchitti., ci ficiunu i vitelli, ci criscinu, ppo si ccattaju 'na imintella. A sspissa nun ci mmancava, u purcellu su nutricava, i cunigghielli ci r'avia, l'ova i belli ggallini ci facianu.. Appò
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pinsaiu: “Ma a mme frati picchì l'haia l'assari là, llugatu?” Ora mu pottu a travagghiari ndi mia! Iu ndi so frati e ci rissi:” tu, ri ddumani 'n poi ti nni veni 'ni mia. Va bbeni, ci rispundiu so frati. Poi pinsaju: “ora a mme frati r'aja ffari-ddivintari commi a mmia. Chi fici? Pigghiaiu un bel portafogghiu ri soddi, datu chi ssa passava bbonu, e cciu missi nda strata undi illu s'indiiva pa' cisterna. R'ava vviriri obbligatoriu! Ri notti, cu scuru, a strata n'a viria e allura pinsaju ri tupparisi l'occhi e camminava..Oh...Oh! E ppiddiu a strata. U pottaffogghiu u visti? nno visti. So frati, ppi ddu jorna mancaju, s'nnava iutu a fera a vvindiri i bbesti. Quandu tunnaiu visti cu pattafogghiu era ancora llà. “Oh lu bbestia ri me frati mancu u pottaffogghiu visti!” Viriti a sorti? Ora cci vori mme nannu: “Quandu a futtuna ti vori ttruvari, a cassa ta vveniri a cciccari.” A crapazza c'un cornu e na bisazza C'era na vota un cristianu chi si ccattaiu na crapa chi parrava. Allura comm'a purta' a cassa pigghia a so figghiu u cchiu nicu e cci rici: <<Veni
cca figghiu gioia. Teni sta capra e portitilla a pasciri.>>
U figghiu pigghia e partiu. Quandu torna, so patri cci domanda: <<mangia' <<certu
a capra?>>
'gnu' pa'.>>
Llu cristianu non cuntentu va nda crapa e cci spia: <<ti <<
fici mangiari me figghiu?>>
quari, a diunu mi lassaiu.>> cci rrispundiu a crapa. Llu mischinu va pigghia a
so figghiu io llimbisria. L'indomani va ndi so figghiu u minzanu e cci rici: <<veni
cca tu chi ssi u cchiù spertu. Teni sta crapa e portitilla a pasciri.>>
U figghiu si ccamp'a strata e parti. Quandu torna, so patri cci dumanda: << mangia' << certu
a crapa?>>
'gnu' pa'. Mangia' quant'un bo'.>>
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Lu cristianu non cuntentu va nda crapa e cci spia: <<ti <<
fici mangiari me figghiu?>>
a quari, cc'haiu a bucca sciutta sciutta.>> Cci rrispundiu a crapa. Llu mischinu
va pigghia a so figghiu jo cunsuma tundu. L'indomani si pigghia a crapa e s'a porta illu a pasciri. Si mmuccia arrer'on poju e spetta. A crapa appena si visti lassata sura pigghia e ccumenz'a mangiari. Allura illu pigghia un cittuni, cci cafulla un corpu nda testa e cci rrump'un cornu. A crapa pigghia e si ment'a fuiri e a satari a li poia poia. Camina chi ti camina rriva ndi na cassa undi c'era na porta aperta e si nficca. A patruna virendu a lu spatrrunatu armaru c'un suru cornu, si ncurpuraiu. E nisciu commu na pazza. <<E
commu fazzu, iu fora e st'armarazzu intra,>> e ciangìa.
Spetta chi ti spetta, passà un liuni chi cci ddumandaiu. <<Cumma'
chi faciti fora?>>
<<Cumpa'
chi v'hai'a diri: mentri era tranquilla nda me casa, rriva' n'armarazzu
c'un suru cornu, iu mi ncurpuravu e mi ndi scappavu>> <<Lassati <<Cu
è?>>
<<Sugnu <<E
fari a mia>>, cci rissi u liuni, e va battiu a porta.
u liuni>>.
iu sugnu a crapa c'un cornu e na bisazza, si non ti ndi va ri cca ti scassu la
panzazza>>. U liuni commi sintì chistu si ndi scappa' spavintatu. E lla povira mischina fora chi ciangia. Ciangi chi ti ciangi si triva' a passari un liufanti. <<Cumma'
chi faciti fora?>>
<<Cumpa'
chi v'hai'a diri: mentri era tranquilla nda me cassa rriva' n'armarazzu
c'un suru cornu, iu mi incurpuravu e mi ndi scappavu>> <<Lassati fari a mia>>, cci rissi u liafanti. <<Ma <<Iu
viriti chi già ci pruvaiu u liuni e si ndi scappaiu.>>
liafanti sugnu e non mi scantu i nenti!>>
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Pigghia e cci va batti. <<Cu
è?>>
<<Sugnu <<E
u lifanti>>.
iu sugnu a crapazza c'un cornu e na bisazza, si non ti ndi va ri cca ti scassu la
panzazza>>. U liafanti commu sintì chistu si fici rrivar'i per'o collu. E lla povira mischina fora chi si dispirava. On certu puntu si truva' a passari un grillu, nicu nicu, virendu lla puvirella fora chi ciangia ci spia': <<Chi
fu?>>
<<Ma
chi sacciu! Mentri era tranquilla nda me cassa rriva' n'armarazzu c'un suru
cornu, iu mi ncurpuravu e mi ndi scappavu>> <<Non
vi sbarrugati, lassati fari a mia>>, cci rissi u grillu.
<<Ma
commu u liuni e u liufanti no cci rriniscinu, e ci vo rrinesciri tu?>>
<<Ora
virimmu!>>
Si mpon'a coscia e cci va batti. <<Iu
sugnu a crapazza c'un cornu e na bisazza, si non ti ndi va' ri cca ti scassu la
panzazza>>. <<E
iu sugnu u grillu, c'un cornu e un cricchirillu, e si non ti ndi va ri cca ti
mangiu u piccirillu.>> Pizza un satu e cci va pizzica u curu. A crapa cuminza' a fari commu na riavura e si ndi scappa'. Cursi... Cussì lla puvirella potti trassiri nfinarmenti nda so cassa. U viriti? Certi voti “rrinesci megghiu unu nicu chi tanti rossi!” U cont'America C'era 'na vota un cristianu chi bbonu sa passava...ndo scarsu. Mischinu n'avia nenti chi mangiari, mancu quattru favi ngigghiati. Allura sintendu chi c'erunu chilli chi si ndi jivinu a Merica e rricchivunu pinsa': “Ora ci vaiu macari iu!”, e partiu. Si pigghia' a littorina, rriva' a Catania, scindiu o
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portu pigghia' a navi. Pusenti ri cossa, cchiu randi ru Poi'u Pizzu. Ar ogni moru nchiana supra a navi e sappaiu. Ar illu c'ava parsu ch'a Merica era vicina. A quari! Nfina chi rriva' ci vorsi l'aiutu ri Diu. Camina chi ti camina, dopu quaranta notti e quaranta jorna junginu a Merica. Pusenti ri palazzi, machini, filobbussi... si circa' un travagghiu. Travagghia chi ti travagghia visti a figghia ru patruni si ndi nnammura' e su marita'. Si ccattaiu na bella machinuna e sa passava bbona. Un ghiornu camminandu cu la spatrunata machina, mbistiu e so mugghieri muriu. Allura illu pinsa': “ Chi ci restu a ffari cca. Sugnu riccu. Ora mi ndi tornu a Marettu .” E cussì fici. Rivatu ndo paissi: “Ma cu è? Ma non è u tiziu? E comm'i ficitutti lli sordi?” e tutti cuminzanu a chiamariru conti: U cont'America. “Haiu cinquant'anni-pinsa'un ghiornu-pozzu campari natri trent'anni: mi pozzu spendiri 1.000 liri o missi”. E non vuria moriri. Billuni , cu lli gargi rrussi, sanizzu. E senza un sordu. Allura s'app'a jittari a dumandari: “faciti a carità' on poviru Conti chi non si sappi fari i cunti.”
Ma non bisogna dimenticare che Maletto era pieno di bambini, le famiglie erano numerosissime. Ecco riportate alcune “conte” recitate o cantate prima di iniziare i giochi, per decidere a volte le squadre o chi doveva giocare per prima. A cunta Tri peri papali cu setti pidali haiu na figghia chi non sapi jucari e mi joca trentatri unu du e tri... Na vota c'era un re Bafè biscotta e mignè
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c'aviva na figghia Bafè biscotta e minigghia Unu, ddu,... --Sutt'a un tavurinu c'era un parrinu c'oricchia longhi cu nnasu pizzutu nesci tu chi ssi cchiù curnutu Unu, ddu, ttri, quattru... I bambini, soprattutto nelle serate invernali, quando gli adulti si sfidavano con “'ndiminagghi”, amavano sfidarsi con gli scioglilingue. Erano bravissimi! Srogghi lingua “Tri ciciri migni intra tri migni ciciri.” “Nd'on pignatellu nicu pochi pipi capunu, pochi pipi capunu nd'on nicu pignatellu”. Gioco Si mette di nascosto qualcosa di piccolo dentro il pugno e mentre si recita i pugni vanno sopra e sotto. Il giocatore deve indovinare dove si nasconde l'oggetto. Castellu supra castellu undi sta lu munachellu?Sutta o supra? Sutta ricisti e u jocu pirdisti, si supra ricivi lu jocu vincivi
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Filastrocche A nivi supra i munti cascava ru ceru Maria cu llu veru mmucciava a GgesĂš Maria lavava Giuseppi stindiva u Bambinu ciangiva ma latti non haiu e ppani ti daiu â&#x20AC;Ś Sutta un peri ri nucilla c'è 'na naca piccirilla e cci ddormi lu Bambinu San Giuseppi e San Jachinu San Jaquinu 'nchianaiu 'nceru pi sunari tri campani Tri campani erunu sunati viva viva trinitati trinitati 'na batia viva viva Russuria Russuria palarmitana ha scindutu 'nda funtana ha scindutu e ha 'nchianatu tri ffiri d'oru sa cugnatu Ci rra puttatu a Mmaria ca truvaju chi tisscia chi tisscia 'ndi stu cori ddammiccillu a cchi llu vori.
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... Sutta un peri ri castagna c'è Ggesuzzu ca ddumanna e ddumanna tri tarì ca manuzza fa ccussì … Mastru santittu curtittu curtittu supra lu lettu non potti 'nchianari ci facimmu un furrizzittu pi 'nchianari bbillittu bbillittu … Stricchi stricchi signa Aitana undi u mittistivu vostru maritu lu mittistivu sutta a suttana stricchi stricchi signa Aitana … Bambinellu vviniti ddaura vi fazzu 'na bbella cullura, vi fazzu di zuccuru e mmeri Bambinellu stinditi llu peri … Sutt'a un peri rri rrosa marina c'è un Siggnuri chi ssimina chi ssimina frummintellu pi ccattarisi u cappellu Lu cappellu ci svulaiu supra un munti si va ppussaju guarda guarda commu stabiliscecommu rre di maestà guarda guarda commu è missu commu u rre ri Pararissu.
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'Ndiminagghi Haiu 'na mandra ri pecuri russi quandu pisciunu, pisciunu tutti chi è? (I canari) Supra un puiarellu, c'est un puvirellu chi si suca u burellu. Chi è? (A lumera) Nun mari e fa li ondi nun pecura e si tundi nun porcu e havi i'nziti Chi è? (U lavuri) Havi un purcilluzzu taccatu a lu piruzzu, non mangia e non bivi, e u Signuri u pruvviri. Chi è? (U furnu) Strunzu i cueu a tavura i re. Chi è? (l'ovu) Spogghiti prestu chi mi richiu. Chi è? (A ficarindia) Ndo pugnu ci capi nda cascia no. Chi è? (A scupetta)
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Camminandu camminandu ma vaju tuccandu. Chi è? (A sacchetta) O scuru o scuru tiritappiti ndo curu. Chi è? (A chiavi) Sirici e sirici trentaddu, r'haiu iu e r'aviti vu, e la vecchia chi no r'avi si raggia commu ha fari. Chi su'? (I renti) Mussu cu mussu, panza cu panza, iu mi levu a vita e a tia ti rinchiu a panza. Chi è? (A ciaramella) I me cosci su bianchi li to su' bianchi e lisci si jungimmu cosci cu cosci savirillu commu ndi finisci. Chi su? (I linzora) Haiu na cosa longa longa cu na palla ri sutta chi pendi e chi pisa quantu vo. Chi è? (A statìa)
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L'arcipreti i Linguaglossa, r'havi nica e a vori rossa. A Batissa ci ciangia chi chiu rossa la vuria. Chi è? (A hugghia) Ravanti mi scuzza rarreri mi llonga. Chi è? (A strata) Jivu a Missina a ccattari na robba fina, all'ommu si mmustra a fimmina si nfira. Chi è? (A cinturetta) Jivu ndo cammarino, truvavu un signurinu vistutu ri jancu, c'a mani ndo hiancu. Chi è? (U rinari) A za Angira a storta, ci pendunu i talliri i sutta. Chi è? (A viti) Setti e ottu sutta un cappottu. Chi è? (L'arangiu) 'Ndi lu chianu ri 'ntantarantà c'è na signura chi bella mi stà E' vistuta ri pannu turchinu
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cu ma ndovina ci rugnu un carrinu. Chi è? (A miringiana) A za Maruzza ca za Callozza fanu i figghi nda garozza. Chi è? (A gatta) Ruturillu ruturellu commu un diavuru facia e supra nenti si siria. Chi è? (U gghiomburu)
Spara', spara', spara' un pappagghiuni a birritta menza canna e u ggiumbu 'nquartaruni. Chi è? (A sciarmenta ca racina) A signura r'avi e usa chillu ru maritu, a signurina r'avi e spetta chillu ru giovanottu. U papa r'avi e n'o usa. Chi è? (U cugnommu) C'è un picciuttazzu ri riciott'anni c'a trasi e nesci commu unu randi a trassi sciutta e a nesci bagnata cu na punta raccamata. Chi è? (A sicaretta) Povira nora povira nora
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sugnu risortu a tagghiarimirra a vogghiu tagghiari mentri ch'è figghiora avanti chi ci nascinu li pira. Chi è? (A caccoccira) Donna stasa donna stasa chi faciti ndi sta casa? Non mangiati e non biviti e cchiu' longa vi faciti. Chi è? (A sparacogna) Havi u curu e non havi pirtusu havi a panza e non avi burellu havi i brazzi e non havi i mani havi u collu e non havi capilli. Chi è? (U hiascu) U massaru i Terranova s'a tagghia' e s'a friiu cu l'ova so mugghieri si ni dduna' e natru parmu ci ni tagghia'. Chi è? (a sosizza) C'haiu un linzoru randi randi chi matina e sira cangia culuri u riccu su vori ccattari so figghiu u vori tuccati. No u riccu su ppo ccattari e non so figghiu u ppo tuccari. Chi è? (U cieru)
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Llu curnutu ri me papà avi l'occhi sempri llà lla bardascia ri me mammà spara un corpu e si ndi va. Chi è? (A scupetta) Vere pillole di saggezza, con cui impartire insegnamenti semplici ma essenziali, erano i proverbi Cu lassa a vecchia pa nova, sapi chi lassa e non sapi chi ttrova. Marzu e apriri non lluvari e non mmittiri, maju commu vaju vajiu, ggiugnu spogghiti tunnu. I ggastimmi su commi i fogghi cu i jecca si riccogghi. Cu si ffa gabbu ci casca u labbru. Mistura menticcinni quantu 'na bisazza, conzira commu vo', sempr'è cucuzza. U vo' canusciri u villanu? racci a pinna a mmanu. Ddiu m'indi libbira ri bbasci caruti, ommini spani e fimmini barbuti. Broccuri, gnoccuri e priricaturi doppu rri Pasqua non hannu sapuri. Rri l'ommini all'antu rri fimmini o suri llibbiratini Siggnuri! Mmatrimoni e viscuvati,
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ddi lu celu su mandati. Cu pati p'amuri, nun senti duluri. Cu gallu e senza gallu ddiu fa jornu. Cu ti voli bbeni ti fa chiangiri cu ti voli mali ti fa rririri. Ciangiri u mortu su lacrimi persi. Nulla si pigghia si non ssi ssumigghia. Mbriachi e piccirilli Ddiu l'iuta. Ogni ficitellu ri musca è sustanza. L'arma a Ddiu, llu corpu a la terra e lla rrobba a cu tocca. Llu medicu pietusu fa la chiaga virminusa Agustu e rriustu è ccapu 'mbernu. Cu pratica cu lu zoppu all'annu zuppia. Cu havi ddinari campa filici e cu non n'havi perdi l'anima. Mugghieri e bboi ri paissi toi. Rrici u cappillanu alla batissa: senza ddinaru non si canta missa. U lupu rri mara simenza, chillu ca fa pensa. Cu ri muri fa cavalli, i primmi caci su i so. U cumpari è cumpari, ma u sceccu rra vigna l'at'a lluvari. Natali o suri Pasqua o tizzuni, chista è la vera stasciuni. Picca e nnenti sunu parenti. L'ommu non si missura a parmu. Quandu a pira è matura casca sura.
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Cu paga la grana avanti mangia pisci fitussu. Cu mangia fa mullichi. Scupa nova scrusciu fa'. 'Ntra amici e parenti 'n'accattari e nun vinni nenti Cariti iuncu fina chi passa a china. Savva a pezza pu pittusu. Commu ci rissi u suggi a nuci, rammi tempu chi ti perciu. A cu mi viu o capizzu ci lassu u furrizzu. Cu avi u maru vicinu avi u maru matinu. Cu spiranza ri autri la pignata metti non avi bbisognu ri lavari i piatti. Cu ri robbi ri autri si vesti, prestu si spogghia. L'ommu amaru teggniru caru. I mariti chi mugghieri, i buttani peri peri? A soggira ca nora, u ggattu ca cagnora. O cavallu grastimatu ci lluci u piru. A figghia na fascia a rrota nta cascia. Ogni ligniu avi u so fummu. Sparagna a farina mentri a issara è cchina, quannu u funnu pari non c'è cchiù chi fari. U mangiari mi est bonu, a cuppa mi è ru lignu. Vacca pidduta a mandra ti spetta. Acqua e suri fa lavuri. Amara è a cassa chi è rrubbata ru stessu patruni. I gguai ra pignata i sapi a cucchiaia chi rrimina. A giugnu u villanu è cavaleri. Nenti avia, nenti aiu, commu vinni mi nni vaiu. U corvu pi si pigghiari i pinseri rri l'autri nnuricà. Cu picca parrà nun si pintiu mai. Tummini tummini sunu lli guai, cu n'avi picca cu n'avi assai. La supebbia va'ncarozza ma tonna a pperi.
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Penza lla cossa prima ca la fai, la cossa pinzata è bella assai. Non fari lu passu cchiù llongu di la ggamba. Gallina chi camina si ricogghi ca bozza china. Labbiru pecca e u rramu rricivi. 'Ndo' n'ura Ddiu lavura A cassa capi quantu vori u patruni. L'occhiu ru patruni ngrassa u cavallu. Bon tempu e mmaru tempu non ddura tuttu u tempu. Tantu va a quartara a l'acqua 'nsina ca si rrumpi. U picuraru vistutu ri sita, sempri fa fetu ri ricotta e lacciata. Mangiari e vistiri ognunu o so piaciri. Mari non fari paura non aviri. Fa bbeni e scodditillu, fa mari e penzaci. Amara è a pecura c'addari a lana. Quannu chiovi a matina, pigghia u pani e cammina. Vest'un furcuni chi pari un baruni Cu nesci arrinesci Mmari fa, mmari ricivi L'invettiva nel dialetto Il dialetto va scomparendo. Probabilmente ciò è dovuto alla necessità di esprimere i concetti complessi appresi a scuola. Il dialetto è fatto per comunicare cose semplici, espressione di una cultura altrettanto semplice. Una cosa che fa parte di tale cultura è senz'altro l'invettiva. Le forme d'arte orale sono caratterizzate dalla virulenza e dall'agonismo. Chi, trovandosi a fare un discorso in lingua, ha necessità di dare più colore alle parole utilizza il dialetto. Si presenta una carrellata di invettive dialettali più o meno bonarie. Alcuni termini sono riportati al femminile perché nati e usati in prevalenza, almeno nello stereotipo, nei “curtigghi”, dalle massaie nullafacenti. Artangiruszu: difficile, molto delicato, anche permaloso. Es. “chi ssi
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artangiruszu!” Bruragghieru: di chi si parla addosso, chi si vanta. Da bruragghia, brodaglia. es.: “ma sta' mmutu, bruragghieru, chi và 'ncucchiandu?” Babbasuna: Bonariamente stupida. Da Si una babba, sei una stupida. es. “Cu, me maritu?.Un pezz'i babbasuni. Carpata: strato di calce sulle canne delle vecchie coperture. Fig. Di peso. Es. “tu ci rresti pi carpata a to mamma”. Cimmiciuszu: di chi si comporta da cimice. es.: “m'ha ddari sempri motivu, cimmiciuszu” Caravigghianu: chi tira sul prezzo. Es.: Ihh! Ch'è caravigghianu stu cristianu! Cucca: gufo.Fig. Chi è di mal augurio. es. :”Sta accura!” “Ih, sta cucca!” Cerniventu: chi è sempre in giro. Da cernere: passare la farina attraverso il setaccio ( u crivu) Es. il marito alla moglie: Tu sempri peri peri, cerniventu! Sinonimi: cirnigghiara, cinghillara. Curtigghiara: frequentatrice di curtigghi (cortili). Fig. Impicciona. Es.: la comare: “ ma statti muta curtigghiara!”. “Cu parraju!” Llaffurutu: chi usa mangiare con foga. es. la madre” Mangia a lleggiu, pezz'i'llaffurutu”. 'Mbacirutu: mutuato dal dialetto della vicina Bronte. Intontito. es.: “oggi mi pari 'mbacirutu”. 'Ntrolluru: chi fa le cose imbrogliate, maldestro. Es.: “ Quantu si 'ntrolluru!” Sin. ?Nfrasciammatu. 'Nfrasciammatu: chi non è amante dell'ordine. Es.: “sempri o soritu to! 'nfrasciammatu”. 'Ndihiru: magrolino. Es. La figlia alla madre: “O ma, mi piaci chillu.” La madre: “Ih, figghia, lu coszu 'ndihiru, 'ndihiru?” 'Nsintumatu: che non dà sintomi. Fig. Intontito. Es.: “ mi sta parendu 'nsintumata” Pillica: insetto fastidioso. Fig. di chi sta sempre ad infastidire. Es.: “quandu fa 'ccussì si 'na pillica”!
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Piura: parola onomatopeica. Di chi si comporta come i pulcini che pigolano continuamente. Chi sta sempre a lamentarsi, piagnucola. Es.: “Commu 'na pozzu suppurtare sta piura”. Smammanica: secondo alcuni deriva da smammare (svezzare, fig. togliere dai piedi), si dice di chi è troppo indipendente, senza controllo, che non teme pericolo. “Ih! Chi ssi smammanica figghia!” 'Zolluru: feci di topo. Con ovvio significato figurato. Cosa piccola. Es. Ih! C'haia ffari cu stu 'zolluru! Queste sono le Parole Alate dei contadini e delle loro mogli. Parole alate che purtroppo stanno per svanire irrimediabilmente, ma che, per chi vuol fermarsi ad ascoltarle, anche solo per poco tempo, hanno ancora un gran potere quello di guarire e di far sentire all'uomo quel mondo interiore soffocato dalle apparenze.
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Capitolo terzo Si racconta...Maletto
C'era una volta la principessa Maletta Un bimbo, ancora fortunatamente un po' curioso, chiede al nonno: “perché Maletto si chiama così? Mi racconti la sua storia?” Sicuramente, il nonno, dopo averlo preso in braccio, comincerà a narrare la bellissima leggenda che da padre in figlio, da moltissime generazioni, si tramanda oralmente sull'origine di questo paese. E dirà: “Tanto tempo fa, ma tanto, tanto tempo fa, viveva nel Castello di Maletto, una principessa di nome Maletta o Marietta; questa comandava una banda di feroci briganti che spargevano terrore nelle zone vicine, rubando tutto quello che era possibile e portandolo sul Castello che, come un luogo incantato, li proteggeva dal mondo esterno. Infatti, all'interno della fortezza, nessuno osava mettervi piede se non voluto dalla principessa, e i feroci briganti non potevano essere perseguiti e puniti per le loro malefatte, perché soggetti solo alle leggi della loro Maletta. D'altronde chi avrebbe osato raggiungere quella Rocca, così alta e impervia? I briganti così si moltiplicarono e allora, divenendo il Castello incapace di contenerli tutti, cominciarono a costruire,
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sempre intorno ad esso, le prime case del paese che proprio in onore della principessa venne chiamato “Marettu,” in italiano Maletto.” Il nonno, a questo punto, tacerà. E il bimbo, occhi sgranati e bocca aperta, come risvegliatosi da un sogno, gli chiederà ancora altre storie. III.1 La storia del Paese e dei suoi abitanti. La breve leggenda popolare fa parte della tradizione locale che appunto vuole Maletto fondato e abitato da fuorilegge o comunque da gente un po' sospetta alla giustizia. E ancora oggi, gli anziani ricordano e narrano che veramente i briganti, i fuorilegge di altri paesi vicini, fuggendo dalle grinfie della giustizia, non vedevano l'ora di arrivare sugli scalini della Chiesa di San Michele, la Chiesa del Principe, per essere liberi e non più perseguibili. Come tutte le leggende anche questa ha un suo riscontro storico, seppure in parte travisato dalla semplificazione popolare. Infatti, nelle varie epoche storiche e nei suoi diversi ripopolamenti, Maletto fu abitato da persone che venivano in questo luogo sia per le agevolazioni e i benefici concessi dal feudatario, sia per le franchigie di cui godeva il feudo, per cui è probabile che qualcuno per sfuggire alla giustizia del re sia venuto e poi rimasto a Maletto. A questo punto è doveroso fare qualche passo indietro e narrare, con quanta più precisione storica, supportati in questo dal prezioso e fondamentale lavoro dello studioso di storia malettese, Giorgio Luca, le vere origini di questo borgo50. Il paese di Maletto sorse attorno al suo Castello, la cui data di costruzione risale al 1263. Probabilmente, già in epoca arabo-normanna la Rocca sulla quale sorse il maniero, era stata fortificata con una torre di avvistamento, da qui l'antico nome del Castello “Rocca del Fano”, dove il termine Fano, di derivazione araba, indicava una luce emanata da un luogo di sorveglianza. Quindi prima del 1263 esisteva la torre con funzioni di avvistamento e segnalazione. La Rocca venne ad assumere rilevanza militare allorché venne fortificata, dotata di cinta muraria e di guarnigione, da Manfredi Maletta, appartenente alla famiglia degli Svevi (il padre Federico Maletta, zio del re Manfredi, figlio illegittimo di 50 Salvo Nibali, Giorgio M. Luca, Maletto.Memorie storiche, s.e.Catania, 1983
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FedericoII) dal quale il Castello e il feudo circostante assumerà il nome Maletta, poi divenuto Maletto, o “Marettu” in termini dialettali. Il castello di Maletto, sia durante il periodo svevo, che successivamente durante quello aragonese, ebbe prevalentemente funzione militare, ponendosi a difesa della città di Randazzo. In tali periodi comincia a costituirsi un piccolo nucleo abitato costituito da soldati, pastori della zona, montanari e da gente raccogliticcia di varia estrazione. Ma, già all'inizio del Trecento, venuta meno la funzione militare e a causa delle difficoltà economiche la popolazione si disperde. Il luogo, data la sua posizione inaccessibile (su un alto e impervio sperone roccioso, in mezzo a fitte foreste), diviene ricettacolo di predoni e soldati sbandati che compiono razzie ai danni dei viandanti che attraversano la Regia trazzera (via di comunicazione interna che collega Palermo a Messina) sottostante. E' questa una prima conferma della tradizione. Alla fine del Duecento il Castello e il feudo di Maletto vengono donati dal re Pietro d'Aragona al barone Francesco Homodei di Randazzo. Nel 1358 il Castello viene concesso dal re Federico d'Aragona a Ruggero Spadafora, Barone di Roccella, uomo d'arme, che lo ristruttura e lo riarma. Viene eretta la cinta muraria più bassa, e la fortezza assume i caratteri di una residenza. Il fratello, Rinaldo Spadafora nel 1386 acquista il feudo di Maletto e riceve dal fratello anche il Castello. Da quel momento in poi, fino al 1851, anno in cui muore l'ultimo principe Domenico Spadafora e Colonna, il borgo di Maletto rimarrà legato alla famiglia Spadafora da Randazzo, originaria di Costantinopoli. Fino agli inizi del Quattrocento, Maletto non fu popolato e il Castello usato come dimora dagli Spadafora, nelle rare volte che venivano a Maletto, e dagli amministratori del feudo. La situazione cambiò a partire dal 1420: morto Rinaldo gli succedette Gerotta o Ruggerotto o Gutterrez o Gurretta Spadafora che s'investì del feudo e del Castello il 20 giugno dello stesso anno. Con l'investitura avuta dal re Alfonso d'Aragona “Il Magnanimo” e avvenuta secondo il principio del “more francorum” che riconosceva il diritto di successione al solo figlio maggiore maschio, Gerotta ottenne anche la “licentia populandi”, la facoltà
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di radunare gente di ogni fede e religione per l'abitazione del sito col “diritto d'armi”, cioè l'obbligo del servizio militare da prestare al re. Gli fu concesso ancora il “regio placet” a costruire la terra di Maletto, e quindi ad edificare un borgo per gli abitanti. Infine il re gli accordò la “facultatem...hominem mutilandi et occidendi et moero mixto imperio”, la facoltà di torturare e giustiziare gli abitanti del feudo insieme alla giurisdizione civile e penale su tutto il territorio. Fu così che Gerotta Spatafora, durante la metà del 1400, cominciò a costruire il borgo di Maletto, nel quale si raccolse per la seconda volta un'esigua popolazione che diede vita ad una comunità contadina. Ma anche questa, a seguito delle precarie condizioni economiche, aggravate da una forte carestia che afflisse tutta la Sicilia, alla fine del secolo si disperse per la seconda volta. Nei primi del Cinquecento sarà Giovanni Michele Spadafora, a dare una sistemazione urbana a Maletto: costruisce il palazzo baronale, l'annessa Chiesa di S. Michele Arcangelo ed altri fabbricati ad uso del feudo. Intorno al palazzo sorgono di nuovo abitazioni.
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Giovanni ottiene da Carlo V imperatore la conferma del mero e misto imperio e il bayulato, ossia il diritto di esigere le tasse e di tenere le prigioni. Tuttavia, alla fine del secolo, l'ennesima epidemia aggrava le già misere condizioni degli abitanti che abbandoneranno il borgo per la seconda volta. Data fondamentale per la storia di Maletto è quella del 1619 allorché Michele Spadafora Bologna ottiene dal re Filippo III il titolo di Principe di Maletto, che da quel momento non sarà più solo “feudum” ma “terra”, ossia centro abitato stabilmente. Ed infatti, per favorire il ripopolmento i Principi Spadafora, il padre Michele prima e soprattutto il figlio Francesco Spadafora Crisafi, succedutogli subito dopo, chiedono ed ottengono dal re una serie di agevolazioni a favore di tutti coloro che intendono stabilirsi a Maletto: esenzione di tasse e prestazioni, concessioni di porzioni di terreno da coltivare, uso dei pascoli, delle ghiande e del legno del bosco, donazione delle sementi, soccorsi alle famiglie, prestiti agevolati, etc. Si assiste così ad un incremento della popolazione che passa dai 224 abitanti del 1646 ai 508 del 1681 e via via fino a 1600 unità nel 1798. Tale aumento è favorito anche dalla franchigia di cui gode il feudo che consente ai fuggiaschi, ai ricercati dalla giustizia del re e ai perseguitati politici di trovare sicuro asilo in questo territorio. E' questa un'ulteriore conferma della tradizione che ricorda Maletto come rifugio di briganti e fuorilegge. Anche la munificenza e il paternalismo dei Principi Spadafora attirano gente a Maletto. Un proverbio popolare di questo periodo ricorda: “Cu è veru bisugnusu e campa affrittu, si vori ajutu ricurri a Marettu”. Il Principe Muzio Spadafora Moncada, negli anni 1783/1786, fa costruire la chiesa di S.Antonio di Padova, donando, oltre al terreno su cui edificare, anche due statue lignee raffiguranti S.Antonio e San Vincenzo Ferreri, opere dello scultore Bagnasco. Il culto dei malettesi per il santo di Padova, iniziato a partire dal 1651, quando la sua statua da Bronte era arrivata a Maletto, viene così ufficialmente sancito.
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Il 1812 il feudalesimo viene in Sicilia abolito e l'ultimo principe di Maletto con giurisdizione baronale è Domenico Spadafora Colonna; gli eredi conserveranno il titolo fino al 1901. Con la costituzione del Regno delle Due Sicilie nel 1816 e con la legge amministrativa del 1817, vengono costituiti i comuni ex feudali: nel 1818 nasce il Comune di Maletto. Paradossalmente con l'abolizione del feudalesimo le condizioni economiche dei contadini di Maletto peggiorano. Il passaggio dall'economia feudale a quella libera e borghese conferisce agli Spadafora la proprietà privata delle terre, liberandoli da tutti gli obblighi e servizi pubblici prestati fino a quel momento alla gente del feudo. D'ora in poi, con lo scioglimento dei diritti promiscui, i contadini non potranno andare a raccogliere legna nel bosco, diventato proprietà assoluta del principe, perdendo così l'unica e vitale fonte di combustibile. “Queste sono le cause perché tutti gli abitanti di Maletto sono miserabili e per 132
otto mesi all'anno stanno sotto la neve quasi senza fuoco e che è incominciata l'emigrazione”51. Gli eredi del principe, numerosi e lontani, non si occupano di Maletto: da Palermo giungono nuovi ed esosi amministratori e “campieri” che cureranno le proprietà private degli Spadafora. Il canone del frumento viene triplicato e la terra, sottoposta ad eccessivo sfruttamento, ben presto diverrà quasi sterile. Ugual sorte toccherà al grande bosco di Maletto, tagliato per vendere a speculatori il tanto prezioso combustibile dei contadini. I nuovi proprietari terrieri non sembrano conoscere altra legge all'infuori di quella del profitto e la impongono ai contadini che, fin d'ora, cominciano ad esperire quel duro sfruttamento che saranno costretti a subire nel latifondo siciliano fino alla metà del Novecento. La nuova borghesia terriera accresce la propria ricchezza e il proprio potere, ponendosi alla guida del Comune; la massa contadina vede crescere la propria miseria irreparabilmente ed è costretta a migrare verso comuni vicini, soprattutto verso Bronte, facendo ridurre la popolazione. Nel 1819 la popolazione malettese ammonta, infatti, ad appena 1243 persone contro le 1600 del 1798. Dal punto di vista politico-amministrativo Maletto, dai primi moti popolari dell'Ottocento, sembra seguire le vicende politiche della vicina Bronte: “sembra essere questa, infatti, una costante storica di Maletto, quella cioè, di essere sempre stato in qualche modo legato a Bronte e alla sua storia in un rapporto di rivalità e, spesso, di solidarietà”52.
Solidarietà espressa con la partecipazione di Maletto, a fianco di
Bronte, ai moti del 1820, del 1848 e soprattutto durante i famosi “fatti” del 1860; anche i malettesi, come i vicini brontesi, occuperanno le terre dell'ex feudo e le terre comunali. La direzione politica in questi anni viene assunta dai pochi intellettuali, espressione della borghesia terriera, che diventano ora Sindaci, Cancellieri comunali, Notai, Esattori, Decurioni ecc. Per i primi quarant'anni, scambiandosi le cariche, saranno sempre gli stessi ad amministrare Maletto. Così come sempre le stesse saranno la miseria, la fame, l'analfabetismo, le precarie condizioni igieniche che alimenteranno 51 cfr. S.Nibali-G.M.Luca, Maletto, Memorie storiche, Nota del sindaco di Maletto Filippo Fiorini al prefetto di Catania, in data 1 marzo 1889, pag.60 52 Ivi, pag.67
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devastanti epidemie e che caratterizzeranno la fine dell'Ottocento. Illuminanti, a tal proposito, le relazioni di due uomini politici che, in Consigli comunali, tenutisi negli ultimi decenni del XIX sec., descrivono con molto realismo la situazione del Paese e dei suoi abitanti. Il primo intervento è pronunciato dal sindaco Giuseppe Palermo nell'anno 1878. L'oratore parla di “dominante miseria dell'abitato” sostenendo che “l'ignoranza, causa prima di ogni delitto e della miseria, aumenta con l'aumentare delle generazioni”. Ecco le parole che pronuncia in seno al Consiglio comunale del 6 ottobre 1878: “...il commercio è una debole e vaga idea che non sa allignare in mente alcuna, l'industria si limita alla sola coltura di sparuti (...) e scondizionati cereali che nei giorni estivi la popolazione per sopperire ai più urgenti bisogni della vita svende a pochi ed avari speculanti dei paesi vicini e sgombrate le case di quelle povere provvigioni, la popolazione nelle lunghe e gelate stagioni invernali cerca invano del pane e per satollare i propri figli procura loro dell'erbe selvatiche fatali sempre alla loro esistenza. I combustibili, primo elemento per la esistenza di Maletto, a causa dello scioglimento dei diritti promiscui, è terminato (sic). Le vie interne dell'abitato solcate sulla nuda argilla per l'immondezze che vi aggromerano (sic) e per le continue piogge sono divenute fogne di mortali esalazioni. Quale evento si attende perché questi abitanti non abbandonino il patrio suolo e si spargono (sic) fra le popolazioni dei comuni vicini? Quale speranza traluce nell'abbattuto e malinconico spirito di questi abitanti? Nulla. La miseria si tramanda da padre in figlio e quella del figlio suol essere più spaventevole di quella del padre (…)53. Il sindaco Palermo ritiene dunque che “pria di ogni altro è necessità di mezzo diminuire per quanto è possibile l'ignoranza del popolo” e a suo parere “ciò si ottiene colla introduzione della pubblica istruzione” ma “il poco amore allo studio e lo sparuto numero degli addiscenti arrecano la conseguenza di dispendiare il Comune senza ottenere risultato di sorta”.54 Così come l'abolizione del feudalesimo anche la nascita del Regno Unito d'Italia non aveva apportato cambiamenti nella vita dei contadini del piccolo borgo, anzi aveva 53 Ivi, pagg.71,72 54 Ivi, pag.72
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acuito e creato nuovi problemi. Alla cronica mancanza di sufficienti risorse economiche, si aggiungono adesso le leggi dello stato piemontese, che prescrivono la coscrizione militare obbligatoria, quindi braccia lavorative in meno, e l'inasprimento del sistema fiscale. La massa dei contadini che costituisce la maggior parte della popolazione, è totalmente assente dalla vita politica, a causa soprattutto della legge sul censo che limita la possibilità di voto. Nel 1879 gli elettori per le elezioni politiche sono 17 e per le amministrative solo 42 su oltre 3000 abitanti. Risorsa primaria del paese è dunque l'agricoltura dalla quale deriva un reddito molto basso a causa dei metodi primitivi con cui viene praticata: assenti i mezzi meccanici, ci si avvale del lavoro umano e animale, persistente il grande latifondo, quasi sconosciuti gli alberi da frutta e gli ortaggi, per mancanza di acqua. La produzione è prevalentemente incentrata sui cereali. Qualche sparuto vigneto viene impiantato e curato nella parte più alta, nei boschi di Maletto, ma non appartiene ai contadini bensì ai borghesi, grandi proprietari terrieri, spesso originari di altri paesi. (es. Gruppuso, Palermo). L'istruzione, come sottolineato dal Palermo, è quasi assente; malgrado la legge sulla scuola dell'obbligo, nel 1884 gli scolari sono appena undici: otto alunni e tre alunne.55 In questi anni cercano gli amministratori di ampliare il territorio rivendicando le contrade confinanti con Bronte, inutilmente, perché la rivendicazione naufraga a causa della vittoria giuridica di Bronte, questo sostenuto da valenti avvocati, Maletto abbandonato alla giustizia del magistrato, senza difesa. Ed ancora sempre uguale a se stessa la situazione descritta con compassionevole amore dall'avvocato Zazo nel 1884: “A voi è tuttodì sott'occhio lo spettacolo compassionevole della miseria che signoreggia nel vostro paese. Questi poveri contadini, i quali dall'infanzia subiscono la condanna che su loro pesa di generazione in generazione e per cui non possono, aver mai né pane di frumento, né carne, né vino, questi miseri che continuamente lavorano e patiscono, che spesso non hanno neppure il sentimento della propria disgrazia, purché si assicurino la loro segala quotidiana, sono tranquilli per la loro esistenza. Ma 55 Ivi, pag.75
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sovente, manca loro fin lo scarso bottino che è il premio delle loro battaglie quotidiane con la terra, e allora, per sopperire al tozzo di pane di segala che la calcolata pietà somministra loro nell'algido inverno, vanno alla state, in mezzo alla festa generale della maturazione dei frutti , a mietere il grano in lontane contrade, curvi sotto la sferza canicolare.” Rivolgendosi agli amministratori di Maletto, sembra quasi implorare: “Sollevate questi miserabili, sia con 1'indirizzarli a migliorare le terre, sia con l'indicar loro nuove colture agrarie, sia col consigliare od istituire qualche industria manufatturiera, a cui nell'interno delle case potrebbero attendere anche le donne, oggi deplorevolmente abbandonate all' ozio, che è causa prima delle discordie tra le famiglie... Perché non indurre questi terrazzani a coltivare le frutta e le ortaglie? così non sareste costretti a contentarvi di quelle che raramente vengono dai vicini paesi e che non sempre sono le migliori. Docili, pazienti e laboriosi, i vostri amministrati non hanno bisogno di scudiscio per essere indotti al miglioramento. Dirigeteli dunque, aiutateli coi consigli e con l'opera, alleviate le loro afflizioni, fate che la miseria si allontani da queste casupole rozze ed affumicate, da queste stamberghe luride e malsane, ove incontransi così spesso visi emaciati.” Il relatore sottolinea la vita dura e priva di soddisfazioni anche materiali dei contadini, il cui problema principale è procurarsi il pane quotidiano e che sembrano non avere nemmeno “il sentimento della loro disgrazia”56 E, così come il Palermo, dopo aver messo in evidenza lo squallore delle case adibite a scuole, ribadisce la fondamentale importanza dell'istruzione, garante di civiltà, libertà e ordine, unica via da seguire per arrivare al progresso. Prospetta anche soluzioni all'analfabetismo imperante: per indurre i contadini, pastori a frequentare la scuola, occorre innanzitutto garantire loro locali dignitosi, igienici ed ampi. “In miserevole stato ebbi a trovare le due pubbliche scuole di questo Comune quando mi recai a visitarle. A farlo apposta, non si sarebbero potuti trovare locali più indecenti, pericolosi e malsani. Prive di vetri le finestre, scarsissima la luce, umide le 56 L.Zazo, Relazione al Consiglio Comunale di Maletto in data 9 agosto 1884, Tip. F. Maugeri, Catania 1884. Luigi Zazo era stato nominato dal prefetto di Catania come Real Delegato Straordinario a seguito dello scioglimento del consiglio comunale avvenuto il 21 aprile 1884. Trascritta e s.e. da Giorgio M.Luca, Maletto,ottobre 2000, pag.9,10
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pareti, strette le aule, erta e guasta la scala di accesso alla scuola femminile: oltre a ciò un'assoluta mancanza dei più necessari arredi scolastici.... Signori, se desiderate, come il vostro mandato v’impone, dirigere questo Comune nella via del progresso, ciò non vi sarà mai possibile senza diffondere l’istruzione in ogni specie di classe del paese. L'istruzione è prima guarentigia di civiltà, di libertà e d'ordine: essa agevola inoltre 1'azione degli amministratori pubblici, imperocché si governa meglio e più facilmente un popolo il quale ha una coscienza illuminata dei propri doveri, che un popolo rozzo ed ignorante, dominabile solo con la forza e col terrore. Ma perché i padri di famiglia possano indursi a mandare i loro figli a scuola, è necessario garentirli che i locali in cui s’insegna abbiano certe condizioni igieniche di salubrità e di nettezza, e che l'insegnamento medesimo venga impartito con le norme ed i mezzi dalla scienza didattica suggeriti. .... Vi raccomando anche di aprire una scuola serale nei mesi in cui più radi sono i lavori della campagna e più numeroso quindi potrebbe essere il concorso degli alunni. Non siate restii di collocare nel bilancio un centinaio di lire pel mantenimento di essa. Ricordatevi che tutto ciò che si spende a vantaggio dell’istruzione, ricade tutto a vantaggio del paese. … Affinché le due scuole di questo Comune possano essere fornite almeno di una decente lavagna e di carte murali, ho stanziata appositamente nel bilancio di quest'anno la somma di L.50,00. Per ottenere poi locali salubri e decenti, ho già iniziate le pratiche per la costruzione di un edifizio scolastico.57 L'edificio scolastico, il cui sorgere auspicava l'avvocato Zazo nel 1884 e di cui verrà stilato il progetto nel 1914, non sarà realizzato a causa dello scoppio della grande guerra. I malettesi dovranno attendere ancora più di sessantanni per averlo. Per quanto riguarda l'istruzione a Maletto a fine Ottocento e inizi Novecento, essa fu per molto tempo solo appannaggio degli appartenenti alla grande borghesia terriera: saranno suoi figli gli avvocati, i notai, i contabili, gli amministratori ed ecclesiastici di Maletto. Ma da parte delle autorità comunali e anche ecclesiali non mancarono gli sforzi per garantire l'istruzione ai poveri contadini, soprattutto a partire dal 1855, quando l'istruzione primaria, di cui responsabili fino ad allora erano stati i vescovi delle rispettive diocesi, venne affidata ai Comuni. Da questo momento sarà 57 Ivi, pag.12
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loro compito istituire scuole, nominare maestri, fornire locali adatti, incentivare la scolarità, comminando ammende agli evasori dell'obbligo scolastico sancito prima dalla Legge Casati (1859) e poi dalla Legge Coppino (1877). Ma il comune di Maletto, come la maggior parte dei comuni rurali, non sempre può attendere facilmente a tali compiti, a volte per l'inefficienza degli amministratori ma soprattutto per il dissesto finanziario che da lunghi tempi grava sulle sue casse. Per migliorare e incentivare il sistema scolastico avrebbe dovuto aumentare le tasse e far pagare le ammende agli evasori dell'obbligo ma così facendo i contadini, avrebbero visto peggiorare la loro già precaria situazione e mai e poi mai avrebbero potuto privarsi delle braccia dei figli; inoltre, incentivando la frequenza il Comune avrebbe dovuto aprire nuove scuole e soprattutto, imponendo nuove tasse, sarebbe incorso in una grande impopolarità. Se l'inefficienza dei Comuni e l'inadeguato intervento dello Stato hanno sicuramente contribuito a far permanere elevato l'analfabetismo, causa primaria di questo fu però sempre la “miseria” che costringeva i poveri contadini ad avvalersi nel lavoro dei campi dell'aiuto dei loro figli, anche se piccoli: “l'impiego della manodopera infantile, motivata da un ovvio bisogno di reperimento di forza lavoro a basso costo e da giuste esigenze di quadratura dei magri bilanci familiari degli strati sociali più indigenti, favorì l'evasione dell'obbligo scolastico, o nelle migliori delle ipotesi rese saltuaria la frequenza dei fanciulli.”58 Ma l'attività agricola è attività stagionale: durante il periodo invernale, periodo “morto” per le campagne, i fanciulli sono liberi di frequentare la scuola, ma non lo fanno. Complice la refrattarietà popolare verso l'istruzione: “da un lato il condizionamento alla bassa scolarità era dato da un certo ordine popolare etnico-culturale che relegava l'istruzione elementare in subordine alla funzionalità socio-economica del contesto meridionale, non attribuendole qualità <<soggettive>>,
positivamente indipendenti e strumentalmente finalistiche per il
mutamento sociale.”59 L'istruzione non è in grado di mutar le misere condizioni socio-economiche dei 58 Gaetano Bonetta, Istruzione e società nella Sicilia dell'Ottocento, Sellerio editore Palermo, 1981, pag.65 59 Ivi, pag.65
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lavoratori della terra. Non ha nessuna pratica utilità. Da non dimenticare, inoltre, come causa dell'elevata evasione all'obbligo scolastico anche le pessime condizioni in cui le scuole versavano, descritte dall'avvocato Zazo nel 1884 ma rimaste immutate fino alla seconda guerra mondiale. Infatti, fino agli anni Sessanta del Novecento Maletto non avrà un edificio scolastico vero e proprio ma misere stanze, disperse in vari locali d'affitto, oscuri magazzini: privi di bagni (l'acqua sarebbe “arrivata” solo nel Cinquanta), male esposte alla luce, l'aria scarseggiava e se si aprivan (quando vi erano) le finestre, il freddo gelido dei mesi invernali non sarebbe più ritornato fuori, causando malattie. Assente l'arredamento scolastico, solo qualche carta geografica sudicia e stracciata, i libri rarissimi così come i quaderni e i “lapis”. Il comune, a sue spese, avrebbe dovuto, data la povertà delle famiglie, fornire i ragazzi di libri e altro occorrente ma la miseria dissestava inesorabilmente le sue casse. A ciò si aggiunge, qualche volta, la scarsa cultura, il poco amore che proferivano nel loro mestiere i maestri, assunti a volte anche se non muniti di “patente” ma solo perché sapevan un po' leggere, scrivere e far di conto. Pessime, poi, anche le loro condizioni: malpagati, sfruttati, bistrattati e con l'obbligo di risiedere nel Comune, spesso abbandonavano per anni il paese d'origine, i loro affetti, mal adattandosi col resto della famiglia alla nuova e dura realtà. Non tutti. Vi sono stati insegnanti di fine Ottocento, come il maestro Gulino, il maestro Petrina, la maestra Liboria Fuardo di Piazza Armerina e altri che venivano ancora ricordati con affetto dagli ormai anziani alunni. Inoltre, a rendere meno producente il sistema scolastico di quegli anni, contribuiranno le numerose calamità naturali abbattutesi su Maletto, quasi ininterrottamente per tutto l'Ottocento e per i primi decenni del Novecento. Eppure, nonostante le misere condizioni del paese, rese ancor più misere da carestie, alluvioni ed epidemia di colera, nonostante la dilagante ignoranza del popolo, in questo periodo un barlume di luce s'intravede. Questo misero, ignorante popolo, sotto l'impulso del Cappellano curato Mariano Palermo, che sarà poi vescovo prima di Lipari, poi di Piazza Armerina, costruisce con le proprie mani, col proprio sudore, dimentico di tutte le divisioni interne, la grandiosa Chiesa Madre a partire dal 1857.
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â&#x20AC;&#x153;...nonostante si sentisse la necessitĂ di iniziare l'opera, l'estrema povertĂ del paese rendeva ardua l'impresa e metteva paura e sgomento a chi si era fatto promotore di questa iniziativa. Furono la grande volontĂ e soprattutto la grande fede di Mariano Palermo a spingere i malettesi, e anche quella parte di loro che si era opposta, a impegnarsi con le proprie risorse e il proprio lavoro nella costruzione della nuova chiesa madre che sorse dunque con l'apporto dell'intera popolazione. Anche se il paese era povero, vi erano diversi proprietari che si erano arricchiti sulle terre dell'immensa ducea di Nelson. E furono, probabilmente, questi ultimi ad avere una parte preponderante nell'affrontare le spese di costruzione del tempio alle quali, tuttavia, l'intero popolo malettese partecipò generosamente...Oltre al contributo monetario garantito dalle famiglie borghesi, non va dimenticato il contributo in natura dato dai braccianti, che non potevano permettersi un sostentamento in denaro....Il popolo si distinse anche per la manodopera fornita durante la costruzione, specialmente nei giorni festivi, aiutando soprattutto nelle opere di scavo, nel trasporto della pietra lavica, della calce, dell'arena e nel fornire il combustibile necessario alle 140
fornaci per la calce, dell'arena60 “...non è vero che il popolo è neghittoso; esso è fervente sempre nelle opere di Dio, quando con perseverante pazienza è guidato”61 Venti duri anni durerà la costruzione della Chiesa Madre che, finalmente, il 3 giugno 1877, sarà benedetta.
Sempre in questo periodo, Maletto si doterà di un proprio ufficio postale e della stazione dei carabineri (1878) . Malgrado gli sforzi delle amministrazioni, nell'ultimo ventennio dell'Ottocento le problematiche del paese si acuiscono, la miseria della popolazione sembra arrivare al massimo della disperazione. In queste condizioni giungono a stremare sempre più la gente del paese l'alluvione del 1877 e soprattutto la paurosa epidemia di colera scoppiata nell'estate del 1887. 60 Padre Nino Galvagno, Maletto e Mons.Palermo: una comunità e il suo pastore, Associazione Prometeo Maletto, Maletto, 1996 Pag.68,69 61 Cfr. ivi, pag.70, Salvo Nibali, Una memoria inedita di Mons. Mariano Palermo, in Synaxis 8 (1990) pag.186
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Quest'ultima colpì l’intera provincia di Catania e parte della Sicilia provocando migliaia di morti e gravi disagi alle popolazioni. A Maletto fu particolarmente cruenta rispetto alle precedenti del 1837 e 1855 e non solo per il numero dei morti, molto elevato (110 solo per colera in poco più di un mese, dal 9 agosto al 15 settembre, 235 in tutto l'arco dell'anno). Quest'episodio merita di essere menzionato per capire come la povera gente di Maletto sia stata abbandonata in quella terribile occasione da quegli amministratori che sempre e prima di tutto ne avrebbero dovuto avere a cuore le sorti. Per dimostrare come spesso causa dei loro mali siano stati proprio i politici, rivelatisi uomini guidati solo dalla volontà di arricchirsi e avere salva la propria pelle. Nonché come esempio delle numerose calamità naturali che infierirono sulle misere condizioni dei contadini, per tutto l'Ottocento e per i primi decenni del Novecento. In questi difficili momenti la situazione dovette essere quasi sempre la stessa. Con
l'acuirsi
dell'epidemia,
il
Sindaco,
notaio
Antonino
Putrino
e
l’amministrazione comunale non esitarono ad abbandonare il paese. Scappò, cosa ancor più grave, anche l’unico medico presente nel paese, il dott. Carmelo Savoca di Malvagna, “vigliaccamente assentato.” La popolazione sofferente, abbandonata a se stessa. I numerosi cadaveri giacevano insepolti nelle loro misere case, nessuno per paura del contagio si preoccupava di seppellirli e il cimitero della Chiesa di S. Antonio era ormai incapace a contenerli. “Le condizioni igieniche pubbliche e private spaventose: esseri umani ridotti a spettri che si aggiravano senza meta per le case e le vie, ricolme di rifiuti e di escrementi umani ed animali, in preda alla disperazione. La popolazione terrorizzata, in preda alla malattia che non risparmiava nessuna famiglia e in preda alla fame, con la poca acqua disponibile inquinata, sotto una calura estiva insopportabile si era allontanata in massima parte dal paese.”62 “...Triste episodio di un’altra epoca triste, in cui la superstizione e la sventura avevano spento la carità e l’umanità insieme.” Come scrisse il Verga. Infatti, l’ignoranza in questi casi alimenta la superstizione, e addita come colpevoli del colera,“u quàrere”, fantomatici untori che spargevano sostanze misteriose per diffondere il contagio. La credulità popolare riteneva che tali untori non 62 Giorgio M. Luca, L'epidemia del 1877, s.e. Maletto, 1993
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fossero poi così misteriosi e imputava come responsabili o i preti, all’epoca il Sac. Antonino Schilirò, Vicario Foraneo, il Sac. Antonino Portale e il Sac. Giuseppe Calì o addirittura i medici, detentori di una scienza inaccessibile alla stragrande maggioranza dei cittadini, completamente analfabeta. Anche durante l’epidemia di “febbre spagnola” del 1917, il popolo inveì contro il medico condotto dott. Foti che, raccontavano i nostri nonni, somministrava, a seconda delle simpatie o antipatie personali, un farmaco oppure un altro, decidendo così la morte o la sopravvivenza dei colpiti dall’epidemia. Ignoranza sicuramente ma forse anche il bisogno, da parte di questa povera gente, stremata da epidemie, siccità, carestie, e sopraffatta dai “potenti” di trovare un capro espiatorio contro cui accanirsi. Sciolto il consiglio comunale fu designato Regio Delegato Straordinario l’Avv. Francesco Meoli che giunse prontamente a Maletto a metà agosto. Vista la spaventosa e disperata situazione, l'avvocato varò urgenti provvedimenti, dimostrandosi all'altezza della situazione: nominò il dott. Leopoldo Zappia da Bronte medico condotto straordinario; adibì il terreno circostante alla Chiesa del Carmine a cimitero provvisorio, dividendolo in due parti, una per i morti di colera e l’altra per le malattie comuni. Si preoccupò di garantire sepoltura ai morti che per oltre un mese, si susseguirono al ritmo di tre, quattro al giorno. Fece recintare l'intera zona per impedirne l'avvicinamento a persone ed animali. Istituì un lazzaretto per i colerosi, prestando insieme ad altri volontari la propria opera, una cucina economica nella quale vennero distribuite gratuitamente razioni di pane, carne e brodo per gli ammalati ed i convalescenti. E ancora: elargì contributi e sussidi comunali ai poveri ed agli ammalati, dando anche elemosine personali per sollevare le condizioni materiali e morali dei superstiti. Da Catania il Prefetto inviò squadre di disinfestatori e due medici straordinari per gli infetti. Giunsero anche contributi in denaro da parte di numerose autorità, tra le quali il re Umberto, l'On.Camillo Finocchiaro Aprile, R. Delegato Straordinario del Comune di Catania, l’Arcivescovo Dusmet. In questi frangenti, sotto la spinta e l’esempio dell’Avv. Meoli numerosi cittadini prestarono la loro opera volontaria, contribuendo coi loro servizi a riportare alla
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“normalità” Maletto e dimostrando, ancora una volta come, se ben guidati da consigli ma soprattutto da opere, fossero laboriosi e solidali. A metà settembre la virulenza del vibriòne colerigeno sembrò placarsi, per cui i cittadini incominciarono a rientrare nelle proprie case. Ma di lì a poco le “febbri palustri” tornarono a compromettere la vita della maggior parte della popolazione. Questa situazione indusse il Meoli ad istituire il posto di medico condotto comunale, ricoperto dal Dott. Zappia, già medico straordinario per il colera. Da allora Maletto avrà ininterrottamente l’assistenza medica assicurata dalla condotta comunale. Il 23 ottobre si tennero le elezioni amministrative e il 28 il nuovo consiglio comunale venne insediato. Dopo l’elezione della nuova Giunta Municipale, formata da don Filippo Fiorini, don Rosario Palermo, Luigi Grupposo e Giuseppe Spadafora, il consiglio comunale espresse in pubblica seduta lodi ed encomi nei confronti del delegato straordinario Meoli. Dopo il tristissimo periodo il Comune tenta di riprendersi. Nel 1887 viene installato il primo impianto di illuminazione pubblica, consistente in 20 fanali a petrolio da accendersi nei periodi privi di luce lunare; nasce il consorzio per la costruzione della Ferrovia Circumetnea, che entrerà in servizio nel 1895, dando finalmente uno sbocco ai commerci e facilitando il movimento dei malettesi verso gli altri comuni etnei e verso Catania. Ma i tentativi di migliorare la vita del popolo si rivelarono piuttosto effimeri e la situazione rimase talmente precaria che il flusso migratorio di fine secolo verso le Americhe, l'Australia, il Nord Africa, il centro Europa interessò molti malettesi, che partirono senza rimpianti alla ricerca di una condizione di vita più umana che, per molti aspetti, era stata loro negata. Nel 1905 scoppia in paese una rivolta popolare rimasta nota come “rivolta dei censi”. Molti terreni della famiglia Spadafora erano da tempo stati concessi in enfiteusi perpetua e da essi il principe ed i suoi eredi traevano quella rendita chiamata appunto “censo”. Il diritto a riscuotere questi “censi” col tempo era stato comprato da privati, il più importante dei quali era stato il notaio Antonino Putrino, già sindaco di Maletto (1884-1887).Quest'ultimo, per donazione, aveva in parte trasferito tali diritti alla figlia
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Maria, conosciuta come “Donna Maricchia.” Un noto intellettuale del paese, l'avvocato Gaetano Petrina, si convinse, scartabellando tra antichi documenti del principe, che pagare i “censi” non fosse legittimo e che quindi era giusto protestare affinché decadessero. Per tutto l'anno si succedettero dimostrazioni popolari che spesso sfociarono in tumulti anche gravi seguiti da arresti. “La rivolta era certamente la spia di una crisi covata lentamente ma a lungo sotto la cenere dell'apparente efficienza amministrativa”63. Gaetano Petrina che la capeggiò fu poi, per uno strano destino assediato nella sua stessa casa, data alle fiamme dagli stessi contadini ch'egli aveva inteso aiutare. Fortunatamente riuscì a scampare dal rogo e la sua azione non fu del tutto vana: i “censi” da quel momento in poi, furono infatti, sì ancora pagati ma in maniera meno regolare fino ad estinguersi definitivamente. Anche l'inizio del Novecento è caratterizzato da calamità naturali. Negli anni 1913-1915 circa, Maletto e tutta la zona intorno ad esso, vengono investiti da una gravissima siccità e da una terribile carestia. Ciò provocherà il fallimento di molti gabelloti e un ulteriore recrudescenza delle condizioni di vita di tutti gli abitanti. L'ennesima epidemia di colera falcidia numerose vite umane. Con lo scoppio della prima guerra mondiale anche il paese è chiamato a dare il suo contributo: 74 uomini partiti per il fronte non faranno più ritorno. E intanto, il flusso migratorio verso il Sud America e l'Australia continua. Nel 1918, come tutta l'Europa, Maletto è devastato dall'epidemia di “Spagnola”. Si arriva così agli anni Venti che vedono l'affermazione del Fascismo. Negli anni 1925-26 anche a Maletto si fanno sentire gli effetti della repressione del brigantaggio e della mafia messi in atto dal prefetto Mori: nel paese vengono arrestati grossi personaggi rei di abigeato e di estorsione.64 L'unica debole opposizione al lento affermarsi del fascismo, sembra essere rappresentata, in questi anni, dalla presenza di un “Circolo Democratico” che però ha breve vita: nel 1926 viene dato alle fiamme da squadristi del loco. 63 Salvo Nibali,Giorgio M. Luca, Maletto. Memorie storiche, op.cit. Pag.81 64 Vedi capitolo...... del presente lavoro, pag.
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Negli anni Trenta la depressione e la crisi economica faranno ancora una volta regredire le precarie condizioni di vita dei malettesi, molti dei quali con la speranza di guadagno parteciperanno volontari alla guerra civile spagnola; molti altri partiranno, obbligati, per la guerra d'Africa.
Una guerra dopo l'altra, fino alla più disastrosa di tutte: la seconda guerra mondiale. Razionamenti, ammasso, prepotenze delle autorità fasciste sono le prime e le più dure conseguenze della guerra negli anni che vanno dal 1940 al 1943. Agosto 1943: sbarco degli alleati. Il paese viene bombardato dalle truppe angloamericane, alcuni quartieri (“canale”, “Pizzo”, “Via Elena”) restano completamente distrutti, decine di persone muoiono; altre continueranno a morire negli anni a venire a causa delle bombe inesplose. La popolazione sfollata, cerca rifugio verso le grotte e le campagne dell'Etna65. Il secondo dopoguerra è caratterizzato da una crisi generale, feconda di situazioni nuove.“Il voto a suffragio universale, le lotte sociali di quegli anni, l'informazione 65 Intra, pag. 244 e seg.
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diffusa e libera, creano le coscienze politiche. Nascono i partiti politici e le organizzazioni sindacali che danno voce alle istanze popolari, rappresentando gli interessi della gente, per secoli abbandonata a se stessa, ignorante e superstiziosa. I malettesi partecipano attivamente alla formazione delle amministrazioni comunali democratiche...”.66 Anche a Maletto, comincia così a formarsi quella coscienza sociale che porterà all'occupazione delle terre, dei latifondi ancora esistenti e che darà come frutto la Riforma fondiaria del 1950. Gli effetti della Riforma, però, non saranno quelli sperati. Lo spezzettamento del latifondo e la creazione della piccola proprietà contadina, non si riveleranno soluzioni sufficienti a creare quell'incremento economico e il miglioramento delle condizioni di lavoro tanto auspicate dai contadini poiché non saranno sostenuti dall'investimento di capitali e dalla creazione da parte della Stato di infrastrutture67. Ancora una volta Maletto sarà costretto ad assistere all'esodo dei suoi abitanti. I primi sintomi di un cambiamento generale cominceranno a manifestarsi alla fine degli anni Cinquanta; solo allora Maletto parrà ridestarsi dal lungo torpore che fino a quel momento lo aveva caratterizzato. Arriva l'agognata “acqua”, il paese ha le sue condutture fognarie, è fornito di energia elettrica, le strade sistemate.
66 Giorgio M. Luca, Maletto, in I luoghi della Ducea dei Nelson. Attraverso foto e cartoline d'epoca. A cura di Antonio Petronaci, Edizioni Esiodo, Bronte, 2002, pag.91 67 Intra, pag. 249 e seg.
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Si comincia, seriamente, a progettare e realizzare un vero edificio scolastico, che sarà completato alla fine degli anni Cinquanta. Arrivano in paese, coi primi televisori, nuove idee, nuove esigenze, quelle della società dei consumi, e il contadino malettese sarà pervaso dall'inquietudine del “possedere”: non si accontenterà più di zappare il piccolo podere o di trasferirsi alla Piana per lavorare i grandi latifondi e guadagnare solo un misero tozzo di pane. Comincerà a rivendicare una casa, un'istruzione, ma anche una radio, un televisore, una macchina, beni che purtroppo la sua terra e il suo duro lavoro non sono in grado di offrirgli. E allora, con una misera valigia, partirà diretto al centro Europa, soprattutto verso la Germania e la Svizzera. Soffrirà in questi luoghi di cui non conosce nulla, solo in mezzo a persone di cui non comprende una parola, ma lavorerà duramente com'è abituato da sempre a fare, e i suoi guadagni e quelli di tantissimi altri suoi simili, “le rimesse” degli emigrati, unitamente ai massicci investimenti pubblici, doteranno Maletto di un volto finalmente moderno. Del borgo feudale non rimarrà quasi niente, solo pochi uomini e rari luoghi ne conserveranno memoria: Maletto si trasformerà in una cittadina degli anni Sessanta, proiettata al futuro, dotata dei principali servizi pubblici, e nel bene e nel male continuerà a sopravvivere, com'era da secoli abituato a fare.
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Capitolo quarto Ladri, Santi...Contadini IV.1 Un popolo si chiede chi è Un paese, qualsiasi paese, anche se piccolo come quello di Maletto, per vivere ha bisogno che i suoi abitanti abbiano una propria identità, ossia tutto quello (usi, tradizioni, devozioni, cultura, lingua, dialetto, storia ecc.) che permette loro di distinguersi dagli abitanti di altri luoghi. Più volte, nel corso dei secoli, i malettesi lottarono per diventare il “popolo di Maletto”, per costruire, affermare e difendere la propria identità. Contro chi? Contro chiunque avesse minacciato di dissolverla al fine di ridurre gli abitanti a propri servitori. Fossero principi, duchi, borghesi terrieri, partiti di qualsiasi colore e ideologia. Ma anche qui, per capire l'identità malettese e come essa andò nei secoli costituendosi è necessario attingere prima alla leggenda, alla tradizione orale popolare e poi verificarne il fondamento storico, se vi è. E' stato già detto, nel precedente paragrafo, che il piccolo borgo assunse una definitiva stabilità solo a partire dal 1619, anno in cui Maletto diventa “terra”, cioè luogo abitato e non solo “feudo”, come era stato denominato fino ad allora. In quell’anno, infatti, Michele Spadafora Bologna, uno dei più potenti membri della famiglia Spadafora in Sicilia, ottenne dal re Filippo III il titolo di Principe di Maletto. Il nuovo principe e il figlio, Francesco Spadafora Crisafi, succedutogli l’anno appresso, avvertendo l’esigenza della colonizzazione del feudo, favorirono in tutti i modi il popolamento del borgo, adottando una serie di provvedimenti atti ad invogliare genti dei paesi vicini a stabilirsi a Maletto. Fu così che la popolazione aumentò rapidamente e il borgo non venne più abbandonato. Cominciò così a nascer il germe del popolo malettese che, nonostante le avversità, si doterà di una propria identità, cultura, lingua, tradizioni ed usi e cercherà con lotte e sofferenze di liberarsi dal giogo feudale. Ed infatti riuscire a sopravvivere in questo feudo interno e montuoso della
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Sicilia, isolato e chiuso, non era impresa facile. Le condizioni di vita e di lavoro erano molto dure: la gente continuava ad aggrapparsi alla vita sollevando, dall'alba al tramonto, gli umili occhi al cielo e implorando aiuti e provvidenza divina attraverso l'intercessione dei santi. Ma ancora all'inizio del Seicento il Paese non aveva un proprio santo, o meglio non aveva ancora scelto e acclamato un santo che fosse esclusivamente del popolo. Ed infatti, a Maletto, già nel Cinquecento, un santo c'era, San Michele, la cui chiesa era stata fatta costruire, annessa al proprio palazzo, proprio dai principi Spadafora. Ma San Michele, dotato di spada come i principi, era il Santo di questi, il santo dei cavalieri e come tale agli occhi dei sudditi simboleggiava e proteggeva i nobili. Quando la popolazione si stabilizzò avvertì il bisogno di rivendicare la propria identità di popolo nei confronti prima di tutto del signore locale. Già alla fine del Cinquecento, la gente del piccolo borgo comincia ad avvertire l'esigenza di trovare un santo tutto per sé, un santo che li aiutasse ad affrontare le piccole ma spesso grandi avversità quotidiane. Non avrebbe mai potuto scegliere, eleggere come proprio intercessore il santo dei feudatari. In un primo momento sembrò che quest'ansia religiosa trovasse ristoro nel culto di Santa Venera. Questa era implorata dagli abitanti del casale di S. Venera, vicino al territorio di Maletto. Quando l'imperatore Carlo V impose agli abitanti dei vari casali, compreso quello appena citato, di riunirsi nel territorio di Bronte, la povera gente di S. Venera contravvenne all'ordine imperiale e decise di stabilirsi invece nel feudo a loro più prossimo, quello di Maletto, dove portò il culto per la Santa, mantenendolo vivo fino al secolo successivo. Ciò è attestato da una supplica del 1660 rivolta dall’allora Cappellano di Maletto, Sac. Antonio Scarlata al Vescovo di Monreale, alla cui giurisdizione ecclesiastica apparteneva Bronte e Santa Venera. Il sacerdote chiede licenzia di potere andare processionalmente con l’insegna della croce nella chiesa della santa, nell’omonima contrada ed ex casale, appartenente ora al territorio di Bronte. La licenza viene concessa per i casi in cui vi fosse penuria d’acqua o siccità, problemi molto sentiti dai contadini malettesi.
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Anche il culto a Santa Venera è legato ad una tradizione popolare. Infatti, secondo quanto riportato da un cronista del tempo, la Santa comparve in sogno ad una donna di Maletto, dicendole di andare a pregare sulle rovine della Chiesa, così facendo avrebbe ottenuto la guarigione del figlio infermo. La donna vi andò e il figlio guarì. Il miracolo si divulgò in tutta la zona e una grande folla accorse per toccare e baciare le rovine della Chiesa (di origine bizantina), ottenendo gli infermi miracolose guarigioni. In breve tempo, probabilmente fra il 1657 e il 1666, si ricostruì la chiesa, grazie all’opera del Sac. Antonino Scarlata, e fu ottenuto il permesso per l’esercizio del culto. La chiesa, in tempi posteriori abbandonata, rovinò nuovamente fino alla sua totale scomparsa; con essa scomparve anche la devozione a Santa Venera. I malettesi, nei secoli a venire, rivolgeranno la loro supplica per la siccità o per l'eccessiva piovosità, prima alla Madonna del Carmelo, poi a Sant'Antonio e a San Vincenzo.68 Il Santo che invece riveste un ruolo fondamentale nella formazione dell'identità malettese è, senza ombra di dubbio, Sant'Antonio. La gente di Maletto eleggerà, innalzerà a simbolo della propria identità proprio il Santo da Padova, santo popolare per antonomasia. E per far questo, come racconta ancora una volta la leggenda popolare, non esitò a macchiarsi di furto nei confronti dei brontesi. Ma forse a rubarlo furono proprio quei “briganti” della principessa Maletta! Racconta un'antica ed in parte leggendaria tradizione popolare di Maletto, tramandatasi da padre in figlio fino alle odierne generazioni, che per fermare una immensa colata lavica incombente sul paese di Bronte, i suoi abitanti portarono in processione la statua di S. Antonio. Vedendo però che la lava continuava indefessa il proprio cammino, i brontesi fuggirono e abbandonarono la statua in aperta campagna, mettendogli davanti del fieno e un sacchetto d’orzo. In quei giorni passavano di lì alcuni malettesi di ritorno dalla mietitura (secondo alcuni) o dalla transumanza (secondo altri) nei grandi feudi della piana di Catania. Vista la statua di S. Antonio, sola, abbandonata e minacciata dalla lava “ra muntagna”, la presero e la portarono a Maletto. Qui, fra grandi accoglienze, il popolo proclamò il Santo di Padova protettore del paese. Questa la leggenda, forse espressione di una generale esigenza della neonata 68 Giorgio M. Luca, Tradizioni religiose e popolari di Maletto, s.e., 2002, pag.2
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comunità malettese di avere un proprio santo protettore, ma è pur vero che, nessuna voce, tradizione o racconto popolare nasce dal nulla. Cerchiamo quindi di trovare qualche riscontro nella realtà storica, supportati in questo ancora una volta, dall'esperto di cose malettesi, e non solo, Giorgio Luca. Secondo gli eminenti vulcanologi quali il canonico Recupero, Gemmellaro, Walthershauen, Musumeci, le eruzioni vulcaniche dell’Etna che giunsero nell’abitato di Bronte e lo danneggiarono in misura più o meno grave furono quella del 1536 e quella del 1651/54. L’eruzione del 1651/54 fu una delle più terribili. Scrive il maggior storico brontese, Benedetto Radice, che il 4 febbraio 1651 un braccio di lava corse rapidamente sopra Bronte, distruggendo le fertili contrade della Musa e della Zucca; seppellì parecchie case a tramontana del paese, la chiesa di S. Pietro dell’Iliceto e l’eremo di S. Antonino il Vecchio posto esternamente e a monte dell’abitato. La lava investì pure l’altra Chiesa di S. Antonio, posta dentro il centro abitato, girandole attorno, salendo sul tetto e distruggendo la porta. Però detta chiesa rimase in piedi. Il Radice attinge le circostanziate notizie in parte dal testamento del Sac. Matteo Uccellatore da Bronte redatto il 22 settembre dell'anno 1720. In esso è scritto, in maniera chiara ed inequivocabile, che la lava del 1651 seppellì, fra l’altro, la chiesa di S. Pietro dell’Ilichito e l’eremo di S. Antonino il Vecchio. Tutt’ora il sito ove era tale eremo viene chiamato “Le lave di S. Antonino il Vecchio”.69 Dunque ricollegandoci alla tradizione, la statua di S. Antonio, anche a Maletto chiamata da sempre S. Antonino il Vecchio, dovrebbe provenire innanzitutto da Bronte e tale provenienza risalire all'anno 1651. L'origine brontese, è convalidata anche dal profondo culto che hanno i brontesi verso S. Antonio; infatti, da secoli accorrono a Maletto in occasione della festa. Ma, mettendo da parte la leggenda del furto del Santo, cerchiamo di capire come realmente Sant'Antonio sia giunto a Maletto. Il terribile flagello, come testimoniano numerosi documenti, arrecò notevoli danni al Comune di Bronte, divorò terreni produttivi, distrusse case e altro. Il popolo pianse, pregò, portò in processione la statua dell’Annunziata, espose quella di S. Antonio, ma la lava continuò imperterrita il suo cammino. Molti cittadini, sopraffatti 69 Ivi, pag. 2,3
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dalla disperazione, abbandonarono il paese, nonostante il divieto posto dalle autorità d'allora. Una parte di essi venne a Maletto, terra vicina, immune alla giustizia del re, probabilmente portandosi la statua di S. Antonio abbandonata alla mercé della lava, fondendosi con gli abitanti del loco e costituendo con essi un unico popolo. Questa ipotesi è maggiormente verosimile ove si raffrontano i dati demografici del periodo. Secondo i ristretti, il sommario dei riveli pubblicati da Maggiore Perni nella sua opera sulla popolazione di tutti i comuni siciliani dal 1569 al 1831, confermati peraltro da indagini effettuate dal Luca presso i registri parrocchiali, la popolazione di Maletto nel 1651, periodo precedente all’emigrazione dei brontesi, era di 293 abitanti. Nel 1681 gli abitanti diventeranno 508 abitanti: in trent'anni la popolazione aumentò del 73%, percentuale non riscontrabile né in periodi precedenti né in quelli immediatamente successivi. Furono quindi i brontesi, in seguito integratisi coi malettesi, a portare Sant'Antonio a Maletto nella metà del Seicento.
Il culto di S. Antonio a Maletto si rafforzò profondamente e rapidamente. Gran parte degli abitanti cominciarono ad adottare il nome di “Antonino” in onore del proprio Santo. Il popolo malettese, dilaniato durante il Seicento e il Settecento, da 153
carestie, pestilenze si legò ancor più al Santo, al quale si rivolgeva con profonda fede. Sant'Antonio fu ritenuto degno di essere contrapposto a San Michele, il santo dei principi, rappresentanti della ricchezza, della proprietà; da loro dipendeva la vita e la morte del paese, la sopravvivenza stentata o sufficiente dei suoi abitanti. Ed ecco la naturale e spontanea contrapposizione fra il Principe e padrone da una parte e il popolo servo dall’altra, fra San Michele e Sant'Antonio, il Santo del Principe e quello della povera gente. Contrapposizione che però, non assunse mai toni aspri o estremamente conflittuali poiché la famiglia Spadafora, rispetto al sistema feudale allora vigente, si dimostrò perfino munifica e generosa con tutti. Di riflesso, pertanto, il popolo conservò, tramandandola fino ad oggi, la venerazione per S. Michele, originario protettore. Gli anziani infatti nelle loro invocazioni dicevano “ Preghiamo con fervore S. Michele protettore”. Durante il XVIII secolo la popolazione aumentò e il paese s'ingrandì. La piccola Chiesa di S. Michele non era più in grado di contenere la cresciuta popolazione e il piccolo cimitero sottostante insufficiente a dare sepoltura ai morti. Fu così che nel 1783 si gettarono le basi per la costruzione di una nuova chiesa: il principe di Maletto donò l'area edificabile e la chiesa in soli tre anni, grazie anche ai contributi del re Ferdinando di Borbone e della consorte Carolina, del vescovo di Messina Cifaglione, alla cui diocesi Maletto apparteneva, fu ultimata. La chiesa fu intitolata a S.Antonio. Ulteriore dono del principe saranno le due statue, opera dell'artista palermitano Bagnasco, in pescepane, raffiguranti Sant'Antonio e San Vincenzo Ferreri e la “Vara”, opera di artigiani anch'essi palermitani, mentre il “baiardo”, il supporto sottostante, fu realizzato a Maletto. La statua di Sant'Antonio venne detta “Sant'Antonio il Nuovo”, per distinguerla da quella già presente a Maletto, di origine brontese, di Sant'Antonino che divenne così “Sant'Antuninu U Vecchiu”. Dal 1786 ultimata ormai la nuova chiesa di Sant'Antonio, la festa in onore del Patrono si consolidò. Come data per i festeggiamenti in onore del Santo si scelse la seconda domenica di settembre e non il giorno ufficiale della festa del Santo, il 13 giugno. Scelta legata
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alla principale attività economica del paese, l'agricoltura. Il popolo, costituito soprattutto da contadini, era in grado di offrire al santo solo offerte in natura: frumento, segala e altri prodotti che si raccoglievano in estate. Ecco, quindi, che i contadini, prima avrebbero effettuato il raccolto e poi donato al Patrono il frutto di questo. Fino a quarant'anni fa, la statua originaria dei brontesi, detta "S. Antantuninu ‘u Vecchiu", "u bruntisi", restaurata di recente, veniva usata per la questua e portata in giro per il paese durante il giorno, con al seguito l'allegra banda musicale. S. Antonio "il Nuovo", la statua donata dal Principe, invece, “u marittaru”, veniva e viene tutt'ora portata in solenne processione la sera della domenica. IV.2 Il Santo del popolo “Anche i malettesi amavano S. Antonino. Non che avessero il benché minimo lume sulla sua vita, sulle sue opere, sulla sua predicazione, tranne qualche storiella curiosa sul fare inginocchiare gli asini e far trovare il cuore dei tirchi. Ma, dice che, i miracoli li faceva. Nessuno meglio di lui. Certo non quel San Michele della Matrice che fa la guerra al brutto bestia ma i miracoli li doveva fare solo ai nobili ( i Principi Spatafora gli erano devoti): ai poveri disgraziati niente! E neanche S. Venera di cui non si riusciva a sapere nulla della sua vita, neanche storielle, e che solo i santaveneroti dicevano che facesse miracoli. Certo: la santa loro! <<
S. Antonino non si fa pregare. Basta che gli prometti un cero, o due mondelli
di frumento, che lui te lo fa il miracolo. Certo se il miracolo è grosso non ci si può poi presentare con una candela o due junte di frumento. Bisogna saperselo togliere l'obbligo>>. Quelli che facevano le offerte più sostanziose, erano i concessionari dei terreni del principe, i gabelloti, e che facevano coltivare le terre a tre parti con una parte o anche a quattro parti con una parte, e che prestavano anche il frumento per la semina. Solo che quando lo davano passavano sul duemondelli la rasa e quando se lo facevano tornare il duemondelli lo impojavano. Gli affari! Ma per S. Antonio era un'altra cosa. Anche i briganti si mettevano sotto la sua protezione per avere un buon bottino e scansare il pericolo.” 70 70 Maurizio Cairone, Ladri e santi, Logos Maletto, 12 novembre 1995, pag.16
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“Da' nomi di battesimo che abbondano in un Comune voi potete conoscere il Santo Patrono del Comune medesimo; poiché non c'è famiglia popolana che in omaggio al Santo non ne imponga il nome a un figlio, a una figlia; e se due o più sono i Santi Patroni (come spesso accade), due o più nomi trovate che tengono la prevalenza nel paese...”71 Fino a qualche decennio fa, ogni famiglia malettese aveva il suo Antonio, Antonino, “Nino”, o la sua Antonella, “Nina”, e in omaggio al Santo patrono e per onorare anche il nome del capofamiglia, del nonno, in modo tale da perpetuare quella che gli anziani chiamano l'“eredità.” La festa di S.Antonio è stata e continua ad essere tutt'oggi la festa principale che tutto il paese attende, anche se sicuramente molto è cambiato nello spirito e nella vita dei malettesi. Fino a cinquant'anni fa, la vita della gente di Maletto era legata alla terra, quella dei principi feudatari, e al cielo, trono di Dio e dei Santi. E sì, dal cielo dipendeva la vita dei contadini malettesi, nel bene e nel male, perché il cielo avrebbe donato il buono o il magro raccolto, la fame o la loro sopravvivenza. Il cielo, con il brutto ed il buon tempo, le annate caratterizzate da siccità o da troppa piovosità. E il contadino sa leggerlo bene, quel cielo. Lui solo ti saprà dire con sicumera, levando in su i suoi occhi pietosi e speranzosi, che tempo farà domani. Lunghi secoli di esperienza lo hanno reso dotto. E se il cielo manda giù troppa pioggia? Tale da nuocere il raccolto? Allora il contadino tira fuori il suo Santo, Antonio, e portandolo in processione fino all'ingresso del paese lo obbliga a volgere il suo sguardo alla intera campagna sofferente. Con preghiere e quant'altro lo invoca fino a quando la pioggia non cesserà. Ma se il Santo dovesse dimostrarsi sordo alle invocazioni del contadino fedele? Ecco che questi, imprecando e rendendo Santo il diavolo, non esiterà un sol attimo a castigarlo e a infliggergli la giusta e meritata punizione. Lo condurrà fino alla Chiesa Madre e lo rinchiuderà lì, in castigo, fino a quando non si deciderà ad ascoltare il suo devoto. Solo allora lo libererà e lo riporterà nella sua casa, la Chiesa di Sant'Antonio. Il comportamento del contadino malettese non è anomalo, è in linea con quello 71 Salvatore Salomone Marino, Costumi e usanze dei contadini in Sicilia, a cura di Aurelio Rigoli, Andò editori, Palermo, 1968, pag. 229
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dei “villici”, sparsi per tutta la Sicilia, del secolo scorso ma anche di due secoli fa. Infatti, già il Salomone Marino, alla fine dell'Ottocento così scriveva: “...naturalmente un Santo che ha devoti sì accanitamente fervorosi, ha l'obbligo di ascoltarne le preghiere e soddisfarne le richieste, egli che può tutto. Se non che, ei fa spesso il sordo, ei non si commuove...e bene, credete che il villico se lo porterà in pace? Oibò! Questo non accade mai. No, non si lascia così inascoltato un fedele seguace ne' suoi urgenti bisogni!..il villico pertanto si rivolta contro al suo Santo, lo minaccia, lo ingiuria, lo percuote, gli infligge le più severe punizioni...fino a che non vedrà esaudita la preghiera, largita la grazia. Se poi il Santo si ostina davvero e ripetutamente, l'ultima ratio è pronta: la deposizione.”72 Il contadino malettese, qualche volta inascoltato, non ha mai deposto il suo Santo; ha provveduto ha impartirgli qualche lezione, questo sì, o ha manifestato e continua a manifestare, così come il villico di Salomone Marino, anche se non si tratta più solo del contadino, ma dei devoti in generale, appartenenti ormai a classi sociali diverse, la sua contrarietà attraverso la bestemmia proferita o silenziosa. “Già una forma comune di queste ribellioni contro i Santi protettori l'abbiamo nelle bestemmie; ...la più comune di tutte, e speciale a caratteristica e antica, è quella con cui fa Santi il Diavolo. Ma più singolare e più orrenda è la sua
<<bestemmia
muta>> (santiuni mutu), rappresentata, non detta.”73 Quante volte il contadino malettese ha elevato il diavolo a santo. Fino a qualche decennio fa, non era raro sentire in bocca a uomini adirati perché qualcosa in campagna o sul lavoro non era andata per il verso giusto, l'espressione “Santu rianna!”. Che sia “rianna” una forma contratta per indicare il Diavolo? Molto probabilmente. Ma capita di sentire esclamazioni del genere anche durante la santa processione e proprio dalla voce di chi, fedelissimo devoto, porta sulle proprie spalle il Santo. A tal proposito si racconta un aneddoto molto simpatico e significativo. Durante la processione del Santo patrono, tanti anni fa, i devoti che trainavano la vara, ad un certo punto, anche se non si trattava di una di quelle fermate stabilite, si dovettero arrestare e far fermare il Santo. Cos'era successo? Proprio in mezzo alla 72 Ivi, pag.229 73 Ivi, pag.229
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strada, già difficoltosamente percorribile perché non asfaltata, ma fatta di pietre e fango, un simpatico maialino aveva deciso di sostare e non voleva saperne di spostarsi. Uno dei devoti proferì tale frase che poi rimase nella parlata dialettale: “Porcu binirittu, ti sarvasti pi lu Santu maririttu chi haiu 'nde spalli!” Si fa santo il porco e viceversa il Santo diventa soggetto di bestemmia. Anche questa è tradizione popolare! E la bestemmia muta di cui parla Salomone? E' quella non detta ma rappresentata con loquaci gesti, visacci, atteggiamenti.74 Ne sono esempi il digrignare i denti, il viso che diventa paonazzo, gli occhi sbarrati, il berretto posto sotto i piedi, calpestato e sputato e altri.
Ma torniamo alla vita del contadino e alla sua quotidianità. Il contadino trascorreva le sue giornate in campagna, lavorando dalle prime luci 74 Ivi, pag.230
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dell'alba fino a che in cielo comparivano le prime stelle, da “stilli a stilli”. Ogni giorno uguale all'altro. La monotonia era interrotta dalle festività religiose, fatte di tradizioni ed abitudini che il contadino e l'intera famiglia ossequiavano con rispetto e che nessuno osava mettere in discussione. E' la festa del Patrono un momento atteso dall'intera famiglia durante tutto l'anno. E allora, il contadino non esita ad attingere ai magri risparmi per rimediare un paio di scarpe e un vestito nuovi. Non può comparire in pubblico, fra tutta quella gente, vestito come ogni giorno: l'occhio del paesano scruta e giudica con severità. E poi, si attende il momento del pranzo: in questo giorno la tavola serberà gustose sorprese. La massaia prepara maccheroni, mette sul desco la desiderata carne o salsiccia, prepara con le proprie mani dolci tipici. E per la gioia dei più piccini? Sant'Antonio farà trovare loro qualche piccolo regalo, confezionato dai genitori e più spesso dai nonni. Nessuno può mancare alla festa del Patrono, festa che viene realizzata grazie ai contributi di tutto il paese. Ed infatti, anche il povero contadino ha lavorato per il Santo ed ha tutto il diritto di godersela: “..alla festa annuale solennissima del Santo Patrono nessun villico manca, per fargli onore (com'ei dice); e se la gode tutta, dall'apertura co' mortaretti che si sparano all'alba del primo giorno, alla chiusura con gli ultimi razzi dei fuochi d'artificio che si bruciano alla mezzanotte del terzo giorno.” “Il contadino è, nella festa, spettatore non attore. Egli e le sue donne si divertono un mondo, assistendo allo sparo delle migliaia di mortaretti; seguendo i rumorosissimi e numerosi tamburi che più volte tessono i quartieri del Comune; ammirando lo scampanio ripetuto a lungo di tutte le Chiese, e i paramenti dorati di queste, e la sfarzosa illuminazione, e la musica.”75 Ma la grande festa abbisogna di tempi lunghi per la preparazione. Fino a cinquant'anni fa il comitato organizzatore della festa, delegato a tale compito dal parroco e dal sindaco, già qualche mese prima della solennità, con muli o asini girava per le aie dove i contadini erano impegnati a “pissari” il frumento, ad attendere cioè a quell'operazione che in seguito, con l'avvento dei mezzi meccanici, 75 Ivi, pagg.232, 233
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prenderà il nome di trebbiatura. Ed ecco che il capo del comitato pone su un mucchio, “puiarellu” di grano già pulito l'immagine del Santo e offre ai lavoratori un po' di tabacco da naso. Quindi raccoglie le offerte in frumento caricandole sulle bestie. Il frumento verrà poi venduto e il ricavato usato per far fronte alle spese della festa. Nei due mesi precedenti la festa, si usava anche mettere un "balzello" o “extrameta” cioè una piccola addizionale di un soldo o due, sui beni di consumo che venivano acquistati nei negozi, sempre per finanziare la festa.76 Questo tipo di raccolta permase fino all'inizio degli anni Ottanta, anche i più giovani ne serbano il ricordo. Qualcosa era cambiato, rispetto a vent'anni prima: le bestie erano state sostituite dalle “api”, dai mezzi a motore, ma la gente di Maletto continuava ad offrire al proprio Santo il frutto delle proprie fatiche quotidiane, il frumento, insaccato e poi venduto ai mulini. La raccolta, quindi, iniziata già nel mese di luglio, agosto, continuava nei giorni precedenti la solenne festività. Questa volta per le vie del paese. Ecco che il sabato veniva portata in giro per il paese la vecchia statua di S.Antonio, “Sant'Antuninu u vecchiu”, ornata con grappoli di uva, recisi dai numerosi pergolati allora esistenti nei cortili delle case, e con vasi di basilico.
76 Giorgio M. Luca, op.cit., pag.9
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Ad accompagnare la statua, oltre ovviamente al comitato, la banda musicale, tanto attesa dai grandi ma soprattutto dai più piccoli che, uditone in lontananza il suono, si precipitavano fuori dalle case e correvano per raggiungerla e seguirla, imitandone il fare musica. Ancora oggi, l'arrivo della banda musicale effonde per le vie del paese quell'aria di festa che riporta indietro negli anni; tutti fuori, per le strade, e gli adulti ritornano bambini. L'inizio della festa era annunciato il giovedì dal festoso suono di campane e sparo di mortaretti. Lo stesso giovedì prendeva vita la tradizionale fiera del bestiame, che si protraeva fino al sabato. L'attuale piazza XXIV Maggio, allora campagna, fronteggiata dalla rocca del Castello, era il centro della manifestazione che si estendeva fino alla strada statale che conduce a Randazzo, “i maggi”. Il paese si popolava di animali, mucche, vitelli, mule, asini, ma anche pollame, maiali, portati non solo dai massari del loco ma anche da quelli provenienti da Cesarò, Maniace, Bronte , Tortorici e dalle altre zone del messinese. Era una gran fiera, come ricordano tutti gli anziani. Durante questa, giungevano coi loro carretti venditori ambulanti di noccioline, torrone, calia ma anche di attrezzi per la campagna, di coltelli, falci, tridenti, di utensili per le massaie e di balocchi per bimbi. Il comitato acquistava, fino a qualche anno fa, un vitello da sorteggiare, dal balcone del
palazzo comunale, a conclusione dei
festeggiamenti. Solo durante questa e altre poche feste estive era possibile trovare il desiderato “gelato”. Diversissimo da quello odierno. Era semplicemente una fetta di neve congelata, ma tanto agognata soprattutto dai bambini. Non c'erano però ancora frigoriferi e congelatori. E allora? Durante l'inverno il proprietario del bar Bonina con il suo asinello saliva in montagna, prendeva la neve, la sotterrava e la copriva con “pampini”. Poi in estate risaliva e portava la neve, conservatasi tale, giù in paese. E finché non si fosse sciolta completamente e ciò avveniva, ovviamente, in pochissimo tempo, i piccoli avrebbero potuto gustare il gelato. Le vie principali del paese, le chiese, le piazze e i luoghi più importanti venivano illuminati con straordinari giochi di luci che rendevano festosa l'atmosfera. Il sabato e la domenica la banda musicale eseguiva concerti nelle piazze ma anche quella che gli
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anziani ricordano come “mussica a palcu”. Veniva allestito per l'occasione un palco presso la fontana centrale “ru schicciu” e allora, tutto l'attuale Corso Umberto, “a chiazza”, si riempiva di spettatori, non solo malettesi, ma provenienti dalle località vicine. Lo spettacolo musicale, i concerti erano tanto attesi e amati. Ecco spiegato perché, nonostante vivessero in un borgo molto chiuso, prima dell'avvento del boom economico e della società di massa, molti dei nostri nonni conoscevano la musica classica, quella musica suonata dalle bande, e che nei giorni feriali cercavano di riprodurre ad orecchio presso i loro saloni i barbieri, presso le loro botteghe fabbri, falegnami e altri artigiani. Maletto era ricco di musicisti: tanti pur essendo analfabeti, avevano un proprio strumento che spesso tiravano fuori per rallegrare, nelle serate lunghe d'inverno, ma anche in quelle estive la compagnia. Qualcuno racconta anche di un teatro muto messo in scena dagli stessi membri della banda, rigorosamente malettesi fino agli anni sessanta. Qualche volta le bande musicali erano due: una per la raccolta e i servizi più umili e un'altra per i concerti.
Per le vie principali un tripudio di gente: paesani ma anche tanti forestieri. I 162
brontesi venivano ad onorare il “loro Santo”, ma non mancavano randazzesi e altri. Non era inusuale, anzi era “tradizione”, che la festa si concludesse, in nome dell'amato campanilismo, con una vivace rissa tra brontesi e malettesi. Ed ecco che arriva la domenica, con i momenti più solenni e più folcloristici. Al calar del sole, dopo la celebrazione della messa vespertina il momento tanto atteso: la processione. La vara, illuminata ed infiorata, verrà portata a spalla da circa cinquanta fedeli: per devozione o per voto, hanno provveduto da tempo a prenotare il "il posto" mediante un fazzoletto legato alle barre del pesante "baiardo". L'equilibrio della vara e la sua giusta direzione, onde consentirle il districarsi in mezzo alle strette ed antiche viuzze del centro storico, vengono assicurate con lunghe corde, tirate da gente esperta, che le conserva a casa, tramandandosele da padre in figlio. Mantener l'equilibrio e indirizzare la vara è gran fatica, e fino agli anni Cinquanta lo era ancor di più, data l'assenza di strade che potessero chiamarsi tali: ma i portatori della vara e i tiratori di corde, non si scoraggiano e il Santo gira per il paese. Fino agli anni Sessanta, ad animare la processione vi erano le tre confraternite di Maletto. Istituite per volere del sac. Antonino Schilirò nel 1866, sotto impulso di Monsignor Palermo, esse riflettevano la composizione sociale del popolo malettese ed infatti, la Confraternita della Misericordia raggruppava i “galantuomini”, i civili, i professionisti, i maestri artigiani; quella della Madonna del Lume i piccoli proprietari e massari (allevatori) e infine quella di S.Antonio i contadini e i braccianti, i più poveri. Esse presenziavano coi loro abiti colorati (blu, rossi e marroni ) tutte le feste religiose, ed erano costituite da molti malettesi. Perdurarono fino agli anni Sessanta, allorché furono travolte dai cambiamenti radicali sopravvenuti col boom economico. Sol nel 1995, in occasione dell'Ottocentenario della nascita di S.Antonio, sotto la guida dell'allora parroco Padre Incognito, si è fatta rivivere la confraternita di S.Antonio che raggruppa oggi tutte le classi sociali, mantenendo le stesse funzioni e lo stesso regolamento dei tempi passati.
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Alla processione, che segue l'antico percorso della cosiddetta “Via dei Santi”, oggi ampliato in conseguenza dell'espansione urbanistica dell'abitato, partecipano centinaia di fedeli che, spesso scalzi, portano un cero, a volte dal peso considerevole, acceso come ex voto e che, stando al numero sempre crescente, testimoniano l'aumento degli interventi miracolosi del santo o la speranza di ottenerli. Durante il cammino, i portatori
inneggiano a S.Antonio, “Viva Sant'Antuninu Viva!”,
incoraggiandosi anche per il grande sforzo fisico sostenuto e, se la banda smette di suonare si fermano e tornano
indietro, fintantoché la musica ricomincia. La
processione sosta in determinati punti: i portatori e i musicisti prendono fiato e sorseggiano birra. Caratteristica e spettacolare è la salita della via Regina Margherita. Dopo una breve sosta i portatori cominciano a far correre il Santo, seguiti dai musicisti al ritmo della fanfara dei bersaglieri e dai fedeli più volenterosi. Giungono così alla “Santa Cruci” dove sostano e bevono. Durante il percorso vengono offerte al Santo, soprattutto dagli emigrati ritornati per l'occasione, banconote che, fino a qualche decennio fa, venivano appese a dei lunghi nastri, cosicché alla fine della processione la statua di S. Antonio era interamente rivestita di denaro. Molto opportunamente tale usanza è stata abolita ed ora le offerte vengono riposte, da un confratello posto sulla vara, in una cassetta di
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vetro ai piedi della statua. All'uscita ed al rientro della vara dalla Chiesa di Sant'Antonio, spettacolari giuochi di fuoco misureranno la riuscita della festa. Tutti con lo sguardo rivolto verso il cielo, non per implorare pioggia o bel tempo ma per ammirare stupefatti i lapilli colorati e levare al Santo preghiere sussurrate o tacitate. Questa la tradizionale festa del Santo Patrono che da più di due secoli concorre a far ritrovare ai malettesi momenti di allegra armonia ed unità, riuscendo così ad esprimere proprio quell'identità che i Santi hanno contribuito a rafforzare. Una festa antica che, durante i secoli e soprattutto in questi ultimi decenni, si è rinnovata all'insegna di un maggiore rigore religioso e spirituale. Oggi la festa di S.Antonio si svolge come sempre la seconda domenica di settembre. Anche il 13 giugno si celebra, dando maggior vigore all'aspetto spirituale, la festa del Santo. E' questa preceduta da una "tredicina", cioè da tredici giorni di preghiera per invocare l'aiuto e la protezione di S. Antonio. Il tredicesimo giorno, durante la messa, si benedice il pane, simbolo della carità, che viene distribuito ai fedeli. Vengono benedetti "le vesti e l'abitino di S.Antonio", che molte persone, specie i bambini, indossano per ringraziare il Santo delle grazie ricevute o per ottenerne protezione. Negli ultimi anni il comitato organizzatore, la Confraternita di Sant'Antonio, ha dato maggiore impulso a questa festa, arricchendola anche con la processione per le vie del paese. Oggi, a volte la celebrazione all'aperto, proprio dinnanzi alla Chiesa del Patrono, della messa mattutina della seconda domenica di settembre, è presieduta dall'Arcivescovo appositamente giunto, o dal padre francescano che ha celebrato i tre giorni di triduo dedicati al Santo. La statua di S. Antonio “Nuovo” viene sistemata sulla vara ed esposta in chiesa, divenendo meta di incessante pellegrinaggio da parte dei fedeli che rendono omaggio e preghiere al Santo offrendo denaro ed anche oggetti preziosi come ex voto. La statua di “Sant'Antuninu U Vecchiu” viene esposta nella chiesa di San Michele Arcangelo. Le manifestazioni religiose e popolari la domenica proseguono come nel passato.
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Uno dei cambiamenti più vistosi è quello inerente la tradizionale fiera del bestiame; questa non si tiene più nello stesso luogo, perché quel che un tempo era aperta campagna, ora è il centro del Paese. Per ovvie questioni igienico-sanitarie e di sicurezza pubblica, viene allestita in periferia, in prossimità del campo sportivo. Permane solo la mezza giornata del venerdì ed è semplicemente l'occasione per far fare una passeggiata ai bimbi, per far loro vedere qualche cavallo, ma soprattutto animali di piccola taglia, conigli, galline, uccellini, pesciolini, tartarughe ... e mangiare un panino con la salsiccia. Niente della grandiosa fiera del passato quando venivano, a centinaia e da tutte le parti, compratori e venditori di bestiame. Segno dei tempi! Ma nonostante i mutati “tempi”, l'animo del malettese è ancora legato indissolubilmente al suo Patrono che porta instancabilmente sulle proprie spalle, rifiutandosi con orgoglio e presunzione, di riporlo, come han fatto altri, su macchine a motore. Da quasi duecentocinquanta anni la festa di Sant'Antonio è un avvenimento al quale non si può e non si deve mancare. Durante questo lungo arco di tempo solo una volta il malettese ha dovuto rassegnarsi, con molta fatica, a non vedere il suo Santo per le vie del paese il giorno stabilito. Infatti, il 14 settembre 2008 la solenne processione, per la prima volta nella storia della sua tradizione, dovette rimandarsi al seguente lunedì. A causa dell'incessante pioggia. Sant'Antonio, da sempre invocato per fare “scampari”, questa volta rimase impassibile dinnanzi alle suppliche dei suoi fedeli. Forse questa volta aveva Lui deciso di punire i malettesi! Che gli fossero giunti alle orecchie, nonostante il frastuono di bombe e musica, le parole non sempre di devozione dei suoi portatori? Non lo sapremo mai. Eppure la popolazione clemente non lo destituì, non lo detronizzò. E la festa continua! IV.3 Cadrà la pioggia? Il mese di settembre è il mese dei Santi. Ogni domenica è dedicata a loro. Ed infatti, dopo la grande festa dedicata al Patrono, arriva la terza domenica del mese, dedicata al Compatrono, San Vincenzo. Non si hanno notizie certe sull'origine del culto. Probabilmente, come scrive Giorgio Luca, esso fu introdotto dai baroni Spadafora, donatori della statua che si
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conserva nella Chiesa di Sant'Antonio, per onorare la memoria del loro illustre parente Domenico Spadafora, domenicano come San Vincenzo, e venerato come santo ma non ancora tale, (nel 1921 Benedetto XV lo proclamerà Beato) in occasione del solenne trasferimento della sua salma nella chiesa parrocchiale di Santa Maria in Recluso avvenuta nel 1677. Probabilmente, nella stessa occasione il santo venne proclamato Compatrono di Maletto, essendo stato già proclamato S.Antonio patrono del paese nel 1651/54 a seguito della sua venuta da Bronte.77 La festa si San Vincenzo, a differenza di altre che sono state interrotte per lunghi periodi, è stata sempre celebrata unitamente a quella di Sant'Antonio. A testimoniare l'importanza di questo santo per il popolo malettese anche in questo caso accorrono i numerosi nomi di battesimo, Vincenzo, Vincenza. Il secondo nome più diffuso a Maletto. La festa è, si può dire copia di quella di Sant'Antonio. A volte può capitare che avanzati soldi per i festeggiamenti di Sant'Antonio, questi vengano impiegati per i festeggiamenti di San Vincenzo cosicché si verifica il caso che questi risultino, soprattutto per quanto riguarda i giuochi di fuoco, più spettacolari. Al solito celebrazioni eucaristiche e il momento centrale della festa, la processione col Santo, anch'egli portato sulla spalle dai fedeli e tirato con corde. Segue lo stesso percorso di Sant'Antonio e anche San Vincenzo è venerato da centinaia di fedeli con ceri ex voto. Sempre presente la banda musicale.
77 Ivi, pag.6
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Anche tale Santo è particolarmente caro ai contadini malettesi. Se il Patrono veniva implorato nei casi di prolungata piovosità, San Vincenzo lo era nei casi di eccessiva siccità. La sua statua veniva portata in processione fino all'ingresso del paese per implorare l'acqua dal cielo. E anch'Egli portato in castigo in Chiesa Madre e liberato solo al cadere delle prime gocce. A tal proposito è stata raccontata da un'anziana signora una simpatica leggenda che vorrebbe addirittura San Vincenzo natio di Maletto. La vogliamo riportare in dialetto, così come narrata. “Mentri a mamma rri San Vincenzu era 'ncinta si ddissiava l'acqua. Stettunu tanti anni senza acqua, stavunu murendu, mità e n'autru tantu! Un gghiornu 'sta cristiana sintì riri nel grembo: “mamma, ricci mi ti nesciunu a ttia ch'iu fazzu chioviri”.”Bbella Matri, e ccu parraju?” si ddumandava a mamma. 'Nna vota, ddu voti, all'urtimu ju 'ndo parrinu: “ppi cottesia, haju 'n turbirazioni, non sacciu s'è spirituari o è opra rru ddiavuru.” In pochi parori, u parrinu ci rissi rri fari prova. A missunu supr'a vara e a puttanu vicinu a San Giuseppi. Cchiuviu! Piddaveru! Quandu appo' San Micenzu fu rragazzu, chi sempri l'acqua si facia ddissiari, u turnavunu a nnesciri, cu llu iritellu spingiutu rrava a binirizioni e faciva choviri.!” La festa si San Vincenzo, a differenza di altre che sono state interrotte per lunghi periodi, è stata sempre celebrata unitamente a quella di Sant'Antonio. IV.4 Il Santo dei principi Infine, giungiamo all'ultima domenica di settembre più prossima al 29 settembre, quella dedicata alla festa di S. Michele Arcangelo, l’originario protettore di Maletto. Anche se purtroppo mancano documentazioni a riguardo, dovrebbe essere la festa più antica. Essa è stata ripresa recentemente dopo anni di interruzione. Si svolge in maniera più dimessa rispetto alle due precedenti, forse a testimonianza del fatto che il Santo è stato sempre legato dai malettesi al passato feudale, ai principi, padroni di Maletto. L’attuale statua, dono del Sig. Schilirò Vincenzo, malettese emigrato, ha sostituito altre precedenti statue. San Michele sancisce la fine delle feste estive: il contadino e tutto il popolo di Maletto si preparano così al lungo e gelido inverno, il cui inizio a Maletto sembra
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anticiparsi di qualche mese.
IV.5 Offerte, inni e giuochi di fuoco Gli anziani raccontano di un popolo che viveva in funzione del proprio lavoro, della propria terra, un popolo profondamente religioso. Ed infatti, la giornata del contadino e della moglie, iniziava con la comparsa della stella mattutina che guidava i fedeli fino in Chiesa “A Matrici” ad ascoltare la messa dell'aurora. Solo dopo questa si poteva attendere ai propri lavori, nei campi, nelle case. Tutto si svolgeva: “Commi vuriva Ddiu!” Se quelle di sant'Antonio e di san Vincenzo erano le feste principali del paese, fino agli anni Cinquanta, non erano le uniche. Erano veramente tante se paragonate ad oggi. Cerchiamo di seguirle con ordine cronologico. 17 gennaio festa di Sant'Antonio Abate, il santo protettore degli animali, particolarmente caro ai “massari” di Maletto. Questi giungono davanti alla chiesa principale, quella di Sant'Antonio fino all'Ottocento, chiesa Madre in un secondo
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momento, portando i loro animali: mucche, vitelli, capre, asini, mule... e' la loro festa. Dopo la celebrazione della messa il prete impartisce la solenne benedizione al bestiame che ora può ritornare nelle campagne, fedele e insostituibile aiuto al contadino nelle fatiche quotidiane. Fino agli anni Venti esisteva la statua di S. Antonio Abate andata ora distrutta. Ormai sono così pochi gli animali che non hanno bisogno più del Santo! 19 marzo festa di San Giuseppe. Nell'omonima chiesa, sede della statua del Santo, ubicata all'ingresso del paese e costruita intorno al 1830/40, tutti i fedeli si recavano ad ascoltar la solenne messa. In tale data si svolgeva anche la grande fiera del bestiame. Per l'occasione, raccontano gli anziani, veniva messa in scena la “Fuga in Egitto”. Contadini, ma soprattutto “mastri artigiani” del paese si improvvisavano attori, vestendo i panni di Giuseppe, Maria e di Gesù. Accompagnati ovviamente dall'asinello. Nelle case le famiglie preparavano “u pranzu rri Virginelli”: pasta e ceci veniva offerta agli indigenti. Si osservava anche il digiuno. La festa è stata celebrata fino a prima della guerra; di recente è stata ripresa, allietata come in passato dal tradizionale suono delle ciaramelle.
Marzo, periodo quaresimale: venivano celebrati e festeggiati, dagli appartenenti alle diverse classi sociali malettesi, i “cincu sabbati”.
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Iniziavano i preti con “u sabbatu ri parrini”, poi “u sabbatu rri galantommi”, i civili, professionisti, “u sabbatu ri mastri”, “u sabbatu rri massari” e per concludere, rispecchiando così fedelmente l'ordine sociale “u sabbatu ri contadini”. Alle donne era riservato “u veneddì rri fimmini”. Come venivano festeggiati? Gli appartenenti a ciascuna classe andavano in giro per il paese chiedendo offerte, in natura ovviamente e soprattutto frumento. Con il ricavato si sarebbe fatta celebrare la Santa Messa, preceduta dai Vespri, seguita dal canto del Magnificat e dal Te Deum. E finalmente, i tanto attesi giuochi di fuoco, la cui spettacolarità scemava man mano che si scendevano i gradini della scala sociale. Il primo giorno di quaresima arrivava in paese “u priricaturi” che si fermava fino al Sabato Santo. Durante il periodo della sua permanenza i fedeli a turno gli preparavano i pasti e glieli servivano in canonica. Compito del predicatore era preparare i fedeli alla Pasqua attraverso la predicazione e il sacramento della penitenza. Teneva diversi cicli di esercizi spirituali: per le confraternite, per gli scolari, per le suore, e poi per tutti i fedeli. Arriva la settimana santa. Nei primi giorni si svolgeva una particolare funzione detta delle “tenebre”. Di sera in Chiesa si accendevano delle candele che poi venivano spente ad una ad una dopo aver recitato preghiere e innalzato canti, in latino. Il giovedì Santo si allestiva il Sepolcro, addobbato con tendaggi di vari colori e adornato con vasi di frumento che i fedeli avevano piantato all'inizio della quaresima per essere pronti il giorno dell'Ultima Cena. Dopo la S.Messa in Coena Domini, il Signore veniva portato al Sepolcro: gli altari venivano “spoliati”. Il Venerdì Santo veniva inscenata la Passione e Morte di Gesù Cristo o per le vie del paese, durante la processione, oppure al chiuso presso qualche chiesa. La processione veniva seguita da tutte le confraternite: i membri per l'occasione rigorosamente incappucciati e senza il tradizionale manto colorato. Il Sabato Santo i ragazzi e i chierichetti andavano per le vie del paese e al suono della “troccura” (oggetto di legno con maniglia di metallo che sbattutto produceva un suono) invitavano i fedeli a visitare il Sepolcro dicendo: “amunindi tutt'a Chiesa, ch' u Signuruzzu è ssuru!” Giunge il mite maggio, mese dedicato alla Madonna. Ogni strada, quartiere,
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aveva un altarino che chiamava a raccolta le donne e i bambini del vicinato per recitare il rosario e cantare in dialetto a Maria. Il 31 maggio veniva preparato un altarino più grande, in dialetto “curnicella”. Le donne tiravano fuori dalla cascia matrimoniale coperte e lenzuola ricamate e ne facevano così bella mostra. Si apriva così la gara tra chi avesse innalzato l'altare più bello. A fine serata in ogni quartiere giochi di fuoco. Adulti e piccini, severi giudici, in giro ad ammirare i “curnicelli”. Tale tradizione perdura ancora. A giugno la festa del Corpus Domini. Veniva presa solitamente in appalto e si procedeva con la solita questua per le vie del paese. Il giorno della festa solenne messa e a seguire processione con confratelli, banda musicale e fuochi d'artificio. Il tutto ripetuto anche la domenica successiva. A luglio, il 15, festa della Madonna del Carmelo “a Maronna ru Carmini”. Non si hanno notizie precise sull'origine della Chiesetta di campagna dedicata a Maria SS. Del Carmelo, detta anche “La Madre di Dio”. Si sa che dopo la fine del culto di Santa Venera, la Madonna del Carmelo veniva implorata dai malettesi per ottenere i benefici sperati dal cielo, pioggia e buon tempo. Non a caso il luogo adiacente la Chiesa è molto caro ai contadini molti dei quali “pissavunu” il frumento proprio nei paraggi di questa. Il culto per la Madonna del Carmine è ancora molto vivo nel popolo, che ogni anno, il 16 luglio si reca in processione mattutina nella predetta Chiesa. Ad agosto, la domenica prossima al 7, c’è la festa di S. Gaetano da Tiene. La celebrazione è stata ripresa nel 1998 dopo un’interruzione che durava dal 1954. Non si hanno precise notizie sull’origine del culto e della festa di S. Gaetano. Tuttavia risulta che l’attuale statua del 1879, venne a sostituire una più antica deterioratasi, inizialmente collocata nella chiesa di San Michele poi in quella di S. Antonio. Quindi almeno da tale anno è certo il culto.78 Il mese più intenso dal punto di vista religioso e delle festività, come si è avuto modo di sottolineare più volte, è quello di settembre, inaugurato dalla festa in onore della SS.Vergine o Madonna Bambina, prima domenica prossima a giorno 8 settembre. Per un certo periodo intitolata anche alla Madonna del Lume, come attestato in un 78 Ivi, pag.6.
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documento del 1803, e confermato dalla presenza della confraternita ad essa intitolata. La statua risalente al '700 si conserva presso la chiesa di Sant'Antonio. Nelle prossime domeniche le grandi feste dedicate ai Santi che il popolo malettese ha eletto a Patroni, Compatroni e protettori. Di Loro è stato già lungamente narrato.
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Capitolo quinto Da “Stilli a Stilli” La leggenda che si racconta sulle origini di Maletto vorrebbe i suoi abitanti discendenti di quei briganti senza scrupoli che vivevano sotto la protezione della principessa Marietta. Ma è solo una leggenda e, se è pur vero che in ogni luogo vi sono briganti e santi disposti a concedere grandi miracoli, è soprattutto vero che la gente di Maletto ha anche un'altra storia da raccontare. E' stato scritto a proposito di Maletto: “La storia di Maletto e del suo popolo è, in definitiva, quella di una classe di servi della gleba, affrancatosi lentamente dal secolo XIII al secolo XIX: di una gente, cioè, che, come il bestiame e gli attrezzi di lavoro avuti per dissodare i campi e costruire la fortuna del feudatario e signore, seguì in tutto e per tutto, giacché vi fu legata, le sorti stesse del feudo in cui nacque, faticosamente visse e morì, per molte e molte generazioni.”79 Gli abitanti di Maletto, fino agli anni Sessanta del secolo scorso, sono così socialmente strutturati: vi è la classe dei civili, “i galantuomini”, composta da proprietari terrieri e concessionari delle terre feudali, da cui provengono i pochi professionisti e intellettuali esistenti, i protagonisti della vita politica; accanto a questa vi è la classe, più numerosa, dei piccoli proprietari, massari ed allevatori di bestiame; la stragrande maggioranza della popolazione è formata dai “braccianti” coloro che non possiedono altro se non le braccia per lavorare la terra. Infine vi è la classe dei maestri artigiani, fabbri, falegnami, muratori e qualche sparuto commerciante. La maggior parte della popolazione, quindi, è costituita da contadini, indissolubilmente legati alla terra, anche se da loro non posseduta, da “servi della gleba” che con sacrificio, lotta e tanta dignità e forse perché no, grazie anche qualche intervento divino, sono riusciti a riscattare la loro terra e a trasmettere quei valori antichi ma intramontabili dell'onestà, della fatica, della dignità, dell'accoglienza, del rispetto della vita. E allora proviamo a conoscere la vera gente di Maletto, attraverso il suo lavoro, le sue tradizioni, il suo modo di essere, di sentire e vivere la vita. 79 Cfr.Giorgio M. Luca, I luoghi della Ducea dei Nelson. Attraverso foto e cartoline d'epoca, op.cit., pag.89
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V.1 Principi, duchi, marchesi...Contadini. I contadini lavorano le terre di principi, duchi, conti, marchesi. Il principe Spadafora, il marchese delle Favare, il duca di Nelson. Che nomi altisonanti, che mondo affascinante! Chissà come apparivano agli occhi dei poveri e umili contadini. Ma questi li immaginavano solamente, nei loro bellissimi palazzi, circondati da servi e cameriere, con un bel fuoco schioppettante che non smetteva mai d'ardere nei lunghi giorni invernali. Ad averne solo un po' di quel fuoco! A loro l'ingresso nei palazzi, nei castelli era vietato. E poi i “gabelloti” i concessionari dei terreni del principe, o del duca, uomini che disponevano di modesti capitali, a volte massari, che prendevano in gabella, cioè in affitto, grossi appezzamenti di terreno i “feudi”. La “gabella” veniva pagata coi prodotti della terra, una volta al mese, solitamente agosto. A Natale poi avrebbero “regalato” gran cesti ricolmi di ogni frutto della terra e del lavoro, formaggi, ricotte, annunziati da due bei struzzi che, durante tutto l'anno la brava massaia aveva “nutricatu”, allevato con amore e che con molto dispiacere li vedeva partir per altre mense. I gabelloti, detti anche “inquilini”, dovevano garantire la coltivazione dei feudi che pertanto, dopo averli suddivisi in piccoli appezzamenti di due o tre ettari, subaffittavano ai contadini. Prestavano loro il frumento per la semina, e facevano coltivare le terre a tre parti con una parte o anche a quattro parti con una parte. Al momento del raccolto, o meglio, dopo la trebbiatura il contadino avrebbe dovuto dare al gabelloto tre quarti del frumento raccolto; l'altra parte, teoricamente, l'avrebbe potuta, finalmente, portare a casa. Ma così non era, a casa vi sarebbe arrivato poco o quasi niente. Infatti, oltre a quanto detto, il contadino era tenuto a versare al momento del raccolto: la trattenuta, la semente che si era vista anticipare, più gli ovvi interessi, la valuta; il terraggio, canone fisso che il contadino gli doveva sulla base del contratto di subaffitto; un conguaglio, inoltre, per le spese relative agli strumenti di lavoro (aratri, buoi..) dall'affittuario forniti.80 Inoltre, spesso capitava che, il contadino non potendo sfamare la famiglia, era stato costretto a supplicare il gabelloto, il duca o principe per avere del frumento in 80 Padre Nunzio Galati, Maniace. L'ex Ducea di Nelson, Giuseppe Maimone Editore, Catania, 1988, pag.60
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prestito. Aveva ricevuto una mistura di orzo, fave, ceci e frumento. Avrebbe restituito frumento maggiorato degli interessi. Quindi, tirando un po' le somme “sempre che il tutto gli sia andato per il meglio, il contadino porterà a casa solo il 15% del raccolto.... Quel poco che bastava loro [ai contadini] solo per poter dire che erano ancora vivi.” 81 A nulla valeva ai contadini lavorare “da stilli a stilli”: questi “nascevano, vivevano e morivano indebitati” anche se “si recavano al lavoro all'alba e rientravano a mezz'ora di notte”.82 Oltre al duro e per loro, infruttuoso lavoro, i contadini erano costretti a respirare “l'aria di feudale terrore” che sovrastava i campi grazie alla vigilanza dei “campieri”. Amministratori, questi costituivano la polizia privata dei “signori”, dei padroni, simili agli antichi bravi. “... scelti d'ordinario tra quei che più son temuti per ardire e coraggio, che non hanno scrupoli, e son capaci a commetter (se pure non han commesso già) reati di sangue, o per difesa del padrone a cui sono devotissimi o per non subire una soperchieria da chi si voglia.”83 Nel feudo del duca Nelson di queste figure i nostri contadini ne incontrarono diverse. In completa uniforme, sul loro superbo cavallo, con fucile alle spalle, giravano per i feudi dove, sotto la canicola, lavoravano i braccianti, ispezionandone severamente il lavoro. Dalla semina al raccolto, ed anche durante la ripartizione di questo, i contadini non potevano sfuggire allo sguardo avido e cinico dei “campieri”, alcuni un tempo anch'essi braccianti. Così come non potevano sfuggire alle loro angherie e ai loro sopprusi. Era il campiere che dava al contadino le sementi “il quale, o d'accordo col padrone (i bricconi si trovano in tutte le classi!) o per conto proprio, misura sempre con mano sospesa, in modo che il tòmolo (tumminu) riesca deficiente, oppure ne adopera uno ch'è più piccolo del legale; tutto l'opposto di quel che farà poi al tempo del ricolto del grano nell'aja, dove, o misura arrisaccannu, o adopera un tomolo che eccede il legale nella capacità. I contadini sono tutt'occhi, quando pigliano le sementi, ma non evitano perciò che possano esser frodati, quante volte il camperi lo voglia. 81 Ivi, pag.61 82 Cfr.Padre Nunzio Galati., op.cit. F.S. Nitti, Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria, 1910. scritti sulla questione meridionale, Bari 1968, vol.IV, pag.163.) 83 Salvatore Salomone Marino, op. cit. pag.124
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Fanno osservazioni? Protestano? E bene: che ne ottengono? Parolacce e minacce e rancori per parte di quell'uomo senza coscienza e carità.”84 E come se non bastasse: “I campieri impedivano ai contadini di tagliare legna nei boschi ducali, vigilavano perché ivi pascolasse solo il bestiame dei gabelloti (precludendo ai contadini ogni possibilità di allevamento) e controllavano, infine, che da parte dei gabelloti venissero corrisposti al duca, oltre il canone d'affitto sui boschi, anche i carnaggi, cioè la percentuale sul bestiame (in precedente attentamente rilevato) e sui relativi prodotti: formaggi, ricotte, ecc. in sostanza, per quanto gabellati, i feudi rimanevano sotto stretto e rigido controllo feudale.”85 Erano molto zelanti nel loro lavoro, multavano i poveri contadini anche per infrazioni non commesse, e se qualche sventurato si spingeva fino al castello per protestare davanti al duca l'avrebbe fatto invano: “Sua Eccellenza non poteva essere disturbato”, e soprattutto non avrebbe capito nulla delle loro proteste, così come nulla capiva della loro lingua, ben lontana dal suo inglese. Ma il lavoro del contadino non era fatto solo di questi rapporti “vassallatici”. C'era anche il lavoro di contadini per contadini: quando questi possedevano un piccolo lembo di terra tra di loro non esitavano ad aiutarsi, a prestare vicendevolmente le proprie giornate lavorative. Non vi erano leggi a prescrivere ciò, solo il naturale senso di comunità: “...le relazioni sociali erano costituite da rapporti molto semplici e immediati. L'esistenza contadina era, infatti, costellata da interminabili atti di collaborazione e di genuina solidarietà, basati sul rapporto di vicinato, di comparaggio e di parentela. Alcuni lavoravano, occasionalmente, in una ispirata forma di cooperazione allorquando ricorrevano allo scambio mutualistico della fatica stagionale per imprestarsi giornate lavorative calcolate ad ore solari, rifuggendo dalla normale procedura del salario. ..in tutto questo, niente di calcolato, tutto spontaneo ed istintivo. Tale costume, al di là della scorza di ruvidezze comportamentali dell'ambiente contadino, costituiva la 84 Ivi, pag. 124 85 Padre Nunzio Galati, op.cit., pag.63
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coscienza di un saggio e profondo senso della vita. Costretti a vivere, per il resto, nel più assoluto isolamento e degrado sociale, erano, dunque, questi innumerevoli atti interpersonali, basati sul vincolo di parentela e sui rapporti di vicinato, a intessere le fila di una autentica relazione umana e di una meravigliosa convivenza sociale;”86 V.2 I contadini all'<<antu>> “Innanzi all'alba il contadino è già in piedi; e affacciatosi a dar un'occhiatina al
cielo, ch'è come dire al suo orologio e al suo barometro, mette in spalla la vèrtula (bisaccia) o il saccuni col pane, poi suvvi lo zappone o la zappa (secondo il bisogno), e via per la piazza del borgo o per altro designato punto ove si riunirà co' compagni. Quando l'<<opera>> (opra d'omini) è al completo, cioè, nel numero di otto, muovono insieme per l'antu.... il luogo dove i villici si recano a zappare, e insieme quella linea obliqua ch'essi formano, zappando in fila l'un presso all'altro.”87 Dal 5 ottobre fino a San Martino i contadini sono impegnati nella semina: prima quella delle fave, poi del fieno, per ultimo quella del frumento. Ecco come avveniva la semina della fave. Per prima cosa si doveva preparare la terra facendo i cosiddetti “zzotti”, con la zappa o“zzappuni”. Erano questi delle buche praticate nella terra dove poi vi sarebbero andate almeno quattro fave per buca. Ultimata la semina venivano coperte con la zappa. Certo, a quei tempi, non si avevano scarponi o stivali, ma calzature improvvisate per l'occasione. Si calzavano i “zambitti”, fatte con la pelle di mucca, utili perché la terra spesso bagnata nei periodi di semina vi scivolava sopra. Le stesse che calzavano i ciaramillari. Per la semina del fieno e del frumento ci si avvaleva del lavoro dei buoi che tiravano l'aratro. I buoi venivano dotati di “paioli,” messi al loro collo, del giogo e accoppiati a costituire la cosiddetta “parricchia”. Gli animali guidati dal sapiente “lavuraturi” facevano la “spuria”, tirando l'aratro dividevano il terreno in strisce, lunghe quanto tutta la lunghezza del terreno e larghe anche fino a quattro metri. Poi si passava alla semina “a spaglia”, le sementi venivano sparse con le mani. Dopo questa operazione venivano fatti rientrare i buoi con l'aratro 86 Ivi, pag.70 87 Salvatore Salomone Marino, op. cit., pag.81
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per la “vissura”, si rimescolava così tutto il terreno al fine di coprire le sementi. Spesso i contadini “ci cunzavunu u suvvizzu”: per evitare che qualche seme rimanesse in superficie, passavano ulteriormente con la zappa a livellare il terreno. La semina era finita. Ma prima di arrivare al tempo della mietitura, verso gennaio, quando cominciavano a spuntare le pianticelle, il contadino “zzappuriava” la terra attorno alla pianta, la rimescolava, la rinnovava per garantire un raccolto migliore. Ed ecco finalmente arrivato il tempo tanto atteso della mietitura, scandito dalla festività di San Giovanni Battista, il 24 giugno. I mietitori, con la falce in mano, si levavano prima dell'alba e si recavano “all'antu”. Ci si divideva in due gruppi: ogni sei uomini che mietevano dovevano essere seguiti, o meglio “rincorsi” dal “legaturi”: infatti questi veniva scelto per la sua sveltezza nel seguire i mietitori. Il frumento mietuto doveva essere raccolto dal “legaturi” o “cugghituri” che fornito di “croccu e ancina” raccoglieva le spighe di frumento e le legava formando “i gregni”. Questi verranno alla fine trasportati dagli animali nel luogo deputato alla trebbiatura, l'aia. La mietitura riguardava non solo il frumento ma anche il fieno, ossia il foraggio per gli animali. Questa avveniva, solitamente, durante il mese di maggio. Una volta mietuto il fieno, questo veniva legato e sistemato a forma piramidale a formare il “buggiu”, (se ne parlerà ampiamente nel paragrafo dedicato alla trebbiatura). Questo non veniva “'ncritatu” come quello di paglia. Sulla sua sommità e lungo i lati veniva posto “u sigarazzu”, spighe di segale precedentemente private del chicco. Queste venivano fissate con legni sottili dotati naturalmente di “crocco”, un uncino che permetteva così di mantenere legato il fieno. La lunga giornata dei mietitori era scandita dalle pause ristoratrici. La prima verso le nove del mattino: “a culazioni”. Il proprietario del campo chiamava gli uomini e offriva loro pane, olive, ricotta e formaggio, acciughe. Tipici contenitori delle olive erano i “puriri”, realizzati con pelle di capretto e sapientemente cuciti. Simili alle ciaramelle ma più piccoli. Il tutto accompagnato dal vino, prodotto dallo stesso proprietario o acquistato. A mezzogiorno si pranzava, un altro po' di pane col solito companatico. Alle sedici “a mirenda”: altro spuntino. E poi di nuovo al lavoro fino a che il buio avesse impedito il proseguo del lavoro. E' sempre il sole, loro naturale
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orologio, a scandire il lavoro e le pause nell'antu. Un personaggio che s'incontrava in mezzo ai mietitori era l' <<acquaroru>>, un giovane, meno adatto alla mietitura, che per guadagnarsi un tozzo di pane e due olive, andava girando nell'antu con “hiascu” o “bumburu” pieni di acqua e vino. Richiamato dai lavoratori al grido di “potta lu hiascu cu vinu”, correva e consegnava il recipiente che girava tra gli uomini. Erano contenitori dotati di due buchi tappati, uno in alto uno in basso. Per far scorrere il liquido venivano aperti entrambi e in questo modo il vino o l'acqua fuoriuscivano “a cannolu”. Ricordiamo che il periodo della mietitura è quello estivo, giugno ma soprattutto luglio, quando il sole è più caldo che mai. L'antu “brucia” e i lavoratori per riparare i loro capi dal sole hanno semplicemente legati ad essi dei fazzoletti di stoffa. Anche quando mangiano, nell'antu non ci sono che raramente alberi sotto i quali sedersi e ristorarsi all'ombra. Per le pause pranzo vengono scelte zone un po' più alte, in modo tale che possa arrivare qualche leggera brezza. Questa appena descritta la mietitura a Maletto. Ma spesso, molti braccianti non trovavano impiego nel proprio paese ed erano costretti a cercarlo altrove, nelle cosiddette zone “ri marini”, che non erano propriamente zone di mare, come si potrebbe pensare, ma piantagioni di frumento della Valle del Dittaino, corrispondenti a località quali: Valguarnera-Caropepe, Catena Nuova, Raddusa, Aidone. Terre infossate dove il caldo era per i malettesi montanari spesso insopportabile. E allora, partivano all'alba in gruppi, rigorosamente a piedi e dopo giorni e notti di cammino giungevano nella piazza di Valguarnera, la piazza detta della mietitura. Da lì, infatti, sarebbero passati i proprietari dei campi di frumento ad assoldare “l'opera.” Così i mietitori malettesi avrebbero trascorso un mese, se non più fuori casa. Vari aneddoti si raccontano su questi soggiorni, uno fra tanti inerente la pausa pranzo dei mietitori. Il proprietario, per risparmiare sul pane da offrire ai contadini, una, due ore prima della pausa, stendeva il pane precedentemente affettato su una larga fossa di terra. Perché? In questo modo i raggi cocenti del sole l'avrebbero cotto, essiccato, in poche parole indurito. Così i contadini, che non vedevano l'ora di rifocillarsi,
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avrebbero trovato pane talmente duro da far passare loro la voglia di chiederne altro! Per non dire che sempre gli stessi proprietari sceglievano per il parco ristoro non luoghi ventilati, ma “fosse” dove il sole vi dimorava più a lungo. Ma perché? Non significava rendere più fiacchi i lavoratori? Certe cose son difficili da comprendere. A fine mietitura i braccianti tornavano finalmente al proprio paese portando con loro, preventivamente acquistate, non certamente regalate, le falci di Valguarnera, famose per la loro prestanza, che poi avrebbero rivenduto ai contadini malettesi. Spesso da piccoli, capitava sentir dire ai grandi, rivolto a persone forestiere o che, pur essendo dello stesso paese, non riuscivano a capire le espressioni dialettali: “ma r'undi veni? I Carrapipi?” Pensavamo che fosse questo un luogo fantastico, mitico legato solo a un modo di dire. Come è stato già detto, per la mietitura i nostri contadini passavano mesi fuori casa, alloggiando nelle masserie. Durante la permanenza avevano bisogno di radersi, tagliare i capelli. Nessun problema, perché i barbieri percorrevano in lungo e largo le campagne che sapevano piene di lavoratori, a cavallo di mule o asini ma anche a piedi, proprio per soddisfare le esigenze dei contadini e in questo modo guadagnarsi un po' di frumento. A tal proposito un anziano racconta che oltre agli arnesi tipici del mestiere, i barbieri portavano con loro i “gallarizzi”, i frutti degli alberi di rovere, dalla forma sferica. A cosa servivano? Questi venivano posti in bocca ai contadini il cui viso spesso molto magro non permetteva una facile rasatura. Infatti, servivano a rimpinguare le guance, in modo tale che anche le numerose “rughe” che solcavano la faccia del misero venissero rasate. In cambio delle loro prestazioni i barbieri ricevevano beni in natura, solitamente un po' di frumento dato loro al momento del raccolto. Se nelle masserie trovavano qualche contadino sofferente per male ai molari o ai denti, ecco vederli tirar fuori le tenaglie e via...senza troppe storie il dente dolente, ma spesso anche quello non dolente, veniva rimosso. Subentrava così un altro dolore che faceva dimenticare il precedente! V.3 E' tempo di menar per l'<<aia>> Ecco finalmente il lavoro che dovrebbe coronare le speranze e le fatiche del
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nostro contadino. La trebbiatura avveniva solitamente dopo la festa della Madonna del Carmine, “A Matri ri Ddiu”(altro importante appuntamento religioso che scandiva il tempo dei malettesi), a metà luglio. Affinché tal lavoro fosse propiziato dal cielo, come “aia” spesso si sceglievano luoghi nelle vicinanze delle chiese, la chiesa di San Giuseppe o quella propria della Madre di Dio. Il frumento raccolto, non ancora separato dalla paglia, veniva portato nell'aia, una zona scelta anche perché particolarmente ventosa, e ivi si conducevano le bestie, buoi, giumente, mule o asini a seconda dell'animale che si disponeva, indispensabili a tal lavoro. Ai buoi accoppiati veniva messo il giogo, se le bestie erano tre il giogo veniva chiamato “trinsicu”. Poste due pietre forate al centro tra i buoi, questi si facevano girare in tondo sempre di trotto in modo tale che, gli animali guidati e sollecitati dal guidatore col “capo”( una sferza, come sottolineano gli anziani usata non per colpire l'animale, verso il quale si aveva un gran rispetto) e con canti pestassero le spighe di frumento.
Ed infatti “In piena canicola, con questo po' po' di raggi africani che dardeggiano la Sicilia, immaginate che sorta di tormento ( mi servo della precisa ed efficace parola del
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villico) sia la trebbiatura. E pure ei la compie cantando: nella poesia, sposata alla religione, attinge lena e sollievo, e il lavoro va innanzi allegramente e rapidamente...or il reggitore della coppia di mule, pur correndo e frustando, canta verso a verso e ad voce altissima alcuni mottetti proprij della trebbiatura (muttetti di lu pisatu)... Sono versi di lode e di ringraziamento a Dio e ai Santi, di incitamento alle bestie, di accenni alle fatiche stragrandi della ricolta...”88 Purtroppo questi canti che anche i nostri contadini intonavano facendoli echeggiare per tutto il Paese, di origine molto antica, risalenti probabilmente agli arabi, si sono persi; solo qualche piccolo frammento è rimasto nella memoria di pochi uomini, frammento che forse proprio per questo è ancora più importante riportare89. Ma torniamo a lavoro. Mentre le bestie e il guidatore lavoravano dentro l'aia, all'esterno altri muniti di tridente ricacciano al centro di essa le spighe che gli animali col loro passo hanno fatto saltar fuori. Ricorda e racconta un giovane d'allora, molto abile nel guidare gli animali, (era capace con una sola mano di guidare tre bestie legate insieme) una sua disavventura. Un giorno, proprio mentre stava facendo trottare le bestie, sbagliò nell'indirizzare il capo e colpì la coda della mula: imbizzarritasi gli sferzò un pesante calcio facendolo volare per diversi metri. Svenne, ma per fortuna si riprese quasi subito, bevendo acqua con un po' di zucchero. Dopo pochi minuti era sull'aia, pronto a guidare nuovamente l'animale. Giovani d'altri tempi! A lavoro finito, gli animali venivano tirati fuori e con il tridente si “spagghiava”, ossia si separava dal frumento la paglia; i contadini, approfittando soprattutto del vento di tramontana, lanciavano la messe trebbiata contro il vento che ne asportava la paglia, facendola ricadere ai margini dell'aia.
88 Ivi, pagg.101,102 89 Vedi intra, pag.85
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Successivamente, si separava il frumento dalle altre impuritĂ , per questo veniva passato al setaccio, â&#x20AC;&#x153;cu crivu ri l'ariaâ&#x20AC;?. Finalmente il frumento poteva essere insaccato.
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Ma il lavoro non poteva dirsi concluso. Bisognava sistemare la paglia, prezioso alimento invernale per gli animali. Si procedeva, quindi, alla creazione del “buggiu”. La paglia veniva ammassata col tridente fino a creare una struttura piramidale, spesso alta diversi metri. Poi, ai lati di questa struttura, si poneva una miscela realizzata con acqua, argilla e paglia fine (“u fubbuni”), operazione detta “'ncritatura”. In tal modo, dato che i contadini non disponevano di magazzini dove poter riporre e riparare la paglia, si provvedeva a ripararla dalla pioggia. Il luogo predisposto a tale operazione era detto “Buggiata”. All'occorrenza, la paglia sarebbe stata tirata fuori dal “Buggiu”, messa in ampi recipienti, “i còffini” e portata agli animali. Questo quando “u buggiu” poteva essere realizzato e poteva rimanere sulla stessa aja. Spesso questa era un suolo pubblico che dopo la trebbiatura doveva essere sgombrato e allora la paglia veniva portata altrove, su un terreno privato: qui si sarebbe costruito “u buggiu.” Per trasportarla, venivano usati “i rrituni”, appositamente fatti costruire da un importante e indispensabile figura di artigiano malettese “u bardunaru” (erano opere sue non solo i rrituni, ma anche i “bbarduni,” le selle che venivano poste sugli asini, sulle mule, a volte da chi non disponeva di questi animali, anche sui buoi, per la monta). Dal racconto di padri contadini ecco finalmente disvelarsi il significato di un'espressione che spesso anche i giovani ripetiamo, riferendola a persone molto cocciute, testarde:“si na testa ri buggiu!”, “Ha a testa rura comm'un buggiu!” E il “buggiu”, ora sappiamo che era veramente molto, ma molto duro! V.4 Non solo contadini Ma a Maletto, come si è più volte detto, non vi erano solo contadini, anche se questi rappresentavano la maggior parte della popolazione. Vi erano anche i “massarioti”, spesso gabelloti, piccoli o grandi e possessori di mucche e pecore, “quagghiavun'u latti”, ricavandone ricotta, formaggio che, oltre a deliziare il palato fine di principi, duchesse e duchi, sfamava i braccianti all'antu e le famiglie. Anche la loro vita era contrassegnata dal duro lavoro nei campi. A queste fatiche si aggiungevano quelle inerenti la cura del bestiame. Le mucche, le pecore non possono
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essere abbandonate. Devono mangiare, essere portare al riparo dalla pioggia o dal sole cocente. Mangiare! Anche per le povere bestie a volte è un problema. Spesso le siccità, “l'annati troppo siccarizzi”, che si abbattono su Maletto non fanno crescere un sol filo d'erba, spesso le gelate invernali rendono la terra sterile. Far arrivare il foraggio da fuori, in questo piccolo borgo chiuso e in inverno irraggiungibile, è impossibile. E allora? Si parte. Il “massarioto” conduce i suoi armenti verso zone migliori, dove il cibo non manca. Ma bisogna camminare, camminare tanto, attraversare ponti, fiumi. E quel pover'uomo, pur non avendo mai visto il mare, deve per forza di cose imparar a nuotare, se vuole ritornare dalla sua famiglia. Spesso i fiumi son ricolmi d'acqua per l'annata troppo “chiuvarizza”, e allora...guadare il fiume in groppa alla povera “besta”, tremolante per la paura, è davvero vedere la morte cogli occhi. Ma per fortuna in cielo ci sono sempre i santi che a volte sembran prender per i capelli il devoto, povero disgraziato, portandolo al di là del fiume, sulla riva. Anche questa volta ha salva la pellaccia, solo una febbre da cavallo. Cammina, cammina, finalmente arriva alla “baracca rri Ghiandarella”. Dove siamo? Il nostro massarioto ha varcato quasi i confini della sua provincia, è arrivato vicino Ramacca. Ma per il contadino, per il massarioto la campagna non ha confini. Monti, fiumi, torrenti, pianure piene di foraggio, frumento, sono ovunque e per tutti. Basta pagare! al solito duchi, principesse, marchesi, grandi proprietari che mettono a disposizione i loro possedimenti in cambio di canoni d'affitto, prodotti in natura e regalìe varie, che rendon privo di valore il guadagno del duro lavoro contadino. E' la vita. Anche loro debbon mangiare. Ma senza dover per questo percorrere centinaia di chilometri, senza rischiare la vita, solo comodamente seduti sulle loro confortevoli poltrone, con a fianco un campanellino da far tintinnare quando hanno fame. Al suon di quello arriverà la cameriera, la “criata”, giunta proprio per servir Sua Signoria da Maletto. Ma il padrone ha bisogno di tutto questo e non glielo si può negar. Lui non è avvezzo al lavoro, i contadini e le loro donne sì. C'è chi è nato per lavorare, chi per comandare. Dura legge della vita! Ma torniamo al bestiame. Fino agli anni Settanta molti massari di Maletto, recavano i loro armenti proprio nelle zone di Ramacca, nella piana di Catania. Partiti
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solitamente verso febbraio ,lì soggiornavano con le bestie fino all'arrivo della bella stagione. Ogni tanto tornavano a casa per portare alle donne un po' di formaggio e ricotta che sarebbero stati in larga parte venduti per poter pagare l'affitto delle terre, il resto parcellinato dalla famiglia, che così avrebbe potuto continuare a sopravvivere! V.5 L'errante Figaro Ramingo per le masserie va il barbiere, soprattutto quando in queste sa che vi sono ospitati lavoratori, massari d'altri luoghi. Va di qua e di là, sempre pronto a dispensar i suoi servigi. Ha una numerosa famiglia da sfamare. A volte, non sono ancora i propri figli, ma fratelli, sorelle che han perso il padre nella grande guerra. Ora è lui il capofamiglia. A solo dieci, dodici anni. Sol con la sua “besta”, ma spesso solo coi suoi veloci piedi, attraversa pure lui monti, fiumi, ponti. Non conosce ostacoli, non può. Un tozzo di pane e un po' di formaggio lo deve portare alla nidiata affamata. E così, temerario o forse solo “incosciente” va incontro al nemico, va a trovarlo, a cercarlo nei campi dove alloggia e a gesti, perché il nemico non parla la sua lingua, gli fa capire che è in grado di tagliare quella lunga barba e quei lunghi capelli. Il nemico è tedesco, ha in mano il mitra e guarda con sospetto chiunque osi avvicinarlo. Ma davanti ha solo un bambino, armato si, ma di rasoio, buona volontà e coraggio. I due si guardano, il tedesco gli fa un cenno con la testa e il bambino inizia il lavoro. Il bambino diventa adulto, coi sudati risparmi riesce a metter su un proprio piccolo salone, dove i malettesi troveranno sempre il proprio Figaro pronto a render loro qualsiasi servigio. Ecco il buon factotum all'opera. Qualcuno ha bisogno di aver estratto un dente, un molare? Si chiami il barbiere che, senza troppe storie, con tenaglie procederà all'estrazione, a volte tirando il dente buono e lasciando quello malato. C'è il nonno che soffre di bronchite, polmonite, pressione arteriosa alterata? Arriva il barbiere con coppette e “sanghetti” raccolti nelle acque paludose “ru Pizzu”e tira via un po' di sangue. C'è da festeggiare un matrimonio? Si prodiga per organizzare nel migliore dei modi il vostro banchetto, dall'a alla z. Ecco cosa fa per voi il Figaro del paese: va in giro per le case del piccolo borgo a racimolare piatti, forchette, cucchiai, cucchiaini,
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bicchierini per i rosoli e quant'altro...poi si mette in cucina e prepara il pranzo. E tutti sono soddisfatti. Ma non solo. Il suo salone è uno dei più importanti luoghi di ritrovo per chi vuol suonare e cantare, trascorrendo così qualche ora in allegria. Ed ecco che, chi prende la chitarra, chi l'organettto, chi “u friscarettu”, e un piccolo complessino è ben messo su. Ha inizia lo spettacolo. Si strimpellano canzoni conosciute attraverso i cantastorie ma anche canzoni improntate sul momento prendendo spunto dagli ultimi avvenimenti di cronaca rosa. Si ride, si scherza, si alza la voce. A fine suonata, spegne la lanterna che illumina l'insegna e anche Figaro, stanco ma col cuor contento, andrà a dormire. Buonanotte! V.6 I chiazzaroti I contadini rappresentano la maggior parte della popolazione malettese, sono loro che con il proprio lavoro sfamano la povera gente di Maletto, sono loro che fan si che lavori il fabbro ferraio, “u bardunaru”, “u schiccaru”, “u quarararu”, “u murinaru”, “u mastru,” il falegname e altri artigiani. Soprattutto il fabbro è indispensabile al contadino e al massaro, forgia gli strumenti di questi, prepara gli animali al lavoro dei campi. Si racconta, infatti, che a Maletto fino alla metà del Novecento ve ne fossero circa una ventina. Dall'alba al tramonto era un risuonare di mazze sulle incudini. Tanto che, gli amministratori locali si videro costretti dalle numerose proteste dei cittadini, ad emanare un'ordinanza con la quale si proibiva ai fabbri di iniziare il loro lavoro prima che tutto il paese si fosse risvegliato, prima dell'alba. Anche loro come quasi tutti in paese, lavoravano “da stilli a stilli”. Tutti, tranne i “galantuomini”: per governare e amministrare la cosa pubblica le menti devon esser ben riposate. Ma, mentre il contadino dopo la comparsa della prima stella della notte fa ritorno nella propria “stamberga”, consuma insieme alla famiglia molto allargata, il frugale pasto e dopo il rosario e qualche “cuntu” va finalmente a distendere le stanche membra sul giaciglio di “fogghi rri frummentur'inghia”, gli altri, gli artigiani del Paese si attardano un po' in piazza “a chiazza”. Chiuse le loro botteghe, s'incontrano con gli amici e scambiano quattro chiacchiere. Ed ecco che da un angolo della piazza, una voce chiama i “chiazzaroti” a raccolta per ascoltare. E' arrivato il “cantastorie” o come
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lo chiamano gli anziani “u puieta”. Con la chitarra comincia a cantar e a raccontar storie, tradimenti, amori, faide, assassinii... tutti in cerchio a pendere dalle sue labbra e poi a commentare. Finita “a canzuni” distribuisce fogli volanti col testo. C'è chi si ritrova in tasca qualche soldo e lo compro. C'è chi di soldi non ne ha...non fa niente, perché “a canzuni” gli è rimasta in testa e non se la leverà più.
Sono i chiazzaroti e qualche ragazzino contadino a serbar la memoria della presenza a Maletto, soprattutto negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, dei cantastorie e delle loro “canzuni”. Orazio Strano, Ciccio Busacca: ne parlano come di amici. Non che i contadini ignorassero l'esistenza di tali personaggi ma i luoghi dove potevano incontrarli non erano le piazze del paese, bensì le fiere tradizionali del bestiame del proprio paese che avevano luogo per Sant'Antonio e San Giuseppe, e dei paesi circostanti (es. importante era la fiera di Cesarò). In queste occasioni, tra una trattativa e l'altra, sempre lavorando, i contadini e i massari ascoltavano con molto piacere “i puetu”. Loro non compravano mai i fogli, erano “analfabeti”, non sapevano
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leggere né apporre la loro firma. Ma possedevano una grande capacità, invidiata soprattutto oggi da noi giovani “colti”. Sapevano “ascoltare” e fissare nella loro memoria canzuni, prighieri, cunti ma non solo...avvenimenti del passato, la storia dei loro padri, nonni, del loro paese. A volte sembrava che dormissero, tenevano gli occhi semichiusi e muovevano le labbra. Forse ripetevano tra di loro quello che avevano appena ascoltato, proprio per non perderlo e così, tornati a casa, raccontarlo attorno al focolare a figli e nipoti. Chi difficilmente aveva la possibilità di ascoltare qualche “canzuni” o storia di questi menestrelli di strada, erano le donne. Occupate nelle numerose faccende di casa non avevano mai tempo ma soprattutto non era dignitoso. Una femmina che si fermava ad ascoltare canzuni... scandalo! Più fortunati i bambini che passavano le loro giornate quasi sempre all'aperto, per le strade, dove solevan sostare i cantastorie. Una bambina degli anni Venti, ormai novantenne, raccontava con la stessa allegrezza di allora, di come da piccola fosse affascinata da questi personaggi. Udite le prima note della chitarra e il richiamo dei “pueti” si precipitava in casa e supplicava la mamma affinché le desse il permesso di andare ad ascoltare il cantastorie. Questi dopo aver cantato e narrato, con bellissimi cartelloni colorati, distribuiva i fogli con il testo e allora lei, ansiosa di possederlo, ritornava a casa supplice nei confronti della mamma del soldo da dare in cambio di quel prezioso pezzo di carta. Avutolo era la bimba più felice del mondo! I bimbi imparavano a memoria le storie, le canticchiavano per le strade, ma soprattutto, alcuni di loro, imparavano così facendo il mestiere. Divenuti “giovanotti” non era raro incontrarli nelle osterie, nelle botteghe dei falegnami, nei saloni del barbiere, dove con chitarra, mandolino, organetto cantavano le storie ascoltate da Orazio Strano, Ciccio Busacca, ma soprattutto le storie di cui loro stessi erano autori, storie realmente avvenute a Maletto, “fuitine”, “rapimenti”, “tradimenti”, tutto ciò che stuzzicava la loro brillante fantasia. E' grazie a questi bimbi di allora, uomini memoria di ieri ed oggi che sono pervenute a noi le “canzuni” di quel periodo. E' vero, alcune possono essere ascoltate oggi in MP3, perché sono state incise all'epoca. Ma non è la stessa cosa. Sentir cantare
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un anziano novantenne, “vederlo” cantare col cuore, con l'anima, con il corpo è tutta un'altra storia, così come è profondamente diverso il leggere dall'ascoltare una storia. Quei bambini, uomini di allora “ascoltavano” e “imparavano”. Vi erano fabbri, falegnami, mastri, e altri artigiani che solo con l'ascolto della musica suonata dalla banda musicale nelle feste di Paese, solo “ad orecchio” avevano imparato a suonare e anche bene il loro strumento, clarinetto, ottavino, flauto. Nei momenti in cui non c'era molto da lavorare, lo tiravan fuori dal cassetto che lo custodiva gelosamente e pulitesi le labbra, le appoggiavano con rispetto sul bocchino e... le dolci e melodiose note della musica classica echeggiavano per le strade di Maletto. Un popolo di “ignoranti”, “analfabeti”, ma soprattutto un popolo di “poeti”, “cantastorie”, “musicisti”. Musicisti furono anche i pastori e i contadini malettesi. Furono proprio i contadini, quelli più legati alla propria terra che portarono le note della loro unica musica fuori da Maletto, fino oltre oceano. Quella di cui stiamo parlando è la musica dei “ciaramillari”. Meritano questi un lungo racconto.
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Capitolo sesto Le note contadine Come è stato affermato varie volte nel corso del presente lavoro, Maletto e il suo popolo sono indissolubilmente legati ai Santi, primi fra tutti Sant'Antonio e San Vincenzo. Ma, quando ci si ritrova a parlare di Maletto con persone non del luogo, subito corre veloce nella loro mente l'associazione, Maletto-Ciaramella. Ed in effetti, questo antico strumento musicale fa parte della tradizione pastorale e contadina del popolo malettese, ed ha contribuito più dei Santi a far superare al chiuso e alto borgo i suoi angusti limiti, a farlo conoscere in tutta la provincia di Catania e non solo. Esso costituisce un importante elemento di identificazione del popolo malettese. Ecco perché, in un tal contesto, un accenno a tale tradizione diviene indispensabile, in quanto espressione della vita e del costume degli abitanti di Maletto. VI.1 La parola alla ciaramella Pur essendo tale strumento presente a Maletto fin dal 1600, esso non nasce in loco ma, così come era avvenuto per Sant'Antonio, viene portato da altre genti accomunate a Maletto dai principi Spadafora. La ciaramella giunge a Maletto quando questo piccolo borgo medievale si popola definitivamente, cioè nei primi decenni del Seicento. E' il principe Spadafora a favorire tale processo, con l'emanazione di una lunga serie di provvedimenti a favore di coloro che fossero venuti ad abitare la sua “terra”. Grazie a questi provvedimenti Maletto in pochi anni vede triplicare la propria popolazione. Ma da dove provengono i nuovi abitanti? Si è detto che una parte di essi provengono dalla vicina Bronte, devastata dall'eruzione del 1651/54; un'altra fetta proviene, invece, dal messinese, da Venetico, San Martino (Spadafora), feudi di proprietà anch'essi della famiglia Spadafora. Questi nuovi abitanti del messinese in buona parte pastori, lasciarono i loro paesi attratti dalle condizioni favorevoli offerte dal principe ma non il loro strumento, la ciaramella, che emigrò con i suoi suonatori. Fu così che questo umile strumento arrivò a Maletto, e venne subito amato anche dagli abitanti oriundi che non smetteranno mai
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di tramandarlo da padre in figlio, giungendo così dalla fine del 1600 ai nostri giorni. La ciaramella è legata all'umile mondo pastorale e già dalle parole del Salomone Marino è facile arguire il perché: “...solo i pastori costringe il duro mestiere a passare le lunghe ore di tutt'i giorni nell'inattivo e monotono silenzio dei campi. Essi, pertanto, mettono a profitto queste ore solitarie e tranquille, rallegrandole ed occupandole con la musica e con geniali lavori artistici che richiedono lungo tempo e lunghissima pazienza.”90 Riempire ed alleviare la solitudine del pastore al pascolo col suo gregge e allietarne le lunghe e fredde serate d'inverno trascorse in campagna, questo il compito della ciaramella, che nasce dunque come strumento di pastori per pastori. Ed infatti la ciaramella il pastore la costruisce da sé, attingendo al mondo vegetale e animale che gli è intorno. Come? Ecco che i pastori ciaramillari di Maletto raccontano come nascono dalle loro rozze ma sapienti mani il manicotto e l'otre della ciaramella.
90 Salvatore Salomone Marino, op. cit. pag.310
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“U picuraru primmu primmu fici u gottu ra ciaramella. Appressu fici a ncanta rri sei, appò a ncanta rri quattru, chissù ddu mastrincanti, chi ssonunu. Ppò rici: “e commu facimmu?”e l'accordu-rici- cu u potta? A quarta! Comm'è sta quarta? A quarta...primmu fa a curella chi si spatti 'ndù. U picuraru, quandu cci missi sta curella a sti ddu ncanti, cci puttà accoddu bbonu. Appò 'ndo gottu cci rristà n'atru pittussu. Picchi i pittussa su quattru...'ndi l'autru pittussu ddoppu cci fic'u bbassu, sa miss'o mussu senza utru e cuminz'a ssunari. Pruvandu pruvandu passi chi cuminzà a iri bbonu.”91 “Un gghiornu o picuraru cci passà ppa testa rri fari a ciaramella. Pigghaju 'n'agnellu, u mmazzaju, ci tiraiu a pelli, commi un cunigghiu e ppoi u tundiu ca frovvici, bellu puritu, cciu ttaccà. Rru latu ra lana u menti ri intra, rra parti rra canna a menti rri fora, ci retti 'na lavata provvisoria e ccià mmissi la manera. Sangu e tutti cossi, bbasta chi illu sunava quandu nasciva u Bbambinellu. U picuraru, sturiandu sturiandu, cci sturià pi non ci fari stu tanfu 'nte naschi, 'nto mussu, stu fetu ri bbucchummi ra pecura. Un gghiornu tantu sturià chi ffici 'n'autru otru, u tundiu fittu, u rrariu bbellu puritu, appò u lavaju cu olà-tandu savirilla si cc'era olà, sapuni, fissarii- bbasta cci fici nesciri tuttu lu tanfu. ddoppu u vota r'intra e ffora, u cunzà, cci miss'a sari, a canigghia, chilla rru frummentu. Ddoppu cu lavà, u missi o suri bellu puritu. Doppu cu sciucà bellu fittu, siccu, u pigghià, u sciorià e ffetu cchiù rri carni motta nu 'ndi facia e nnemmenu tanfu ri pecura.”92 “u vuriti sapiri chi aguannu iu m'u cattavi 'ndo macellaiu l'utri pi ssunaricc'o Bbambinellu? Cu Siggnuri, si mi runa a saruti, a sittantasei anni, iu ancora vogghiu andaricci a faricci a nuvera a Ggesù Bbambinu. Mi ccattavi l'utri-ancora è 'nculluriatu- cci missi u sai, ora cu nautri quindici jorna, cu n'atri vinti al massimu, u pigghiu e 'ntrizzu. I ddu ggambi r'arretu, na ggamba cci resta i fora, na ggamba cci resta i intra. Cu chilla chi rresta i fora cci mintimmu u rrucchellu, chillu undi mentunu u firu. Chillu a nnautri ndi sevvi pi nnisciricci u 91 Maria Malaponte, Ricerche sulla parlata di Maletto, tesi di laurea, Facoltà di Lettere, Università di Catania, Anno Accademico 1973-1974, pagg. 52. Fonte orale Giuseppe Caserta 92 Cfr.Giorgio M. Luca, La ciaramella a Maletto, Maletto, Dicembre 2009, pag.22 Fonte orale sig.Caserta
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sputazzu i l'utri. 'ndo pirtussu ru rrucchellu cci mintimmu u stuppinu, pi ntuppari u rrucchellu. Ogni e quanndu chi si rinchi la cossa, quandu si rinchi la cossa ri sputazzu, cci rugnu 'nna 'nnacata a llu cossu, chi cci rugnu 'nna scuturata, e tuuu u sputazzu pigghia e nnesci.”93 Così, nata la ciaramella sulle montagne della provincia di Messina, arriva a Maletto dove incontrerà il mondo contadino. Giunta a Maletto, per tutto il 1700 continuò ad essere suonata dai pastori che, così come duemila anni fa, continuavano a dare l'annuncio della nascita di Gesù Bambino alzando le loro lodi al cielo al suon del loro strumento. Ed infatti, il suono della ciaramella si udiva soprattutto in occasione della Novena di Natale e della festa di San Giuseppe, assumendo quindi un ruolo di strumento religioso; veniva altresì suonata anche per il Carnevale, nonché in occasione di feste da ballo che si tenevano presso le famiglie contadine. Il suono della ciaramella non oltrepassava i confini del feudo, di questo piccolo universo, chiuso ad ogni comunicazione ed influenza esterne. D'altronde la sua posizione geografica, quasi mille metri di altitudine, e le vie di circolazione ancora non agevolmente percorribili, lo rendevano un mondo a parte. E la sua gente, abituata da secoli a “servire” con rassegnazione il feudatario, nutriva anche diffidenza per ciò che poteva esistere al di là dei confini. Si limitava a sognare quest'oltre e a raccontarlo nei cunti. Con la fine del feudalesimo in Sicilia, nel 1812, un varco si aprì. L'isolamento culturale e la diffidenza cominciarono a sgretolarsi; e così i malettesi cominciarono ad andare negli altri paesi della provincia, nella città di Catania inizialmente e successivamente, durante la seconda metà del Novecento, anche nelle altre parti della Sicilia. In occasione della novena di Natale e per S.Giuseppe, i ciaramillari lasciavano Maletto e per settimane facevano udire il suono del loro strumento a chi lo richiedesse. Ma a far valicare i confini di Maletto alla ciaramella non furono, come si potrebbe pensare, i pastori bensì i contadini. Il gregge non poteva essere lasciato incustodito nemmeno un sol giorno, il pastore era ad esso vitale, mentre i contadini, 93 Ivi, pag.23Fonte orale sig.Tirendi
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proprio durante il periodo invernale erano costretti dalle intemperie a non poter attendere ad alcun lavoro nelle campagne. Fu così che divennero “ciaramillari,” attratti anche dalla possibilità che avrebbero avuto di guadagnare qualche soldo presso i signori della città, in attesa del poco e misero guadagno che avrebbero tratto dal raccolto estivo. Muniti di strumento che ancora arrivava dal messinese, imparato a suonarlo ad orecchio dall'ascolto e dall'osservazione dei paesani pastori, i ciaramillari partivano numerosi per Catania, per suonare le struggenti nenie al Bambin Gesù dei presepi di nobili, borghesi famiglie catanesi e di qualche negoziante. Altro periodo durante il quale scendevano a Catania era quello durante il quale si recitava la novena a San Giuseppe, in marzo.
Partivano ai primi di dicembre, subito dopo la mezzanotte, a gruppi o a dorso d'asino, (la ferrovia Circumetnea entrerà in funzione alla fine dell'Ottocento) diretti verso la città, dove giungevano nel pomeriggio del giorno successivo. Giunti a 196
Catania, consegnavano gli animali all'asinaio (u sciccàru) che aveva il compito di ricondurre le bestie a Maletto. L'ultimo giorno della novena lo stesso avrebbe ricondotto gli asini a Catania per prelevare i ciaramillari. Il loro ritorno era atteso con trepidazione, soprattutto dai piccini: i “parrucchiani”, clienti del suonatore, erano generosi e donavano regali, frutta secca, calia e dolci da portare ai bambini. Nel capoluogo etneo arrivavano in gran numero e il Comune dispensava loro un piccolo sussidio ( nel 1884 ne furono censiti 153 e ricevettero un sussidio di 60 centesimi a testa)94. Il ciaramillaro vestiva la “capuccia”, un lungo e pesante mantello di “drappu” cioè lana di pecora opportunamente trattata per combattere il freddo, guarnita di un cappuccio, spesso realizzata dalle stesse donne di casa. Il capo veniva coperto con la “birritta” e ai piedi calzava le “zampitte”, cioè scarpe ricavate da un pezzo di cuoio di vacca con lunghe stringhe che andavano legate attorno ai polpacci, le stesse che i contadini usavano, in mancanza di stivali, per andare a lavorare la terra. Oggi questo abbigliamento è riprodotto dai moderni ciaramillari per motivi folkloristici.
A Catania, il ciaramillaro di Maletto è stato oggetto di particolare attenzione e riguardo, sia da parte del popolo, che da parte delle famiglie più agiate e degli 94 Ivi, pag.10
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intellettuali. Il poeta catanese Mario Rapisardi alla fine dell'800, ricordando i presepi preparati dalle famiglie catanesi, ne parla in una sua delicata lirica. Anche Vincenzo Bellini subì il fascino delle melodie che emanavano le ciaramelle di Maletto. Già nel Natale del 1812, davanti ad un'icona nel cortile della sua casa, ascoltando le struggenti note dello strumento suonato da un contadino di Maletto, provò egli stesso a suonarlo. In proposito il musicologo Salvatore Enrico Failla scrive sull'influenza che la ciaramella ebbe nella formazione musicale di Bellini, “...con la sua voce timbricamente compresa tra quelle delle cromorni e degli oboi, ha avuto un ruolo importantissimo...nella formazione belliniana, in una misura che riguarda non solo la qualità del suono..ma soprattutto...quella che può essere definita la marca belliniana, cioè il carattere particolare del rapporto melodia armonia” definendolo infine “zampognaro nel melodramma”95. Sicuramente il merito dei ciaramillari di Maletto, è quello di aver fatto conoscere, grazie alla loro bravura, il proprio paese all'esterno. Ne citiamo alcuni rimasti nella “storia e nella memoria”. Luigi Leanza (classe 1843), “Firreri Macchi” ripreso in una nota fotografia del 1908 a Catania e pubblicata in un libro di vecchie foto di Catania a cura di Salvatore Nicolosi, di cui si disse, nella seconda metà dell'800, che “faceva parlare il suo strumento”.
95 Ivi,pag.10
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I tre ciaramillari che il 31 maggio del 1911, alla stazione della Ferrovia Circumetnea di Maletto, ricevettero il re Vittorio Emanuele III e la Regina Elena, durante la sosta del viaggio attorno all'Etna effettuato proprio a bordo del treno della Circumetnea. Questi con la loro “bizzarra melodia montanina”, come riferiscono le cronache del tempo, commossero i sovrani che li vollero con loro a Randazzo, al ricevimento nel castello del marchese Romeo delle Torrazze. Fra questi c'erano gli altri noti ciaramillari Andrea Colombo (classe 1857) e Giuseppe Carciola (classe 1865) “Tatanisi”.
Angelo Russo (classe 1877) “Gambazza”, che suonò in tutti i comuni dell'Etna e persino a Roma. Alfredo Campi (classe 1886), detto “rraloggiu”che incise col famoso cantastorie Orazio Strano ed altri ancora. Ed infine i tre ciaramillari: Antonino Schilirò (classe 1892) “Catarino” e i fratelli Gambazza Angelo e Antonino, che nel 1930 furono chiamati dal re Vittorio, a suonare a Roma, al Quirinale, per le nozze del figlio, il principe ereditario Umberto di Savoia con Maria Josè del Belgio, memore di quanto aveva sentito nel 1911 a Maletto.96 96 Ivi, pag.11
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Questi umili suonatori, sorretti non da preparazione musicale ma solamente dalla loro genuinità di contadini malettesi e dalla conoscenza elementare dello strumento trasmessa loro dai padri, rappresentanti di un mondo antico e autentico ma sconosciuto, intenerirono e rallegrarono il cuore di nobili, re, regine, poeti e grandi musicisti. Ma tanti altri ciaramillari occorrerebbe menzionare, tutti appartenenti a famiglie contadine da sempre suonatori dell'antico strumento: Salvatore Tirendi (classe 1911) “garozza”, Giuseppe Caserta (classe 1908) “Cannataro” e tutta la sua numerosa famiglia, oggi rappresentata dal figlio Antonio che, pur essendo cieco, è uno dei migliori suonatori ed accordatori di Maletto, e ancora allieta le festività natalizie paesane. E come vuole la tradizione il figlio Raffaele e il nipote Antonio che, insieme ad altri ragazzi di Maletto, sembrano avere l'intenzione di far risuonare ancora l'eco di suoni così antichi, appartenenti ormai ad un mondo che non esiste più...e forse proprio per questo così affascinanti. Come afferma lo storico malettese Giorgio Luca “desta emozione e suggestione sapere che le ciaramelle di oggi sono le stesse che furono portate nel 1600 a Maletto dai progenitori e che sono state usate e suonate da otto e dieci generazioni di malettesi.”97 Non possiamo, ancora una volta, non essere d'accordo con lui quando sottolinea l'importanza di tale strumento, attorno al quale e grazie al quale, il popolo malettese per secoli ha costruito la propria identità, eleggendo a valore fondante di essa l'accoglienza e soprattutto la pacifica convivenza con altre genti, giunte talvolta da luoghi tanto diversi, in un reciproco scambio di insegnamenti. La ciaramella, quella dei nostri padri, ha ancora tanto da suonare...speriamo ci sia sempre qualcuno ad ascoltarla!
97 Ivi, pag.12
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Capitolo settimo Principesse ... mogli, madri, massaie Non basta seguire il contadino nel suo lavoro, nell'antu, nell'aia. Per conoscere e capire chi sia, come vive, quali sono i valori in cui crede e per i quali lotta, è necessario andarlo a trovare nella sua “casa”, conoscere la sua “famiglia”. Solo allora potremmo capire veramente e profondamente la sua dura ma “festosa” vita. Solo così facendo potremmo comprendere meglio la nostra vita generata proprio da questo piccolo “Prometeo”. E allora entriamo nella sua umile abitazione. VII.1 La reggia contadina “La vita scorreva faticosamente, in famiglia il cui ambito sociale si estendeva tutt'al più al cortile, alla strada che però diventava luogo di familiarità esasperata. Le case erano troppo piccole ed affollate per poterci svolgere la vita che così straripava fuori sulla strada dove i bambini giocavano in mezzo alle immondizie, attorno ai “galluni” che scorrevano in mezzo alle strade non pavimentate, e che serviva da fogna a cielo aperto: per gli uomini di mattina e per i bambini ad ogni ora del giorno, mentre le donne vi vuotavano pudicamente il loro orinale solo di mattina presto, nascosto sotto la sciallina. Le case corrispondevano allora a una tipologia costruttiva che oggi non si ritrova più neanche nelle stalle. In genere unico piano, unica stanza, spesso seminterrata, con copertura di “sigarazzu” (paglia di segale). Solo le case più ricche avevano una copertura di “canali” di terracotta alla “parmintina” ed era un lusso lo “ncannatu”( copertura con canne). Le mura erano a secco ed erano solo qualche volta tappati con della calce. Il pavimento era in terra battuta dalla vita che vi si conduceva, e come la vita pieno di alti e bassi. Le pulizie, con quel tipo di pavimentazione, consistevano al più nel ramazzare con la “livigghia”(scopa in rovi) ogni tanto. Non vi erano finestre, per cui quei catoi erano costretti a tirare il proprio giorno dalla porta che pertanto era condannata a stare aperta anche in inverno. Solo qualche porta aveva un finestrale, senza vetro, che permetteva di ridurre l'accoglienza nell'ambiente alle
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intemperie. L'interno della casa era poveramente arredato. Una “buffetta”, una “cascia” e qualche “furrizzu” rappresentavano il mobilio, completato dalla “conca” e dal “cuncheri” elemento centrale simbolo del focolare domestico. Il “circu”, permetteva di asciugare i pochi panni nei mesi d'inverno. Qualche chiodo alle pareti fungeva d'appendino per il vestiario, mentre la “gazzana”, nicchia praticata nel muro, serviva da dispensa. In un canto i trespoli e le tavole formavano qualche “jazzu” (giaciglio), e qualcun altro era sistemato sulle cascie. In un angolo della stanza il forno, per quelle poche volte che si faceva il pane di segale! Non c'era camino nel forno tanto che il fumo era costretto a cercarsi una strada nel tetto affumicando la stanza. Il forno ospitava nel sottoforno il porcello, o la capra, o le galline che di giorno cercavano da mangiare in mezzo ai poveri rifiuti della strada. Accanto al forno la cucina a legna. Seguiva, per chi aveva una bestia, la mangiatoia. La quantità di calore prodotto dalle case non bastava a tenere lontana la neve dal paese, e le difese che le case offrivano nei confronti del freddo erano scarse. Capitava, addirittura, che nelle tempeste di neve, i “nanaselli”(neve dura e compatta) entrassero per qualcuno dei numerosi spifferi. Le scerre di femmine alle poche fontane “schicciu”, “rramussa”, “fontanamurata” erano all'ordine del giorno, e i turni, in estate, continuavano anche di notte. Qualcuno si industriava ad inventare dicerie sulla “Mamma Cucchiara” o sullo “Scavuzzu” e magari si travestiva per spaventare le femmine all'acqua per poter evitare l'interminabile fila. Quando pioveva le “scerre” si spostavano alle “cannarati”, per riempire i “lavizzi” e fare scorta d'acqua. D'altronde, il problema dell'acqua era grave. Nella buona stagione non pioveva per cinque mesi, e chi aveva un pozzo era ricco. E in genere difendeva la sua ricchezza a costo della vita. Le fontane pubbliche erano poche e spesso si seccavano in estate. Non era raro percorrere chilometri, con la gola secca dalla sete, per trovare acqua, camminando magari sopra i pozzi che oggi si sono trovati nella piana. L'ultima risorsa era lo “sciambru”, incavatura naturale della roccia che mantiene l'acqua. Si
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conoscevano nella zona quelli più vicini e più profondi, e si errava assetati per trovarne uno non ancora prosciugato che mantenesse qualche goccia d'acqua putrida. Si faceva una bruzza di paglia, allora, e si beveva. Come vuole Dio. Il tempo era scandito dalle feste religiose, portate a Maletto dai santaveneroti che si erano rifiutati di obbedire all'editto di Carlo V ed avevano approfittato delle concessioni del principe a Maletto per restare vicino alle terre dove lavoravano. La festa di Santa Venera era rimasta quindi la festa principale a metà settembre dopo la raccolta. Era quello il momento di mormorare finalmente col senso del ringraziamento: “Commu vori Dddiu!”98.
Queste le misere abitazioni e condizioni di vita dei contadini, narrate da loro stessi e sapientemente ascoltate e rinarrate da Maurizio Cairone, un giovane malettese che durante gli anni Novanta dell'ormai secolo scorso, insieme ad un gruppo di amici fu ideatore e curatore del giornalino Logos Maletto. Questi giovani, studenti universitari a Catania, oltre ad occuparsi della realtà politica e sociale di Maletto, offrendo all'intera comunità Malettese un importante strumento di conoscenza, confronto e ascolto, animati da indicibile voglia di fare e soprattutto dalla voglia di scrollare dalle menti malettesi la storica “indifferenza e rassegnazione,” si presero a 98 Maurizio Cairone, Ladri e santi, Logos Maletto, 12 Novembre 1995, pagg.16,17
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cuore le sorti della tradizione orale malettese e andarono alla ricerca di quel che restava di essa, ascoltando con passione gli uomini memoria viventi a Maletto in quegli anni. Senza il loro lavoro, il presente sarebbe stato molto meno ricco. Maurizio, amante dell'oralità ma non meno della scrittura, forse perché convinto che solo essa può preservare dalla morte l'oralità, si diverte, in un racconto di cui è brillante autore, a dare forma narrativa alle varie e spurie notizie che ha potuto raccogliere dalla bocca degli anziani riguardo la loro vita e le origini del culto di S. Antonio. Mescola tradizione orale e storia, grazie all'aiuto della “memoria storica malettese” Giorgio Luca, e ne nasce un racconto a dir poco gradevole e perché no, istruttivo. Forse potrebbe essere questo un modo per far conoscere ai ragazzi di Maletto la loro storia e cultura, la loro identità. Il racconto riportato fedelmente non è fantasioso: è racconto storico, racconto di vita realmente vissuta a Maletto fino ai primi anni Cinquanta. Così come storico è il racconto del viaggio in Sicilia compiuto, sempre negli anni Cinquanta, da Carlo Levi e narrato in “Le parole sono pietre”. A proposito delle condizioni in cui vivono i contadini scrive: “...i contadini mi riconobbero e mi invitarono a visitare le loro case. Lasciammo così la strada e il quartiere dei signori e scendemmo, per le stradette ripide, nei Cortili dei poveri. Di rado può vedersi, in un paesaggio lussureggiante, sulle falde del più illustre e fertile vulcano, nell'aria abitata dai più illustri Dèi, tanta miseria. Visitammo molti Cortili (sono specie di piccoli slarghi attorno a cui sono costruite delle catapecchie): i contadini e le donne dalle soglie ci facevano cenno di entrare perché vedessimo in che modo vivevano. Per terra, nelle strade, nei Cortili in pendio, scorrono, per mancanza di fogne, le acque putride, e il tanfo prende alla gola. Le case, se così si possono chiamare, sono delle tane dove piove dai tetti di canne, affumicate, spoglie, senza finestre, dove in pochi metri quadrati vivono accatastate otto, dieci, dodici persone. I bambini, dagli splendidi visi di angeli, hanno le pance gonfie per la malaria: è lo spettacolo della più estrema miseria contadina, inaspettata in questa costiera di paradiso.”99 Queste le condizioni in cui vivono i contadini brontesi ancora negli anni 99 Carlo Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino, 2010, pag.79
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Cinquanta; non diverse quelle dei contadini malettesi. Durante il viaggio Carlo Levi visita Bronte e con ogni probabilità anche Maletto, dato che in quei giorni, come racconta la gente di Maletto, ebbe come guida proprio un loro paesano, Salvatore Schilirò, sindacalista della CGL, che proprio negli anni Cinquanta, contribuì a risvegliare i contadini malettesi da quel lungo torpore in cui avevano vissuto fino a quel momento, “aprì loro gli occhi”, come ricordano, riuscendo insieme ad altri sindacalisti e politici dei vicini paesi (Bronte, Randazzo, Adrano) ad inaugurare le dure lotte contadine, lotte di occupazione delle terre che vedranno i malettesi a fianco di brontesi, randazzesi e porteranno finalmente all'abolizione reale del feudalesimo, che in Sicilia era stato abolito nel 1812 ma che nel mondo chiuso di Maletto, Bronte, Maniace, ancora regnava grazie ai duchi Nelson, quel mondo che Levi aveva definito: “il più assurdo anacronismo storico ...un perduto mondo feudale”. “...Così vivono i braccianti in Bronte, migliaia di contadini senza terra, che aspettano le terre della riforma agraria, che da un secolo e mezzo combattono per vivere contro la Ducea feudale di Nelson, che si muovono ogni tanto per occupare le terre come nel 1848 e in questo dopoguerra, che ne sono schiacciati e ci ritornano pazienti e tenaci e pieni, malgrado tutto, di umana vitalità, e riescono ancora, nei loro fetidi Cortili, a sperare nel futuro.”100
100Ivi, pag.81
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Contadini, braccianti brontesi, malettesi legati non solo dalla devozione per Sant'Antonio, ma anche per la condizione di “servi della gleba” della Ducea Nelson, accomunati dalle misere condizioni di vita, descritte con “l'amore per tutto quanto è umano, acutamente umano, vale a dire debole e doloroso, vale a dire nobile,”101 da uno scrittore di fama nazionale e da un figlio di questi contadini. VII.2 Regine madri Rientriamo a casa. Questa è impero assoluto della donna, della massaja: “l'azienda domestica è sua, e qui il suo omo non dee metter becco, né alcun altro della famiglia. Ella provvede al vitto, provvede al lavoro per sé e pei figli, provvede ai vestiti, alle biancherie, alle piccole industrie de' polli, de' conigli e del majale, impiegandovi quel po' di sommerella ch'è avanzata dalle fatiche del marito o che ha guadagnato essa.”102 Primo compito delle donne era quello di occuparsi della casa; cercavano di pulirla per quanto fosse possibile, dato che mancava di pavimenti. Dovevano lavare i panni, impresa non certo facile e non per mancanza della lavatrice ma per l'assenza di acqua nelle case, erano pochissime quelle dotate di proprio pozzo. E allora ecco che, nella bella stagione, le donne di Maletto si recavano ai pozzi in aperta campagna e, con sapone fatto in casa con feccia d'olio d'oliva e cenere, faticavano per lavarli al meglio. Una volta lavati li tendevano al sole. Poi con la “truscia” di panni in testa tornavano a casa. Per le pulizie casalinghe, per lavare piatti, pentole e posate di rame, attingevano l'acqua alla fontana più vicina alla loro casa. Dopo lunghe attese, durante le quali non era inusuale imbattersi in qualche litigio con altre donne che prepotenti volevano saltare la fila, tornavano a casa con l'acqua e provvedevano a lavare gli utensili anneriti dalla carbonella del focolare. Prendere l'acqua era un'operazione che si ripeteva più volte al giorno, spesso affidata dalle madri a figli anche piccoli. Alle donne l'arduo compito di curare la misera economia della casa. 101Cfr. Carlo Levi op.cit. Prefazione a cura di Vincenzo Consolo, pag VI 102Salvatore Salomone Marino, op.cit. pag.43
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Amministravano quei pochi soldi che il marito contadino portava a casa dopo le lunghissime giornate di lavoro e si industriavano in mille modi affinché un po' di desinare, per quanto povero, non mancasse mai. Ma spesso le ricompense per i lavori prestati non erano soldi, ma viveri, un po' di frumento, un po' di verdura, delle uova. E allora, con questi la buona massaia preparava il pranzo, a volte solo la cena e se le mancava qualcosa c'era sempre il baratto fra vicine. Non sempre la famiglia mangiava tutta riunita: capitava che il capofamiglia, l'uomo di casa, prestando come bracciante il proprio lavoro presso altri, gabelloti e massarioti, cenasse presso la casa di questi, e allora, è la moglie del “massarioto” a doversi ingegnare per preparare da mangiare agli “uomini” e non solo quelli della sua famiglia, ma aumentati anche di due, tre. Il pasto era solitamente rappresentato da un piatto di pasta coi legumi, fagioli, ceci, o lenticchie. Erano mogli ma soprattutto madri, non di due, tre figli ma spesso di sei, otto, dieci figli. Quelli che sopravvivevano! E sì, perché per le donne ogni gravidanza significava veramente mettersi nelle mani di Dio, mettere a repentaglio la loro vita e quella del nascituro. Tante nonne raccontano a Maletto, ma era così in tutti i paesi più poveri della Sicilia, che di figli ne hanno persi almeno tre, quattro. Spesso portavano a termine la gravidanza, mettevano alla luce il figlio ma questi moriva subito dopo o perché soffocato dal cordone ombelicale o per altre cause a loro e alla levatrice ignote. Per fortuna che la levatrice, in queste non rare occasioni, aveva preso a sostituire il prete e tenendo in braccio il bimbo morto gli impartiva il battesimo. Gran conforto per la madre: almeno il proprio figlio non sarebbe stato dannato per l'eternità. Superato il parto, vivo il figlio, data la diffusa malnutrizione capitava spesso che le donne non avessero latte per nutrire il neonato. Ecco che erano costrette, con molto dolore e sacrificio, ad affidare ad una balia il pargolo e a separarsene per un po'. La famiglia in questo modo si allargava e il neonato, come raccontano per esperienza numerosi anziani del paese, si sarebbe ritrovato così non solo fratelli e sorelle di sangue, ma anche quelli con i quali aveva spartito il latte materno: “sorelle e fratelli di
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latte”. Le madri, quindi, si prendevano cura della numerosa prole, spesso sole senza il marito che per lunghi mesi, soprattutto quelli della buona stagione si recava in zone lontanissime per raccoglier il frumento e lavorare le terre altrui, del duca, del barone, del gabelloto, del massaro. Alcune di loro, quando potevano permetterselo, solitamente mogli di massari, si facevano aiutare dalle donne, madri anch'esse, del vicinato. C'era molta solidarietà femminile, penseremo subito noi moderni, ma non è proprio così. Anche se non sempre, l'aiuto lo si prestava con la speranza, a fine serata, di portare a casa un piatto “ri tagghiarini” (tagliatelle fresche fatte ovviamente in casa), un piatto di lenticchie, di ceci, o di fave, due uova che purtroppo non tutti potevano permettersi e che per molti erano piatti agognati, in modo da poter sfamare la altrettanto numerosa prole che si era lasciata a casa. Numerose accorrevano quando c'era d'aiutare la moglie del massaro in alcuni lavori, come quello di sfogliare e sgranare il granoturco col punteruolo. In queste occasioni, ricordano i bimbi di allora, era una gran festa. Queste adunate solitamente avvenivano con la bella stagione e quindi all'aperto. Luoghi d'incontro erano, infatti, o il “cuttigghiu” (cortile), quando vi era, o la strada. Mentre lavoravano le donne, accompagnate spesso dai loro figli, raccontavano cunti fantastici o reali, cantavano gareggiando fra di loro; ogni tanto qualche preghiera per i vivi e qualche “recumaterna” per i morti. La giornata scorreva piacevolmente. E per i bimbi era divertente giocare tutt'insieme, alla ruota, e “bbrigghi”, sfidarsi in scioglilingua ma anche stare seduti per terra accanto alle loro madri che ancora una volta diventavano narratrici di meravigliosi e avventurosi mondi. Ma lasciamo questi “mondi” e torniamo al granoturco che stanno sfogliando le donne. I chicchi staccati con “u pintaroru” (arnese di ferro appuntito che provocava spesso delle belle “'mpulle”, vescicole, sulle mani) verranno fatti asciugare al sole e poi una parte verrà portata al mulino per ottenere la farina “pi frascaturi”, piatto “tradizionale” soprattutto nelle serate invernali, e l'altra sarà data in cibo alle galline, che così nutrite daranno migliori uova. Anche in questo caso le comari del vicinato prestavano la loro manodopera ottenendo in cambio le foglie del granoturco con le
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quali avrebbero riempito materassi e cuscini. Così la notte sarebbe stata allietata dallo “scrusci scrusci” dei giacigli! Anche quando non vi sono particolari lavori stagionali da svolgere, le vicine si riuniscono in strada, a partire da maggio, e tirando fuori ferri “hugghi”, preparano “pirunetti” che poi serviranno a rattoppare le consunte calze dei mariti. Così trascorrono le giornate, prima dell'imbrunire, raccontando storie ai più piccini e “curtigghiandu”, proferendo maldicenze, non sempre a voce bassa, su persone ovviamente non presenti, e magari ognuna sparlando del proprio marito, lamentandosi dei propri guai, delle proprie disgrazie, dei propri malanni, esagerando fino all'inverosimile. Ecco che il sole tramonta, suona l'Ave Maria, le donne abbandonano le chiacchiere per rientrare a casa! VII.3 Una serata in famiglia E' ora di preparare la minestra per l'uomo che torna dai campi e per la prole. Ma, ancora una volta, occorre andare a prendere l'acqua alla fontana del paese “U schicciu”. Piglia la sua brocca e va, sperando in cor suo di non trovare troppa gente. Ma anche questa volta, già prima di arrivare si sente il mormorio, il chiacchiericcio...pazienza, toccherà aspettare. Arriva il suo turno, riempe la brocca e corre a casa. Solo un po' di minestra raccolta intorno ai campi dal marito il giorno precedente. Per fortuna che c'è ancora qualche piccolo avanzo di pane. E' duro. Quel che ci voleva per la minestra. E già pensa al domani. Dopo la Santa Messa dell'Aurora, si rimboccherà le maniche e comincerà ad impastare un po' di frumento, mischiato con la segale e col lievito madre. Con forza ed energia calcherà i suoi pugni sull'impasto, lo girerà una, due, tante volte e poi lo lascerà riposare. Ma lei no, non riposa. Prepara il forno che deve essere al punto giunto quando l'impasto sarà trasformato in pagnotte. E' arrivato il momento. Le pagnotte vengono disposte ad una ad una sulla pala e adagiate sul letto del forno. Vi sono tutte. Ripone il coperchio e lo segna con la croce. Intanto, la minestra rischia di bruciare e svanire. Per fortuna che la figlia, ha solo
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sei anni, già ha imparato qualcosa e ha sollevato la pentola dal focolare. Arriva il marito, si rinfresca un po' con l'acqua che trova “'ndo baciri” e ...tutti a tavola. Si finisce presto di cenare, subito si sparecchia per evitar che la fame ritorni invano, e adesso tutti siedono intorno “o cuncheri” e alla “conca” elemento centrale simbolo del focolare domestico. La mamma, stavolta, si è ricordata di porvi sopra “u circu” coi panni da asciugare, altrimenti sarebbe finita come due sere fa: il bimbo più piccolo, che aveva seguito il padre nel lavoro dei campi, mezzo addormentato vi è caduto sopra, per fortuna bruciacchiandosi solo le ginocchia! E' il momento della preghiera: “La massaja cava di tasca il rosario e a voce alta insieme allo sposo e ai figli, recita le cinque poste, cui fa seguire una serie di Credo, Pater e Ave per un'infinità di Santi, che per un verso o per un altro si invocano propizi ai membri della famiglia e protettori della salute dell'anima e del corpo, delle loro cotidiane fatiche, de' loro campi, de' loro animali. Né si scorda mai una preghiera pe' poveri morti...per ultimo la litania della Madonna. Tutta la famiglia è assidua a questa preghiera serale; e quando i villici dormono al campo dove stanno a lavorare, anche lì, dopo il pasto, si raccoglie tutto l'antu a recitare il rosario.”103 Dopo la preghiera si scambiano quattro chiacchiere. Se è arrivata la bella stagione, con le miti serate, solitamente in questo paese di montagna si è già a fine maggio, ci si siede tutti dinnanzi alla propria porta. Faranno così tutti i vicini. Così fino a tardi si sta insieme a parlare, raccontare le proprie giornate, a lagnarsi delle cattive annate, a sperare in quelle future, e magari chi può condivide con gli altri un po' di noci, della frutta secca. I bambini, nel frattempo, giocheranno in mezzo alla strada. A Maletto ciò avveniva fino a trenta, venticinque anni fa. Certo, ogni tanto le chiacchierate e i giuochi dei più piccoli venivano interrotti dalle macchine, e allora, ognuno prendeva la propria sedia, la spostava per far passare nelle strette vie il mezzo, per poi sedersi nuovamente, con la speranza di non essere più disturbati. Ma era bello! Ora le cose non stanno più così. Le strade sempre le stesse ma più macchine, e soprattutto meno voglia di condividere le serate all'aperto. Si preferisce stare seduti, comodamente e indisturbati, chiusi nelle proprie case col telecomando in mano. 103Ivi, pag.75
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Torniamo indietro col tempo. E nelle lunghe serate invernali? Buie, gelide e silenziose? La famiglia, “allargata” (ci sono i nonni, qualche zio rimasto “schettu”), a volte allietata dalla visita di qualche parente o amico, si siede sul “furrizzu” attorno al focolare e la nonna o il nonno, ma poi un po' tutti cominciano i loro “cunti”. Intanto le donne filano, annaspano. Grandi e piccini tutti attenti ad ascoltare, a far domande. Spesso il “narratore” è costretto a fermarsi, a volte adirandosi un po', ma è naturale. Tutti partecipano al racconto, rendendolo sempre più lungo. Così trascorrevano le sere i nostri nonni, allo stesso modo dei loro bisnonni: “la nonna, o la madre, tiene pendenti dalla sua bocca i ragazzi, con arte, mimica e passione incredibili,...i ragazzi, che questi conti richiedono e vogliono imparare, sono un pretesto; la narratrice narra volentieri e volge la sua parola anche agli adulti, a' quali sa bene che piace pur sempre e infinitamente il sentir per la millesima volta ripetere quelle meravigliose avventure dell'eroe e dell'eroina, e dipingere que' fantastici e strani genj soprannaturali, quegli uomini d'un valore e d'una arditezza senza pari, que' paesi, quelle grotte, que' palagi, quelle incantagioni, che fanno con ineffabile diletto spaziare la fantasia ed agitare vivamente il cuore. In tal modo si passano deliziosamente le lunghe serate invernali da questa buona gente.”104 Ma non solo “cunti”. Gli adulti amano sfidarsi in “'ndiminagghi”(indovinelli) giocando a volte “o mascaruni”: gli sfidanti prendono in mano un bastone. Se l'avversario non indovina la risposta, eccolo lesto ad immergere, passare il bastone nella carbonella del braciere, ovviamente quella non ancora calda, per poi strofinarlo sulla faccia del perdente. Era un gran ridere! vedere quei volti, anche quelli dei più anziani neri come il carbone o meglio di carbone metteva tanta allegria. E non solo ai piccoli! E poi le leggende paesane: narrano i nonni ai più piccini della Mamma Cucchiara che vive intorno all'alto Castello, di quella Mamma, vecchia e brutta talmente tanto che è impossibile descriverne le fattezze. E' lì, accovacciata sui ruderi di quello che fu il rifugio dei briganti della principessa Maletta. Attende pazientemente che qualche 104Ivi, pag.76
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bimbo impavido, contravvenendo al divieto dei genitori, si inerpichi sulla roccia del Castello. Al momento opportuno salterà fuori e in un sol boccone inghiottirà quel bimbo. I bimbi corrono sulle ginocchia delle madri chiedendo un confortevole abbraccio. E per i più grandi? Per i giovanotti e le ragazze in età da maritare i nonni racconteranno la bella, triste storia d'amore che ancora una volta si svolse, sul finire dell'Ottocento, proprio all'ombra della Rocca. Narrano gli “antichi” che a Maletto tanti anni fa, fine Ottocento, vissero due giovani innamorati l'un dell'altro alla follia. La giovane donna, però, fu costretta dai genitori a sposare un anziano, facoltoso mastro artigiano del Paese. L'uomo conosceva bene i sentimenti della moglie ma sperava in cuor suo di poterne col tempo conquistarne l'affetto. Così non fu. I due giovani innamorati continuarono fra mille pericoli ad incontrarsi e ad amarsi tra i ruderi del Castello. Purtroppo, si sa, il paese è piccolo, gli occhi della gente scrutano ogni movimento sospetto e le lingue delle comari sono restie al silenzio. Giunse così all'orecchio del marito l'avvenuto tradimento. Appostatosi anch'egli sulle rovine del maniero aspettò l'incontro dei due amanti e...armato di pugnale e vigore giovanile saltò addosso all'avversario ferendolo mortalmente. La giustizia fece il suo corso, venne arrestato; la pena durò solo qualche anno, si trattava pur sempre di “delitto d'onore”. Ma la punizione più grave arrivò dopo e furono proprio quei paesani che lo avevano in qualche modo istigato al delitto ad infliggerla. Tornato in paese nessuno gli rivolse più parole e sguardi, nessuno andò più nella sua bottega. Avevano capito che l'amore, quello vero, non va ostacolato. Forse! Più verosimilmente avevano come sempre approfittato dell'accaduto per cacciar dal proprio paese un uomo che non avevano mai ben visto. Le giovani pensano, con le lacrime agli occhi, alla povera disgraziata loro coetanea; i giovanotti pieni di rabbia dicono: “ava truvari a mmia llu bbabbu! Ci pigghiava u brazzu, c'iù sturcia, ci luvava u cutellu e ..cu si visti si visti!” E gli uomini adulti fra di loro cosa raccontano? Ognuno racconta di aver visto, mentre pascolava il gregge o attendeva ai lavori nei campi, mentre raccoglieva legna da ardere nei boschi, qualcosa di strano, sotto
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l'erba, fra di essa, sotto una pietra. E lasciata la zappa, abbandonata la legna ... pian pianino, pian pianino, s'era avvicinato per agguantare quell'essere misterioso. C'era quasi riuscito, l'aveva afferrato ma quell'essere... magico era! Gli era riuscito a sfuggire dal pugno ed era svanito. Ma “primma o ppoi u pigghiu. E diventu rriccu!” Era quest'essere “u scavuzzu”, un piccolo folletto, orecchie appuntite e cappelletto in testa, propiziatore di grande ricchezza per chi fosse riuscito a prenderlo. Ma l'impresa era ardua, forse impossibile! “...il tesoro nascosto con o senza incantagione, è pel villico la costante apirazione, il desiderio intenso, il sogno di tutte le notti, il pensiero che non lascia un minuto mentre nel campo volge le zolle o raccoglie i prodotti.”105 L'importante era crederci e sperare così in un futuro migliore. Anche questi “mitici personaggi”, come i santi, aiutavano il contadino ad affrontare positivamente le grandi fatiche quotidiane; solo zappando, andando per i boschi avrebbe trovato quell'immenso tesoro! Cunti, storie vere, leggende favolose, e aneddoti, proverbi che padri e madri proferiscono durante tutto il giorno, in casa, nei campi. E' il loro modo di parlare, la loro filosofia di vita. Così educano i loro figli che presto li tramanderanno alla propria prole. Non sanno leggere, non sanno fare nemmeno “l'o cu biccheri”, ma sono “sapienti” e “saggi”, e in questo modo da millenni, i contadini tramandano ai propri figli insegnamenti vitali. “il proverbio tradizionale, il motto antico (come vien detto), è il codice comune a cui attingono tutti, è l'evangelio ai cui responsi tutti fan capo e tutti uniformano la propria condotta. Citando ad ogni passo queste sapienti e venerate sentenze degli avi, il padre e la madre vengon gradatamente spingendo i figli nel cammino della vita.”106 E' lunga la sera, ancor più lunga perché non vi è illuminazione. Per le strade solo qualche fanale a gas, acceso quando la luna non rischiara le lunghe notti malettesi; nelle case, qualche misera candela, lume a petrolio, da consumare con parsimonia. Forse proprio per non perdersi in questo buio i malettesi sono tutti raccolti, nelle loro strade, nelle loro campagne, nelle loro case. La troppa luce crea dispersione. 105Ivi, pag. 289 106Ivi, pag.48
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Il capofamiglia interrompe con un cenno i giochi, fa capire che è arrivato il momento di andare a letto. Domani ci sarà da lavorare molto in campagna. Padre e madre benedicono i capi dei figli e..Buonanotte! VII.4 Leggere, far di conto o... La famiglia del contadino era molto numerosa. E ancor di più lo sarebbe stata se tutti i parti delle donne fossero giunti a buon fine. Ma che futuro attendeva i figli che riuscivano a sopravvivere in quella che parrebbe essere una sorta di selezione naturale? Fino a cinque, sei anni potevano godere della protezione materna, meno di quella paterna, e non perché il padre non avesse a cuore i propri figli ma perché, costretto dal duro lavoro e dalle difficili condizioni economiche, doveva per sfamare la “nidiata” di figli assentarsi spesso dalla casa e lavorare, come più volte si è detto, lontano da Maletto. Ma dopo i cinque, sei anni? Si era già adulti! Diverso era il futuro dei figli maschi da quello delle figlie femmine, entrambi comunque molto duri. I figli maschi, spesso, seguivano il padre nei lavori nei campi. Come raccontato dai bimbi di allora, a volte gli si affidavano compiti che anche per un adulto erano molto rischiosi e pericolosi. Padri oggi, raccontano di aver avuto solo nove anni quando andavano con la “besta” da Maletto al “Cattaino”, una terra distante da Maletto due ore di viaggio. Attraversavano da soli ponti dai quali anche persone adulte temevano di guardar giù; gli adulti caricavano la “besta” (mula o asino) con “cuffini” pieni di frumento che i bimbi portavano a casa, a Maletto. Chissà il cuore delle mamme come batteva, chissà quali preghiere mormoravano, ma finalmente... all'orizzonte si intravedeva la besta e un minuscolo puntino, il figlio tanto atteso. La mamma aiutata dai vicini scaricava prontamente il frumento in una stanza della casa e quel bimbo, piccolo e mingherlino che doveva essere e per età e per costituzione, era pronto a ripartire. Come lui tanti altri bimbi che erano costretti dai “tempi tristi”a far questo lavoro. I bambini, quindi, trascorrevano gran parte della loro giornata fuori casa, nei
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campi, nell'antu, nell'aia, nelle masserie dove i loro padri erano andati a cercar lavoro o si erano recati per far pascolare gli animali. In quest'ultimo caso sarebbero anche loro tornati a Maletto dopo giorni. Per loro non era strano, anzi. Erano fieri, orgogliosi di imitare e seguire il loro padre. E la scuola? Qualche raro giorno, giorno di pioggia durate il quale andare nei campi non era stato possibile, vi si erano recati, così come avevano provato a frequentare la scuola serale che era stata creata proprio per loro che si ritiravano dalla campagna al tramonto del sole, ma... a volte non permanevano in essa se non qualche giorno, fino a quando il maestro non sempre dotato di magnanimità e lungimiranza, ma nemmeno di semplice spirito di osservazione e di umana pietà, non esitava a trattare in modi molto bruschi il contadinello non abituato a stare seduto, e che magari spesso, chissà perché, si addormentava sui ruderi, grezzi banchi. E poi, questi alunni prima di imparar a leggere e a scrivere, come racconta un maestro degli anni Trenta, maestro Lupo, avevano bisogno di vedersi impartiti insegnamenti ancor più elementari e basilari, come lavarsi bene le mani col sapone (ma chi l'aveva mai visto?) per cacciar dalle unghie la loro terra. Ma non vi erano solo i maestri. Vi erano i compagni, figli dei “galantuomini”, di notai, avvocati, medici, amministratori. Loro sì che erano alunni modello, sempre lodati dal maestro. Avrebbero potuti aiutarli e invece? Volgevano rari sguardi ai contadinelli, pieni di diffidenza e a volte ripugnanza ( si sa i bambini nella loro spontaneità sanno essere molto crudeli!), li deridevano perché non avevano nemmeno un quaderno e un lapis per scrivere. I contadini “ignoranti” di alfabeto e numeri però, sono dotati di una grande sapienza, e anche se piccoli, sanno ben leggere altro, sanno leggere gli animi, gli sguardi, non hanno bisogno di lunghe tiritere..e in poco tempo capirono che la cosa migliore per loro era ritornare nei campi. Lì almeno il loro lavoro sarebbe stato apprezzato, lì avrebbero goduto dell'aria fresca e genuina, lì sarebbero stati accettati per quello che erano. Dura legge della vita! Che fin da piccoli imparavano rapidamente, assimilavano e la avrebbero conservata nella loro memoria fino alla fine. Ma senza provare astio nei confronti di chi li aveva disprezzati. Loro sì che sono dotati di semplice e spontanea pietà umana! Tornarono ai campi, non impararono mai a leggere e scrivere, quando dovevano apporre la propria firma questa
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era un X spesso somigliante ad una croce, forse quella che avevano portato fin da piccoli. Eppure dal racconto di questi “bimbi” diventati “uomini analfabeti” emerge una grande considerazione per l'istruzione, per la cultura; pur ignorando il “sapere” hanno nutrito da sempre la consapevolezza dell'importanza di esso. Loro hanno ammirato e lodato quei compagni divenuti avvocati, dottori, amministratori, quelli che da piccoli li avevano spesso umiliati e, divenuti padri, nonni ai loro figli e nipoti non hanno mai finito di trasmettere l'amore per la conoscenza, per l'istruzione, anche se questo amore a loro era stato negato. Era questa la realtà malettese a fine Ottocento, realtà che perdurò quasi similmente fino agli anni Cinquanta del Novecento. A volte anche i figli di contadini e massarioti dimostravano buona volontà e desiderio di apprendere a leggere e far di conto ma, dato che i figli erano tanti, ci doveva essere qualcuno fra di loro che si doveva sacrificare, mettere da parte l'innato amore per il sapere e far sì che qualche altro fratello, non lui, continuasse gli studi presso il seminario di Bronte, il Real Collegio Capizzi o seminari anche più lontani, come quello di Pedara. Per frequentare questi occorreva molto denaro, e dal cielo del contadino si sa cade solo la pioggia, spesso neanche benevola per i raccolti. Ecco che bisognava lavorare ancor di più, dovevano lavorare padri e figli uniti dall'alba al tramonto: i fratelli così sarebbero divenuti professori, preti, medici, avvocati e per tutta la famiglia sarebbe stato un grande onore. Figurarsi quale doveva essere la situazione scolastica a Maletto durante il periodo fascista. Bimbi vestiti da Balilla e da Figli della lupa, senza capire il perché. Raccontano bimbi di allora, oggi ottantenni, di severe punizioni inferte ad alunni che, nella loro innocente ignoranza, avevano osato giocare e scarabocchiare gli occhi di quel Duce tanto amato da maestri rappresentanti orgogliosi di quel regime. Il maestro, un certo Neri, espulse uno di questi contadinelli dalla scuola e, solo dopo varie suppliche da parte dei genitori, lo riammise ma con l'obbligo che indossasse il vestito da piccolo Balilla. I genitori, poveri contadini, si indebitarono per assicurargli quel vestito e solo così il figlio poté frequentare qualche altro giorno di scuola, fino a quando il lavoro non lo chiamò.
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Diversa ma non troppo la realtà per le bimbe, le figlie femmine dei contadini, dei massarioti. Per loro spesso la scuola era sogno...irrealizzabile. Non diversamente dai fratelli, anche loro raggiungevano all'età di sei anni quella “maturità” che le rendeva pronte ad aiutare e spesso sostituire la mamma nelle faccende domestiche. Suscita meraviglia, nei giovani del Duemila, sentir raccontare che già a quell'età erano in grado di attendere alle faccende domestiche, non solo lavare piatti, stoviglie varie, andare a prendere l'acqua, ma anche preparare il pane e addirittura giostrare il fuoco del forno. Le nostre madri già all'età di dieci anni sapevan fare tutto questo. E non solo. Spesso si prendevano cura delle nonne molto anziane, così come dei fratelli più piccoli facendo loro da balia. Tutto questo è vero era dettato dalle misere condizioni economiche dei malettesi, ma purtroppo non solo da questo. Spesso alla base vi era l'ottusità dei padri, delle madri. A che serviva una figlia istruita? Una femmina non ha bisogno di saper leggere e scrivere, per lei altri insegnamenti sono fondamentali: deve imparare presto ad occuparsi della casa, a cucinare, a badare ai piccoli, a fare il pane, a lavare i panni al pozzo, a rammendare, ...tutto questo solo a suo vantaggio e beneficio, perché presto,
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verso i diciotto, vent'anni dovrà mettere su famiglia e governare la sua casa, accudire e far crescere i suoi di figli e soprattutto onorare il marito. Purtroppo questa modo di pensare era tipico dei contadini e lo fu fino a tempi molto recenti. In tutto questo le madri non osavan metter parola, era il padre che decideva, disponeva ma anche a loro, dispiace ammetterlo, questa situazione faceva molto comodo. E a nulla valevano a volte le suppliche dei maestri che, anche se solo per pochi giorni, avevano avuto per alunne queste figlie intuendone le grandi capacità e potenzialità. Solo fiato sprecato! Spesso le bimbe, anche quelle che frequentavano di giorno la scuola, venivano indirizzate, mandate dalla “mastra”, donna esperta nell'arte del taglio e del cucito. E mentre imparavano a cucire l'aiutavano, ovviamente il tutto gratuitamente, nelle faccende di casa: lavavano panni, le pulivano la casa, le accudivano i figli; in questo modo la mastra avrebbe avuto tempo da dedicare alla realizzazione di abiti, di cappotti che le venivano richiesti dalle donne perbene del paese. Altre frequentavano le suore Ancelle Riparatrici che negli anni Venti avevano aperto una loro casa a Maletto. Lì imparavano l'arte del ricamo. Figurarsi per le donne di inizio secolo. Le più fortunate, figlie di Massari, di Mastri, di funzionari pubblici, riuscivano a frequentare fino alla quinta elementare, imparando a leggere e a far di conto. Questo quando vennero istituite le prime classi femminili. Alla fine dell'Ottocento le bimbe “privilegiate” si potevano recare a scuola dalla signora, non maestra, Concetta Minissale, che le avrebbe istruite nelle arti casalinghe. Così come spesso i figli maschi piccoli e meno piccoli abbandonavano presto la casa paterna per dirigersi a lavorare presso altri “feudi” lontani, anche le bambine, all'età di dieci anni erano costrette a volte ad allontanarsi dagli affetti familiari per andare a lavorare nelle città, soprattutto a Catania. Le famiglie nobili e borghesi avevano bisogno di donne di servizio. Ecco che, una donna del paese prendeva contatti con queste famiglie e poi reclutava donne-bambine che sarebbero così diventate “i cammareri” “i criati” (cameriere, governanti) dei benestanti catanesi. Strappate dalla loro realtà che se pur povera non lo era certamente d'affetti, anche se spesso tacitati, si
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ritrovavano in un mondo completamente diverso, costrette a soffrire in silenzio non solo il duro lavoro ma anche le angherie subite dai figli delle gentildonne, loro coetanei, e a rivedere i genitori, i fratelli, gli amici, la loro casa molto raramente. Questa la realtà raccontata dai bimbi di allora, inerente l'istruzione. Da questi racconti sembrerebbe che questi bimbi e anche le loro povere famiglie fossero stati abbandonati e dimenticati dalle autorità amministrative di allora. Ma non è così, come è stato già scritto altrove.107
107 Intra, pag.90e seg.
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VII.5 E' ora di trovar marito “Donna ri diciotto, ommu ri vintottu”: è questa l'età idonea al matrimonio, per l'uomo il ventottesimo anno, per la donna il diciottesimo. “...sapiente massima, questa, che è inculcata da due proverbj, e degna che da tutti sia tenuta presente e rispettata, così come la tengono presente e la rispettano i contadini”108. Raggiunta l'età i genitori non vedevano l'ora di trovare marito per le loro figlie. E allora tutto il parentado si prodigava alla ricerca del più adatto. La stessa cosa facevano i parenti dell'uomo. Il giovanotto è stato adocchiato e nulla conta se i due futuri sposi nemmeno si conoscono o hanno nutrito e nutrono tuttora diverse speranze e amori segreti. Ne avranno di tempo per conoscersi ed imparare ad amarsi. Tutte fesserie le dicerie sull'amore spontaneo, quello che fa batter il cuore all'impazzata, sul colpo di fulmine. E poi, potrebbe darsi, nel miglior dei casi, che questi fulmini nascano durante l'incontro dei due giovani. L'importante è assicurare un “buon partito” alla figlia. Arriva il momento della conoscenza. Il pretendente giunge a casa della ragazza, scambia molto timidamente quattro chiacchiere col padre; nel frattempo cerca di aguzzare la vista e di vedere con la coda dell'occhio la ragazza che con la madre lavora in un'altra stanza. Il ragazzo è ben accetto al padre, è “valenti travagghiaturi”, questo è il requisito fondamentale ed è di “buon partito”: “a mia figlia non mancherà di sicuro il pane!”. Marito e moglie si consultano, chiedono alla figlia se si può fare e il matrimonio è presto combinato. Passeranno pochi mesi dal fidanzamento, solo pochi incontri sempre in presenza della madre e del padre, prima della tanto attesa data in cui i due, ancora quasi sconosciuti l'uno all'altra, convoleranno a nozze. Ma così è e così bisogna fare. Tradizioni da rispettare.
108Salvatore Salomone Marino, op.cit. Pag.237. L'altro proverbio citato dal Salomone è questo: “Vintottu anni voli aviri l'omu. Diciottu idda, è matrimoniu bonu”.
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Non sempre l'incontro fra il pretendente e la futura sposa va a buon fine. E allora, il giovanotto rifiutato, sdegnato dalla fanciulla non torna a casa senza meditar “vendetta”. Raccontano donne di quei tempi che il 3 maggio, giorno delle “croci,” il ragazzo affiggerà di notte, sulla porta della casa della giovane una croce fatta con dell'erba di campo ( “erba ri lepuri,” che adesso non cresce più). Quale il messaggio, il significato recondito di tale gesto? Cosa voleva dire con ciò? Che il giovanotto voglia far sapere alla ragazza che il suo rifiuto gli è stato indifferente? E che quindi, come si suol dire oggi, vi metterà sopra una pietra e ognuno per la propria strada? Niente di tutto questo. Il significato era ben diverso: il ragazzo con quel simbolo augurava alla mancata moglie di portar la croce, (la stessa che avevan portata i tre santi ricordati il 3 maggio) quindi di soffrire a causa del rifiuto. Lasciamo da parte vendette, per fortuna solo augurate. Che due giovani giungano al matrimonio seguendo l'iter narrato qualche rigo fa, è cosa normale. Capita, a volte però, che le vie intraprese per raggiungere il medesimo obiettivo siano molto diverse da quelle tracciate sopra. Cerchiamo di percorrerle seguendo il racconto dei nostri fedeli “narratori” malettesi i quali narrano di rapimenti di giovane ragazze da parte dei pretendenti.
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Questi si organizzavano con amici e prelevavano con forza la ragazza dalla casa paterna. In tali circostanze la ragazza era costretta non solo a subire violenza da parte dell'uomo, ma anche da parte degli stessi genitori. Questi, infatti, per non creare scandalo, per non “rimanere sulla bocca di tutti i compaesani”, costringevano la figlia ad accettare la situazione e a vivere con un uomo mai visto prima, un uomo di cui lei conosceva solo la violenza e che proprio per questo le faceva ripugnanza. Come avrebbe mai potuto amarlo? E accettarlo? Eppure, così doveva fare, volente o dolente. Non si poteva tornare indietro. L'occhio e ancor di più la lingua della gente si temevano sopra ogni cosa; un ritorno a casa e l'abbandono dell'uomo avrebbe significato una terribile vergogna per i genitori che si sarebbero ritrovati una figlia che mai nessuno avrebbe più chiesto in moglie. A Maletto di queste storie se ne raccontano diverse. Una fra tante merita di essere rinarrata perché la fine è ben diversa dalle aspettative. Una ragazza viene rapita dal suo pretendente e dai complici di questo che entrano in casa dal tetto, scoperchiando “canari”. Ma lei per nulla al mondo vuole piegarsi a quell'uomo. Allora con sotterfugi lo convince a lasciarla andare a casa del padre, giusto il tempo di prendere qualche effetto personale. La ragazza racconta la verità dei fatti ai genitori e d'accordo con questi, illuminati e comprensivi, denuncia l'accaduto. Di lì a poco il maresciallo arresterà l'uomo. Per quei tempi, prima della seconda guerra mondiale, quest'atto di ribellione da parte della donna costituisce un fatto più unico che raro. Così come l'atteggiamento così aperto e lungimirante dei genitori che per una volta mettono a tacere le male lingue. La figlia si sposerà, con l'uomo che lei vorrà.
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Capitolo ottavo I briganti di Maletta a ... Maletto VIII.1 Ladri devoti I malettesi, soprattutto massarioti e braccianti lavoravano instancabilmente e dignitosamente, cercando di sollevare la propria situazione e di poter garantire un futuro migliore ai propri figli. Ma purtroppo non vi erano soltanto questi onesti lavoratori. Il Paese era stato fondato dai Briganti, quei briganti che avevano trovato rifugio presso la principessa Maletta e che continuarono durante i secoli a rifugiarsi in esso provenienti da luoghi vicini, protetti dal Santo dei Principi. Perseguiti dalla legge correvano fino a raggiungere gli scalini della Chiesa del Santo e si affidavano a Lui, chiedendo ed ottenendo riparo. A Maletto erano salvi, immuni dalla legge che regnava fuori dal piccolo borgo. I briganti sono uomini, si sposano, fanno figli e nonostante cerchino di redimersi e guadagnarsi il tozzo di pane come fa tutta la gente del luogo, l'indole permane “cu nasci tundu non ppo' moriri quadratu”. E allora? Ritornano a compiere i loro misfatti e proprio a danno di quel povero popolo che li aveva accolti e integrati considerandoli parte di sé. Non c'è più la principessa loro protettrice, non c'è più il principe, c'è e ci sarà sempre San Michele ma non è più loro benefattore. Altri lo saranno. Non possono agire senza l'appoggio dei “potenti” del luogo, delle autorità del paese, che adesso è Comune e come tale amministrato da Sindaci, notabili, figli della grande borghesia terriera. Agiranno grazie alla loro condiscendenza, grazie al loro tacito assenso. Certo qualche vantaggio lo devono trarre pure loro, ma la gente che lavora da “stilli a stilli” non lo sa, non ha tempo per curarsi di queste cose, tanto i briganti da che mondo e mondo sono sempre esistiti e sempre esisteranno. E' la legge della vita. Non si può far nulla contro questa. L'importante è continuare a sopravvivere e tirare avanti “u propriu firagnu.” E poi, i contadini hanno solo le zappe, i forconi, i tridenti, qualche mucca, pecorella...loro hanno il fucile, cavalcano mule e cavalli possenti. Perché inimicarseli? Avrebbero sempre la meglio. E allora, chiudiamo gli occhi, tappiamoci le orecchie e andiamo avanti ognuno per la nostra strada. Ma se le strade s'incrociano? Un riverente
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saluto, una levata di “birritta” e il lavoro continua. Pacifica convivenza come da secoli. E sì, perché i briganti vivono con te, in mezzo a te, sorseggiano un bicchiere di vino in tua compagnia, vengono a far la questua per le aje quando c'è da festeggiare il Santo Patrono, si prodigano quando in Paese succede qualcosa di strano, ti danno consigli, conforto se tuo marito la sera non torna dalla campagna. Sono anche tuoi compari, hai fatto cresimare ad uno di essi tuo figlio. Non possono far altro che proteggerti e a volte si sa la protezione dei briganti è più efficace di quella dei santi, loro sono uomini e sanno bene come va la vita, i santi stanno in cielo che ne sanno della povera gente? Ma anche i briganti come tutta la povera gente di Maletto qualcosa sotto i denti la devono mettere, lavorano come il contadino ma posseduti dalla bramosia, dalla smania di avere qualcosa in più. Soldi sì, ma soprattutto Potere, quel potere che ti rende capace di sottomettere i più deboli ma anche quelli che parrebbero più forti di te, quelli che hanno raggiunto una “posizione”, con il loro duro e onesto lavoro; poco importa anche il brigante vuol guadagnar una posizione di tutto rispetto. E allora lavora, lavora, anche lui da “stilli a stilli” forse anche di più, perché la notte non può riposare, ci sono pensieri che lo assillano, come organizzare il lavoro di domani, quali persone assoldare all'“opera” ( e non è quella dell'antu). Pover'uomo, nemmeno un attimo di requie. Si fa l'alba e il brigante come tutti si alza e va a lavorare, ma prima come tutti si recherà ad ascoltar la messa dell'aurora e a chieder protezione ai santi. E' profondamente religioso, cattolico, ossequiante di tutti i dogmi della Chiesa e fede cristiana. Si confessa e comunica col berretto fra le mani. Anche lui, forse più degli altri, ha bisogno di essere guardato dal cielo. Ma come lavorare in un piccolo borgo ancora feudale dove vive della misera gente che come le “beste” lavora dalla mattina alla sera per poi portare a casa, quando va bene, solo un misero pugno di frumento o spesso di segale? E allora lascia stare in pace il piccolo misero contadino e rivolge i suoi pensieri ad altri più fortunati. A Maletto ci sono i “massarioti”: i più grandi hanno tanto bestiame, tante terre, feudi presi in gabella, ci sono quelli che portano avanti importanti attività per il paese, come il mulino. Pare che sian tutti poveri ma non è così. Il brigante lo sa bene. E poi ci sono ancora gli eredi del principe Spadafora: le loro giumente chi non vorrebbe averle?
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Ecco il bottino agognato: il bestiame. Una volta rubato o meglio, fatto rubare, lo si potrà mischiare col proprio o venderlo ad amici e così guadagnare un bel gruzzoletto. Questo è solo un racconto? Non proprio: nel presente lavoro tutti i racconti sono tratti dalla realtà malettese, sono racconti di vita vissuta e narrata dagli stessi protagonisti. I più anziani, ma anche i figli di questi per sentito dire, ricordano e narrano il periodo triste che vissero a Maletto durante gli anni Venti e quelli a seguire, fino alla fine degli anni Quaranta. Ma cosa successe? Il periodo, già nefasto per gli avvenimenti storici che tutti conosciamo, fascismo, guerre, è caratterizzato in Paese da una recrudescenza di fenomeni di banditismo. Proprio negli anni Venti briganti perpetrarono a danno di quasi tutta la popolazione malettese reati di abigeato, ossia furto di bestiame. Quasi tutti i grandi massarioti, appartenenti alle famiglie dei Parrinello “Vitarelli”, alla famiglia dei Putrino “U ciociu” e altre, lo stesso barone di Maletto furono derubate del loro bestiame, mucche, mule, giumente. Si racconta che il barone, derubato delle sue giumente, incaricò il suo amministratore di compiere indagini. In un piccolo paese, si sa, tutti sanno di tutti e non fu difficile individuare i presunti colpevoli. Uno di loro fu chiamato dall'amministratore, dal “camperi” del barone. Senza fargli nulla capire, gli si chiese se per guadagnare bene fosse disposto ad andare a lavorare presso le terre del barone ad Acireale. Accettò. La sera, ultimati i lavori, i contadini trascorrevano qualche piacevole momento nelle masserie consumando il pasto e sorseggiando vino. Il lavoratore malettese fu invogliato a bere un po' di vino in più, così quando gli fu chiesto di narrare i fatti che accadevano a Maletto, questi parlò, raccontò dei furti e vennero fuori anche i nomi dei briganti. Il barone chiamò allora i carabinieri che indagarono sui fatti, i colpevoli furono trovati. Fu accusato del reato, arrestato e incarcerato Vincenzo Russo, di Bronte, noto già ai malettesi per le sue crudeltà, per i numerosi misfatti. Ma non fu il solo. Senza l'appoggio di persone del Paese non avrebbe potuto compiere simili reati. E ad appoggiarlo erano stati propri i “camperi,” gli Azzarello, non esecutori materiali ma ricettatori. L'accaduto rimase ben impresso nelle memorie dei paesani, non solo dei contemporanei ma anche delle generazioni
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successive. A fissarlo tenacemente contribuì il fatto che data, come sottolinea lo storico malettese Luca, la rilevanza sociale dell'accaduto (aveva visto coinvolto l'intero paese) gli arrestati furono condotti in giro per le vie del paese, con le catene ai polsi, affinché tutti li vedessero. Al loro passaggio tutti esclamavano indignati “Che vergona!”Ancora oggi se ne ha memoria. Come si ha memoria dell'arresto del malfattore Vincenzo Russo. I carabinieri si recarono nella sua casa per arrestarlo ma trovarono i suoi congiunti che lo piangevano come morto. Egli infatti giaceva sul letto senza dar segni di vita, ma la “legge” non dimostrò alcuna pietà (ricordiamo che furono questi gli anni in cui il prefetto Mori mise in atto la dura repressione nei confronti del brigantaggio e della mafia); i carabinieri prelevarono il morto e per accertare le cause dell'avvenuto decesso ne ordinarono l'autopsia. Il Russo cominciando a sentire i ferri sul suo corpo si svegliò. Miracolo? Per cercar di fregare ancora una volta la legge aveva ingurgitato qualche intruglio simulando così la morte. Il Russo era stato sospettato anche dell'omicidio di uno degli appartenenti alla famiglia dei “Vitarelli”, famiglia che aveva in gabella numerose terre appartenenti alla Ducea Nelson e che quindi era considerata benestante. I parenti sospettarono dell'omicidio del congiunto Russo, ma ovviamente nessuno osò parlare e denunziare; il brigante era molto temuto. I “vitarelli” erano state vittime anche loro del furto di bestiame: uno dei figli aveva fin dall'inizio creduto colpevole del reato il brontese e pare si fosse ripromesso di vendicare il furto personalmente. Ma le voci in un piccolo Paese corrono, le frasi anche mormorate o dette in un momento di rabbia non rimangono inascoltate. Mentre il Parrinello ritornava da pagare la gabella di “Pietra Longa” agli amministratori della Ducea Nelson, venne ammazzato sulla sua bestia, al Casello di Mangiasarde.
VIII.2 Quel barbaro assassinio Nuovi fenomeni di banditismo riprendono a manifestarsi durante e dopo la fine della seconda guerra mondiale. A Maletto diventano frequenti i sequestri di persone, le
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estorsioni messi in atto da vere e proprie bande organizzate, a danno dei possidenti locali.109 Ancora oggi ricordano le persone anziane questi episodi e li narrano con dolore e rabbia, la rabbia di chi non ha osato ribellarsi, di chi non ha osato parlare pur sapendo. Ma erano anni veramente difficili, anni in cui chi parlava non era protetto dalla legge, dallo Stato, e rischiava la vita propria e quella dei familiari. Un episodio ancora vivo nella memoria dei malettesi, raccontato con dovizia di particolari anche da quelli che erano appena nati, tramandato da padre in figlio ad ammonimento e insegnamento, fu quello relativo al sequestro a scopo di estorsione di Saro Sgrò. Cerchiamo ancora una volta di seguire gli avvenimenti narrati dai nostri uomini memoria; uno di loro è proprio il figlio di questi, l'avvocato e professore Salvatore Sgrò. Ma chi era Saro Sgrò? Membro di una famiglia malettese che da oltre novantanni possedeva in gabella feudi appartenenti al Duca di Nelson: il Flascio, San Domenico, Bolo, l'Edera e altri. La sorella Nunziatina Sgrò aveva acquistato dalla famiglia Putrino, da Donna Maricchia, il diritto a riscuotere i
<<censi>>
di Maletto. Il padre era
il factotum di questa importante famiglia di Maletto. Avevano nel 1924, in seguito alla crisi in cui erano incorsi i proprietari Bonaccorsi, rilevato il mulino del paese insieme al signor Vincenzo Grassia, sito di fronte alla Chiesa Madre. Saro Sgrò all'epoca ha 16 anni e aiuta il padre nella gestione del mulino e dei feudi in gabella. Nel 1940 sarà lui, insieme ai fratelli Grassia, a fondare una società con i signori Mazzaglia e Burrello di Bronte, proprietari dell'altro mulino di Maletto. Il mulino era divenuto punto di riferimento non solo per i malettesi ma anche per i contadini di Maniace, Tortorici, Bronte e Adrano, dato che i mulini presenti in tali zone non funzionavano bene. Dunque, col duro e onesto lavoro gli Sgrò erano riusciti ad assicurarsi la tanto 109Salvo Nibali, Giorgio M. Luca, Memorie storiche.Maletto, op.cit.,pag.84
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sudata tranquillità economica e non “cu sangu rri puvirelli” come avevano fatto tanti altri. I nonni malettesi ricordano la generosità di tale famiglia e di Saro in particolar modo. Durante il fascismo e la seconda guerra mondiale vigeva l'obbligo dell'ammasso, il grano che veniva macinato veniva rigidamente controllato e parte di esso doveva essere accantonata. Numerose famiglie di Maletto e non solo si vennero a trovare in difficoltà: gli Sgrò più volte vennero loro incontro, dando di nascosto quel po' di frumento che garantisse a quei poveri disgraziati, spesso mogli rimaste senza il marito partito in guerra e col compito di sfamare numerosi figli, di sopravvivere. Ma purtroppo alla tranquillità economica non faceva riscontro quella familiare, diverse volte minacciata dai malfattori. Fin da piccolo Saro era stato adocchiato dai malviventi che lo avevano sequestrato solo all'età di undici anni, mentre col padre ritornava dal feudo Flascio. Fortunatamente, quella volta, ricorda il figlio, professore Salvatore, venne rilasciato senza pagare riscatto e grazie alla famiglia Fiorentino di Randazzo, imparentata con la famiglia Putrino, che si prodigò per il rilascio. Al padre diverse volte era stata fatta richiesta di denaro: delinquenti come il “Mangiaterra” e il “Muffa” erano andati negli anni Venti a minacciare di mitragliare il gregge degli Sgrò se questi non avessero pagato la somma di trecentomila lire. Ma a chiedere denaro non sono solo briganti. Racconta il figlio che una volta, era il giorno di Natale, si trovava col padre al bar Bonina, ed ecco avvicinarsi a loro il sindaco allora in carica. Questi, dopo lo scambio di auguri e di altri convenevoli, chiede a Saro:
<<staju
ricugghiendu pa' banda ri Turi
Giulianu! Tu chi ta passi bbonu c'accossa mi ra ddari!>>. Il padre rispose col netto rifiuto, e allora si sentì rispondere: <<ricodditi chi c'ha un figghiu!>>. Sempre il sindaco aveva chiesto una grossa somma di denaro in prestito allo Sgrò per ultimare la sua grande casa, gli fu data, ma non sarà mai restituita. Un giorno del '46 Saro Sgrò cavalcando la sua mula in compagnia di un suo fedele contadino, stava rientrando in paese: giunti in prossimità di esso, vengono fermati da persone col viso coperto. Saro viene violentemente strappato alla sua
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“besta” e caricato su quella di uno dei malfattori; il contadino picchiato e intimato a non parlare. Dopo pochi giorni alla famiglia giunge la prima richiesta di ricatto. Non pagano. Ma i giorni passano e Saro non viene rilasciato. Intanto a casa Sgrò un via vai di persone, amici, il sindaco, il compare “Maru Spiritu” che cerca di rassicurarli. I familiari sospettano che siano stati brontesi e adraniti i colpevoli del sequestro e inviano loro fedeli a investigare tra i delinquenti di Bronte, liberati in seguito all'amnistia. Questi rispondono di non sapere nulla e di cercare a Maletto tra persone mai sospettate. Passano due anni, di inimmaginabile angoscia per i familiari, e il corpo morto di Saro viene ritrovato in una grotta del bosco di Maletto.
Le indagini a quel punto diventano sempre più serrate e gli assassini vengono scoperti. Persone del Paese, tre, non sospettate dalla legge ma da sempre sospettate dai malettesi come colpevoli di questo e di altri sequestri di persone che avevano continuato a perpetrare durante gli anni di sequestro dello Sgrò. Infatti, altre persone
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tra cui “'Ntunicchiu”, altro proprietario terriero, erano state vittime di questi briganti che avevano messo su una vera e propria banda organizzata; si dice che uno di essi volesse raggiungere Salvatore Giuliano. “Ntunicchiu” era stato fortunato. Rinchiuso in una grotta del bosco, un giorno sentì il vocio intorno ad essa di persone randazzesi che raccoglievano “a firicia”. Capì subito che le voci erano ben diverse da quelle dei suoi rapinatori: si mise a invocare aiuto. I randazzesi rimasero spaventati al grido proveniente dalla grotta e prima di liberarlo, temendo le ripercussioni da parte dei malfattori si fecero promettere dal rapito che non avrebbe detto nulla sull'aiuto ricevuto. Riuscì a ricongiungersi alla famiglia e sul fatto piombò il silenzio. Un giorno si trovava presso la sartoria di Maletto insieme ad altri paesani. Uno di loro vedendolo disse:
<<ma
allura cumpa', comm'eruni chisti?>>.
<<Mma
chi cc'haja 'ddiri, si non
pigghiu sbagghiu 'u purtamentu e 'u vistimentu erunu commi chilli ri vossia!>> L'interlocutore rimase freddato, testimoniano i presenti. Era stato proprio lui a rapirlo. Tutti sapevano ma tutti tacevano. Quando più volte si chiede il perché di tale silenzio, di tale omertà, con gli occhi pieni di pianto si sente rispondere:
<<ma
che dovevamo
fare! Quello era armato, noi poverelli non potevamo mettere a repentaglio la nostra vita e quella dei nostri famigliari>>. Infatti, tutti ricordano la persona colpevole insieme ad altri di questi reati e così la descrivono, con tanto disprezzo in bocca: <<autu,
'mpustatu, superbiu, malandrinu, a cavallu ra so mura chi pariva addestrata!
Quandu passava illu lassava nill'aria puvirazzu pi 'na pari ri metri, nenti si viria!>>. Tutti sapevano, a dire del figlio e non solo, anche le principali autorità del paese, con le quali il brigante intratteneva intimi rapporti. Ma nessuno parlava! E intanto, mentre ancora non si sapeva la sorte di Saro, la vita in paese continuava. Venne la tradizionale festa di Sant'Antonio, il patrono dei malettesi. Il sindaco diede l'onore e l'onere dell'appalto della festa proprio alla persona che si sarebbe scoperta colpevole del reato infame. Serenamente e altezzosamente andava girando per l'aie a chiedere frumento per il suo amato Santo. E andava a recar conforto anche alla famiglia, a cui era legato da un vincolo di comparanza. Che dire? Il silenzio in questo caso è d'obbligo, è rispetto per la persona che pagò con la vita e per i familiari che si videro strappato un bene più prezioso di tutto l'oro del mondo.
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Loro, disperati, la seconda volta avevano pagato per il dissequestro, seicentomila lire (Saro al momento del rapimento aveva in tasca duecentomila lire) ma a nulla era valso se non a mandare in rovina anche le attività economiche della famiglia. Saro giaceva in una grotta da ben due anni, da ben due anni giaceva morto. Era stato ammazzato il giorno seguente il sequestro. Ad uno dei malfattori era caduto il cappuccio con cui aveva coperto il viso. Non si poteva fare altrimenti, decise il capo. Doveva morire perché aveva riconosciuto l'uomo. E gli spararono non una sola volta ma diverse. Tutti i presenti furono costretti a sparargli, anche il più giovane di essi che in un primo momento vedendolo già morto si era rifiutato. Ma quella era una legge che doveva essere ossequiata. E lo fu. Il corpo venne finalmente ritrovato, deteriorato e decomposto. Accanto alle ossa venne ritrovata una medaglietta col la foto della mamma di Saro. Non si potevano nutrire più dubbi. Finalmente la giustizia cominciò a correre. Diverse persone, innocenti, furono picchiate per cercar loro di strappare qualche informazione... silenzio. Ma prima o poi c'è qualcuno che si tradisce con le proprie parole e fu così che il primo venne arrestato mentre rientrava a Maletto dopo aver onorato, da buon devoto, con la sua presenza la festa della Madonna Annunziata di Bronte. Disse di far ritorno dalla casa della madre. La poveretta, sentita dai carabinieri poco prima, aveva rivelato nella sua innocenza che quel figlio non lo vedeva da due anni. Picchiato rivelò i nomi dei complici che vennero presto prelevati dalle loro case dove avevano condotto una vita serena e regolare, addirittura avevano avuto il coraggio di sposarsi, tenendo all'oscuro di tutto la moglie? non si sa! E di mettere al mondo figli. Uno di loro venne sorpreso in casa da carabinieri che per non destar sospetto si erano camuffati da spazzini ed erano intenti a ripulire le strade della via Fiorini, sita proprio in prossimità della sua casa. Aspettarono pazientemente il ritorno di questi dalla campagna, poi entrarono e lo arrestarono. Appesa ad un chiodo trovarono la giacca del povero Saro. Il capo della banda giocava a carte comodamente seduto al Bar Bonina con il sindaco, quando il maresciallo lo arrestò. Mentre lo ammanettavano supplice verso
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l'amico gridò:<< Sindicu, suru tu mi po' aiutari!>> e quello:<< nenti pozzu fari, un omicidio facisti!>> Pagarono quasi tutti con l'ergastolo; dopo la galera solo uno di loro continuò a vivere a Maletto, gli altri emigrarono ma morirono comunque soli e abbandonati anche dagli intimi. “Cu mmari fa, mmari ricivi”. Dura legge della vita!
VIII.3 La storia del carrettiere e della moglie La festa di Sant'Antonio si era da poco conclusa. Un carrettiere con la propria moglie venuti a Maletto da Randazzo per vendere nei giorni di festa un po' di calia (nucilli, ciciri, simenza), sistemata la mercanzia sul carretto presero la strada del ritorno. Lasciato alle loro spalle il Paese, nella zona di “Tartaraci” vennero fermati da una banda di malfattori. L'uomo venne legato e la donna rapita, portata in una grotta. Dopo tempo e dopo chissà quali violenze subite, la donna venne rilasciata. Iniziano le indagini alla ricerca dei sequestratori. Gli anziani, memori anche dei particolari, raccontano le modalità seguite dai carabinieri per smascherare e far riconoscere alla donna i suoi aguzzini. Le fu chiesto di indossare abiti maschili e in compagnia di carabinieri in borghese salì a Maletto. Era giorno di riposo, domenica, gli uomini passeggiavano per la piazza. Anche loro, “uomini” come gli altri, cominciarono a salire e scendere per la piazza, non destando sospetti. Alla donna fu chiesto di osservare attentamente i “chiazzaroti” del paese che via via s'incrociavano. Qualora ne avesse riconosciuto qualcuno avrebbe dovuto dare una spallata al carabiniere al suo fianco. Fu così che la donna riconobbe il primo sequestratore: venne fermato. A lui i carabinieri intimarono di indicare i suoi complici che serenamente passeggiavano in piazza e si vantavano con gli amici della prodezza compiuta. Anche questi furono arrestati e condotti in prigione. Nelle allora dure carceri, dove si racconta che per bere i delinquenti imploravano che qualche goccia, durante le lunghe piogge, venisse giù dal tetto malconcio, non fecero una bella fine: uno di loro perse una gamba, ad uno venne una paralisi in bocca che gli storse il muso, un altro addirittura vi morì. Punizione divina? “Cu mmari fa, mmari ricivi”! Saggezza popolare.
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Capitolo nono Le guerre dei contadini Gli abitanti del Paese assistevano inerti più che mai a quei giuochi di fuoco che stavolta non festeggiavan nessun Santo. Lacrime di fuoco cadevano sulle loro case, sulle loro campagne, sulle loro vite. Distruggendole! IX.1 Lacrime di fuoco dal cielo: Agosto 1943 “Nella zona interna dell’Etna operava il gruppo Schmalz, costituito dal 115° Rgt. della 15° Divisione Panzergrenadier (Gen. Rodt che pose comando presso il Castello Nelson a Maniace) e dal 15° Battaglione Fanteria e due batterie della Divisione H. Goering (Gen.Conrath). Ritirandosi da Adrano-Bronte i tedeschi della 15° Divisione Panzer Granadier – 115° Rgt. occupano Maletto il 5/6 agosto, con l’entrata di mezzi corazzati (circa dieci carri armati Tigre) scendendo dalla strada del Serro. Entrano nel paese, il Brigadiere dei Carabinieri Rosati cerca di fermarli ma rischia di venire ucciso. Attraversano la Via Umberto, provocando danni alla pavimentazione stradale; si fermano alla fontana Schiccio e, quindi si dispongono lungo la costa, attuale Via Foscolo. Il comando viene stabilito nella Casa del Dott. Saitta (ove riparano un orologio a muro) e, altro, nella casa Schilirò Mariano. Altre truppe tedesche si accampano al Lago, ove atterra anche un piccolo aereo “Cicogna” con un generale. I ricognitori americani, visti i carri armati, il 7 agosto, alle ore 11,30 circa, bombardano (aerei Kama a due fusoliere) la zona del Paese vicino al luogo ove erano i carri armati, che nel frattempo erano defluiti lungo la strada interna Agnelleria, in direzione del Bosco e di Randazzo. Viene colpita la zona del “Canale”, Via Corso D’Acqua, S. Croce, Mauro, Elena, Roma, Umberto etc. Vengono distrutte 20 case e numerose altre danneggiate, si hanno 4 morti”.110 Tra essi vi sarà quel signor “Cavallaro” venuto con la famiglia da Catania per sfuggire propri ai bombardamenti, convinto di poter trovare sicuro rifugio sull'Etna, a Maletto. Così non sarà. La morte lo cercherà e raggiungerà. Tragico destino. Dal 9 all'11 agosto continua a piovere fuoco. La popolazione è costretta a sfollare 110Giorgio M. Luca, Sbarco Anglo-Americano in Sicilia, 10 luglio-17 agosto 1943,s.e. Maletto, 11 febbraio 2004, pag.1
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e andar per le campagne, nel bosco e nelle grotte. Il paese resta deserto, preda dei “briganti” che stavolta non sono quelli della principessa, non sono quelli del paese, ma i tedeschi che violano l'intimità misera dei malettesi, rubando anche quel poco a loro molto caro. Compiono numerose razzie e requisizioni di animali e di generi alimentari; sequestrano alcuni civili, sia in paese che nelle campagna per costringerli ad effettuare lavori o trasporti. Il giovane Leanza racconta di essere stato costretto a trasportare nei campi dei tedeschi litri e litri di acqua e non solo. Gli viene intimato di caricare sulla sua “besta” una mitragliatrice che dovrà portare, seguendo i tedeschi, fino a Messina. Durante il viaggio un'incursione ferma tutto, lui riesce con un coltello a tagliare la corda che tiene legata la mitragliatrice e a scappare. E intanto, mitragliamenti aerei sul paese e le campagne sembrano non aver mai fine. Dalle grotte del bosco e dalle “cassotte” di campagna ogni tanto sbuca qualche testolina, guarda il cielo, poi rientra. Le famiglie, soprattutto le madri, cercano di dare una parvenza di normalità a quei duri giorni, di farli vivere il più serenamente possibile ai piccoli. Ma ora più che mai i piccoli sono costretti a diventar grandi. C'è d'andar a prendere l'acqua in paese. Il bimbo di nove anni, veloce, afferra il bidone e corre a Maletto, lo riempie alla fontana “ru schicciu” e via, corre nuovamente, stavolta con dieci chili in più sulle spalle, verso il rifugio. Manca la farina per preparare un po' di pasta. La stessa cosa, a prenderla a casa o da una parente sarà sempre lo stesso bimbo. Già uomo. Le madri preparano la pasta fresca; non ci son tavoli ma la sella dell'asino girata dalla parte meno sporca e rivestita con tovaglia li sostituisce. Si va avanti, e ogni volta che si ode il frastuono di bombe e di mitragliatrici il cuore vien meno. Una madre si è affacciata un attimo a guardare il cielo e il suo paese. In direzione della sua abitazione vede fuoco: quel puntino che brucia è proprio la sua casa, misera si, ma pur sempre la sua. Rientra soffrendo silenziosamente. In paese la guerra continua. La strada che collega Bronte a Randazzo è diventata “la strada della morte” (Todesstrasse), come la definisce il Gen. Rodt, comandante della 15° Divisione Panzergrenadier.
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“Nel frattempo, la 78° Divisione inglese, (Gen. Evelegh, giunta in Sicilia il 27/7/1943) provenendo da Centuripe e Adrano, conquistata Bronte, l’8 e il 9 agosto, pone il comando presso la Villa del Notaio Radice (Casa Rossa) ed inizia un violento tiro di artiglieria in direzione della zone e del bosco di Maletto”.111 Ma i tedeschi ormai non ci sono più, sono andati avanti. Ad essere rimasti sono i civili, sfollati in contrada Dagalalatte. Schegge impazzite raggiungeranno ragazzi, e non solo, ferendoli mortalmente: un ragazzino di soli 13 anni, il capostazione Calì e la figlia non ancora trentenne, tanto cari a quella “maestrina” che da Randazzo arrivava con la littorina a Maletto alle 5 del mattino e che il capostazione e la famiglia ospitavano nella propria casa in attesa dell'inizio della lezione, muoiono colpiti dall'ennesima scheggia. Bisogna fermare questo massacro, raggiungere gli inglesi di stanza a Bronte. Russo Nunzio attraversa le linee e si reca presso il comando inglese; con le poche parole straniere conosciute durante il suo soggiorno da emigrato in America, poche ma “vitali”, fa capire che i tedeschi si sono già ritirati e che i colpi cadono sui civili. “L’artiglieria inglese allunga il tiro e manda i primi esploratori a Maletto, l’11 agosto.” 112Nel Paese sono rimasti pochi tedeschi, il grosso delle truppe si è già ritirato nella stessa nottata. Uno di essi, all’ingresso del paese, uccide tre esploratori inglesi, rimane ucciso pure lui. Un altro muore vicino alla Chiesa Madre contemporaneamente ad un inglese. Anche il
<<Castello>>sarà
teatro di guerra: due tedeschi, arroccati fra le
rovine sveve-aragonesi, sparano con mitragliatrici ritardando l'avanzata delle truppe alleate. Dietro indicazione di qualche abitante vengono colpiti da tiratori scelti appostati sul palazzo del comune e scaraventati giù dalla rupe. Un altro tedesco, comodamente sdraiato sul letto di una casa all'inizio del paese a leggere il giornale, viene sorpreso dalla morte. Il padre della fanciulla malettese violentata dal soldato ha saputo dove questi alloggia, lo raggiunge e con un coltello e con un colpo deciso oltrepassa il giornale ferendolo a morte. Ma ancora una volta cadono non solo soldati ma uomini e bambini del paese, come la piccola Di Mauro Agatina che ha soli 21 111Ivi, pag.2 112Ivi, pag.2
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mesi. E' il 12 agosto quando in piena notte, sono le 2.30, prende il via un bombardamento infernale, che dura così fino alle 4.00, quindi si fa più mite fino alle 7.00. Alle 15,30 arrivano 70 paracadutisti americani (secondo il racconto di alcuni sono inglesi) che occupano il paese. Ad andare incontro a loro l'unica autorità rimasta, il Parroco Sac. Antonino Schilirò.113 Il Commissario Prefettizio, notaio Antonino Luca, in quel momento era ancora sfollato. “Il 13 agosto affluisce il grosso della 78° Divisione, che lo stesso giorno occupa Randazzo, congiungendosi con la 9° Divisione Americana. Stabilisce il proprio accampamento militare nella contrada Lago e il comando militare nella casa Leanza, in Via Matrice. Il comando AMGOT viene posto nella casa di Saitta Vincenzo, in Via Umberto.” 114
A fare da interprete tra gli inglesi e il popolo malettese ancora una volta un uomo
che ha trascorso un paio di anni in America per motivi di lavoro, il signor Fiammetta, catanese sposato con donna del paese. Intanto, su segnalazione di Parrinello (Prazzitello) vengono individuati e catturati alcuni esponenti del fascismo locale: saranno deportati nel campo di concentramento di Priolo. Bonina Francesco Paolo, il notaio Antonino Luca, il farmacista Zappalà Salvatore e figlio Vincenzo, Lauria Nunziato, Minissale Antonino. Padri e fratelli percorreranno con la bicicletta la lunga strada da Maletto fino a Priolo per andar a vedere i loro familiari prigionieri. “Dal mese di settembre viene nominato dall’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories) Sindaco, il Prof. Vincenzo Putrino, che era già stato commissario prefettizio e che lo ridiventa dal mese di dicembre 1943 al maggio 1944, sotto l’autorità italiana. L’A.M.G.OT. cesserà la sua attività l’11/2/1944, trasferendo le competenze al governo italiano.”115 La guerra è cessata. Si fa ritorno in paese, abbandonando stavolta le grotte e le 113G. M. Luca, Un uomo di cultura malettese: Sac. Antonino Schilirò, Associazione Prometeo Maletto, Maletto 1996, pag.128 114G. M. Luca, Sbarco Anglo-Americano 10 luglio-17 agosto, op.cit., pag.2 115Ivi, pag.2
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campagne che hanno dato rifugio. Torni a casa, hai salva la vita, ma devi ricominciare da capo. Quella casa che hai visto da lontano bruciare non c'è più. Dove dormire, abitare? Qualche parente ospiterà te e la tua numerosa famiglia... solo per qualche giorno. Le case son troppo piccole, i figli tanti. Trovi un'altra casa, che magari qualcuno morto ha abbandonato da un bel po'. E rimboccate le maniche ti metti a sgombrarla dai topi, dalle cimici, dalle pulci. Intanto una casa ce l'hai e stavolta devi veramente ringraziare il cielo e i santi. E' una sistemazione provvisoria: col duro lavoro di sempre metti da parte qualche lira per ricostruire quella casa che sempre il cielo, con lacrime di fuoco, ti ha distrutto. Commi vori Ddiu! La vita continua, anche se più dura di prima. I malettesi sono abituati a vivere e a sopravvivere a carestie, siccità, epidemie, guerre. Supereranno anche questo momento. Fra poco torneranno gli uomini, non tutti, dalla guerra e si ricomincerà a lavorare duro per ricostruire e a sperare in un futuro migliore. Le donne e i giovanotti vogliono continuare a nutrire fiducia nella vita. Si sposeranno e nasceranno figli. Fa sorridere in questo clima di tragedia il racconto di un'anziana donna. Dopo aver atteso per anni il rientro del fidanzato dalla guerra, ecco che avvenuto si prepara alle nozze. Ma non ha l'abito nuziale. Pensa, industriosamente, di realizzarlo da sè. Con che cosa? Proprio con un paracadute degli americani caduto nelle vicinanze delle campagne del padre. Si mette al lavoro e con quella che ai suoi occhi è “pura seta” realizza l'abito. Fiera lo indosserà il fatidico giorno, poi lo presterà ad un'altra donna del parentado che così farà la sua bella figura. Ormai i tedeschi, gli inglesi, solo brutti ricordi da debellare. Ma a volte ritornano. Il territorio di Maletto rimane pieno di armi, mine e bombe inesplose, ordigni bellici vari che continueranno a causare lutti. Altri sei civili moriranno per scoppio di residuati bellici. Tra questi anche un ragazzino, Putrino Luigi, nato proprio all'indomani dei bombardamenti, nel 1944. Pascola il gregge insieme ad un compagno sul “Pizzo”, quando viene attratto da una mina, la prende e comincia con una pietra a lavorarla, ne vorrebbe ricavare una tazza. Ma questa esplode e riduce a pezzetti il suo corpo da fanciullo. Il compagno al
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momento è un po' distante, non morirà ma perderà una gamba. I contadini che lavoravano le terre dall'altra parte del paese raccontano di aver udito il boato e, alzati gli occhi, di aver visto il fuoco. Lanciano l'allarme, accorrono in tanti ma purtroppo c'è poco da fare. La terra di Maletto custodirà testimonianze di quei terribili giorni fino a tempi recenti. Vari ordigni bellici non esplosi sono stati ritrovati nelle campagne: uno ancora nel 2010, a Santa Venera, mentre il proprietario del terreno procedeva all'escavazione di questo per fabbricare la sua casa. IX.2 I contadini apron gli occhi “Il secondo dopoguerra è caratterizzato da una crisi generale, dalla creazione delle amministrazioni comunali e dall'inizio del dibattito politico e sindacale; insomma dalla prima formazione di una coscienza sociale che avrà il suo punto culminante nella Riforma fondiaria del 1950 e nelle occupazioni delle terre del latifondo Nelson che a varie riprese si susseguirono dal 1947 al 1954. Una prima fase di lotte contadine ricade negli anni dal 1947 al 1950 e mira all'applicazione del decreto Gullo sulla ripartizione equa dei prodotti, sull'assegnazione delle terre incolte ai contadini e sulla riduzione dei canoni d'affitto.”116 Grandi estensioni di terre, appartenenti al Duca Nelson, dal '47 al '56 vengono occupate dai braccianti che per secoli erano stati legati al grande feudo, il più grande della Sicilia del '900, in uno stato di anacronistico servilismo della gleba. Stavolta i braccianti non sono sulle terre per lavorarle, stavolta sono lì, fermamente decisi ad appropriarsene. Ora sanno che è un loro diritto e stanno lottando per questo, per veder rispettata la legge, quella legge italiana da poco affermata con la Costituzione. Nel 1948 i braccianti di Maletto ma anche di Bronte, Randazzo, Cesarò, Tortorici si organizzano in cooperative e chiedono al Duca di aver assegnati quei 24 feudi che abbisognano, secondo loro, di migliorie colturali. Ma il duca non ne vuol sapere. Il feudo batte bandiera inglese, è proprietà 116Salvo Nibali, Giorgio M. Luca, Maletto.Memorie storiche, Catania 1983, pag.84
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britannica, su di esso possono avere forza e autorità leggi di diritto internazionale e non provvedimenti italiani. E intanto i contadini, i braccianti malettesi sono riuniti nella sede della Federterra, sindacato fondato e portato avanti con estrema tenacia da Salvatore Schilirò, loro paesano. Figlio di fabbro ferraio, il padre suona l'organo in chiesa, la famiglia cristiana e democristiana per tradizione. Ma lui nonostante il disaccordo familiare, solo, vuol mettersi dalla parte dei suoi contadini, sa che sono soprattutto loro a versare in condizioni di estrema miseria, li ha visti, vive in mezzo a loro, li conosce bene. Non sopporta i soprusi che sono costretti a subire. E lavora, lavora e studia da autodidatta, per cercar di capire come meglio organizzarli e portarli alla vittoria nei confronti del Duca. Un uomo votato al sapere, alla conoscenza, quella conoscenza che si alimenta di rapporti umani, di scambi reciproci, fondata sulla realtà delle cose, della vita. Lui che ha conosciuto e guidato Carlo Levi per quei luoghi della Ducea, non il Castello inglese ma i bassifondi dei contadini brontesi, malettesi, maniacioti e insieme ai sindacalisti di Adrano, Randazzo, Bronte, Cesarò, Tortorici, riesce ad “aprir gli occhi” a quei miseri braccianti che per secoli, dall'età del principe, non hanno fatto altro che tenerli abbassati a zappare, a lavorar la terra, quella di sua Maestà. Sarà lui a patire per quella causa otto mesi di duro carcere che lo segneranno indelebilmente, gli precluderanno anche la possibilità di diventare sindaco di quel paese per cui aveva fatto tanto ma, la sua fedina penale è macchiata, ha commesso un grave reato, quello di lottare per le cose in cui credeva fermamente, per i contadini di Maletto. “Si meritava la medaglia d'oro, ha aperto gli occhi dei malettesi. Fu lui ad avere a cuore il problema dei contadini, non suo. È stato lui ad organizzare il primo sindacato; era nel fare comizi “forte”, (abile) come pochi allora. Tutti, uomini e donne quando parlava in piazza non avremmo mai smesso di ascoltarlo. Condividevamo quello che diceva. “Patiu lli peni” come capo del sindacato, non è stato riconosciuto dai malettesi “cu ha fatto bbeni, sempri mari ha ricivuto”. Oggi solo una piccola piazza intitolata a lui, ma sono in molti, ancora, a non sapere chi sia stato e che cosa ha fatto. Ecco come viene ricordato Salvatore Schilirò da un bracciante che in quegli anni Cinquanta partecipa alle lotte, all'occupazione delle terre della Ducea e mostra oggi
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con fierezza e orgoglio le decine di tessere d'iscrizione al sindacato. Salvatore Schilirò “capo” del sindacato, attorno e accanto a lui altri malettesi: Salvatore Spada, Spampinato, Garofaro. Furono questi uomini di Maletto inseme ad altri sindacalisti di Bronte, Adrano, Cesarò, Maniace, Randazzo ad organizzare i braccianti, a renderli consapevoli dei loro diritti, a gridare insieme a loro: <<la terra a chi la lavora!>>. Luogo di riunione, oltre alle piazze e alla sede del sindacato di Maletto e degli altri paesi, la “fontana di santa Venera”; proprio da quel punto aveva inizio la Ducea Nelson. Il bracciante narratore ricorda come l'avvocato Castiglione di Bronte, in occasione di quegli incontri, portasse una botte di vino, offrendolo ai contadini. In centinaia seduti ad ascoltare le parole dei politici. Fu deciso. Le terre andavano occupate. Di notte i braccianti andavano nel feudo di Pietra Longa, dell'Edera, feudi dati in gabella e tracciavano i confini, “i limmiti”, spartendoseli tra di loro. Spesso arrivava la polizia, i contadini abusivi sorpresi sulle terre del Duca portati a Maniace, luogo di smistamento, poi in carcere. Arriva la Riforma agraria nel 1950 ma già poco prima il “furbo inglese” ha venduto gran parte del suo feudo ai contadini, costretti ad indebitarsi fino al collo per acquistare. Le terre furono vendute a prezzo d'usura, a credito, previo pagamento della prima rata; per pagare i contadini vendettero le vacche, le masserizie e tutto quel poco che possedevano. Costretti a comprare a credito le sementi, a raccolto avvenuto dovevano cederlo interamente per saldare il debito precedente. Fu così per tanti anni117. “…ma gli atti di vendita, operati dalla ditta Nelson e diretti alla formazione della piccola proprietà contadina, vennero subito contestati da ogni dove..sia perché stipulati in buona parte dopo il termine ultimo del 27 dicembre 1950 stabilito dalla legge siciliana di riforma, e quindi ritenuti illegali e non validi, sia perché non si intendeva avallare un sistema che, riducendo a poco a poco, con simili vendite, il quantitativo della superficie scorporabile, avrebbe vanificato la legge di Riforma e i suoi piani di conferimento, o, di scorporo.”118 117Cfr. I luoghi della Ducea di Nelson, a cura di Antonio Petronaci, Michele Pantaleone, Come le terre dei Nelson ritornano ai contadini, pag.144 118Padre Nunzio Galati, Maniace. L'ex Ducea di Nelson, Giuseppe Maimone Editore, Catania, 1988, pag.91
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Accadde così, come scrisse Carlo Levi, che “i nuovi proprietari si trovarono indebitati da un lato e dall'altro insicuri proprietari di una terra acquistata dopo i termini legali, soggetta pertanto ad essere ancora espropriata e data ad altri.”119 Ne derivò uno stato di tensione fra piccoli proprietari da una parte e gli altri coloni del feudo e i braccianti poveri di Maletto, Randazzo e Bronte, tra il Duca e l'ispettorato agrario regionale. Risultato: lo scorporo venne fermato e fino al 1956 la situazione rimase immutata. La domenica pomeriggio del 4 marzo del 1956, Pezzino, Ovazza, Miccichè, onorevoli del PCI tennero comizi nelle piazze di Bronte, Maletto, Randazzo.120 “Essi portavano alle masse bracciantili ed operaie la notizia dell'avvenuta approvazione, da parte della prima Commissione legislativa della Regione Siciliana, del disegno di legge riguardante l'esproprio delle terre della Ducea e la invalidazione di quegli atti di vendita da essa illegalmente compiuti. Incitavano il loro pubblico a dar luogo a grandi manifestazioni di consenso per l'operato della Commissione legislativa.”121
Il giorno seguente, pertanto, la mattina del cinque, le sinistre scesero, nuovamente sulle piazze. Da Bronte, Randazzo e Maletto gruppi di manifestanti, radunati sotto la guida di Lamicela (comunista), Quaceci (dirigente sindacale) e Castiglione (socialista), marciarono alla volta del castello di Nelson, dove ad attenderli 119Carlo Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino, 2010, pag.83 120Padre Nunzio Galati, op.cit., pagg.92-93 121Ivi, pagg.93-94
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vi erano i contadini di Maniace e di Tortorici.122
Al casello di Mangiasarde si unirono i randazzesi. Più di tremila, uomini, donne, bambini, inscenarono l'occupazione simbolica del feudo; ad un angolo di esso piantarono il tricolore italiano. Ad attenderli le forze dell'ordine con fucili spianati e colpi intimidatori. Ma i contadini fermi e decisi non desistettero. “Per oltre cinque anni, dopo l'entrata in vigore della legge di riforma del 1950, il duca straniero era riuscito a calpestare la legge e a tenersi il feudo. Si era giovato dei cavilli frapposti dai suoi ben pagati avvocati e di una catena di complicità politiche locali e regionali. Solo la lotta di massa riuscì finalmente a spezzare quella catena”123. A sollevarsi ora è lo stesso contadino che per secoli ha curvato la schiena zappando le terre di principi, marchesi, duchi, ha pagato con remissività decime e balzelli, “ha tremato davanti ai padroni e ai campieri, si è inginocchiato davanti al prete, ha implorato bottegai e mastri di fargli credito”124. Proprio quel contadino “servo 122Franco Pezzino, Il lavoro e la lotta. Operai e contadini nella Sicilia degli anni 40 e 50.C.U.E.C.M, Catania, 1987, pag.63 123Ivi, pag.272 124Cfr. Salvo Torre, Era come un diavolo che camminava. Agitatori sindacali e dirigenti contadini nelle campagne
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della gleba” ha generato l'altro. “...sotto l'apparente mitezza, la tranquillità, il rispetto non poteva non nascondersi l'affilato disprezzo, il bruciante rancore, la feroce rivolta...”125 D'ora in poi, quel contadino non “andrà più al castello per baciare la mano a lord Bridport.” Ecco come Franco Pezzino, segretario allora della Federazione catanese del PCI, poi deputato alla Camera, racconta quel giorno vissuto da lui insieme ai contadini e alla sua inseparabile Leica: “Poco prima dell'alba del 5 marzo 1956, così come avviene ogni mattina ... i cittadini di Bronte, Maletto e Randazzo si preparavano ad una manifestazione sulle terre del duca ... Nel chiarore incerto dell'alba, nel quale, spente ormai le poche lampade dell'illuminazione stradale, cominciavano ad affiorare dall'ombra i profili delle case, mentre il sole non era ancora apparso sull'orizzonte, un intenso scalpiccio si avvertiva nei vicoli e nei cortili di Bronte, e poi nelle vie del centro, sulla piazza dell'Annunziata strada provinciale che conduce a Maletto. Da porta a porta era un bussare discreto, un avvisarsi scambievole:
<<Alzati
è tardi, è ora di andare>>.
<<Vediamoci
tra poco, alla
Barriera>>. Alla Barriera si è in pochi, alle cinque. Ma poi, a poco a poco, dalla strada provinciale, dalla strada della stazione cominciano a venire, isolati, a gruppetti, i contadini. Molti recano con se i loro muli alti e robusti, capaci delle grandi fatiche che ad essi si richiedono in queste zone di montagna. Alle sei lo stradale provinciale è ingombro di uomini a piedi, di muli, di biciclette, di carretti. E' una folla. La gioia è negli occhi e nelle parole di tutti. La manifestazione riuscirà.
<<Noi
siamo tanti e lui, il duca, è uno solo: noi vinceremo la
nostra lotta>>. ...ora il lungo corteo dei brontesi è giunto alle porte di Maletto. Attraversa quasi in trionfo la via principale, tra gli applausi delle donne che si affollano al passaggio.
catanesi del dopoguerra, C.U.E.C.M., Catania, 2005, pag.25 125Ivi, pag.25
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Gli uomini, già pronti e in attesa, a piedi o a dorso di mulo, muovono incontro ai compagni di Bronte. Portano le bandiere di Maletto e tra esse la bandiera dei Combattenti, recata dal loro presidente che verrà a piedi, zoppicando sulla gamba ferita nella prima guerra mondiale. Dalle ripide strade traverse di Maletto nuovi gruppi di contadini a cavallo scendono verso lo stradale, si mescolano al grande corteo. Tutti insieme si avviano per la strada che digrada dolcemente verso le immense plaghe della Ducea. Ora sono quasi duemila gli uomini e le donne, vero esercito del lavoro e del progresso in marcia contro l'arretratezza del feudo. La fila interminabile si stende per oltre due chilometri, salutata al passaggio dagli operai dello stradale in costruzione, che scende serpeggiante verso il verde mare terra della Ducea. Lontano, oltre la pianura, i monti del Messinese chiudono l'orizzonte, ma anche sulle loro pendici, anche oltre le loro creste è tutta Ducea fino a Cesarò, fino a Tortorici. Una gioia grande è nel petto di tutti.
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Le donne partecipano anch'esse a questa lotta non meno che i loro uomini: alcune di esse hanno chiesto le bandiere e ora le portano alte e sventolanti: sono il simbolo commovente di questa Sicilia che non si rassegna alla fame e alla miseria, ma con slancio inarrestabile lotta per la propria redenzione. Lontane si cominciano a distinguere, puntini di fiamma sul verde della pianura, vicino alla casa cantoniera di Mangiasarde, le bandiere rosse dei contadini di Randazzo che attendono sul luogo dell'appuntamento. La marcia si fa più veloce e l'incontro avviene, emozionante, nella gloria di un caldo sole primaverile, vicino al torrente Gurrida, ricco di acque spumeggianti. I bambini e i ragazzi corrono qua e là, saltando di gioia. Tutte le bandiere si mescolano, si uniscono gli uomini e le donne dei tre comuni e la marcia prosegue: sono ora più di duemila. ….nell'ampio cerchio della folla contadina, circondato a raggiera dai muli che consumano la loro razione, parlano i contadini, parlano i dirigenti. Sono parole semplici e antiche, parole nuove e forti, le parole della fiducia e della lotta, che muovono le grandi masse verso il progresso: Giustizia, Sicilia, Costituzione, Autonomia, Terra, Libertà. <<Questa è terra buona e diventerà un giardino, nelle nostre mani>>. 245
Sono i discorsi che i contadini nell'entrare nelle terre della Ducea, anche in questa giornata di lotta, sono stati bene attenti a non calpestare i seminati:<< Questa terra è nostra>>”126 Loro rispettano la terra che amano, non calpestano il frutto del loro duro lavoro, portano su quella terra le bandiere del Tricolore sorrette dalle loro zappe, la bandiera della Pace. E con la Pace superano la lunga catena di poliziotti, armati di mitra e di sguardi minacciosi, che segna il confine del feudo e la sua intoccabilità. Insieme uomini ma in prima linea donne: loro sanno più di tutti come è difficile vivere del lavoro della terra e hanno voluto testimoni di questo importante momento i propri figli affinché possano serbare e tramandare la memoria di questo giorno che sicuramente porterà frutto.
126Franco Pezzino, op.cit., pagg300-304
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Il 9 marzo all'Assemblea regionale giungeva l'eco della manifestazione: ha inizio un vivace dibattito. Il governo regionale deciderĂ con apposito decreto l'espropriazione del feudo e l'immediata assegnazione. Ma i contadini dovranno attendere ancora lunghi e duri anni prima di diventare proprietari di quel â&#x20AC;&#x153;fazzolettoâ&#x20AC;? di terra per cui avevano tanto lottato. Solo â&#x20AC;&#x153;il 7 settembre 1963, nel tripudio di una massa di contadini, uomini e donne, vennero 247
firmati i contratti in virtù dei quali i contadini di Bronte diventarono proprietari delle terre per le quali avevano versato tanto sangue. Così ebbe fine un assurdo anacronismo storico il cui perdurare negava la democrazia e l'Autonomia della Regione e calpestava la libertà, il lavoro e il diritto da un secolo e mezzo”127. Da quel momento in poi i contadini malettesi e gli altri avuti a fianco nella dura lotta non chineranno più la schiena per lavorare la terra di nobili mai conosciuti. Continueranno a chinarla ma sulla loro terra che, se pur a volte non troppo benefica, riuscirà comunque, grazie agli innumerevoli sacrifici del contadino e della moglie, a garantire non solo la sopravvivenza ma l'istruzione dei loro figli che così potranno diventare avvocati, medici, farmacisti, professori, come i figli del grande proprietario terriero d'un tempo.
127Michele Pantaleone, op.cit.,pag.144
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Appendice Ma dove aveva ascoltato il mio narratore “analfabeta” la storia di Ulisse e Polifemo? A Maletto, proprio nel suo paese, non poteva non essere così. I Ciclopi abitavano la vicina “Muntagna”! Tra gli anni Trenta e Quaranta compagnie di “pupari” venivano a metter su i propri spettacoli a Maletto soprattutto durante la festa del Patrono. Fine anni Quaranta, raccontano gli anziani, una famiglia di essi proveniente da Biancavilla si stabilì in paese. Qualcuno afferma, altri però smentiscono, che si trattava di artigiani venuti in paese per restaurare la Vara di Sant'Antonio. Per raccimolare qualche soldo in più la sera, in un magazzino di via Sant'Antonio, di proprietà dei grandi proprietari terrieri Puglisi, tenevano spettacoli. A recitare tutta la famiglia e anche qualche ragazzino del Paese, che dal ruolo interpretato durante le sue comparse prenderà il soprannome di “pipistrellu.” Vi si recavano soprattutto uomini e ragazzi: ascoltavano e guardavano meravigliati quei Pupi che si muovevano anche buffamente e parlavan in modo strano. Ma erano eroi, cavalieri, imperatori, paladini. Era il ciclo di Carlo Magno. Non solo. Mettevano in scena anche quel Mostro con un occhio solo, grande quanto “a muntagna” che si era fatto fregare da un uomo piccolo, da Nessuno. E sì, Nessuno era come il piccolo contadino malettese. Con la sua perseveranza, la sua tenacia, il suo inarrestabile lavoro aveva lottato a volte anche silenziosamente contro il Ciclope locale. Alla fine questi era stato sopraffatto proprio da un popolo che “Nessuno” considerava capace di far ciò. Ma è la vita, è la vita è teatro da vedere, ma soprattutto da “recitare”. L'omino del piccolo borgo feudale aveva recitato sempre la sua parte, mai tirandosi indietro: ora da succube ora da protagonista. E, smesso di calcare le scene adesso si ritrova a narrare. Perché? Per chi? Il narratore malettese è il narratore che Ferrero descrive in un suo bellissimo racconto, quel narratore che ancora continua a narrare, forse per “Nessuno”, e che ancora spera di poter “cambiare il mondo” o che forse racconta per “non essere cambiato.” A questo servono i racconti, le narrazioni.
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Il Narratore C'era una volta un narratore. Viveva povero, ma senza preoccupazioni, felice di niente, con la testa sempre piena di sogni. Ma il mondo intorno gli pareva grigio, brutale, arido di cuore, malato d'anima. E ne soffriva. Un mattino, mentre attraversava una piazza assolata, gli venne un'idea. "E se raccontassi loro delle storie? Potrei raccontare il sapore della bontà e dell'amore, li porterei sicuramente alla felicità". Salì su una panchina e cominciò a raccontare ad alta voce. Anziani, donne, bambini, si fermarono un attimo ad ascoltarlo, poi si voltarono e proseguirono per la loro strada. Il narratore, ben sapendo che non si può cambiare il mondo in un giorno, non si scoraggiò. Il giorno dopo tornò nel medesimo luogo e di nuovo lanciò al vento le più commoventi parole del suo cuore. Nuovamente della gente si fermò, ma meno del giorno prima. Qualcuno rise di lui. Qualche altro lo trattò da pazzo. Ma lui continuò imperterrito a narrare. Ostinato, tornò ogni giorno sulla piazza per parlare alla gente, offrire i suoi racconti d'amore e di meraviglie. Ma i curiosi si fecero rari, e ben presto si ritrovò a parlare solo alle nubi e alle ombre frettolose dei passanti che lo sfioravano appena. Ma non rinunciò. Scoprì che non sapeva e non desiderava far altro che raccontare le sue storie, anche se non interessavano a nessuno. Cominciò a narrarle ad occhi chiusi, per il solo piacere di sentirle, senza preoccuparsi di essere ascoltato. La gente lo lasciò solo dietro le palpebre chiuse. Passarono cosi degli anni. Una sera d'inverno, mentre raccontava una storia prodigiosa nel crepuscolo indifferente, sentì che qualcuno lo tirava per la manica. Aprì gli occhi e vide un ragazzo. Il ragazzo gli fece una smorfia beffarda: "Non vedi che nessuno ti ascolta, non ti ha mai ascoltato e non ti ascolterà mai? Perché diavolo vuoi perdere così il tuo tempo?". "Amo i miei simili" rispose il narratore. "Per questo mi è venuto voglia di
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renderli felici". Il ragazzo ghignò: "Povero pazzo, lo sono diventati?". "No" rispose il narratore, scuotendo la testa. "Perché ti ostini allora?" domandò il ragazzo preso da una improvvisa compassione. "Continuo a raccontare. E racconterò fino alla morte. Un tempo era per cambiare il mondo". Tacque, poi il suo sguardo si illuminò. E disse ancora: "Oggi racconto perché il mondo non cambi me". (Bruno Ferrero, A volte basta un raggio di sole)
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Conclusioni Maletto, un piccolo paese alle pendici dell'Etna, il più alto della provincia di Catania, quasi 1000 metri sul livello del mare. Alto come alto è il suo Castello, la Torre del Fano, o meglio quel poco che resta della Torre e delle sue mura. Poco resta del Castello, che riporta indietro di quasi mille anni, poco resta del centro storico che se pur piccolo, costruito intorno alla Fortezza, era importantissima testimonianza del passato di Maletto, ma sventrato e abbattuto da idee malsane moderniste non rimane che qualche muta pietra che ormai i più non sanno nemmeno interrogare. Poco rimane del passato di Maletto: gli anziani, i veri saggi, gli uomini memoria si contano quasi sulle dita di una mano. Presto scompariranno silenziosamente pure loro. Rimarranno gli uomini di mezza età, i giovani. Ma come vivranno Maletto? Come una terra straniera, anzi peggio. Spesso si va all'estero per ammirarne le bellezze, per capirne la storia e spesso si vive nel proprio paese senza chiedersi come si è arrivati al 2012, chi era la gente che lo abitava cento o più anni fa, chi sono stati quelli che lo hanno fatto nascere. Si dà tutto per scontato, ci si accontenta di piccoli frammenti di storia sentiti e già dimenticati a scuola, si vive nella più totale indifferenza per il passato, per il presente e per il futuro. Le cose vanno avanti per inerzia, la classe politica agisce da sola, senza l'“intralcio” dell'omino malettese, grazie anche alla sua indifferenza, e tutti siamo felici, sereni. Ogni tanto apriamo gli occhi e ci accorgiamo che Maletto tace, tranne ogni tanto per qualche avvenimento delinquenziale. Ci lamentiamo per l'assenza di strutture, perché come sempre non offre niente ai giovani, e non vediamo l'ora di poter scappare. Ma poi ci riaddormentiamo, nell'attesa che arrivi il momento sperato della fuga. Fuga che non per tutti sarà possibile, ma poco importa! Ci penseranno le generazioni future a scuotere, a risvegliare Maletto. Sempre la stessa storia! Ma i nostri figli, non sono, non saranno loro le nuove generazioni che forse amministreranno il paese, e che comunque vi vivranno anche se fino ai venti anni, prima di andare all'università? E non tocca a noi padri e madri, cresciuti, scappati e ritornati chissà perché a Maletto, cercare di spiegare loro chi è Maletto, chi siamo e come siamo i Malettesi, perché abbiamo scelto di vivere in questo “morto” paese?
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Abbiamo noi una grossissima responsabilità, più grande di quella che hanno avuto i nostri padri. Loro hanno collaborato alla nascita di Maletto e con dure lotte, con grandissima fatica e instancabile lavoro sono riusciti a farlo diventare un paese dignitoso. Noi abbiamo il dovere morale di non far morire il loro Figlio e di preservare la memoria del Padre. Se questo dovesse avvenire compiremmo un gravissimo delitto. E allora bisogna ripensare al futuro, non aspettare che le cose cambino da sé, reinterrogare il passato, prendere esempio dai nostri progenitori che sono vissuti in tempi molto ma molto meno felici dei nostri, quando vivere era riuscire a sopravvivere, a mettere qualcosa in pancia, e non stare sdraiati con in una mano l'Ipod, un orecchio al televisore, una mano al computer e la testa chissà dove. Bisogna riappellare quegli uomini che ancora, non si sa come, custodiscono il passato, forse perché ancora speranzosi, loro si, in un futuro migliore. Trarre esempio ma soprattutto forza, volontà e sapienza dai loro racconti, dalle loro esperienze e trasmettere questa forza ai nostri figli. Loro ricordano tanto, hanno abilità mnemoniche stupefacenti, perché? Perché hanno vissuto ogni giorno della lor vita pienamente, hanno “esperito” la vita, non come noi, giovani d'oggi che ci lasciamo cullare dalla “presentificazione”. E allora guardiamo a loro ancora una volta, ascoltiamoli e “riprendiamo in mano le nostre vite”, se non vogliamo veder Maletto cadere in un sonno profondo o peggio ancora tramutarsi in quel mostro terribile, mai descritto tanto era brutto, di cui i nostri nonni narravano per non far arrampicare sulla roccia del castello i piccini. Per non essere divorati finalmente da questo mostro che altro non è che la nostra indifferenza!
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Ringraziamenti La cosa bella di questo lavoro? Non essere stata mai da sola. E' il presente un lavoro realizzato con la gente, grazie alla gente e per la gente di Maletto. Protagonista di esso è tutta la comunità che appena le chiedevo qualcosa, subito, con tanta voglia di narrare si metteva comoda e tirava dal cassetto mai chiuso della propria memoria ricordi nitidissimi. Una parte della comunità, quella dai sessant'anni in su, fino ad arrivare ai quasi centenari. C'è ancora tanto da ascoltare e narrare. Spero che altri, chissà forse io stessa in altre occasioni e momenti, provino ancora una volta a riascoltarli e a chiedere loro tante altre belle storie. Per adesso, la cosa fondamentale e urgente è trasmettere all'altra parte di questa comunità, quella giovane, la voglia di andare dai nonni, dai vicini anziani a chiedere: “mu cunta un cuntu?” In tal modo restituiremo a questi grandi uomini il privilegio di aver vissuto e il loro diritto di chiedere ascolto! A tutti loro, “uomini e donne memoria” di Maletto dico “Grazie!” Grazie per tutto quello che mi hanno donato. A mio nonno prima di tutto, a mio padre non dopo, a mia madre, alla memoria non solo storica di Maletto, Giorgio Luca, alla memoria narrativa Maurizio Cairone, alla professoressa Famà per aver messo a disposizione il lavoro suo e dei suoi alunni. Grazie ai miei figli, Carla e Marco, senza i quali questo lavoro non avrebbe avuto senso. All'infinito, paziente amore di Antonio. Grazie!
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