Interni 640 - April 2014

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INdice/contents aprile/APRIL 2014

INterNIews 51

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In copertina: un gioco di parole con cui Philippe S tarck racconta la sua idea di trasparenza. A rappresentare fisicamen e il pensiero è la celebre sedia L ouis G host presentata da Kartell nel 2004. L a seduta simboleggia il percorso di sperimentazione e innovazione che l’azienda capitanata da Claudio L uti ha intrapreso nel 1989 con L a Marie, il primo arredo industriale completamente trasparente, e che quest’anno approda a un altro primato con il divano Uncle J ack, il più grande pezzo mai realizzato in policarbonato in un unico stampo. On the cover: On the cover: a play on words with which Philippe Starck narrates his idea of transparency. The thought is physically represented by the famous L ouis Ghost chair, presented by Kartell in 2004. The seat symbolizes the path of experimentation and innovation the company helmed by Claudio L uti has taken since 1989, with L a Marie, the fi st completely transparent piece of industrial furniture, leading this year to another record, with the U ncle Jack sofa, the largest piece ever made in polycarbonate with a single mould.

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produzione production l ’era del rame/ ThE a GE Of CoPPeR tra vel memorie s RE CUPERO RI US CITO/Su ccessful recovery steel kitchen produzione production la cucina libera ta/Th e L IBerated KItCHe N a pro va di chef /TeSTeD bY cHe fS profe ssionalit à dome sti ca/DomeStIC Prof essIonaL ISM brevi in brief project

le ggero come la pietra/ L IGH T as a sTone mar tino gam per a la rina s cente emo zioni di s uperfi cie/emotions on th e su rf ace almeria , bey ond the w al l by daniel libe skind f or cosentino Fu mi crea tivi/ CREATIVE SMOKE j ura ssi c de sign 87

design

as col tare gli ogget 91

innovazione

ti/ L ISTENING TO OBJECTS

f abbri care e dis trib uire a ssieme F aBRICATING AND DisTrIBu ting togeth er 94 fiere fairs el sewhere a P arigi/ in paris st o ckholm de sign week 104 maestri masters Pierino Busnel li e/ and G iulio Meroni 106 food design petersham n urserie s café 108 mostre Exhibitions cas a mala par te be o pen: made in india 5a biennale di marrake ch/ Fi f th MarrakecH BIennIAL 120 sostenibile sustainable il talent o È donna/ TaLen T IS A WOMAN un f or tino ( cine se) con vis ta/A (CH INESE) F ORT WITH A VIEW

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INdice/CONTENTS II

fashion file

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intre cci di mod a e de sign/ WEA VES O F FASHION AND Des IG n

info&tech

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stampare e d are vol ume al le idee PRINTING AND GI VING FOR M TO IDEAS

in bookstore automotive

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Vo L vO T r IL o G Y

feeding new ideas

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INservice 211 248

traduzioni translations indirizzi firms directorY 2

INtopics 1

editoriale editorial di/by gild a boj ardi

INteriors&architecture

dove abitano i protagonisti del design

Where the design protagonists live a cura di/ edited b y ant onel la boisi 2 12

phuket, thailandia, point yamu by como hotels and resorts proget t o di/ design b y paola na vone f ot o di/ pho t os b y enrico conti te st o di/ text by ant onel la boisi

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in un borgo del lazio, il castello ritrovato

A town in Latium, a rediscovered castle proget t o di/ design b y cla udio sil ve strin archite f ot o di/ pho t os b y giulia ric agni te st o di/ text by ant onel la boisi 18

ct s

sul lago di lugano, una villa di silenziosa eleganza

On Lake Lugano, a villa of silent elegance proget t o architet t onico / archite ct onic proje ct by ant onio ant orini interior de sign/ interior design b y carl o col ombo f ot o di/ pho t os b y w al ter gumiero te st o di/ text by danil o signorel l o 32 24

milano, italian lifestyle in un loft

Milan, Italian lifestyle in a loft proget t o di/ design b y stef ano core f ot o di/ pho t os b y france sco bolis te st o di/ text by ant onel la boisi 32

tokyo, il negozio di dolci sunny hills

Tokyo, the Sunny Hills dessert shop proget t o di/ design b y kengo kuma & a ssocia te s f ot o di/ pho t os b y ale ssio gu arino te st o di/ text by virginio bria t ore 36

hamburg, energy bunker proget t o di/ design b y he gger he gger schleiff hhs planer + architekten a f ot o di/ pho t os b y bernadet te grimmens tein te st o di/ text by mat te o vercel l oni

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INdice/CONTENTS III

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INsight INtoday 40

Lina forever proget t o di/ design b y lina bo b ardi f ot o di/ pho t os b y Ioanna marine scu te st o di/ text by la ura ra gazz ola INarts

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london royal academy of arts, sensing spaces f ot o di/ pho t os b y j ame s harris te st o di/ text by mat te o vercel l oni

FEEDING new ideas 80

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nutrire nuove idee/feeding new ideas di/by la ura ra gazz ola

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comunicare il progetto

Communicating the project a cura di/ text by Madd alena Pado vani

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dopo gli anni zero/After the Zeroes f ot o di/ pho t os b y Carl o L avat ori te st o di/ text by Madd alena Pado vani

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auto da sĂŠ di/by Valentina

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C roci

diffusori semantici/Semantic spread di/by Stef ano Caggiano

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kartell, 15 anni di trasparenza

KarTeLL, 15 years of TransParency te st o di/ text by Madd alena Pado vani

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INdice/CONTENTS IV

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INdesign INcenter 94

l’evoluzione dell’abitudine/The evoLution of habit di/by nadia Lione llo f ot o di/ pho t os b y lorenz o ma ssi ciccone , gia como giannini, efrem raimondi

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l’arte della luce/The arT OF LIGHT di/by nadia lione llo f ot o di/ pho t os b y miro za gno li

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INprofile

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i viaggi di giulio cappellini

The travels of GIuLIo CaPPeLLInI di/by C ris tina Moro zzi INproject 116

interpretazione crossover

Crossover interpretation di/by Valentina C roci 120

marcel appeso allo stedelijk

MarCeL pinned up at the STeDeLIJK di/by Ol ivia C rema sco li 112

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INproduction

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lo sguardo oltre/Look beyond di/by katrin cosset a elaborazione imma gini di/ images processing b Enrico su À ummarino

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INservice 132

traduzioni translations

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indirizzi firms directorY di/by ad alis a ubo ldi

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EDiToriaLe

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ell’anno in cui INTERNI celebra i suoi primi 60 anni, il numero di aprile presenta una piattaforma che, ispirata dalla mostra/evento Feeding new ideas for the city che avrà luogo nei cortili dell’Università degli Studi e all’Orto Botanico di Brera, ribadisce la centralità di Milano e dell’Italia nel sistema design internazionale. Il focus, che anticipa il grande tema del ‘nutrimento’ di Expo 2015, è stato sviluppato sia nelle architetture pubblicate – dove abitano o trovano ispirazione gli attori del nostro palcoscenico – che nell’inchiesta sullo ‘stato di salute’ del made in Italy e della cultura italiana del progetto. In modo corale, dalle riflessioni critiche di più di venti designer in primo piano nel mondo è emerso che il fare cultura del prodotto per generare qualità è ancora una carta vincente perché l’industria italiana dell’arredo possa conservare leadership e affrontare le sfide internazionali presenti e future. In questo senso, anche la cover-story, nel segno della trasparenza firmata da Philippe Starck, fa riferimento a prodotti che richiedono capacità di osare, sperimentare e investire sulle idee creative: ciò che rende le aziende italiane in grado di competere con il meglio dell’industria internazionale, sia in termini di innovazione che di cultura. C’è chi sostiene che, dopo la stagione dei grandi Maestri, abbiamo perso forza e identità. Dopo gli anni Zero, i nomi (e le facce) di oltre 60 protagonisti della nuova generazione del design italiano sradicano i pregiudizi e dimostrano, con differenti vocazioni e modalità espressive, quanto sia ancora fertile e ricettivo il terreno seminato dai grandi maestri. Quali Alessandro Mendini, Andrea Branzi e Michele De Lucchi, personaggi di riferimento anche nella storia di INTERNI degli ultimi 20 anni. A loro abbiamo chiesto una breve riflessione sul tema progetto e comunicazione: un rapporto oggi più che mai in evoluzione. Gilda Bojardi

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Il castello-casa-galleria nel borgo del centro Italia, ristrutturato da Claudio Silvestrin Architects. Foto di Giulia Ricagni

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Nella spa, cuore pulsante anche in senso metaforico della struttura ricettiva, i tradizionali lettini relax thailandesi reinterpretati nella forma e nei materiali, sono stati disposti come belvedere lungo la linea d’orizzonte della piscina e del mare sullo sfondo. Nella pagina a fianc , scorcio del ristorante di cucina italiana La Sirena, con la parete dell’area-buffet adornata da una geografi di piatti di provenienza europea. Poltroncine e divani di Gervasoni, design Paola Navone.

A Phuket, in Thailandia, lo spettacolare Point Yamu by COMO, il primo dei luxury resort realizzato, per il brand guidato da Christina Ong. su progetto di Paola Navone, genius-loci in chiave contemporanea

Il paradiso può attendere progetto di paola navone foto di Enrico Conti testo di Antonella Boisi

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Una zona della spa, rivestita con piastrelle di ceramica di produzione locale, declinate in diverse tonalità di azzurro e turchese, ad effetto acquario. Poltrone Gervasoni, design Paola Navone. Nella pagina a fianc , una vista del ristorante thai. Si notano sul fondo i pesci in mosaico che nobilitano la parete e in primo piano il muro di legno invecchiato posato a squame di pesce.

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uando, qualche mese fa, Paola Navone ha ricevuto la stampa di settore nel suo studio milanese di via Tortona, per mostrare l’ abbecedario compositivo e comunicare l’orizzonte dei lavori in corso per la COMO Hotels and Resorts, con planimetrie, prospetti, sezioni, mazzette materiali, campioni colori, studi degli accostamenti, ‘srotolati’ sui lunghi tavoli dell’atelier-bottega, nell’aria c’erano entusiasmo, ottimismo, energia. “Mi sto molto divertendo” spiegava “perché si tratta di due progetti globali: ho disegnato tutto, dai tavoli alle sedie, dai piatti alle tovaglie, lasciando che ciascun elemento restituisse l’importanza del dettaglio nel disegnare l’architettura e l’atmosfera degli ambienti, in un dinamismo ritmico di spazi aperti, semi-aperti e chiusi, modulazioni e giochi di luce, pieni e vuoti”. Oggi che, dopo due anni di cantiere, è stato inaugurato il primo dei due international luxury resort da lei progettati per il brand di Singapore guidato da Christina Ong, il Point Yamu di Phuket, in Thailandia (a breve aprirà anche il Metropolitan a Miami Beach - un urban hotel di dimensioni più contenute in una palazzina liberty del distretto storico, completamete diverso nel mood), le aspettative non sono state disattese. “La semplicità è la

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forma del vero lusso” ha detto una volta l’architetto-designer-trendsetter “sognatrice ed eclettica” come si auto-definisce. Ed è un piacere, per noi che ne apprezziamo con gli occhi le suggestive immagini, constatare che il luxury proposto dal resort Point Yamu restituisce in primis proprio quella dimensione di semplicità intesa come autenticità del genius-loci. In grado di sostenere il valore della relazione tra persone e spazi, l’esperienza del viaggio e del benessere come filosofia di accoglienza del brand.

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Nel padiglione d’ingresso, la spettacolare lobby dominata dall’installazione di vecchi tavoli thailandesi, fiori e vasi smalt ti, e dai lampadarimerletti creati da artigiani locali. Si notano le colonne scultoree rivestite a picassiette che sostengono ai lati la copertura dello spazio aperto alla vista del mare e del paesaggio.

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La stanza del private dining, un involucro total white giocato sul contrasto tra il bianco iridescente del rivestimento di mosaico a specchio e l’arancio acceso della porta corredata da una maniglia che è la mano in bronzo di un’antica statua.

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Lo spazio dell’ Aqua Bar, con il bancone in sassi e teak massello, delimitato da quinte-filt o in mattoncini forati smaltati di bianco realizzati da un giovane ceramista che lavora ancora con l’antico forno cinese Dragon Kiln. La tea room. Lo sguardo è veicolato sul soffit o decorato con motivi fi urativi ispirati alla calligrafia thai Divani Eumenes. Sedie e tavoli tradizionali dipinti in arancio.

Un approccio sostenibile nei confronti del contesto, dunque, già di suo una location speciale: Cape Yamu, penisola ad est di Phuket, venti minuti dall’aeroporto, un giardino collinare dominante le formazioni calcaree di Phang Nga Bay (dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Unesco) e il mare delle Andatane, con viste spettacolari a 360°, anche sulle isole dell’intorno. Il resort si integra in questo ambiente paesaggistico, in modo non invasivo, azzerando e facendo dimenticare ciò che in origine era altro: l’ossatura di un albergo non finito, piuttosto incombente. I volumi preesistenti sono stati infatti ridisegnati con sapienti rivestimenti di rete metallica e piante rampicanti nei toni del grigio e del verde. Una pelle cangiante, vibrante sotto la luce penetrante del posto, che mimetizza, tra camminamenti sull’acqua e una piscina di 100 metri, tutto: dal padiglione d’ingresso in posizione centrale che ospita la lobby aperta sul mare e le aree collettive (tra cui due ristoranti, uno thai e l’altro italiano), alle 106 tra camere e ville private (quest’ultime, con dimensioni variabili da 60 a 100 mq, anche acquistabili) articolate nei corpi sviluppati ai lati, sulla destra e sulla sinistra, fino alla spa concepita come il

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cuore pulsante, anche in senso metaforico, della struttura ricettiva. Di contro, all’interno, ogni angolo, pareti, finestre, porte, soffitti e stanze imbastiscono e restituiscono il sapore di tante pelli-texture ibride ed eterogenee. D’altronde Paola Navone ha davvero una grande maestria nel vedere e mettere insieme le cose. Conosce l’antropologia di luoghi, oggetti e mestieri. E, soprattutto, dopo aver lavorato e vissuto tanti anni in Asia, alla continua ricerca di stimoli e riferimenti trasversali, ha interiorizzato molto bene i colori di due mondi, Oriente e Occidente, che è riuscita, ancora una volta, a rielaborare in modo non omologato, cool ed emozionante. “Per me è stato un po’ come tornare a casa” ha spiegato. “Conosco e apprezzo la dedizione e la passione con cui gli artigiani thailandesi lavorano. Il loro savoir-faire. Anche in questo caso non mi ha deluso, consentendomi di recuperare segni e tradizioni che rivivono in forme attuali, imperfette forse ma anche seducenti. È stata una nuova avventura densa di sorprese. Nel nord del Paese ho incontrato, ad esempio, veri e propri artisti che hanno creato i lampadari-merletti che inondano come una cascata la lobby e le aree ristorante. Poi ho conosciuto un giovane

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ceramista che lavora ancora con un antico forno cinese che si chiama Dragon Kiln e che mi ha costruito tutti i mattoncini forati smaltati di bianco con cui ho potuto immaginare dei filtri per schermare i bagliori dell’intensissima luce thailandese nelle camere. E, infine, un falegname che non si è per nulla scomposto quando gli ho chiesto di tagliare decine di migliaia di cubetti di scarti di lavorazione del teak per vestire le due pareti-quinta del padiglione d’ingresso di 70 mq ciascuna”. L’eredità culturale come fondamento nella costruzione di un percorso verso l’ospitalità contemporanea ha dunque significato in primis una riscoperta del dna materico-

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cromatico del luogo. E i materiali, per Paola Navone, sono da sempre sinonimo di sartorialità creative: sassi, cementine, cubetti di ceramica, reti di alluminio stirato o intrecci di vimini. Come i colori sono stati l’interpretazione di una tavolozza iconica che conosce la saturazione dei toni, il contrasto tra il blu del mare e il bianco non perlaceo degli involucri: dal turchese (adottato per le piastrelle di ceramica che rivestono i bagni e le piscine delle suites, ma anche le gambe delle consolle) alle tre nuances di azzurro della spa, dall’arancio (declinato nel tessile ma anche dipinto sui tavoli e sulle poltroncine) ai rossi nodosi di tavoli e panche in

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legno di teak massello. L’ulteriore quid creativo si è affidato alle ‘pennellate’ che caratterizzano e personalizzano, con focus specifici e unici, gli ambienti. Lenti che potenziano lo sguardo. Ad alto grado di effetti sensoriali. Come i pesci in mosaico che adornano le pareti del ristorante thai, la geografia di piatti sui muri del ristorante italiano La Sirena, i motivi figurativi ispirati alla calligrafia thai a decoro dei soffitti nella tea room, le mani in bronzo di antiche statue che chiudono le porte degli ambienti dedicati al benessere… tutti felici incontri di un luogo fiabesco, dove l’interazione tra dentro e fuori sfugge a una presa diretta.

Una delle 106 camere del resort con bagno dedicato, dove domina il blu del rivestimento ceramico che valorizza gli arredi. Nella stanza, ritornano i mattoncini forati smaltati di bianco che compongono la quinta-filt o e le cementine in bianco-grigio realizzate su disegno per la pavimentazione. Sapienti rivestimenti di rete metallica e piante rampicanti nei toni del grigio e del verde, disegnano una pelle architettonica uniforme ma vibrante, cangiante nella luce e nei riflessi dell’acqua della piscina (lunga 100 metri), mimetizzando il peso dei volumi preesistenti.

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Ego minimum progetto di Claudio Silvestrin Architects foto di Giulia Ricagni testo di Antonella Boisi

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Spazio scenico di fascino architettonico, la galleria nel basement, dov’erano cantine e neviera, diventa percorso verso gli ambienti dedicati a seminari e workshop. Conserva le classiche volte a botte in pietra e mattone, messe in risalto dalle luci Raggio disegnate da Claudio Silvestrin per Viabizzuno integrate nelle pianelle di cotto della pavimentazione. Un’opera di arte sciamanica accompagna lo sguardo nell’orizzonte visivo aperto della costruzione spaziale dei piani che ospitano la residenza.

Nella pagina a fianco il cortile (con l’antico pozzo per la raccolta dell’acqua). Il castello nato come fortezza nel Medioevo è stato trasformato in un palazzo signorile nel Rinascimento su progetto di Baldassare Peruzzi. Sorge su una rocca e domina dall’alto un classico borgo del centro Italia.

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In un borgo del Lazio, un castellofortezza, trasformato nella residenza di un collezionista d’arte . Sotto il segno di un’architettura ‘invisibile’ ricondotta ai puri elementi essenziali

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ifficile una sfida, quando dall’altra parte c’è un architetto e pittore, allievo di Bramante e vicino a Raffaello, come il senese Baldassare Peruzzi, al quale si deve la trasformazione di questa fortezza, costruita originariamente nel 1084, in uno splendido castello durante l’ultimo Rinascimento”. E se lo dice Claudio Silvestrin, un altro nome che non ha bisogno di presentazioni sul palcoscenico internazionale dell’architettura contemporanea, chiamato a firmare la direzione artistica del restauro e la riconversione di 3000 mq in una residenza per una famiglia con bambine piccole, aperta all’accoglienza di molti ospiti e di un’importante collezione di opere d’arte (allestita su uno spazio espositivo di 1000 mq), non dubitiamo.

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Il tavolo in ottone brunito e anticato, realizzato su disegno per un ambiente living, sostiene il dialogo con la presenza di un’arte protagonista. Due viste della scala a spirale di collegamento interno compressa tra due solidi muri a vertiginosa altezza che parte dal pianerottolo antistante il salone nobile e affrescato al primo piano, pavimentato in travertino naturale. Scorci della costruzione spaziale nell’ala sud del castello destinata a foresterie. La fluidità uni orme del pavimento e delle travi lignee a vista in legno di castagno, tipico della zona, viene valorizzata dalla tinta avorio a calce delle pareti e dal gioco della luce che ridisegna trasparenze e opacità degli elementi architettonici, nuovi e preesistenti.

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Anche per un maestro dell’architettura minimale il confronto, con una figura chiave del Rinascimento, nominato architetto della Fabbrica di San Pietro nel 1530 (tra le sue opere più note, la villa Farnesina Chigi e il Palazzo Massimo alle Colonne a Roma) e con un edificio monumento nazionale dal 1928 vincolato dalla Sovrintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici, deve essere stato piuttosto impegnativo. Pertanto, spiega “nonostante l’edificio abbia richiesto quasi nove anni di lavoro, perseveranza e dedizione, ho voluto che il recupero fosse ‘invisibile’ in modo che una volta completato, il castello sembrasse ad una prima impressione non essere mai stato toccato”. Una filosofia d’approccio che ha ben definito con l’espressione “Ego minimum” a sottolineare quanto la visione del contesto architettonico-storico sia

stata così potente e maestosa da riportare ogni intervento in una messa a fuoco che risolvesse nel modo meno arbitrario possibile le nuove esigenze. Senza concessioni a mode o tendenze o paternità di firme. Il castello domina dall’alto uno dei tanti borghi di centro Italia, che sono vanto e orgoglio del nostro Paese. Con una planimetria molto irregolare, quasi zoomorfa (richiama la forma di un’aquila ad ali spiegate per alcuni, quella di uno scorpione per altri) dovuta alla necessità di ancorarsi alla roccia della rocca e assecondare il movimento del terreno, si compone di circa 100 stanze, sobrie e severe, declinate su tre livelli di sviluppo e collegate da strette scale a spirale compresse tra solidi muri a vertiginosa altezza, fino al coronamento del tetto terrazza-belvedere sul paesaggio collinare. L’ala sud è stata destinata alle foresterie, quella nord agli spazi per seminari, workshop, eventi e mostre, ospitate anche nel basement (dove durante il restauro è stata riportata in luce la neviera profonda 7 metri in cui i nobili conservavano neve e ghiaccio per i mesi estivi). La parte centrale accoglie il palazzo con il piano nobile e gli affreschi. “Non c’è stato un solo cm di muri, pavimenti, pareti, soffitti, archi, volte a botte, travi lignee che sfuggisse a una ricerca di presa diretta dell’anima del luogo. La sensibilità è stata quella di operare una ricostruzione fedele nelle zone ritenute come nucleo fondante del patrimonio culturale italiano.

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E il restauro è stato relativamente semplice perché si è trattato di un’operazione di pulizia, ripristino e ricostruzione in chiave conservativa curata dai tecnici della Sovrintendenza, anche nel corredo di affreschi che decorano le sale. Più complesso è stato invece l’intervento su quel 30 % di nuovo come richiesto dal committente. Pensare a delle forme nuove nelle aree ritenute ‘non intoccabili’, trasformandole in spazi di vita quotidiana. Sono stato educato a credere che l’architettura abbia il compito di darci l’emozione della materia, dello spazio, della luce, dell’acqua. Un’attitudine astratta, spirituale, quasi metafisica. Io credo nella bellezza

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degli archetipi – cilindri, sfere, cubi e parallelepipedi – che sono al di là della dimensione temporale; in questo senso una forma può avere seimila anni ed essere contemporanea, comunicando la stessa forza e la stessa intensità”. Per paradosso, quindi, il nostro ha spogliato ancora di più gli spazi, ripensandoli con il minimo indispensabile di elementi. Perché diventassero ancora più vuoti e potenti, figure antiche che riscoprono vitalità, matericità impenetrabili e cristalline, opacità e trasparenze, superfici d’aria e di luce. E con l’intento di entrare in punta di piedi nel contesto, lo ha in primis rispettato nel dna

materico-cromatico, adottando pianelle di cotto, di memoria medioevale, nel pavimento del piano terra e interrato; travertino naturale e castagno (tipico della zona) nel pavimento del piano nobile e nelle foresterie. Un modo per rinsaldare, con una nuova patina del tempo, il legame del castello con la sua terra di appartenenza. Nella tonalità, nello spessore, nell’aspetto. La tinta a calce data uniformemente alle pareti in una tonalità bianco avorio fa risaltare ancora meglio gli infissi scuri, le porte finestre e le travi lignee a vista in castagno del soffitto. E poi la luce, quella luce che nasce da un equilibrio tra le aperture e la possenza dei volumi con tagli che si stagliano su muri, pareti e pavimenti e convivono con le ombre. In questa atmosfera sobria e severa, si inseriscono gli arredi fissi.“Tutto made in Italy. A regola d’arte. Nei bagni l’acqua si raccoglie in bacini rotondi in travertino appoggiati su piani di castagno, la vasca è scavata nella pietra come un grande guscio di noce. Di travertino alla stregua del pavimento. Gli unici pezzi di produzione sono la cucina e le lampade perché nella loro essenza ritrovano il pensiero e l’etica alla base di tutto l’intervento: la ricerca dell’essenza”. Partita chiusa: il castello non è il Cabanon o un cubo di pietra calcarea, ma anche nel suo proporsi come solido percepibile soltanto per frammenti, regala ordine visivo e senso di calma all’occhio e alla mente. Come è finita la sfida? Chiosa Silvestrin: “Ai committenti l’ho scritto: Peruzzi-Silvestrin: 3 - 1. Un goal l’ho fatto anch’io”.

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Atmosfera sobria e severa nell’ambiente cucina, risolta con il modello Terra in porfido gial o disegnata da Claudio Silvestrin per Minotticucine (2005). Sul fondo si nota la porta scorrevole a tutt’altezza in legno di castagno, come le travi lignee del soffit o. Applique Quasi di Viabizzuno. Semplicità ed eleganza senza tempo nella salle de bain del primo piano nobile, con i lavabi e la vasca circolari in travertino naturale, come il pavimento, appositamente realizzati. Rubinetterie Vola.

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Per l’interior design di una villa sul lago di Lugano, giocata sulla purezza di forme e volumi, il rigore e la precisione di uno stile improntato alla qualità e alla cura del dettaglio

Silenziosa eleganza

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architetto Antonio Antorini ha sempre fatto della ricerca della forma pura, delle geometrie precise, del rispetto della tradizione e dei richiami al razionalismo, i punti cardine della sua progettazione architettonica. Un’architettura essenziale e funzionale, giocata sulla lineare semplicità di forme e volumi. Anche questa villa, che domina dalle alture il lago di Lugano, è frutto di una poetica compositiva che ne identifica immediatamente la firma. L’edificio, che si sviluppa lungo un terreno scosceso su tre livelli (piscina, cantina, spa e zona ospiti con tre bagni; living e cucina; zona notte padronale e studio), più un interrato per i locali tecnici, è sorto attorno a un grande pino marittimo inglobato nel patio. Lo sviluppo radicale minimo di questa pianta maestosa non ha posto problemi di sorta e ne ha permesso l’integrazione all’interno della struttura architettonica. La relazione con il paesaggio ha determinato del resto anche la scelta progettuale delle grandi pareti vetrate verso l’orizzonte del lago, che permettono agli ambienti interni di registrare il passaggio delle stagioni, i cambiamenti di luce, le ombre delle nuvole, il ticchettio della pioggia.

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progetto architettonico Antonio antorini progetto di interior design carlo colombo foto di Walter Gumiero - testo di Danilo Signorello

Il volume bianco in cemento armato, a sinistra, è sorto intorno al grande pino marittimo che ora occupa la parte centrale del patio (sopra). All’esterno, la scala in pietra basaltina che scende verso l’abitazione bordata da verde ornamentale. Sopra, la passerella di collegamento della zona notte al primo piano. Aria, luce, spazio sono scanditi dal contrasto tra il wengè a pavimento e il candore delle pareti.

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Il camino al centro dell’area living, realizzato su disegno di Carlo Colombo, è in marmo con struttura verticale in bronzo: una serie di bacchette in ottone fungono da quinta scenografica a marcare la separazione dallo spazio vicino. Il pouf capitonné in primo piano è di DePadova.

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Un’architettura pulita, trasparente, aperta sul paesaggio, tanto che è difficile riuscire a distinguere se sia il verde a entrare nell’edificio o se sia la casa che voglia allungarsi verso l’esterno rendendolo un ulteriore ambiente da abitare e da vivere. L’architettura degli interni è stata curata dall’architetto Carlo Colombo che ha saputo valorizzare spazio e luce, trasparenze e volumi geometrici, sottolineando spesso gli aspetti poetici del contatto con la natura. Colombo ha saputo dare carattere e personalità a ogni ambiente, rispondendo alle esigenze di chi avrebbe abitato la casa. Il legno e la pietra dominano, il bianco è la tavolozza su cui

lavorare, la luce diventa materia di progetto, l’acqua è l’elemento naturale che riprende all’interno (nella piscina dell’area fitness) l’elemento principe del paesaggio, il lago. Elementi e sensazioni che caratterizzano il suo stile personale. E il progetto, anche in questo caso, ha preso forma dal confronto, dal dialogo, dalla predisposizione empatica verso la committenza, punto di partenza di ogni suo lavoro insieme al rispetto e alla valorizzazione della location in cui si trova a progettare. Il suo segno è fatto di forme pure e minimali, la sua preferenza è per materiali semplici come il vetro, il cemento, la pietra, il legno.

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Il ballatoio della zona notte padronale affacciato sul living: i parapetti vetrati conferiscono continuità ai due ambienti senza creare una cesura netta. Divani Royal di Giorgetti, lampadario a sospensione Modo Chandelier design Jason Miller per Roll&Hill. Sullo sfondo, lampade Sky Garden di Flos by Marcel Wanders e poltroncine Diana di Giorgetti disegnate da Carlo Colombo. A destra, la wine cellar su disegno di Carlo Colombo è valorizzata dalla parete di fondo: una lastra di onice di spessore minimo retroilluminata. La boiserie lignea è in wengè.

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Che ricorrono, in questa casa, nei parapetti vetrati del ballatoio, nella pavimentazione in wengè a tappeto su disegno, nelle scale tutte in legno, nella boiserie lignea della zona living o in quella in travertino della Spa, nella basaltina del patio, nel travertino che riveste vasca e bordo vasca nella piscina, nella parete in onice retroilluminato della cantina, nel blocco di marmo del caminetto cui fa da quinta scenica uno schermo di esili bacchette in ottone, un focolare posto al centro del grande salone dove si fondono insieme simbolicamente elementi naturali come la pietra, il metallo, il fuoco e il legno da cui la fiamma trae origine. Anche gli

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arredi rivelano un design attento al rigore, alla qualitĂ e alla cura del dettaglio, utilizzando ogni ambiente come uno spazio neutro in cui disporsi, insieme alle grandi tele artistiche a parete, nel modo piĂš logico e conveniente. Il colore, la materia, la forma dei singoli pezzi di design sottolineano il progetto e quanto vuole trasmettere, riconducendo ogni singolo spazio a un modello di silenziosa eleganza.

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La zona fitness con piscina (5x14 m tri) su disegno e mini idromassaggio con le vetrate aperte sul lago. La boiserie a parete è in travertino come pure la pavimentazione e il rivestimento vasca. Tavolino Dama di Poliform. A fianc , in alto, un altro scorcio della piscina: l’acqua riflette il verde circostante quasi invitando la natura ad entrare in casa. I lettini sono su disegno di Carlo Colombo. In basso, un bagno in travertino con pavimento in wengè: arredi e rubinetteria di Antonio Lupi disegnati da Carlo Colombo.

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Ripresa dalla scala in Corten che collega il livello superiore, la poltrona Nemo di Fabio Novembre per Driade, presenza protagonista del living, viene valorizzata dalla costruzione spaziale fluida e ininterrotta, sottolineata dal pavimento wengÊ a doghe con profili a rotondati. Nella pagina a fianc , focus sull’area dining: tavolo Gazelle e sedie Mollina di Park Associati, lampadario Luciola di Fabio Novembre. Tutto Driade.

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A Milano, un loft metropolitano in cui si intersecano racconto autobiografico e progetto, perchĂŠ la casa rappresenta sia la vita privata che professionale per Stefano Core, nuovo ‘motore’ e CEO di Driade

Italian lifestyle progetto di Stefano Core foto di Francesco Bolis testo di Antonella Boisi

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opo aver a lungo viaggiato per lavoro, dall’Inghilterra al Brasile, dagli Stati Uniti all’Asia e all’Argentina, tutti Paesi dove ha anche vissuto molti anni, Stefano Core, origini abruzzesi, un passato da manager di spicco in importanti realtà internazionali e un presente da imprenditore con ItalianCreationGroup (holding industriale fondata con Giovanni Perissinotto), ha trovato la sua isola in un loft di 400 mq, sviluppato su due livelli, a Milano. In una zona dal nobile passato industriale, di recente recuperata e riconvertita a un mix di funzioni. Il suo rifugio da circa un anno insieme alla moglie Lucia (un percorso di product manager di rispetto e oggi impegnata con DriadeKosmo) e alla famiglia in crescita. “L’abbiamo trovato così quando siamo entrati, una ristrutturazione da poco conclusa, quattro anni di vita. Perfetto. Curato nei dettagli con un’ossessione quasi maniacale, il grande respiro e l’impatto scenografico di un loft ma anche la vivibilità di una casa di lusso in termini di privacy e di scansione

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In primo piano, la zona dell’home theatre. Divano 33 Cuscini di Paolo Rizzato per Driade. Lampada Arco dei fratelli Castiglioni per Flos. (1962). Sul fondo, l’area d’ingresso con la sedia-icona Costes di Philippe Starck per Driade. A sinistra, fa capolino il prezioso pianoforte a coda Fazioli, l’oggetto più amato da Stefano Core.

degli spazi, il giusto equilibrio tra situazioni di hospitality riconfigurabili che ci consente di vivere appieno tutta la casa”. Sopra, quattro camere-suite con bagno dedicato, una salle de bain-spa con bagno turco e sauna ispirata nei materiali alla natura, area studio e fitness, un inaspettato giardino sospeso. Sotto, un generosissimo living dall’articolazione flessibile che declina zone di rappresentanza e formali e più conviviali e intime, al tempo stesso, in una costruzione spaziale fluida e ininterrotta, sottolineata dall’uniforme pavimento in wengé a doghe con profili arrotondati. Ovunque, sistemi di riscaldamento e aria condizionata molto avanzati con ricambio dell’aria. Di fatto, un’architettura apprezzabile anche allo stato puro – l’altezza di sette metri, la soletta ribassata con la trave d’acciaio della struttura per annullare l’ effetto soppalco – e precisi punti di forza progettuale – la scala centrale in Corten, il camino volume passante, la passeggiata da ‘ringhiera milanese’ sulla passerella di vetro. Ma, soprattutto, la percezione di una forte e riuscita integrazione spaziale tra le zone cucina-pranzo-living-home theatre che restituisce scorci dinamici a 360°. “Non abbiamo cambiato nulla” continua Core. “Abbiamo

Nella pagina a fianc , il living aperto sulla zona d’ingresso e caratterizzato da ampie fine tre di sapore industriale. Imbottiti Hall di Rodolfo Dordoni, tavolini-scultura Waterfall di Fredrikson Stallard, poltrone Lou Read di Philippe Starck con Eugeni Quitlett. Tutto by Driade. Chaise-longue di Herman Miller. D’angolo, lampada Parentesi, disegnata da Achille Castiglioni e Pio Manzù, per Flos che la produce dal 1971.

soltanto inserito in un loft metropolitano il pianoforte a coda, l’oggetto a cui sono più legato, che suonavo da bambino e poi, nomade per lavoro dimenticato, il quadro del ’700 e il separé in quattro parti opera di Parisi del 1928 portati dall’Argentina, gli arredi Driade, vasi e cristalli di Boemia, la chaise-longue di Herman Miller, il letto di Hästens, le macchine per il fitness. E poi abbiamo enfatizzato l’importanza di una cucina ‘industriale’ anche nei materiali, grassello e cemento naturale, dove coltivare l’hobby di preparare piatti a tema” riconosce colui che da un anno svolge il ruolo di CEO di Driade, con spirito pragmatico da business plan e senso estetico ereditato dalla mamma.

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La lunga prospettiva visiva che, dalla cucina, collega le aree dining e living organizzate intorno al volume-filt o dinamico del camino. Sul mobile continuo sotto fine tra, vasi Rockley di George Sowden per Driade.

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Dettaglio dell’ambiente bagno (dedicato alla master suite) con il piano in gres porcellanato, le pareti trattate a gesso lavorato a mano e fini o a effetto stucco. Un’ampia porta-fine tra lo apre sulla terrazza-giardino sospeso arredata con pezzi Driade (pouf Koishi, Ishi di Naoto Fukasawa, divano della collezione Tokyo Pop di Tokujin Yoshioka, poltrone MT di Ron Arad). Invece, la porta-fine tra sul lato opposto inquadra la zona fitness e tudio.

“Certo, è una casa dallo spirito eclettico, assorbe stimoli e riferimenti ascrivibili a culture, luoghi, passioni differenti. Ha il dna del brand di cui mi sono innamorato quando ancora non avevo maturato la convinzione di acquisire il controllo di piccole-medie aziende italiane d’eccellenza nell’ambito del design, del lifestyle e dei manufatti di alta gamma, con la mission di integrare le nostre abilità gestionali con un modo di intendere il prodotto tipicamente italiano e di potenziarne lo sviluppo nel mercato globale. Anni fa, andavo spesso con Lucia a Miami al Delano, facevamo colazione seduti sulle Lord Yo, tra i Neoz, i divani bianchi un po’ coloniali disegnati da Starck e lì ammantati dal profumo della salsedine del mare. È in questa fase della vita che ho sviluppato la mia filosofia: riportare esclusività e bellezza nei gesti della quotidianità, non legandomi a uno stile unico, bensì a un progetto. Credo che la bellezza sia un punto di vista, invece creare bellezza è un’arte. Per me bello è tutto ciò che racchiude unicità, creatività e innovazione. Sono i prodotti ben fatti, di qualità, senza tempo. Che hanno dietro una storia, l’energia di un imprenditore, tradizione e visione. Ecco perché quando ho scelto il pianoforte di casa non poteva che essere il migliore al mondo, un Fazioli, ne vengono realizzati circa 200 esemplari all’anno, con lo stesso legno proveniente dalla Val di Fiemme con cui sono fatti i violini Stradivari. Ed ecco perché quando si è presentata l’occasione di conoscere Enrico ed Elisa Astori non me la sono lasciata sfuggire. Ho raccontato loro la mia storia e i miei propositi e c’è stata subito un’alchimia. Qual è infatti l’essenza della creatività italiana che vale un primato, da difendere? La capacità di coniugarla con manualità e manifattura, ad altissimi livelli qualitativi. Driade, nella persona di Enrico Astori, ha sviluppato una ricerca sperimentale e di spessore culturale sul tema dell’abitare. Ha realizzato progetti senza tempo, prodotti eterogenei nello stile e nella geografia, gioiosi ma sempre con un grande senso dell’eleganza. La sua idea di casa come laboratorio estetico è nata dalla passione del viaggio e dello scouting, nel senso di incontro tra sensibilità e culture e talenti. ItalianCreationGroup vuole impedire la dispersione di questi valori fondanti trasversali del brand, oggi presente in 82 Paesi. Ma dobbiamo fare i conti con un mondo globalizzato sia in termini informativi che culturali e con un grande errore degli imprenditori italiani: hanno delocalizzato troppo la produzione, prima nei Paesi dell’Est e poi in Asia, trasferendo alla lunga know-how. Un vantaggio competitivo che stanno

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Un ritratto di Stefano e di Lucia Core. Nella pagina a fianc , vista d’insieme della costruzione spaziale, dallo sbarco delle scale al livello superiore. Si notano il lucernario centrale che dà luce e respiro agli ambienti, insieme alla grande porta-fine tra comunicante con la terrazza, e la leggerezza visiva delle passerelle laterali con il pavimento vetrato che reinterpretano nell’immagine i ballatoi delle vecchie case di ringhiera milanesi.

pagando, considerato anche che il mercato internazionale è stato troppo a lungo incidentale e opportunistico per la piccola-media impresa. La formula per non perdere leadership e favorire una ripresa concreta? In uno slogan: meno delocalizzazione, più internazionalizzazione. Ovvero, rilocalizzare la produzione in Italia e, con il sostegno indispensabile, ad oggi carente, di politiche governative, favorire la defiscalizzazione per investimenti e ricerca sviluppo. Ma, altresì, puntare sui mercati globali, internazionalizzando i marchi e rafforzandone la presenza. Guardiamo ai francesi molto bravi nel coniugare savoir faire e comunicazione e soprattutto a fare sistema. Bisogna far comprendere il valore e l’orgoglio dell’eccellenza e che il premium price del made in Italy è più importante del brand. Milano ha

ancora un ruolo di riferimento nella cultura del design internazionale. È un polo gravitazionale indiscusso con il Salone e il Fuorisalone, anche se quest’ultimo andrebbe orientato con maggior rigore, evitando commistioni fuorvianti e dispersive nella percezione della qualità d’insieme. Al contempo è necessario pensare prodotti sempre più fruibili, anche in termini di aspirazione, da un consumatore cosmopolita. In questo senso stiamo mettendo a fattor comune tutta la potenza che ItalianCreationGroup ha nella distribuzione internazionale. Con un network e piattaforme che poi saranno usate dalle singole aziende per veicolare i propri prodotti e garantire una penetrazione capillare del brand nel mercato mondiale”. Un progetto in tempo reale ma a lungo termine. Come la casa di qualità.

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Vista d’insieme del negozio di dolci e sala da the SunnyHills, in Minami-Aoyama 3-10-20 a Tokyo, progettato da Kengo Kuma, rivisitando il metodo Jiigoku-Gumi della tradizionale architettura lignea giapponese.

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Architettura dolce progetto di Kengo Kuma & Associates

foto di Alessio Guarino testo di Virginio Briatore

Con leggerezza antica e coraggio costruttivo Kengo Kuma edifica e distacca dal contesto il negozio di dolci Sunny Hills, innalzandone il marchio sino ai confini dell’esperienza assoluta

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L’architettura si ispira a un cesto di bambù e si stacca fortemente dal contesto circostante. Lo spazio al piano due, particolarmente tranquillo e riservato. I pavimenti sono realizzati con formelle di sughero.

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el quartiere di Aoyama, a due passi dal celebre edificio di Prada di Herzog & de Meuron, in una delle strade più creative e care di Tokyo si è aperto ad inizio anno un negozio con sala da the a dir poco sorprendente. Il SunnyHills è un sogno di natura pacifica nato per vendere o servire un unico tipo di dolce ripieno di ananas, disponibile in due confezioni da 10 o 20 euro ciascuna. Lo si compra per portarlo a casa o lo si degusta bevendo una tazza di tè aromatico, circondati da materiali naturali come la pietra, il sughero, la carta, il legno ed illuminati dalla luce che filtra magica attraverso il reticolato architettonico. Il progetto pensato da Kengo Kuma per questa piccola oasi spersa tra il cemento e l’asfalto si ispira alla forma di una cesta in bambù ed è realizzato con un sistema di giunture detto “Jiigoku-Gumi,” tipico della tradizionale architettura giapponese in legno, che consiste nella sovrapposizione di sue strati di listelli mantenuti compatti da un terzo strato. Di solito i due pezzi di legno si congiungono su due dimensioni, ma in questo progetto si innestano a 30 gradi e 3 dimensioni, dando vita a una struttura volumetrica che ricorda una nuvola. Con questa idea la sezione di ogni listello è stata ridotta sino a 60mm×60mm. L’edificio è situato all’angolo di due vie residenziali, su di un lotto di 175.69 mq di cui occupa un’area di 102.36 mq, è distribuito su

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L’attacco della scala eseguita in pietra tradizionale giapponese. Nella pagina a fianc , l’accesso al piano secondo, con i riflessi di luce che attraversano la maglia dei listelli e le pareti divisorie in carta washi fatta a mano.

quattro livelli per una superficie totale calpestabile di 293.00 mq. Nel punto massimo raggiunge un’altezza di quasi 10 metri e si apre su un terrazzo dove una panca permette di sostare in plein air. Il piano terra serve da reception, da punto vendita e da filtro tra la strada e le sale superiori. Lo spazio al piano primo è dotato di un grande tavolo formato da tre penisole a cui possono accomodarsi ventuno persone. Lo spazio al piano secondo rivela un ambiente ancora più tranquillo e per certi versi intimo, che può essere prenotato per colloqui e meeting riservati. Ai piani superiori sono situati i bagni, con eleganti lavabi in legno a piano inclinato e detergenti Aesop, e gli spazi privati riuniti in una penthouse di 25 mq. L’edificio è servito da un ascensore in grado di movimentare

11 persone. L’insieme sembra destinato a raggiungere due obiettivi, quello dei progettisti e quello dell’azienda. I primi dichiarano di aver cercato di istituire un’atmosfera soft e sottile, totalmente diversa da quella ottenuta da una comune ‘scatola di cemento’ e si aspettano che nasca una felice ‘reazione chimica’ tra l’architettura e la strada. SunnyHills con questo intervento fa capire come l’architettura e il design in generale siano chiamati ad elevare un buono ma semplice prodotto a prodotto esclusivo di nicchia. In questo caso non si è intervenuti con campagne pubblicitarie, ma concentrando tutto nella preziosità colta dello spazio fisico, in cui l’architetto diventa il mentore e l’alter ego del prodotto a cui si chiede di essere unico e definitivo.

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Ad Amburgo, il recupero di un bunker antiaereo della Seconda Guerra Mondiale trasformato in una centrale energetica sperimentale basata sull’impiego di fonti rinnovabili, con una caffetteria aperta alla cittadinanza e una terrazza panoramica affacciata a 360° sulla città foto di Bernadette Grimmenstein testo di Matteo Vercelloni

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enza dubbio una delle tendenze dell’architettura del nuovo millennio è quella di un attento riuso del manufatto urbano, del confronto con il patrimonio edilizio costruito sia esso industriale, residenziale o terziario, di pregio o senza alcun valore di tipo storico-monumentale, o sia come in questo caso, un ingombrante ricordo dell’ultimo conflitto mondiale: un bunker urbano antiaereo, parte della logica del Terzo Reich di dimostrare valore e tenuta di un presunto ‘fronte interno’. Quello che appare il valore guida di ogni riuso è l’idea di conversione che rende possibile un restauro invece che una demolizione totale per ottenere un ‘terreno vergine’ pronto per un’edificazione ex-novo. È quindi l’idea, il progetto, non solo strettamente architettonico, che valorizza molti dei progetti dell’ultimo decennio che vedono strutture industriali, aree dismesse, bacini portuali, cave e zone sfruttate e abbandonate, risorgere in modo virtuoso e concreto. Come nel caso di questo imponente bunker di cemento armato formato da un blocco quadrangolare alla base, sormontato, sopra un piano in aggetto, da una sommatoria di quattro torri circolari angolari, un tempo sede delle artiglierie antiaeree che coprivano un raggio d’azione di 360°.

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Vista dell’Energy Bunker, primo esempio di riconversione di una struttura militare in centrale ad energia da fonti rinnovabili. Uno dei fronti e l’intera copertura sono stati ricoperti con circa 2.000 mq di pannelli solari.

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energy bunker progetto di Hegger Hegger Schleiff HHS Planer + Architekten AG

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Due viste del Vju Café ricavato in una delle torri circolari un tempo impiegate per il posizionamento dell’artiglieria antiaerea. Dalla terrazza si può osservare dall’alto l’intero panorama della città tedesca di Amburgo. All’interno, sedie di Egon Eiermann SE68. All’esterno di Wilde + Spieth CU Stuhl.

Costruito nel 1943 il bunker di Wilhelmsburg (gemello a quello di St Pauli) era parte integrante della macchina bellica germanica. Nel 1947 l’intero edificio fu oggetto di una demolizione controllata da parte dell’esercito britannico che eliminò sei delle otto solette interne rendendo il bunker impraticabile, ma conservandone la sua figura compiuta anche per la difficoltà oggettiva nel demolire muri e soffitto in cemento armato rispettivamente di tre e quattro metri di spessore. Dopo sessant’anni di ingombrante inutilizzo il bunker è stato restaurato e convertito in centrale di produzione di energia basata su fonti rinnovabili, nell’ambito dell’IBA (Internationale Bauausstellung Hamburg) con un progetto dello studio HHS Planer + Architekten AG. Dal punto di vista architettonico il lato sud del bunker e la sua copertura sono stati interessati dall’installazione di più di 2.000 mq di pannelli solari che coprono un’intera facciata per poi piegarsi a 90° in sommità e diventare una sorta di brise-soleil ombreggiante ad alto rendimento per tutta l’area della copertura. Una delle torri dell’artiglieria antiarea è stata trasformata in una caffetteria d’angolo panoramica (Vju Café) rendendo comunque praticabile l’intero periplo del terrazzo per creare una passeggiata in quota, che offre dall’alto la completa scena urbana. Un piccolo museo permanente è stato creato in collaborazione con il Geschichtswerkstatt

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Wilhelmsburg, per raccontare come il bunker veniva usato dalla popolazione durate la guerra e per documentarne le fasi di trasformazione. Dal punto di vista energetico il cuore del progetto è il grande ‘serbatoio’ di calore costruito all’interno del volume vuoto della base. L’impianto di stoccaggio è composto da un buffer di grandi dimensioni attivato dal calore di unità biometano alimentate a cogenerazione, facendo cioè concorrere energia solare prodotta dai pannelli esterni, con la combustione di legna e lo sfruttamento di un residuo di un vicino impianto industriale. L’obiettivo è di ridurre di circa 11 megawatt la produzione di energia elettrica per la zona, sostituendola con quella prodotta da energie rinnovabili. Una volta a regime l’Energy Bunker sarà in grado di generare 22.500 megawattora e 3.000 megawatt di elettricità. Quantità che soddisfano le esigenze di riscaldamento di circa 3.000 famiglie e il fabbisogno elettrico di circa 1.000 abitazioni del distretto, pari ad un risparmio di carbonio del 95% cioè di 6.600 tonnellate di carbonio all’anno.

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Lina forever Rivive in tutta la sua straordinaria bellezza la ‘Casa de Vidro’, opera prima e abitazione per tutta una vita dell’architetto Lina Bo Bardi. Interni LA mostra in anteprima dopo il restyling. Proprio qui, nelle stanze affacciate sulla selva brasiliana, a pochi passi da San Paolo, trova oggi la sua naturale collocazione la fondazione a lei dedicata. Per celebrarne talento e versatilità a cent’anni dalla nascita foto di Ioana Marinescu - testo di Laura Ragazzola

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a più di mezzo secolo ma non lo dimostra. L’edificio, infatti, sembra costruito ieri per la modernità del segno, la forza espressiva dei volumi e il coraggio delle scelte costruttive: una cassa di cemento e vetro, trapassata dalla luce e sospesa nel bel mezzo di una foresta tropicale. Lina Bo Bardi la progettò e costruì nel 1951 quando insieme al marito, lo storico e critico d’arte Pietro Maria Bardi, decise che il Brasile sarebbe diventato il Paese dove vivere e lavorare. Aveva trentadue anni e lasciava alle sue spalle l’Italia, lo studio di Gio Ponti, la rivista Domus (condivise la vicedirezione con Carlo Pagani) e tutta un’intensa attività professionale ed editoriale, che l’aveva portata nel dopoguerra a stretto contatto con i protagonisti della rinascita culturale italiana, da Bruno Zevi a Elio Vittorini. Ma è in Brasile che Lina troverà la sua vena creativa e la sua felicità: logico che sentì ben presto la necessità di costruirsi una propria casa. Immersa nella vegetazione rigogliosa del Jardin Morumbi, una grande riserva di selva brasiliana “avvolta da un grande silenzio e piena di animali selvaggi, anche bellissimi serpenti …”, come ebbe modo di scrivere la stessa Lina, progetta ed edifica la “Casa de Vidro”, dove vivrà per sempre insieme al marito. Oggi un restyling, documentato da un video realizzato dal regista e architetto Tapio Snellman (www.internimagazine. it) e da un’installazione fotografica dell’artista londinese Ioana Marinescu (le cui foto Interni pubblica in esclusiva), non solo riapre le stanze al pubblico ma accoglie lo straordinario archivio dei lavori di Lina, diventando la sede dell’Istituto Lina Bo e Pietro Maria Bardi. Abbiamo incontrato il suo direttore, il professore Renato Anelli, da anni custode di questo immenso patrimonio di disegni (circa 7.500) e di fotografie (ben 17.000) che documentano il prezioso lavoro di Lina in Brasile.

Un’immagine dell’ampio living completamente vetrato e affacciato sulla foresta: i coniugi Bardi non amavano i divani, che decisero di sostituire con sedute diverse, per forme e materiali, punteggiando lo spazio con più ‘salottini’. Molti, poi, gli oggetti, soprattutto d’artigianato locale, che amavano collezionare a conferma che Lina e il marito s’innamorarono immediatamente del surrealismo del popolo brasiliano e delle sue invenzioni. Ieri e oggi a confronto: qui a fianco la ‘Casa de Vidro’ in una foto d’epoca del 1951, anno a cui risale la costruzione della villa. Oggi l’edificio è comp etamente immerso nella vegetazione brasiliana, che nel frattempo è cresciuta rigogliosa. Il rapporto dinamico che Lina stabilisce con la natura – dagli alberi alla terra, dal cielo agli animali che abitano la foresta – regala all’edificio una g ande leggerezza e una sorprendente ariosità sia nella definizione dei olumi sia nell’organizzazione interna degli spazi interni. (Istituto Lina Bo e P. M. Bardi, San Paolo, Brasile)

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In questa pagine due scorci della casa: si riconosce il ‘foro’, che accoglie un grande albero centrale, attorno al quale si sviluppa il corpo sopraelevato dell’edificio è già in nuce quella carica espressiva che Lina Bo Bardi saprà imprimere ai suoi progetti. Pochi e semplici materiali – vetro, cemento e ferro – ne disegnano la struttura: Lina credeva, infatti, in “un’architettura povera, ma ricca di fantasia, capace di esprimere la maggior comunicazione e dignità attraverso i mezzi più umili e limitati”.

L’occasione: la presentazione lo scorso gennaio, a Londra, di un’inedita collaborazione fra l’Istituto e l’azienda Arper, che nei valori della progettista ha trovato un legame prezioso e uno stimolo per un progetto filantropico. L’azienda trevigiana ha, infatti, industrializzato 500 esemplari in edizione numerata della Bardi’s Bowl Chair, la poltrona disegnata nel 1951 come arredo della ‘Casa de Vidro’ (e mai messa in produzione) per promuovere la mostra Lina Bo Bardi: Together. Partita da Londra l’anno scorso, l’esposizione che ha già toccato le principali capitali europee, arriverà a Milano il prossimo settembre. Professore, un’occasione importante per far conoscere l’opera di Lina Bo Bardi… “Certamente. Ma non solo: una parte dei ricavi proveniente dalla vendita della poltrona, sarà anche reinvestita nei programmi socioculturali che l’Istituto promuove, soprattutto fra i giovani. Proprio come avevano deciso Lina e suo marito”.

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Furono i coniugi Bardi a volere la nascita di una fondazione? “Sì, a cavallo fra il 1989 nel 1990 entrambi sentirono forte il desiderio di realizzare una fondazione che promuovesse la cultura brasiliana, soprattutto nel campo dell’architettura e in quello delle arti. Certo, servivano fondi e loro decisero di vendere dei dipinti di Goya, che facevano parte della loro collezione privata. L’Istituto quando nacque si chiamava Quadrante, in omaggio alla rivista che Pietro Maria Bardi aveva diretto negli Anni Trenta in Italia. Poi, scomparsa Lina nel 1992, cambiò nel nome attuale”. Quale insegnamento ci ha lasciato Lina attraverso il suo Istituto? “Un eccezionale modello di creatività ed energia femminile che recentemente è stato anche ricordato dall’ArcVision Prize – Women and Architecture, istituito da Italcementi con un Premio Speciale per il centenario della sua nascita. Ma soprattutto una grandissima e

autentica volontà di abbattere tutti i confini fra arte e vita, fra artista e pubblico. Lina per tutta la sua vita professionale ci ha sempre stupito per la sua versatilità – è stata architetto, ma anche scenografa, e poi stilista, curatrice di mostre, e, ancora, una fine saggista. Bene, lei ha voluto e saputo mixare tante diverse professioni perché desiderava offrire a tutti, e ribadisco a tutti, un’occasione vera per avvicinarsi alla cultura, all’arte, alla felicità. In Lina non c’è traccia di una diversità fra cultura popolare e cultura erudita: tutti i progetti che ha fatto – emblematico il centro ricreativo SESC – Fabrica da Pompéia – volevano portare l’arte nella vita e la vita nell’arte, indipendentemente dal ceto sociale e dall’età”. Insomma, lei ci sta dicendo che Lina ha dedicato il suo lavoro a tutti… Sì, ai giovani, ai bambini, agli anziani: “tutti insieme”, come ha scritto lei stessa e come del resto recita il titolo della mostra a lei dedicata: Together.

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Il desiderio di Lina di collocare le persone al centro di ogni progetto: ecco ciò che ha convinto Claudio Feltrin, amministratore delegato di Arper, a ‘sposare’ la missione (sociale) e i valori (democratici) della grande progettista. A cominciare dalla messa in produzione della Bardi’s Bowl Chair, un progetto che Arper ha condiviso passo dopo passo con l’Istituto Lina Bo e P.M.Bardi, raggiungendo il felice risultato di legare il progetto originale con il valore aggiunto delle competenze tecniche di un’azienda moderna. La poltrona, nata nel 1951 per la Casa de Vidro dei coniugi Bardi (a fianc , in una foto d’epoca con la ‘sua’ progettista; Francisco Albuquerque), è stata rieditata in 500 copie numerate: il ricavato verrà devoluto all’Istituto stesso e alla promozione di una mostra itinerante dedicata a Lina, che arriverà a settembre alla Triennale di Milano. La Bowl Chair, che ancora oggi mostra tutto il suo rivoluzionario concetto di comfort (la seduta-guscio è multi tasking e può essere diversamente orientata) è proposta in più colori (in basso), proprio come Lina aveva pensato (al centro un suo disegno).

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La corte della Royal Academy of Arts di Londra ha ospitato l’installazione di Álvaro Siza che ha disposto dei laconici stilizzati elementi architettonici di colore giallo sulla pavimentazione di pietra, come frammenti di un’allusiva architettura, raccolti tra gli edifici classici al con orno.

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foto di James Harris, courtesy by Royal Academy of Arts testo di Matteo Vercelloni

Alla Royal Academy of Arts di Londra, la Mostra Sensing Space: Architecture Reimagined. Sette grandi installazioni on site a cura di architetti internazionali all’interno delle gallerie storiche, hanno attivato un confronto tra passato e futuro e presentato il progetto di architettura quale pratica concreta, ma tesa verso l’espressione poetica e concettuale

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n alcune occasioni, nell’ambito di grandi esposizioni dedicate all’architettura ci si trova nell’imbarazzante situazione di osservare architetti che indossano la veste di artista, con risultati che oggettivamente provocano uno scarto, in riduzione, rispetto alla libertà che le espressioni dell’arte permettono in sé. Non è questo il caso della mostra Sensing Space: Architecture Reimagined, organizzata nelle prestigiose sale della Royal Academy londinese, curata dalla giovane Kate Goodwin, dove sette installazioni in bilico tra architettura e opera scultorea abitabile sono riuscite ad attivare uno stretto confronto e dialogo con lo spazio che le ha accolte e a produrre nel pubblico un’interessante fruizione emozionale.

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L’installazione sospesa dello studio Grafton Architects. Una nuova tettonica dello spazio interno, composta da un volume scavato di cemento a vista, comprimeva lo spazio, catturando la luce zenitale.

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L’intervento di Pezo Von Ellrichshausen ha proposto una monumentale microarchitettura lignea: uno spazio sospeso sostenuto da quattro muti cilindri contenenti le scale a chiocciola che conducono alla terrazza, inconsueto elevato punto di osservazione per i visitatori del museo.

Come spiegava Charles Saumarez Smith, chief executive dell’Accademia: “la Royal Academy rappresenta anche l’architettura, non solo la pittura e la scultura. Volevamo celebrare questo fatto, ma guardare all’architettura del futuro, non del passato, e soprattutto a un tipo di architettura che non si limita a risolvere problemi, ma regala esperienze nuove e imprevedibili”. È nata così l’idea di invitare sette architetti internazionali a progettare uno spazio visitabile, più che a esporre una rassegna di modelli e disegni delle loro realizzazioni, in modo da definire un ‘saggio’ on site appositamente calibrato, offerto al largo pubblico che ha visitato le sale della famosa istituzione museale londinese. Afferma la curatrice: “Ho invitato di proposito architetti provenienti da diverse parti del mondo, di diverse generazioni e molteplici sensibilità, ma accomunati tutti da una grande esperienza nel campo della costruzione. L’obiettivo è stato quello di rendere l’esperienza del visitatore fisica, tangibile e sensoriale, ma anche di dare un’idea della grande poesia dell’architettura che è il sottofondo sempre presente delle nostre vite di cui spesso non ci rendiamo conto”. In effetti è proprio la rivalutazione poetica del progetto di architettura ciò che ha caratterizzato fortemente il percorso e l’insieme corale dell’esposizione; il sottolineare come anche nel presente l’architettura non sia una disciplina a carattere

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principalmente ‘funzionale’’, ma ricca di valori legati alla cultura umanistica in senso lato, di cui il valore poetico dell’espressione - in questo caso ‘costruita’ - è apparso come fattore guida. Gli architetti coinvolti sono stati Grafton Architects (Irlanda), Diébédo Francis Kéré (Germania/ Burhina Faso), Kengo Kuma (Giappone), Li Xiaodong (Cina), Pezo Von Ellrichshausen (Cile), Edoardo Souto de Moura e Álvaro Siza (Portogallo).

L’architetto africano Diébédo Francis Kéré ha costruito una sorta di contaminazione tra un Igloo sezionato sull’asse mediano e un arco di cattedrale gotica in scala ridotta. Composto da pannelli di polipropilene a nido d’ape, la piccola architettura accoglieva i visitatori invitandoli a trasformare la superficie della truttura, inserendovi cannucce colorate.

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Kengo Kuma si è ispirato al Ko-do, la cerimonia giapponese dell’olfatto, con un’eterea stanza di bambù fluttuanti profumati e illuminati, che galleggiano nell’oscurità.

A tutti la richiesta è stata quella di tradurre in installazioni temporanee, dettate da una libera esplorazione degli elementi base dell’architettura, una serie di spazi visitabili caratterizzati da esperienze anche tattili, sonore e olfattive. Le diverse installazioni hanno offerto la possibilità al pubblico di capire come, oltre alla figura architettonica dell’ambiente, suono e memoria, odori e superfici, influiscano nella nostra personale percezione dello spazio offerto in modo globale a quattro dei cinque sensi umani canonici. La mostra iniziava già dall’esterno nella corte dell’Accademia dove Álvaro Siza aveva disposto dei laconici stilizzati elementi architettonici di colore giallo raccolti come frammenti di un’architettura che non c’è tra gli edifici classici al contorno. Eduardo Souto de Moura ha lavorato sulle antiche arcate lignee dell’Accademia, sdoppiate da calchi in cemento lasciati semi aperti come allusive porte d’ingresso. Nell’interno, nella grande sala con stucchi dorati e soffitto vetrato, l’imponente struttura monumentale di legno di Pezo Von Ellrichshausen, con uno spazio sospeso sostenuto da quattro muti cilindri, concludeva in modo eloquente la prospettiva interna offrendo un inconsueto elevato punto di osservazione per i visitatori. Kengo Kuma si è ispirato al Ko-do – la cerimonia giapponese dell’olfatto – con un’eterea stanza di bambù fluttuanti, profumati e illuminati, che galleggiano nell’oscurità. Una serie di misteriosi labirintici passaggi e corridoi, scanditi da pareti composte da sottili rami d’albero (22 mila pezzi ), lavati da luci incassate a pavimento, hanno configurato l’affascinate opera di Li Xiaodong. Lo studio Grafton Architects ha pensato ad un’installazione sospesa che ridisegnasse il soffitto e l’uso della luce di una delle sale. Una nuova tettonica dello spazio interno, composta da un volume scavato di cemento a vista, comprimeva lo spazio catturando la luce zenitale in modo quasi pittorico da aperture e tagli disposti a scandire la geometria della superficie.

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Una sorta di contaminazione tra un Igloo sezionato sull’asse mediano e un arco di cattedrale gotica in scala ridotta, costruito in pannelli di polipropilene a nido d’ape, disegnava lo spazio raccolto proposto dall’africano Diébédo Francis Kéré che accoglieva i visitatori invitati a trasformare la pelle architettonica della struttura inserendovi cannucce colorate. Sensing Spaces, “l’architettura rivelata” e restituita in una serie di installazioni, ha permesso, al di là del riuscito fattore spettacolare dell’esposizione, di riflettere sull’architettura come esperienza multisensoriale, in cui l’uomo è al centro del progetto per fruire dello spazio con il corpo e con la mente.

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I designer parlano del design: 22 progettisti internazionali si interrogano sullo “stato di salute” del made in Italy e rispondono (molto sinceramente) a chi solleva dubbi circa la leadership del sistema design/Italia, Salone e FuoriSalone inclusi. Una riflessione a più voci che ha trovato un fil rouge nell’affrontare le sfide del futuro: fare cultura del prodotto per generare qualità dei prodotti. Perché è la qualità il vero, unico, strategico volano per conquistare competività e successo nel mondo di Laura Ragazzola

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Matali Crasset “Oggi mantenere un primato non è semplice. Ma le sfide sono sempre una buona cosa: a volte danno la possibilità di pensare in modo diverso, di trovare nuove logiche. A ogni modo il sistema sta perdendo colpi. Forse si dovrebbe rimettere la ricerca al centro e riportare l’attenzione sull’essere umano. Ci sono molte opportunità per trovare nuovi modi di realizzare progetti e fare ricerche sul valore aggiunto che deriva dal fatto di essere europei. I nostri stili di vita, nonché i nostri ‘sistemi’ di pensiero, continuano a costituire un punto di riferimento in tutto il mondo… È giunta l’ora di valorizzarli. A cominciare dal Salone del mobile milanese, che secondo me deve rimanere un evento culturale ben oltre l’ambito professionale. Per questo motivo è il caso di reinfondervi un po’ di sperimentazione e informalità affinché sorpresa e creatività non manchino”. Novità 2014: “Per Alessi ho disegnato una collezione di vassoi: un progetto dal design essenziale, ma in cui riporto concetti che mi sono cari come la trasmissione e la condivisione. Poi per Campeggi, c’è il progetto ‘Deep attention and steep’, che ho pensato come uno ‘spazio’ temporale dove prendere appuntamento con un libro, un film, un ‘tête à tête; infine, la nuova collezione Ikea PS 2014”.

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Qui a fianco la designer Matali Crasset mostra (con grande ironia) i vassoi in acciaio Territoire, creati per la collezione 2014 di Alessi: due le dimensioni e due i colori (ma esiste anche la versione in acciaio inossidabile lucido). In alto, il vassoio, che si può anche appendere: fa parte della nuova collezione Ikea PS 2014.

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In basso l’architetto Piero Lissoni nel cantiere del Grand Hotel Billia, Valle d’Aosta (photo Santi Caleca), inaugurato il dicembre scorso; qui a fianc , uno studio per l’allestimento della mostra a Palazzo Reale, Milano, dedicata al pittore Bernardino Luini.

Piero Lissoni “Se il design va avanti così non ha futuro. Il motivo è semplice: il design esiste sino a quando esisteranno le industrie, e le aziende continueranno ad esistere se sapranno mettere sul piatto della bilancia il rischio, la creatività, la voglia di alzare l’asticella. Devono tornare a pensare in grande nella parte più esposta del mercato e in quella meno esposta, in quella più alta e in quella più bassa. Devono tornare a pensare per immaginare sé stesse in un modo rinnovato, per ricollocarsi strategicamente sul mercato, che è visibilmente cambiato. Insomma, ci vuole un pensiero proprio, originale mentre si vede solo un’offerta di prodotto sempre uguale: manca totalmente una rinnovata capacità di rischio e di creatività. In altre parole, il design italiano sta andando dove le aziende lo stanno portando. Chi si prende più il rischio intellettuale di fare una progetto importante? Senza la follia creativa di Giulio, il brand Cappellini non sarebbe mai esistito e senza di lui, moltissimi designer non avrebbero la visibilità professionale che hanno oggi. Il Salone del mobile è ancora un momento topico, cruciale, e lo dico perché è una cosa evidente. Dobbiamo però migliorarci e avere il coraggio di cambiare, ma soprattutto di operare delle giuste selezioni. Parlo soprattutto del FuoriSalone. La stampa estera ha scritto che la kermesse milanese si sta trasformando in una gigantesca ‘fiera di paese’. Ma penso che sia un giudizio piuttosto superficiale: anche il giornalista deve scoprire le eccellenze e, soprattutto, saper fare una selezione; del resto questo è il suo mestiere. Mio nonno mi diceva che l’estremismo è la malattia infantile del comunismo. Ecco, oggi bisogna cominciare a diventare un po’ meno infantili. Tutti coloro che operano nel FuoriSalone devono abbracciare un ‘modus operandi’ che privilegi la qualità sulla quantità. Mi piace l’energia che si respira a Milano nei giorni del Salone, ma dobbiamo togliere ‘l’accampamento’. E selezionare, selezionare, selezionare…” Novità 2014: “Al Salone ho lavorato con aziende rigorosamente italiane, come Living Divani e Cassina: per entrambe c’è una nuova collezione di divani; poi c’è Kartell e una nuova cucina per Boffi. E ancora, mobili per Desalto, Porro, Lema, Glas Italia...E la mostra a Palazzo Reale a Milano dedicata a Bernardino Luini.

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Claesson koivisto rune “In Italia il design è una cosa seria: non è sempre così in altri Paesi del mondo. Ovviamente per un designer è interessante lavorare qui, avendo come partner le aziende del made in Italy, capaci di spirito di collaborazione e di grande vivacità; senza contare, poi, le straordinarie conoscenze e competenze dei tecnici e degli artigiani italiani, grazie ai quali si possono raggiungere risultati notevoli per qualità. Per questo motivo non pensiamo che il design italiano sia in declino, né tantomeno in discussione la leadership di Milano a livello internazionale (ma durante il Salone servirebbero più taxi e una ricettività più ampia, attenta anche ai costi!). C’è fermento nel design italiano? Direi di sì. In molte aziende si avverte un certo, positivo cambiamento. Basta guardare realtà produttive come Arflex o Tacchini, per citare due esempi dove sono avvenuti cambi generazionali molto interessanti. O, ancora, una nuova realtà come Discipline che è riuscita ad accogliere quella ricerca di autenticità e quell’attenzione alle valenze ecologiche, che le nuove generazioni chiedono e desiderano”. Novità 2014: “Abbiamo disegnato per Arflex, Asplund, Capdell, Casamania, David Design, Design House Stockholm, Engblad & Co., Fontana Arte, Italesse, Matsuso T, Offecct, Paola Lenti, Skandiform, Swedese, Tacchini, Wonderglass, Wästberg. E numerosi progetti architettonici in tutto il mondo...”.

Il poetico specchio da parete Loop Mirror con struttura in legno progettato per Porro dal team svedese Front (in alto il ritratto delle tre designer), che festeggia il sesto anno di collaborazione con l’azienda italiana.

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Sopra il divano modulare Soft Beat disegnato per Arflex dal trio svedese qui a fianco (ph to Knut Koivisto).

Front “La leadership dell’industria made in Italy è messa in discussione? No, non lo pensiamo. Innazitutto per il patrimonio culturale e il fascino dei brand italiani. E, poi, per il fatto che secondo la nostra opinione le aziende del vostro Paese sanno osare di più ed essere più ‘visionarie’ rispetto, per esempio, ai brand scandinavi, spesso molto tradizionali sia per il modo di pensare che per il modo di lavorare. Lo stesso vale per Milano, che costituisce ancora oggi un riferimento culturale importante nel panorama internazionale del progetto. La città nella settimana del Salone del Mobile accoglie persone da tutto il mondo: si possono incontrare colleghi, clienti, trovare nuove ispirazione e far conoscere i propri prodotti. Nelle giornate del Salone accade di tutto: può capitare di ritrovarsi improvvisamente fianco a fianco con il proprio designer preferito o con il presidente dell’azienda con cui vorresti lavorare, magari mentre stai semplicemente ordinando un Negroni al bar Basso… ”. Novità 2014: “Continuiamo a lavorare con Porro anche in questo Salone: ci piacciono molto le collaborazioni di lunga data come questa, perché dopo un po’ ci si conosce bene e si lavora bene. Ma quest’anno iniziamo anche un nuovo viaggio con Gebrüder Thonet Vienna, un’azienda austriaca con una storia affascinante e di grande maestria artigianale”.

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A destra l’architetto Antonio Citterio (photo Wolfgang Scheppe) e in basso un pezzo iconico della sua produzione: il divano Charles progettato per B&B Italia nel 1997.

Antonio Citterio “Credo che Milano abbia ancora un ruolo di riferimento nella cultura del design internazionale. Ma la città, il Salone del Mobile e il FuoriSalone dovrebbero lavorare di più su una dimensione di fondo, restituendo il valore che il progetto è un fatto culturale che fa parte della vita e si evolve con essa. Non è un problema di gusto, di stile o di status da esibire. Di sedie o di tavoli. Ci sono anche marciapiedi, semafori, aeroporti… il modo di vivere gli spazi nella metropoli. Nonostante tutto, gli stranieri continuano a vederci come portatori di savoir faire e di qualità di vita (e l’80% dei lavori che il mio studio sta realizzando nel Far East, grattacieli di 200 metri di altezza, lo dimostrano). Mi spiace però non sentire nell’aria il profumo di un nuovo Rinascimento. La cultura italiana del design ha perso forza e identità? Sono cambiate le condizioni storiche. Ieri, negli Anni 50/60, c’erano poche aziende italiane di piccole dimensioni e un ridotto numero di architetti aperti alla

sperimentazione di materiali e tecnologie nel settore del furniture design che hanno realizzato prodotti artigianali, quasi pezzi unici, per i loro committenti. Si muovevano in un panorama internazionale dove l’America e la ricerca di Eames erano modelli di riferimento e il design scandinavo rappresentava la cultura democratica di un Paese. Questi personaggi hanno creato il fenomeno che rispecchiava un momento vincente dell’Italia, sostenuto dall’incontro virtuoso con il sistema creato da riviste e fiere di settore. Oggi è diverso: potrebbero anche esserci nuovi Maestri, ma tra migliaia di architetti-designer italiani cui si sono aggiunti quelli provenienti da tutto il mondo. Una massificazione che rende complicata anche l’opportunità di farsi conoscere. La qualità del pensiero progettuale non è correlata a un fattore geografico. È soltanto una questione di numeri. L’Italia, come ha detto Oscar Farinetti, rappresenta lo 0,8% del mercato mondiale. I conti sono presto

fatti. In quanto ai motivi per cui tutti i designer del mondo ambiscono lavorare con i marchi del design italiano, è un problema di palcoscenico: per un progettista presenziare al Salone o al FuoriSalone è un po’ come partecipare alle sfilate di haute couture. Il valore aggiunto della visionarietà degli imprenditori italiani? Un certo grado di ingenuità positiva, che può diventare anche una scommessa. I produttori italiani sono sempre disposti a credere in un’idea e nell’innovazione tout court”. Novità 2014: “Lavoro da anni con le stesse aziende: B&B Italia, Vitra, Flexform ... e altre. I miei prodotti non hanno ansia di prestazione a breve termine, un anno di vita o un solo Salone del mobile alle spalle. In questa fase passo più tempo a discutere di distribuzione con i miei interlocutori che non di prodotto. Mi interessa di più contribuire al disegno di strategie aziendali”. (Antonella Boisi)

Louise Campbell

A destra la designer danese (photo Moren Jerichau), che fi ma la nuova collezione di posate per Georg Jensen (sopra).

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“Sembra che oggi tutti e ovunque, produttori e designer, vadano alla ricerca di talenti sul mercato internazionale. Si tratta di una reazione molto naturale alla globalizzazione; le dimensioni del ‘buffet’ si sono ingrandite moltissimo, ed è difficile resistere alla tentazione di assaggiare tutto. Per ora è divertente, dato che l’approccio al design è ancora legato piuttosto strettamente a fattori geografici: è quindi possibile vedere da dove provengono i vari prodotti, e questo è interessante. Ma più verranno abbattuti i confini, meno variegato risulterà quello che si produce. In un momento non troppo lontano del futuro, cercheremo tutti disperatamente di nuovo le nostre radici. Per questo anche quelle del design made in Italy vanno preservate e non proprio globalizzate. Se fossi italiano indosserei più indumenti di cashmere, e ‘succhierei’ ogni giorno il ricco nettare della storia del mio Paese, per restare fedele all’unica parola di cui gli italiani detengono i diritti: la (grande) ‘Bellezza’. Il vostro Paese è la culla europea delle arti più sublimi, della passione. Direi che gode di un vantaggio piuttosto robusto. E, infine, visto che sono stata stimolata a formulare un mio giudizio sul Salone del mobile milanese, penso che oggi abbia assunto le dimensioni di un organismo cresciuto troppo. Ma non sarei per un controllo rigido: anzi, lascerei massima libertà. L’imprevedibilità dell’evento è ancora il suo vero fascino”. Novità 2014: “Ho progettato per Georg Jensen, Royal Copenhagen, Kvadrat, Mr. Perswall, Louis Poulsen, senza dimenticare IMM Cologne, che mi ha lasciato la massima libertà di progettare per quest’anno la mia ‘Das Haus’, aprendo così un vero e proprio vaso di Pandora di idee”.

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Philippe Nigro “In Italia le aziende devono coltivare quello che hanno sempre fatto fino a pochi anni fa, e cioè innovare, cercare, rischiare. So che oggi sono obiettivi non facili da raggiungere, ma la storia insegna che cose, idee, concetti, prodotti – tutti bellissimi –, sono nati spesso in periodi difficili, di crisi. Quello che è sicuro, secondo la mia opinione, è che in Italia devono essere protetti e aiutati i cosiddetti “savoir-faire”, coloro che sono più esposti al rischio di scomparsa. Sicuramente il design e i designer possono trovare stimoli solo se gli imprenditori si mostrano ancora curiosi e capaci di credere nel nuovo. È così che è nata la stagione dei mitici ‘Grandi Maestri’. Attenzione, però il loro ‘effetto’ può creare un cono d’ombra sui ‘piccoli maestri’ di oggi, che sono in grado, se hanno spazio, di crescere. Insomma, c’è bisogno di fidarsi del talento di tutti, indipendentemente dall’età. E del resto, ampie sono le testimonianze, per fortuna, dell’esistenza di ‘nuovi maestri’. Ma vincono gli italiani sugli stranieri? Posso parlare della mia esperienza personale: io sono francese e ho studiato design in Francia; poi, ho completato la mia preparazione teorica con un’esperienza ‘sul campo’ in Italia, avendo così la possibilità di dialogare con due culture e due mondi differenti: dall’incontro di anime diverse, dal mix di esperienze di vita possono nascere progetti interessanti e nuovi per le aziende. Da questo punto di vista il Salone del mobile e il FuoriSalone sono momenti importanti. Sicuramente Milano è ancora un riferimento di spicco nel panorama del design internazionale ma deve continuare a sorprendere. L’intento è sempre quello: rendere democratico il design, coinvolgendo gli addetti ai lavori ma anche tutti coloro che si dimostrano curiosi”. Novità 2014: “Ho lavorato per Hermès, Kvadrat, Caimi Brevetti, Marsotto con il bellissimo marmo di Carrara, e Venini. E ancora, con la Triennale di Milano, nell’ambito della settima edizione del Triennale Design Museum”.

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Sopra il designer francese ma milanese d’adozione (photo Mercedes Jean Ruiz) con i pezzi che ha presentatato a Colonia per Ligne Roset: il divano Cosse e la collezione di luci Lumière Noir.

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Il designer francese Patrick Norguet e l’applique Cône, risultato di una nuova collaborazione con Artemide; anche in bianco.

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Mathieu Lehanneur “L’industria del mobile italiano subisce gli effetti della concorrenza di molti Paesi. Alcuni dei processi di produzione e competenze tecniche sono state esportate sui mercati internazionali da diversi anni: quindi le aziende del made in Italy non possono più contare soltanto sul loro know-how, ma piuttosto sull’esperienza dei tecnici e degli ingegneri stessi nonché sul loro potere di affermare: ‘Non sappiamo ancora come realizzeremo quell’oggetto, ma ci riusciremo, perché ci crediamo!’ Spesso si dice che il modo migliore per capire il presente è percepire il futuro, e nello stesso tempo avere una perfetta conoscenza del passato: gli imprenditori italiani vantano questa cultura, questa conoscenza e visione: una ricchezza davvero immensa! L’importante, infatti, non è più aggrapparsi all’identità del design italiano, ma piuttosto all’energia tutta italiana di credere nelle proprie intuizioni. Il Salone e il FuoriSalone devono continuare a perseguire l’obiettivo dell’apertura di spirito e di mente per diventare la piattaforma internazionale della creatività, nel senso più ampio del termine. Milano deve dimostrare ciò che è e ciò che sarà, in tutti i campi: dal design all’architettura, dalla moda alla tecnologia. Deve diventare un ‘oracolo’ in grado di capire, accogliere e consigliare il mondo della creatività”. Novità 2014: “Ho disegnato per Audemars Piguet, Binauric, Pulman Hotels, Swatch, LaCie, Schneider Electric, Hennessy, Le Laboratoire, Centre Pompidou, Lexon e Carpenters Workshop Gallery. Fra i miei lavori futuri c’è il Grand Palais a Parigi per il quale progetterò l’interior design. Giocherò sull’idea di spazi ibridi per rispecchiare la natura di luogo (molto ibrido) che caratterizza questo meraviglioso edificio”.

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“L’Italia ha beneficiato, con la sua storia, di un’organizzazione industriale ricca e interessante. La convivenza tra industria e artigianato, grazie a un lavoro ben coordinato e allo scambio di know-how, fa dell’Italia il modello più interessante e più propizio all’innovazione e alla creazione. Anche la dimensione familiare dell’industria italiana è stata un punto forte rispetto alle esigenze e al potere del mondo finanziario. Oggi, però, per le aziende è giunta l’ora di porsi delle domande, prendersi il tempo per riflettere, per stabilire nuove strategie. Senza questo approccio nulla sarà davvero costruttivo. Bisogna creare dinamiche e sinergie industriali basate sul gruppo, sullo scambio dei talenti e delle competenze … Il tempo oggi scorre più veloce e si porta dietro grandi cambiamenti: i ‘maestri di ieri’ non sono i ‘maestri di oggi’. Bisogna riconsiderare le sfide di domani. Da questo punto di vista penso che l’Italia non abbia abbastanza fiducia nei suoi giovani. Non è semplice per le nuove generazioni, trovare una propria collocazione considerando l’eredita ‘pesante’ dei ‘Grandi Maestri’! Questo spiega anche la facilità con cui i designer stranieri riescono a ‘penetrare’ nel mercato italiano (va da sé che la globalizzazione facilita questa operazione). Ma l’Italia piace perché è soprattutto ‘simpatica’ e allegra agli occhi di tutto il mondo. Incarna ancora una dinamica latina e positiva con un’autentica cultura del progetto. In molte aziende italiane i designer trovano quel giusto equilibrio tra storia, cultura e desiderio di innovare, che diventa un fattore motivante e fonte di grande ispirazione. L’Italia, e Milano in particolare, hanno ancora un ruolo molto importante nel panorama del design internazionale. Al Salone de mobile, tuttavia, vedrei necessaria una selezione più qualitativa per quanto riguarda le offerte, i brand e i prodotti; sentirei la necessità di sviluppare un senso critico forte al fine di evitare che questa importante manifestazione si trasformi in ‘un supermercato del design’. Disegnare degli oggetti comporta un senso di responsabilità: dobbiamo lottare contro i fenomeni di immagine e contro le mode superficiali”. Novità 2014: “Mi piace parlare di collaborazioni, che si creano con il tempo grazie agli scambi, all’ascolto e al rispetto reciproco… Quest’anno presento nuovi prodotti per Alias, Glas Italia, Driade, De Padova e Cassina”.

Si chiamano Boom Boom i mini altoparlanti portatili (anche con connessione wireless), che Mathieu Lehanneur (in alto a sinistra) ha disegnato per Binauric.

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Matteo Thun “Sicuramente Milano come piazza per il design è tuttora di grande importanza. Qui lavorano molti designer; si possono visitare le case e gli atelier dei “grandi maestri”; c’è una buona offerta di formazione; infine c’è la piattaforma Salone/FuoriSalone che, a dispetto di quanto si vuole credere, continua ad attrarre il pubblico internazionale. Ma oggi, secondo me la parola d’ordine per consolidarne il primato deve essere: ‘Networking’. È un peccato che l’editoria, invece, stia accusando i colpi della crisi. Perché anche essa, da sempre, ha avuto grande influenza sul design a livello internazionale. Non ho dubbi sulla leadership dell’industria italiana, che oggi può contare su alleanze di produzione, progettazione e logistica universale – il primato della delocalizzazione (che fa un po’ paura ad alcuni)”. Novità 2014: “Le aziende con cui ho lavorato sono miei partner storici che investono in ricerca e sviluppo, soprattutto nel settore sanitario e dell’igiene del corpo: fra tutte Klafs”.

L’architetto Matteo Thun e in alto un’immagine del nuovo bagno turco progettato insieme ad Antonio Rodriguez per l’azienda tedesca Klafs in occasione del Salone internazionale del Bagno 2014; nel progetto anche la sauna.

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Ferruccio Laviani e la sua intramontabile Bourgie, progettata per Kartell.

Ferruccio Laviani “Non bisogna avere paura di avere o perdere la leadership: è molto difficile credere che il mondo dell’arredo possa evolvere in modo corretto. Se anche siamo stati gli unici per molto tempo ad avere queste priorità, non è detto che anche in altri Paesi si possa avere buon design e pianificare una buona distribuzione. Credo sia importante andare per la propria strada, essere convinti di quel che si fa ed essere propositivi. Personalmente credo sia l’unico cocktail vincente per fare in modo che le cose si sviluppino nel modo più corretto. Certo, molti designer stranieri ambiscono a lavorare qui da noi: la storicità e la diffusione dei nostri marchi nel mondo hanno permesso di dare visibilità internazionale sia ai prodotti che ai progettisti. Sicuramente è questo uno dei motivi per cui ogni designer, di qualsiasi parte del mondo, prova a cimentarsi con le aziende italiane. Inoltre il network e il tessuto industriale fatto da piccoli artigiani e grandi aziende, ha permesso sino ad oggi di poter realizzare progetti innovativi e difficilmente realizzabili in altri Paesi dove non sussiste questa situazione. Pensare a una nuova ‘Scuola del Design’ italiano dopo la stagione dei ‘Grandi Maestri’? Amo molto la storia del nostro design ma cerco di essere il più razionale e il meno campanilista possibile. Il design può esistere in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi Paese: non è solo per un retaggio storico che debba essere relegato in una specifica area geografica. Penso che sia sbagliato continuare a guardare al passato come ad un momento glorioso e al presente come ad una specie di entità nebulosa di cui non si leggono i profili. È impossibile fare paragoni con la stagione passata del design, quando la situazione economica globale era nettamente diversa rispetto a quella che stiamo vivendo oggi.

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Infine, un commento sul Salone del mobile: per me è, e rimane, l’esposizione del design più importante al mondo. Ma il suo ruolo-leader può essere mantenuto solo se le aziende, e i designer, sono in grado di infondere ogni anno a questa importante manifestazione una grande carica di energia. Ma soprattutto bisognerebbe lavorare per fare in modo che col tempo non si esaurisca in uno sterile collettivo di ‘mode’ che, come ben sappiamo, poi passano”. Novità 2014: “Scoprirle al Salone sarà più divertente che raccontarle!”.

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Jorge Pensi

Fa parte delle novità presentate al Salone del Mobile 2014 l’appendiabiti da terra che Jorge Pensi (nel ritratto) ha progettato per l’azienda tedesca Schönbuch.

“È possibile che i grandi cambiamenti della società e del gusto, a cui vanno aggiunti la grave crisi economica e un profondo scoraggiamento, abbiano provocato una mancanza di energia tanto nei designer quanto nelle aziende. Un mercato che non ha bisogno di nulla è sempre avido di oggetti nuovi da consumare velocemente, come fossero ‘usa e getta’. Talvolta servono soltanto per le copertine dei magazine di settore e, dopo un breve periodo, nessuno se ne ricorda più. È necessario cambiare atteggiamento e progettare oggetti atemporali che ci sopravvivano... Per quanto riguarda l’industria italiana, penso che il suo primato sia ancora indiscutibile. È un punto di riferimento per tutto il mondo e Milano è la capitale del design: il ‘suo’ Salone rappresenta l’appuntamento annuale di riferimento per le novità e le tendenze del settore. Mi auguro che non si sacrifichi, però, la qualità a favore dell’immagine e che non accada ciò che si è verificato con l’industria automobilistica italiana che ha ceduto la leadership all’industria tedesca. D’altro canto, collaborare con un’azienda italiana per un designer è come girare un film a Hollywood per un attore. Lavorare nel vostro Paese significa poter contare sull’esperienza, sul know how e su un grande rispetto per la qualità del design. Il fatto poi che molte aziende del made in Italy collaborino con designer stranieri non è certo un problema, e si spiega con la realtà globalizzata in cui viviamo e con il desiderio di

trovare talenti dovunque siano. D’altra parte, le nuove tecnologie ci consentono di progettare e seguire il processo di sviluppo agevolmente da qualsiasi luogo, ad esempio Barcellona, collaborando con aziende che hanno sede in qualsiasi altra città del mondo. Va da sé, comunque, che l’Italia, finita la stagione dei ‘Grandi Maestri’, dovrebbe tentare di creare una nuova ‘Scuola di Design’ che risponda alle necessità attuali, che sia in sintonia con il mondo in cui viviamo, facendo riferimento al prezioso patrimonio culturale del design italiano del passato: sono stati i Grandi Maestri italiani a insegnare a tutti noi un nuovo modo di pensare. Non dimenticherò mai quando Vico Magistretti disse: “gli anni in cui inventammo il design italiano”... si riferiva alle prime collaborazioni con Cassina. L’Italia deve continuare a puntare sulla creatività, sulla qualità eccellente della sua manifattura, cercando di allontanarsi dalle mode effimere. Ma soprattutto il “suo” Salone deve essere la vetrina di imprese che vogliono innovare e non seguire percorsi già tracciati da altri”. Novità 2014: “Nel corso della mia carriera ho collaborato con successo con molte aziende: Cassina, Knoll International, Kusch+Co., Akaba, Leucos, Steelcase... In questo momento sto lavorando con Vondom e Alternative in Spagna, Shönbuch in Germania, Leucos , Estel e Pedrali in Italia, Janus et Cie. negli Stati Uniti, Arquimuebles in Colombia e Zoom by Mobimex in Svizzera”.

Gordon Guillaumier

In alto gli ultimi ‘nati’ nell’atelier Guillaumier (nel ritratto): da sinistra, divani di Driade, tavoli di Roda (rotondo) e di Tacchini, sedie di Thonet.

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“Sicuramente l’Italia sta vivendo un momento critico, che pone dei forti limiti alla produzione di design rispetto al passato. Tuttavia, penso che proprio queste difficoltà possano rafforzare il settore, mettendolo a confronto con altre realtà produttive internazionali. Bisogna solo ricordare che una leadership viene assegnata soprattutto per merito di innovazione e non solo per fama storica. Certo, la stagione dei ‘Grandi Maestri’ ha dato enfasi e lustro al design Italiano a partire dagli Anni 50/70, soprattutto perché i prodotti dei Castiglioni, dei Magistretti, dei Ponti – ma i nomi sarebbero davvero tanti – sono diventati vere icone nel tempo. Penso che la creatività italiana non abbia mai conosciuto limiti, grazie anche a un atteggiamento culturale sempre aperto e rinnovato. Forse bisogna concentrarsi di più su alcuni concetti come produttività sostenibile, riciclabilità, km zero, eco-friendly, che in Italia vengono considerati più utopie che un patrimonio della vita quotidiana. Ma esiste ancora oggi una scuola di design tutta italiana? Mi piacerebbe rispondere di sì: in verità credo che oggi ci sia molto individualismo (o meglio protagonismo) che lascia poco spazio al lavoro di gruppo a scapito di un comune ideale. Ci vorrebbe davvero, in questo momento, una scuola nuova e vitale capace di dare nuova linfa al design del futuro. Per esempio assicurare che il design rimanga sempre democratico in un momento in cui molte aziende italiane stanno soprattutto puntando sul concetto del lusso (e secondo me questo è l’aspetto che il Salone del mobile e il FuoriSalone dovrebbero consolidare)”. Novità 2014: “Ho progettato per Lema, Tacchini, Driade, Roda, Thonet, Porro, Frag… forse dell’altro. Anche qui non ci sono certezze”.

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Le ‘ali’ fonoassorbenti sospese a soffit o della collezione Flap XL progettate da Alberto (nel ritratto) e Francesco Meda per Caimi Brevetti.

Le nuovissime sedie MS4 in polipropilene con superficie a nido d’ape: le ha progettate Marc Sadler (a sinistra) per Calligaris in occasione del Salone del Mobile 2014.

Alberto Meda “Credo che la leadership dell’industria italiana dell’arredo non possa essere messa in discussione. Il nostro Paese ne conserva il primato con un atteggiamento rispettoso della propria cultura, dei propri talenti, degli aspetti che fanno la differenza rispetto agli altri: in una sola parola della propria identità. Che a livello industriale significa saper fare artigianato accurato e appassionato; avere massima volontá nel coinvolgere energie giovani; possedere grande capacità nell’assumere rischi e porre attenzione all’innovazione dei materiali e delle tecnologie. L’obiettivo: realizzare prodotti dotati di senso e non dei semplici gadget. Per quanto riguarda Milano, penso che abbia ancora un forte appeal perché è una città con un mix di internazionalità e una buona qualità di vita, aperta al mondo, non provinciale, con un network di aziende dotate di talenti eccellenti. Certo, tutti devono lavorare per migliorare le infrastrutture sia fisiche sia digitali che sono ancora molto carenti e che, a mio avviso, impediscono la piena espressione del potenziale creativo della città”. Novità 2014: “Per Caimi Brevetti ho disegnato con Francesco Meda la collezione di pannelli fonoassorbenti ‘Flap XL”, alla Triennale di Milano è presentato il progetto ‘Annessi & Connesi’ in occasione della mostra dedicata a Pierluigi Ghianda e sempre in Triennale sono presentati i mobili progettati per Henraux+Riva1920”.

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Marc Sadler “La stagione dei ‘Grandi Maestri’ del design italiano è finita? Forse: dopo tanta gloria si è un po’ ‘dormito sugli allori’, ma è anche vero che è difficile mantenere un trend di crescita qualitativa pari a quello che avevano avviato i ‘great masters’; nel frattempo gli altri Paesi sono cresciuti e poi è radicalmente cambiato il modo di produrre. Da ‘straniero’ posso però dire che l’Italia resta ancora il ‘Paese di Bengodi’ in termini di densità e qualità delle eccellenze manifatturiere. Certo, oggi c’è un oggettivo problema di costi che difficilmente potrà essere risolto in maniera tale da rendere la produzione italiana competitiva. Agli italiani non resta che puntare sulle eccellenze delle loro lavorazioni, molte delle quali si stanno perdendo insieme agli straordinari artigiani, andati ‘in pensione’ senza aver avuto modo e tempo di trasmettere ai giovani il loro fantastico bagaglio di conoscenze. Il motivo? Le imprese chiudono e in molti casi il prodotto massificato e di media qualità non può certo sopportare modalità produttive con mano d’opera altamente qualificata. Va da sé, che il made in Italy, soprattutto con il Salone milanese, esercita sempre un ruolo molto importate nel panorama del progetto internazionale: tutti alla fine convergono nella capitale lombarda. Molti designer stranieri mantengono una base a Milano per il loro lavoro, perché qui si avvicendano manifestazioni di settore importanti per la cultura del design. Ma in particolare l’offerta del Salone del mobile (e relativo FuoriSalone) è, e rimane, ricchissima. Diventa addirittura difficile riuscire a vedere tutto ciò che si vorrebbe... fermo restando che la città dovrebbe migliorare la propria logistica. Probabilmente varrebbe la pena di non concentrare tutto in una settimana ma ‘spalmare’ le varie iniziative durante tutto l’anno: questa soluzione renderebbe Milano sempre viva”. Novità 2014: “Ci sono progetti che verranno presentati al Salone del mobile quest’anno, altri che sfortunatamente non riusciranno ad essere pronti in tempo. Per evitare incidenti diplomatici, citerò un unico progetto decisamente ‘fuori dal coro’: il biliardo in vetro della Teckell”.

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Sawaya & Moroni “È opinione abbastanza diffusa tra gli addetti ai lavori che la cultura italiana del design abbia perso la sua forza e la sua identità (è Paolo Moroni che parla, ndr): non penso, però, che sia un giudizio molto fedele alla situazione reale o all’’opinione del grande pubblico. Vero è che il design spesso è stato ‘abusato’ da aziende ricche di mezzi ma povere di cultura del progetto se non di cultura tout court; le stesse hanno anche

livello globale. È normale che ci siano degli alti e dei bassi, una stagione sì e un’altra meno felice… Tutti noi, in questo momento di forti cambiamenti politici, sociali economici abbiamo bisogno di un momento di riflessione e di tanta autocritica per ripartire con una visione aggiornata e realistica circa i nuovi ambiti e contesti in cui ci troveremo a lavorare. Resta il fatto che l’Italia e, in particolare Milano, è e

grado di assicurare la continuità qualitativa e le capacità industriali. Non credo esistano molti posti al mondo dove tutto ciò sia disponibile cosi facilmente. Infine, un pensiero sul Salone del Mobile. Diciamo subito che Salone e FuoriSalone sono manifestazioni ormai inscindibili: entrambe lavorano per lo stesso obiettivo e proprio per questo dovrebbero esigere dalla città maggiore attenzione e collaborazione. Quando

I tavoli ‘O’Blik Tables’ di Sawaya e Moroni (nel ritratto) fanno parte della nuova collezione 2014 dello storico brand milanese.

contribuito a far emergere una generazione di designer dal pensiero ‘debole’, che di conseguenza ha prodotto progetti ‘deboli’. Vi sono poi: associazioni di categoria, dispensatori di premi, compilatori di classifiche nonché esperti improvvisati, tutti pronti ad innalzare la mera banalità agli onori degli altari, fomentando cosi quelle voci sul declino del design italiano di cui si diceva prima. Sono comunque certo che molte aziende e molti designer possiedono un’identità ben forgiata e gli stessi sapranno preservare la cultura del design italiano! Comunque, la leadership dell’industria italiana non è certo in discussione: parlo di quegli importanti industriali italiani visionari che hanno contribuito a fare del prodotto design una necessità giornaliera per milioni di persone a

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rimane sinonimo di design: non voglio essere sciovinista ma registro semplicemente una realtà concreta, insomma un fatto di cronaca. Quanto durerà ancora? Questo è un altro discorso… La capacità degli imprenditori italiani sta prima di tutto nel credere in quello che fanno. Nonostante le innumerevoli difficoltà che devono affrontare quotidianamente, le aziende italiane possono ancora muoversi nella comoda manovrabilità loro garantita dal supporto fornito dalle piccole realtà del terziario. L’azienda ‘Design Italiano’ è cosi in grado di anticipare e prevedere le richieste del mercato, investire nella ricerca, e insieme agli artigiani, osare e inventare nuove modalità produttive. Il nostro Paese sta attuando un ‘transfer’ di esperienza e capacità artigianali verso una generazione tecnologicamente preparata ed evoluta, che è in

penso a ‘modestissime’ design week in Paesi stranieri e allo sforzo delle amministrazioni locali per promuovere tanta pochezza, mi rendo conto che quello che ha fatto il nostro settore è stato e, purtroppo rimane, l’iniziativa (fantastica) che nasce da singoli individui”. Novità 2014: “Quest’anno devo dire grazie a: Zaha Hadid, Dominique Perrault e Gaelle Lauriot, oltre che a William Sawaya con il suo studio; ma anche ai prototipisti e ai nostri artigiani fuori classe puramente italiani che con il loro secolare bagaglio di capacità e manualità abbinate alle nuove tecnologie sanno perpetuare l’eccellenza del made in Italy. Vorrei sottolineare che Sawaya & Moroni è una di quelle aziende italiane che può vantare ancora un prodotto con un pedigree e fattura puramente italiani. Ma venite a trovarci, giudicherete voi!”.

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La designer Constance Guisset guarda le sue lampade Cape, che ha disegnato per Moustache. In basso a destra l’accogliente divano Nubilo prodotto da Petite Friture.

Constance Guisset “Il primato milanese? Credo che qualsiasi leadership possa essere messa in discussione. Oggi il mondo del design sta attraversando una fase di profonda evoluzione e assistiamo a molti sviluppi interessanti in Europa Settentrionale, Asia e Francia. Per conservare il loro primato le aziende italiane dovrebbero restare fedeli allo spirito innovativo e ‘avventuroso’, che le ha sempre caratterizzate. Per quanto riguarda la settimana del design milanese, la mia opinione è che Salone e FuoriSalone sono come gli esseri viventi: pertanto si evolveranno da soli. Del resto i luoghi del ‘fuori e dentro fiera’ cambiano da un anno all’altro: ciò è molto positivo, sebbene stia diventando sempre più complicato orientarsi a causa del gran numero di eventi e della macro dimensione del Salone. È quasi impossibile vedere tutto! La sfida consiste pertanto nel conservare vitalità e spontaneità, rendendo allo stesso tempo più semplice per il visitatore la possibilità di scegliere cosa vedere. Forse concentrando un po’ le cose…”. Novità 2014: “Ho progettato Nubilo per Petite Friture, una meridienne realizzata con numerosi cuscini per poter godere del massimo relax a tutte le età. Poi la collezione di pouf Windmill per Cividinia; il lampadario Portobello per Established&Sons, che rappresenta la visione contemporanea del lampadario classico; infine, la lampada Cape per Moustache, esposta presso lo spazio di Rossana Orlandi”.

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Roberto E Ludovica Palomba “Oggi più che mai bisogna essere competitivi. E garantire ottime prestazioni. I valori importanti su cui puntare sono: innovazione, servizio e visione strategica. Ma ci sono solo alcuni brand e imprenditori che hanno una marcia in più e una visione strategica veramente vincente. La maggior parte seguono a ruota e beneficiano della luce riflessa dei veri ‘illuminati’. Resta il fatto che Milano ha ancora un ruolo di leadership: tuttavia è necessario che vengano dati alle aziende i mezzi necessari per esprimere al meglio le proprie capacità. Bisogna, poi, che la città sia pronta ad ospitare la creatività nel modo più consono. In particolare questo è soprattutto vero per il FuoriSalone, che è sempre stato un supporto fondamentale nella fruizione degli spazi e nel coinvolgimento non solo degli addetti ai lavori ma anche del grande pubblico”. Novità 2014: “Abbiamo lavorato per aziende a cui siamo legati anche affettivamente da un lungo sodalizio: Zanotta, Foscarini , Laufen e Zucchetti. Siamo sempre più dell’idea di fare un’attenta selezione e di ridurre il numero delle collaborazioni per concentrarci su progetti di qualità. Nell’ultimo periodo stiamo sviluppando anche progetti di architettura, da cui nasceranno sinergie legate a nuovi prodotti”.

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Lievore Altherr Molina

In alto la versione da tavolo delle lampadelanterne Rituals, disegnate per Foscarini da Roberto e Ludovica Paolomba (nel ritratto a lato).

Qui a fianco lberto Lievore dello studio Lievore Altherr Molina, che fi ma la scultorea collezione di poltroncine Colina per Arper in occasione del Salone del mobile 2014.

“Il modello abitativo, secondo la nostra esperienza in diversi Paesi del mondo, è europeo. Anche Giappone e Stati Uniti lo ripropongono (in senso formale e simbolico). E Milano rappresenta la sintesi e il punto di incontro di tutta la cultura europea: pertanto possiamo dire che il capoluogo lombardo è la vera passerella internazionale del design e dell’arredamento. Ma Milano non è solo Italia: è un punto di incontro internazionale e la spinta all’internazionalizzazione si è senz’altro rafforzata negli ultimi anni. Ma il capoluogo lombardo ospita non solo il made in Italy: rappresenta, infatti, anche il punto d’incontro tra domanda e offerta della migliore qualità a livello mondiale. E ripeto: ‘qualita’. Il Salone del mobile, poi, riesce a registrare anche i cambiamenti dei modelli abitativi: oggi si avverte una diversa modalità di approccio agli spazi. Non ha più senso parlare di differenziazione netta tra casa e lavoro: gli ambienti sono più ‘liquidi’, come del resto le relazioni. Negli uffici non c’è più un ‘professore’ che parla da un pulpito, ma gruppi di lavoro che interagiscono, mentre negli ospedali si avverte l’esigenza di umanizzare gli ambienti di più (e meglio)”. Novità 2014: “Ho lavorato principalmente per Arper, Discipline, Poltrona Frau, Enea, Verzelloni, Driade, Andreu World”.

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La nuova collezione di lampade a led “Anwar” disegnata da Stephen Burks (in basso) per Parachilna cela una tecnologia molto sofi ticata dietro a una trama di fili di acciai .

Carlo Colombo

Stephen Burks “È’ molto facile riflettere sul passato ed essere nostalgici. Ma i tempi sono cambiati e mutato è anche il design del made in Italy: l’epoca dei cosiddetti ‘Grandi Maestri’ è passata e l’identità del design italiano ha assunto un’importanza a livello globale, sviluppandosi oltre i confini nazionali. Il futuro dell’imprenditoria, oggi, sta nella condivisione delle idee, nella crescita e nell’innovazione. Tutte le aziende che si aspettano di avere successo hanno capito questo passaggio e con loro anche il made in Italy. Gli imprenditori più lungimiranti del design italiano riconoscono che il mondo non è solo l’Italia e si spingono verso nuovi mercati. Ed è anche questo mix di culture che rende l’incontro fra designer stranieri e produttori italiani molto interessante. Comunque non dimentichiamo che è stata proprio la volontà delle aziende italiane ad essere aperte alle voci dei designer internazionali che ha fatto la grandezza del vostro design. Per quanto riguarda Milano, come luogo che ospita il più influente evento di design al mondo, penso che il capoluogo lombardo continui a essere uno degli epicentri della cultura creativa”. Novità 2014: “Quest’anno presento nuovi prodotti per Calligaris e Dedon. Al FuoriSalone, c’è poi una mostra dedicata ad alcuni nuovi accessori Man Made in collaborazione con la rivista Dwell; nuove lampade a led “Anwar” per una startup spagnola, che si chiama Parachilna”.

Seduta massimo comfort per la poltrona Eva con pouf coordinato: è il progetto di Carlo Colombo per Giorgetti presentato al Salone del Mobile 2014.

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“L’industria italiana può ancora competere con i mercati internazionali? Ciò che mantiene alta la nostra leadership nell’arredo è la qualità oggettiva del prodotto finito, frutto della conoscenza unica che abbiamo nell’artigianato. In questo periodo storico gli imprenditori italiani devono fare i conti con un sistema fiscale fra i più onerosi d’Europa, quindi è logico che lo sforzo per essere competitivi sul mercato diventi doppio. Le aziende devono interagire con i mercati in forte espansione economica, creando un tramite fra i valori unici dell’artigianato italiano e il gusto della clientela extraeuropea. Ma Milano è ancora un’icona mondiale del design e del fashion e il “suo” Salone è un importante evento che sposta i riflettori di tutto il mondo sulla capitale lombarda. Certo, oggi è importante che si trasformi in una città davvero ‘smart’ per accogliere a regola d’arte migliaia di visitatori con un interesse comune e mirato. Qualche suggerimento: interazione piena fra Salone e FuoriSalone, in modo che uno non escluda l’altro; informazioni reperibili direttamente dal proprio smartphone con aggiornamenti in tempo reale sugli eventi in corso; efficienza e qualità del trasporto pubblico; visual creato ad hoc nello scenario cittadino. A mio parere il lavoro deve essere creato intorno al visitatore: l’obbiettivo è far sentire la persona parte integrante di tutto il grande meccanismo del Salone del mobile!” Novità 2014: “Ai partner storici – Poliform/Varenna, Flou, Giorgetti, Flexform, Guzzini, Teuco – si sono aggiunte nuove esperienze con Driade mentre nel campo del fashion sono nate le collezioni Bentley Home e Trussardi Home. Infine, per San Patrignano, un progetto di solidarietà”.

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Ronan e Erwan Bouroullec

Tavoli e sedie ‘super normal’: è la collezione design e low cost creata dai fratellli Bouroullec per la Facoltà di studi umanistici dell’Università di Copenhagen: è prodotta dall ‘azienda danese Hay.

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“Ho forse una visione a breve termine (è Erwan che parla, ndr), ma è chiaro che quello che sta accadendo oggi, quello che noi conosciamo come il design attuale, è strettamente legato a quello che nel passato hanno fatto aziende come Cassina o Cappellini, solo per citarne due di cui conosco benissimo la storia. Quindi Milano è più che importante. È lì che affondano le nostre radici. Certo, in questo momento conosciamo un’industria italiana i cui metodi e i cui mezzi sono forse meno vincenti di un tempo, e questo ne offusca un po’ l’immagine. Ma si tratta di una

congiuntura degli ultimi quattro o cinque anni… Per quanto riguarda il Salone del mobile penso che dovrebbe ridimensionarsi, diventare un po’ più piccolo e selettivo. Siamo giunti al punto in cui c’è veramente troppo! Non mi rendo conto fino a che punto questa idea sia possibile o meno. È vero che oggi una caratteristica del nostro mondo è la tendenza a concentrare tutto in un luogo: basta pensare a come le città crescono a dismisura. Anche le aziende diventano sempre più grandi e ce ne sono sempre meno. Milano in un certo senso con il suo Salone ha vinto su tutti. Quello di Parigi è scomparso e Colonia non ha mai svolto un ruolo importante come quello del capoluogo lombardo come autentica vetrina delle novità. Ma ora siamo giunti al punto del “too much”: nessuno a Milano riesce più a vedere tutto e bene!” Novità 2014: “Quest’anno abbiamo lavorato con molte aziende italiane e quindi sono molto contento (noi comunque privilegiamo l’Europa): Magis, Marazzi e Glas Italia. Poi ci sono collaborazioni non necessariamente legate al Salone, come quella felice con Mutina. Ricorderei anche il progetto sul tessile con Kvadrat e, infine, abbiamo sempre rapporti di lavoro costanti con Vitra”.

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Comunicare il progetto

Design e comunicazione: un rapporto che mai come oggi è stato cosÏ stretto e allo stesso tempo conflittuale. In occasione del suo 60mo anniversario, Interni ha chiesto ad Andrea Branzi, Michele De Lucchi e Alessandro Mendini una breve riflessione sul tema

a cura di Maddalena Padovani

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Alcuni degli oggetti esposti nell’edizione 2010 del Triennale Design Museum curata da Alessandro Mendini e intitolata Quali cose siamo. Nella pagina accanto: mattone Faccia a vista, serie Classico, produzione San Marco; statua di Sant’Antonio da Padova, produzione Splendart; boli, 1900-1950, produzione Richard Ginori. In questa pagina, dall’alto: Ambrogio Pozzi, Cono, 1969; Gaetano Pesce, Mano, anni ’70.

L’utopia della trasformazione Design è l’utopia di dare a tutto il mondo una forma felice. È forse questa l’ipotesi che persegue Interni da tanti anni? In effetti la ricerca iconografica di questa rivista è enorme, continua e infinita. È un meccanismo sempre più collaudato di informazioni e immagini che arrivano da tutto il pianeta, e che vengono catalogate e rese sistematiche per restituire al lettore una utilissima documentazione, sempre più ora collocata sul web. Nella storia delle riviste di settore, la longevità e la continuità di Interni è davvero ammirabile. E dalle pagine, dalle infinite

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pagine emerge la tensione di questa documentata ricerca. La questione antropologica di un oggetto è quella di infondergli un’anima? Dalla profondità dei tempi, gli oggetti delle etnie del mondo hanno posseduto un’anima, quella delle aspirazioni spirituali degli uomini e dei loro popoli. E pure l’oggetto di serie dell’epoca industriale è alla ricerca dell’anima perduta. Forse può trovare una completezza umana tornando alle origini del mondo, percorrendo l’utopia di un’epoca collocata al di là e oltre quella del modello economico. Perché un oggetto deve essere rispettoso di una civiltà a sua volta rispettosa dell’uomo. Un oggetto che aspiri a dignità umana è un oggetto controcorrente, e si innesta nella società dei consumi in posizione critica. I mirabili oggetti presenti ormai solo nei musei di etnologia, esempi di armonia fra vita e rito in civiltà passate, non sono di fatto più riscontrabili nel mondo delle società industriali e post-industriali. Gli oggetti di design, in generale, non hanno maturato il diritto di affiancarsi agli oggetti dell’antropologia storica. Il tentativo di reinserire con evidenza il gradiente estetico nel processo di ideazione dell’oggetto d’uso, fa parte di questa ricerca di dignità. E Interni spesso ha indagato dentro a queste zone. Si cerca così di ricondurre il flusso deviato degli infiniti oggetti del consumismo anche elettronico e virtuale del design, dentro il tranquillo, lento fiume delle arti applicate. È chiaro che il problema non è il linguaggio, ma consiste nell’utopia di una radicale trasformazione dei cuori, cioè in nuovi modelli di civiltà capaci di sostituire i valori umani ai valori economici. E auguro ad Interni di continuare a contribuire a questo mirabile intento. Alessandro Mendini

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Da una rivista mi si è aperto un mondo Negli anni Settanta, quando abitavo a Padova, studiavo a Firenze e avevo una fidanzata a Roma, ho iniziato a frequentare Milano proprio perché attratto dalle riviste di architettura che raccontavano quanto stava avvenendo nel mondo del progetto e allo stesso tempo erano fonte di ispirazione per quanto di nuovo si poteva fare. Anche la conoscenza di Sottsass è avvenuta tramite una rivista diretta da Ugo La Pietra che si chiamava Spettacoli e società. Ettore aveva scritto un articolo che parlava dei ragazzi di Padova che, come me, facevano i pendolari con altre città per frequantare gli studi universitari. Lui scriveva per varie testate e per me era una fonte d’attrazione fortissima. In particolare scriveva per Casabella, ai tempi in cui la rivista era diretta da Mendini. Ricordo di averne comperata una copia in occasione del mio primo viaggio da Padova a Firenze, fatto nel 1969 per andare a iscrivermi all’università e per trovare una sistemazione. La conservo ancora. Pubblicava un articolo di Sottsass che parlava del “Pianeta come festival” e che mi era piaciuto tantissimo, perché presentava l’idea di un’architettura, indipendente e al di fuori delle

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regole, a cui non avevo mai pensato. Per me è stata una vera e propria rivelazione. Da una rivista mi si è aperto un mondo. Da quei tempi a oggi sono cambiate tante cose nel mondo della comunicazione del progetto. Le riviste sono diventate sempre più identificate, personalizzate. Oggi siamo in una fase di trasformazione; l’unica cosa di cui possiamo essere sicuri è che tutto cambia e che tutto continuerà a cambiare. Penso che Milano sia oggi un luogo dove questo senso della trasformazione è fortemente tangibile, percepito, rincorso. Se non fosse per il costo degli immobili, Milano avrebbe oggi un potere attrattivo superiore a quello di altre metropoli come Londra, Pechino, New York. Oggi non ce ne accorgiamo più, ma Milano offre costantemente tante iniziative, eventi e opportunità legate al mondo della creatività; forse hanno una dimensione più piccola rispetto a quelle di altre città, ma funzionano tutte bene e si distinguono per un elevato livello qualitativo. Anche l’uscita mensile delle riviste del progetto rappresenta un appuntamento importante della vita creativa della città.

Oggi abbiamo bisogno della sintesi, di una selezione critica, di qualcosa che ci offra la chiave di lettura delle tante cose che succedono. Ogni giorno trascorro almeno due ore sul treno, un tempo che dedico a guardare quello che succede nel mondo attraverso il web. Mi rendo conto di quanto sia improduttivo perdersi nell’oceano di informazioni aperte che la rete offre e di quanto sia invece importante disporre di uno strumento di lettura critica. Per questo abbiamo bisogno della sintesi, così come di modelli di riferimento. Michele De Lucchi

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Michele De Lucchi, Colonne portanti, viste della mostra. Fondazione VOLUME!, Roma 2012. Foto di Federico Ridolfi

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Impariamo dalla moda Qualche volta mi sono chiesto se il mio ruolo sulle pagine di Interni non sia quello di un opinionista poco ascoltato, ma mi sono risposto che questo pericolo non mi riguarda ed eventualmente riguarda la direzione di Interni e i suoi lettori. Esprimo la mia opinione dove mi propongono di esprimerla e la mia responsabilità si ferma a quel punto… Durante venti anni di collaborazione, nessuno mi ha mai censurato e ho sempre scritto su argomenti che mi interessavano; ho quindi uno spazio libero invidiabile, un osservatorio dove riflettere senza interferenze. Mettendo insieme i miei contributi credo di avere cercato di dimostrare che “il progetto è una cosa seria” che non appartiene alle sole competenze del mercato, ma piuttosto alla storia degli uomini, della società, della cultura. Questo è l’unico motivo per cui me ne interesso… Negli ultimi tempi si sentono molte critiche sul design attuale e sulle ultime generazioni; come se queste non fossero una parte significativa della ‘crisi’ che investe l’Occidente; crisi economica e crisi di idee. Su questo argomento io ho un’opinione del tutto diversa e penso che i giovani abbiano il diritto di essere diversi da noi e che il mondo abbia il diritto di cambiare. E infatti il mondo è cambiato profondamente; le certezze del XX secolo sono sparite, il Movimento Moderno ha terminato la sua corsa, la politica è in piena evoluzione, ma la vitalità del ‘nuovo design italiano’ continua a

Andrea Branzi, collezione Solid Dreams, 2013.

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interessare tutto il mondo; la mostra che organizzammo nel 2007 in Triennale e che fu molto criticata, continua da allora a girare il mondo: Madrid, Istanbul, Pechino, Taiwan, San Francisco, Santiago del Cile, Città del Capo. Nella stragrande maggioranza si tratta di oggetti auto-prodotti, leggeri, apparentemente superflui, indifferenti alle tipologie classiche dell’arredamento (poltrone, divani, sedie, tavoli, lampade) ma interessati a inserirsi negli interstizi della vita domestica. Sono queste le novità interessanti del design all’inizio del XXI secolo; come nella moda coesistono e collaborano tre categorie: l’alta moda (sperimentale), gli accessori autonomi, il pret-à-poter per la produzione di serie. Ognuno di questi settori ha una propria autonomia, ognuno il suo ruolo, ognuno il proprio mercato, creando nell’insieme una sinergia non conflittuale. Un mondo che si alimenta di sogni, tecnologie, marketing e che ogni stagione rinnova il suo repertorio, creando uno scenario in continua evoluzione. Uno scenario fascinoso che vive soprattutto sulle pagine patinate delle riviste di settore; questa è la funzione centrale dei media, una funzione centrale capace di rappresentare simultaneamente il mondo presente, quello del futuro o come potrebbe essere acquistato già oggi. Un mondo fatto di infinite varianti, eccezioni, tendenze, scenari, innovazioni, revival. Questo non è soltanto l’universo della moda ma è il nostro mondo; ingovernabile, imprevedibile, che esiste soltanto per entrare nell’universo infinito della comunicazione, su internet, sulle riviste, nella televisione. Come la musica che non esiste come realtà fisica, ma soltanto se può essere ascoltata, registrata, diffusa, per creare un’emozione, un pensiero creativo e misterioso: capace di produrre enormi economie. Il ruolo di una rivista di design o di moda, è allora quello di dare vita a questa incessante energia di innovazione, a un mondo che altrimenti resterebbe catatonico. Allora anche gli ‘opinionisti poco ascoltati’ hanno diritto di ospitalità, non per insegnare a vivere ma per contribuire a guardare senza paura un mondo opaco, senza avere la pretesa di illuminarlo, ma magari per renderlo ancora più nebuloso e incomprensibile; il caos del resto non è più la mancanza di ordine, ma la legge che governa l’universo… Andrea Branzi

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64 progettisti ci mettono la faccia (e le idee creative). Per dimostrare che il nuovo design italiano esiste ed è in buona salute. Lo afferma Chiara Alessi in un libro che ne descrive i tratti salienti. Con un obiettivo: sradicare i pregiudizi

Dopo gli anni Zero foto di Carlo Lavatori testo di Maddalena Padovani

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ggi esiste un design italiano? Non basta il pregiudizio eterologo che da tempo serpeggia tra le fila e le righe di certa critica estera. Ad alimentare l’amletico quesito da qualche tempo si sono messi anche autorevoli esponenti della cultura del progetto nazionale, che, con varie sfumature, hanno espresso la loro perplessità riguardo la forza propositiva (o addirittura l’esistenza) della nuova generazione di creativi nostrani. Invece il design italiano c’è, è vivo e vegeto, aspetta solo l’occasione per esprimersi con progetti e poetiche che, per naturale evoluzione delle cose, non sono più riconducibili a un’unica scuola di pensiero. A sostenerlo è Chiara Alessi, curatrice e critica di design, che con il libro “Dopo gli anni Zero. Il

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nuovo design italiano”, uscito a inizio anno per i tipi di Laterza, ha voluto tentare una ricognizione del panorama creativo nazionale così come si è configurato tra il Duemila e gli anni Dieci. Un libro che, secondo Alessandro Mendini, autore dell’introduzione, è un atto d’amore nei confronti di una generazione di ‘designer enigmisti’: sono quelli che “secondo i modi eterodossi e marginali del concettualismo”, approcciano il progetto come un rebus da risolvere, chiusi dentro se stessi come monadi che fanno fatica a collegarsi tra loro ma sottendono una grande intelligenza, ovvero la coscienza di qualcosa di nuovo che presto avverrà e che cambierà lo scenario sinora vissuto. Di queste ‘monadi’ Chiara Alessi

descrive i tratti più caratteristici e ricorrenti, arrivando a individuare sei poetiche di riferimento che propone come chiavi di lettura di una contemporaneità non più decifrabile secondo strumenti retorici e datati. La conclusione? Oggi non c’è un solo design italiano ma ci sono tanti design italiani, che per una sera hanno preso il nome, il volto e i prodotti di quasi settanta progettisti convenuti alla presentazione del libro avvenuta lo scorso

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gennaio a Milano. A questa mostra-evento, volutamente temporanea in quanto rappresentativa di una situazione in continua evoluzione, Interni era presente: per intervistare l’artefice di un’operazione che sicuramente lascerà un segno critico, ma anche per ritrarre i tanti protagonisti di un fenomeno che esiste e pulsa, anche se il suo cuore batte spesso negli spazi più interstiziali e meno appariscenti del progetto italiano.

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Come è nata la tua esigenza di analizzare, mappare e ‘generazionalizzare’ il nuovo design italiano? Innanzitutto c’era un’esigenza di raccogliere e sistematizzare un dibattito che da qualche anno circolava tra riviste, incontri, mostre, blog, cene tra amici; sentivo la necessità di provare a ordinare queste chiacchiere in un discorso, spero, più articolato, con affondi anche fuori dal sistema-design, o che linkassero quel sistema a trasformazioni che investono anche

l’ambito economico e culturale, per esempio. E poi, in senso invece più stretto, c’era un bisogno personale, che poi ho riscontrato in altre persone, di provare ad aggiornare gli strumenti di analisi, di ridisegnare cioè uno scenario che fosse più soddisfacente per descrivere l’attualità. Quindi, superando le categorie che erano valide magari per raccontare altri momenti, provando a immaginare una mappa di coordinate, riconoscibili per noi, oggi.

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Condividi l’idea che il nuovo design italiano sia condizionato dall’atteggiamento pregiudiziale e dalla vocazione esterofila delle aziende del nostro Paese? Sì, ma non condivido né la sorpresa (ricordiamo che sono almeno trent’anni che le aziende italiane guardano agli stranieri) né il lamento diffuso e paralizzante. Intanto perché rispetto alla scuderia di quei venti (a dir tantissimo!) nomi di storiche Fabbriche del Design Italiano, oggi se ne sono affiancate altrettante che con vivacità, entusiasmo, anche ingenuità o approssimazione, ma comunque con interesse, guardano agli italiani. Ampliando il mansionario, spesso coinvolgono i nostri progettisti come art director, consulenti, talent scout, etc., con ruoli che non riguardano solo la produzione di oggetti. Infine, credo che il problema non sia tanto nell’esterofilia ma nel fatto che i giochi vengano fatti sempre dagli stessi nomi (italiani e stranieri), con il risultato che spesso cataloghi di aziende storiche e originariamente identitarie, finiscano per assomigliarsi tutti molto. Bisogna però precisare: non è che le aziende italiane guardino ai giovani francesi, svedesi, inglesi con più interesse rispetto a quello riservato agli italiani. A parte il caso di qualcuno, la maggior parte di queste aziende non guarda proprio, ha meno propensione al rischio e all’incognita. Quello che succede invece all’estero, questo sì, e che manca

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in Italia (perché originariamente era proprio tacito compito di quelle aziende) è un servizio istituzionale che promuova i mestieri creativi. Ma questo implicherebbe una revisione di tutto il sistema pubblico mal funzionante, che al momento non mi pare una soluzione credibile. Credi che iniziative promosse dall’interno, dagli stessi designer, possano sopperire all’azione di scouting prima effettuata dagli imprenditori? Sì, ci potrebbero essere delle soluzioni autologhe, fatte detonare dagli stessi designer, o eterologhe, con il coinvolgimento di enti, istituzioni, clienti, investitori, musei, gallerie, alternativi. Non conosco altrettanto bene quello che succede all’estero, ma ho l’impressione che tanti designer in quota 40, in Italia, si stiano spendendo oggi per promuovere i giovanissimi e questo è sempre un bene, in controtendenza con quanto è avvenuto con i loro predecessori. Poi ovviamente dipende sempre dal risultato che si vuole raggiungere, se di tipo economico, di comunicazione, di esplorazione. Ai designer stranieri va riconosciuta una capacità di comunicare (con le aziende, con i media, con il pubblico) che i designer italiani tante volte non hanno. Credi che questo

possa essere l’anello debole dei nostri progettisti? Forse sono ingenua, ma continuo a credere che il savoir faire degli italiani e la cultura che hanno i nostri progettisti all’estero non abbiano eguali. Se mai, è un problema di ‘tendenze’, di ‘mode’, di atteggiamenti – alimentati anche da chi fa il nostro mestiere – per cui se hai un bel nome e produci delle belle immagini, magari con un racconto un po’ elaborato del backstage, più facilmente ti introdurrai in questo sistema. Come dicevamo prima, è anche una questione naturale di esotismo, per cui i designer italiani più in voga in questo momento sono quelli che parlano olandese (i Formafanstasma) o danese (i Gamfratesi), ma già un italiano come Christian Zanzotti, che pure vive in Germania da tanti anni, bravissimo, chi l’ha mai sentito? A me viene il sospetto che questo nome e cognome poco evocativi con la stampa italiana funzionino poco. Comunque, io ne ho intervistati almeno 64 di questi designer italiani e mi è sembrato che avessero tutti qualcosa da dire e che, in molti casi, lo comunicassero anche bene. Sostieni che, nel suo ruolo multitasking, il designer contemporaneo diventa anche critico. Credi che i nuovi

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designer italiani abbiano maggiori capacità di autocritica rispetto a quelli delle generazioni precedenti? No. Per la verità ho l’impressione che l’attitudine al crossover tra le competenze appartenga da sempre al dna dei progettisti italiani e che, se si parla di critica in senso stretto, i risultati più interessanti siano già stati prodotti.

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Quello che emerge oggi, e che ho provato a verbalizzare nel libro, è invece un assottigliamento dei confini tra critica e comunicazione. Ecco, in quella riduzione di spessore (letterale e metaforico) si inserisce bene il designer narratore che correda il progetto di un paratesto (di parole e immagini) che non solo si sovrappone al prodotto stesso ma a volte proprio lo sostituisce. Chi sta da questa parte (e prova a lavorare su questo sottile crinale), spesso e volentieri non fa altro che acchiappare e ritradurre dei contenuti già mediaticamente modificati, ma con un ruolo a valle, non più a monte come un tempo. L’autocritica invece è un’altra cosa ancora: è senz’altro vero che forse oggi molti progetti vengono abortiti in nuce, censurati dai designer stessi che conoscono sempre meglio i meccanismi di marketing, comunicazione, mercato, etc. per cui tendono a far uscire dalla bottega solo il ‘best of’, il progetto ripulito di tutta la sua sana e vitale sporcizia e

imperfezione. Credo che quest’attitudine alla perfezione formale e del processo un po’ derivi dall’epoca dei social network, in cui tutti mostriamo solo il nostro lato migliore e camuffiamo la verità. Ma la critica deve scovare la verità, o almeno provarci. La tua curiosità intellettuale e il tuo punto di osservazione privilegiato ti hanno portato a una grande lucidità critica che un po’ si diluisce nella copiosa carrellata di designer che identifichi secondo interessanti ma inevitabilmente opinabili categorie. Perché hai sentito questa necessità? Credi che, nelle logiche del design degli anni Zero, ad emergere alla fine siano i personaggi piuttosto che i progetti? Il fatto di aver inserito così tanti nomi, corrispondeva innanzitutto a un’esigenza editoriale e cioè dar fondamento anche numerico alla mia tesi, una risposta a chi si chiede se esista il design italiano: citare 100 nomi almeno ti mette il dubbio che qualcosa ci sia. Poi una ragione più teorica che, hai ragione, segue le logiche degli anni Zero: finiti i massimalismi e le utopie degli anni Settanta/Ottanta, ma anche finite le icone, finite le star degli anni Novanta, oggi a prevalere in termini anche di incisività

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sociale non sono i progetti, ma probabilmente non sono neanche più le loro firme, è un sistema frammentario, sfuggente, eterogeneo che non ho avuto la pretesa tanto di categorizzare ma di provare a fotografare, tanto che la mostra con cui li ho inquadrati appunto durava una sera sola. Ma non è che se le categorie non esistono più allora si può affermare che è tutto uguale o che non ci sono delle emersioni o delle emergenze nel design. Le poetiche che descrivo nel libro, e che non chiamo mai ‘categorie’ non a caso, nelle intenzioni evidenziano ciascuna una caratteristica del design contemporaneo, che in molti casi convive e include almeno un’altra. Sono queste per me a emergere, anche più dei nomi che ho ‘usato’ a titolo esemplare ed esemplificativo. Ma si tratta di insiemi che si intersecano, si muovono, disegnano incroci e rizomi. Niente di pre-definito o definitivo.

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Qual è la differenza sostanziale tra il punto di vista assunto da Andrea Branzi nel 2007 per la mostra “The new Italian design” e quello proposto nel tuo libro? Faccio fatica a confrontare il mio lavoro con quello di Branzi: lui è un Maestro, un ricercatore, un filosofo applicato al progetto, un docente, un curatore, un architetto; io no, io ho studiato critica, poi editoria, sono entrata nel design attraverso un osservatorio speciale, privilegiato, ma anche parziale come quello di una Fabbrica del Design e, negli anni in cui Branzi militava, i miei genitori non si erano probabilmente nemmeno conosciuti… Le differenze sostanziali perciò inevitabilmente sono tantissime. È chiaro però che chi oggi si occupa di design italiano non può non confrontarsi con quella mostra. Volendo usare una metafora, che forse lui stesso potrebbe apprezzare (ma chissà), immagino la mostra

“The new Italian design” come una delle sue architetture lignee, un asse portante quindi. Invece il mio contributo, rimanendo in metafora, è un ramo, più fragile, leggero, però appuntito, che potrebbe spuntare da quel monolite. Perciò, con un taglio molto personale e con un libro – che comporta inevitabilmente un approccio molto diverso da quello di una mostra – ho pensato che potesse avere un senso provare a interrompere quel continuum disegnato dal Maestro (che non a caso aveva utilizzato, nella sua mostra, un nastro portante ininterrotto per esporre i progetti) e inserire delle discontinuità, dei distinguo, delle fratture. Il mio obiettivo era dichiarare che le espressioni del design italiano contemporaneo – siano belle o brutte, buone o inutili, sperimentali o retrograde, salvifiche o arrendevoli – non sono omologabili in un unico rasserenante grande e anonimo insieme. L’altra differenza, apparentemente superficiale, è che io conosco uno a uno i designer citati nel libro, ho presenti le loro facce e il loro lavoro, li ho incontrati di persona. Per la mostra di presentazione mi è parso bello approfittare del fatto che sono vivi e con un cervello pensante!

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Autarchia, austerity e autoproduzione riflettono tre momenti di crisi dagli anni Trenta a oggi, nei quali il mondo del progetto ha trovato nuovi metodi di espressione e prassi produttive alternative. Dal tema della nuova edizione del Triennale Design Museum di Milano, lo spunto per una riflessione sul significato dell’autosufficienza per la nuova generazione italiana di designer

L’organizer Bu! in fi o metallico s’ispira alle inferriate dell’Italia meridionale e fa parte di Extra-Ordinary Gallery, la prima collezione di oggetti di uso quotidiano, autoprodotta da Fabrica con l’ausilio di maestranze made in Italy.

Auto da sé di Valentina Croci

Piede Pouf è uno degli ultimi progetti di Internoitaliano, una fabbrica diffusa che si avvale di una rete di artigiani coordinata dallo studio di Giulio Iacchetti. Il pouf è un omaggio al dissuasore stradale in cemento Panettone di Enzo Mari.

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Tavolino L, design Franco Raggi, fa parte della collezione Design di Sampietro 1927 che reinterpreta le tradizionali lavorazioni artigianali dei metalli. È presente nel VII allestimento del Triennale Design Museum.

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l nuovo allestimento del Triennale Design Museum di Milano è l’occasione per analizzare lo stato dell’arte del design italiano contemporaneo, soprattutto delle nuove generazioni di progettisti. La mostra curata da Beppe Finessi, nel viaggio di un secolo tra l’autarchia del periodo fascista, l’austerity degli anni Settanta che ha sollecitato le avanguardie del design radicale, e i fenomeni più contemporanei dell’autoproduzione e del fabbing digitale, racconta una storia alternativa a quella del design industriale ‘main stream’, dove emergono figure solitamente ai margini, come designer donne che hanno investigato ambiti del progetto più interstiziali e spesso relativi alla piccola serie. La tesi della mostra è comprovare la pratica autarchica, o meglio auto da sé, nelle diverse epoche progettuali e un modo di produrre alternativo alla grande industria, diffuso nel tempo, che vede interlocutori e numeri diversi. Spiega Beppe Finessi: “Bisogna sconfessare l’assunto del grande numero: poche aziende dell’arredo fanno fatturati apprezzabili sul singolo prodotto, pertanto la sostenibilità della serie può essere raggiunta anche con edizioni specifiche o autoproduzioni. Non a caso, in questi ultimi anni è stato importante il ruolo delle gallerie e dei piccoli editori di design.

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Accanto: la seduta Imboh di JoeVelluto (JVLT) ben rappresenta Designbottega, un progetto di JVLT con Alberto Savio della falegnameria Slam per realizzare oggetti ad alto tasso di interazione e positività, riscoprendo tecniche artigianali di lavorazione del legno. Presente nel VII allestimento del Triennale Design Museum. Sotto: Imprint è un set per la personalizzazione del packaging che consente di realizzare etichette e confezioni. È progettato da Laura Cipriani, Micol Poloni e Shuning Yan all’interno del laboratorio di sintesi fina e Autoproduzioni Reloaded (docente Stefano Maffei), finalizz to a sviluppare un prodotto in tutte le fasi della filie a.

Angelo Mangiarotti sosteneva che il progetto ha valore se misurato nella grande scala. Per quella generazione il design aveva un’impronta politica che oggi non è più percepita. In modo analogo, le aziende storiche del design italiano degli anni Cinquanta sono nate con l’esigenza di realizzare qualcosa che non esisteva nell’ottica del grande numero. Erano teste da design industriale. Oggi i designer si muovono con differenti presupposti e vogliono mettere a frutto i numeri reali attraverso altre economie di scala e tecnologie. Se poi si considera che la maggior parte degli oggetti presentati ogni anno al Salone del mobile non supera la dimensione di prototipo e che molti designer non vivono del lavoro di progettista, non ha più senso parlare di design industriale, artigianato o art-design. Si impone un rimescolamento tra le discipline”. In un certo senso è una mostra anti-industriale che racconta agli industriali a non vivere di contrapposizioni ma a cercare modelli di impresa alternativi che la storia del design italiano ha già in parte percorso. “I designer contemporanei non devono scegliere tra autarchia o industria tradizionale. Se negli anni Novanta importanti progettisti hanno intrapreso la strada dell’autoproduzione – ad esempio, Michele

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De Lucchi con Produzione Privata o Gaetano Pesce con Fish Design – accollandosi un rischio di impresa che è stato bilanciato dalla reputazione del loro nome, i designer della generazione successiva hanno dato vita a tentativi più timidi e spesso fallimentari nella lunga durata per la difficoltà, soprattutto, dell’accesso a sistemi di finanziamento. Oggi la rete offre nuove opportunità. E alcuni designer scelgono proprio la strada dell’autoproduzione per diffondere il proprio lavoro, senza percepirla come secondaria all’industria tradizionale. Marchi come Design Bottega di JoeVelluto o Internoitaliano di Giulio Iacchetti sono esempi di attività che reimpostano la relazione tra progettista e impresa produttrice”, spiega Finessi. “Infine, designer come i FormaFantasma, che nascono in un contesto internazionale, senza sentirsi in dovere di confrontarsi con la nostra storia industriale, hanno trovato una strada nella dinamica del piccolo numero, che pone nuovamente al centro il design italiano”. Alessandro Mendini è chiamato in causa più volte all’interno della mostra in Triennale perché protagonista di quella visione radicale del design anni Settanta le cui istanze progettuali, legate alla piccola serie e alla riscoperta del fare manuale, trovano alcune analogie con il design contemporaneo. La Global Tools, che vedeva nell’asistematicità disciplinare e nell’uso di

materie naturali e tecniche talvolta eterodosse lo stimolo alla creatività individuale, è un esempio paradigmatico di quella ricerca. Tuttavia, se il tema dello scardinamento delle logiche dell’industria è comune sia al fare contemporaneo che al design radicale, Mendini è critico nei confronti della nuova generazione di progettisti italiani. “La radicalità degli anni Settanta aveva una forte visione politica. Mentre l’intelligenza e la raffinatezza intellettuale dei designer contemporanei lavorano a vuoto perché manca, non solo in Italia, l’appiglio a una visione di società. Esempi di progettazione opensource indicano una strada non tanto umanistica quanto tecnocratica, in cui la relazione tra cervello e tecnologia è simbiotica all’interno, però, di un pensiero pragmatico più che utopico. E, nonostante viviamo in un’atmosfera ‘social’ che ci contiene tutti, i progettisti agiscono in un ecosistema chiuso, in una globalità di isolati, in cui ognuno dimostra

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Accanto: il set per la cucina Cases of Life è una serie di contenitori modulari e multimaterici, pensati per situazioni di vita spesso temporanee. È realizzato da sei designer italiani e otto artigiani del vicentino, con il sostegno di CNA Vicenza e la curatela della piattaforma di servizi Open Design Italia Factory. Sotto: Chocomatica è una temperatrice domestica per il cioccolato realizzata da Federico Digirolamo, Giorgio Forti e Marta Lo Bianco all’interno di Autoproduzioni Reloaded. La macchina controlla lo scioglimento del cioccolato per ottenere tavolette omogenee e di qualità.

qualcosa di proprio che è raramente connettibile. È difficile riscontrare un meta-progetto comune alle nuove generazioni. Forse non è il tempo per i gruppi né alla Bauhaus né alla Memphis. Forse manca l’humus. Senza essere paternalista ritengo che, se non esce una radicalità dalla poetica, dall’animo delle persone anziché dalla tecnologia, non ci può essere vero rinnovamento. Similmente, la ricerca contemporanea nella trasformazione dell’artigianato tradizionale corrisponde più a una manipolazione di materiali e tecniche che a una dimensione utopica del progetto. Non è un caso, infatti, che molti progettisti ripieghino nella dimensione artistica del design, perché l’arte è una bolla ipnotica, un habitat che permette una visione personale”, sostiene Mendini, che però riconosce questa come un’epoca di trasformazioni latenti e quindi non sempre intellegibili. Fautore di una visione ottimistica sul futuro della nuova generazione di progettisti è Stefano Maffei, ideatore e docente di un laboratorio di sintesi finale al Politecnico di Milano incentrato su nuovi modelli di connessione tra design, produzione distribuita e fabbricazione avanzata. ”Autarchia e autoproduzione” dice Maffei “hanno

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una partenza comune nella motivazione aspirazionale, ma la seconda risiede nel modello iperconnettivo dell’opensource che ha variabili meno prevedibili. La ‘setta’ dei maker è un fenomeno in espansione, che vive in quei centri di sperimentazione progettuale che sono i fablab (in Italia sono oltre quaranta). I maker dimostrano una certa ingenuità tendendo a focalizzarsi sul singolo oggetto e sulle potenzialità del mezzo tecnologico. Tuttavia c’è una comune ricerca di animismo tecnologico: di una dimensione interattiva tra l’oggetto e l’utente. Per comprendere la potenzialità del fenomeno è necessario ‘digerire gli orizzonti del futuro’ e abituarsi a considerare il mondo anche attraverso altre categorie. Finché analizzeremo l’autoproduzione con parametri legati alla mera forma o all’interpretazione tipologica, sarà difficile apprezzarne la portata innovativa. La potenzialità del fenomeno risiede nello sradicamento di un concetto tradizionale di mercato e di industria. Esistono mercati globali e iperlocali, non ci sono

standard. E pertanto sussistono spazi virtuosi per merci non più legate alla produzione omologata di massa. La tecnologia abilita questo modello: il maker può entrare direttamente sul mercato con un’attività business-to-consumer – sta già avvenendo, ad esempio, nell’oreficeria di alto livello – e avvalersi di maestranze dislocate nel mondo, perfino in luoghi dove tradizionalmente non ci sono né industria né mezzi economici, ridisegnando le geografie produttive. Molti autoproduttori operano con semilavorati o oggetti ‘ready made’ assottigliando il passaggio dal prototipo al prodotto e immettendo le merci direttamente sul mercato. Le dimensioni gestionali e organizzative dell’impresa possono quindi essere assorbite dal singolo designer con un piccolo network di collaboratori/fornitori. Ma perché ciò riesca è necessario che funzioni il sistema, ossia le piattaforme: la comunicazione, la distribuzione online e offline, la logistica ecc. L’autarchia di oggi è geneticamente modificata, perché dotata di innervamento tecnologico che consente di ipotizzare una modalità più sostenibile del produrre: non più di tipo push, ma made to measure. E questo cambiamento non è un esercizio ma una necessità imprescindibile”.

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diffusori semantici di Stefano Caggiano foto di Bill Durgin

Oggi come ieri, il design italiano si distingue per un approccio metafisico che insegna ad accogliere sia il corpo che l’anima dell’oggetto, ovvero il senso della complessità caratteristico della dimensione umana

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Il fotografo americano Bill Durgin ripiega il corpo umano su se stesso fotografandolo in still life, come fosse una cosa. Nude and Still Life 4, 2009, 2 C-Prints 76.2 cm x 60 cm & 76.2 cm x 96.5 cm.

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l sapere occidentale viene tradizionalmente diviso in due grandi filoni: il sapere tecnico-scientifico da un lato, deputato alla descrizione della realtà (scienza) e all’intervento efficiente su di essa (tecnica); e il sapere artistico-filosofico dall’altro, deputato alla comprensione del mondo (filosofia) e alla sua interpretazione dal punto di vista umano (arte). Queste due grandi anime del sapere operano con logiche diverse e distinte, che tuttavia convergono nell’oggetto d’uso. Proprio

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l’accoglimento consapevole di questa complessità caratterizza la tradizione del design italiano, la cui vocazione ad inverare la fisica della tecnica nella poesia della forma affonda le radici fino al Rinascimento, quando la riscoperta dei grandi filosofi e matematici greci apre l’Occidente a una nuova concezione dell’uomo. Con l’umanesimo matura infatti la consapevolezza che l’uomo può avere accesso alla comprensione del mondo non solo come verità rivelata per via religiosa (come era stato per dieci secoli con il cristianesimo) ma anche per via della propria ragione, capace di fendere il reale con taglio prospettico ed effettuale. La figura di Leonardo, parimenti ingegnere e artista, rappresenta in questo senso il prototipo

del genio rinascimentale, per il quale scienza e filosofia, arte e tecnica costituiscono altrettante modalità di accesso allo stesso reale: penetrato, aperto e riconosciuto nella sua verità dal punto di vista umano. In questa accezione, scienza e tecnica incarnano trame tensive destinate ad inverarsi nell’epifania rivelatrice della forma, che si manifesta plasticamente – ed è questo il punto – in quella infrastruttura duttile e versatile, articolata e ‘psico-fisica’ costituita dal sistema degli oggetti, i quali, data la loro natura matericoformale, possono essere presi in carico dal design come la poesia prende in carico il linguaggio, per portarlo cioè oltre se stesso partendo dal mistero della sua contingenza.

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I corpi fotografati da Bill Durgin, veri e propri ‘soggetti oggettific ti’. Cyc-8, 2007, C-Print 76.2 cm x 96.5 cm.

Bill Durgin, Attempt to Level, 2013, C-Print 76.2 cm x 101.6 cm.

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È questo l’approccio italiano al design, approccio latino, mediterraneo, ‘metafisico’, che gestisce i brani del parco oggetti come uno dei massimi poeti (e filosofi) italiani, Giacomo Leopardi, ha gestito i brani del linguaggio, usando la sapienza tecnico-poetica per gettare luce sul volto crudo del ‘vero’. Come, infatti, nella poesia di Leopardi la forma non è abbellimento ma epifania del contenuto, così nel design ‘mediterraneo’ il disegno cresce come tensione di vapore fino al punto in cui la materialità dell’oggetto sublima nella plastica aggettante della forma.

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Bill Durgin, Disruption 2013, C-Print 76.2 cm x 101.6 cm.

Non è un caso che tale duplicità dell’oggetto, il suo essere corpo e forma, immanenza e trascendenza, si rifletta nella duplicità del corpo umano, che può essere parimenti inteso sia come ‘cosa’ meramente materiale sia come dispositivo agente e percepente, che sopporta la gravità dell’essere non senza liberarsi nella danza del divenire. Né è un caso che in tedesco ci siano due termini per indicare il corpo: Leib, dall’antico tedesco leiben, ‘vivere’; e Körper, il corpo inteso come mera anatomia fisica. Perché il corpo vivo, pur dotato di una dimensione fisica, non si riduce solo a questo ma reagisce al mondo, emana e

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assorbe calore, si scompone e ricompone per mescolarsi al corpo dell’amante. Il senso profondo degli oggetti d’uso può essere adeguatamente compreso solo se li considera partecipi di questa viva corporeità. Così, mentre scrivo non ho bisogno di pensare alla penna che sto usando, come mentre cammino non ho bisogno di pensare alle gambe con cui sto camminando, perché in quel momento la penna è parte della mia corporeità viva, e io scrivo attraverso la penna come cammino attraverso le gambe. Erede della metafisica che traluce le cose come filigrana o come un sogno ad occhi aperti, la

scuola italiana del design insegna ad accogliere sia il corpo che l’anima dell’oggetto, prendendosi cura non solo dello strumento ma anche della musica che ne scaturisce. Insegna a farsi carico in sede progettuale della complessità ‘corporea’ degli oggetti, invece che della loro corporeità monca, meramente funzionale, considerata dagli approcci esclusivamente pragmatici al progetto. Insegna, infine, a considerare gli oggetti non come strumenti ma come diffusori semantici, presenze ‘animiste’ (Andrea Branzi) che plasmano la significazione quotidiana come i corpi celesti plasmano la trama gravitazionale dell’universo.

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Con il divano Uncle Jack, il più grande pezzo mai realizzato industrialmente in policarbonato, l’azienda capitanata da Claudio Luti rinnova una sfida lanciata nel 1999 assieme a Philippe Starck. Le tappe di una fortunata storia di design che ha cambiato l’immagine della plastica nel quotidiano. E che oggi volge lo sguardo sempre più lontano

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KarTeLL, 15 anni di trasparenza testo di Maddalena Padovani

Claudio Luti, presidente di Kartell, e Philippe Starck (foto di Nicolò Lanfranchi). In sovraimpressione, un gioco grafico del e scocche della seduta Mr.Impossible, del 2008.

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La Marie, 1999, la prima sedia al mondo realizzata in un unico stampo in policarbonato trasparente.

P

er il creator Philippe Starck è una dichiarazione d’intenti, la metafora di un traguardo evolutivo verso cui il progresso umano deve necessariamente proiettarsi. Per l’imprenditore Claudio Luti, presidente di Kartell, è essenzialmente una sfida tecnologica e industriale, iniziata nel 1999 e oggi approdata a un prodotto da record che ribadisce la vocazione della sua azienda a fare la storia nel mondo del design. La trasparenza. Non si direbbe, ma sono solo 15 anni che questa proprietà fisica della materia ha fatto il suo ingresso nel panorama degli oggetti domestici realizzati industrialmente in plastica. E se il policarbonato è il materiale che ha reso possibile la traduzione sintetica di una qualità sempre appartenuta al vetro, Kartell è l’azienda che con questa innovazione ha segnato un passo importante della sua grande mission: fare della plastica una materia nobile dell’industria del design. Incontriamo i protagonisti di questa storia, Philippe Starck e Claudio Luti, in occasione di un loro incontro nello showroom Kartell a Milano. Mancano poche settimane al Salone del mobile 2014 ed è necessario mettere a punto il progetto dei nuovi prodotti che rinnoveranno la consolidata collaborazione professionale tra l’archistar e l’azienda di Noviglio. Sul tavolo di lavoro, i disegni e i prototipi di una nuova poltroncina imbottita su base in policarbonato e di un set di accessori per la tavola. Ma la vera novità è un’altra ed è una di quelle che non si esprime in forme bensì in cifre: un metro e 80 di lunghezza, 95 cm di altezza, quasi 29 chili di peso. Che per una seduta in policarbonato trasparente, realizzata con la tecnologia dell’iniezione in un unico stampo, rappresentano un primato assoluto. Claudio Luti: “Con il divano Uncle Jack disegnato da Philippe Starck, che quest’anno presentiamo nella versione trasparente, raggiungiamo un importante traguardo tecnologico. Non credo ci sia un’altra azienda al mondo in grado di fare questo genere di prodotto in una dimensione industriale. Siamo arrivati al massimo delle possibilità che uno stampo può offrire grazie a un enorme investimento di risorse umane ed economiche. Già nel 1998, quando abbiamo realizzato la sedia La Marie

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disegnata da Starck, ci sembrava di avere raggiunto un risultato impensabile. La stessa General Electric non aveva assicurato la riuscita totale dello stampaggio a iniezione di una sedia in policarbonato che pesava 3,5 chili. Progressivamente siamo passati a prodotti sempre più grandi e pesanti, come il comodino Ghost Buster che pesava 18 chili e che rappresentava una vera e propria avventura per via dei suoi spessori variabili. Poi abbiamo realizzato il tavolo Invisible di Tokujin Yoshioka, che è ancora un po’ più grande e presentava ulteriori difficoltà per via della sua superficie piana che non consentiva alcuna imperfezione. E infine siamo arrivati al divano e alla poltrona della famiglia Aunts and Uncles che rappresentano sicuramente il punto più alto della ricerca sul policarbonato”. Philippe Starck: “Questo progetto segna la nuova tappa di un processo d’innovazione che è cominciato con Anna Castelli Ferrieri (moglie di Giulio Castelli, fondatore di Kartell, ndr) che è il grande precursore e colei che ha avuto la visione della plastica nobile. Non si era mai visto

qualcosa di tanto complicato da fare… È più di un anno e mezzo che lavoriamo sul prototipo del divano. Uno dei designer del nostro studio si occupa solamente di questo, ventiquattro ore su ventiquattro, da 18 mesi; lavora sulle linee, le studia, le perfeziona, affinché siano compatibili da un punto di vista sia fisico che ‘spirituale’”. Cosa rappresenta per Philippe Starck la trasparenza, in senso progettuale ma anche da un punto di vista più filosofico e personale? P.S. “La trasparenza è il risultato di un importante processo evolutivo, inscritto nel nostro DNA, che racconta la nostra mutazione. Siamo stati amebe, batteri, pesci, rane, scimmie, super-scimmie e non sappiamo cosa diventeremo, secondo linee di evoluzione nettamente definite e riconoscibili. Una di queste linee-guida è la smaterializzazione, ovvero la diminuzione della materia a favore dell’aumento dell’intelligenza delle cose prodotte dall’uomo. Oggi ci troviamo a vivere in una situazione di grande fragilità; lo squilibrio e l’instabilità dell’ecosistema fanno sì che la specie umana corra il rischio di scomparire nel futuro. Fatto alquanto straordinario, è la prima volta in cui possiamo veramente prevedere il nostro epilogo, misurarlo e confrontarci con la storia di civiltà passate, scomparse per cause ecologiche e di cattiva gestione delle risorse. Da questo punto di vista, la trasparenza – secondo un approccio che va oltre il significato puramente visivo – è l’effetto della scomparsa di tanti prodotti determinata dall’intelligenza umana, anche se molti altri ‘resistono’ perché non sappiamo ancora come eliminarli o sostituirli con un’ergonomia alternativa. Per esempio, ancora non abbiamo individuato le modalità per fare a meno dei mobili. Però è importante sensibilizzare la gente su quanto avverrà e un modo per farlo è assumere una metafora visiva della smaterializzazione. Non si tratta di una sfida ma del recepimento di una linea evolutiva chiaramente segnata”. Come è nato, nel 1999, il progetto de La Marie, la prima sedia in policarbonato che ha introdotto la trasparenza nel mondo dell’arredo? P.S. “L’idea era ridurre il mio intervento su tutto, fare radicalmente il ‘meno possibile’.

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Louis Ghost, 2002, e Lou Lou Ghost, 2008, in una foto di Monica Spezia e Luca De Santis tratta dal catalogo Kartell 2009. Louis Ghost è uno dei best seller di Kartell: dall’anno di produzione ne sono stati venduti circa due milioni di pezzi.

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La poltrona Uncle Jim (sotto) e il divano Uncle Jack (pagina accanto) fanno parte dell’ultima collezione “Aunts&Uncles” fi mata da Philippe Starck, presentata in anteprima internazionale al Salone del mobile di Milano 2014.

Quindi, ridurre anche lo stile, che in questo progetto scompare del tutto. La Marie è l’espressione di ciò che si può produrre con uno stampo, con il minimo intervento umano e culturale nonché di design. La Marie non è disegnata, ma è definita dallo scorrere della plastica fluida in uno stampo. Inoltre impiega il minimo della materia, che volutamente abbiamo pesato grammo per grammo. Anche la sua presenza è minima, perché rappresenta una sedia trasparente percepibile solo a una ‘seconda lettura’: per vederla è necessario operare una scelta”. Da un punto di vista espressivo, cosa ha rappresentato per te questa innovazione? P.S. “Una specie di passaggio obbligato perché non si può costruire niente senza tornare prima ai ‘principi fondamentali’. La Marie è un ‘principio fondamentale’ che mi ha permesso di prendere coscienza di un dato importante: eliminato ogni aspetto materiale, ciò che rimane è l’intangibilità delle relazioni tra le persone, il sentimento e l’affettività. Per cui, una volta ideata La Marie, ne ho ripreso l’idea di immaterialità e vi ho aggiunto l’affettività attraverso la memoria collettiva occidentale. Così è nata la Louis Ghost, che altro non è che una La Marie arricchita della memoria collettiva di tutti i milioni di persone che hanno vissuto nel passato e nel presente”. Dopo la celebre Louis Ghost con lo schienale ovale di riminiscenza settecentesca, è venuta la Mr Impossible con la scocca bicolore, un’altra seduta disegnata da Starck per Kartell che ha scandito l’evoluzione tecnica e linguistica del policarbonato nel mondo del design. P.S. “Sono tutte declinazioni dello stesso concetto di minimo introdotto da La Marie: Louis Ghost aggiunge il sentimento del passato; Mr Impossible il sentimento del futuro”. C.L. “In generale, dalla collaborazione di

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Kartell con Philippe Starck sono nate tante innovazioni che riguardano la concezione estetica della plastica. Con la sedia Dr Glob del 1985, per esempio, abbiamo sperimentato per la prima volta l’abbinamento di due materiali diversi, ma anche la finitura opaca della plastica, la realizzazione di forme spigolose e quella di spessori più forti e importanti di quelli precedentemente impiegati. Non solo: abbiamo lavorato sul touch della plastica, ottenendo un effetto più morbido, e poi sulla colorazione, convincendo i produttori della materia prima ad abbandonare le loro cartelle standard e a mettere a punto colori diversi e personalizzati per ogni prodotto. Quando ai tempi abbiamo presentato la Dr Glob, tutti sono rimasti piacevolmente stupiti, perché la plastica aveva assunto un’identità completamente diversa”. Quali sono i concetti materici che oggi appassionano di più Philippe Starck nel progetto di design? P.S. “Innanzitutto i materiali che non si conoscono ancora oggi e che costituiranno l’era ‘post-plastica’. Sappiamo tutti quanti che il petrolio è destinato ad esaurirsi nell’arco di 25-35 anni; la cosa potrebbe non essere rilevante in termini energetici, in previsione dello sviluppo di nuovi fonti di energia, ma lo è di sicuro per i prodotti plastici derivati dalla petrolchimica, che sono invece insostituibili. Al momento non esiste un materiale alternativo al policarbonato per la realizzazione della Louis Ghost o de La Marie. Oggi si possono realizzare sedie con plastiche riciclate e materiali di recupero, cosa che ho già fatto, ma non siamo in grado di ottenere la qualità strutturale e la trasparenza di una Louis Ghost. E questo costituisce un grossissimo problema. La plastica, così come la conosciamo oggi, scomparirà e si affermeranno materie plastiche di qualità molto, ma molto inferiore. Per cui non si

potranno offrire le stesse prestazioni e gli stessi servizi. Il compito più importante per i produttori è allora questo: fare ricerca e investire sulle materie post-plastiche”. Per Kartell, invece, quali sono le sfide più importanti del presente e del prossimo futuro? C.L. “Attualmente Kartell è presente in 140 Paesi e vanta una collezione che comprende più di 150 famiglie di prodotti, firmate dai progettisti internazionali più all’avanguardia. La nostra mission è ampliare sempre più la visione produttiva, rimanendo comunque fedeli a una dimensione industriale. Due gli obiettivi principali: allargare i canali di vendita e allargare l’offerta dei prodotti, perché oggi non esiste solo il retail ma anche il contract e la vendita on line. La nostra è, per fortuna, un’azienda che può permettersi di investire, per cui ci guardiamo attorno per cogliere le tante opportunità che il mondo oggi offre. Non c’è mai stato un mercato così grande come quello attuale. Anche se l’Italia e il sud Europa oggi soffrono una grave crisi interna, le sfide che si presentano all’estero sono tante e un marchio forte a livello internazionale come Kartell non può certo perdere l’occasione di coglierle”. Qual è la prossima innovazione che Philippe Starck vorrebbe sviluppare con Kartell? P.S. “Oggi dobbiamo affrontare una sfida legata a un grande paradosso: da una parte vogliamo prodotti industriali che abbiano tutte le qualità che solo l’industria può garantire, dall’altro desideriamo oggetti individuali, perché siamo tutti diversi e tutti vorremmo cose fatte su misura. È un problema da risolvere. L’altra sfida naturalmente è quella dell’era post-plastica. Cosa farà Kartell nell’era post-plastica? Continuerà ad esistere? Certo che sì, ma dovrà lavorare e investire per essere pronta al cambiamento”.

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progetto trasparenza / 93

Il divano Uncle Jack misura 180 cm ed è un unico blocco di 28 kg di policarbonato trasparente: un primato assoluto per una seduta realizzata con la tecnologia industriale dello stampo a iniezione.

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Twist, sgabelli in due altezze con struttura in acciaio verniciato bianco, nero o rosso e seduta con intreccio in fi o di poliestere ad alta resistenza rinforzato con nylon colorato a contrasto. Design di Emilio Nanni per Zanotta. Nella pagina accanto, Web, libreria realizzata in unica dimensione cm 180x180x37 in DuPont Corian速 Glacier bianco. Design di Daniel Libeskind per Poliform.

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L’evoluzione dell’abitudine di Nadia Lionello foto di Lorenzo Massi Ciccone, Giacomo Giannini, Efrem Raimondi

Il nuovo progetto domestico racconta in sintesi un cambiamento, diventa innovativo e oggetto d’attualità per il nostro quotidiano. Le ultimissime idee parlano nuovi linguaggi per nuove e originali interpretazioni fotografiche

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“I paesaggi dove si stagliano i soggetti, sono paesaggi dell’anima, ricordi, affetti, ombre delicate sul punto di svanire. Così, il legame fra uso comune, consuetudine dei movimenti e dei pensieri, diventa profondo. Forse indissolubile”. Lorenzo Massi Ciccone

Fly, tavolo con base in acciaio nella nuova finitu a cromo nero e piano in noce canaletto. Design di Antonio Citterio per Flexform. Dalla famiglia di sedute Flow, poltroncina girevole nella nuova versione con base Lem in tubolare e fi o d’acciaio verniciati e scocca in policarbonato con finitu a lucida e pad di seduta imbottito. Design di Jean Marie Massaud per MDF.

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Ipnos, lampada da terra da interno ed esterno, con scheletro-struttura in estruso di alluminio anodizzato naturale oppure verniciato nero, rame o ottone con sorgente luminosa a LED posta lungo tutto il perimetro. Design di Rossi & Bianchi per Flos.Oasis, sedia da esterno impilabile caratterizzata dall’incrocio di due tubolari di alluminio verniciato, sagomati a formare braccioli e schienale, fiss ti alla seduta forata. Design di Atelier Oi per Moroso.

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“Il titolo riassume in pieno il mio concetto di rappresentazione. Azioni e luoghi quotidiani legati alle abitudini fungono da background e al loro interno i prodotti diventano attori che animano un dialogo poetico e pittorico, caratteristico del mio stile”. Giacomo Giannini

LC5, divano disegnato nel 1934 da Le Corbusier con Pierre Jeanneret e Charlotte Perriand. Fa parte della Collezione Cassina I Maestri e viene rieditato da Cassina nelle versioni due e tre posti con struttura in tubolare di acciaio cromato lucido o verniciato in sei colori lucidi o nero opaco e cuscini imbottiti in piuma con inserto in poliuretano espanso, rivestiti in pelle o tessuto.

Tobi-Ishi, tavolo nella nuova versione con piano rettangolare, arrotondato alle estremità, in fib a di legno MDF e gambe in resina poliuretanica ad alta densità (Baydur®). Viene realizzato con finitu a laccata satinata in 16 colori, laccata lucida Candy Red e Smoke Blue e biacca di cemento nero. Design di Barber&Osgerby per B&B Italia.

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Basket, poltroncina per indoor e outdoor con seduta in tecnopolimeroe base in metallo, caratterizzata dalla possibilitĂ di applicare piĂš tipologie di basamenti e cover imbottita per la seduta. Design di Alessandro Busana per Gaber.

Opera, tavolo con struttura in massello di acero naturale o tinto grigio, rovere naturale, teak e multistrato di betulla laccato opaco in diversi colori. Disponibile in due misure ovali e tondo da cm 160 di diametro. Design di Mario Bellini per Meritalia.

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Cosse, divano da due e tre posti con struttura in acciaio saldato meccanicamente, imbottitura in poliuretano e rivestimento in due varianti di tessuto _ progettato da Bertjan Pot _ e base portante in massello di faggio naturale o tinto. Ăˆ previsto anche un poggiapiedi. Design di Philippe Nigro per Ligne Roset.

Dragonfly, sedia cantilever con struttura in tubo ovale in acciaio verniciato e scocca in polipropilene riciclabile rinforzato con fib a di vetro, stampato ad iniezione. Design di Odo Fioravanti per Segis.

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Jagger, tavolo con base in acciaio verniciato lucido e piano in noce, rovere heritage o rovere naturale disponibile da 200, 250 e 300 cm. Design di Andrea Lucatello per Cattelan Italia.

Self up, contenitore con top continuo in vetro laccato lucido o opaco, fian hi, ante a battente e cassetti, con apertura push, rivestiti in vetro laccato con profili in alluminio e vani a gio no in legno laccato. Design di Giuseppe Bavuso per Rimadesio.

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“Il concetto di evoluzione è generalmente associato a un tempo lento, mentre l’epoca che stiamo vivendo costringe a una frattura dell’abitudine. Per questo ho scelto l’esterno notte, che è un luogo estraneo, non un tempo. Per questo la figura femminile, un po’ surreale: quasi un’apparizione… come la protagonista di una qualsiasi leggenda metropolitana. L’abitudine ha a che fare anche con la percezione, sia degli oggetti che ci riguardano, sia del loro habitat.Questa è l’epoca della frattura. Nella dinamica normalmente lenta dell’evoluzione, a volte succede”. Efrem Raimondi

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Zippo, divanetto due posti per ufficio e cont act con braccioli e schienale in due differenti altezze; ha struttura in tubolare d’acciaio verniciato o alluminio con imbottitura in poliuretano ignifugo a densità variabile; ha rivestimento in tessuto o finta pel e ed è caratterizzato dalla cerniera che corre lungo il perimetro. Ideato e prodotto da Pedrali. Nella pagina accanto, Gina, sedia con seduta in estruso di policarbonato eseguita a mano in diversi colori sfumati e semitrasparenti: blu zaffi o/ acquamarina; oro/topazio; verde smeraldo; rosso rubino; poggia su gambe in legno o alluminio, verniciate nero lucido. Design Jacopo Foggini per Edra. Peg, tavolino disponibile in due dimensioni in massello di frassino. Design di Nendo per Cappellini. Ritratti con Rossella Rasulo, scrittrice.

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Dotto, poltrona dalla collezione che comprende divani e panche, con struttura in noce o rovere nero, con piano d’appoggio a sbalzo, cuscini rivestiti in tessuto o pelle sfoderabili.Piedini in alluminio lucido. Design di Ron Gilad per Molteni. Nella pagina accanto, Wave, panca con seduta in lamiera di acciaio, con schienale curvato, verniciata grigio ardesia o bianco opachi. Fa parte della collezione Softer than steel. Design di Nendo per Desalto. Anin, sgabello in alluminio fresato e verniciato a polvere con cuscino rivestito in pelle o tessuto. Design di David Lopez per Living.

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L’arte della luce di Nadia Lionello foto di Miro Zagnoli

Scenari luminosi con lampade a Led. Nuova tecnologia che illumina e aiuta a creare inaspettati effetti scenografici

Typha, apparecchio per esterno per sorgenti luminose a LED, composto da elementi diffusori con doppio tubolare, interno in metacrilato ed esterno in policarbonato, completi di supporto inferiore in acciaio inox per installazione multipla su base per incasso a terra con circuito LED, o singola con picchetto. Disegnata da Susana Jelen + Eduardo Leira per iGuzzini.

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Punctum, lampada a LED da terra pensata appositamente per gli angoli, realizzata con una lastra di acciaio a specchio, anche nella versione da parete. Disegnata da Nigel Coates per Slamp.

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Scrittura, lampade a luce LED, modulari da 1mt e componibili, realizzate in alluminio verniciato con emissione di luce bianca e RGB, controllata con comando Hand Gesture a distanza. Design di Carlotta de Bevilacqua con Laura Pessoni per Artemide.

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Wa Wa, lampada da terra a luce LED con base e stelo tubolare in metallo nichelato, astine scorrevoli in rame nichelato, piccolo braccio flex nickel, punti luce dotati di lenti Ă˜ 32 mm in vetro. Fa parte della collezione Eco-Logic Light disegnata da Enzo Catellani per Catellani & Smith.

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Synapse, lampada da parete, soffit o e qui nella versione sospensione separĂŠ, composta da moduli di forma trilobata aggregabili in confi urazioni infini e. Il modulo in policarbonato racchiude un circuito stampato e tre LED RGB a colore variabile, regolabili a distanza da un pratico telecomando. Disegnata da Gomez Paz per Luceplan.

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Archetto flexible, linea luminosa, a luce diretta o indiretta, disponibile in tre dimensioni con struttura flessibile in acciaio armonico coestruso nel silicone, che permette di creare archi e curve. Ăˆ disponibile nelle versioni da parete e soffit o con drive incluso o remoto. Design Theo Sogni per Antonangeli.

Assolo, lampada a LED, dimmerabile, a luce indiretta, da parete o soffit o con struttura in metallo verniciato bianco o nero o personalizzabile con colori RAL o NCS. Disegnata da Luta Bettonica per Cini&Nils.

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Ypsilon, lampada da parete a luce LED in ottone cromato o laccato bianco o nero con montatura a parete a incasso oppure esterna. Ideata e prodotta da Panzeri.

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I viaggi di Giulio Cappellini Una storia d’impresa fatta d’incontri con persone speciali e di incursioni nel mondo per osservare e capire cosa accade nei Paesi che non hanno una forte tradizione del design

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di Cristina Morozzi

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Nella pagina accanto: Giulio Cappellini ritratto dietro la libreria Cloud di Ronan ed Erwan Bouroullec del 2004, uno dei pezzi icona della collezione Cappellini. A sinistra, il prototipo della vettura sportiva Seiottosei della Pasquino Ermini di Firenze, per la quale Giulio Cappellini ha disegnato carrozzerie e interni, realizzati in Alcantara. Sopra, uno schizzo della borsa creata da Nendo per Colombo, storico marchio di pelletteria milanese di cui Giulio Cappellini è diventato art director.

Accanto, prodotti storici e nuovi della collezione Cappellini. Dall’alto: sedia in metallo Pylon Chair, design Tom Dixon, 1992; seduta in legno curvato Wooden Chair, design Marc Newson, 1992; seduta Acciaio Lounge della serie Cappellini Next, design Max Lipsey, 2013; poltrona Tulip, design Marcel Wanders, 2009; Thinking Man chair, design Jasper Morrison, 1998; centrotavola Voir della collezione Progetto Oggetto, design Leonardo Talarico, 2014.

“L

a Cappellini”, racconta Giulio Cappellini, “è nata per caso, senza un disegno preordinato, frutto del mio istinto e della mia naturale curiosità, innestata sul tronco della piccola azienda paterna (solo 15 dipendenti), specializzata in mobili, creata nel 1946”. Dopo la laurea in architettura nel 1979 e un anno di collaborazione nello studio di Gio Ponti, un’esperienza diretta con il grande maestro che gli ha insegnato l’amore e la dedizione al progetto, partecipe del clima straordinario che respirava in quegli anni il design italiano, decide di entrare nell’azienda paterna. Esisteva un nucleo d’impresa e prepotente era la voglia di Giulio di guardarsi attorno, oltre i confini dell’Italia. All’origine ci sono i viaggi: gli incontri con i creativi e il desiderio di osservare e capire cosa accadeva nei Paesi che non avevano nel design una storia forte come quella italiana.

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Tre allestimenti realizzati da Giulio Cappellini per la presentazione della collezione Cappellini. Dall’alto: lo stand al Salone del mobile di Milano del 2013; l’allestimento alla Fabbrica del Vapore, curato da Paola Navone nell’aprile 1993; allestimento fi mato da Achille Castiglioni in occasione del Salone del mobile di Colonia del 1998, nella fabbrica abbandonata Deutz.

“Il mio sogno” prosegue Cappellini “sarebbe quello di organizzare una giornata, magari sul lago di Como, con tutti i personaggi che sono passati dall’azienda. Penso sia difficile, perché sono più di cento”. Poiché le sue scelte sono sempre state d’istinto, viscerali più che razionali, Giulio ama ricordare le circostanze, o meglio le folgorazioni, che l’hanno stimolato a prendere contatto con i designer che sono poi diventati suoi compagni di strada. Ricorda l’innamoramento per la sedia di Ross Lovegrove, esposta al design Museum di Londra, che riuscì a portare subito in Italia, nonostante le resistenze dell’allora direttore. Il colpo di fulmine per il prototipo della Thinking Man chair di Jasper Morrison, che vide da Aram a Londra, in occasione della mostra per i 25 anni della galleria. “Piombai” rammenta “nella piccola casa/studio di Jasper. Io parlavo e lui,

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attonito, taceva, bevendo acqua. Da quell’incontro è nata una storia molto importante per l’azienda: 25 anni di collaborazione che rappresentano il 50 per cento del fatturato della Cappellini e uno speciale rapporto umano. Con Jasper non parliamo solo di progetti, ma di strategie d’impresa, di tendenze... È un po’ il mio psicanalista!”. “Tom Dixon” prosegue “mi fu segnalato da Franca Sozzani. Aveva un’immagine dura ma un animo gentile e i miei artigiani erano felici di lavorare con lui perché non disegna ma lavora sul posto”. Ricorda l’incontro con Shiro Kuramata nel suo studio di Tokyo, mentre lui era intento a disegnare la sua città ideale, con le case costruite sugli alberi. Quello con Zanini de Zanine, che a Rio de Janiero l’ha accompagnato a visitare le favelas delle quali porta inciso nella mente i fasci di fili elettrici sospesi. Confessa di non scattare fotografie, ma di viaggiare con il suo taccuino di appunti, sempre pronto a riempirsi gli occhi di immagini che, prima o poi, tornano a galla. “Gli incontri con le persone speciali” afferma “rappresentano un grande dono, ma non si riceve per caso, bisogna meritarselo ed essere disponibili a farsi sorprendere”. Incontri e immagini del mondo sono tracce e stimoli che nutrono, assieme ad una insaziabile curiosità, la vita di Giulio e, di riflesso, la sua attività di imprenditore e progettista. La curiosità che lo conduce in giro per il mondo, verso paesi che si stanno affacciando al design, come l’Africa, è la stessa che lo sollecita ad affrontare esperienze in altri settori. Al Salone dell’auto di Ginevra (6-16 marzo 2014), lo storico marchio fiorentino Pasquino Ermini, di recente rilanciato, ha presentato l’auto sportiva da strada Seiottosei (il peso del veicolo), con carrozzeria e interni disegnati da Giulio Cappellini. “Lavorare sull’auto” dichiara Giulio “è stato molto interessante: mi ha messo in contatto con una categoria che non conoscevo, i carrozzieri, e con la

dimensione del su misura, diffusa nel settore dell’automotive più di quanto s’immagini”. Durante il Salone del mobile di Milano di questo aprile sarà presentata la nuova collezione di borse disegnate da Nendo per Colombo, storica azienda di pelletteria milanese di cui Giulio è art director, che da poco è stata acquisita da Samsung. Per il marchio Cappellini, invece, sono in cantiere piccoli progetti di Zaven, Antonio Forteleoni e Matteo Zorzenoni, nuovi prodotti di Nendo e Jasper Morrison e due riedizioni di Kuramata. La capacità di sorprendersi e la convinzione che nel design c’è ancora molto da fare danno al progettista-imprenditore, nonostante i 60 anni appena compiuti, un atteggiamento da ragazzo e l’attitudine a essere sempre sul piede di partenza per nuovi viaggi. Ama intervenire sui progetti altrui e lavorare coralmente: è architetto e designer, ma più che oggetti, è interessato a creare aziende e gruppi di lavoro. Figura multidisciplinare, è infaticabile, sempre pronto a mettersi in gioco, anche in progetti didattici. È il caso del suo coinvolgimento come art director nella Design School dell’Istituto Marangoni, per cui ha progettato gli interni. L’interesse per la comunicazione nasce dal suo desiderio di vedere i prodotti Cappellini nelle case della gente. Vorrebbe portare il design in strada, allestendo feste di paese e processioni, come quella epica di Franco Moschino per l’inaugurazione della sua prima boutique milanese. “Alle persone” conclude “bisogna vendere dei sogni, per cui le presentazioni devono essere delle feste...”. Molte delle sue sono state memorabili. In un momento storico all’insegna della prudenza, fa specie che un imprenditore definisca il design come un sogno: significa proporre della disciplina un’immagine felice, aprendo prospettive di speranza per la nuova generazione di progettisti.

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Altri due pezzi-icona del catalogo Cappellini: la cassettiera Side progettata da Shiro Kuramata nel 1970, prodotta dal 1977, e le librerie bifacciali a colonna Drop presentate nel 2012 su progetto di Nendo.

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Per celebrare il settantacinquesimo anno di Knoll, l’architetto David Adjaye ha progettato una collezione di arredi che interpreta la visione dello storico marchio secondo i principi della sua ricerca architettonica

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Interpretazione crossover

uando si tratta di celebrare un’azienda così nota e storica come Knoll il compito non è facile, perché le aspettative sono alte e i prodotti rischiano l’eccessivo tecnicismo o, all’estremo opposto, un’estetica nostalgica. L’architetto londinese di origini tanzanesi David Adjaye ha scelto di puntare sull’abilità tecnica e la capacità di interpretare i materiali, e di scommettere sugli elementi comuni tra la propria visione progettuale e quella dell’azienda americana. “Ho voluto trasferire una serie di temi ricorrenti nell’arredo di Knoll: monumentalità, materialità e storia, aspetti che ricerco anche nella mia architettura. Anziché realizzare un prodotto, ho voluto esprimere una personale idea di materiali, silhouette e forme. Non avevo mai disegnato elementi d’arredo, ma solo oggetti. È molto differente, perché i primi possono essere usati da chiunque in qualsiasi posto inconsapevolmente nel quotidiano. Come fossero una sorta di sfondo. E c’è qualcosa di molto interessante e pregevole a riguardo. Mi piace che quesiti che nascono in condizioni specifiche, a cui ho dato forma, diventino parte di un mondo comune”, spiega Adjaye. A un anno dalla presentazione del progetto di Rem Koolhaas, la Washington Collection conferma l’impegno di Knoll nel settore domestico. “Vogliamo accrescere il settore residenziale, complementare al business nell’ambito dell’ufficio, e posizionarci come leader globale nell’arredo per interni”, spiega Andrew Cogan, presidente di Knoll. “In questi anni abbiamo riequilibrato l’offerta per il settore domestico con i lavori di Edward Barber e Jay Osgerby e la collezione Washington dell’innovativo David Adjaye (che ora lanciamo sul mercato europeo). Inoltre, abbiamo recentemente acquisito Holly Hunt, uno dei principali marchi di design per il residenziale con ragguardevoli collezioni di arredi, luci e rivestimenti, che consta di una rete di showroom in Nord America, San Paolo e, in prossima apertura, a Londra.

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testo di Valentina Croci

La versione in nylon della sedia da tavolo della Washington Collection, prodotta da Knoll, mostra la particolare nervatura di rinforzo che ne diviene l’elemento estetico. L’andamento delle costole dipende dal comportamento strutturale del materiale e dal processo di produzione a stampaggio a iniezione. Nella pagina accanto: l’architetto londinese di origini tanzanesi David Adjaye ritratto insieme alle sedute della Washington Collection in versione metallo e nylon.

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La sedia in metallo è realizzata in pressofusione di alluminio. È prodotta in tre pezzi: la scocca e le due gambe speculari, connesse con incastri a mortasa e tenone e chiusure in acciaio inox. L’andamento delle nervature è differente rispetto alla versione in nylon. Il disegno mostra l’evidente sbalzo e l’esilità della seduta che però sopporta oltre 130 kg. Sotto: la scocca della sedia in nylon realizzata in stampaggio a iniezione.

Il domestico rappresenta circa il 25% del fatturato di Knoll, con potenzialità di crescita globale. Una prospettiva bifronte, residenziale e commerciale, che rispecchia la visione di lifestyle totale dei due fondatori Hans e Florence Knoll”. La collezione Washington presenta un forte accento scultoreo e si compone, al momento, di due sedie da tavolo a sbalzo, una con scocca piena in nylon e una in alluminio, e da un tavolo basso in bronzo. L’uso di materiali diversi nelle due sedie ha comportato non soltanto una differente ricerca tecnologica, ma anche un distinto risultato estetico: leggerezza e gioco tra pieno e vuoto per la versione in alluminio; colore e giocosità per quella in nylon. Quest’ultima svela il rinforzo portante nella parte retrostante della scocca, conferendogli un importante valore ornamentale. Fattore apprezzabile, se si pensa che le sedie da tavolo sono spesso viste nella parte posteriore. Un elemento sicuramente riconoscibile di entrambe le sedie sono i due sostegni: “Le gambe a sbalzo dei miei primi schizzi” precisa Adjaye “sintetizzavano l’immagine di una persona seduta, come se la sedia scomparisse quando usata. Il concetto iniziale si è arricchito durante la collaborazione con il team Knoll, che ha sviluppato la tecnologia per avere una scocca flessibile e un giunto a T in metallo [tra scocca e gambe, ndr] capace di resistere a forti pressioni. Il risultato è quindi un oggetto minimale che però sostiene oltre 130 kg. È una collezione che sfida i materiali e la plasticità della forma nella stessa maniera della mia architettura”. E Benjamin Pardo, Executive Vice President Design di Knoll, aggiunge che è stato proprio questo salto di scala che l’azienda ha chiesto all’architetto londinese,

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trasferendo la sua ricerca di innovazione. La seduta è realizzata con stampaggio a iniezione in tre parti – le gambe e la scocca – connesse con incastri a mortasa e tenone e chiusure in acciaio inox. La gamba è un pezzo unico rinforzato internamente con una sorta di bretella in alluminio ricoperta dal nylon. La versione in pressofusione di alluminio è anch’essa in tre pezzi, connessi con i medesimi incastri e offre più finiture: dal verniciato al naturale, dal trattamento per esterni alla patina invecchiata. “La costolatura” continua Adjaye “è stata sviluppata dapprima per la versione in plastica e poi modificata per quella in metallo. Le nervature sono diverse nei due modelli per numero e dimensione, e dipendono sia dai comportamenti strutturali dei due materiali, sia dai diversi processi di colata”. È soprattutto il tavolo Washington Corona che riflette il crossover tra design e architettura di

David Adjaye. La base è costituita da quattro pannelli mistilinei in bronzo dalla forma organica, realizzati con macchine a controllo numerico a cinque assi e lucidati a mano, coperti all’esterno da altrettanti piani di raccordo realizzati, questi ultimi, con la tecnica del bronzo fuso in terra che gli conferisce la tipica ruvidezza. La plasticità dell’interno si rivela solo attraverso il vetro del top. “Il contrasto tra le due finiture della struttura” conclude Adjaye “è un’indagine sulla relazione tra dentro e fuori, tra pubblico e privato, tra il mostrare e il celare – opposti che investigo generalmente nel mio lavoro. Il contrasto mette inoltre in evidenza un lavoro strutturale complementare, in cui la forma diventa struttura. È una superficie che può essere d’uso, ma con un impatto visivo di per sé”. La serie dei tavoli è realizzata in soli 75 pezzi numerati proprio per commemorare l’importante compleanno.

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Il tavolo Washington Corona è realizzato in serie limitata di settantacinque pezzi come il compleanno di Knoll. La sua particolarità risiede nella base in bronzo, costituita da una parte interna con una forma organica e la superficie spec hiante, e dal rivestimento esterno lasciato grezzo. La texture dell’esterno è ottenuta con la tecnica del bronzo fuso in terra che dà la caratteristica ruvidezza. Copre la base un vetro trasparente che ne mette in evidenza il contrasto.

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wonder wanders è stato invitato dal museo d’arte contemporanea forse più importante d’Europa ad esporre gli esiti di 25 anni di carriera irresistibilmente flamboyant

Marcel appeso allo Stedelijk di Olivia Cremascoli

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Inaugurata a fine 2012 la nuova ala dello Stedelijk Museum (1895) di Amsterdam, progettata da Mels Crouwel dello studio olandese Benthem Crouwel Architekten. Foto di John Lewis Marshall.

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ohn Hitchcox, uno dei più potenti imprenditori immobiliari del mondo, nonché socio di Starck, nel 2008 ha dichiarato che “da anni Philippe mi sta dicendo che Marcel Wanders è il prossimo Philippe Starck”. La ‘sfida’ fra i due titani è giunta, nel 2014, a un giro di boa: infatti, lo Stedelijk Museum di Amsterdam, una super-istituzione considerata universalmente un ‘faro’ dagli adepti dell’arte moderna e contemporanea, ha glorificato Wanders con Pinned Up. 25 Years of Design (fino al 15 giugno), a cura di Ingeborg de Roode, curatrice per l’industrial design allo Stedelijk (www.stedelijk.nl). Esaustiva esposizione dall’allestimento in alcune parti fantasmagorico, Pinned up sacralizza il bel Marcel (Boxtel, 1963)

– raffigurato, per la specifica occasione, come una farfalla essiccata, fissata con uno spillo al centro di una lignea cornice museale – quale divinità dell’Olimpo del design mondiale. Più di 400 gli oggetti in mostra, che fanno esclamare, anche ai più navigati scrivani del settore, “oddio, quanto ha progettato!”. La mostra sorprende non certo per i progetti di Wanders più conosciuti o stra-conosciuti, che alla fine escono quasi dagli occhi (in primis, la madre di tutti i progetti, l’iconica Knotted chair, 1995-96, per Droog Design, Cappellini e, infine, per le Personal Editions dello stesso Wanders), ma per quelli di cui non ne si sapeva nulla o poco, in quanto minimi (come dimensioni) e persino minimali (attitudine che aWanders risulta alquanto

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In questa pagina, dall’alto: progetto per la lobby dell’edificio ad a partamenti Quasar di Istanbul, la cui inaugurazione è prevista per il 2015; vaso The killing of the Piggy Bank (a sinistra) per Moooi e una sperimentazione, con la manifattura olandese Royal Delft, di tre dei cinque tatuaggi che il progettista ha appositamente creato per mani e avambracci della pianista classica olandese Iris Honde. Nella pagina accanto: il celebre girocollo Rainbow, che Marcel Wanders ha disegnato per se stesso (Personal Editions) con boules di cristalli Baccarat, mosaico Bisazza, il logo oro di Nosé, etc.) e che indossa quotidianamente; il manifesto di Pinned Up. 25 Years of Design, mostra personale che lo Stedelijk Museum di Amsterdam dedica, sino al 15 giugno, a Marcel Wanders.

difficile negli ultimi anni). In quanto a progetti minuscoli, il designer olandese ne può vantare un’infinità: dai progetti cosmetici per il gigante giapponese Cosme Decorte/Kosé (non solo il packaging, ma anche gli strabilianti motivi decorativi impressi sul rossetto stesso o sulla cipria), allo sculturale contenitore doppio per il profumo Vice & Virtue (2010); dal soave progetto Pearl necklace (1995) alla Corona de Agua (2001), tiara per il fidanzamento di Maxima con Willem-Alexander, oggi sovrani d’Olanda; dalle spille porta-ritratti Lijstbroches per la Galerie Ra agli occhiali da sole Turned Arm (2013) per Mark & Spencer; dall’ombrello Wapper (1989-2014) per la Galerie Coumans ai coloratissimi piatti Patchwork (2003) per la Koninklijke Tichelaar Makkum; dalle spine Wattcher (2009) per Innovaders, finalizzate al controllo del consumo elettrico, ai tatuaggi che ha disegnato appositamente per la pianista olandese Iris Honde o, meglio, per le sue mani e i

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In questa pagina, da sinistra: due panoramiche della cosiddetta zona ‘chiara’ o ‘bianca’ (in contrasto con la parte ‘scura’ o ‘nera’, nella pagina accanto) di Pinned Up. 25 Years of Design, mostra personale dedicata a Marcel Wanders dallo Stedelijk Museum di Amsterdam; la lobby dell’hotel Andaz di Amsterdam, in toto progettato da Wanders e arredato con Moooi, di cui il designer è co-fondadore insieme a Casper Vissers.

suoi avambracci... Ciò che colpisce di Wanders è anche la sua apparente nonchalance nei confronti della ‘fattura’ dei suoi progetti: che siano prodotti a livello industriale, piuttosto che in edizione limitata o solo ed esclusivamente in façon artigianale, pare non sia la sua prima preoccupazione, anche se è chiaro che, per tutti, le royalties provengono soprattutto dall’industria.

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D’altronde, un suo critico ha scritto che “per quanto la professione di industrial designer richieda ricerche continue e sostanziali – test su materiali, tecniche e processi di lavorazione – Wanders preferisce essere visto come uno storyteller piuttosto che come un engineer”. La sua forte propensione per il cesello, gli arabeschi e le textures a pizzo (”Il less is more – dichiara – è uno

stato di delusione patologica”), insomma, la sua propensione per l’ornamento, alla faccia di Adolf Loos, dopo l’esposizione di Amsterdam ci è diventata comprensibile: infatti, dopo la Design Academy di Eindhoven, Marcel Wanders ha frequentato un corso di design del gioiello all’Academy of Fine Arts di Maastricht. Da qui si decripta la sua passione per il décor e il

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Dall’alto: una panoramica della mostra Pinned Up. 25 Years of Design: i pouf in mosaico di Bisazza, il fondale dello Swarovski Crystal Palace, i candelabri di Baccarat e le lampade da terra Big Shadows di Cappellini. Qui sopra: dettaglio di Wallflower Bouquet per Flos e Personal Editions; accanto, parte dell’estesissima collezione United Crystal Forest (2010) per Baccarat.

craftmanship, che l’ha portato a disegnare, oltre a un notevole numero di gioielli – come, ad esempio, il girocollo Rainbow, 2007, che ha sempre al collo – anche delle posate cesellate come le Dressed (2011) per Alessi, dei cristalli arabescati per Baccarat (2010), nonché le iperartigianali serie One Minute Delft Blue, 2006, per Personal Editions, e Delft Blue, 2009, per Moooi,

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dove ogni pezzo è lavorato e dipinto a mano presso la gloriosa manifattura Royal Delft, nell’omonima cittadina, dov’è nato Vermeer e la celebre Scuola di Delft (www.holland.com). A Wanders viene anche riconosciuta una notevolissima versatilità progettuale pure negli interni, dove realmente scatena il suo esprit bizantino: basti ricordare gli hotel Mondrian di

Miami South Beach, Andaz di Amsterdam e le Lute Suites di Ouderkerk aan de Amstel (Olanda), nonché i progetti ancora in fieri, come il Mondrian Doha (apertura prevista a fine 2014) e l’edificio ad appartamenti Quasar di Istanbul (apertura prevista nel 2015), la cui Quasar Head, imponente scultura bi-fronte, che rappresenta l’Asia e l’Europa, è ora in mostra allo Stedelijk Museum.

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Lo sGuarDo oLTre di Katrin Cosseta elaborazione immagini di Enrico SuĂ Ummarino

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Variazioni sul tema della trasparenza, tra segno e materia. La capacitĂ del progetto di disegnare il vuoto e modulare la forza leggiadra della luce che attraversa i materiali

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Pagina accanto: Arabesque di 3D Surface, parete traforata a geometrie poliedriche in malta ceramizzata fib orinforzata per interni ed esterni. Tavolo Tron di Marc Sadler per Capo d’Opera con base in rete di acciaio a moduli asimmetrici saldati e piano in cristallo trasparente bisellato o legno. In questa pagina: Lightben Kaos 3D black di Bencore, pannello composito per architettura d’interni con pelle esterna in acrilico e policarbonato trasparente e anima a celle circolari di diverso diametro, ideale per superfici etroilluminate. Sedia dalla collezione Engineering Temporality di Tuomas Markunpoika, edizione limitata di 12 esemplari realizzata in tondini d’acciaio saldati, distribuita da Fumi Gallery.

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Parete divisoria sospesa disegnata e prodotta da De Castelli, composta da moduli in acciaio inox tagliati al laser. Vetrinetta Galerist di Chrstophe Pillet per Lema, con struttura in metallo bronzato e ante in vetro. Sedia Cyborg di Marcel Wanders per Magis, con sedile e gambe in policarbonato stampato in air moulding, schienale in policarbonato stampato a iniezione.

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Pannello in vetro stampato decorativo Oltreluce Circles Clearvision di Michele De Lucchi per AGC Flat Glass Italia, con pattern a bolli a rilievo, per applicazioni d’arredo o architettura per ambienti interni o esterni. Libreria Rotating-Glass Shelf di Nendo per Lasvit, con struttura in multistato di betulla e ‘ante’ formate da dischi di vetro. Tavolino Connection Double di Massimo Castagna per Gallotti&Radice, con piano in cristallo extralight temperato 12 mm e struttura in ottone brunito a mano.

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Hexaben Large di Bencore, pannello composito con anima interna in alluminio alveolare e rivestimento esterno in acrilico, utilizzabile per porte, pareti divisorie, piani, controsoffitti Lampada a sospensione Afillia di Alessandro Zambelli per .exnovo, con diffusore in poliammide sinterizzata e supporto in legno di cirmolo. Comodino dalla collezione Industrielle di Paola Navone per Baxter, con struttura in lamiera forata laccata e maniglia decorativa in pelle Nabuck. Sedia impilabile Tube di Thesia Progetti per Natevo, con struttura in tubolare d’acciaio e seduta in rete elastica. Disponibile in 3 colori.

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Pannello di vetro temperato 8 mm di Vismaravetro con decoro Connessioni di Carmen Bruno della proposta Personal Glass, realizzato a stampa digitale con speciali vernici ceramiche. Per cabine doccia e altre destinazioni d’uso nell’interior design. Sgabello Ovidio di Paolo Cappello per Fiam, in vetro trasparente saldato da 15 mm e seduta in faggio naturale o tinto. Libreria e tavolo basso Deep Sea di Nendo per Glas Italia, in cristallo trasparente extralight stratific to termosaldato nei toni grigio o azzurro, con base a specchio. Seduta dalla collezione Man Machine di Konstantin Grcic per Galerie Kreo, in lastre di vetro industriale float connesse da silicone nero e da un pistone a gas che ne consentono un leggero movimento.

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Di Vitrealspecchi, pannello Aqua Cristalli in vetro float monolitico con texture su un lato lavorata chimicamente. Le lastre (2250 x 3210 mm) sono utilizzabili per serramenti, arredamento, edilizia. Lampada a sospensione Parachute di Nathan Yong per Ligne Roset a moduli componibili di forma diversa in fi o d’acciaio laccato nero. Tavolino in vetro New Sander di Chris Martin per Massproductions. Sedia dalla Drawing Series disegnata e prodotta da Jinil Park, in fi o metallico verniciato nero.

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Pannello i.light di ‘cemento trasparente’ di Italcementi, realizzato legando con un impasto cementizio di nuova concezione particolari resine plastiche, adatto all’utilizzo in architettura e arredamento. Scaffali dalla collezione April, May, June di Gino Carollo per Bonaldo, in metallo verniciato in 4 colori. Sedia Drapée di Constance Guisset per Petite Friture, in fi o d’acciaio verniciato a polveri epossidiche.

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EnGLIsH TexT INtopics

INteriors&architecture

editorial pag. 1

Heaven can wait pag. 2

In the year in which INTERNI celebrates its first 60 years of existence, the April issue presents a platform inspired by the exhibition/event “Feeding new ideas for the city” that will take place in the courtyards of the Università degli Studi and at the Botanical Garden of Brera, confirming the central character of Milan and of Italy in the international design system. The focus, looking forward to the major theme of ‘nourishment’ of Expo 2015, has been developed in the works of architecture covered here – where the actors on our stage live or find their inspiration – and in the investigation of the ‘state of health’ of Made in Italy and Italian design culture. In a choral manner, from the critical reflections of over twenty leading designers, the message emerges that making product culture to generate quality is still the winning move, for the Italian furniture industry to conserve its position of leadership and meet present and future international challenges. In this sense, the cover story about transparency, by Philippe Starck, also makes reference to products that call for the ability to take risks, to experiment and to invest in creative ideas. This is what makes Italian companies capable of competing with the best of international industry, in terms of both innovation and culture. Some say that after the era of the great masters we have lost some of our force and identity. After the Zeroes, the names (and faces) of over 60 protagonists of the new generation of Italian design tend to uproot preset notions and to demonstrate, with different approaches and modes of expression, just how fertile the terrain tilled by the great masters continues to be. Like Alessandro Mendini, Andrea Branzi and Michele De Lucchi, personalities of reference, also in the history of INTERNI over the last 20 years. We asked them for some short thoughts on the theme of design and communication: a relationship in a state of evolution, today more than every before. Gilda Bojardi The castle-home-gallery in a town in central Italy, restructured by Claudio Silvestrin Architects. Photo Giulia Ricagni

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project PAOLA NAVONE photos Enrico Conti - text Antonella Boisi

In PHUKET, THAILAND, the spectacular POINT YAMU by COMO, the first of the LUXURY RESORTS created for the BRAND guided by CHRISTINA ONG. Designed BY Paola Navone, focusing on the genius loci in a contemporary key A few months ago Paola Navone welcomed sector journalists to her studio in Milan on Via Tortona, to show them the compositional range and progress of the work on the COMO Hotels and Resorts, with plans, elevations, sections, material samples, color samples, combination studies, unfurled on long tables. There was an atmosphere of enthusiasm, optimism, energy. “I’m having lots of fun,” she explained, “because these are two global projects: I have designed everything, from the tables to the chairs, the dishes to the tablecloths, letting each element take part in the importance of the details, to design the architecture and the atmosphere of the spaces, in a rhythmical dynamism of open, semi-open and closed spaces, modulations and games of light, full and empty zones.” Today, after two years of construction, the first of the two international luxury resorts she has designed for the Singapore-based brand guided by Christina Ong, the Point Yamu in Phuket, Thailand, has opened its doors (the Metropolitan at Miami Beach – an urban hotel of smaller size in a Liberty building in the historic district, soon to open, has a completely different mood). And the results meet the expectations. “Simplicity is the form of true luxury,” the architect-designer-trendsetter, “an eclectic dreamer” as she calls herself, once opined. And it is a pleasure, for those of us who can appreciate these evocative images, to realize that the luxury proposed by the Point Yamu resort focuses precisely on that dimension of simplicity, seen as the authenticity of the spirit of the place. Capable of sustaining the value of the relationships between people and spaces, the experience of travel and of wellbeing as the hospitality philosophy of the brand. A sustainable approach to the context, which is a truly special location: Cape Yamu, the peninsula to the east of Phuket, twenty minutes from the airport, a hillside garden overlooking the limestone formations of Phang Nga Bay (a UNESCO world heritage site) and the Andaman Sea, with spectacular 360° views, also of the nearby islands.

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Inter ni aprile 2014 The resort fits into this landscape without invading it, without erasing what was here before: the skeleton of an unfinished and rather bulky hotel. The existing volumes have been redesigned with clever coverings of metal screen and climbing plants, in tones of gray and green. A changing skin, vibrant in the penetrating local light, that camouflages everything amidst promenades and a 100-meter swimming pool: from the entrance pavilion in a central position that contains the lobby open to the sea and the collective zones (two restaurants, one Thai, the other Italian), to the 106 rooms and private villas (varying in size from 60 to 100 m2, also available for purchase) organized in the volumes to the sides, all the way to the spa conceived as the heart of the complex. Inside, every corner, wall, window, door, ceiling and room conveys the sensation of a range of hybrid, heterogeneous skin-textures. Paola Navone achieves true mastery of sight, of putting things together. She knows the anthropology of places, objects and crafts. And, above all, after having worked and lived in Asia for many years, constantly seeking stimuli and references, she has absorbed the colors of two worlds, Orient and Occident, which she has managed, yet again, to rework in a non-standardized, cool yet emotional way. “For me this was a bit of a homecoming,” she says. “I know and appreciate the dedication and passion of Thai craftsmen. Their savoir-faire. And again in this case, I was not disappointed. I have been able to recover signs and traditions that live again in modern forms, perhaps imperfect but also seductive. This was a new adventure, full of surprises. In the north of the country, for example, I met true artists who have created lace chandeliers that flood the lobby and the restaurant areas like cascades. Then I found a young ceramist who still works with an antique Chinese kiln, the Dragon Kiln, who made all the perforated bricks glazed in white, with which I could create filters to screen off the glare of the intense Thai sunlight in the rooms. Finally, I met a carpenter who did not balk when I asked him to cut tens of thousands of blocks from teak scrap to cover the two walls of the entrance pavilion, each measuring 70 m2.” Cultural heritage as the basis for the construction of a path to contemporary hospitality has implied, first of all, rediscovery of the materic-chromatic DNA of the place. And materials, for Paola Navone, are always a matter of creative tailoring: stones, cement, ceramic blocks, drawn aluminium screens, woven wicker. The colors interpret an iconic palette that covers saturated tones, the contrast between the blue of the sea and the not pearly white of the enclosures: from turquoise (used for the ceramic tiles in the bathrooms and the pools of the suites, but also for the legs of the consoles) to the three nuances of blue, in the spa; from orange (in fabrics, but also painted on tables and chairs) to the rugged reds of tables and benches in solid teak. Other creative touches come from the ‘brushstrokes’ that characterize and personalize the spaces, with specific, unique focal points. Lenses to enhance the gaze, for vivid sensorial effects. Like the mosaic fish that adorn the walls of the Thai restaurant, the geography of plates on the walls of the La Sirena Italian restaurant, the figurative motifs based on Thai calligraphy to decorate the ceilings of the tea room, the bronze hands of antique statues that close the doors of the wellness spaces… all positive encounters with a fairytale location, where indoor-outdoor interaction gradually reveals its subtle charm. - pag. 3 In the spa, the true heart of the resort complex, traditional Thai cots are reinterpreted in terms of form and materials, arranged like a belvedere along the horizon line of the swimming pool, with the sea in the background. On the facing page, view of the La Sirena Italian restaurant, with the wall of the buffet area adorned by a geography of plates from Europe. Chairs and sofas by Gervasoni, design Paola Navone. - pag. 4 A zone of the spa, clad in locally produced ceramic tiles in different tones of blue and turquoise, for an aquarium effect. Armchair by Gervasoni, designed by Paola Navone. On the facing page, view of the Thai restaurant. Note the mosaic fish on the all in the background, and the wall in aged wood, with a fish-sca e pattern, in the foreground. - pag. 7 In the entrance pavilion the spectacular lobby features an installation of old Thai tables, flowers and glazed vases, and the lace chandeliers created by local artisans. Note the sculptural columns covered in picassiette that support the roof of the space open to the view of sea and the landscape. - pag. 8 The private dining room a total white enclosure based on the contrast between the iridescent white of the mirror mosaic facings and the bright orange of the door, with a handle made from the bronze hand of an antique statue. - pag. 9 The space of the Aqua Bar, with the counter in stones and solid teak, bordered by screening wings in white glazed perforated brick made by a young ceramist who still works with an antique Chinese Dragon Kiln. The tea room. The gaze is lured to the ceiling, decorated with fi urative motifs inspired by Thai calligraphy. Eumenes divans. Traditional chairs and tables, painted orange. - pag. 11 One of the 106 rooms of the resort, with its bath, dominated by the blue of the ceramic facings that enhance the furnishings. In the room, the white glazed perforated bricks return, forming a screen, with custom white-gray cement tiles for the floor. Clever coverings of metal screen and climbing plants in tones of gray and green form the uniform but vibrant architectural skin, shifting in the light and in the reflections of the water of the swimming pool (100 meters long), camouflaging th bulk of the pre-existing volumes.

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EGo mInImum pag. 12

project CLAUDIO SILVESTRIN ARCHITECTS

photos Giulia Ricagni - text Antonella Boisi

In a town in Latium, a CASTLE-FORTRESS, transformed into the RESIDENCE OF AN ART COLLECTOR, a place that seems like it has never been touched. A kind of INVISIBLE ARCHITECTURE taken back to its pure, essential elements The challenge is daunting when your counterpart is an architect and painter, a student of Bramante and friend of Raphael, like Baldassare Peruzzi, from Siena, responsible for the transformation of this fortress originally built in 1084, to create a splendid castle in the late Renaissance. As narrated by Claudio Silvestrin, himself an outstanding name on the international stage of contemporary architecture, called in for the art direction of the restoration and conversion of 3000 m2 as a residence for a family with small children, ready to welcome many guests and an important art collection (displayed in a space of 1000 m2). Even for a master of the minimal this face-off with a key figure of the Renaissance, appointed architect of the Fabbrica di San Pietro in 1530 (his most famous works include Villa Farnesina Chigi and Palazzo Massimo alle Colonne in Rome), and with a building that has been listed as a national monument since 1928, must have been rather problematic. He explains: “though the building required almost nine years of work, perseverance and dedication, I wanted the restoration to be ‘invisible’ so that once completed, the castle would give the first impression of never having been touched at all.” An approach aptly defined by the expression “minimum ego” to emphasize the fact that the architectural-historical context was so strong and majestic that it reduced any intervention to a sort of focusing, to respond to new needs in the least arbitrary way possible. Without concessions to fashions or trends, without evident signatures. The castle overlooks one of the many charming towns of central Italy. With a very irregular, almost zoomorphic footprint (like the form of an eagle with its wings spread, for some, or that of a scorpion, for others) due to the need to anchor it to the rock and to adapt to the contours of the terrain, it is composed of about 100 sober, severe rooms, on three levels, connected by narrow spiral staircases pressed between solid walls of dizzying height, all the way to the terracebelvedere on the roof with its view of the hilly landscape. The south wing is for the guest quarters, the north for seminars, workshops, events and exhibitions, also hosted in the basement (where during restoration a snow cellar was found, with a depth of 7 meters, a kind of natural refrigerator packed with ice and snow). The central part contains the palace, with the piano nobile and frescoes. “Not one centimeter of the walls, floors, ceilings, arches, barrel vaults or wooden beams has escaped the intention of a direct link with the spirit of the place. The idea was to complete an accurate reconstruction of the zones, taken as the founding nucleus of the Italian cultural heritage. And the restoration was relatively simple, because it involved simply cleaning, repairing and reconstructing in a conservative way, with the help of the heritage authorities, also for the frescoes that decorate the spaces. What was more complicated was the intervention on the 30% portion of new construction, as required by the client. To think of new forms in the areas considered ‘untouchable,’ transforming them into spaces for everyday life. I was trained to believe that architecture has the job of giving us the emotion of material, space, light, water. An abstract, spiritual, almost metaphysical attitude. I believe in the beauty of archetypes – cylinders, spheres, cubes and parallelepipeds – which go beyond the temporal dimension; in this sense, a form can be 6000 years old and still be contemporary, communicating the same force and the same intensity.” In a paradox, then, Silvestrin has stripped down the spaces even more, rethinking them with an indispensable minimum of elements. To make them even more empty and powerful, ancient figures that rediscover vitality, tactile charm, impenetrable, crystalline, full of opaque and transparent features, surfaces, air and light. The goal is to enter the context on tiptoe, first of all in terms of materials and colors, using terracotta for the floors of the ground level and the basement, natural Travertine and chestnut wood (typical of the zone) for the piano nobile and the guestrooms. A way to reinforce, with a new patina of time, the link between the castle and its territory. In terms of shadings, thickness, image. The limewash applied evenly to the walls in an ivory tone brings out the dark casements, the glass doors and exposed wooden beams. And then the light, that light that springs from a balance between openings and the bulk of the volumes, with cuts in the walls and floors, coexisting with the shadows. In this sober, severe atmosphere, the fixed furnishings stand out. “Everything is Made in Italy. By the book. In the bathrooms the water is gathered in round basins of Travertine, resting on chestnut counters, while the tub is excavated in the stone like a big walnut shell. In Travertine, like

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the floor. The only standard production pieces are the kitchen and the lamps, because their essence reflects the thinking and the ethics behind the project: pursuit of essence.” The achievement is there to see: the castle is not the Cabanon, not a cube of limestone, but even in its way of being perceptible only in fragments, it conveys a sense of visual order, of calm for the eyes and the mind. - pag. 13 The courtyard (with the old well). The castle, fi st built as a fortress in the Middle Ages, was transformed into a noble palace in the Renaissance, with a design by Baldassare Peruzzi. It stands on a hill overlooking a classic central Italian town. A dramatic space of architectural charm, the gallery in the basement, which contained wine cellars and a cold-storage room packed with snow and ice, becomes an itinerary towards the zones set aside for seminars and workshops. It conserves the classic barrel vaults in stone and brick, enhanced by the Raggio lamps designed by Claudio Silvestrin for Viabizzuno built into the terracotta tiles of the floor. A shamanic artwork accompanies the gaze in the visual horizon of the spatial construction of the levels that contain the residence. - pag. 14 The burnished brass table, custom-made for a living area, establishes a dialogue with the outstanding artwork. Two views of the spiral staircase wedged between two solid walls, of dizzying height, starting from the landing in front of the salone nobile and with frescoes on the fi st level, with flooring in natural Travertine. Views of the spatial construction of the south wing of the castle, for the guestrooms. The uniform fluidity f the floor and the exposed beams in chestnut wood, typical of the zone, is enhanced by the ivory-tone limewash on the walls and the play of light in the transparent and opaque architectural parts, both new and pre-existing. - pag. 17 A sober, severe atmosphere for the kitchen zone, featuring the Terra model in yellow porphyry designed by Claudio Silvestrin for Minotticucine (2005). In the background, not the full-height sliding door in chestnut wood, like the wooden beams of the ceiling. Quasi wall lamp by Viabizzuno. Simplicity and timeless elegance in the salle de bain of the fi st piano nobile, with circular washstands and tub in natural Travertine, custommade like the flooring. Faucets by Vola.

screened by slender brass rods, a hearth placed at the center of the large living area, where it symbolically blends with natural elements like stone, metal, fire and the wood that fuels the flames. The furnishings are also carefully designed, down to the basic qualities and details, using every zone as a neutral setting, together with large paintings on the walls, in the most logical and appropriate way. The color, material and form of the individual design pieces underscore the architecture and its message, making every single space a model of silent elegance. - pag. 19 The white reinforced concrete volume, left, stands around a large maritime pine tree that now occupies the central portion of the patio (above). Outside, the basalt steps descending to the house, bordered by ornamental plantings. Above, the walkway connecting to the bedroom zone on the fi st floor. Air, light and space are paced by the contrast between the wenge floors and the pale walls. - pag. 20 The fi eplace at the center of the living area, designed by Carlo Colombo, is in marble with a vertical structure in bronze: a series of brass rods form a wing, marking the separation from the space nearby. The capitonné hassock in the foreground is by DePadova. - pag. 21 The balcony of the master bedroom zone, facing the living area: the glass parapets create continuity for the two zones, without a clear separation. Royal divans by Giorgetti, Modo Chandelier designed by Jason Miller for Roll&Hill. In the background, the Sky Garden lamps by Flos by Marcel Wanders and the Diana chairs by Giorgetti designed by Carlo Colombo. Right, the wine cellar designed by Carlo Colombo is enhanced by the back wall: a thin sheet of onyx with backlighting. The wood paneling is in wenge. - pag. 23 The fitness one with swimming pool (5x14 meters), custom designed, and the mini whirlpool with windows overlooking the lake. The wall panels are in Travertine, like the flooring and facing of the pool. Dama table by Poliform. To the side, above, another view of the swimming pool: the water reflects the surrounding greenery, almost inviting nature to enter the house. The cots are designed by Carlo Colombo. Below, the Travertine bathroom with wenge flooring: furnishings and faucets by Antonio Lupi designed by Carlo Colombo.

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project ANTONIO ANTORINI interior design CARLO COLOMBO

photos Francesco Bolis - text Antonella Boisi

photos Walter Gumiero - text Danilo Signorello

project STEFANO CORE

For the INTERIOR DESIGN of a villa on the Lake of Lugano, based on purity of forms and volumes, the RIGOR and precision of a style based on QUALITY and attention to DETAIL

In MILAN, a METROPOLITAN LOFT in which autobiography and project intersect, because the home represents both private and PROFESSIONAL LIFE FOR STEFANO CORE, the new ‘motor’ and CEO of DRIADE

The architect Antonio Antorini has always made the pursuit of pure form, precise geometry, respect for tradition and references to rationalism the strong points of his work. An essential, functional architecture based on the linear simplicity of forms and volumes. Again in this villa, which overlooks the lake in Lugano, we see a compositional poetics that is immediately identifiable. The building, developing along a steep lot on three levels (swimming pool, cellar, spa and guest zone with three bathrooms; living and kitchen; master bedroom zone and studio), plus a basement for technical spaces, is made around a large pine tree, incorporated in the patio. The minimal roots of this majestic plant did not create particular difficulties, allowing it to be integrated in the architectural structure. The relationship with the landscape also determines the design of the large windows facing the lake, offering a view of the passage of the seasons, the changing light, the shadows of clouds, the sound of rain. A clean, transparent work of architecture, open to the landscape, raising the question of whether the greenery enters the building or whether the house wants to extend outward, annexing other spaces for living. The interior design was done by the architect Carlo Colombo, who has made excellent use of space and light, transparency and geometric volumes, often underlining the poetic aspects of contact with nature. Colombo has managed to bring character and personality to every space, responding to the needs of the inhabitants. Wood and stone are the main materials, white the main color, and light becomes design material, while water is the natural element that returns inside (in the pool and the fitness area), reflecting the protagonist of the landscape, namely the lake. Elements and sensations of Colombo’s personal style. Again in this case, the project establishes a dialogue, an attitude of empathy, in tune with the clients, the starting point for every work, together with a focus on the location. His sign is made of pure, minimal forms, and a preference for simple materials like glass, concrete, stone and wood. These substances return in this house in the glazed parapets of the balcony, the wenge floors with a custom design, the wooden staircases, the wood paneling of the living zone or the Travertine of the spa, the basalt of the patio, the Travertine of the swimming pool and its decks, the backlit onyx wall of the wine cellar, the marble block of the fireplace

After having traveled extensively for work, from England to Brazil, the United States to Asia and Argentina, spending many years abroad, Stefano Core, from Abruzzo, after a career as a leading manager for important international corporations, presently an entrepreneur with ItalianCreationGroup (the industrial holding company founded with Giovanni Perissinotto), has found his own island, in a loft of 400 m2 on two levels in Milan. In a zone with a noble industrial past, recently renovated and converted for a mixture of different functions. His refuge for about one year now, together with his wife Lucia (previously a product manager, now working with DriadeKosmo) and a growing family. “We found it like this, when we entered, a recently completed restructuring, just four years old. Perfect. Reflecting almost maniacal attention to detail, with the dramatic impact of a loft, but also the livability of a luxurious home in terms of privacy and spatial layout, the right balance between situations of hospitality that can be reconfigured, letting us make full use of the whole house.” Above, four bedroom-suites with their own bathrooms, a salle de bain-spa with Turkish bath and sauna, featuring natural materials, a studio and fitness area, and an unexpected roof garden. Below, a very large living area with flexible layout, combining more formal, image areas with more convivial and intimate zones, in a fluid spatial construction underscored by the uniform wenge flooring with rounded boards. Very advanced heating and air conditioning systems keep the air constantly fresh. The architecture is also appealing in its pure state – seven-meter ceilings, a recessed slab with a steel structural beam – with precise design strong points – the central staircase in Cor-ten, the fireplace, the typical Milanese balcony promenade on the glass walkway. Above all, one perceives a strong, effective spatial integration between the kitchen-dining-living-home theater zones, with dynamic 360° views. “We haven’t changed a thing,” Core continues. “We have just inserted, in a metropolitan loft, a grand piano, which I played as a child and then forgot how to play due to my nomadic existence, a painting from the 1700s, and a screen in four parts, a work by Parisi from 1928 brought from Argentina, along with furnishings by Driade, Bohemian vases and crystal, a chaise longue by Herman Miller, a Hästens bed, fitness machines. And we have emphasized the importance of a

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Interni aprile 2014 kitchen that is also ‘industrial’ in its materials, where we can enjoy the hobby of making thematic meals,” the man who has been the CEO of Driade for one year now explains, with the pragmatic spirit of a business plan and a sense of aesthetics inherited from his mother. “Of course, this is a house with an eclectic spirit, which can absorb stimuli and references from different cultures, places and passions. It has the DNA of the brand I fell in love with back when I had not yet decided to acquire control of excellent Italian small-medium companies in the field of design, lifestyle and high-range manufacturing, with the mission of combining our managerial skills with a typically Italian way of understanding product and bringing out its potential on a global market. Year ago I often went with Lucia to Miami, at the Delano, and we had breakfast seated on the Lord Yo, amidst the Neoz white divans, in a rather colonial atmosphere designed by Starck, wreathed in the salty sea breeze. It was in this phase of my life that I developed my philosophy: to bring exclusive value and beauty back into everyday gestures, not linking myself to a single style, but to a project. I believe beauty is a viewpoint, while creating beauty is an art. For me, beauty is everything that embodies uniqueness, creativity, innovation. Products that are well made, of quality, timeless. That have a story behind them, the energy of an entrepreneur, tradition and vision. This is why when I chose a pianoforte, it could only be the best in the world, a Fazioli; they only make about 200 every year, with the same wood from Val di Fiemme that went into the violins of Stradivari. So when the opportunity arose to meet Enrico and Elisa Astori, I didn’t hesitate. I told them my story and my hopes, and we immediately felt in tune. What is the essence of Italian creativity that is worth defending? It is the capacity to combine with craftsmanship and manufacturing, at very high levels of quality. Driade, through the figure of Enrico Astori, has developed experimental research of great cultural depth on the theme of habitation. It has made timeless projects, products that differ in terms of style and geography, joyful but always with a great sense of elegance. Driade’s idea of the house as an aesthetic laboratory came form a passion for travel and talent scouting, in the sense of the encounter between sensibilities, cultures, abilities. ItalianCreationGroup wants to keep these founding values of the brand from being scattered. Driade is a presence in 82 countries. But we have to come to grips with a globalized world, in terms of information and culture, facing up to one big mistake of Italian businessmen: excessive decentralization of production, first into the Eastern European countries, then in Asia, transferring know-how that took a long time to develop. They are now paying the price of this competitive advantage, also due to the fact that the international market has too long been viewed as incidental by small-medium businesses. The formula to maintain leadership and make a concrete rebound? It can be summed up in a slogan: less delocalization, more internationalization. In other words, to relocate production in Italy and, with the indispensable support of government policies, which are lacking today, to favor incentives for investment and research. But we also need to focus on global markets, internationalizing brands and reinforcing their impact. We can look to the French, who are very good at combining savoir faire and communication, and at forming alliances and systems. We need to make the value and pride of excellence understood, and that the premium price of Made in Italy is more important than the brand. Milan still plays a leading role in international design culture. It is an unrivaled gravitational pole with the Salone and the Fuorisalone, though the latter should be guided with greater rigor, avoiding misleading mixtures that impact the overall perception of quality. At the same time, it is necessary to create products that are increasingly appealing, also in terms of aspirations, for cosmopolitan consumers. In this sense, we are sharing all the power ItalianCreationGroup has in the area of international distribution. With a network and platforms that can then be used by the individual companies to promote their products and to guarantee capillary penetration of the brand on the worldwide market.” A project in real time, but also for the long term. Like a quality home. - pag. 24 Seen from the Cor-ten staircase that leads to the upper level, the Nemo chair by Fabio Novembre for Driade, a protagonist of the living area, becomes part of the flui spatial construction, underscored by the wenge flooring with rounded boards. On the facing page, the dining area: Gazelle table and Mollina chairs by Park Associati, Luciola chandelier by Fabio Novembre. All by Driade. - pag. 26 The long visual perspective from the kitchen towards the dining and living areas organized around the dynamic fil er of the fi eplace. On the continuous cabinet under the window, the Rockley vases by George Sowden. On the facing page, the living area open to the entrance zone, with large industrial windows. Hall upholstered furnishings by Rodolfo Dordoni, Waterfall sculpture-tables by Fredrikson Stallard, Lou Read chairs by Philippe Starck with Eugeni Quitlett. All by Driade. Chaise longue by Herman Miller. In the corner, the Parentesi lamp designed by Achille Castiglioni and Pio Manzù for Flos, which has produced the model since 1971. - pag. 29 In the foreground, the home theater zone. 33 Cuscini divan by Paolo Rizzato for Driade. Arco lamp by the Castiglioni brothers for Flos (1962). In the background, the entrance area with the Costes chair by Philippe Starck for Driade. Left, the precious Fazioli grand piano, the

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INservice TRAnslations / 135 most beloved object of Stefano Core. - pag. 30 Detail of the bath environment (that of the master suite) with the porcelain stoneware counter, walls in hand-finished pla ter with stucco effect. A large glass door opens it to the garden terrace, furnished with pieces by Driade (Koishi and Ishi poufs by Naoto Fukasawa, divan from the Tokyo Pop collection by Tokujin Yoshioka, MT armchair by Ron Arad). The glass door on the opposite side frames the fitness and tudio zone. Portrait of Stefano and Lucia Core. On the facing page, overall view of the spatial construction, from the landing of the staircase on the upper level. Note the central chandelier that brings light and a sense of spaciousness to the rooms, together with the large glass door leading to the terrace, and the visual lightness of the lateral walkways with glass floors, reinterpreting the image of the traditional balconies of Milanese courtyard buildings.

Sweet ArcHITecTure pag. 32 project KENGO KUMA & ASSOCIATES photos Alessio Guarino - text Virginio Briatore

With ancient LIGHTNESS and constructive COURAGE KENGO KUMA builds and separates from the context the SUNNY HILLS sweets shop, elevating the trademark to the limits of absolute experience In the Aoyama district, near the famous Prada building by Herzog & de Meuron, on one of the most creative and expensive streets in Tokyo, a surprising store with tearoom was opened at the start of this year. SunnyHills is a dream of peaceful nature, created to sell and serve a single type of sweet, filled with pineapple, available in two sizes, at prices of 10 or 20 euros. Customers can take the dessert home or enjoy it while sipping an aromatic cup of tea, surrounded by natural materials like stone, cork, paper and wood, with magical light entering through the architectural grid. The project created by Kengo Kuma for this little oasis in the midst of concrete and asphalt is based on the form of a bamboo basket, and made with a system of joints known as “Jiigoku-Gumi” that is typical of the Japanese tradition of wood construction, consisting of the overlaying of layers of strips, held in place by a third layer. Usually the two pieces of wood meet in a two-dimensional way, but in this project that are joined at 30 degrees, in 3 dimensions, giving rise to a volumetric structure like a cloud. With this idea, the section of each strip has been reduced to 60mm. The building is located at the corner of two residential streets, on a lot of 175.69 m2, occupying 102.36 m2 of the area. It has four levels for total floorspace of 293 m2. Its maximum height is about 10 meters, and it opens onto a terrace where a bench offers outdoor seating. The ground level contains the reception and point of sale, and forms a filter between the street and the upper rooms. The first floor space has a large table formed by three peninsulas, offering space for 21 guests. The space on the second floor is even more peaceful and intimate, and can be reserved for meetings or gatherings. The upper levels contain the restrooms, with elegant Aesop inclined wooden washstands, and private spaces organized in a penthouse of 25 m2. The building has an elevator for up to 11 persons. The whole achieves two goals, that of the designers and that of the company. The former say they have attempted to create a soft, subtle atmosphere, totally different from what is usually obtained from a common ‘cement box,’ hoping to trigger a ‘chemical reaction’ between the architecture and the street. SunnyHills, with this project, shows that architecture and design in general can be applied to raise a good but simple product to the level of an exclusive niche item. In this case the goal is not achieved with advertising campaigns, but by concentrating on the cultured precious quality of physical space, where the architect becomes the mentor and alter ego of the product, making it unique and definitive. - pag. 32 Overall view of the SunnyHills sweetshop and tearoom, at Minami-Aoyama 3-10-20 in Tokyo, designed by Kengo Kuma, reutilizing the Jiigoku-Gumi method of traditional Japanese wooden architecture. - pag. 34 The architecture is based on the idea of a bamboo basket, for a strong contrast with the surroundings. The space on the second floor is particularly peaceful. The floors are made with cork tiles. The staircase attachment is done with traditional Japanese stone. On the facing page, access to the second level, with the light that crosses the pattern of slats and the dividers in handmade washi paper.

EnerGY BunKer pag. 36 project HEGGER HEGGER SCHLEIFF HHS PLANER + ARCHITEKTEN AG photos Bernadette Grimmenstein - text Matteo Vercelloni

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In HAMBURG, the salvaging of an AIR RAID SHELTER from World War II, TRANFORMED into an EXPERIMENTAL POWER PLANT based on the use of renewable energy, with a CAFE open to the public and a panoramic TERRACE overlooking the city One of the architectural trends of the new millennium is undoubtedly careful reutilization of urban artifacts, the approach to constructed heritage of industrial, residential or office buildings, places without any historical-monumental value or, as in this case, cumbersome memories of the last world war: an urban air raid bunker, part of the logic of the Third Reich, to demonstrate the value and strength of a presumed ‘internal front.’ What seems to be the guiding value of any reuse is the idea of conversion that makes restoration possible, instead of total demolition to obtain ‘virgin ground’ ready for new building. “So the idea, the project, is not strictly architectural. This can be seen in many of the projects of the last decade in which industrial structures, abandoned areas, ports, quarries and other zones have been revitalized, in a virtuous, concrete way. As in the case of this impressive reinforced concrete bunker formed by a block that is quadrangular at the base, topped over an overhanging plane by four circular corner towers, which once contained anti-aircraft guns covering a range of 360 degrees.” Built in 1943, the Wilhelmsburg bunker (a twin of the St Pauli) was an integral part of the German war machine. In 1947 the whole building was subjected to controlled demolition on the part of the British army, eliminating six of the eight internal slabs to make the bunker useless, but conserving its overall figure, also due to the objective difficulty of demolishing walls and ceilings in reinforced concrete that measure three and four meters in thickness, respectively. After sixty years of abandon, the bunker has been restored and converted to house a power plant for renewable energy sources, under the aegis of the IBA (Internationale Bauausstellung Hamburg), with a project by the studio HHS Planer + Architekten AG. From an architectural viewpoint the southern side of the bunker and its roof have been impacted by the installation of over 2000 m2 of solar panels to cover one entire facade, then folding at a 90-degree angle at the top to become a sort of sunscreen for the entire roof area. One of the anti-aircraft towers has been transformed to make a panoramic corner cafe (Vju Café), making it possible to walk on the terrace and creating an elevated promenade for a great view of the whole urban setting. A small permanent museum has been created in collaboration with the Geschichtswerkstatt Wilhelmsburg, telling the story of how the bunker was used by the population during the war, and documenting its phases of transformation. From an energy viewpoint the heart of the project is the large heat ‘reservoir’ constructed inside the empty volume of the base. The storage facility is composed of a large buffer activated by the heat of biomethane units driven by co-generation, making the solar energy from the outer panels collaborate with the burning of wood and the use of a portion of the power produced by a nearby industrial plant. The goal is to reduce the production of electrical energy for the zone by about 11 megawatts, replacing it with renewable energy. At full operation, the Energy Bunker will be capable of generating 22,500 Mwh and 3000 Mw of electricity, meeting the heating needs of about 3000 families and the electrical needs of about 1000 homes in the district, equal to carbon savings of 95%, i.e. 6600 tons of carbon per year. - pag. 36 View of the Energy Bunker, the fi st example of the conversion of a military structure into a power plant for renewable energy sources. One of the facades and the entire roof have been covered with about 2000 m2 of solar panels. - pag. 39 Two images of the Vju Café created in one of the circular anti-aircraft towers. From the terrace, an overall view of the city of Hamburg. Inside, chairs by Egon Eiermann SE68. Outside, by Wilde + Spieth CU Stuhl.

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LIna Forever pag. 40 photos Ioana Marinescu text Laura Ragazzola

The extraordinary beauty of the ‘CASA DE VIDRO’, THE FIRST WORK AND LIFE-LONG DWELLING of the architect LINA BO BARDI. INTERNI SHOWS IT FOR THE FIRST TIME AFTER THE RESTYLING. Precisely here, in the rooms facing the Brazilian forest, near Sao Paulo, the FOUNDATION THAT BEARS HER NAME finds its natural home. A tribute to her talent and versatility, for the centennial of her birth

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aprile 2014 In tern i Over half a century of life, though it doesn’t show. The building, in fact, looks like it was made yesterday, due to its modern style, the expressive force of its volumes, the courage of its choices: a chest of concrete and glass, pierced by light, suspended in a tropical forest. Lina Bo Bardi designed and built it back in 1951, when together with her husband, the art critic and historian Pietro Maria Bardi, she decided that Brazil would be the country where she would live and work. She was 32 and left Italy behind, with the studio of Gio Ponti, the magazine Domus (after sharing the position of vice-editor with Carlo Pagani), and all her intense professional activity, which had brought her into close contact with the protagonists of the Italian cultural renaissance, from Bruno Zevi to Elio Vittorini. But it was in Brazil that Lina found her creative energy and happiness: so it was logical that she soon felt the need to build her own house. Immersed in the flourishing vegetation of the Jardin Morumbi, a large nature reserve “wrapped in a great silence, full of wild animals, including gorgeous snakes,” as she wrote, Lina designed and built the “Casa de Vidro” where she would always live, together with her husband. Today a restyling documented by a video made by the director and architect Tapio Snellman (www.internimagazine.it) and a photographic installation by the London-based artist Ioana Marinescu (an Interni exclusive), reopens the spaces of the house to the public, while also welcoming the extraordinary archives of the works of Lina, as the headquarters of the Istituto Lina Bo & Pietro Maria Bardi. We met with the director, Prof. Renato Anelli, who has taken care of this immense legacy of drawings (about 7500) and photographs (17,000) that document the work of Lina in Brazil for many years. The opportunity: the presentation, in January in London, of an unusual collaboration between the Institute and the company Arper, which has found a precious connection with the values of the design, stimulating a philanthropic project. The Treviso-based company, in fact, has industrially produced 500 specimens, in a numbered edition, of the Bardi’s Bowl Chair, the piece designed in 1951 to furnish the ‘Casa de Vidro’ (and never put into production), to promote the exhibition “Lina Bo Bardi: Together.” Starting in London last year, the show has already visited several European capitals, and will reach Milan in September. Professor Anelli, this is an important opportunity to spread the word about the work of Lina Bo Bardi… “Indeed. And there’s more: part of the proceeds from the sale of the chair will also be donated for the socio-cultural programs of the Institute, especially for young people. Just as Lina and her husband desired.” So the Bardis were behind the birth of a foundation? “Yes, in 1989-90 they both had a strong desire to make a foundation that would promote Brazilian culture, especially in architecture and the arts. Of course funds were needed, so they decided to sell some paintings by Goya that were part of their private collection. The Institute was formed, and it was called Quadrante, as a tribute to the magazine Pietro Maria Bardi had directed in the 1930s in Italy. Then, when Lina passed away in 1992, the name was changed.” What teachings has Lina left behind, through her Institute? “A great, authentic desire to break down the boundaries between art and life, artist and audience. Throughout her career, Lina was always amazing for her versatility – she was an architect, but also a set designer, a fashion designer, a curator of exhibitions, and a writer of essays. She wanted to mix these different professions because she wanted to offer everyone, and I emphasize everyone, a true opportunity to get closer to culture, to art and to happiness. In Lina there is no trace of any difference between popular culture and high culture: all her projects – one emblematic case is the SESC Fabrica da Pompéia recreation center – were aimed at bringing art into life and life into art, overlooking divisions of social class or age.” In short, you are saying that Lina devoted her work to everyone… “Yes, to young people, children, senior citizens: ‘all together,’ as she wrote, a term that has become the title of the exhibition on her work: Together.” - pag. 41 An image of the large completely glazed living area, facing the forest: the Bardis did not like sofas, so they replaced them with seats of different forms and materials, punctuating space with multiple ‘salons.’ There are also many objects from local crafts, which they liked to collect, confi ming the love story of Lina and her husband with the surrealism of the Brazilian people and its inventions. Yesterday and today compared: to the side, the ‘Casa de Vidro’ in a period photograph from 1951, the year of the construction of the villa. Today the building is completely immersed in the Brazilian vegetation, which has grown in the meantime. The dynamic relationship between Lina and nature – from the trees to the earth, the sky to the animals living in the forest – gives the building a great sense of lightness, a surprisingly airy sensation in the definition f the volumes and in the internal layout. - pag. 42 On these pages, two views of the house: you can see the ‘forum’ that contains a large central tree, around which the raised volume of the building is organized: this shows the early signs of the expressive power Lina Bo Bardi would later be able to nurture in her projects. A few, simple materials – glass, cement and iron – form the structure: Lina believed, in fact, in “a humble architecture, but rich in imagination,

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In tern i aprile 2014 capable of expressing the most communication and dignity through the most limited, simple means.” - pag. 43 Lina’s desire to put people at the center of every project: this is what convinced Claudio Feltrin, CEO of Arper, to ‘embrace’ the (social) mission and (democratic) values of the great designer. Starting with the production of the Bardi’s Bowl Chair, a project Arper has shared, step by step, with the Istituto Lina Bo & P.M. Bardi, achieving the excellent results of linking the original design to the added value supplied by the technical expertise of a modern company. The chair, created in 1951 for the Casa de Vidro of the Bardi couple (to the side, in a period photo with its designer), has been reissued in 500 numbered pieces: proceeds from the sale will be donated to the Institute and to the promotion of a traveling exhibition on Lina’s work, which will be on display in September at the Milan Triennale. The Bowl Chair, still a revolutionary concept of comfort (the shell-seat is a multitasking element, and can be oriented in different ways) comes in multiple colors (below), just as Lina had envisioned (at the center, one of her drawings).

INsight/ INarts

SensInG SPaces pag. 44

photos James Harris, courtesy of the Royal Academy of Arts text Matteo Vercelloni

At the ROYAL ACADEMY OF ARTS OF LONDON, the exhibition SENSING SPACE: ARCHITECTURE REIMAGINED. Seven large onsite INSTALLATIONS created by international ARCHITECTS inside the historical GALLERIES activate a confrontation between PAST AND FUTURE, PRESENTING ARCHITECTURAL DESIGN as a CONCRETE PRACTICE, but with a leaning towards poetic and conceptual expression Occasional, at big architecture events, one finds oneself in the embarrassing situation of seeing architects who disguise themselves as artists, with results that objectively make a leap – backwards – with respect to the freedom artistic expressions afford themselves. But this is not the case in the exhibition “Sensing Space: Architecture Reimagined” organized in the prestigious rooms of the Royal Academy in London, curated by the young Kate Goodwin, where seven installations balanced between architecture and sculpture manage to activate real dialogue with the host spaces and engage visitors on an emotional plane. As Charles Saumarez Smith, chief executive of the Academy, explains: “the Royal Academy also represents architecture, not just painting and sculpture. We wanted to celebrate this, but to look at the architecture of the future, not the past, and above all a type of architecture that does not simply solve problems, but offers new and unpredictable experiences.” Hence the idea of inviting seven international architects to design a space to be visited, rather than a show of models and drawings of their constructions, providing an on-site example of their approaches for the public. The curator says: “I have intentionally invited architects from different parts of the world, different generations and sensibilities, all with extensive experience in the field of construction. The goal was to make the visit experience physical, tangible, sensory, but also to convey an idea of the great poetry of architecture, which is the omnipresent backdrop of our lives, which we often fail to fully notice.” In effect, the poetic reassessment of architectural design can be strongly sensed in the itinerary through the works in the show, underscoring the fact that even today architecture is not a discipline of a primarily ‘functional’ character, but one rich in values connected to humanistic culture in the broader sense, where the poetic value of expression – ‘constructed’ in this case – appears to be the guiding factor. The architects involved are Grafton Architects (Ireland), Diébédo Francis Kéré (Germany/Burkina Faso), Kengo Kuma (Japan), Li Xiaodong (China), Pezo Von Ellrichshausen (Chile), Edoardo Souto de Moura and Álvaro Siza (Portugal). They were all asked to make temporary installations dictated by free exploration of the basic elements of architecture, a series of spaces conveying tactile, aural and olfactory experiences. The various installations offer viewers a chance to understand how beyond the architectural figure, sound and memory, odors and surfaces influence our personal perceptions of space. The show began in the courtyard of the Academy, where Álvaro Siza arranged laconic stylized architectural elements in yellow, gathered like fragments of a non-existent architecture between the classical buildings of the setting. Eduardo Souto de Moura worked on the old wooden arches of the Academy, doubled by castings in cement left partially open, like allusive entrance gates. Inside, in the large hall with gilded stucco work and a glass ceiling, the imposing monumental structure in wood by Pezo Von Ellrichshausen, with a suspended space supported by four mute cylinders, eloquently concluded the internal perspective, offering an unusual raised vantage point for visitors. Kengo Kuma was inspired by the kodo– the Japanese incense ceremony – contributing an ethereal room of floating, scented and lit bamboo, hovering in darkness. A series of myste-

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rious labyrinthine passages and corridors, paced by walls composed of slender tree branches (22,000 pieces), bathed by lights built into the floor, were seen in the fascinating work by Li Xiaodong. Grafton Architects came up with a suspended installation that revised the ceiling and the use of light in one of the rooms. A new tectonics of interior space, composed of an excavated volume of exposed concrete, compressed the space, capturing zenithal light in an almost pictorial way from openings made to underline the geometry of the surfaces. A sort of contamination between an igloo dissected on its middle axis and a Gothic cathedral arch on a smaller scale, built with panels of honeycomb polypropylene, formed the space invented by the African architect Diébédo Francis Kéré, welcoming visitors who were encouraged to transform the architectural skin of the structure by inserting colored straws. Sensing Spaces, with its “reimagined” architectural installations, was an opportunity, beyond the spectacular impact, to reflect on architecture as a multisensorial experience, where human beings are the central focus of the project, as they utilize space with the body and the mind. - pag. 44 The courtyard of the Royal Academy of Arts of London hosted the installation by Álvaro Siza, who placed laconic stylized architectural elements in yellow on the stone pavement, like fragments of an allusive architecture, gathered between the surrounding classical buildings. - pag. 45 The suspended installation by the studio Grafton Architects. A new tectonics of interior space, composed of an excavated volume in exposed concrete, compressed the space, capturing zenithal light. - pag. 46 The contribution of Pezo Von Ellrichshausen was a monumental wooden micro-architecture: a raised space supported by four mute cylinders containing staircases leading to the terrace, an unusual vantage point for visitors to the museum. The African architect Diébédo Francis Kéré constructed a sort of contamination between a dissected igloo and a Gothic cathedral arch on a smaller scale. Composed of panels of honeycomb polypropylene, the small work of architecture welcomed visitors, encouraging them to transform the surface by inserting colored straws. - pag. 48 Kengo Kuma considered the Japanese scent ceremony, kodo, to make an ethereal room of floating, aromatic and lit bamboo, hovering in the darkness.

FEEDING new ideas

Feeding new ideas pag. 50 by Laura Ragazzola

Designers talk about design: 22 INTERNATIONAL DESIGNERS wonder about the “state of health” of MADE IN ITALY and respond (with great sincerity) to those who raise doubts about the leadership of the ITALIAN DESIGN SYSTEM, including the Salone and FuoriSalone. A discussion whose fil rouge is how to approach FUTURE CHALLENGES: to make product culture that generates product quality. Because QUALITY is the only true, strategic driving force to achieve competitive advantage and SUCCESS IN THE WORLD Matali Crasset “It is not simple to maintain leadership today. But challenges are always good for you: they can prompt new ways of thinking, and help you to find a new logic. The system is indeed struggling. Perhaps it needs to put the accent on research and on human beings. There are many opportunities to find new ways to do projects and to conduct research on the added value that comes from being European. Our lifestyles and our ‘systems’ of thought continue to represent a reference point for the world… So the time has come to take advantage of that. Starting with the Salone del Mobile in Milan, which in my view has to remain a cultural event, well beyond the professional sphere. This is why it needs to rediscover a bit of experimentation and informal energy, to continue to be surprising and creative.” New for 2014: “For Alessi I have designed a collection of trays: an essential design, but one that contains concepts that interest me, like transmission and sharing. For Campeggi I have done the project ‘Deep attention and steppe,’ which I have imagined as a temporal ‘space’ in which to make a date with a book, a film, a conversation; finally, there is the new Ikea PS 2014 collection.” - pag. 51 To the side, designer Matali Crasset demonstrates (with humor) the Territoire steel trays created for the 2014 collection of Alessi: two sizes and two colors (but there is also a version in shiny stainless steel). Above, the tray that can also be hung: part of the new Ikea PS 2014 collection.

Piero Lissoni “If design keeps going like this, it has no future. The reason is simple: design exists as long as industrial companies exist, and the companies will continue to ex-

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ist if they know how to take risks, focusing on creativity, raising the bar. They have to get back to thinking big in the most exposed area of the market and the least exposed one, the high end and the low end. They have to get back to imagining themselves in an updated way, strategically positioned on the market, which has changed visibly. In short, they need their own, original thinking, but instead we are seeing product offerings that are all the same: what is totally lacking is the ability to take risks and to be creative. In other words, Italian design is going where the companies are taking it. Who is still willing to take the intellectual risk of making an important project? Without the creative folly of Giulio, the Cappellini brand would never have existed, and without him many designers would not have the professional visibility they have today. The Salone del Mobile is still a crucial moment, and I say that because it is obvious. But we have to improve, to have the courage to change, and above all to make the right selections. I am talking above all about the FuoriSalone. The foreign press has written that the week in Milan is becoming a gigantic ‘village fair.’ But I think that is rather superficial: journalists too have to discover excellent things and, above all, know how to make a selection; after all, that’s their job. My grandfather said that extremism is a childhood disease of communism. Well, today, we have to begin to be a bit less childish. Everyone operating in the FuoriSalone has to embrace a ‘modus operandi’ that focuses on quality instead of quantity. I like the energy in Milan during the Salone, but we have to get rid of the ‘campground.’ And select, select, select…” New for 2014: “At the Salone I have worked with very Italian companies, like Living Divani and Cassina, doing a new collection of divans for both. Then there is Kartell, and a new kitchen for Boffi. As well as furniture for Desalto, Porro, Lema, Glas Italia... And the exhibition at Palazzo Reale in Milan on Bernardino Luini. - pag. 52 Below, the architect Piero Lissoni at the worksite of the Grand Hotel Billia, Valle d’Aosta (photo Santi Caleca), opened in December; to the side, study for the design of an exhibition at Palazzo Reale, in Milan, on the painter Bernardino Luini.

Claesson Koivisto Rune “In Italy design is taken seriously: that isn’t true in some other countries. Obviously for a designer it is interesting to work here, with the companies of Made in Italy, with a very lively spirit of collaboration; not to mention the extraordinary resources of technical and crafts know-how, leading to great results in terms of quality. This is why we don’t think Italian design is weakening, and we don’t think there is a threat to Milan’s leadership on an international level (though there should be more taxis during the Salone, and a wider range of hospitality options, also with an eye on costs!). Is there ferment in Italian design? I think so. You can sense a certain positive change in many companies. Just look at manufacturers like Arflex or Tacchini, to mention two examples where very interesting generational turnover has happened. Or new companies like Discipline, which has managed to address the need for authenticity and ecology demanded by the new generations.” New for 2014: “We have designed for Arflex, Asplund, Capdell, Casamania, David Design, Design House Stockholm, Engblad & Co., Fontana Arte, Italesse, Matsuso T, Offecct, Paola Lenti, Skandiform, Swedese, Tacchini, Wonderglass, Wästberg. And we have many architectural projects around the world...” - pag. 53 Above, the Soft Beat modular divan designed for Arflex by the Swedish trio, to the side (photo Knut Koivisto).

Front “The leadership of industry Made in Italy is being challenged? No, we don’t think so. First of all due to the cultural heritage and charisma of Italian brands. We also think the companies in your country know how to take more risks and to be more ‘visionary’ as opposed, for example, to Scandinavian brands, which are very tradition in their way of thinking and working. The same is true of Milan, which is still an important cultural reference point on the international design scene. The city, during the week of the Salone del Mobile, welcomes people from all over the world: you can meet colleagues, clients, find new inspiration, and make your products known. During the Salone all kinds of things happen: you can suddenly find yourself face to face with your favorite designer or with the president of a company you’d like to work with, maybe when you are simply ordering a Negroni at Bar Basso… ”. New for 2014: “We continue to work with Porro, also at this Salone: we really like long relationships like this one, because after a while you get to know each other very well, and you can work well. But this year we have also started a new journey with Gebrüder Thonet Vienna, an Austrian company with a fascinating history and great craftsmanship.” - pag. 53 The poetic Loop Mirror with structure in wood, designed for Porro by the Swedish team of Front (above, portrait of the three designers), now in its sixth year of collaboration with the Italian fi m.

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aprile 2014 In tern i Antonio Citterio “I believe Milan still plays a leading role in international design culture. But the city, the Salone del Mobile and the FuoriSalone, should work more on the background, conveying the value of design as a cultural factor that is part of life and evolves with it. It is not a problem of taste, style, status to be displayed. Of chairs or tables. There are also sidewalks, streetlights, airports… the way of living the spaces of the city. In spite of it all, foreigners still see us as bearers of savoir faire and quality of life (and the fact that my studio is doing 80% of its work in the Far East, skyscrapers 200 meters high, bears this out). I am disappointed, though, not to get the sensation of a new Renaissance. Has Italian design culture lost its force and identity? The historical conditions have changed. Yesterday, in the 1950s and 1960s, there were a few small Italian companies and a small number of architects open to experimentation with materials and technologies in the furniture design sector. They made crafted products, almost one-offs, for their clients. They moved in an international panorama where America and the research of the Eameses were models of reference, and Scandinavian design represented the democratic culture of a country. These personalities created the phenomenon that reflected a winning moment for Italy, sustained by the positive encounter with the system created by sector magazines and fairs. Today it is different: there could also be new masters, but amidst thousands of Italian architect-designers, joined by many others arriving from all over the world. A mass that also makes it hard to make a name for yourself. The quality of design thinking is not connected to a geographical factor. It is simply a question of numbers. Italy, as Oscar Farinetti has said, represents 0.8% of the world market. So it is easy to do the math. As for why all the designers in the world want to work with the brands of Italian design, the answer is that it offers a stage: for a designer to be on hand at the Salone or the FuoriSalone is a bit like going to the fashion shows of haute couture. The added value of the visionary force of Italian business? A certain degree of positive ingenuousness, which can also become a wager. Italian producers are always ready to believe in an idea, and in innovation in general.” New for 2014: “I have worked with the same companies for years: B&B Italia, Vitra, Flexform... and others. My products are free of short-term goals, they don’t have to prove themselves in one year, or after just one Salone. In this phase I spend more time discussing distribution, not products. I am more interested in contributing to the design of corporate strategies.” (Antonella Boisi) - pag. 54 Right, the architect Antonio Citterio (photo Wolfgang Scheppe) and, below, an iconic piece from his output: the Charles sofa designed for B&B Italia in 1997.

Louise Campbell “It seems like today everyone, everywhere, producers and designers, are looking for talent on the international market. This is a very natural reaction to globalization; the ‘buffet’ has gotten much bigger, and it is hard to resist the temptation to taste it all. For now it is fun, given the fact that the approach to design is still rather closely linked to geographical factors: so it is possible to see where the different products come from, and this is interesting. But the more the borderlines get broken down, the less varied will be the produced results. In a not too distant future we will all be desperately looking for our roots. That is why the roots of design made in Italy should be conserved, not globalized. If I were Italian I would wear more cashmere, and I would sip up the rich nectar of history of my country every day, to keep faith with the only word on which Italians have the copyright: (the great) ‘Beauty.’ Your country is the European cradle of the most sublime arts, of passion. I would say it has quite an advantage. Finally, since you asked me for my opinion of the Salone del Mobile, I think that today it has taken on the proportions of an overgrown organism. But I would not be in favor of rigid control: in fact, I think maximum freedom should be granted. The unpredictability of the event is still its real charm.” New for 2014: “I have designed for Georg Jensen, Royal Copenhagen, Kvadrat, Mr. Perswall, Louis Poulsen, as well as IMM Cologne, which left me the greatest freedom this year to design my ‘Das Haus,’ opening up a true Pandora’s box of ideas.” - pag. 54 Right, the Danish designer (photo Moren Jerichau), creator of a new fl tware collection for Georg Jensen (above).

Philippe Nigro “In Italy companies have to cultivate what they have always done until a few years ago, namely innovation, research, risks. I know that these are goals that are hard to achieve today, but history teaches us that things, ideas, concepts, products are often born in difficult periods, periods of crisis. What is certain, in my view, is that in Italy know-how has to be protected and helped, protecting those who run the biggest risk of extinction. Design and designers can only find stimuli if businessmen

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Interni aprile 2014 are still curious and capable of believing in new things. This is how the era of the legendary ‘great masters’ began. Unfortunately, their greatness can often overshadow the ‘smaller masters’ of the present, who could grow if they had more space. In short, we have to trust in the talent of all, no matter what their age. Fortunately there is a lot of evidence that ‘new masters’ do, indeed, exist. But do the Italians win, over the foreigners? I can talk about my own personal experience: I am French and I studied design in France; then I completed my training with experience ‘in the field’ in Italy, thus getting the chance to establish a dialogue with two different cultures, two different worlds: the encounter between different spirits, the mixture of life experiences, can lead to interesting, new projects for companies. From this viewpoint, the Salone del Mobile and the FuoriSalone are very important. Surely Milan is still an outstanding reference point on the international design scene, but it has to continue to offer surprises. The goal is always the same: to make design more democratic, involving sector professionals but also all curious people.” New for 2014: “I have worked for Hermès, Kvadrat, Caimi Brevetti, Marsotto, with beautiful Carrara marble, and Venini. And also with the Milan Triennale, in the seventh exhibition-edition of the Triennale Design Museum”. - pag. 55 Above, the French designer, who lives in Milan (photo Mercedes Jean Ruiz), with the pieces he presented in Cologne for Ligne Roset: the Cosse sofa and the Lumière Noir collection of lamps.

Mathieu Lehanneur “The Italian furniture industry is feeling the effects of competition from many other countries. Some production processes and technical skills have been exported to international markets for some time now: so the companies of Made in Italy cannot rely only on their know-how, they have to rely on the experience of their technicians and engineers, and their way of saying: ‘We still do not know how we will make that object, but we will manage, because we believe in it!’ People often say that the best way to understand the present is to perceive the future, while at the same time having perfect knowledge of the past: Italian entrepreneurs have this culture, this knowledge and vision: truly an immense heritage! The important thing is not to cling to the identity of Italian design, but to the utterly Italian energy that believes in its own intuitions. The Salone and the FuoriSalone should continue to pursue the goal of opening the spirit and the mind, becoming the international platform of creativity in the widest sense of the term. Milan has to demonstrate what it is and what it will be in all fields: from design to architecture, fashion to technology. It has to become an ‘oracle’ capable of understanding, grasping and advising the world of creativity.” New for 2014: “I have designed for Audemars Piguet, Binauric, Pulman Hotels, Swatch, LaCie, Schneider Electric, Hennessy, Le Laboratoire, Centre Pompidou, Lexon and Carpenters Workshop Gallery. Future works include the Grand Palais in Paris, where I will do the interior design. I will play with the idea of hybrid spaces to reflect the nature of the place (very hybrid), this very beautiful building.” - pag. 56 Boom Boom portable mini-speakers (also wireless) designed by Mathieu Lehanneur (upper left) for Binauric.

Patrick Norguet “Italy has benefited, with its history, from an interesting kind of industrial organization. The coexistence of industry and crafts, thanks to well-coordinated work and know-how exchange, makes Italy the most interesting model, a place ready to generate innovation and creation. The family firm character of much of Italian industry is another strong point, with respect to the needs and power of the financial world. But today it is time for companies to start asking themselves more questions, to take the time to reflect and develop new strategies. Otherwise nothing will really be constructive. They have to create industrial synergies and dynamics based on the group, on the exchange of talents and forms of expertise… Time flows faster today and brings big changes: the ‘masters of the past’ are not the ‘masters of today.’ We need to reconsider the challenges of tomorrow. From this standpoint I think Italy does not have enough faith in its young people. It is not easy for the new generations to find their own place, considering the ‘weighty’ legacy of the ‘great masters’! This also explains the ease with which foreign designers are able to ‘penetrate’ the Italian market (it goes without saying that globalization also does its part). But people like Italy above all because it is ‘simpatica’ and cheerful, in the eyes of the world. It still embodies a Latin, positive dynamic, with an authentic design culture. In many Italian companies designers can find the right balance of history, culture and the desire for innovation, which becomes a motivating factor, of great inspiration. Italy and Milan in particular still have a very important role on the international design scene. At the Salone del Mobile, nevertheless, I think more selection of quality is needed, regarding the brands and the products; I feel

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the need to develop a stronger critical sense, to avoid letting the event become a ‘design supermarket.’ Designing objects brings with it a sense of responsibility: we have to fight against phenomena of image, against superficial fashions.” New for 2014: “I like to talk about collaborations, that are created over time, thanks to exchanges, listening, mutual respect… This year I am showing new products for Alias, Glas Italia, Driade, De Padova and Cassina.” - pag. 56 The French designer Patrick Norguet and the Cône applique, the result of a new collaboration with Artemide; also in white.

Matteo Thun “Milan is undoubtedly still one of the most important places for design. Many designers work here; you can visit the homes and studios of the ‘great masters’; there are many good design schools; finally, there is the Salone/FuoriSalone platform, which in spite of what people say is still an international draw. But today, in my view, the password for consolidating this position has to be ‘networking.’ It is a shame that the publications, on the other hand, are being hit hard by the crisis. Because the magazines have played a big role, on an international level. I have no doubts about the leadership of Italian industry, which can now rely on alliances of production, design and logistics – the strong side of decentralization (which frightens some people).”New for 2014: “The companies with which I have worked are my historic partners, who invest in research and development, especially in the sanitary and hygiene sectors: first of all, Klafs.” - pag. 57 The architect Matteo Thun and, above, an image of the new Turkish bath designed together with Antonio Rodriguez for the German company Klafs and shown at the Salone internazionale del Bagno 2014; the project also includes a sauna.

Ferruccio Laviani “We shouldn’t be afraid of having or losing a position of leadership: it is hard to believe that the world of furnishings can evolve in a correct way. While for a long time we were the only ones with these priorities, that does not mean that other countries cannot have good design and plan good distribution. I believe it is important to go your own way, to be convinced about what you are doing, and make proposals. Personally, I believe the only this is the only winning mixtures to make things develop along more correct lines. Of course many foreign designers want to work here in our country: the historic reputation and spread of our brands in the world offer international visibility for products and their designers. Undoubtedly this is one of the reasons why every designer, from any part of the world, tries to work with Italian companies. Furthermore, the network and the industrial fabric composed of small craftsmen and large companies make it possible today to do innovative projects that would be difficult in other countries where this situation does not exist. Can we think about a new Italian ‘school of design’ after the period of the ‘great masters’? I love our design history, but I try to be more rational and less parochial. Design can exist in any part of the world, any country: it cannot be relegated to a specific geographical area just because of a historical legacy. I think it is wrong to continue to look to the past as a glorious moment, and the present as a sort of nebulous entity that is hard to make out. It is impossible to make comparisons with the past era of design, when the global economic situation was clearly different from what is happening today. Finally, a comment on the Salone del Mobile: for me it is, and remains, the most important design exposition in the world. But its leadership role can only be maintained if the companies, and the designers, are capable of putting a lot of energy into this important event every year. Above all, we have to work so that over time the energy does not fade, making the event into a sterile collection of ‘fashions’ that, as we know, then pass away.” New for 2014: “Discovering the Salone will be more fun than talking about it!” - pag. 58 Ferruccio Laviani (photo Ferro) and his timeless Bourgie, designed for Kartell.

Jorge Pensi “It is possible that the big changes of society and taste, to which we have to add the serious economic crisis and a deep sense of discouragement, have caused a lack of energy, both in designers and in companies. A market that needs nothing is always looking for new objects to consume fast, as if they were disposable. At times they exist only to be put on magazine covers, and after a while no one remembers them anymore. We need to change our attitude, to design timeless objects that will survive us... Where Italian industry is concerned, I think it is still ahead of the pack. It is a reference point for the whole world, and Milan is the capital of design: the Salone represents the annual event of reference for new developments and trends in the sector. But I hope quality does not get sacrificed in favor of image, and that what happened to the Italian auto industry does not get repeated, since it lost its position of leadership to the Germans. For a designer, working

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with an Italian company is a bit like shooting a film in Hollywood, for an actor. Working in your country means being able to count on experience, know-how and great respect for the quality of the design. The fact that many companies of Made in Italy work with foreign designers is certainly not a problem, and it is explained by the globalized world we live in, the desire to find talent wherever it is lurking. On the other hand, new technologies let us design and follow the development process from anywhere, from Barcelona for example, working with companies who have their headquarters anywhere in the world. It goes without saying, in any case, that Italy, after the era of the ‘great masters,’ should try to create a new ‘school of design’ that responds to today’s necessities, in tune with the world in which we live, making reference to the precious cultural heritage of the Italian design of the past: the Italian great masters taught all of us a new way of thinking. I will never forget what Vico Magistretti said: ‘the years in which we invented Italian design…’ He was referring to the first collaborations with Cassina. Italy has to continue to bet on creativity, on the excellent quality of its manufacturing, avoiding passing fashions. But above all, ‘its’ Salone has to be a showcase of companies that want to innovate, not to follow in the footsteps of others.” New for 2014: “In the course of my career I have worked successfully with many companies: Cassina, Knoll International, Kusch+Co., Akaba, Leucos, Steelcase... In this moment I am working with Vondom and Alternative in Spain, Shönbuch in Germany, Leucos, Estel and Pedrali in Italy, Janus et Cie in the United States, Arquimuebles in Colombia and Zoom by Mobimex in Switzerland.” - pag. 59 Part of the new products presented at the Salone del Mobile 2014, the freestanding coat rack Jorge Pensi (in the portrait) has designed for the German company Schönbuch.

Gordon Guillaumier “Italy is undoubtedly going through a critical moment, which places strong limits on design production with respect to the past. Nevertheless, I think precisely these difficulties can strengthen the sector, putting it up against other international productive realities. We just have to remember that leadership is assigned above all as a reaction to innovation, not on the basis of history. Of course the era of the ‘great masters’ gave Italian design fame and reputation starting from the 1950s to the 1970s, especially because the products of the Castiglioni brothers, Magistretti, Ponti – there are many names – have become true icons over time. I think Italian creativity has never had limitations, also thanks to a cultural attitude that is always open, always updated. Perhaps there should be more concentration on certain concepts like sustainable productivity, recycling, zero-km, eco-friendly, which in Italy are seen more as utopias than as a resource of everyday life. But does a truly Italian school of design exist today? I would like to answer yes: actually, I think that today there are many individualisms (or protagonists), leaving little space for teamwork, for shared ideals. In this moment it would be very useful to have a new, vital school capable of pumping new energy into the design of the future. For example, to ensure that design remains always democratic, in a moment in which many Italian companies are focusing on the concept of luxury (and in my view this is the aspect the Salone del Mobile and the FuoriSalone ought to consolidate).” New for 2014: “I have designed for Lema, Tacchini, Driade, Roda, Thonet, Porro, Frag… maybe others. Even here, there are no certainties.” - pag. 59 Above, the latest creations of Atelier Guillaumier (in the portrait): from left, divans by Driade, tables by Roda (round) and Tacchini, chairs for Thonet.

Alberto Meda “I believe the leadership of the Italian furnishings industry cannot be questioned. Our country keeps its position with an attitude of respect for its own culture, its talents, the aspects that make a difference: its identity, in short. Which at an industrial level means craftsmanship, know-how, care, passion; a great desire to get young energies involved; a great capacity to take risks and to pay attention to innovation of materials and technologies. The goal: to make products that have meaning, not mere gadgets. Where Milan is concerned, I think it still has great appeal because it is a city with an international mix and good quality of life, open to the world, not provincial, with a network of companies equipped with outstanding talents. Of course we all need to work to improve both physical and digital infrastructures, that are still very weak, and which in my view prevent the city from fully expressing its creative potential.” New for 2014: “For Caimi Brevetti I have designed, with Francesco Meda, the ‘Flap XL’ collection of sound absorbing panels; at the Milan Triennale the project ‘Annessi & Connessi’ was presented, for the occasion of the exhibition on Pierluigi Ghianda; and also at the Triennale, the furniture designed for Henraux+Riva1920 is being shown.” - pag. 60 The sound absorbing ‘flap ’ hung from the ceiling, of the Flap XL collection, designed by Alberto (in the portrait) and Francesco Meda for Caimi Brevetti.

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aprile 2014 In tern i Marc Sadler “Is the era of the ‘great masters’ of Italian design finished? Maybe: after so much glory the country has ‘rested on its laurels’ a bit, but it is also true that it would be hard to keep up with a qualitative growth trend similar to the one launched by the ‘great masters’; in the meantime, other countries have grown, and the way things are produced has changed radically. As a ‘foreigner’ I can tell you, however, that Italy is still the ‘land of milk and honey’ in terms of density and quality of manufacturing excellence. Of course today there is an objective problem of costs, and it will be hard to fix that in such a way as to make Italian production competitive. All Italians can do is to bet on the excellence of their workmanship, though many skills are being lost, together with the extraordinary craftsmen, who have ‘retired’ without having a chance to pass on their fantastic heritage of know-how. Why? Companies close, and in many cases mass-produced products of medium quality cannot sustain production modes involving highly qualified work. It goes without saying that Made in Italy, especially with the Salone in Milan, still plays a very important role on the international design scene: in the end, everything converges here. Many foreign designers have a base in Milan for their work, because here there are important initiatives for design culture. But in particular, the offerings of the Salone del Mobile (and the FuoriSalone) are, and remain, very rich. It even becomes difficult to see everything you would like to see... though it is also true that the city has to improve its logistics. It would probably be better not to concentrate everything in a single week, but to spread out the various initiatives across the whole year: this solution would keep Milan always lively.” New for 2014: “There are projects that will be presented at the Salone del Mobile this year, and others that unfortunately will not be ready in time. To avoid diplomatic incidents, I will mention just one project that is decidedly ‘out of the pack’: the glass billiards table by Teckell.” - pag. 60 The very new MS4 chairs in polypropylene with honeycomb surface, designed by Marc Sadler (left) for Calligaris and presented at the Salone del Mobile 2014.

Sawaya & Moroni “There is a fairly widespread idea among sector professionals that Italian design culture has lost its force and identity (says Paolo Moroni, ed.): however, I do not think this view reflects the real situation or the opinion of the public in general. It is true that design has often been ‘abused’ by companies rich in means but poor in culture; these same companies have also contributed to the fame of a generation of designers with ‘weak’ thinking, who as a result produce ‘weak’ projects. But it is also true that a lot of the sector press has even been an accomplice, putting too much emphasis on mediocre things in exchange for guaranteed ad campaigns. Then there are the sector associations that hand out prizes, the makers of rankings, the improvised experts, all ready to put banal stuff on a pedestal, and thus encouraging the voices that point to the decline of Italian design. In any case, I am certain that many companies and many designers have a well forged identity, and they will know how to preserve the culture of Italian design! The leadership of the Italian industry is not in doubt: I am talking about those important, visionary Italian industrialists who have contributed to make design products a daily necessity for millions of people around the world. It is normal that there should be high and low periods, ups and downs… All of us, in this moment of sweeping political, social and economic changes, need to take a moment to think and to examine our own responsibilities, to start again with an updated and realistic vision regarding the new spheres and contexts in which we will find ourselves working. The fact remains that Italy, and Milano in particular, are still synonymous with design: I don’t want to wave flags, I am just pointing to a concrete reality, a fact. How long will it last? That’s another matter… The capacity of Italian entrepreneurs lies first of all in believing in what they are doing. In spite of the countless difficulties they have to face every day, Italian companies can still operated comfortably inside the network of support provided by the small businesses of the supply chain. The Italian design companies can therefore forecast and predict the needs of the market, investing in research, and together with craftsmen they can dare to invent new modes of production. Our country is going through a ‘transfer’ of experience and crafts know-how, towards a technologically prepared, evolved generation that is capable of ensuring qualitative continuity and industrial capacities. I do not believe there are many other places in the world where everything is so easily available. Finally, a thought about the Salone del Mobile. Let’s start by saying that the Salone and FuoriSalone are by now indispensable events: they both have the same goal, and precisely for this reason they should demand greater attention and cooperation from the city. When I think about the ‘very modest’ design weeks in other countries, and the efforts made by their local administrations to promote such limited happenings, I realize that what has created our sector has been, and unfortunately remains, the (fantastic) initiative that comes from individuals.” New for

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Interni aprile 2014 2014: “This year I have to say thank you to: Zaha Hadid, Dominique Perrault and Gaelle Lauriot, as well as to William Sawaya and his studio; but also to the prototype makers and our pure Italian champion craftsmen, with their age-old skills and know-how, combined with the new technologies that can perpetuate the excellence of Made in Italy. I would like to emphasize that Sawaya & Moroni is one of those Italian companies that can still boast of a product with a purely Italian pedigree and background. But come to visit us, and you can see for yourself!” - pag. 61 The O’Blik Tables by Sawaya & Moroni (in the portrait) are part of the new 2014 collection of the historic Milanese brand.

Constance Guisset “Milan’s status? I think any kind of leadership can be challenged. Today the design world is going through a phase of extensive evolution, and we are seeing many interesting developments in Northern Europe, Asia and France. To keep the position of leadership, Italian companies have to keep faith with their innovative and ‘adventurous’ spirit, which has always been a strong point. Where Design Week in Milan is concerned, my opinion is that the Salone and FuoriSalone are like living beings: they evolve on their own. The places ‘outside and inside the fair’ change from one year to the next: this is very positive, though it is getting more complicated to find your way around, due to the large number of events and the macrodimension of the Salone. It is almost impossible to see everything! The challenge lies in conserving vitality and spontaneity, while at the same time making things simpler for visitors, so they can choose what they want to see. Perhaps by concentrating things a bit more…” New for 2014: “I have designed Nubilo for Petite Friture, a meridienne made with many cushions, for maximum relaxation at all ages. Then the Windmill collection of poufs for Cividinia; the Portobello chandelier for Established&Sons, a contemporary take on the classic model; and, finally, the Cape lamp for Moustache, shown at the Rossana Orlandi space.” - pag. 62 The designer Constance Guisset looks at her Cape lamps, which she designed for Moustache. Below and right, the welcoming Nubilo divan produced by Petite Friture.

Roberto & Ludovica Palomba “Today more than ever there is a need to be competitive. And to guarantee excellent performance. The important values are: innovation, service and strategy. But there are only certain brands and businessmen that have something more, a truly positive strategic vision. Most follow the pack and benefit from the glow of the true ‘enlightened ones.’ The fact remains that Milan still has a leadership role: nevertheless, it is necessary to give companies the means required to express their capacities to the fullest. The city also needs to be ready to host creativity in a more appropriate way. This is true above all for the FuoriSalone, which has always been a fundamental support in the use of spaces and the involvement not just of sector professionals but also of the public at large.” New for 2014: “We have worked with companies with whom we have a long, fertile relationship: Zanotta, Foscarini, Laufen and Zucchetti. We are increasingly convinced that we should make a careful selection, reducing the number of jobs, to concentrate on quality projects. Recently we have also been developing architectural projects, which will lead to new synergies and new products.” - pag. 63 Above, the table version of the Rituals lamp-lanterns designed for Foscarini by Roberto & Ludovica Palomba (in the portrait).

Lievore Altherr Molina “The habitat model, based on our experience in different countries in the world, is basically European. Even Japan and the United States apply it (in formal and symbolic terms). And Milan represents the synthesis and meeting point of all of European culture: so we can say that the city is the true international showcase of design and furnishings. But Milan is not just Italy: it is an international crossroads, and the drive towards internationalization has been reinforced in recent years. It is the meeting point between supply and demand of the highest quality on a worldwide level. The key word is ‘quality.’ The Salone del Mobile, then, manages to register the changes in habitat models: today we can see a different approach to spaces. It no longer makes sense to talk about a clear differentiation between the home and work: the spaces are more ‘liquid,’ and so are the relationships. In offices there is no longer a ‘professor’ who speaks from a pulpit, but work groups that interact, while in hospitals we can sense the need to humanize spaces more (and better).” New for 2014: “I have worked mostly for Arper, Discipline, Poltrona Frau, Enea, Verzelloni, Driade, Andreu World”. - pag. 63 To the side, Alberto Lievore of the studio Lievore Altherr Molina, behind the Colina collection of sculptural chairs for Arper, for the Salone del Mobile 2014.

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Stephen Burks “It is easy to think about the past and feel nostalgic. But times are changing and so is design Made in Italy: the era of the so-called ‘great masters’ is over, and the identity of Italian design has taken on worldwide importance, developing beyond national boundaries. The future of business, today, lies in the sharing of ideas, in growth and innovation. All companies that expect to be successful have understood this passage, and so has Made in Italy. The most farsighted entrepreneurs of Italian design recognize that the world is not just Italy, and are moving towards new markets. It is also this mixture of cultures that makes the encounter between foreign designers and Italian producers very interesting. In any case, we should not forget that it was precisely the willingness of Italian companies to be open to the input of international designers that made your design great. Where Milan is concerned, as a place that hosts the most influential design event in the world, I think the city continues to be one of the main centers of creative culture.” New for 2014: “This year I am showing new products for Calligaris and Dedon. In the FuoriSalone, there is an exhibition on certain new Man Made accessories, in collaboration with the magazine Dwell; and new Anwar LED lamps for a Spanish startup called Parachilna.” - pag. 64 The new Anwar collection of LED lamps designed by Stephen Burks (below) for Parachilna conceals very sophisticated technology behind a pattern of steel wires.

Carlo Colombo “Can Italian industry still compete on international markets? What keeps our leadership position intact is the objective quality of the finished product, the result of unique know-how and craftsmanship. In this historical period Italian entrepreneurs have to come to terms with one of the most problematic taxation systems in Europe, so it is logical that the effort to be competitive on the market becomes twice as hard. Companies have to interact with markets in forceful economic expansion, creating a link between the unique values of Italian crafts and the tastes of extra-European clients. But Milan is still a world icon of design and fashion, and its Salone is an important event that puts the spotlights of the whole world on the Lombardy capital. Of course, today it is important to transform Milan into a truly ‘smart’ city, to properly welcome the thousands of visitors who share the same interests. Some suggestions: better interaction between Salone and FuoriSalone, to keep them from excluding each other; information that is easy to access on your smartphone, with real time updates on the events in progress; efficiency and quality of public transport; special visuals created for the occasion around the city. I think the work has to be created around visitors: the goal is to make people an integral part of the whole big mechanism of the Salone del Mobile!” New for 2014: “Alongside the companies I have worked with in the past – Poliform/ Varenna, Flou, Giorgetti, Flexform, Guzzini, Teuco – there are new experiences, with Driade, while in the field of fashion there are the Bentley Home and Trussardi Home collections. Finally, for San Patrignano, a benefit project.” - pag. 64 Maximum comfort seat for the Eva chair with coordinated hassock: designed by Carlo Colombo for Giorgetti and presented at the Salone del Mobile 2014.

Ronan & Erwan Bouroullec “Maybe I have a short-term view (says Erwan, ed.), but it is clear that what is happening today, what we know as design today, is closely linked to what was done in the past by companies like Cassina or Cappellini, just to name two of them whose histories are very familiar to me. So Milan is more than important. Our roots are there. Of course, in this moment we know an Italian industry whose methods and means have perhaps been a bit less successful than in the past, and this tarnishes its image, a bit. But it is just a situation of the last four or five years… Where the Salone del Mobile is concerned, I think it needs resizing, it has to get somewhat smaller and more selective. We’ve reached the point where it is really too much! I have no idea of this idea is feasible or not. It is true that today one characteristic of our world is the tendency to concentrate everything in one place: just consider the growth of cities. Companies too are getting bigger and bigger, and fewer and fewer in number. Milan, in a certain sense, with its Salone, has beaten everyone. The fair in Paris has vanished, and Cologne no longer has an important role like that of Milan, as a true showcase of new things. But now we have reached the point of ‘too much’: no one in Milan can manage to see everything and see it well!” New for 2014: “This year we have worked with many Italian companies, so I am very pleased (we tend to work mostly in Europe): Magis, Marazzi and Glas Italia. Then there are collaborations not necessarily connected with the Salone, like the interesting work with Mutina. I would also like to mention the textile project with Kvadrat and, finally, our constant working relations with Vitra.” - pag. 65 Super Normal tables and chairs: the low-cost design collection created by the Bouroullec brothers for the School of Humanistic Studies of the University of Copenhagen: produced by the Danish company HAY.

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Communicating the project pag. 66 edited by Maddalena Padovani

DESIGN and COMMUNICATION: a relationship that has never before been so close, and at the same time so full of conflict. For its 60th anniversary, INTERNI asked ANDREA BRANZI, MICHELE DE LUCCHI and ALESSANDRO MENDINI for some short reflections on this theme The utopia of transformation Design is the utopia of giving the whole world an appropriate form. Isn’t this the idea pursued by Interni for so many years? In effect, the iconographic research conducted by this magazine is enormous, continuous, infinite. It is an increasingly efficient mechanism of information and imagery, from all over the planet, catalogued and made systematic to offer readers very useful documentation, increasingly through the web. In the history of magazines in this sector, the longevity and continuity of Interni are truly remarkable. And from its pages, its infinite pages, the tension of this documented research emerges intact. Is the anthropological question of an object how to give it a soul? From the most remote times, the objects of the world’s ethnic groups have had a soul, that of the spiritual aspirations of men and peoples. And even the mass produced objects of the industrial era were searching for a lost soul. Perhaps human completeness can only be achieved by getting back to the origins of the world, pursuing the utopia of an epoch located beyond that of the economic model. Because an object has to be respectful of a civilization that, in turn, is respectful of man. An object that aspires to human dignity is an object that goes against the current, and grafts itself onto the society of consumption in a critical position. The admirable things found only in museums of ethnology, at this point, examples of harmony between life and ritual in civilizations of the past, can no longer be found in the world of industrial and post-industrial societies. Design objects, in general, have not earned the right to exist beside the objects of historical anthropology. The attempt to clearly reinsert the aesthetic factor in the process of creation of useful objects is part of this pursuit of dignity. And Interni has often investigated these zones. An attempt is thus made to tame the deviated flow of the infinite objects of consumption, also electronic and virtual, of design, into the peaceful, slow river of the applied arts. It is clear that the problem is not the language, but lies in the utopia of a radical transformation of hearts, i.e. in new models of civilization capable of replacing economic values with human values. I hope Interni will continue to contribute to this admirable pursuit. Alessandro Mendini - pag. 67 Some of the objects displayed in the 2010 edition of the Triennale Design Museum curated by Alessandro Mendini and entitled Quali cose siamo. On the facing page: Faccia a vista brick, Classico series, produced by San Marco; statue of St. Anthony of Padua, produced by Splendart; Boli, 1900-1950, produced by Richard Ginori. On this page, from top: Ambrogio Pozzi, Cono, 1969; Gaetano Pesce, Mano, 1970s.

From a magazine, a world opens up In the 1970s, when I lived in Padua, studied in Florence and had a girlfriend in Rome, I began to visit Milan precisely because I was attracted by the architecture magazines that narrated what was happening in the world of design, and were also a source of inspiration to do new things. I got to know Sottsass thanks to a magazine directed by Ugo La Pietra, called “Spettacoli e società.” Ettore had written an article that talked about the young people of Padua who, like me, commuted to other cities to study at the university. He wrote for several magazines, and for me that was a factor of very great attraction. In particular, he wrote for Casabella, in the days when Mendini was the editor. I remember buying a copy at the time of my first trip from Padua to Florence, in 1969, to enroll at the university and find a place to stay. I still have that magazine. It included an article by Sottsass that spoke of the planet as a festival, and I liked that very much, because it presented an idea of architecture, independent, outside the rules, I had never thought about before. For me, it was a real revelation. From a magazine, a new world opened up. Since those days many things have changed in the world of communication of design. Magazines have become more identified, more personalized. Today we are in a phase of transformation; the only thing we can be sure of is that everything is changing and will continue to change. I think Milan is now a place where this sense of transformation is very tangible, perceptible, even pursued. Were it not for the cost of real estate, Milan would be more appealing today than other cities like London, Beijing, New York. Today we no longer notice, but Milan constantly offers many initiatives, events and opportunities connected to the world of creativity; they may be smaller than those of other cities, but they all work well and stand out for a high level of quality. The monthly is-

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sues of design magazines also represent an important part of the creative life of the city. Today we need synthesis, critical selection, something that offers a key of interpretation of the many things that happen. Every day I spend at least two hours on trains, time I devote to looking at what is happening in the world via web. I realize how unproductive it is to get lost in the ocean of information offered online, and instead how important it is to have a tool of critical interpretation. This is why we need synthesis, and models of reference. Michele De Lucchi - pag. 69 Michele De Lucchi, Colonne portanti, view of the exhibition. Fondazione VOLUME!, Rome 2012. Photos Federico Ridolfi

Learning from fashion Sometimes I wonder if my role in the magazine Interni isn’t that of a writer of unheeded opinions, but then I think that this danger has nothing to do with me, and is instead a concern of the management of Interni and its readers. I express my views when I am asked to do so, and my responsibility ends there… During twenty years of contributions, no one has ever censored me, and I have always written about things that interested me; so I have an enviable free space, an observatory in which to reflect, without interference. Putting my contributions together, I believe I have tried to demonstrate that “design is a serious thing” that does not belong only to the expertise of the market, but also and instead to the history of human beings, society, culture. This is the only reason I think design is interesting… Recently lots of criticisms have been voiced about today’s design and the latest generations; as if they were not a significant part of the ‘crisis’ that is impacting the Occident; an economic crisis, and a crisis of ideas. I have a completely different opinion on this, and I think that young people have the right to be different from us, and that the world has the right to change. And in fact the world has changed, profoundly; the certainties of the 20th century have vanished, the Modern Movement has reached the end of the line, politics is evolving, but the vitality of the ‘new Italian design’ continues to be a concern, around the world; the exhibition we organized in 2007 at the Triennale, which was sharply criticized, has continued to travel the globe since then: Madrid, Istanbul, Beijing, Taiwan, San Francisco, Santiago, Cape Town. Most of the show was composed of self-produced, light, apparently superfluous objects, indifferent to the classic typologies of furniture (chairs, sofas, tables, lamps) but interested in finding a way into the interspaces of domestic life. These are the interesting new developments of design at the start of the 21st century; just as in fashion, three categories coexist and collaborate: high fashion (experimental), autonomous accessories, pret-à-porter for mass production. Each of these sectors has its own autonomy, each its role, each its market, creating a nonconflictual synergy. A world that feeds on dreams, technologies, marketing, and renews its repertoire with every season, creating a scenario in continuous evolution. An appealing scenario that thrives above all on the glossy pages of sector magazines; this is the central function of the media, a central function capable of simultaneously representing the present world, that of the future, or how it could already be purchased today. A world made of infinite variants, exceptions, trends, scenarios, innovations, revivals. This is not just the universe of fashion, it is also our world; ungovernable, unpredictable, which exists only to enter the infinite universe of communication, on the Internet, in magazines, on television. Just as music, that does not exist as a physical reality, but only if it can be listened to, recorded, played, to create an emotion, a creative and mysterious thought: capable of producing enormous economies. The role of a magazine of design or fashion, then, is to give life to this incessant energy of innovation, to a world that otherwise would remain catatonic. So even the ‘unheeded writers of opinions’ have a right to hospitality, not to teach people how to live but to contribute to a way of fearlessly looking at an opaque world, without trying to enlighten it, but maybe to make it a little less nebulous and incomprehensible; chaos, after all, is not the lack of order, but the law that governs the universe… Andrea Branzi - pag. 71 Andrea Branzi, Solid Dreams collection, 2013.

After the Zeroes pag. 72 photos Carlo Lavatori text Maddalena Padovani

64 DESIGNERS put their names on the line (and their creative ideas). To demonstrate that the NEW ITALIAN DESIGN is alive and well. As indicated by CHIARA ALESSI in a BOOK that describes its SALIENT FEATURES. With a goal: to uproot PREJUDICES

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Intern i aprile 2014 Does an Italian design exist today? The heterologous prejudice lurking between the ranks and lines of certain foreign criticism cannot suffice. For some time now, the Hamlet-like doubts have also been fed by authoritative exponents of our national design culture, who in various ways have expressed their perplexities regarding the propositional force (or even the existence) of a new generation of Italian creative talents. Instead, Italian design is alive and well, and simply waiting for a chance to express itself with projects and poetics that due to the natural evolution of things can no longer be traced back to a single school of thought. At least this is the assertion of Chiara Alessi, a design curator and critic, whose book “Dopo gli anni Zero. Il nuovo design italiano,” published by Laterza, attempts an overview of the national creative panorama in the 2000s and 2010s. A book that according to Alessandro Mendini, author of the introduction, is an act of love with respect to a generation of ‘designer puzzle solvers’: those who “according to heterodox and marginal modes of conceptualism” approach design like a rebus to be solved, closed off like monads who have difficulty connecting to each other, but imply a great intelligence, namely the awareness of something new that will soon happen and will change the previously experienced scenario. Chiara Alessi describes the most characteristic and recurring traits of these ‘monads,’ identifying six poetics of reference proposed as keys of interpretation of a contemporary essence that can no longer be deciphered using rhetorical and dated tools. The conclusion? Today there is not just one Italian design, but many, which for one evening took on the name, visage and products of almost seventy designers gathered at the presentation of the book, in January in Milan. Interni was there, at this exhibition-event, intentionally temporary but also representative of a situation in continuous evolution: to interview the person behind an operation that will surely leave its critical mark, but also to survey the many protagonists of a phenomenon that exists and pulsates, though its heart often beats in the most interstitial and least apparent spaces of Italian design. How did this need come about to analyze, map and ‘generationalize’ the new Italian design? First of all there was a need to grasp and systematize a debate that has been circulating for several years in magazines, encounters, exhibitions, blogs, dinners among friends; I felt the need to try to put this chatter in order, into a discourse I hope is more articulate, also exploring beyond the design system, linking that system to transformations that are also happening in economic and cultural spheres, for example. And then, in a closer sense, there was a personal need, which I then found in other people as well, to try to update the tools of analysis, to redesign a scenario that might be more satisfactory in order to describe the present. Getting beyond the categories that were previously valid, perhaps to narrate other moments, trying to imagine a map of coordinates we can all recognize, today. Do you agree with the idea that new Italian design is influenced by the prejudices and the focus on foreign designers of companies in our country? Yes, but I do not share the surprise (we should remember that Italian companies have been courting foreign talent for thirty years now), nor can I join in the widespread, paralyzing culture of complaint. First of all, because with respect to the ranks of those twenty (at best) names of the historic Italian Design Factories, today there are at least twenty more that look to Italian designers with enthusiasm, though at times their focus is a bit naive. Expanding the range of possible involvement, they often get our designers involved as art directors, consultants, talent scouts, etc., roles that do not have to do only with the production of objects. Finally, I think the problem is not so much a love of all things foreign as the fact that the game continues to be played by the same names (Italian and foreign), with the result that often the catalogues of historic companies, originally with a clear identity, now tend to all resemble each other. But we should be clear about one thing: Italian companies are not looking to young French, Swedish or English designers with greater interest than they put into Italians. Apart from certain cases, most of these companies are simply not looking at all, they are unwilling to take risks and to bet on unknown quantities. Instead, risks are taken abroad, and what is lacking in Italy (because it was originally the unspoken job of those companies) is an institutional service to promote our creative talents in other countries. But this would imply a revision of the entire ineffective public system, which at the moment does not seem like a credible prospect. Do you believe that initiatives promoted from within, by the designers themselves, can make up for the talent scouting previously done by entrepreneurs? Yes, independent solutions can work, if they are detonated by the designers, or initiatives that also involve agencies, institutions, clients, investors, museums, galleries, alternatives. I am not as familiar with what is happening in other countries, but I have the impression that many designers around the age of 40, in Italy, are making efforts today to promote the very young, and this is always a good thing, bucking the trend with respect to their predecessors. Of course it always depends on what results you want to achieve; economic results, visibility, exploration… Foreign designers should be given credit for an ability to communicate (with companies, me-

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dia, the public) that many Italian designers seem to be lacking. Do you believe this might be a weak link for our designers? Maybe I’m naive, but I continue to believe that the know-how and culture of our designers working in foreign countries cannot be equaled. If anything, there is a problem of ‘trends,’ of ‘fashions,’ of attitudes – also fed by those who do our job – so that if you have a good name and produce nice images, perhaps with a rather elaborate story of the backstage, it is easier to find your way into the system. As we were saying, it is also a natural question of the exotic, so that the Italian designers most in vogue at the moment are those who speak Dutch (Formafantasma) or Danish (Gamfratesi), but an Italian like Christian Zanzotti, who has even lived in Germany for many years, and is very talented, is much less well known. I have the suspicion that his name and surname don’t sound so good to the Italian press. In any case, I have interviewed at least 64 of these Italian designers, and it seemed to me that they all had something to say and, in many cases, were saying it very well. You assert that in their multitasking role contemporary designers are also becoming critics. Do you believe the new Italian designers have a greater capacity for self-critique than the previous generations? No. Actually I have the impression that the attitude of crossover of skills has always been part of the DNA of Italian designers, and that if we are talking about criticism in the strict sense of the term, the most interesting results have already been produced. What is emerging today, which I have tried to put into words in the book, is a thinning of the borders between criticism and communication. In this reduction of (literal and metaphorical) depth, the designer-narrator who accompanies projects with a paratext (words and images) can work very well, not only superimposing it on the product, but at times even taking its place. Those operating in this area (attempting to work on this thin borderline) often simply grab and translate content already modified by the media, but with a downstream role, no longer upstream as in the past. Self-critique, on the other hand, is something else again: it is undoubtedly true that today many projects are nipped in the bud, censored by the designers themselves, who are increasingly aware of the mechanisms of marketing, communication, the market, etc., so they tend to allow only the ‘best of’ to emerge from the workshop, the project purged of all its healthy, vital dirt and imperfections. I believe this attitude towards formal and process perfection is partially the result of the era of the social networks, where we all try to display only our best side, disguising the truth. But criticism has to dig for truth, or at least try to do so. Your intellectual curiosity and privileged vantage point have given you great critical lucidity that gets a bit diluted in the copious array of designers you identify according to interesting but inevitably questionable categories. Why did you feel the need to do this? Do you believe that in the logic of the design of the Zeroes, what emerges in the end is more the personality than the project? The fact of inserting so many names had to do first of all with an editorial need, namely to also give numerical proof to my thesis, a response to those who wonder if an Italian design still exists: naming 100 names at least raises the doubt that something must be there. Then there is a more theoretical reason, which you correctly say has to do with the logic of the Zeroes: after the end of the generalized systems and utopias of the 1970s and 1980s, but also the end of the icons, the stars of the 1990s, what stands out today, also in terms of social incisiveness, are not the projects, but probably not even the signatures; it is a fragmented, elusive, heterogeneous system I have not set out so much to categorize as to try to photograph, so much so that the exhibition with which I have framed the works lasted one evening only. But if the categories no longer exist, that does not mean that we can say that everything is the same, or that there are no emerging features or factors in design. The poetics I describe in the book, and which not by chance I never call ‘categories,’ are intended to each bring out one characteristic of contemporary design, which in many cases can coexist or include at least one other. Form me, these are the things that emerge, even more than the names I have ‘used’ as examples and illustrations. But these are intersecting sets, they move, they form crossroads and rhizomes. Nothing is pre-set or definitive. What is the substantial difference between the viewpoint of Andrea Branzi in 2007, for the exhibition “The new Italian design,” and the vantage point of your book? I have trouble comparing my work to that of Branzi: he is a Master, a researcher, a philosopher applied to design, a professor, a curator, an architect; I am not, I studied criticism, then publishing, I got into design through a special, privileged observatory, but also a partial one, a Design Factory. In the years in which Branzi was doing his radical research, my parents had probably not even met as yet… The substantial differences are therefore inevitably very many in number. However, it is clear that those who concentrate on Italian design today cannot help but come to terms with that exhibition. To use a metaphor, which maybe he would appreciate (though who knows), I imagine the exhibition “The new Italian design” as one of his works of architecture in wood, a load-bearing axis. Instead, my contribution, to

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stick with the metaphor, is a branch, more fragile, lighter, but pointed, which might sprout forth from that monolith. So with a very personal interpretation and with a book – that inevitably leads to an approach very different from that of an exhibition – I thought it might make sense to interrupt that continuum outlined by the Master (who not by chance utilized, in his show, an uninterrupted conveyor belt to display the projects) and to insert discontinuities, distinctions, breaks. My goal was to state that the expressions of contemporary Italian design – beautiful or ugly, good or useless, experimental or backwards, redeeming or surrendering – cannot be standardized in a single, reassuring, big, anonymous whole. The other apparently superficial difference is that I know the designers mentioned in the book, one by one, I know their faces and their work, I have met them all in person. For the presentation exhibition, I thought it was nice to take advantage of the fact that they are alive, and have thinking brains!

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by Valentina Croci

AUTARKY, austerity AND SELF-PRODUCTION REFLECT three moments of CRISIS from the 1930s to the present, in which the design world has found NEW METHODS of expression and ALTERNATIVE PRACTICES OF PRODUCTION. From the theme of the new exhibitionedition of the TRIENNALE DESIGN MUSEUM in Milan, food for thought on the meaning of SELF-SUFFICIENCY for the new Italian generation of designers The new exhibition at the Triennale Design Museum in Milan offers an opportunity to analyze the state of the art of Italian contemporary design, especially of the new generations. The show curated by Beppe Finessi, in its voyage of one century from the autarky of the fascist era to the austerity of the 1970s that stimulated the avant-gardes of radical design, all the way to more contemporary phenomena of self-production and digital making, narrates an alternative history to that of mainstream industrial design, bringing out figures usually left at the margins, such as the women designers who have explored more interstitial zones, often in small production runs. The thesis of the exhibition involves comparing independent practices in different eras, ways of producing alternatives to big industry, over time, with different counterparts and different numbers. Beppe Finessi explains: “We need to get away from the premise of big numbers: few furniture companies achieve appreciable sales with a single product, so the sustainability of the series can also be done through specific editions or self-productions. It is no coincidence that in recent years the role of galleries and small design editions has become important. Angelo Mangiarotti said that a project has value if it is gauged on a large scale. For that generation design had a political impact that is no longer perceived today. Likewise, the historic companies of Italian design of the Fifties were created from the need to make something that did not exist in the realm of big numbers. They were industrial design thinkers. Today designers move from different premises, and they want to address real numbers, through different economies of scale and different technologies. If we consider the fact that most of the objects shown every year at the Salone del Mobile never get beyond the dimension of the prototype, and that many designers do not live on their work as designers, it no longer makes sense to talk about industrial design, crafts or artdesign. A remixing of disciplines is in order.” In a certain sense, it is an anti-industrial exhibition that tells industrialists not to live in contradictions, but to seek alternative business models that the history of Italian design has already, in part, investigated. “Contemporary designers do not have to choose between autarky and traditional industry. While in the Nineties important designers have taken the path of self-production – just look at Michele De Lucchi with Produzione Privata, or Gaetano Pesce with Fish Design – accepting business risks that were balanced out by their reputations, the designers of the next generation have given rise to more timid and often failed attempts, over the long term, due to difficulties and, above all, lack of access to systems of financing. Today the web offers new opportunities. And some designers are choosing the path of self-production to spread their work, without seeing it as secondary to traditional industry. Brands like Design Bottega of JoeVelluto or Internoitaliano of Giulio Iacchetti are examples of businesses that rethink the relationship between the designer and the production company,” Finessi explains. “Finally, designers like FormaFantasma, who come from an international context, without feeling the need to come to grips with our industrial history, have found a path in the dynamic of small numbers, which puts the focus back on Italian design.” Alessandro Mendini is fea-

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aprile 2014 In tern i tured more than once in the exhibition at the Triennale because of his work on Radical Design in the Seventies, connected with small production runs and the rediscovery of handicrafts, making him a forerunner of some of today’s trends. Global Tools, which saw an a-systematic approach to disciplines and the use of natural materials and techniques as stimuli for individual creativity, is a paradigmatic example of this research. Nevertheless, while the theme of the breakdown of industrial logic is shared by contemporary makers and radical design, Mendini is critical of the new generation of Italian designers. “The radicalism of the Seventies had a strong political vision. The intelligence and intellectual refinement of today’s designers work in a vacuum, because what is lacking, not just in Italy, is a vision of our society. Examples of open-source design indicate a path that is not humanistic, but technocratic, where the relationship between brain and technology is symbiotic, but inside thinking that is more pragmatic than utopian. Though we live in a ‘social’ atmosphere that contains everyone, designers act in a closed ecosystem, a global situation of islands, each displaying something of their own that is rarely connected to the rest. It is hard to find a share meta-project of the new generations. Maybe this is not the moment for groups like the Bauhaus or Memphis. Maybe the fertile soil just isn’t there. Without being a paternalist, I think that if a more radical poetic does not emerge, from the soul of people, not from technology, there can be no real renewal. Likewise, contemporary research on the transformation of traditional crafts corresponds more to a manipulation of materials and techniques than to a utopian dimension of design. It is no coincidence, in fact, that many designers are falling back on the artistic aspects of design, because art is a hypnotic bubble, a habitat that permits a personal vision,” Mendini asserts, though he does acknowledge that this is an era of latent transformations that are therefore not always intelligible. One person with a more optimistic vision of the future of the new design generation is Stefano Maffei, creator and teacher of a workshop at the Milan Polytechnic that focuses on new models of connection between design, distributed production and advanced fabrication. “Autarky and self-production,” Maffei says, “have a shared starting point in their aspirations, but the latter exists in the hyperconnective model of open source, which has less predictable variables. The ‘sect’ of makers is a growing phenomenon that thrives in those centers of design experimentation known as fablabs (there are over forty in Italy). Makers are rather naive, and tend to focus on single objects and the potential of technology. Nevertheless, there is a shared pursuit of technological animism: of an interactive dimension between object and user. To understand the potential of this phenomenon wee need to ‘digest the horizons of the future’ and get used to looking at the world through other categories. As long as we analyze self-production with parameters linked to mere form or typological interpretation, it will be hard to appreciate its innovative impact. The potential lies in the uprooting of a traditional concept of the market and industry. Global and hyperlocal markets exists, there are no standards. So space exists for products that are no longer connected with mass standardization. Technology empowers this model: the maker can enter the market directly with a business-to-consumer approach – this is already happening, for example, in high-end jewelry – and rely on expert artisans located all over the world, even in places where there is no tradition of industry or economic means, redesigning productive geographies. Many self-producers operate with semi-finished products or ‘ready-made’ objects, slimming down the passage from prototype to product and putting goods directly on the market. The managerial and organizational dimensions of the business can thus be absorbed by individual designers with a small network of collaborators and suppliers. But for all this to work, the system has to function, namely the platforms: communication, online and offline distribution, logistics, etc. The autarky of today is genetically modified, because it has the technological reinforcement that makes it possible to hypothesize a more sustainable mode of production: no longer push, but made to measure. And this change is not an exercise, but an indispensable necessity.” - pag. 80 Piede Pouf is one of the latest projects of Internoitaliano, a distributed factory that makes use of a network of artisans coordinated by the studio of Giulio Iacchetti. The pouf is a tribute to the Panettone concrete parking barrier by Enzo Mari. The Bu! organizer in metal wire is inspired by the gratings of southern Italy and is part of Extra-Ordinary Gallery, the fi st collection of objects for everyday use self-produced by Fabrica with the help of artisans of Made in Italy. - pag. 81 Tavolino L, designed by Franco Raggi, is part of the Design collection of Sampietro 1927which reinterprets the traditional crafting of metals. Seen in the 7th exhibition-edition of the Triennale Design Museum. - pag. 82 To the side: the Imboh seat by JoeVelluto (JVLT) aptly represents Designbottega, a project of JVLT with Alberto Savio of the Slam woodworking shop, to make objects with a high level of interaction and positive energy, rediscovering artisan woodworking techniques. Seen in the 7th exhibition-edition of the Triennale Design Museum. Below: Imprint is a set for the personalization of packaging, to create labels and containers. Designed by Laura Cipriani, Micol Poloni and Shuning Yan in the workshop Autoproduzioni Reloaded (teacher Stefano

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Interni aprile 2014 Maffei), focusing on the development of a product in all the production chain phases. - pag. 83 To the side: the Cases of Life kitchen set is a series of modular and multimateric containers, conceived for often temporary living conditions. Made by six Italian designers and eight artisans in the Vicenza region, with the support of CNA Vicenza and the supervision of the services platform Open Design Italia Factory. Below: Chocomatica is a home chocolate temperer made by Federico Digirolamo, Giorgio Forti and Marta Lo Bianco in Autoproduzioni Reloaded. The machine controls the melting of the chocolate to make homogeneous, high-quality bars.

Semantic spread pag. 84

photos Bill Durgin text Stefano Caggiano

Yesterday and today, ITALIAN DESIGN stands out for its METAPHYSICAL APPROACH that teaches us to welcome both the BODY and the SOUL of the object, or the sense of COMPLEXITY inherent in the human dimension

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nally, it teaches us to look at objects not as tools but as semantic spreaders, ‘animist’ presences (Andrea Branzi) that shape everyday meaning, just as heavenly bodies shape the gravitational patterns of the universe. - pag. 85 The American photographer Bill Durgin bends and folds the human body, photographing it in still lifes as if it were a thing. Nude and Still Life 4, 2009, 2 C-Prints 76.2 cm x 60 cm & 76.2 cm x 96.5 cm. - pag. 86 Bill Durgin, Attempt to Level, 2013, C-Print 76.2 cm x 101.6 cm. - pag. 87 Bill Durgin, Disruption 2013, C-Print 76.2 cm x 101.6 cm.

KarTeLL, 15 years of TransParency pag. 88 text Maddalena Padovani

With the Uncle Jack sofa, the largest piece ever industrially produced in polycarbonate, the company helmed by CLAUDIO LUTI renews a challenge that began in 1999 together with PHILIPPE STARCK. The steps in a Occidental knowledge has traditionally been divided into two main lines: tech- design success story that has changed the image of nical-scientific, on the one hand, oriented towards the description of reality PLASTIC IN EVERYDAY LIFE. And now sets its sights on (science) and efficient intervention (technique); and artistic-philosophical, more ambitious goals aimed at an understanding of the world (philosophy) and its interpretation from a human standpoint (art). These two great souls of knowledge operate with different, distinct kinds of logic, yet they do converge in the useful object. Italian design stands out precisely for its awareness of this complexity, with the goal of making the physical aspects of technique emerge in the poetry of form, a goal that dates back to the Renaissance, when the rediscovery of the great Greek philosophers and mathematicians opened the West to a new conception of man. With humanism, the awareness grew that man could gain access to comprehension of the world not only as revealed truth from religion (as had been the case for ten centuries with Christianity) but also by means of reason, penetrating reality with perspective and its effects. The figure of Leonardo, both an engineer and an artist, represents the prototype of the Renaissance genius, for whom science and philosophy, art and technique represent different ways of accessing the same reality: a reality penetrated, opened, recognized in its truth from a human standpoint. In this sense, science and technique embody tensions destined to dwell in the revelation of form, which is plastically manifested – and this is the point – in that ductile, versatile, articulated and ‘psycho-physical’ infrastructure composed of the system of objects, which given their materic-formal nature can be taken over by design just as poetry takes over language, to take it beyond itself, starting from the mystery of its contingency. It is this Italian approach to design, a Latin, Mediterranean, ‘metaphysical’ approach, that manages the examples of the world of objects just as one of the greatest Italian poets (and philosophers), Giacomo Leopardi, managed the examples of the world of language, using technical-poetic wisdom to shed light on the crude visage of the ‘real.’ Just as in the poetry of Leopardi form is not embellishment but an epiphany of content, so ‘Mediterranean’ design grows like the pressure of steam, to the point in which the material nature of the object is sublimated in the protruding plasticity of form. It is no coincidence that this dualism of the object, its being body and form, immanence and transcendence, is reflected in the dualism of the human body, which can be equally understood as a merely material ‘thing’ or as an acting, perceiving device, that supports the gravity of being, but not without freeing itself in the dance of becoming. Nor is it a coincidence that in German there are two terms to indicate the body: Leib, from the Old German leiben, ‘to live’; and Körper, the body seen as mere physical anatomy. Because the living body, though equipped with a physical dimension, is not reduced to only this, but reacts to the world, emanates and absorbs warmth, breaks up and reassembles to mingle with the body of the lover. The deeper meaning of useful objects can be properly understood only if we see them as participating in this living bodily nature. Thus, while I am writing I don’t need to think about the pen I am using, just as when I am walking I don’t have to think about my legs, because in that moment the pen is part of my living bodily nature, and I write by means of the pen just as I walk by means of my legs. Heir to the metaphysics that shines through things as through a filigree, or a daydream, the Italian school of design teaches us to grasp both the body and the soul of the object, caring not only for the instrument but also for the music it makes. It teaches us, when designing, to account for the ‘bodily’ complexity of objects, not only in the purely functional terms exclusively considered by pragmatic approaches. Fi-

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For the creator Philippe Starck, it is a declaration of intent, the metaphor of an evolutionary goal moving towards the progress that is a necessity of humankind. For the entrepreneur Claudio Luti, president of Kartell, it is essentially a technological and industrial challenge that began back in 1999 and has led to a recordsetting product, another case of his company’s talent for making history in the world of design. Transparency. It is hard to believe today, but it was just 15 years ago that this physical property of matter made its entrance on the scene of domestic objects industrially produced in plastic. And while polycarbonate is the material that has made the synthetic translation of a quality that always belonged to glass possible, Kartell is the company that has taken an important step in its big mission with this innovation: to make plastic a noble material in the design industry. We met up with the protagonists of this tale, Philippe Starck and Claudio Luti, during an encounter in the Kartell showroom in Milan. A few weeks before the Salone del Mobile 2014, it is time to plan new products to update the established collaboration between the design star and the company from Noviglio. On the worktable: drawings and prototypes of a new padded chair made with polycarbonate, and a set of accessories for the table. But the real news is elsewhere, of the kind that cannot be expressed in forms, but in numbers: a length of 1.8 meters, height of 95 cm, almost 29 kilos of weight. Which for a seat in transparent polycarbonate, made by injection in a single mould, represent an absolute record. Claudio Luti: “With the Uncle Jack sofa designed by Philippe Starck, which we will be presenting this year in the transparent version, we have achieved an important technological breakthrough. I don’t think any other company in the world would be capable of making this type of product on an industrial scale. We have reached the maximum of the possibilities that can be offered by one mould, thanks to enormous investment of human and economic resources. Already back in 1998, when we made the La Marie chair designed by Starck, it seemed like we had achieved unthinkable results. Even General Electric could not guarantee the total feasibility of the injection moulding of a polycarbonate chair weighing 3.5 kilos. We gradually moved on to bigger and heavier products, like the Ghost Buster bedside unit that weighed 18 kilos, and represented a true adventure due to its variable thickness. Then we made the Invisible table by Tokujin Yoshioka, which is still bigger, and raised further difficulties due to the flat surface, which precluded the possibility of even the slightest flaws. Finally, we reached the sofa and armchair of the Aunts and Uncles family, certainly the high point of our research on polycarbonate.” Philippe Starck: “This project marks a new phase of a process of innovation that began with Anna Castelli Ferrieri (the wife of Giulio Castelli, founder of Kartell, ed.), who was the great forerunner, the person to have the vision of noble plastic. Nothing so complicated to make has ever been seen before… We’ve been working on the prototype of the sofa for over a year and a half. One of the designers in our studio has been working only on this, 24 hours a day, for 18 months; he works on the lines, studies them, perfects them, so they will be compatible from both a physical and a ‘spiritual’ point of view.” What does transparency mean to you, in a design sense, but also from a more philosophical and personal standpoint? P.S. “Transparency is the result of an important process of evolution, inscribed in

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our DNA, which narrates our mutation. We have been amoebae, bacteria, fish, frogs, apes, super-apes, and we don’t know what we will become, according to clearly defined and recognizable lines of evolution. One of these guidelines is dematerialization, or the diminishing of matter in favor of an increase in the intelligence of the things produced by man. Today we are living in a situation of great fragility; the lack of balance and instability of the ecosystem make the human species run the risk of vanishing in the future. The extraordinary thing is that for the first time we can truly predict our epilogue, measure it, and come to grips with the history of past civilizations that vanished due to ecological causes and bad management of resources. From this viewpoint transparency – in keeping with an approach that goes beyond the purely visual meaning – is the effect of the vanishing of many products, determined by human intelligence, though many others ‘resist’ because we still do not know how to eliminate or replace them with an alternative. For example, we have not yet found a way to do without furniture. But it is important to make people aware of what will happen, and one way to do that is to apply a visual metaphor of dematerialization. Not a challenge, but the reception of a clearly marked line of evolution.” Back in 1999, how did the La Marie project happen, the first chair in polycarbonate, which introduced the idea of transparency in the world of furnishings? P.S. “The idea was to reduce my intervention on everything, to radically do ‘as little as possible.’ That meant also reducing style, which vanishes completely in this project. La Marie is the expression of what you can produce with a mould, with minimum human and cultural intervention, and minimum design. La Marie is not designed; it is defined by the flow of liquid plastic in a mould. It also makes use of a minimum of material, which we intentionally weighed gram by gram. Even its presence is minimum, because it is a transparent chair that can be perceived only at ‘second glance’: to see it, you have to make a choice.” From an expressive viewpoint, what has this innovation meant to you? P.S. “It was a sort of obligatory step, because you cannot construct anything without returning to the ‘fundamentals.’ La Marie is a ‘fundamental principle’ that has allowed me to become aware of an important fact: after eliminating any material aspect, what remains is the intangibility of the relationships between people, sentiment and affection. So once La Marie had been invented, I went back to the idea of immateriality and I added an affective dimension through collective occidental memory. This led to the Louis Ghost, which is simply a La Marie enriched by the collective memory of all the millions of people who have lived in the past and present.” After the famous Louis Ghost with the oval back and its 18th-century overtones, then came Mr Impossible with the two-tone chassis, another seat designed by Starck for Kartell that marked a technical and linguistic evolution of polycarbonate in the world of design. P.S. “They are versions of the same concept of the minimum introduced by La Marie: Louis Ghost adds the sentiment of the past; Mr Impossible the sentiment of the future.” C.L. “In general, the collaboration between Kartell and Philippe Starck has led to many innovations that have to do with the aesthetic conception of plastic. With the Dr Glob chair in 1985, for example, we experimented for the first time with the pairing of two different materials, but also the matte finish of the plastic, the making of angular forms and bigger thicknesses than those used in the past. We also worked on the touch of the plastic, achieving a softer effect, and on the coloring, convincing the producers of the raw material to get away from their standard charts and to develop different colors, specific for each product. When we presented the Dr Glob everyone was pleasantly surprised, because plastic had taken on a completely different identity.” What are the material concepts that interest Philippe Starck the most today in design? P.S. “First of all, the materials that are still not known today and will constitute the ‘post-plastic’ era. We all know that petroleum is going to run out in a span of 25-35 years; this might not be important in terms of energy, given the development of new energy sources, but it will have an impact on petrochemicalbased plastic products, which cannot be replaced. At the moment there is no alternative to polycarbonate to make the Louis Ghost or La Marie. Today we can make chairs with recycled plastics and salvaged materials, which I have already done, but we are not able to achieve the structural quality and transparency of a Louis Ghost. And this is a very big problem. Plastic, as we know it today, will vanish, and be replaced by plastic materials of much lower quality. They will not be able to offer the same performances, the same services. The most important task for manufacturers, then, is to conduct research and to invest in the post-plastic materials.” For Kartell, on the other hand, what are the most important challenges of the present and the near future?

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C.L. “At present Kartell operates in 140 countries, with a collection that includes over 150 product families, created by the most outstanding international designers. Our mission is to continue to expand the productive vision, keeping faith with our industrial character. The two main goals are: to widen sales channels and to widen our product offerings, because today there is not only retail, but also contract and online sales. Luckily our company can afford to invest, so we are looking around to find the many opportunities the world offers us today. The market has never been as big as it is now. Even though Italy and southern Europe are going through a serious crisis, the challenges of foreign markets are many, and a strong trademark on an international level like Kartell certainly cannot miss the chance to meet those challenges.” What is the next innovation Philippe Starck would like to develop with Kartell? P.S. “Today we have to meet a challenge connected with a major paradox: on the one hand, we want industrial products that have all the qualities only industry can offer, while on the other we desire individual objects, because we are all different and we would all like things tailor-made for us. It is a problem that needs solving. The other challenge, of course, is that of the post-plastic era. What will Kartell do in the post-plastic era? Will it continue to exist? Of course it will. But it will have to work and to invest, to be ready for change.” - pag. 89 Claudio Luti, president of Kartell, and Philippe Starck (photo Nicolò Lanfranchi). Overlaid, a graphic game of the frame of the Mr. Impossible chair, 2008. - pag. 90 La Marie, 1999, the fi st chair in the world made with a single mould in transparent polycarbonate. - pag. 91 Louis Ghost, 2002, and Lou Lou Ghost, 2008, in a photo by Monica Spezia and Luca De Santis from the Kartell catalogue in 2009. Louis Ghost is one of the bestsellers of the company: since the fi st year of production, about two million pieces have been sold. - pag. 92 The Uncle Jim armchair (below) and the Uncle Jack sofa (facing page) are part of the latest “Aunts&Uncles” collection created by Philippe Starck, presented in an international debut at the Salone del Mobile in Milan in 2014. - pag. 93 The Uncle Jack sofa measures 180 cm and is a single block of 28 kg of transparent polycarbonate: an absolute record for a seat made with the industrial technology of injection moulding.

INdesign/INcenter

The evoLution of habit pag. 94 by Nadia Lionello photos Lorenzo Massi Ciccone, Giacomo Giannini, Efrem Raimondi

The new DOMESTIC DESIGN narrates a change, becoming innovative and timely for our everyday lives. The latest ideas speak NEW LANGUAGES for new and original photographic interpretations “The landscape where the subjects stand out are landscapes of the soul, memories, affects, delicate shadows on the point of vanishing. The link between common use, habitual movements and thoughts becomes profound. Inseparable, perhaps.” Lorenzo Massi Ciccone - pag. 94 Twist stools in two heights with structure in steel, painted white, black or red, seat with high-strength polyester weave, reinforced with nylon in contrasting color. Design by Emilio Nanni for Zanotta. Facing page, Web bookcase in a single size, 180x180x37 cm, in DuPont Corian® Glacier white. Design Daniel Libeskind for Poliform. - pag. 96 Fly table with steel base in the new black chrome finish top in Canaletto walnut. Designed by Antonio Citterio for Flexform. From the Flow seating family, swivel armchair in the new version with Lem base in painted steel tubing and wire, chassis in polycarbonate with glossy finish padded seat. Design Jean-Marie Massaud for MDF. - pag. 97 Ipnos indoor-outdoor floor lamp with structural skeleton in extruded aluminium, in natural anodized or black painted aluminium, copper or brass, with LED lights placed along the entire perimeter. Design by Rossi & Bianchi for Flos. Oasis outdoor stackable chair marked by the crossing of two painted aluminium tubes shaped to form armrests and back, attached to the perforated seat. Design Atelier Oi for Moroso.

“The title fully sums up my concept of representation. Everyday places and actions connected to habits for a background, and inside them products become actors that bring life to a poetic and pictorial dialogue that is a characteristic of my style.” Giacomo Giannini

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- pag. 98 LC5 sofa designed in 1934 by Le Corbusier with Pierre Jeanneret and Charlotte Perriand. Part of the Cassina I Maestri collection, reissued by Cassina in the two and three-seat versions with structure in shiny chromium-plated steel tubing, or painted in six glossy colors or matte black; cushions fil ed with down, with expanded polyurethane insert, covered in leather or fabric. Tobi-Ishi table in the new version with rectangular top, rounded at the ends, in MDF wood fibe , legs in high-density polyurethane resin (Baydur®). Made with satin lacquer finish in 16 co ors, Candy Red and Smoke Blue glossy lacquer, black cement ceruse. Design by Barber&Osgerby for B&B Italia. - pag. 99 Basket indoor-outdoor chair with seat in technopolymer and metal base, featuring the possibility of applying different types of bases and padded covers for the seat. Designed by Alessandro Busana for Gaber. Opera table with structure in solid natural or gray stained maple, natural oak, teak and birch plywood with matte paint finish in a ange of colors. Available in two oval and round sizes, 160 cm in diameter. Design Mario Bellini for Meritalia. - pag. 100 Cosse two or three-seat divan with mechanically welded steel structure, polyurethane fil er and covering in two types of fabric – designed by Bertjan Pot – with support base in solid natural or stained beech. Also with footrest. Design Philippe Nigro for Ligne Roset. Dragonfly cantilevered chair with structure in painted oval steel tubing, chassis in recyclable polypropylene reinforced with fibe glass, injection moulded. Design Odo Fioravanti for Segis. - pag. 101 Jagger table with glossy painted steel base and top in walnut, heritage oak or natural oak, available in lengths of 200, 250 and 300 cm. Design Andrea Lucatello for Cattelan Italia. Self Up cabinet with continuous top in glossy or matte painted glass; sides, hinged doors and push drawers covered in painted glass with aluminium borders and open compartments in painted wood. Design Giuseppe Bavuso for Rimadesio.

“The concept of evolution is generally associated with a slow pace, and the era we are living through imposes a change of habits. This is why I have chosen nocturnal nighttime settings, an extraneous place, not a time. Hence the feminine, rather surreal figure: almost an apparition… like the protagonist of any metropolitan legend. Habit also has to do with perception, of objects and their habitat. This is the era of fracture. In the normally slow dynamic of evolution, it sometimes happens.” Efrem Raimondi - pag. 102 Gina chair with seat in extruded polycarbonate, made by hand in different shaded and semitransparent colors: sapphire blue/aquamarine; gold/topaz; emerald green; ruby red; on legs in wood or aluminium, painted glossy black. Design Jacopo Foggini for Edra. Peg table in two sizes, made of solid ash. Design Nendo for Cappellini. - pag. 103 Zippo two-seat sofa for the office and cont act, with armrests and back in two different heights; structure in painted steel tubing or aluminium, with flamep oof variable-density polyurethane fil er; covered in fabric or eco-leather, with a zipper along the whole edge. Designed and produced by Pedrali. - pag. 104 Wave bench with seat in sheet steel and curved back, painted in slate gray or matte white. Part of the Softer than Steel collection. Designed by Nendo for Desalto. Anin stool in milled and powder-coated aluminium, cushion covered in leather or fabric. Design David Lopez for Living. - pag. 105 Controra armchair from the collection of the same name, which includes divans and benches, with structure in walnut or black oak, cantilevered surface, cushions with removable fabric or leather covers. Feet in shiny aluminium. Design Ron Gilad for Molteni.

The arT OF LIGHT pag. 106 photos Miro Zagnoli text Nadia Lionello

LUMINOUS SCENARIOS with LED LAMPS. New TECHNOLOGY that illuminates and helps to create unexpected theatrical effects - pag. 106 Typha, an outdoor fixtu e for LEDs, composed of diffusers with double tubing, in methacrylate on the inside and polycarbonate on the outside, complete with lower support in stainless steel for multiple installation on a base set into the ground with an LED circuit, or for single installation with a stake. Designed by Susana Jelen + Eduardo Leira for iGuzzini. - pag. 107 Punctum LED floor lamp designed for corners, made with a sheet of mirror-finish steel, also in a wall version. Designed by Nigel Coates for Slamp. Scrittura LED lamps, in 1-meter modular components, made of painted aluminium, with emission of white and RGB light controlled by Hand Gesture from a distance. Design by Carlotta De Bevilacqua with Laura Pessoni for Artemide. - pag. 108 Wa Wa LED floor lamp with base and tubular stem in nickel-plated metal, sliding rods in nickel-plated copper, small flex nickel arm, light points with glass lenses, Ø 32 mm. Part of the Eco-Logic Light collection designed by Enzo Catellani for Catellani & Smith. - pag. 109 Synapse wall or ceiling lamp, seen here in the separé suspension version, composed of trilobate forms for an infinity f confi urations. The

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INservice TRAnslations / 147 polycarbonate module contains a printed circuit and three variable-color RGB LEDs, with a practical remote control. Designed by Francisco Gomez Paz for Luceplan. - pag. 110 Assolo LED lamp, for use with dimmer, with indirect lighting, in wall or ceiling models with structure in white or black painted metal, or in personalized RAL or NCS colors. Designed by Luta Bettonica for Cini&Nils. Archetto Flexible, a luminous line for direct or indirect lighting, available in three sizes with flexible structure in spring steel co-extruded in silicone, permitting the creation of arches and curves. Available in wall and ceiling versions, with built-in or remote drive. Design Theo Sogni for Antonangeli. - pag. 111 Ypsilon LED wall lamp in chromium-plated or white/black painted brass, built into the wall or attached outside it. Designed and produced by Panzeri.

INdesign/INprofile

The travels of GIuLIo CaPPeLLInI pag. 112 by Cristina Morozzi

A BUSINESS STORY made of meetings with special people and forays into the world to observe and understand what is happening in counties that do not have a strong design tradition “Cappellini was born by chance” Giulio Cappellini says, “without a preordained design. It was the result of my instinct and my natural curiosity, grated onto the small company founded by my father (just 15 employees), specializing in furniture, back in 1946.” After taking a degree in architecture in 1979 and working for a year in the studio of Gio Ponti, a direct experience with the great master that taught Giulio the love and devotion to design, he took part in the extraordinary atmosphere of those years of Italian design, and decided to enter his father’s company. The nucleus already existed, and Giulio had a great desire to look around, beyond the Italian borders. So he began to travel, to meet creative people, to observe and understand what was happening in countries that do not have a strong design history like that of Italy. “My dream,” Cappellini continues, “would be to organize a day, maybe on Lake Como, with all the personalities who have passed through the company. It would not be easy, though, because there would be more than a hundred of them.” Because his choices have always been instinctive, from the gut rather than from reasoning, Giulio likes to remember the circumstances, or the dazzlements, that stimulated him to make contact with designer who later became his traveling companions. He recalls falling in love with a chair by Ross Lovegrove, at the Design Museum in London, and managing to bring Lovegrove to Italy immediately, in spite of the doubts of the director at the time. Or being stunned by the prototype of the Thinking Man’s Chair by Jasper Morrison, which he saw at Aram in London, in the exhibition for the gallery’s 25th anniversary. “I went straight to the small home-studio of Jasper,” he remembers. “I talked and he sipped from a glass of water. That meeting led to a very important story for the company: 25 years of collaboration, representing 50% of Cappellini’s sales and a very special human relationship. With Jasper we don’t only talk about projects, but also about corporate strategies, trends... He’s a bit like my shrink!” He continues to reminisce. “Tom Dixon was pointed out to me by Franca Sozzani. He had a tough image but a gentle soul, and my craftsmen were happy to work with him because he does not draw, but works directly on the material.” He remembers meeting Shiro Kuramata in his studio in Tokyo, while he was designing his ideal city, with houses built on trees. Or Zanini de Zanine, who Rio de Janiero took him to visit the favelas, impressing him with the image of bundles of hanging electrical wires. He does not take photographs, but likes to travel with a notebook, always ready to fill his eyes with images that will resurface sooner or later. “The encounters with special people,” he says, “represent a great gift, but you do not receive it by chance, you have to deserve it and be open to surprises.” Encounters and images of the world are traces and stimuli that nourish an insatiable curiosity and the life of Giulio, as well as his activity as an entrepreneur and a designer. Curiosity takes him around the world, to countries that are just approaching design, like Africa, and it prompts him to explore experiences in other sectors as well. At the Geneva Auto Show (6-16 March 2014), the historic Florentine brand Pasquino Ermini, recently revived, presented the sports roadster Seiottosei, with bodywork and interiors designed by Giulio Cappellini. “Working on the car,” Giulio says, “has been very interesting: it put me in touch with a category I did not know, the men who make bodywork, and with the dimension of things made to measure,

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which is much more widespread in the automotive sector than you might think.” During the Salone del Mobile in Milano this April a new collection of bags designed by Nendo will be presented by Colombo, the historic Milanese leather goods company where Giulio is the art director, which was recently acquired by Samsung. For the Cappellini brand, instead, small projects by Zaven, Antonio Forteleoni and Matteo Zorzenoni are in the works, as well as new products by Nendo and Jasper Morrison, and two reissues of Kuramata. The capacity to be surprised and the conviction that there is still much to be done in design make the designer-entrepreneur, in spite of his 60 years, have a youthful attitude, always ready to set off on new voyages. He likes to intervene in the projects of others, to work as part of a team: he is an architect and a designer, but more than objects, he is interested in creating companies and work groups. A tireless multidisciplinary figure, always ready for a challenge, also in educational projects. He is involved as the art director of the Design School of Istituto Marangoni, where he also designed the interiors. His interest in communication comes from his desire to see Cappellini products enter people’s homes. He wants to take design to the street, setting up festivals and processions, like the epic event of Franco Moschino for the opening of the first boutique in Milan. “You need to sell people dreams,” he concludes, “so presentations have to be parties...”. Most of his have been memorable. In a historical moment obscured by prudence, an entrepreneur who defines design as a dream is quite striking: it implies a cheerful image of the discipline, opening up hopes for the next generation of designers. - pag. 113 On the facing page: Giulio Cappellini behind the Cloud bookcase by Ronan and Erwan Bouroullec, 2004, one of the iconic pieces of the Cappellini collection. Left, the prototype of the Seiottosei sports car by Pasquino Ermini of Florence, for which Giulio Cappellini has designed the bodywork and the interiors, in Alcantara. Above, sketch of the bag created by Nendo for Colombo, the historic Milanese leather goods brand, for which Giulio Cappellini is the art director. To the side, historic and new products of the Cappellini collection. From the top: the Pylon Chair, in metal, designed by Tom Dixon, 1992; the curved Wooden Chair, design Marc Newson, 1992; the Acciaio Lounge from the Cappellini Next series, design Max Lipsey, 2013; the Tulip chair, design Marcel Wanders, 2009; Thinking Man’s Chair, design Jasper Morrison, 1998; Voir centerpiece from the Progetto Oggetto collection, design Leonardo Talarico, 2014. - pag. 114 Three settings made by Giulio Cappellini for the presentation of the Cappellini collection. From the top: the stand at the Salone del Mobile in Milan, 2013; the installation at the Fabbrica del Vapore, done by Paola Navone, April 1993; the display created by Achille Castiglioni for the Furniture Fair in Cologne in 1998, in the abandoned Deutz factory. - pag. 115 Two other iconic pieces from the Cappellini catalogue: the Side drawer unit designed by Shiro Kuramata in 1970, produced since 1977, and the Drop two-sided bookcase columns presented in 2012, designed by Nendo.

INdesign/INproject

Crossover interpretation pag. 116 text Valentina Croci

To celebrate the 75th year of KNOLL, the architect DAVID ADJAYE has designed a COLLECTION OF FURNISHINGS that interprets the VISION OF THE HISTORIC BRAND, in keeping with the principles of his architectural research When it comes to honoring a well-known, historic company like Knoll, the task is not an easy one, because the expectations are high and products might be too technical or too nostalgic in their aesthetic. The London-based architect of Tanzanian origin David Adjaye has decided to focus on technical ability and the capacity to interpret materials, wagering on the elements shared by his design approach and the American company. “I wanted to transfer a series of recurring themes in Knoll’s furniture: monumentality, materiality and history, aspects I also look for in my architecture. Instead of making a product, I wanted to express a personal idea of materials, silhouettes and forms. I had never designed furniture, just objects. It is very different, because furniture can be used by anyone, in any place, unconsciously, in everyday life. Like a sort of backdrop. And there is something very interesting and appealing about that. I like the idea that questions that arise in specific conditions, to which I have given form, can become part of a common world,” Adjaye explains. One year after the presentation of the project by Rem Kool-

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aprile 2014 Interni haas, the Washington Collection confirms Knoll’s commitment to the domestic sector. “We want to build the residential sector, complementary to the business and office sector, to position ourselves as the world leader in interior furnishings,” says Andrew Cogan, president of Knoll. “We have rebalanced our offerings with the works of Edward Barber and Jay Osgerby, and the Washington collection by the innovative David Adjaye (now being launched on the European market). Furthermore, we have recently acquired Holly Hunt, one of the top brands of residential design, with remarkable collections of furnishings, lights and coverings, a network of showrooms in North America, Sao Paulo and, soon, in London. Home furnishings represent about 25% of Knoll’s sales, with potential for global growth. A dual perspective, residential and commercial, that reflects the total lifestyle vision of the two founders, Hans and Florence Knoll.” The Washington collection has a strong sculptural character and is composed, for the moment, of two folding dining chairs, one with a full nylon chassis, the other in aluminium, as well as a low bronze table. The use of different materials in the two chairs has led not only to different technological research, but also to distinct aesthetic results: lightness and a play of full and empty zones for the aluminium version; color and playfulness for the nylon. The latter has a reinforcement on the back of the chassis, adding important ornamental value. An appreciable factor if we consider that dining chairs are often seen mostly from the back. A clearly recognizable feature of both chairs are the two supports: “The cantilevered legs in my first sketches,” Adjaye points out, “summed up the image of a seated person, as if the chair could vanish while being used. The initial concept was enhanced during the collaboration with the Knoll team, which developed the technology to have a flexible chassis and a T joint in metal [between chassis and legs, ed.] capable of standing up to strong pressures. So the result is a minimal object that can support over 130 kg. It is a collection that challenges materials and sculptural form, just like my architecture.” And Benjamin Pardo, Executive Vice-President for Design of Knoll, adds that it was precisely this leap of scale the company was looking for from the London-based architect, a kind of transfer of his innovative research. The seat is injection moulded in three parts – legs and body – with a mortise and tenon joint, closed by stainless steel. The leg is a single piece, reinforced inside by a sort of bracket in aluminium covered with nylon. The die-cast aluminium version is also in three pieces, connected with the same interlocks, and offering multiple finishes: from painted to natural, outdoor treatment to a patina of age. “The ribbing,” Adjaye continues, “was first developed for the plastic version and then modified for metal. The ribs are different in the two models, in terms of number and size, and depend on the structural behavior of the two materials, as well as the different pouring processes.” It is above all the Washington Corona table that shows the crossover between design and architecture implemented by David Adjaye. The base is composed of four panels with different lines in bronze, with organic forms, made with numerically controlled five-axis machines and polished by hand, covered on the outside by the same number of connecting segments, made with the technique of earth casting of bronze, with its typical rugged look. The plasticity of the inside is revealed only through the glass of the top. “The contrast between the two finishes of the structure,” Adjaye concludes, “is an investigation of the relationship between inside and outside, public and private, showing and concealing – opposites I generally explore in my work. The contrast also highlights a complementary structural work, in which form becomes structure. It is a surface that can be of use, but with a visual impact of its own.” The tables will be made in an edition of just 75 numbered pieces, to commemorate this important anniversary. - pag. 117 The nylon version of the table chair from the Washington Collection, produced by Knoll, shows the particular reinforcement ribbing that becomes an aesthetic feature. The shape of the ribs depends on the structural behavior of the material and the injection moulding process. On the facing page: the London-based architect of Tanzanian origin David Adjaye, seen together with the seats of the Washington Collection in the metal and nylon versions. - pag. 118 The metal chair is made in die-cast aluminium. It is produced in three pieces: the chassis and the two specular legs, connected by mortise and tenon joints in stainless steel. The shape of the ribbing is different from that of the nylon version. The drawing shows the clear overhang and the slenderness of the seat, which can nevertheless support over 130 kg. Below: the chassis of the chair in nylon, made with injection moulding. - pag. 119 The Washington Corona table is a limited edition of 75 pieces, for the 75th anniversary of Knoll. The particular feature is the bronze base, composed of an internal part with an organic form and a reflecting surface, and an external part left rough. The outer texture is obtained by casting the bronze in earth, for a characteristic rugged look. The based is covered by transparent glass to reveal the contrast.

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MarCeL pinned up at the STeDeLIJK pag. 120 by Olivia Cremascoli

WONDER WANDERS has been invited by what just may be the most important museum of contemporary art in Europe to display the results of 25 YEARS OF HIS irresistibly flamboyant CAREER John Hitchcox, one of the world’s most powerful real estate tycoons, and a partner of Philippe Starck, said in 2008 that “for years Philippe has been telling me that Marcel Wanders is the next Philippe Starck.” The ‘challenge’ between the two titans has reached a turning point in 2014: the Stedelijk Museum of Amsterdam, a super-institution universally considered a ‘beacon’ by initiates of modern and contemporary art, has honored Wanders with “Pinned Up. 25 Years of Design” (until 15 June), curated by Ingeborg de Roode, curator for industrial design at the Stedelijk (www.stedelijk.nl). An exhaustive retrospective, with certain phantasmagorical parts, Pinned Up consecrates the handsome Marcel (Boxtel, 1963) – pictured, for the occasion, as a dried up butterfly attached with a pin at the center of a museum frame – as a divinity on the Mt. Olympus of international design. More than 400 objects that will make even the most jaded scribes in the sector exclaim, “wow, he has designed lots of stuff!” The show is surprising not for the best known projects, which in the end are almost over-inflated (first of all the iconic Knotted Chair, 1995-96, for Droog Design, Cappellini and later for the Personal Editions of Wanders himself), but for those we knew little or nothing about, since they are minimum (in size) and even minimal (an attitude Wanders seems to have shunned in recent years). As for the tiny works, the Dutch designer can boast of having made an infinite number: from cosmetics projects for the Japanese giant Cosme Decorte/Kosé (not just packaging, but also amazing decorative motifs imprinted right on lipstick or powder), to the sculptural double container for the perfume Vice & Virtue (2010); from the suave Pearl Necklace (1995) to the Corona de Agua (2001), a tiara for the engagement of Maxima with Willem-Alexander, now the royals of Holland; from the Lijstbroches portrait pins for Galerie Ra to the Turned Arm (2013) sunglasses for Marks & Spencer; from the Wapper umbrella (1989-2014) for Galerie Coumans to the very colorful Patchwork plates (2003) for Koninklijke Tichelaar Makkum; from the Wattcher plugs (2009) for Innovaders, to control electrical consumption, to the tattoos created for the Dutch pianist Iris Honde... What strikes us about Wanders is also his apparent nonchalance regarding the ‘making’ of his projects: on an industrial level, in limited editions or just by hand, the manufacture never seems to be his primary concern, though it is clear that most of the royalties must come from industry. After all, as one critic has written, “though the profession of the industrial designer calls for ongoing, substantial research – testing of materials, techniques and processes – Wanders prefers to be seen as a sort of storyteller rather than an engineer.” His love of the chisel, of arabesques and lace-like textures (“Less is more – he says – has been a pathological delusion”), his talent for ornament, Adolf Loos notwithstanding, become understandable after seeing the show in Amsterdam: in fact, after the Design Academy of Eindhoven, Marcel Wanders took a jewelry design course at the Academy of Fine Arts of Maastricht. This helps us to decipher his passion for decor and craftmanship, which has led him to design not only a remarkable quantity of jewelry – like the Rainbow necklace, 2007, which he always wears – but also chased flatware like Dressed (2011) for Alessi, arabesque crystals for Baccarat (2010), and the hyper-crafted series One Minute Delft Blue, 2006, for Personal Editions, and Delft Blue, 2009, for Moooi, where each piece is crafted and painted by hand at the glorious Royal Delft factory, in the city of the same name where Vermeer was born (www.holland.com). Wanders deserves credit for great design versatility, even in interiors, where his Byzantine spirit can really thrive: just consider the Mondrian Hotel at Miami South Beach, the Andaz in Amsterdam, the Lute Suites of Ouderkerk aan de Amstel (Holland), or the projects still in progress, like the Mondrian Doha (slated to open at the end of 2014) and the Quasar apartment building in Istanbul (to open in 2015), whose Quasar Head, an impressive two-sided sculpture, represents Asia and Europe, and is now in the show at the Stedelijk Museum. - pag. 120 Opened at the end of 2012, the new wing of the Stedelijk Museum (1895) of Amsterdam, designed by Mels Crouwel of the Dutch studio Benthem Crouwel Architekten.

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INservice TRAnslations / 149 Photo John Lewis Marshall. - pag. 121 On this page, from top: project for the lobby of the Quasar apartment building in Istanbul, due to open in 2015; The Killing of the Piggy Bank vase (left) for Moooi and an experiment, with the Dutch Royal Delft factory, of three of the five tattoos the design has created for the hands and forearms of the Dutch classical pianist Iris Honde. On the facing page: the famous Rainbow necklace Marcel Wanders designed for himself (Personal Editions) with boules of Baccarat crystal, Bisazza mosaic tile, the golden logo of Nosé, etc.); the poster for Pinned Up. 25 Years of Design, the solo show at the Stedelijk Museum in Amsterdam, until 15 June, of the works of Marcel Wanders. - pag. 122 On this page, from left: two views of the so-called ‘light’ or ‘white’ zone (as opposed to the ‘dark’ or ‘black’ part, on the facing page) of Pinned Up. 25 Years of Design, the solo retrospective on Marcel Wanders at the Stedelijk Museum of Amsterdam; the lobby of the Andaz Hotel in Amsterdam, entirely designed by Wanders and furnished by Moooi, which the designer cofounded together with Casper Vissers. - pag. 123 From the top: panoramic view of the exhibition Pinned Up. 25 Years of Design: the hassocks in Bisazza mosaic tile, the backdrop of the Swarovski Crystal Palace, the candelabra of Baccarat and the Big Shadows floor lamps by Cappellini. Above: detail of the Wallflower Bouquet for Flos and Personal Editions; to the side, part of the very large United Crystal Forest collection (2010) for Baccarat.

INdesign/INproduction

Look beyond pag. 124 photos Katrin Cosseta image processing by Enrico Suà Ummarino

Variations on the theme of TRANSPARENCY, between sign and MATERIAL. The ability of design to create EMPTINESS and to shape the weightless force of light that crosses materials - pag. 125 Facing page: Arabesque by 3D Surface, a wall perforated by polyhedral geometric patterns, in fiber-reinforced ceramized mortar for indoor and outdoor use. Tron table by Marc Sadler for Capo d’Opera with base in steel screen, with welded asymmetrical modules, top in beveled transparent glass or wood. This page: Lightben Kaos 3D black by Bencore, a composite panel for interior architecture with external skin in acrylic and transparent polycarbonate and circular cells of different diameters, ideal for backlit surfaces. Chair from the Engineering Temporality collection by Tuomas Markunpoika, a limited edition of 12 pieces made with welded steel rod, distributed by Fumi Gallery. - pag. 126 Suspended divider designed and produced by De Castelli, composed of modules in laser-cut stainless steel. Gallerist display case by Christophe Pillet for Lema, with structure in bronze-plated metal and glass door. Cyborg chair by Marcel Wanders for Magis, with seat and legs in air-moulded polycarbonate, back in injection-moulded polycarbonate. - pag. 127 Oltreluce Circles Clearvision panel in decorative printed glass by Michele De Lucchi for AGC Flat Glass Italia, with relief bubble pattern, for applications of furnishings or architecture in indoor or outdoor contexts. Rotating Glass Shelf by Nendo for Lasvit, with birch plywood structure and ‘doors’ formed by glass disks. Connection Double table by Massimo Castagna for Gallotti&Radice, with top in extralight tempered 12 mm glass, structure in handburnished brass. - pag. 128 Hexaben Large by Bencore, a composite panel with inner core in honeycomb aluminium, external acrylic cladding, for doors, dividers, counters, suspended ceilings. Afillia suspension lamp by Alessandro Zambelli for .exnovo, with sintered polyamide diffuser and pine support. Bedside table from the Industrielle collection by Paola Navone for Baxter, with painted perforated sheet metal structure and decorative handle in Nabuck leather. Tube stackable chair by Thesia Progetti for Natevo, with structure in steel tubing, seat in elastic screen. Available in 3 colors. - pag. 129 Tempered 8 mm glass panel by Vismaravetro with Connessioni decoration by Carmen Bruno from the Personal Glass line, featuring digital printing with special ceramic paints. For shower stalls and other interior design elements. Ovidio stool by Paolo Cappello for Fiam, in transparent welded 15 mm glass, seat in natural or stained beech. Deep Sea bookcase and low table by Nendo for Glas Italia, in extralight layered thermowelded transparent glass, in tones of gray or blue, with mirror base. Seat from the Man Machine collection by Konstantin Grcic for Galerie Kreo, in panes of industrial float glass connected by black silicon and a gas piston to permit light movement. - pag. 130 From Vitrealspecchi, the Aqua Cristalli panel in monolithic float glass with chemically worked texture on one side. The sheets (2250 x 3210 mm) can be used for glazings, furnishings and construction. Parachute suspension lamp by Nathan Yong for Ligne Roset, with modules for configuration in different forms in black painted steel wire. New Sander glass table by Chris Martin for Massproductions. Chair from the Drawing Series, designed and produced by Jinil Park, in black painted metal wire. - pag. 131 The i.light panel of ‘transparent cement’ by Italcementi, made by blending particular plastic resins with a new kind of cement mixture, suitable for use in architecture and furnishings. Shelving from the April, May, June collection by Gino Carollo for Bonaldo, in metal, painted in 4 colors. Drapée chair by Constance Guisset for Petite Friture, in epoxy-coated steel wire.

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aprile 2014 Interni

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N. 640 aprile 2014 April 2014 rivista fondata nel 1954 review founded in 1954

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Nell’immagine: un dettaglio del bagno optical nell’abitazione milanese dell’architetto-designer Diego Grandi.

In the image: detail of the optical bath in the Milanese home of architect-designer Diego Grandi. (foto di/photo by Helenio Barbetta)

redazione/editorial staff MADDALENA PADOVANI mpadovan@mondadori.it (vice caporedattore/vice-editor-in-chief) OLIVIA CREMASCOLI cremasc@mondadori.it (caposervizio/senior editor) LAURA RAGAZZOLA laura.ragazzola@mondadori.it (caposervizio/senior editor ad personam) DANILO SIGNORELLO signorel@mondadori.it (caposervizio/senior editor ad personam) ANTONELLA BOISI boisi@mondadori.it (vice caposervizio architetture/ architectural vice-editor) KATRIN COSSETA internik@mondadori.it produzione e news/production and news NADIA LIONELLO internin@mondadori.it produzione e sala posa production and photo studio rubriche/features VIRGINIO BRIATORE giovani designer/young designers GERMANO CELANT arte/art CRISTINA MOROZZI fashion ANDREA PIRRUCCIO produzione e/production and news DANILO PREMOLI hi-tech e/and contract MATTEO VERCELLONI in libreria/in bookstores TRANSITING@MAC.COM traduzioni/translations

Nel prossimo numero 641 in the next issue

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Interiors&architecture il progetto gioca in trasferta an away game for design

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ARNOLDO MONDADORI EDITORE 20090 SEGRATE - MILANO INTERNI The magazine of interiors and contemporary design via Mondadori 1 - Cascina Tregarezzo 20090 Segrate MI Tel. +39 02 75421 - Fax +39 02 75423900 interni@mondadori.it Pubblicazione mensile/monthly review. Registrata al Tribunale di Milano al n° 5 del 10 gennaio1967. PREZZO DI COPERTINA/COVER PRICE INTERNI € 8,00 in Italy PUBBLICITÀ/ADVERTISING MEDIAMOND S.P.A. via Mondadori 1 - 20090 Segrate Divisione Living Vice Direttore Generale: Flora Ribera Responsabile commerciale: Alessandro Mari Coordinamento: Silvia Bianchi Agenti: Margherita Bottazzi, Alessandra Capponi, Ornella Forte, Mauro Zanella Tel. 02/75422675 - Fax 02/75423641 e-mail: direzione.living@mondadori.it www.mondadoripubblicita.com Sedi Esterne/External Office : LAZIO/CAMPANIA CD-Media - Carla Dall’Oglio Corso Francia, 165 - 00191 Roma Tel. 06/3340615 - Fax 06/3336383 mprm01@mondadori.it LIGURIA Alessandro Coari Piazza San Giovanni Bono, 33 int. 11 16036 - Recco (GE) - Tel. 0185/739011 alessandro.coari@mondadori.it PIEMONTE/VALLE D’AOSTA Luigi D’Angelo Via Bruno Buozzi, 10 - 10123 Torino Cell. 346/2400037 luigi.dangelo@mondadori.it EMILIA ROMAGNA/SAN MARINO/TOSCANA Irene Mase’ Dari / Gianni Pierattoni Via Pasquale Muratori, 7 - 40134 Bologna Tel. 051/4391201 - Fax 051/4399156 irene.masedari@mondadori.it TRIVENETO (tutti i settori, escluso settore living) Full Time srl Via Dogana 3 - 37121 Verona Tel. 045/915399 - Fax 045/8352612 info@fulltimesrl.com TRIVENETO (solo settore Living) Paola Zuin - Cell. 335/6218012 paola.zuin@mondadori.it; Daniela Boscaro - Cell. 335/8415857 daniela.boscaro@mondadori.it ABRUZZO/MOLISE Luigi Gorgoglione Via Ignazio Rozzi, 8 - 64100 Teramo Tel. 0861/243234 - Fax 0861/254938 monpubte@mondadori.it PUGLIA/BASILICATA Media Time - Carlo Martino Via Diomede Fresa, 2 - 70125 Bari Tel. 080/5461169 - Fax 080/5461122 monpubba@mondadori.it CALABRIA/SICILIA/SARDEGNA GAP Srl - Giuseppe Amato Via Riccardo Wagner, 5 - 90139 Palermo Tel. 091/6121416 - Fax 091/584688 email: monpubpa@mondadori.it MARCHE Annalisa Masi, Valeriano Sudati Via Virgilio, 27 - 61100 Pesaro Cell. 348/8747452 - Fax 0721/638990 amasi@mondadori.it valeriano.sudati@mondadori.it

ABBONAMENTI/SUBSCRIPTIONS Italia annuale/Italy, one year: 10 numeri/ issues + 3 Annual + Design Index € 64,80 (prezzo comprensivo del contributo per le spese di spedizione). Estero annuale/worldwide subscriptions, one year: 10 numeri/ issues + 3 Annual + Design Index € 59,90 + shipping rates. For more information on region-specific shipping rates visit: www.abbonamenti.it/internisubscription Inviare l’importo a/please send payment to: Press-Di srl Servizio Abbonamenti, servendosi del c/c. postale n. 77003101. Per comunicazioni, indirizzare a: Inquiries should be addressed to: Press Di srl – Servizio Abbonamenti c/o CMP Brescia – 25126 Brescia (BS) Tel. 199 111 999 (dall’Italia/from Italy) Costo massimo della chiamata da tutta Italia per telefoni fissi 0,12 € + iva al minuto senza scatto alla risposta. Per i cellulari costo in funzione dell’operatore. Tel. + 39 041 5099049 (dall’estero/from abroad) Fax + 39 030 7772387 e-mail: abbonamenti@mondadori.it www.abbonamenti.it/interni14 L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica cancellazione ai sensi dell’art. 7 del D.leg.196/2003 scrivendo a/The publisher guarantees maximum discretion regarding information supplied by subscribers; for modifications or cancel ation please write to: Press-Di srl Direzione Abbonamenti 20090 Segrate (MI) NUMERI ARRETRATI/BACK ISSUES Interni: € 10 Interni + Design Index: € 14 Interni + Annual: € 14 Modalità di pagamento: c/c postale n. 77270387 intestato a Press-Di srl “Collezionisti” (tel. 199 162 171). Indicare indirizzo e numeri richiesti. Per pagamento con carte di credito (accettate: Cartasì, American Express, Visa, Mastercard e Diners), specifica e indirizzo, numero di carta e data di scadenza, inviando l’ordine via fax (+39 0295970342) o via e-mail (collez@mondadori.it). Per spedizioni all’estero, maggiorare l’importo di un contributo fisso di € 5 70 per spese postali. La disponibilità di copie arretrate è limitata, salvo esauriti, agli ultimi 18 mesi. Non si accettano spedizioni in contrassegno. Please send payment to Press-Di srl “Collezionisti” (tel. + 39 02 95970334), postal money order acct. no. 77270387, indicating your address and the back issues requested. For credit card payment (Cartasì, American Express, Visa, Mastercard, Diners) send the order by fax (+ 39 02 95103250) or e-mail (collez@mondadori.it), indicating your address, card number and expiration date. For foreign deliveries,add a fi ed payment of € 5,70 for postage and handling. Availability of back issues is limited, while supplies last, to the last 18 months. No COD orders are accepted. DISTRIBUZIONE/DISTRIBUTION per l’Italia e per l’estero for Italy and abroad Distribuzione a cura di Press-Di srl L’editore non accetta pubblicità in sede redazionale. I nomi e le aziende pubblicati sono citati senza responsabilità. The publisher cannot directly process advertising orders at the editorial offices and assumes no responsibility for the names and companies mentioned. Stampato da/printed by ELCOGRAF S.p.A. Via Mondadori, 15 – Verona Stabilimento di Verona nel mese di marzo/in March 2014

Questo periodico è iscritto alla FIEG This magazine is member of FIEG Federazione Italiana Editori Giornali © Copyright 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. – Milano. Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono.

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