Interni Magazine n.603 (07/08 2010)

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THe MaGazInE OF INTeRIors AND coNTeMPoraRY DesIGN N° 8 LuGLIo-aGosTo JULY-AUGUST 2010 MensILe/monTHLY ITaLIa € 10,0

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INteriors&architecture Case BeLveDere Roma. MAxxI e MacRo INtoday L’ITaLIa DeGLI InnovaTorI INdesign Tavoli outdoor Cemento new performance Technogreen

Seoul 2010

World Design Capital Seoul Design Fair I giovani designer Le grandi opere Le mostre-evento

DesIGNPIercING Ron GILaD 2_c_In603_cover.indd 1

wITH comPLeTe EnGLisH TexTs

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INdice/contents luglio-agosto/July-August 2010

INterNIews INternational 13

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34 37 41 IN copertina: anelli luminosi a Led sembrano perforare il muro nell’installazione realizzata da Flos presso Superstudiopiù in occasione del FuoriSalone di Milano (19-24 aprile 2010). Si tratta di una composizione multipla della lampada da parete wallpiercing, progettata da Ron Gilad e composta da un corpo principale dissipatore di calore in alluminio pressofuso e da una fonte luminosa 35 top LED. Pensata per ridurre al minimo l’impatto visivo, la lampada fa parte del progetto softarchitectural che sviluppa l’idea di integrare i led in pareti e soffitti. on the cover: luminous LED rings seem to perforate the wall in the installation created by Flos at Superstudiopiù during the FuoriSalone in Milan (19-24 April 2010). This is a multiple composition of the Wallpiercing wall lamps designed by Ron Gilad, with a main heat dissipator volume in die-cast aluminium and a 35 top LED light source. Conceived to reduce visual impact to a minimum, the lamp is part of the Soft-Architectural project that develops the idea of building LEDs into walls and ceilings.

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designer

seoul design olympiad 2009 woofer design SEOUL-MILAN DESIGN fiere fairs seoul design fair 2010 cultural design of korea, china and japan in everyday life musei museums incheon triennale

case history

oriental cultural design center progetto città CITY PROJECT Songdo, la città che non c’era/the city that wasn’t there produzione production SAMSUNG LG ELECTRONICS LG Hausys lee geejo

food design

kwangju royal kiln 60

project

Hanssem.co: Tra oriente e occidente Between East and West il tempio di Creadesign/The temple of Creadesign choi byunghoon: design spirituale/Spiritual Design 66

showroom

design made in italy a/in seoul INitaly 72

project

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luce italiana su shanghai/Italian light in Shanghai concorsi competitions AUDI: città e mobilità/Cities and Mobility

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scholtès

Cucina d’autore/Signature kitchen INservice

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traduzioni translations indirizzi firms directorY

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INdice/CONTENTS II

INtopics 1

editoriale editorial di/by gilda bojardi

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INteriors&architecture

case-belvedere nella natura e nuovi orizzonti urbani

belvedere-homes in nature and new urban horizons a cura di/edited by antonella boisi 2

corea del sud, nei dintorni di seoul, clubhouse padiglione sostenibile/Sustainable pavilion progetto di/design by Kyeong Sik Yoon (Kaci International) & Shigeru Ban foto di/photos by courtesy Shigeru Ban Architects testi di/texts by Alessandro Rocca e/and Clara Mantica

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seoul world design capital 2010 foto di/photos by SANTI CALECA, SERGIO PIRRONE, SEOUL DESIGN CENTER, korea tourism organization, yong-kwan kim testo di/text by GIULIANO MOLINERI

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australia, la casa-origami/the origami house progetto di/design by McBride Charles Ryan (Rob McBride e/and Debbie Lyn-Ryan) foto di/photos by John Gollings testo di/text by alessandro rocca

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spagna, la casa-albero nei boschi di ibiza

the tree house in the woods of Ibiza progetto di/design by Andrés Jacque Architects foto di/photos by Miguel de Guzmán testo di/text by Matteo Vercelloni 28

cile, le case di zapallar/the homes of Zapallar progetto di/design by Cristián Undurraga foto e testo di/photos and text by sergio pirrone

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italia, una villa sul lago lombardo

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a lakeside villa in Lombardy progetto di/design by Emilio Battisti foto di/photos by gabriele basilico testo di/text by antonella boisi 40

turchia, istanbul vakko center progetto di/design by rex foto di/photos by iwan baan testo di/text by alessandro rocca

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roma, maxxi e macro: coppia di donne vince

MAXXI and MACRO: a winning pair progetti di/design by Zaha Hadid, Odile Decq foto di/photos by Roland Halbe, Georges Fessy, Simone Cecchetti, Iwan Baan, Altrospazio testo di/text by alessandro rocca

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INdice/CONTENTS III

INsight 56

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INtoday 52

dreamlands di/by Matteo Vercelloni

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immaginare le direzioni future

Imagining future directions di/by Cristina Morozzi 60

santi, navigatori, poeti e innovatori

Saints, navigators, poets and innovators di/by Stefano Maffei INscape 64

l’epoca della moltitudine

The era of the multitude di/by andrea branzi 64

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INprofile 68

in cucina con ron gilad

In the kitchen with Ron Gilad a cura di/edited by Gilda Bojardi foto di/photos by Photo Tomoe

INdesign INcenter

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tavolate all’aperto Outdoor tables di/by nadia lionello foto ed elaborazione immagini di/photos and image processing by Enrico Suà ummarino INproject

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il senso e il mistero Meaning and mystery progetto di/design by Andrea Branzi testo di/text by Stefano Caggiano

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un gioco da esterni Outdoor games progetto di/design by Philippe Starck/Eugeni Quitllet testo di/text by Stefano Caggiano INview

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grigioverde Greengray di/by Laura Traldi INproduction

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techno-green relax di/by katrin cosseta

INservice 102

indirizzi FIRMS DIRECTORY di/by adalisa uboldi

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traduzioni TRANSLATIONS

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INtopics / 1

EDiToriaLe

V

i proponiamo un menu da grande festa d’estate per questo numero doppio che ci accompagna nei mesi di luglio e agosto. Un po’ perché “progettare è come cucinare” – ce l’ha ricordato di recente anche il giovane designer Ron Gilad incontrato nella sua casa-studio di New York – un po’perché sapori, gusti, interpretazioni eterogenei e trasversali sono davvero la ricetta base per esplorare i territori di una creatività ad ampi orizzonti, alto grado di sperimentazione e sostenibilità. Il primo menu segue il ritmo consueto dei numeri estivi, a partire dalle architetture che assaporano il piacere di monitorare spettacolari case-belvedere nella natura. Dalla Corea del Sud all’Italia, dal Cile all’Australia e alla Spagna, tutte caratterizzate dall’accurata presa di distanza da facili escamotage di mimetismo locale. E alla fine, c’è l’ampia selezione di divani e tavoli outdoor chiamati a comporre paesaggi come veri e propri salotti all’aria aperta, che ci invitano alla buona lettura e a un salubre ozio. Il secondo menu si focalizza invece su Seoul, una città di grande attualità e World Design Capital 2010 dove, dal 17 settembre al 7 ottobre, si svolgerà l’evento Seoul Design Fair (cui parteciperà anche INTERNI). Tra emergenti e talenti affermati, grandi opere, aziende leader e mostre, si sta giocando un’importante partita nella ridefinizione delle potenzialità dell’architettura e del design con scenari internazionali. Anche l’eccellente e premiata clubhouse eco, progettata dal giapponese Shigeru Ban, a un’ora di strada da Seoul, ‘rinverdendo’ un materiale costruttivo tradizionale come il legno, si inserisce in questo quadro di trasformazione ed evoluzione di una città che assorbe ingegni ed esporta qualità. Gilda Bojardi vista di seoul, corea del sud (foto courtesy Seoul Design Center)

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PaDIGLIone sosTenIBILe progetto di Kyeong Sik Yoon (Kaci International) e Shigeru Ban foto courtesy Shigeru Ban Architects testi di Alessandro Rocca e Clara Mantica

A un’ora DI STRADA da Seoul, LA clubhouse DI DUE ARCHITETTI GIAPPONESI, KYEONG SIK YOON E SHIGERU BAN, RICOMPONE I temi DELLA sostenibilità ACCOSTANDO materiali TRADIZIONALMENTE lontani e PIEGANDO IL legno A UN sistema strutturale DI nuova concezione E DI GRANDE EFFETTO PLASTICO.

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L’edificio principale della clubhouse si affaccia sul campo da golf. In primo piano, il possente muro in travertino e, in secondo piano, l’aerea struttura esagonale in legno, che forma i pilastri e il soffitto della grande hall che ospita la reception e, al livello superiore, la sala per banchetti.

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È

leggera e trasparente come una serra e, nello stesso tempo, ha un piglio imponente, quasi monumentale, da palazzo italiano. La copertura è una maglia esagonale interamente realizzata in legno con tutti i criteri portanti dell’architettura sostenibile, motivo che ha condotto questa clubhouse a vincere il Premio architettura sostenibile Fassa Bortolo 2010. Shigeru Ban ci ha abituati da tempo alle sperimentazioni più audaci condotte usando in modo creativo e inedito materiali tradizionali e moderni, come il bambù, il cemento armato e l’acciaio; materiali innovativi, come le membrane tessili, e oggetti e strutture riciclate, come le

cassette delle bottiglie di birra e, su altra scala, i container, con cui ha costruito, nel 2005, un museo d’arte nomade. L’invenzione più nota di Ban riguarda la costruzione in tubi di cartone, un semilavorato economico, leggero e resistente utilizzato per la prima volta per l’emergenza del terremoto di Kobe, nel 1995, e successivamente in molte altre realizzazioni di grande interesse. Anche con il legno Shigeru Ban ha cercato soluzioni tecniche innovative che hanno trovato un esito importante nel nuovo Centre Pompidou a Metz, finito da un paio di mesi, in cui la struttura di legno svolge un ruolo architettonicamente molto importante. Questa clubhouse coreana, terminata nel 2009, rappresenta probabilmente un effetto collaterale e un approfondimento del progetto di Metz, perché anch’essa sviluppa un sistema strutturale basato su un assemblaggio tridimensionale degli elementi in legno.

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Una parte del padiglione consente di apprezzare la struttura in legno a tutta altezza, col mezzanino della reception e il vano ribassato della lounge collegati dalla scala monumentale. Il diagramma mostra come la struttura in legno sia disegnata anche per facilitare il ricambio dell’aria e quindi il raffrescamento naturale dell’edificio.

Completamente diverso è però lo scarico del peso a terra che, a Metz, è risolto da possenti tralicci metallici e che invece in questo progetto segue una logica più elegante, piegando la maglia, sempre esagonale, a raccogliersi in slanciati pilastri a fascio. L’effetto è una struttura che, per l’armoniosa continuità tra sostegni verticali e copertura, ricorda direttamente la spazialità dilatata e continua delle costruzioni gotiche oppure moresche. Il sistema è reso ancora più fluido, leggero e luminoso dal fatto che la struttura reticolare è aperta verso un vano superiore inondato di luce. Il grande ambiente centrale della clubhouse è poi caratterizzato da altri elementi altrettanto importanti, come il forte

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CLUBHOUSE IN COREA / 5

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La casa del tè è una scatola di cristallo coperta da un massiccio tetto piano. L’ elemento più riconoscibile è la struttura in tubi di cartone, una tecnologia proposta per la prima volta, da Shigeru Ban, nel 1995, poi perfezionata e utilizzata in numerose altre realizzazioni.

Schema planimetrico della clubhouse posta in posizione dominante, rispetto all’orografia del terreno, come un riferimento architettonico che qualifica il bucolico paesaggio del campo da golf.

muro in travertino, che delimita buona parte della parete affacciata sul campo di gioco, e la scalinata minimalista che connette i due livelli della hall di ingresso, riflettendo la luce che penetra, abbondante, dalla vetrata continua e attraverso gli oblò aperti sul tetto. La Haesley Nine Bridges Clubhouse, progetto vincitore del Premio Architettura sostenibile Fassa Bortolo 2010 nella sezione Opere realizzate da professionisti è composta da tre edifici, ognuno dei quali è caratterizzato da un diverso sistema strutturale che intende riproporre in chiave moderna le tecniche costruttive tradizionali del Paese. Nell’edificio principale la peculiarità della struttura è rappresentata dalla maglia esagonale interamente realizzata in legno. “Questo nuovo sistema di struttura portante che abbiamo sviluppato è ora preso come modello da molti architetti, ingegneri e clienti per costruire edifici sostenibili” dicono i progettisti. “L’intervento fornisce un reale contributo per lo sviluppo di un nuovo impiego del legno in edilizia” hanno

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CLUBHOUSE IN COREA / 7

La terrazza del ristorante, con lo spazio esterno che prolunga il materiale nobile della facciata, il travertino, verso il green. sedute di Fritz hansen.

dichiarato i giurati del Premio “il sistema costruttivo risolve in maniera integrata i molteplici aspetti funzionali richiesti, assolvendo al contempo a compiti di carattere statico, architettonico e impiantistico. Lo sviluppo della struttura lignea infatti sorregge l’involucro edilizio, consente un’elevata luminosità naturale e artificiale degli ambienti interni e si prefigura come elemento di canalizzazione dei movimenti naturali di aria. La struttura stessa, nella sua essenzialità ed eleganza, crea la luce e il colore degli ambienti interni, definendo pertanto l’atmosfera degli spazi e l’identità dell’architettura”. La realizzazione della costruzione sfrutta appieno le potenzialità offerte dalle avanzate tecnologie di lavorazione del legno con sistemi computerizzati di calcolo, disegno e taglio, riuscendo ad ottenere una configurazione che riduce al minimo la quantità di legname necessario per la struttura, semplificando inoltre il processo di assemblaggio dei componenti modulari.

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architettura + ambiente = un premio Il Premio Fassa Bortolo, istituito nel 2003 per iniziativa dell’azienda (leader nel settore delle soluzioni innovative per l’edilizia), della Facoltà di Architettura e dell’Università di Ferrara, ha cadenza annuale e viene assegnato all’opera progettata da professionisti singoli o studi di Architettura o Ingegneria che meglio esprime i principi della sostenibilità. Una seconda sezione del premio è dedicata ai neo-laureati che hanno discusso la tesi di laurea presso facoltà di Architettura o Ingegneria, o istituti di formazione equivalenti. Il Premio vuole contribuire a ricercare un sistema di sviluppo del settore edilizio (che rappresenta uno dei campi di attività umana a maggior impatto ambientale) più sostenibile di quello attuale e incentivare dunque architetture che sappiano rapportarsi in maniera equilibrata con l’ambiente. Il sempre maggiore interesse per la manifestazione si deve a tre fattori: la grande

adesione internazionale, la qualità crescente del lavoro proveniente dalle università e l’alto livello delle opere realizzate. Afferma Thomas Herzog, presidente della Giuria internazionale: “Il materiale ha iniziato ad arrivare da in tutto il mondo, progetti contraddistinti da una notevole varietà architettonica, tipologica e dimensionale. Alcuni dei progetti migliori sono spesso giunti dai Paesi più lontani”. E il lavoro degli studenti? “Mentre tempo fa la sostenibilità e l’uso di energie ambientali avevano solamente un ruolo secondario e non rientravano nei programmi di insegnamento dei corsi di progettazione principali, quest’anno, per la prima volta, abbiamo avuto una serie straordinaria di contributi progettuali sorprendentemente complessi, di alto livello dal punto di vista spaziale, organizzativo, individuale ed estetico”. E aggiunge: “Non abbiamo scelto progetti ‘senza difetti’, che sarebbe una pretesa illusoria e comunque lontana dalla realtà, bensì quelli che ci hanno persuaso ed in parte anche emozionato con la loro riconoscibile, grande qualità complessiva”.

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Lo stadio costruito su progetto di swoo kim geun, per le olimpiadi del 1988, nel distretto songpa-gu nel sud-est della cittĂ , a sud del fiume han. ospiterĂ , dal 17 settembre al 7 ottobre, la Seoul Design Fair 2010 organizzata dal Seoul Metropolitan Government e sponsorizzata dalla seoul design foundation. (foto courtesy seoul design center)

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SEOUL world design capital 2010 di Giuliano Molineri

(già direttore della Giugiaro Design, del bid commettee dei XX Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006, responsabile delle relazioni internazionali di Torino 2008 WDC, membro del board ICSID dal 2003 al 2007)

istantanea di vita quotidana e un ‘guardiano’ di pietra della città, da un reportage di santi caleca realizzato nel 1991 per la rivista terrazzo.

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Una storia di uomini che hanno giocato un ruolo fondamentale in Corea raccontata da un uomo che ha avuto modo di frequentarLA a lungo. E inoltre: le ragioni della candidatura di Seoul 2010 WDC, le modalità di selezione delle capitali mondiali del design e il ruolo giocato a favore della scelta dal KIDP (il Korean Institute of Design Promotion), dalla Seoul Design Foundation, dal Seoul Design Center e dal giovane Mayor della città.

L

a professione mi ha portato parecchie volte in Sud Corea e a Seoul a partire dagli anni Settanta e mi ha consentito di avvicinare personaggi di forte spessore, capi di grandi imprese abituati ad agire in prima linea. In Corea, a differenza del Giappone, si procede per intuito e con decisioni dei singoli, quasi mai diluite dai comitati. Gli episodi che sintetizzo riflettono un mio spaccato di quel mondo e non hanno pretese generalizzanti. L’antefatto risale al Tokyo Motor Show del 1971 e all’incontro di Giorgetto Giugiaro con Se Yung Chung, esponente di una potente famiglia di armatori navali che gli affidò l’incarico di far nascere la prima industria dell’auto e la prima vettura made in Korea. Giugiaro accettò la

scommessa e collaborò al progetto. Ho avuto modo di incontrare Mr Chung nella sede dell’Italdesign. Per crearsi una classe di dirigenti e quadri nelle varie aree dello stile e del progetto aveva ottenuto di inviare a Moncalieri un team di 50 giovani per seguire negli oltre tre anni lo sviluppo della nuova vettura. La chiamò Pony, quasi un puledro ma di razza robusta e affidabile. Della Hyundai Pony se ne produssero 700.000 esemplari e altri 700.000 nei due restyling successivi. Chairman Chung rimase in carica fino a portare la sua Casa ai vertici mondiali. Lo chiamavano Pony Chung, il Padre della Pony, l’auto che aveva riempito le strade semivuote di una Seoul prima surreale.

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l’allestimento progettato da unsangdong architects nella piazza prospiciente il seoul plaza hotel per l’inaugurazione di HI SEOUL FESTIVAL nel maggio 2009. realizzato con lunghi nastri di tessuto bianco tesi a formare un’aerea e metaforica ragnatela. (foto sergio pirrone)

Cometa luminosa ed eclatante è rappresentata da Kim Woo Jung – Chairman Kim, carismatico capo di industria che negli anni Novanta volle bruciare le tappe e far crescere il suo brand – la Daewoo – fino a competere con il colosso Hyundai. L’occasione di incontro con Giugiaro e con noi dell’Italdesign la procurò il Salone dell’Auto di Torino del 1992. Giugiaro presentò la Lucciola sul telaio della rinata Fiat Cinquecento, un prototipo ante litteram di vettura ibrida (un piccolo motore a scoppio e trazione elettrica), con una formula sbarazzina per il suo interno disegnato dal giovanissimo figlio Fabrizio, con sedute a più configurazioni che riprendevano volutamente i concetti della Plia di Giancarlo Piretti. Quello di Giugiaro pareva un esercizio non finalizzato al business visto che – purtroppo – il messaggio della trazione ibrida risultava prematuro. Al di là delle sue prestazioni innovative, Chairman Kim vide nella Lucciola una

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pagina accanto: il palazzo reale della dinastia joseon (1593) inquadrato nel suo contesto attuale: storia e contemporaneità di una metropoli. (foto courtesy seoul design center)

esatta interpretazione per la vetturetta da città che aveva in cantiere. Comprò lo stile del progetto e realizzò la Matiz, un modello dall’indubbio successo internazionale. Con Daewoo i settori di stile e di ingegneria di Italdesign lavorarono intensamente per la creazione di altri importanti modelli, ma la sopraggiunta crisi economica di quegli anni frenò i piani espansionistici delle grandi holding coreane e non risparmiò il Gruppo Daewoo e le fortune del suo incontenibile Chairman. Altro personaggio che ebbi modo di ‘incrociare’, così come si incrocia il Papa sulla sedia gestatoria per qualche cerimonia solenne in Piazza San Pietro, è stato Lee Kun-Hee, figlio di Lee Byung-chull, che fondò la Samsung nel 1938. Assunse la posizione ufficiale di Chairman di Samsung Group alla morte del padre nel 1987 e sollevò il gigante dell’elettronica a Global Brand. Membro del CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, è stato uno dei

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Seoul, una città del design non già affermata ma emergente.

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the world peace gate, monumento simbolo di “unità e progresso” costruito nel 1988 su progetto di kim jungeop all’interno del parco olimpico, nella zona di songpa-gu. la struttura alta quattro piani è realizzata in acciaio e cemento e decorata con figure simboliche e colori della cultura coreana. (foto courtesy Seoul Design Center) sotto: antico e nuovo a confronto nello scorcio del padiglione Bosingak e della Jongno Tower di seoul. (foto courtesy korea tourism organization)

“signori dei 5 anelli” influente quasi quanto Juan Antonio Samaranch. Tentò a più riprese di sottrarre al catalano lo scettro regale ma incappò in alcuni incidenti di percorso. Nel 1998, come Direttore del Comitato Promotore dei XX Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006, ebbi modo con i miei colleghi di approfondire la sua figura e il suo ruolo e di convincermi dell’effettiva influenza del Comitato Olimpico coreano in seno al CIO: Seoul aveva acquisito i Giochi Asiatici del 1986, i Giochi Olimpici del 1988 e i Giochi Olimpici Invernali di Kangwon del 1998, che visionai di persona. I Giochi, mondiali o continentali, al pari delle grandi Expo e dei Summit politico economici, si portano appresso business spesso inimmaginabili. Nel novembre 2010 si terrà il G20 Seoul Summit mentre Incheon ospiterà i Giochi Asiatici del 2014. Oggi la metropoli è pavesata con entrambe le insegne.

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una sofisticata elaborazione di art & craft con soggetto l’ albero del pino, elemento strettamente correlato alla filosofia e all’etica confuciana a partire dalla dinastia Joseon. rituali di presentazione yin-yang di piatti ispirati dall’ antica cultura culinaria di corte. (foto courtesy Seoul Design Center)

Il progetto World Design Capital ha preso forma nel board dell’ Icsid 2003-2005 (l’International Council of Societies of Industrial Design) sotto la presidenza di Peter Zec e su sua specifica intuizione. Finalità quella di assegnare, dietro Concorso, la promozione e la gestione di un anno di eventi a una città del mondo in grado di dimostrare la vocazione di quel territorio a ricorrere al design come fattore di sviluppo economico, ambientale e sociale. Si cerca dunque di appuntare via via nel globo una rete di città del design non già affermate ma emergenti o comunque portatrici di segnali e messaggi innovativi. Le ripercussioni strategiche e mediatiche della Nomination furono subito comprese da molte comunità del design dei cinque continenti e, nello specifico, dagli organismi volti alla internazionalizzazione delle città. L’Icsid tuttavia preferì partire designando direttamente una “città pilota” per una prima edizione che fungesse da test e consentisse di esplicitare questa formula, di

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verificarne le potenzialità ed eventualmente intervenire in corso d’opera. La città di Torino che si era in precedenza candidata per ospitare la nuova sede dell’Icsid e si era giocata la finale con Montreal (34 le città concorrenti al blocco di partenza), perdendo con stretto margine, fu scelta per il beta test. A consuntivo, per qualità e numero di eventi (oltre 300) molti dai risvolti internazionali e per il coinvolgimento di Istituzioni, di imprese e di progettisti, per l’eterogeneità delle tematiche e l’attenzione prestata da una città tangibilmente trasformata dall’evento olimpico (ora disposta ad aprirsi e a partecipare), Torino è risultata una degnissima apripista. Proprio gli stimoli e le visioni elaborate da Torino, hanno fatto scattare l’attenzione e l’impegno di Seoul con i suoi oltre 10 milioni di abitanti a candidarsi per la successiva Nomination e a predisporre un circostanziato dossier

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leeum museum, il museo voluto dalla samsung foundation of culture e pensato come una cittadella della cultura. è stato disegnato in modo corale da tre grandi firme dell’architettura internazionale: rem koolhaas, jean nouvel e mario botta. nell’immagine: l’edificio di rem koolhaas. (foto courtesy OMA)

in basso, a sinistra: l’edificio a torre missing matrix, noto anche come boutique monaco, condominio residenziale e a uso misto di alto livello, in centro città, in un’area non lontana dalla stazione di gangnam. progetto (2004-2008) di mass studio, tra i più acclamati indirizzi dell’architettura di seoul. (foto Yong-Kwan Kim) qui sotto: saintwestern clubhouse, progetto di gansam architects & partners, una struttura articolata in cemento e acciaio rivestita all’esterno di pannelli di zinco.

programmatico, articolato e convincente. La disciplina del design in Corea è considerata da decenni dalle Istituzioni come strumento di affermazione economica. Il Kidp (Korean Institute of Design Promotion) agisce su mandato del Ministero della Knowledge Economy e dunque promuove il prodotto nazionale e il suo export, mentre le Istituzioni pubbliche – a partire dalla Presidenza della Repubblica – erogano fondi per la nascita di design center e per la promozione della cultura del design nel mondo giovanile. La proposta di Seoul poi è frutto di un progetto tanto lucido quanto risoluto nato dall’estro e dalla visione di una figura politica di notevole spicco. Assistito da Soon-in Lee, già membro e tesoriere del board Icsid, oggi presidente del Seoul Design Center e president-elect Icsid per il 2011-2013, il quarantanovenne Mayor del Governo Metropolitano di Seoul, Oh Se-hoon, ha promosso la

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sopra: Seoul National Museum, costruito nel 1945 è stato ristrutturato nel 2005. si trova nella zona di yongsan-dong, yongsan-gu. sotto: DONGDAEMUN DESIGN PARK & PLAZA, polo culturale integrato a una grande piazza, destinato a ospitare un museo del design, una biblioteca e diverse altre strutture per la formazione. progetto IN FIERI DI ZAHA HADID. a destra: Seoul Composite Arts Center, 1987, progetto di Kim Seok-cheol. (foto courtesy Seoul Design Center)

Seoul Design Foundation e il Seoul Design Headquarter allo scopo di ridisegnare l’intera area metropolitana, di cavalcare una rivoluzione urbana che parte dall’offerta ai cittadini di una rinnovata qualità della vita attraverso la realizzazione di assets pluridisciplinari e di infrastrutture destinate a trasformare l’immagine della capitale e di incidere sullo spirito e le abitudini sociali della cittadinanza. È in progetto la pedonalizzazione di grandi arterie con lo scorrimento in galleria del traffico automobilistico, la creazione di molte piste ciclabili, la valorizzazione delle sponde dell’Han River, compresa la costruzione del complesso Han River Art Island per eventi artistici e culturali. È incoraggiata la scienza del paesaggio, l’ecofriendly environment del verde e dell’acqua (green and blu design), fattori che possono contribuire alla nascita di una “creative class” meno alienata ed espugnabile dagli attacchi consumistici.

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Origami, la casa avvolgibile

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In Australia, architettura come enigma e spettacolo. Geometria della quarta dimensione e struttura origami unite in un’avventura iperspaziale in cui la fluidità delle immagini elettroniche si solidifica nella materia stabile, e abitabile, di un cottage molto particolare.

progetto di McBride Charles Ryan (Rob McBride e Debbie Lyn-Ryan, con Drew Williamson e Fang Cheah) foto di John Gollings testo di Alessandro Rocca

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LA SCALA, RICOPERTA DA UN TAPPETO TRETFORD COLOR ROSSO GRANATA, SI AVVOLGE A SPIRALE INTORNO ALLA CORTE INTERNA E DISTRIBUISCE TUTTI GLI AMBIENTI. IN PIANTA, A SINISTRA DELLA TERRAZZA SI RICONOSCE L’INGRESSO (1), LA CORTE INTERNA (2), LA LAVANDERIA (3), LA TAVERNETTA (4) E LE CAMERE DA LETTO (5 E 6), DI CUI LA PADRONALE (7) HA BAGNO PROPRIO. BUONA PARTE DELLA SUPERFICIE TOTALE, CHE È DI CIRCA 260 MQ, È OCCUPATA DAL SALONE CON CUCINA E PRANZO, APERTO VERSO LE DUE GRANDI TERRAZZE. LA PICCOLA PORTA DI INGRESSO, IN ROSSO, ENFATIZZA PER CONTRASTO LA GRANDE APERTURA IRREGOLARE DELLA TERRAZZA EST, CHE PEMETTE ALLA LUCE NATURALE DI PENETRARE NEL SOGGIORNO E FINO ALLA CUCINA, ILLUMINATA ANCHE DALLA CORTE INTERNA.

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l nastro di Möbius, che qualche anno fa è stato la matrice di una celebre casa di Ben van Berkel, è un modello tridimensionale di spazialità continua in cui, attraverso un movimento rotatorio, una superficie si riavvolge su se stessa. La cosidetta “bottiglia di Klein” è una figura analoga che però si sviluppa nella quarta dimensione. Partendo dall’avvolgimento di un’entità spaziale a tre dimensioni, la figura genera uno spazio continuo e senza bordi, un continuum in cui, mettendo a dura prova la nostra capacità logica, l’esterno diventa interno, e viceversa, in un passaggio assolutamente graduale e continuo. La casa costruita dagli architetti australiani Rob McBride e Debbie Lyn-Ryan nella penisola di Mornington, a un’ora e mezza di auto da Melbourne, parte da questa idea per raccogliere tutti gli ambienti, circa 250 metri quadri, in una spirale raccolta intorno a una corte minuscola ma molto importante, nella sua funzione di perno, di interno-

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esterno che diventa non solo un baricentro geometrico ma anche una specie di ombelico, di negativo che, come appunto nel circolo impossibile della bottiglia di Klein, riannoda lo spazio su se stesso. Il gioco matematico è affascinante ma, a chi non frequenta abitualmente la quarta dimensione, può far venire un discreto mal di testa. Forse è per questo che gli architetti hanno voluto aggiungere al modello matematico un’altra strategia, decisamente più comprensibile, che è l’origami, l’arte giapponese di piegare la carta. Come tutti sanno, un foglio di carta non può stare in piedi da solo ma, se opportunamente piegato può assumere le forme più insolite e graziose e, a dispetto della leggerezza e della fragilità del materiale, può diventare una struttura molto solida e stabile. La tecnica origami diventa, nell’interpretazione dei progettisti, un guscio continuo, robusto e avvolgente come un bunker, che si anima in una serie di piani, angoli e spigoli dalla geometria completamente inafferabile. Questa fantasia matematica moltiplica la dimensione della casa in un numero spropositato di paesaggi architettonici molto diversi e molto caratterizzati.

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All’esterno, a seconda del punto di vista, il guscio quasi nero si arriccia e si dischiude come un’ostrica meccanica. L’ingresso è un lampo di luce in una piega dell’origami, mentre sui lati est e nord il guscio si squarcia e si slabbra per accogliere due vani all’aperto, due terrazze che filtrano il rapporto tra gli interni e la foresta di “ti”, l’arbusto tropicale tipico della vegetazione autoctona australiana che circonda la casa da ogni lato. Anche negli interni la geometria contratta e avvolgente dell’origami genera una spazialità molto forte, drammatica, in cui l’architettura è sempre protagonista. Per esempio, la forma irregolare delle finestre, bucature ritagliate nel guscio in maniera apparentemente casuale,

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impedisce una percezione distratta sia del paesaggio esterno che della luce, che piove nelle stanze secondo angoli e intensità imprevedibili. Nell’organizzazione interna, dominata dall’ambiente principale del living, in cui si trovano anche la cucina a vista e la zona pranzo, gioca un ruolo importante la disposizione su livelli diversi raccordati da una serie di brevi rampe che, ruotando attorno alla corte centrale, esprimono con chiarezza la forza centripeta dello spazio che si avvolge su se stesso. Il fascino della Klein Bottle Hosue sta quindi nel fatto che nella sua immagine, tanto all’esterno che all’interno, si mescolano figure immediatamente riconoscibili con altre praticamente inafferrabili.

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LE DUE TERRAZZE, PAVIMENTATE IN LISTONI DI LEGNO, SONO COPERTE E IN TOTALE CONTINUITÀ CON IL SOGGIORNO; IL DIVANO CHARLES DI ANTONIO CITTERIO, PRODOTTO DA B&B ITALIA, È ABBINATO A DUE STORICHE POLTRONE BARCELONA, DI MIES VAN DER ROHE NEL CATALOGO DI KNOLL INTERNATIONAL. IL TAVOLO, USATO SIA PER IL PRANZO CHE PER IL BILIARDO, È DELL’AUSTRALIANA PRESTIGE BILLIARDS. IL BANCO CUCINA È IN HIMAC, DI LG, CON FUOCHI E FORNO SMEG.

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NELLA SEZIONE, SI VEDONO GLI SPAZI DELLA CAMERA DA LETTO (1), LA SCALA (2), LA PICCOLA CORTE INTERNA (3), IL RIPOSTIGLIO (4) E, A DESTRA, LA VETRATA DEL SOGGIORNO E LA TERRAZZA. LA TAVERNETTA E IL BAGNO PADRONALE CON PAVIMENTI IN TESSERINE E PARETI IN MARMO VENATO, ENTRAMBI DI PRODUZIONE AUSTRALIANA, (SIGNORINO E CLASSIC CERAMICS). IL LAVABO È REALIZZATO, SU DISEGNO, IN CORIAN DUPONT.

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La vITa neI BoscHI

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una vista complessiva del volume principale della casa staccato dal suolo per l’80% della superficie in modo da conservare l’orografia originale del pendio boschivo. Ai volumi pieni, rivestiti con teli impermeabili neri, in facciata si aggiunge la trasparenza delle ampie vetrate e dei volumi dei bagni segnati da un infisso colore verde acido. una vista del portico con vasche circolari sottostanti il corpo maggiore della casa, verso la zona indipendente delle due camere da letto, raggiungibili con passerelle di legno nel verde.

A Ibiza, nei boschi della lussureggiante valle di Cala Vedella, una casa che in punta di piedi si inserisce nel paesaggio, conservandone vegetazione e orografia, senza cadere nella scorciatoia del ‘mimetismo ecologico’ e senza rinunciare ad un alto grado di sperimentazione e contemporaneità, anche dal punto di vista dell’architettura sostenibile.

progetto di Andrés Jaque Architects foto di Miguel de Guzmán testo di Matteo Vercelloni

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ndai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”. Così Henry David Thoreau motiva il suo ritorno alla natura nel Walden: or Life in the Woods (1854). Il libro rimane una delle pietre miliari dell’immaginazione americana ponendosi come opera che appartiene sia alla letteratura, sia alla mitologia, sia infine alla storia delle idee. Questo

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progetto per una casa di vacanze, calata con attenzione nel bosco in discesa di una ripida verde collina, in una zona ancora ben conservata dell’isola di Ibiza nelle Baleari, sembra rifarsi alle radici antiche del ritorno alla natura di Thoreau nel tradurre in chiave architettonica contemporanea l’ascolto e il rispetto del paesaggio nella sua complessità; dalla vegetazione alla fauna, dai movimenti del terreno allo scorrere dell’acqua. Come in Walden, l’apparente atteggiamento romantico e letterario dell’andar per boschi si rivela anche in questo progetto-programma un messaggio di più vasta portata che lega la pratica architettonica a un atteggiamento di attenzione e rispetto, di assimilazione profonda del paesaggio in cui ci si

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trova ad operare. Questo non significa però ‘nascondersi’, operare secondo la pratica vegetale del camouflage ecologista, con tetti a giardino e stanze incassate nel terreno ad assecondare il pendio. Ciò che ha portato all’insolita soluzione complessiva di questa casa ‘scomposta’ in parti compiute e sospesa su tralicci di ferro, quasi volesse iniziare a ‘camminare’ ricordando alcuni progetti degli Archigram, sono alcune scelte di tipo paesaggistico: la possibilità di osservare e gustare l’orizzonte del mare e la necessità di conservare le alberature presenti in loco. Un obiettivo ottenuto articolando il corpo della casa in modo da evitare l’interferenza con gli alberi o, nel caso ciò non risultasse possibile, integrandoli all’interno degli spazi domestici attraversando pavimenti e soffitti. Così la serie di spazi si organizza secondo due corpi distinti che ribaltano la tradizionale disposizione degli interni (zona giorno con cucina e zona notte al primo piano)

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Sopra, vista dell’angolo living rivolto verso il terrazzo all’interno dello spazio unitario. Chaise longue di Le corbusier prodotta da cassina. A fianco, una vista complessiva della casa che segue il ripido pendio naturale della collina boscosa; a destra il volume in cemento segnato dagli oblò che sostiene la piscina e in cui è ricavata una piccola SPA. pagina accanto, lo spazio unitario del volume principale della casa integrato con la terrazza prospiciente conclusa verso valle dalla piscina sospesa. Pareti e soffitto sono dipinti di azzurro a sottolineare la continuità con il colore del cielo. Palme e alberi attraversano la casa diventandone parte integrante.

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Sopra vista dalla terrazza di una delle camere da letto e del volume principale della casa sospeso su tralicci metallici color lavanda. pagina a fianco, uno dei volumi doccia vetrati che fuoriescono dal perimetro della casa arricchendo la complessa articolazione dell’insieme. Sino ad una certa altezza, per garantire la privacy interna, le pareti vetrate della doccia sono schermate con una pellicola serigrafata che crea la sensazione di essere circondati da una piscina, dove una curiosa nuotatrice ci osserva durante un’immersione.

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per offrire un esteso corpo piegato a ventaglio, sospeso e staccato dal suolo per l’80% della superficie. L’unico grande ambiente unitario – tutto colorato di azzurro per confondersi con il cielo verso cui si slancia – risulta aperto verso la terrazza di cemento lisciato, conclusa verso valle con la piscina prospiciente, sotto cui è ricavata una piccola SPA segnata da una serie di oblò come aperture. Terrazza e piscina sono assunti come diretta estensione dello spazio interno: il fronte è infatti composto da ampie vetrate continue segnate da un infisso metallico verde acido, ripetuto come elemento caratterizzante l’intera costruzione, che permettono di aprire la casa verso il paesaggio che l’accoglie e verso il mare, sfondo in lontananza. Al corpo maggiore della casa si aggiunge ad una quota inferiore, accessibile tramite dei percorsi a passerella in doghe di legno nel verde, il volume delle due camere da letto pensato come una coppia di capsule domestiche incastrate tra loro e da cui

escono, arricchendo l’articolazione dell’insieme, le protesi di vetro dei bagni. Questi completamente trasparenti, insieme alle ampie vetrate, fanno da contrappunto ai rivestimenti in telo nero delle facciate, e presentano, per proteggere la privacy, collocata sulle vetrate delle docce, una serigrafia che simula una vasca d’acqua avvolgente con una curiosa nuotatrice che ci osserva. Anche le capsule per la notte sono sollevate dal suolo e possiedono una doppia terrazza di legno che si unisce al porticato creato dallo sbalzo e dalla terrazza del corpo maggiore sovrastante sotto cui è stata collocata una doppia vasca circolare. Una casa che si stacca volutamente dal suolo per conservarne orografia e scorrimento delle acque, che assume la macchia arborea preesistente come componente del progetto per conservare il paesaggio naturale ma anche i movimenti migratori degli uccelli, che diventano ospiti graditi nel passaggio delle stagioni, per una nuova vita nei boschi.

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La moDernITà reInvenTaTa progetto di Emilio Battisti con Emanuela Guerra, Federico Mazza, Paolo Motti, Giuseppe Piovaccari, Hyung Seon Kwuak progetto esecutivo studio Battisti e Vittorio Orecchia progetto del giardino Marco Bay con Daniela Capuccio foto di Gabriele Basilico testo di Antonella Boisi

SULLA SPONDA DI UN LAGO LOMBARDO, UNA CASA DI VACANZA RICAVATA DALLA SAPIENTE ristrutturazione DI UN edificio anni Cinquanta, RESTITUISCE AL SEGNO RIGOROSO DEL DISEGNO, DEL GESTO COSTRUTTIVO E DEI MATERIALI ADOTTATI, IL manifesto DI UN MODO DI fare architettura. PRUDENTE E ATTENTO ALL’AMBIENTE.

VEDUTA NOTTURNA DEL FRONTE PRINCIPALE DELLA CASA, A POCHI METRI DAL LITORALE E IN POSIZIONE LEGGERMENTE ELEVATA. L’ILLUMINAZIONE DELLA GRADINATA È UN’IDEA DELL’ARCHITETTO MARCO BAY.

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Sopra: superfici lapidee e intonacate sottolineate dal coronamento delle snelle balaustre in metallo delle terrazze scandiscono il fronte architettonico vista lago. In primo piano, la nuova scala elicoidale posizionata sul lato nord che consente l’accesso alla terrazza del piano principale. LE Chaise longues geneva sono prodotte da gloster.

accanto: Lo stato di fatto della villa prima e dopo i lavori di ristrutturazione. Nel disegno: la pianta del piano alla quota d’ingresso e planimetria del giardino.

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ulla terrazza-belvedere della villa, che in posizione leggermente elevata si affaccia sulle acque lacustri, Gnom-one, two, three, four, una grande installazione in metallo verniciato, opera (1975-1984) di Grazia Varisco, fra i più acclamati protagonisti dell’Arte programmata, si propone come elemento ‘ordinatore’ dello spazio. Ne misura limiti e possibilità, attraversa percorsi percettivi, attende al vuoto come segno carico di tensione capace di stimolare altre interazioni, mutazioni, nuove progettualità.

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“Il rigore delle convenzioni della geometria è alterato” scrive Grazia Varisco nella descrizione del suo lavoro “reso quasi indecifrabile per effetto della semplice operazione del piegare, lungo il perimetro di un quadrilatero, una porzione dei lati. Il perimetro si snoda… Si produce qualcosa di insospettato, qualcosa che il gioco delle ombre proiettate dilata mutevolmente: l’effetto di sfasamento dello spazio si moltiplica, ‘implica’ lo spettatore nei suoi spostamenti”. L’ha suggerita proprio lui, Emilio Battisti, ai committenti, una coppia appassionata d’arte contemporanea e di

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sopra: vista del corpo superiore con L’antistante terrazza attrezzata con sedute in polimero della collezione Frank o.Gehry prodotta da Heller. Si nota la sottile visiera di coronamento dell’edificio. L’area d’ingresso e la zona-pranzo all’aperto organizzata sotto il pergolato. Tavolo e sedie della serie Sottobosco di Andrea Salvetti per Dilmos. Luce a sospensione di targetti.

focus sulla scultura Gnom-one, two, three, four, in metallo verniciato, di Grazia Varisco (1975-1984). nel disegno: il prospetto ovest.

musica classica che ha scelto il lago come buen retiro per i week end. La scultura non è soltanto il segno della personale stima verso l’artista, ma anche di un modo di concepire l’architettura in senso trasversale, dentro territori fisici e mentali che spaziano dalla ricerca alla didattica, dallo studio dell’avanguardia sovietica fino all’amata pittura del ritratto inteso “come l’essenza della stessa”. Nella fattispecie, lo sguardo accogliente di Battisti si è posato su un edificio anni Cinquanta che è stato riformulato in toto nell’immagine architettonica, nell’organizzazione

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degli spazi interni e del giardino – quest’ultimo su progetto di Marco Bay – esteso fino al tratto di litorale di pertinenza per l’approdo, l’accesso al lago e il ricovero dei natanti. Il vincolo della volumetria gli ha dato l’opportunità di ‘svelare’ altri valori della costruzione, come “la possibilità” spiega “di una sua austerità minimalista e di un’espressione architettonica aggiornata ma allo stesso tempo riferita alla colta tradizione degli edifici ‘razionalisti’ realizzati lungo le sponde del lago tra le due guerre”. La tavolozza battistiana ha privilegiato i colori di

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La piscina interna e il pavimento della terrazza in parte vetrato.

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una nobile semplicità, dell’ordine, del rigore costruttivo e della precisione. Ciò che ha consentito di realizzare la metamorfosi di un edificio dal carattere anonimo e vernacolare, conservato nell’impianto, ma completamente svuotato negli interni ed epurato da distoniche inflessioni linguistiche. Ecco dunque che la pacatezza della composizione architettonica viene sottolineata dalla forma del nuovo basamento, realizzato in ceppo, un materiale costruttivo tipico della tradizione lombarda, che, seguendo l’orografia del terreno, ha inglobato la presenza di un porticato punteggiato di archi; dal disegno delle aperture, regolarizzate e trasformate in ampie porte-finestre uniformate dai serramenti in legno; dalla nudità delle nuove balaustre in metallo delle terrazze, simil parapetti

navali, che sostituiscono quelle originarie piene in muratura e pietra; dal taglio nitido del culmine dell’edificio che scherma dietro l’innalzamento perimetrale del fronte la sagoma del tetto a falda preesistente; e infine dalla sottile visiera di coronamento che, insieme alla tenda tecnica sottostante, amplifica il comfort degli spazi di vita all’aperto favoriti dal clima temperato del lago e dall’alta percentuale di giornate soleggiate. La giustapposizione dei materiali adottati completa il quadro, perché la forza espressiva del nuovo basamento lapideo trova un contrappunto dinamico nella congiunzione netta e snella delle superfici finite ad intonaco grigio chiaro colorato in pasta che definiscono i volumi ortogonali dei due livelli superiori. Sul piano distributivo, la casa è stata organizzata per accogliere al piano

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Scorcio del living. Accanto al pianoforte a coda si fronteggiano due divani della eshu collection disegnati da roger sveian per MOKASSER. lampade da parete piatto di LUceplan. sotto: La sala da pranzo con il tavolo Cerberino (in corten e cristallo) di Maurizio Cattelan e le sedie Bianca in acciaio e pelle, tutto Dilmos. luce a sospensione di belux. Appesa alla parete, un’opera di Vanessa Beecroft.

del giardino importanti spazi per l’ospitalità e la socialità: dalla piscina alla sala biliardo con bar, dalla sala giochi alla piccola palestra, dalla sauna al bagno turco. Ambienti affiancati da autorimessa, cantina, alloggio del custode, locali tecnici e di servizio. Al piano intermedio, che corrisponde alla quota dell’ingresso, sono stati invece allocati gli spazi di soggiorno e studio, la cucina, una delle camere per gli ospiti e la grande terrazza (con la scultura di Grazia Varisco), alla quale si accede direttamente anche attraverso il portico ricavato sul fronte sud dell’edificio oppure dal giardino sottostante tramite la nuova scala elicoidale in acciaio posizionata sul lato nord. Su questo livello, la gerarchia nella costruzione degli spazi ha fortemente voluto la declinazione di uno scenario il più possibile

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aperto e luminoso, dove tra candide murature, luci radenti e pavimenti lignei, l’attenzione fosse tutta rivolta al rapporto visivo costante con l’esterno e con il lago. L’asse che unisce l’ingresso con il terrazzo attraversando l’intero spazio del living coronato da ampie superfici vetrate rappresenta l’apice espressivo di questa ricerca. Al piano alto è stata ricavata la zona notte e ospiti e anche a questa quota un’ampia terrazza, sulla quale prospetta la master bedroom, offre una vista di grande qualità paesaggistica. Nessun compiacimento decorativo o di maniera è stato ammesso. E i superselezionati pezzi d’arte e di design contemporaneo scelti dai committenti come arredo degli ambienti lo confermano all’unisono. Disponibili a ulteriori sguardi, respiri e movimenti.

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IsTanBuL, cosTruIre PeR ImmaGInI progetto di REX project team Erez Ella, Tomas Janka, Mathias Madaus, David Menicovich, Tsuyoshi Nakamoto, Joshua Prince-Ramus, Ishtiaq Rafiuddin, Tieliu Wu foto di Iwan Baan testo di Alessandro Rocca

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UN’architettura istantantea CHE RICICLA UN progetto incompiuto e UNA struttura abbandonata, PER REALIZZARE uffici e showroom DI UNA casa di moda E UN centro di produzione televisiva.

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er i giovani architetti di REX, lo studio newyorkese di Joshua Prince-Ramus, spazi e materiali dell’edificio devono comporre un’immagine dinamica e caratterizzata da una certa franca brutalità, in cui la carica energetica e la forza delle immagini contano più della grazia delle proporzioni o della levigata compostezza dei dettagli. Il progetto si dispiega con chiarezza, puntando alla piena messa in luce delle varie parti dell’edificio, dei loro rapporti e delle connessioni. Tutto è mostrato e tutto comunica, con l’obiettivo di creare un’estetica interessante e condivisa e di instaurare con l’osservatore una complicità, un comune sentire, che lo porti a condividere l’esperienza sensoriale e intellettuale dell’opera.

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L’EDIFICIO È COMPOSTO DALL’UNIONE TRA IL RING, UN ANELLO REGOLARE CHE OSPITA IL POWER MEDIA CENTER, E LO SHOWCASE, PER IL VAKKO FASHION CENTER, CHE È UN ASSEMBLAGGIO CAOTICO DI VOLUMI IN STRUTTURA D’ACCIAIO. LO SHOWCASE, LA PARTE DESTINATA AL VAKKO FASHION CENTER, È LA PARTE INTERNA DELL’EDIFICIO, IN CUI SI TROVANO L’AUDITORIUM, GLI SHOWROOM, GLI UFFICI E GLI ELEMENTI DI CONNESSIONE VERTICALE, ED È FORMATA DA VOLUMI INDIPENDENTI CON STRUTTURA IN ACCIAIO COMPLETAMENTE RIVESTITI IN PANNELLI DI VETRO A SPECCHIO. IL PRIMO LIVELLO SOTTERRANEO, CHE DOVEVA ESSERE UN PARCHEGGIO, OSPITA GLI STUDI TELEVISIVI E RADIOFONICI DI POWER MEDIA, CHE RICHIEDEVANO UN ISOLAMENTO LUMINOSO E ACUSTICO TOTALE.

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L’immagine dell’edificio è definita dalla potente struttura a vista e dalle grandi superfici trasparenti. Il rivestimento in pannelli di vetro su cui è impressa una grande “X” definisce un corrugamento che non ha solo un effetto decorativo ma che rende le lastre più resistenti e che consente di ridurre gli spessori del vetro e degli infissi.

D’altronde, l’idea del bello cambia e si aggiorna continuamente e oggi gli architetti d’avanguardia elaborano strategie creative che mettono in primo piano la processualità, il farsi del progetto, che diventa esso stesso il tema, e anche lo spettacolo, dell’architettura. E REX ha collaborato, nei progetti per la biblioteca di Seattle e nel Wyly Theater di Dallas, con il grande Rem Koolhaas, teorico e virtuoso di un’architettura che non si preoccupa di essere bella ma che invece è assolutamente pronta a tutto per essere interessante. E con il Vakko Center di Istanbul, REX segue una strategia, tipicamente koolhaasiana, in cui il progetto si genera da una fusione a freddo tra elementi architettonici già dati e le condizioni produttive. Il luogo è una struttura esistente da riciclare, il programma è doppio e i tempi sono eccezionalmente ristretti, sia per il progetto che per la costruzione.

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I vincoli, in partenza, sono proibitivi e quindi, in un certo senso, la situazione è favorevole all’abbandono di ogni pregiudizio per mirare diritti allo scopo: disegnare lo sviluppo di una struttura esistente, un albergo mai terminato, con l’obiettivo di aprire il cantiere quattro giorni dopo l’inizio della progettazione! REX toglie dal cassetto il progetto, non realizzato, per l’Annenberg Center, un edificio nel campus universitario di Pasadena, in California, e lo adatta allo scheletro dell’albergo. In questo modo, mentre sta già partendo la costruzione dell’anello esterno, il “Ring”, destinato agli studi di produzione televisiva di Power Media (un equivalente turco di Mtv), si apre una finestra temporale di sei settimane per immaginare lo “Showcase”, l’elemento centrale destinato al Vakko Fashion Center. Che, per guadagnare tempo, è disegnato come un insieme di elementi modulari che si possono assemblare in molti modi diversi. Una flessibilità che ha consentito di ordinare la fornitura d’acciaio a tempo di record, a due settimane dall’inizio del progetto, quando molti dettagli erano ancora da definire, in modo da ricevere gli elementi prefabbricati esattamente al momento dovuto.

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Due “scatole metalliche” dello Showcase: la meeting room e l’auditorium, caratterizzati dalla struttura in acciaio e dagli effetti di trasparenza e di luce.

ottimizzando le pendenze dell’ auditorium e degli showroom, un percorso sale a spirale, attraverso lo Showcase, dall’ingresso all’ultimo livello. Negli interni, l’artificio illusionistico è potente: i pannelli in vetro specchiante moltiplicano gli spazi con un effetto caleidoscopico.

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La sagoma sinuosa del Maxxi, nel quartiere Flaminio (foto di Roland Halbe). Il museo, firmato da Zaha Hadid e Patrik Schumacher, è il risultato di un concorso del 1998 a cui parteciparono 273 studi di architettura di tutto il mondo. Il museo è sede permanente di due istituzioni distinte, Maxxi Arte e Maxxi Architettura. Galleria e terrazza del Macro, nel quartiere Salario (foto di Georges Fessy). Disegnato dallo studio Odile Decq Benoit Cornette con Burkhard Morass, il progetto amplia di 7000 mq la struttura espositiva già esistente, ricavata dalla ristrutturazione della ex birreria Peroni e aggiunge uno spazio aperto, la terrazza, di 5000 mq.

Coppia di donne vince Con i musei di Zaha Hadid e Odile Decq, Roma diventa due volte capitale, arricchendosi di due spazi straordinari, due musei dedicati all’arte e all’architettura contemporanea che rappresentano due maniere assolutamente diverse, entrambe vincenti, di intrattenere con il pubblico e con la città un rapporto stimolante ma dolce, gentile. Sarà forse perché sono progetti al femminile?

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areti di cemento, rampe libere nello spazio, luci fluorescenti e pavimenti in resina luccicante: gli interni del Maxxi, il museo di arte e architettura contemporanea del XXI secolo disegnato da Zaha Hadid, si presentano aggressivi e futuribili, ma è un’impressione che non dura. Perché, superato il primo impatto, si capisce bene come la fluidità totale di questi spazi intrecciati e sovrapposti non è tanto uno spettacolo per suscitare sorpresa e meraviglia ma un ragionamento in tre dimensioni molto attento e preciso, calibrato con grande sapienza. La sacerdotessa Hadid prende il visitatore per mano e lo conduce attraverso i misteri dell’architettura postcontemporanea che, non più moderna e neppure progetti di Zaha Hadid, Odile Decq hi-tech, è invece votata alla seduzione, cercata attraverso la chiarezza del testo di Alessandro Rocca pensiero e la bellezza delle forme. L’apparenza inganna, ma per poco:

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sopra, senza titolo, di bernard khoury, nella mostra Spazio curata da Pippo Ciorra, Alessandro D’Onofrio, Bartolomeo Pietromarchi e Gabi Scardi, che rimane aperta fino a gennaio 2011. (foto di simone cecchettI) a lato, Lo spettacolare foyer del Maxxi (foto di Iwan Baan). Il museo si è inaugurato a fine maggio con cinque mostre in contemporanea: Spazio; Gino De Dominicis. L’immortale; Kutlug Ataman. Mesopotamian Dramaturgies; Luigi Moretti, 1907-1973 e Geografie italiane. In basso, l’installazione Cultural Traffic: from the Global Border to the Border Neighbourhood, di Estudio Teddy Cruz, nella mostra Spazio. (foto di Simone Cecchetti)

si capisce subito che sotto il vestito, che ha il rigore del cemento, scorre la linfa vitale di un microcosmo organico, un corpo pulsante che accoglie e dialoga, che cambia aspetto a seconda dell’ora e del punto di vista. Chi temeva l’algida messa in scena di un asettico monumento si può ricredere, il Maxxi è proprio il contrario, un invito alla percezione dell’arte attraverso, prima di tutto, il coinvolgimento del proprio corpo, sollecitato a una nuova consapevolezza dalla eccezionalità degli spazi. Anche all’esterno il Maxxi rifiuta la retorica facile del museo di stato e si pone come un anti-monumento, cioè come un edificio che trova la sua postura in rapporto a quello che ha intorno, letto e riconosciuto con un approccio più sitespecific, basato sull’empatia e sulla manipolazione formale. Perciò risalta quello che potrebbe essere il

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tema segreto, ma chiaro, dell’edificio, e cioè la disponibilità al dialogo sia con le strade e con gli edifici di quella parte del quartiere Flaminio, sia con il mondo cangiante, flessibile, spregiudicato e tendenzialmente informale dell’arte contemporanea. Ancora più esplicitamente intrecciato alla trama della città è l’altro nuovo museo romano, il Macro (Museo d’arte contemporanea di Roma), inaugurato in contemporanea al Maxxi nel maggio di quest’anno. Collocato in un’area più densa e anche più centrale, a ridosso di piazza Fiume, il progetto si è sviluppato secondo un atteggiamento sperimentale che mette insieme la visionarietà tecnologica, che è un po’ il marchio di fabbrica dello studio condotto da Odile Decq, a un pragmatismo che forse, conoscendo le

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Il tempo, lo sbaglio, lo spazio (1969), una delle opere esposte nella retrospettiva, curata da Achille Bonito Oliva, dedicata a Gino De Dominicis, un protagonista della scena artistica romana degli anni sessanta e settanta.

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Macro: il programma dell’estate 2010 comprende mostre di Aaron Young, Jacob Hashimoto, Jorge Peris, João Louro, Gilberto Zorio, Luca Trevisani, Alfredo Pirri. Nelle immagini, il foyer, con il volume rosso brillante dell’ auditorium, e la sala con la passerella sospesa. I nuovi spazi sono stati presentati in anteprima nel maggio 2010, con una selezione di opere d’arte scelte appositamente per dialogare con la struttura architettonica; tra queste, Wafflebike, di Tom Sachs, 5 Offerings for the Greedy Gods, di Subodh Gupta, e le vele dipinte di Senza titolo, di Jannis Kounellis. (foto di altrospazio)

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i nuovi spazi del Macro: Silence Still Governs Our Consciousness, dell’americano Jacob Hashimoto, è una grande installazione di elementi sospesi all’insegna del movimento e della fluidità, che creano nello spettatore la sensazione di essere “circondato da una foresta di fili e aquiloni”. Micro, Aureo, Adela, opera dello spagnolo Jorge Peris, tematizza il sale, minerale fondamentale per la vita e bene comune per l’alimentazione dell’uomo. (foto di altrospazio)

fiammeggianti performance della geniale architetta francese, era decisamente meno prevedibile. La costruttrice immaginifica, punk e dark, di spazi estremi smaterializzati nelle profondità del nero, nelle trasparenze del vetro e nella durezza delle pareti specchianti, in questo caso si dedica a un vero e proprio lavoro di ricamo ed esplora il territorio con attenzione e delicatezza, palmo a palmo. Il risultato è una profonda integrazione con gli spazi della ex birreria Peroni e con gli interstizi del tessuto edilizio del quartiere Salario, e la generazione di nuovi spazi memorabili ma gentili, accoglienti ed efficienti. Nella piazza sopraelevata e nelle connessioni tra le diverse parti del museo rinasce, rigenerata dalla vivezza del progetto contemporaneo, la convivialità delle piazze e delle strade di Roma che qui si ricompone in colori, luci e materiali di pura modernità. Di proprietà comunale, costato “solo” 20 milioni di euro contro i 150 del ricchissimo Maxxi, il Macro bilancia le

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attenzioni contestuali degli esterni con la forte espressività del percorso espositivo, basato su una passerella sospesa che, trafiggendo le sequenze delle sale, invita a un rapporto rapido ma intenso, con l’arte. Come in molti musei dell’ultima generazione, dal Guggenheim di Bilbao, di Frank Gehry, al Kiasma di Helsinki di Steven Holl, sia Hadid che Decq hanno rifiutato di pensare il museo come un contenitore neutrale (scelta seguita, per esempio, dall’ultima addizione del MoMA di New York) per conferire all’architettura una centralità importante e per fare in modo che diventi essa stessa fattore di richiamo, di riconoscibilità e qualità. Il disegno degli spazi espositivi e dei percorsi diventa quindi, nei due nuovi musei romani, un fattore decisivo per cui, attraverso i suoi caratteri scultorei, visivi e tattili, l’architettura partecipa da protagonista alla percezione e all’esperienza diretta delle opere esposte.

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Alla grande galerie del Centre Pompidou di Parigi una mostra mette in rapporto il modello insediativo e simbolico dei parchi a tema, delle fiere e delle Expo del passato, con quello della città reale, del presente e del futuro.

DreamLanDs di Matteo Vercelloni

due delle opere esposte alla mostra Dreamlands. sopra: Florian Joye, Bawadi, Desert gate, 2006, collezione dell’artista, Paris © Florian Joye, ecal. Nella pagina accanto: Kader Attia, Untitled (Skyline), 2007. Courtesy: BALTIC Centre for Contemporary Art; Galerie Anne de Villepoix, Paris © Colin Davison.

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no dei temi fondativi degli insediamenti umani che dalla fine del secolo scorso arriva all’inizio del nuovo millennio è individuabile nella trasposizione della formula/modello della ‘città del tempo libero’ nella città reale. A tale fenomeno, distribuito a scala planetaria nelle diverse realtà nazionali e territoriali, è dedicata la riflessione proposta dalla mostra Dreamlands (sino al 9 agosto), organizzata al Centre Pompidou a cura di Quentin Bajac e Didier Ottinger. Una mostra di tipo ‘trasversale’, stimolante e multidisciplinare, che prende il nome dal famoso e omonimo parco d’attrazioni inaugurato nel 1904 a Coney Island. Un parco che, insieme ai limitrofi Steeplechase e Luna, è stato matrice dei modelli della “nuova urbanistica

della Tecnologia del Fantastico”, come ci racconta Rem Koolhaas nel suo Delirious New York (1978). Si tratta di riferimenti di pianificazione anche concettuali che danno “vita a trasformazioni inaspettate in tutti gli Stati Uniti, […] avamposti del manhattismo [che] diventano strumenti di propaganda della condizione metropolitana”, dimostrando come “Coney Island [e Dreamland in particolare] è l’incubatore della tematica e della mitologia ancora balbuziente di New York”. Così il tema della città fantastica, delle nuove soluzioni tecnologiche e dei suoi nuovi tipi architettonici sperimentati nei ‘palazzi di cartone’ (i primi grattacieli, gli ascensori) si tradurrà, dopo l’incendio del 1914 che distrusse l’intero Luna Park di Coney Island, nell’azione concreta sulla città reale: “È Manhattan ora a essere divenuta il teatro dell’invenzione architettonica”. Questa propensione del manhattismo, nato dalle esperienze ludiche dei Luna Park di Coney Island, a configurare edifici come isole autonome – città nella città, in genere verticali – e a pensare alla crescita urbana come sommatoria di episodi distinti e compiuti dove il ‘fantastico’ soppianta la funzione, si ripete nel tempo. Da Las Vegas, la ‘città parco a tema’ e luogo del divertimento per antonomasia (dal gambling, a

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Sopra, dall’alto in senso orario: Walt Disney illustra il Master Plan della prima Disneyland a Los Angeles (1955); un’immagine d’epoca della zona di accesso a Tomorrowland con il razzo ‘Rocket to the Moon’ sullo sfondo; Uno scorcio del paesaggio urbano di Las Vegas (foto M.V.); Il Castello della Bella Addormentata alla Disneyland di Hong Kong, 2005 (foto Courtesy by Disney). Sotto, un’opera esposta alla mostra Dreamlands: Yiu Xiuzhen, Portable City, New York, 2003, Courtesy Alexander Ochs galleries Berlin/ Beijing © Yin Xiuzhen

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luogo di vacanza per la famiglia, a centro dello shopping americano), si arriva a Dubai, la ‘città luna park’, dove alle tradizionali ‘attrazioni’ ludiche si sostituisce una serie di edifici-icona alla ricerca di prestazioni in sintonia con categorie più vicine a quelle richieste dal Guinnes world records (la torre più alta, l’hotel con più stelle) che alle ragioni della consapevole pianificazione urbana. Una città nel deserto dove all’interno di anonimi hangar si possono trovare situazioni ambientali improbabili, come un paesaggio alpino innevato in cui sciare su un dolce pendio. Come afferma Didier Ottinger nel saggio che apre il ricco catalogo della mostra: “erede dell’atmosfera composita delle fiere internazionali, e della ‘Mondo in vetrina’ di Disneyland, Las Vegas esplicita l’arte urbanistica del ‘collage’. La città giustappone allegramente le sue referenze: dall’architettura romana (The Cesar Palace) ai palazzi d’Oriente (The Aladdin [il cui ‘tema’ è stato oggetto di rapida sostituzione con il Planet Hollywood dopo la tragedia dell’11 settembre]) dai castelli medievali (The Excalibur) [alle piramidi egizie di Luxor]”. Un’estetica urbana che già all’inizio degli anni ’80 portò Colin Rowe e Fred Koetter a teorizzare quel manifesto di nuovo urbanismo contenuto nel libro Collage City (1981) che come reazione alla “città moderna pensata dalle sue origini come

quantitativamente minimale” proponeva la lettura critica e innovativa del modello di Roma antica capace di illustrare “la mentalità del bricoleur in tutta la sua generosità”. Dalla loro lettura di Las Vegas, Robert Venturi e Denise Scott Brown (Learning from Las Vegas, 1972) deducono tra l’altro che “le qualità essenziali dell’architettura delle zone di divertimento sono la leggerezza e la possibilità di apparire come oasi in un contesto eventualmente ostile”. Tutto questo è presente nella mostra parigina come un sinergico confronto tra immagini e progetti, opere d’arte, fotografie e documenti originali. Sia che si tratti di insediamenti sorti nei deserti o sull’acqua, sia che si affrontino i ‘recinti’ temporanei dei luna park o delle grandi manifestazioni fieristiche ed espositive sino alle Expo, ciò che accomuna questi luoghi altri sintetizzati brillantemente dal titolo Dreamlands della mostra, è il loro carattere autonomo e indipendente; sorta di ‘luoghi di fondazione’ radicati paradossalmente proprio nell’assenza di un luogo di riferimento, e proprio per questo, come documenta il caso del modello disneyano, ripetibili e riproducibili in ogni parte del mondo. I ‘Dreamlands’ rientrano allora a pieno titolo nella famiglia delle Eterotopie che il filosofo Michel Foucault definiva come “sorta di luoghi fuori da tutti i luoghi e, tuttavia, effettivamente localizzabili”, e più specificatamente nelle ‘Eterotopie della compensazione’; luoghi che “hanno in rapporto allo spazio restante, una funzione che si svolge tra due poli estremi. Da una parte, assolvono il compito di creare uno spazio d’illusione che denunci come più illusorio tutto lo spazio reale, tutti i posizionamenti all’interno dei quali la vita è frammentata. Dall’altra, hanno la funzione di formare un altro spazio, un altro spazio reale, altrettanto perfetto, meticoloso e ben disposto, quanto il nostro è disordinato, mal congegnato e allo stadio di abbozzo”. Ciò che appare interessante osservare dal punto di vista degli intenti proposti nella mostra (‘Dai parchi d’attrazione alla città del futuro’) è lo slittamento, la contaminazione, del modello del parco tematico nella città reale. La ‘città rassicurante’ e ‘a tema’ trova in realtà principalmente e inizialmente nell’architettura del villaggio turistico, nella formula del ‘Resort totale’, il terreno più fecondo e di massima espressione per poi ritornare a proporsi nella città reale, o meglio a margine e lontana da essa, offrendo sul mercato un prodotto di tipo innovativo, che, se da un lato garantisce servizi (sicurezza, pulizia, controllo) e atmosfere simili a quelle trovate nelle vacanze ‘tutto compreso’, formula nove giorni-sette notti, dall’altro estende il sogno di un luogo altro, legato al piacere effimero della vacanza, alla vita di ogni giorno. Si configurano così delle cittadine residenziali ‘a misura d’uomo’, il cui paradigma di riferimento, nella comunicazione, è appunto il villaggio turistico, luogo sicuro (a ingresso controllato) dove tutti si preoccupano del nostro benessere e di realizzare i nostri sogni. L’esempio più eloquente di tale tendenza è

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alcune immagini del Master Plan dell’EXPO di Milano 2015 (“Nutrire il Pianeta, Energie per la vita”) elaborato dalla consulta degli architetti (Stefano Boeri, Ricky Burdett e Jacques Herzog) in sinergia con il gruppo di progettisti di Società Expo 2015. Lungo il grande asse centrale si attestano I lotti di terreno coltivati chiamati a formare, insieme alle grandi serre, l’Orto Planetario di Milano.

indubbiamente la cittadina di Celebration costruita tra il 1987/97 dalla Disney Imagineering, nei pressi di Disneyworld in Florida. Una stucchevole pianificazione che peraltro contravviene ai dettami futuribili e sperimentali pensati da Walt Disney negli studi per il famoso Project X (1966). Celebration ricorre, infatti, a semplici case unifamiliari ‘in stile’, su modello della casa di Mickey Mouse, visitabile poco lontano all’interno dell’enclave del Theme Park. Molti sono gli esempi ormai realizzati, soprattutto in America, ma anche in Europa e in Asia, di questi piccoli ‘paradisi residenziali’, in realtà veri e propri ‘fortini’, scenograficamente ineccepibili, supercontrollati, asfissianti nella loro celata veste di gated community. Esempi di tale fenomeno sono documentati anche dal cinema; dalla tragica realtà di Città del Messico del film La zona di Rodrigo Plà (2007) a quella più esoterica di The Village di M.Night Shyamalan (2004), in cui emerge l’idea di hortus conclusus, di recinto paesaggistico e naturale per la messa a distanza dal mondo reale, sino a The Truman Show di Peter Weir (1998), dove il set scenografico che fa da sfondo alla finzione cinematografica è in realtà una città reale: Seaside, una piccola città per le vacanze costruita nella prima metà degli anni ‘80 in Florida. ‘Autentico’ e ‘contraffatto’ non sono più riferimenti contrastanti, quanto piuttosto concetti che si miscelano in una sintesi abitabile rassicurante e

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seducente declinata secondo le categorie del contestualismo, regionalismo, situazionismo, memoria storica ritrovata e reinterpretata. Seaside e gli interventi seguenti (Kentlands, Windsor, Bamberton, solo per citare alcuni progetti firmati dagli architetti Andres Duany e Elizabeth PlaterZyberk, già appartenenti al gruppo Arquitectonica di Miami) si caratterizzano per la formula del low rise-high density (edifici da tre a cinque piani con densità medio-alte, costruiti formando corti interne o semplicemente affiancati a definire le strade e gli isolati), la pratica di disegno residenziale urbano che ha conosciuto il maggior successo dal punto di vista della qualità ambientale. Tra i ‘Dreamlands’ affrontati nella mostra il tema delle Expo si lega al modello del recinto urbano/parco tematico espositivo che si affianca in chiave tipologica a quello per il tempo libero. Ad accomunare le Expo degli ultimi anni, compresa quella in corso a Shanghai, sono modelli eterogenei che si caratterizzano per il carattere fieristico di padiglioni distribuiti nel recinto urbano, chiamati a comporre un luogo d’attrazione seguendo la tradizione ottocentesca e del secolo scorso. A tale modello si contrappone quello innovativo previsto per l’Expo di Milano 2015 “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, il cui Master Plan è stato presentato lo scorso aprile. Ai tradizionali padiglioni architettonici, declinati in elementi in parte

smontabili e riutilizzabili nei Paesi partecipanti, il progetto redatto dalla consulta degli architetti (Stefano Boeri, Ricky Burdett e Jacques Herzog) in sinergia con il gruppo di progettisti di Società Expo 2015, sostituisce brani paesaggistici chiamati a comporre quello che è stato definito come un ‘Orto Planetario’ con grandi serre adibite ad ospitare la ricostruzione di specifiche biosfere. Un modello sperimentale che almeno nei presupposti progettuali tende a configurarsi come un’isola circondata da un canale d’acqua, una sorta di ‘eterotopia ambientale’ che potrebbe diventare cerniera tra città e campagna, nonché innovativo modello, possibile Dreamland per nuove matrici di disegno del territorio. Ma ancora, come lo stesso Boeri afferma, permane a livello concettuale il Theme Park come riferimento urbano di fondazione: “Il Parco a tema che Milano riceverà in eredità dall’Expo non avrà solo un valore ludico (peraltro garanzia di reddito). Le grandi serre che ospiteranno la ricostruzione delle condizioni climatiche del pianeta saranno anche delle palestre straordinarie per studi di botanica applicata e di scienze dell’alimentazione, al servizio di centri di ricerca internazionali”.

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Oggetti e Progetti, LA MOSTRA DI Alessi ALLA PINAKOTHEK DER MODERNE DI MONACO DI BAVIERA, CURATA DA Alessandro Mendini, NON È SOLO UNA rassegna DEGLI ULTIMI DECENNI DELL’AZIENDA DI OMEGNA, MA UNA STIMOLANTE ipotesi di lavoro.

testo di Cristina Morozzi foto allestimento di Giacomo Giannini

ImmaGInare Le DIrezIonI FuTure ‘ALESSI IN WONDERLAND’: I PROGETTI PROVOCATORI DI UN GRUPPO DI GIOVANI DESIGNER OLANDESI VISTI ATTRAVERSO I FORI DI UNA SORTA DI GIGANTE VIEWMASTER AZZURRO. SI TRATTA DI UNO DEGLI ELEMENTI ESPOSITIVI IDEATI DA ALESSANDRO MENDINI PER L’ALLESTIMENTO DELLA MOSTRA OGGETTI E PROGETTI DI ALESSI.

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e mostre aziendali sono, in genere, repertori più o meno filologici, riletture colte o spettacolarizzazioni di un percorso produttivo compiuto. Quelle curate da Alessandro Mendini per Alessi, oltre che originali impaginazioni del catalogo, sono ipotesi di lavoro. Sono occasioni per riflettere sulle sorti del design, sui metodi produttivi, sui linguaggi aziendali, per indicare le direzioni future. Anche Oggetti e progetti alla Pinakothek der Moderne di Monaco di Baviera, in programma dal 21 maggio al 19 settembre, è un’acuta analisi degli ultimi decenni: la fase finale del Bel Design italiano (anni ’70), il periodo Postmoderno (anni ’80), il periodo ludico (anni ’90) e infine il momento eclettico (anni 2000). Ma è, come dichiara Alberto Alessi, “prima di tutto, un esercizio stimolante e difficile: quello di definire in anticipo le direzioni nelle quali ci porterà il prossimo decennio”. Difficile, perché Alessi, “un casalingaio”, come dice Alberto, “che vende anche nelle ferramenta”, ha sempre praticato una continua attività di mediazione tra le espressioni più avanzate della creatività contemporanea internazionale e le aspettative del pubblico, moltiplicando prodotti e tipologie e costruendo un network di circa 200 designer, che ogni anno si rinnova con qualche nuovo ingresso. La mostra è un poetico riassunto, storicizzato anche nella soluzione espositiva, che contempla gli oggetti disposti su espositori presi da mostre precedenti: i piedistalli lignei di Starck, le mensole metalliche di Italo Rota, il muro di Hans Hollein. Ci sono i prodotti, i prototipi, gli stampi, i disegni di Aldo Rossi, i dipinti africani, le caffettiere di latta di Riccardo Dalisi, le foto di famiglia. E ci sono i pensieri, raccontati dai veloci videoclip d’animazione (2 minuti ciascuno) di Giacomo Giannini.

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Mendini ha disegnato un ecosistema, organizzato tipologicamente e per fasi storiche, comprendente anche i modellini del Bagno e della Cucina Alessi. Al centro c’è la Giostrina, una miniaturizzazione creata nel 2000 dallo stesso Mendini, che la definisce “una maniera sorridente per fare intuire un sogno, una fabbrica dei sogni. Un grande impegno salito su una giostra giocattolo di un bambino” (Alessandro Mendini, Scritti, a cura di Loredana Parmesani, Skirà, 2004). Il muro bianco di Hollein, che attraversa orizzontalmente la sala, espone nei suoi archi regolari le nuove istanze, la sezione dedicata al futuro dell’azienda, che rende la mostra un laboratorio e un osservatorio sui paesaggi futuri. Le nuove istanze sono temi sui quali l’azienda sta lavorando, destinati a trasformare lo scenario mondiale del design. Si tratta di 12 nuovi progetti.

In alto a sinistra, Uno scorcio dell’allestimento. Sulla parete di fondo, il gigantesco viewmaster, ironico contenitore del progetto collettivo ‘Alice in Wonderland’, basato sul riutilizzo, sulla semplicità produttiva, sul minor spreco di materiale. In alto, la mappa della mostra disegnata da Alessandro Mendini: un ecosistema organizzato per tipologie e fasi storiche. Sopra, una Veduta d’insieme della mostra. Al centro, la Giostrina, miniaturizzazione creata da Alessandro Mendini nel 2000, “una maniera sorridente per far intuire una fabbrica dei sogni”.

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Sotto A destra, il servizio di posate ‘Asta Barocca’ di Alessandro Mendini. Il progetto, che appartiene al gruppo delle ‘nuove istanze’ presentate da Alessi, riprende il disegno delle posate Asta, il cui manico diviene superficie di supporto per delicate decorazioni barocche. In basso, altri due progetti della serie ‘nuove istanze’: la Casseruola della collezione Shiba disegnata da Naoto Fukasawa e un Disegno della serie Ovale, servizio in porcellana creato da Ronan&Erwan Bouroullec, al loro debutto nella squadra di designer Alessi.

Nove sono destinati ad una prossima e reale produzione e nascono dall’ipotesi generosa di riportare la produzione meno complessa, come i tagli al laser, le piegature e le lavorazioni con il filo di metallo, all’interno dell’azienda madre. L’undicesimo è l’anticipazione di un progetto che verrà sviluppato nel 2011 insieme al Beijing Industrial Design Center: in una sorta di emblematico rovesciamento, dieci architetti cinesi verranno chiamati a realizzare oggetti per la tavola sulla base di un brief impostato sulla massima semplicità produttiva. L’ultimo progetto, ‘Alessi in wonderland’, è una provocazione concettuale da guardare attraverso “il buco della chiave”, pensata da un gruppo di giovani designer olandesi, invitati a elaborare proposte inventive basate sul riutilizzo, sulla semplicità produttiva, sui bassi consumi e sul minore spreco di materiale. Per sottolineare il loro carattere immaginifico, le proposte sono racchiuse in una sorta di gigantesco viewmaster azzurro, provvisto di fori da cui sbirciare l’illusorio paesaggio. Le nuove istanze indicano un superamento dell’ultima fase eclettica, anche se i linguaggi continuano ad essere variegati. Il futuro di Alessi si manifesta più aderente all’antropologia. Abbandona le accentuazioni espressive, decanta le invenzioni formali, per indagare l’arcaico, l’ibrido, l’ordinario, le origini e lo styling estremo. Imposta un ritmo più disteso e riflessivo per disegnare un paesaggio più tranquillo. Appartiene alla nuova semplicità la famiglia di oggetti in filo di ferro ‘A tempo’ della giovane designer Pauline Deltour, un’allieva di Konstantin Grcic. Lavorando il filo come elemento grafico, Pauline ha creato speciali effetti ottici, pur utilizzando tecniche di produzione di estrema semplicità. Naoto Fukasawa, con il set di pentole Shiba (il nome del cane più diffuso in Giappone), codifica la tendenza diffusa a usare nella vita di tutti i giorni pochi strumenti e sempre i medesimi, creando un paradigma di nuova normalità che, nella forma apparentemente modesta, cela una ricerca esasperata dei dettagli. La collezione Ovale in porcellana dei fratelli Bouroullec, è, come sostengono gli stessi designer, “poco zuccherata”, cioè delicata, poco espressiva, quasi neo primitiva. Anche i fratelli Campana con Paniera, cestini realizzati con la rete metallica dei setacci, attenuano il loro segno per offrire, pur lavorando con materiali poveri, una immagine di familiare decoro. Mendini ha lavorato

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sia sul kitsch, inteso come attitudine antropologica, con la serie di cavatappi ‘Anna etoile’ ingioiellati a festa, sia con il decoro, disegnando vassoi e posate cesellati con volute barocche. Quindi si è cimentato in uno dei progetti più difficili: ridisegnare la moka in alluminio. Il risultato ha un lieve sapore arcaico, dato dalle volumetrie più morbide che paiono consumate dalle ‘carezze’ di molte mani. “L’oggetto Alessi degli anni ’90”, scrive Alessandro Mendini, “in questo vuole essere esemplare: essere un compagno affettuoso” (Alessandro Mendini, Scritti, ibidem). Gli oggetti Alessi per il domani rivelano un’affettività più pudica: quel genere di relazione sulla quale si fondano le passioni durature.

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Paniera, cestini realizzati in piÚ strati di rete d’acciaio, simile a quella normalmente utilizzata per i setacci, con finitura in fibra naturale. Progetto di Fernando e Humberto Campana.

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In scena a Shangai, nell’ambito della partecipazione italiana all’Expo 2010, l’iniziativa Italia degli Innovatori mette in luce 265 progetti selezionati per rappresentare le eccellenze dell’inventiva del nostro Paese.

Santi, navigatori, poeti e innovatori

testo di Stefano Maffei

Sopra e nella pagina accanto: Plinius Cooking Art, macchina manuale per la pasta di Rossovivo Design. Sopra a destra: Arduino, la scheda programmabile di Massimo Banzi.

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aranno in mostra dal 24 luglio al 7 agosto presso il Padiglione Italiano dell’Expo di Shangai dedicato al tema Better City, Better Life le 265 innovazioni tecnologiche scelte all’interno dell’iniziativa Italia degli innovatori, promossa dal Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta, e dal Commissario generale del Governo, Beniamino Quintieri. Lo scopo è quello di presentare un repertorio di aziende e di progetti che esprimano l’ingegno e l’inventiva italiana a testimonianza della tradizione innovativa del nostro Paese. La selezione è stata effettuate tra 454 proposte complessive, che, secondo il bando, potevano riferirsi a innovazioni tecnologiche per la città, oppure a innovazioni per i cittadini e per

la qualità della vita ed essere avanzate da imprese, consorzi, università, centri di ricerca, parchi scientifici e tecnologici italiani. Secondo le intenzioni del Ministero, questo capitale di idee continuerà a essere arricchito anche dopo la chiusura della mostra e dell’Expo per diventare una sorta di arca della creatività permanente. Di fatto, la rassegna dei progetti prescelti ci restituisce oggi l’immagine di un Made in Italy innovativo che, fatte salve alcune eccellenze, è mediamente anonimo e oscilla senza ambizioni di leadership tra prodotto e servizio, ricerca sperimentale avanzata e soluzioni tecnologico-produttive commerciali, faticando a raccontarsi e a proiettare un’immagine convincente di sé.

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Sopra: WhaiWhai di LOG 607, collana di guide turistiche non convenzionali che conducono alla scoperta di città e itinerari attraverso un gioco interattivo.

Sotto: Takaje, sistema per il sottovuoto di Adriano Design per Tre Spade. grazie a un sistema a valvola brevettato permette di riutilizzare qualunque contenitore in vetro.

I casi rappresentati appartengono ai settori più svariati e a stadi di sviluppo diversi (prodottiservizi-tecnologie commercializzati, prototipi, progetti…), spesso non valutabili o non comparabili con il benchmark dell’innovazione mondiale. Tutto ciò racconta di una Italia in cui il fare innovativo è ancora sbilanciato a favore del Nord e in cui l’innovazione è spesso non sistematica e strategica, non supportata da un sistema efficace di venture capital e neppure da adeguati sostegni pubblici, rimanendo molto spesso allo stadio di prototipo e progetto.

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L’iniziativa sembra mandare un solo problematico e fortissimo messaggio: chi innova in Italia è solo. Tuttavia, nella selezione dei progetti dell’Italia degli Innovatori possiamo trovare esempi d’eccellenza che spaziano dai settori tradizionali a cui il design italiano si è sempre applicato sino a casi riferiti ad ambiti innovativi. Partendo dalla bellissima macchina per fare la pasta a mano Plinius Cooking Art di Rossovivo Design, in cui un semplice e minimale design rende possibile una performance da ambasciatrice della pasta. Compatta, trasportabile, totalmente (ed ecologicamente) disassemblabile. Realizzata con componenti in acciaio, bronzo e leghe d’alluminio di derivazione aeronautica ricavati dal pieno e assemblati manualmente. Interamente realizzato in Italia (in Piedmont, come orgogliosamente ci tengono a dire i produttori) in un numero limitato di esemplari, con una serie di personalizzazioni possibili (i materiali dell’impugnatura del manico, le singole coppie di rulli con materiale, profilo e passo specifici per particolari tipi di pasta), questo prodotto rappresenta l’evoluzione finale di un altro prodotto che fa parte della memoria storica della cultura alimentare italiana, la macchina per la pasta Imperia.

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Sempre alla grande arte italiana del saper vivere slow, anche se in maniera contemporanea, appartiene il sistema per il sottovuoto Takaje di Adriano Design per l’azienda Tre Spade, in cui la conservazione alimentare e il mantenimento delle qualità organolettiche si coniugano con la consapevolezza ecologica: grazie a un sistema a valvola brevettato, offre la possibilità di riutilizzare qualunque contenitore in vetro, trasformandolo in contenitore per il vuoto e donandogli quindi un fondamentale valore aggiunto. Un’idea eccellente di recupero di packaging che effettivamente si sposa in maniera assai appropriata con un’idea di consumo a basso impatto ambientale. E il territorio, o meglio le città (Roma, Firenze, Milano, Verona, Venezia), costituisce lo sfondo in cui vivere una esperienza che è un misto tra fiction, caccia al tesoro, guida turistica. Succede grazie a WhaiWhai di Log 607, un prodotto-servizio che offre la possibilità di scoprire la città attraverso storie che si snodano interattivamente e vengono attivate a distanza via SMS. Passando invece a un altro ambito classico del made in Italy come quello della casa, vengono segnalati prodotti come Pure Wave della serie Luxerion di Elica, in cui luce e sofisticato controllo

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microambientale si fondono in una sintesi originale, per arrivare al geniale e futuribile sistema di facciata Solpix, lo Zero Energy Media Wall, lo schermo a colori LED più esteso al mondo, dotato di sistema fotovoltaico integrato al curtain wall dell’edificio che produce energia durante il giorno e la usa per illuminare lo schermo di notte: progettato da Simone Giostra+Partners, è realizzato da Suntech con il supporto di Schüco e SunWays. Nel campo del progetto dell’immaterialeinterattivo sono da segnalare invece le esperienze eccellenti di Arduino, scheda elettronica programmabile open source diventata lo standard di riferimento nel mondo dell’interaction design nonché la piattaforma tecnologica attorno alla quale si confronta e opera una vastissima comunità internazionale di hacker-maker, oppure la realtà emergente di Fuse, studio-laboratorio creativo modenese che realizza sistemi interattivi touchless basati su interfacce a interazione naturale. E ancora, le soluzioni di realtà aumentata di seac02, azienda hi-tech torinese che, attraverso la commistione tra reale, realtà aumentata e realtà virtuale crea soluzioni innovative per il marketing, per il retail e l’e-commerce, per la progettazione e la simulazione avanzata.

In alto: Greenpix, lo zero energy media wall di Simone Giostra & Partners applicato alla facciata del complesso di Xicui a Pechino. Il sistema, che utilizza una tecnologia sviluppata con SchÜco e SunWays, accumula l’energia solare durante il giorno e la riutilizza durante la notte per illuminare i LED che avvolgono l’edificio (foto courtesy Simone Giostra & Partners). Sopra: la cappa Pure Wave della serie Luxerion di Elica, un apparecchio multifunzionale che integra la purificazione dell’aria con l’illuminazione.

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di Andrea Banzi foto di Mimmo Jodice

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in collaborazione con il Museo di Fotografia Contemporanea, La Fondazione Capri (www.fondazionecapri.org) ha fortemente voluto e organizzato (fino al 30 agosto) la mostra – curata da roberta valtorta – Mimmo Jodice.Figure del mare, dedicata ad uno dei più grandi maestri (napoli, 1934) della fotografia italiana, che nel 2010 celebra i suoi cinquant’anni d’attività artistica, presso la certosa di san giacomo di capri. Nelle immagini: in questa pagina, Amazzone, Ercolano, 2008; nella pagina accanto, Alba Fucens Angizia, 2008.

I

Negli ambienti della cultura del progetto è da tempo che non si parla più di politica. ma, forse, possiamo dire che non si parla più neppure di cultura. in questo momento, tutte le attività creative – progettuali o artistiche – si sono trasformate in pratiche ‘professionali’ che si collocano fuori da responsabilità civili dirette, cui l’ambientalismo fa da paravento.

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l silenzio è caratteristico di un’epoca di transizione profonda: alcuni filosofi – come ad esempio Paolo Virno – stanno affrontando una riflessione comparativa tra due concetti sociali contrapposti: quello di ‘popolo’ e quello di ‘moltitudine’. Due categorie nate durante il XVII secolo ma che possono fornire chiavi di interpretazione del presente, con importanti ripercussioni sulle categorie su cui si basa la progettazione territoriale. La nozione di ‘popolo’ fu elaborata dal filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) e identifica per la prima volta il consorzio umano in strutture territoriali, in istituzioni statali, in tradizioni antropologiche; nella sua visione politica vi era una radice pessimista, tipica del Rinascimento, che vedeva la società costituita da soggetti violenti (sua è la definizione Homo homini lupus), a cui solo l’istituzione di Stati nazionali poteva porre rimedio: quindi, quanto più forte era lo Stato, tanto più sicura era la società. Il filosofo spagnolo Baruck Spinoza (1632-1677) elaborò invece il concetto di ‘moltitudine’, dove il consorzio umano non si formalizza in istituzioni statali, ma permane come un insieme informe di singoli individui, la cui unità si ricompone in entità politiche sopraterritoriali e non in strutture di governo locale. Da Hobbes deriva quindi la tradizione tipica del XX secolo degli Stati nazione, dello Stato centralizzato, dello Stato fabbrica, fino al conflitto tra stati, nazioni, blocchi. Realtà tutte, oggi, grandemente in crisi nel mercato globalizzato.

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in questa pagina, dall’alto: Mimmo jodice, Marelux, Napoli (2009) e Baia, il compagno di Ulisse (1992), nell’ambito della mostra personale Figure del mare, alla certosa di san giacomo di capri, fino al 30 agosto (catalogo di silvana editoriale).

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Dalla tradizione di Spinoza deriva invece l’idea delle grandi alleanze sopra-nazionali come l’Europa unita, lo stesso socialismo, fino all’attuale economia globalizzata, al lavoro diffuso postfordista, all’economia virtuale. Nel primo caso, la struttura urbana garantisce tutte le condizioni di difesa dell’individuo dai pericoli di una società ingovernabile: città istituzionali, proprietà privata, luoghi perimetrati, fondamenta stabili e definitive, specializzazioni funzionali. Nella seconda ipotesi la ‘moltitudine’ come uno sciame creativo, supera confini e fondazioni, sfuma le competenze rigide, crea circuiti sopraterritoriali. Realtà molto simili alle condizioni (negative e positive) dell’attuale capitalismo globalizzato, dove – come dicono Michael Hardt e Antonio Negri – Non c’è più un fuori. Il modello di Hobbes, rigido e specializzato, dimostra oggi tutta la sua fragilità e rischia di spezzarsi di fronte alle crisi ricorrenti dell’economia locale e internazionale; il modello di Spinoza ispira invece una intrinseca flessibilità e capacità di adattamento per gestire positivamente lo stato di crisi permanente dell’economia locale e mondiale, in assenza di un modello generale di riferimento. Il passaggio dunque di cui oggi si riflette, dal concetto storico di ‘popolo-stato’ a quello di ‘moltitudine-globalizzazione’ produce una evidente ricaduta sui fondamenti del progetto: da una parte gli apparati solidi e permanenti dell’architettura, dall’altra la natura molecolare, ingovernabile e interstiziale del design e del mondo degli oggetti. Non si tratta di una disputa disciplinare né di un conflitto accademico: si tratta di cominciare a confrontarsi con la storia attuale, con le opzioni presenti sul campo. La politica nasce da queste radici, dal realismo e dalla fantasia.

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Mimmo Jodice, Volto di atleta, Villa dei Papiri di Ercolano, 1986. opera esposta nell’ambito della mostra Figure del mare (fino al 30 agosto, alla certosa di san giacomo), organizzata dalla fondazione capri (www.fondazionecapri.org), nata allo scopo di valorizzare e tutelare il patrimonio storico e artistico dell’Isola, producendo e diffondendo cultura sul territorio e collegandosi così all’isolana vocazione di laboratorio culturale en plen air, nonché centro internazionale d’incontri e confronti, basato su turismo&cultura, principale volano di sviluppo socio-economico.

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L’OPERA 3D SKETCHBOOK È COMPOSTA DA PICCOLI OGGETTI REALIZZATI A MANO ED È INCORNICIATA DA NASTRO ADESIVO NERO: SONO GLI APPUNTI TRIDIMENSIONALI DI RON GILAD, AFFISSI A UNA PARETE DEL SUO STUDIO-ABITAZIONE DI BROOKLYN. NELLA PAGINA ACCANTO, RON GILAD RITRATTO DI FRONTE ALLA GRANDE LAVAGNA DOVE APPUNTA I LAVORI IN CORSO: È PITTURATA A PENNELLO DIRETTAMENTE SULLA PARETE.

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In cucIna con Ron GILaD “Progettare è come cucinare” PER L’ASTRO NASCENTE DEL DESIGN INTERNAZIONALE. SARÀ ANCHE PERCHÉ LA SUA casa-studio di Brooklyn, A DUE PASSI DAL QUARTIERE HIP DI WILLIAMSBOURG, ERA IN ORIGINE UNA fabbrica di pasta? a cura di Gilda Bojardi foto di Photo Tomoe

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RON GILAD / 71 La grande vetrata della casa-studio di Ron Gilad con vista sul ponte di Brooklyn e sul Financial District di Manhattan. all’epoca del crack dei mercati finanziari, il designer immaginava di osservare i grattacieli calare a picco. Attorno al lungo tavolo di recupero, una collezione di sgabelli; la lampada sospesa è uno dei primi prototipi del lampadario Dear Ingo, dedicato a Ingo Maurer e successivamente prodotto da Moooi.

L’

artista-designer israeliano, autore di vari progetti per Flos che lo hanno messo in evidenza durante l’ultima settimana del design milanese, racconta di non essere attratto dalle forme delle cose, ma dalle molecole con cui sono fatte. Molto bravo a realizzare oggetti-scultura in ferro e legno, rivela gli ingredienti con cui ha sedotto Marcel Wanders. Parla della sua ‘storia d’amore’ con Piero Gandini. Spiega perché gli oggetti non sono mai quello che sembrano. E racconta perché vuole abbandonare la Grande Mela e tornare a vivere a Tel Aviv, dove è nato trentotto anni fa. Mr Gilad, qual è la sua relazione con i suoi oggetti? “Le cose che creo non sono altro che un commento a quello che già esiste. Mettiamola così: oggi nessuno scopre ‘l’acqua calda’. Per creare nuovi oggetti basta mescolare bene tra di loro cose che già esistono. Fare il mio lavoro è come cucinare: per preparare un buon piatto bisogna avere la ricetta giusta e conoscere bene tutti gli ingredienti. Personalmente mi lascio influenzare da tantissimi riferimenti culturali”. Mi faccia un esempio. “La lampada Dear Ingo che ho fatto molti anni fa in omaggio al grande Ingo Maurer. Il mio primo studio a New York si trovava sopra il suo negozio e ogni volta che andavo a prendermi un caffè dall’altra parte della strada, almeno un paio di volte al giorno, lo incontravo. In quel periodo lui creava magnifiche lampade riaggregando oggetti già esistenti. Mi proposi di fare un gesto creativo che avesse potuto ricordarmi quello che vedevo ogni mattina dal mio studio e di mandarglielo quasi come se si trattasse di una lettera d’amore. Sono andato all’Ikea, ho comprato tante task lamp, ho pensato a una struttura che le tenesse insieme e ho inventato ‘Dear Ingo’ che va nel senso opposto a quello degli oggetti industriali. Un gallerista francese l’ha vista e mi ha proposto di farne una mostra. Abbiamo cominciato a produrre un po’ di pezzi nel nostro studio e ne abbiamo venduti molti a Parigi. Anche Marcel Wanders ne vide uno e mi chiamò per chiedermi se poteva averlo. “Certo che puoi – risposi – e ne abbiamo venduti circa 250”. Per me è stato uno scherzo, ma qualcuno lo ha preso sul serio…”.

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Sotto, altri scorci della casa-studio del designerartista di origini israeliane. In senso orario: il tavolo di lavoro; Lo sgabello ‘Half Void Stool’ disegnato dallo stesso Gilad; Il bancone della cucina; Il bagno, con la porta in miniatura.

Nella pagina accanto: opere, prototipi, prove di lavoro che raccontano l’approccio al progetto di Ron Gilad, a cavallo tra arte e design. Da sinistra: Drawing No.5, olio su tela, assemblaggio di legno dipinto e dorato, specchio, vetro; Drawing No.6, olio su tela, legno dorato, carta da parati, specchio, vetro. Appoggiato allo scaffale, il Prototipo della lampada da tavolo Teca presentata da Flos nel 2009.

Le piace vivere a New York? “È duro vivere qui. Ho vissuto a lungo a Tel Aviv e a un certo punto ho conosciuto il mio socio d’affari, che è di New York. Con lui abbiamo deciso di aprire uno studio insieme. Oggi, a distanza di nove anni lo considero quasi un errore perché non mi piace lo stile di vita delle grandi città”. Significa, quindi, che si sposterà in una città più piccola? “Bella domanda! Qui ho una carriera e una routine che è molto difficile interrompere. Ho molta voglia di riavvicinarmi a Tel Aviv, l’unico posto dove mi sento a casa mia. Qualsiasi posto in Europa sarebbe un bel passo avanti per me, ma forse non mi permetterebbe di sviluppare il mio lavoro così come negli Stati Uniti”. Perché ha scelto Brooklyn? “Quando mi sono trasferito a New York vivevo in pieno centro, nella city. Per circa sei anni e mezzo ho gestito lì il mio studio e per i primi due anni mi sentivo quasi ubriaco per quello che la città aveva da offrire. Ma erano troppe le informazioni perché fossi in grado di digerirle. A quel punto ho cominciato ad accumulare rabbia contro la città. Volevo fermarmi e mi sono reso conto che l’unico modo era di allontanarmi un po’, andare oltre il fiume, un po’ più in disparte. Qui a Brooklyn le cose vanno molto più lentamente, lo si avverte dal ritmo della gente che cammina per strada”. Quali sono i suoi riferimenti culturali, i personaggi e le esperienze che hanno inciso sulla sua formazione di progettista? “A volte i miei riferimenti a determinati tipi di cultura sono decisamente voluti, altre volte sono assolutamente inconsci. È difficile dire ‘which is which’. Per esempio, avevo cominciato a lavorare su due pezzi di muro che sarebbero dovuti diventare parte di un progetto di specchi. Ad una mostra dedicata alla ricerca di cosa sia una casa mi era venuta l’idea di agire come fossi stato un ladruncolo che entra in un’abitazione che non può essere sua, allora prende un coltello, taglia via in fretta una fetta di muro, se la porta a casa e la mette in un quadro, per tenersela tutta per sé. Il processo del design in questo caso è solo l’idea, ovvero la traduzione letterale dell’idea nel pezzo”.

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In alto, lo specchio ‘Ciao Achille’ della serie Mirrors disegnata per Flos (2010): una volta accesa, la superficie riflettente rivela un’immagine inaspettata.

Sopra, da sinistra, altri due nuovi progetti presentati da Flos lo scorso aprile: la lampada a parete Wallpiercing progettata per ridurre al minimo l’impatto visivo; la collezione Linea di lampade a LED.

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Sotto, il primo progetto di Ron Gilad per Flos: la lampada Miniteca (2009), modello Victorian Grandeur, un omaggio alla storica abat jour, ma anche l’affermazione poetica del suo definitivo tramonto. Nella pagina accanto: Lucernario, elemento di fissaggio a sospensione con vetro dipinto retroilluminato all’interno, pensato per l’illuminazione diretta/indiretta, Flos, 2010.

Un altro esempio? “La fruttiera, che nella nostra percezione è qualcosa di rotondo e ha un volume perché è ricurva. Io guardo tutte le fruttiere che già esistono e cerco di capire quali sono le molecole di cui sono fatte. E dopo aver eliminato alcuni elementi, capisco che è costituita da una superficie e un bordo che impedisce alla frutta di rotolar via. La mia idea è quindi: elimino completamente il passato. Vado all’essenza e mi rimangono due cose: un bordo e una superficie. Queste sono le due ‘molecole’ di cui è costituita la fruttiera. Poi proseguo e mi dico: devo costruire un contenitore partendo da un bordo e una superficie e quello che otterrò alla fine sarà una fruttiera”. La sua ricerca si sviluppa tra arte e design. I suoi oggetti si collocano a metà strada tra l’invenzione e il gioco estetico, tra la funzionalità e l’astrazione grafica. Come si conciliano questi due aspetti del suo lavoro? “È molto frustrante per me avere a che fare con le definizioni. Preferisco che siano gli osservatori a rispondere alla domanda se sono un artista o un designer. Io creo oggetti, marco il mio territorio nel mondo, lentamente, soprattutto nel mio studio. Qualunque sia il risultato o in qualunque modo questo venga catalogato”. Ci racconti il suo incontro con Piero Gandini e i suoi progetti per Flos. “È una storia d’amore, anzi ‘d’amore a prima vista’. Prima di incontrarlo, avevo una serie di preconcetti sapendo che è il presidente di Flos e quindi un businessman. Quando è venuto nel mio studio, abbiamo parlato di ‘cose che non esistono’. È molto facile parlare di ‘una cosa’, ma è molto difficile parlare del collegamento che c’è tra le cose, di quello che c’è in mezzo. Sono stato particolarmente colpito dalla sua capacità di capire la poesia e l’astratto, siamo stati seduti per circa tre ore e abbiamo parlato di tutto tranne che del design. Per me è stato importante capire che anche un grande industriale può essere sensibile. In questo risiede la genialità di questa persona che determina il successo di Flos. Con Piero Gandini posso essere me stesso e questo mi fa sentire perfettamente a mio agio”. A quali progetti sta lavorando attualmente? “Su diverse idee per Flos. Sono ossessionato dal concetto di ‘soft architecture’, penso che ci sia molto da esplorare in questo campo e mi intriga l’idea di rivelare la funzione di un oggetto nascondendolo. Non voglio avere la lampada, ma solo la luce. Cos’altro? In questi giorni sto cercando soprattutto di giocare con i disegni architettonici e le loro rappresentazioni. Ho fatto un progetto di piccole architetture da tavolo: ‘Venti case per venti amici’. Si tratta di una serie di venti sculture di case astratte che insieme potrebbero definire un quartiere. Ho venduto ogni casa a un amico e ho messo tutti come vicini di casa nello stesso quartiere. Il progetto non è ancora finito, ma si tratta di un’installazione che spero possa viaggiare nelle gallerie di tutto il mondo”. Quanto conta la tecnologia nei suoi progetti? “Ne sapevo davvero poco di luce prima di lavorare per Flos. Ora posso parlare con i tecnici della quantità di lumen che si può usare nel progetto, capire quale sarà la reazione, la sensazione prodotta da una certa quantità di lumen.

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Penso che sia interessante per me perché non ho mai lavorato su un progetto avendo come punto di partenza la tecnologia. Rappresenta una fonte di ispirazione alternativa a Google”. Quale pensa sia il ruolo delle aziende italiane nel campo del design? “L’apertura all’innovazione. Penso che una buona società debba trovare il giusto equilibrio tra l’esigenza di innovare senza scioccare il pubblico. Oggi come oggi bisogna creare mostri per provocare reazioni; il livello per suscitare l’emozione nel pubblico è diventato così alto che bisogna mettersi a testa in giù e fare cose pazzesche perché la gente guardi il tuo lavoro più di un minuto e ne sia colpito. Penso che molte aziende italiane abbiano raggiunto il perfetto equilibrio tra la ricerca dell’innovazione e il suo utilizzo razionale e pacato”.

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SOTTO, ALCUNI PEZZI DELLA COLLEZIONE ‘LOUIS XXI, PORCELAINE HUMAINE’, DISEGNATA DA ANDREA BRANZI E CO-PRODOTTA DA SÈVRES-CITÉ DE LA CÉRAMIQUE E MOUVEMENTES MODERNES. NELLA PAGINA ACCANTO: IN OCCASIONE DELLA SETTIMANA MILANESE DEL DESIGN 2010, LA BOUTIQUE VAN CLEEF& ARPELS HA PRESENTATO LA SERIE DI OTTO PORCELLANE CON UNA PICCOLA MOSTRA CHE A OTTOBRE SARÀ OSPITATA PRESSO LA GALLERIA SÈVRES DI PARIGI.

IL L senso e IL mIsTero

progetto di Andrea Branzi testo di Stefano Caggiano

OTTO CALICI CHE ONDEGGIANO COME STELI E SI APRONO DELICATAMENTE COME COROLLE. CON LA COLLEZIONE Louis XXI, porcelaine humaine DI Andrea Branzi, LA PORCELLANA SI ANIMA DI SENSUALITÀ E POESIA.

P

er un designer, lavorare con Sèvres è un’esperienza del tutto particolare. I tempi non sono quelli abituali del mondo industriale. Mettere a punto la serie ‘Louis XXI, porcelaine humaine’ ha richiesto ad Andrea Branzi non meno di cinque anni, di cui due solo per individuare, assieme agli abili ceramisti francesi, un impasto di porcellana che presentasse il colore dell’incarnato umano, il ‘carnicino’, da cui il nome della collezione. La manifattura di Sèvres, fondata nel 1740 e divenuta nel 2001 Cité de la céramique, custodisce oggi qualcosa come 50.000 opere, 100.000 stampi, migliaia di schizzi e sculture, con più di metà della produzione dedicata al contemporaneo. Si collocano qui i calici della serie limitata disegnata da Branzi, presentata a Milano durante la scorsa design week nella nuova boutique di Van Cleef & Arpels e in programma a ottobre presso la galleria Sèvres di Parigi. Sospese in un paesaggio di grande raffinatezza, le delicate forme immaginate da Branzi ondeggiano tra il naturale e il genetico rilanciando nel XXI secolo (da cui Louis XXI) l’affascinante fragilità della porcellana, un materiale con la cui sofisticata tradizione tecnologica si sono confrontati, tramite Sèvres, artisti e designer come Louise Bourgeois

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(recentemente scomparsa), Bertrand Lavier, Naoto Fukasawa, Ettore Sottsass e Michele de Lucchi, per citarne solo alcuni. “Ai nostri sensi”, scrive Branzi, “la porcellana è sempre rimasta un mistero, e la prova che tutta la tecnologia si radica nella poesia e nella letteratura”. Se l’uomo va nel XXI secolo, quindi, ci va anche la porcellana, i cui esiti più avanzati ben individuano la misteriosa coesistenza fra il senso plastico della forma e l’arcano intoccabile della materia. Così, se per fare un complimento a una donna si usa dirle che la sua pelle sembra di porcellana, i calici di Branzi, in bilico tra carne e ceramica, esibiscono una finitura più simile a quella di un’epidermide che non a quella di una mescola di feldspati e caolini, estesa su forme vegetali aperte come orifizi verso gli sguardi indiscreti degli uomini. In fondo, le cose ci fanno paura perché non è possibile guardare negli occhi ciò che vede come un cieco, sente come un sordo, parla come un muto. Il design (la poesia, il progetto) diventa qui il tentativo di strappare alla materia una parola che ci rassicuri, facendo del silenzio muto delle cose il silenzio parlante degli oggetti. A rivelarci, infine, se dietro la materia si nasconda il nulla piuttosto che il qualcos’altro.

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Philippe Starck ed Eugeni Quitllet propongono l’idea di un design interattivo con una collezione di arredi prodotta da Dedon all’insegna della convergenza fra tecnologia e artigianato.

Un gioco da esterni testo di Francesco Massoni

L’

idea del gioco affascina da sempre il mondo del design. Gioco inteso come modalità d’apprendimento, modello di relazione, ‘divertissement’ creativo, sfida innovativa o trasgressione delle regole che governano la nostra esperienza dell’abitare e degli oggetti che vi concorrono. Del resto, la metafora del ‘puer ludens’, del bambino incline al gioco, calza a pennello per definire lo spirito di tanti progettisti capaci di rielaborare liberamente la realtà e le sue forme traendone spunti d’inconsueta originalità. Pensiamo, soprattutto, ad architetti e designer ‘disobbedienti’ come Bruno Munari, i fratelli Castiglioni, Vico Magistretti, Ettore Sottsass, animati nella loro attività da un programmatico e giocoso anticonformismo che introduce variabili estranee alla routine del mestiere e si fa beffe di concetti come la coerenza, la norma, lo stile, eccetera. Uno dei più fieri e irriducibili interpreti contemporanei di questa ‘scuola’ è senz’altro Philippe Starck, capace di muoversi indifferentemente in ambiti anche distanti fra loro, quanto lo possono essere quelli rappresentati da una calzatura sportiva o da una turbina eolica, da un letto o da un’imbarcazione, da una lampada o da una cassa acustica, conservando intatta però la voglia di meravigliare, di dire qualcosa di più e di nuovo. “Giocare è sempre importante. Perché ciò che ci distingue dagli animali è in primo luogo l’intelligenza, e il più bel sintomo d’intelligenza è il gioco”, afferma con convinzione. Se poi questi progetti, oltre che ‘belli’ sono anche ‘buoni’, nel senso che si fanno interpreti e promotori di un’idea di sostenibilità che non si ferma alle apparenze, allora il gioco è fatto. È il caso della sedia-poltroncina Play, nata dall’incontro fra il designer francese e l’azienda tedesca Dedon, leader nella produzione di arredi per esterni intrecciati a mano. Tutto ha avuto inizio con un invito ad esplorare il futuro, al quale Starck ha

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SOPRA, DALLA COLLEZIONE PLAY WITH DEDON DI PHILIPPE STARCK ED EUGENI QUITLLET PER DEDON, DUE ESEMPLARI MONTATI SU PEDANA DELLA POLTRONA A UOVO ‘LOUNGER’, CON STRUTTURA METALLICA E RIVESTIMENTO IN FIBRA SINTETICA INTRECCIATA A MANO BICOLORE (GRIGIA PER L’ESTERNO, ARANCIONE PER L’INTERNO). SOTTO, ALCUNE DELLE DECLINAZIONI POSSIBILI DELLA SEDIA-POLTRONCINA PLAY, DISPONIBILE NELLE VERSIONI CON E SENZA BRACCIOLI, CON TELAIO REALIZZATO A STAMPO IN POLIPROPILENE E FIBRA DI VETRO ABBINABILE A SEDUTA E SCHIENALE IN FIBRA SINTETICA INTRECCIATA A MANO, ALLUMINIO LUCIDATO A SPECCHIO O MASSELLO DI TEaK. LA COLLEZIONE ‘PLAY WITH DEDON’ COMPRENDE ANCHE IL TAVOLINO TONDO ‘BISTROT’, CON PIANO IN CERAMICA PORCELLANATA E PIEDISTALLO CENTRALE IN POLIPROPILENE STAMPATO. NELLA PAGINA Accanto, PHILIPPE STARCK RITRATTO CON ALCUNI ESEMPLARI DELLA SEDIA-POLTRONCINA PLAY, CONFIGURABILE A PIACERE grazie all’accostamento di MATERIALI E COLORI DIVERSI. in alto, uno schizzo di eugeni QUITLLET.

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risposto affermando: “Credo che l’unico stile per l’avvenire sia la libertà. Libertà di scegliere ciò di cui hai bisogno, ciò che desideri”. E da questo risulta immediatamente evidente che il progetto non scaturisce più da una relazione binaria, tra progettista e produttore, ma diventa un’opera ‘aperta’ alla cui configurazione concorre il cliente, il consumatore finale, con la sua creatività. L’interazione, dunque il gioco, è al centro del lavoro di Starck per Dedon, che si è sviluppato a partire da… un intreccio. Il successo ventennale del marchio di Lüneburg è basato infatti sulla fabbricazione di un’esclusiva fibra sintetica inalterabile, lavabile, resistente agli agenti atmosferici e climatici, biodegradabile. Questa fibra viene poi intrecciata a mano da artigiani tessitori e impiegata nelle collezioni outdoor realizzate da Dedon. Interazione, intreccio, ibridazione: tecnologia industriale e sapienza artigianale collaborano a forgiare l’identità distintiva di questi arredi, firmati da progettisti di talento, tra i quali Jean-Marie Massaud, Eoos, Frank

Ligthart, Harry & Camila. Così, Philippe Starck, assieme al designer catalano Eugeni Quitllet, ha deciso di valorizzarne ulteriormente le prerogative ideando un concetto “che concede ampio spazio all’intervento umano”. Elastica e resistente, superleggera e impilabile, la sua sedia-poltroncina Play è stata infatti concepita abbinando un telaio realizzato a stampo, in polipropilene e fibra di vetro, a seduta e schienale in fibra sintetica Dedon intrecciata a mano, declinabili a piacere in varianti cromatiche, accostamenti e melange di colori naturali, come gesso e carbone, pietra, terracotta e bronzo. Non solo, la sedia si presenta, con o senza braccioli, anche nelle opzioni in alluminio lucidato a specchio e massello di teak, per una varietà di scelte combinatorie che chiama in causa la creatività dell’acquirente, messo in condizioni di modellare la configurazione del prodotto a misura del proprio gusto e delle proprie esigenze. Un progetto condiviso e personalizzabile che, come sottolinea l’autore, trae le sue prerogative da un’inedita convergenza di automazione e ‘human touch’, manualità e cervello. Ma anche un progetto espanso e articolato, a lungo termine: “Questa sedia è solo l’inizio di una collaborazione e di un processo evolutivo aperto e proiettato sul futuro, come tutti i giochi dovrebbero essere”, commenta Starck. Una dichiarazione che ha trovato puntuale riscontro nella collezione Play with Dedon, comprensiva di una poltrona a uovo Lounger, con struttura metallica e rivestimento in fibra intrecciata bicolore, di un tavolino tondo Bistrot, con piano in ceramica porcellanata e piedistallo centrale in polipropilene stampato, e di un tavolo Dining, con gambe in alluminio lucidato a specchio e profilato in alluminio, il cui piano, mediante l’impiego di un composto inerte di polvere di bambù e plastica, evoca il vero legno. Un gioco destinato a crescere, dunque, e a coinvolgere ambiti complementari, come quello dell’illuminazione. Con la collaborazione di Flos, sono nate infatti le lampade da esterni Dedon, ispirate alla Super Archimoon, a stelo, e alla Romeo 3, a sospensione, con paralumi in fibra intrecciata, disponibili in quattro combinazioni di colori dalle tonalità contrastanti: gesso e carbone, gesso e terracotta, terracotta e pietra, arancio e bronzo.

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Grigioverde testo di Laura Traldi

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C’è quello trasparente che avvolge gli edifici come un velo. Quello superliscio, che sembra marmo. E quello a spessore minimo, perfetto per gli arredi. Ăˆ high tech e anche high touch, il nuovo cemento. amatissimo da architetti e designer e, soprattutto, ecologico.

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È in cemento e si chiama Aplomb, come il filo a piombo da sempre usato dai muratori. Ma in francese il suo nome significa ‘disinvolto, sicuro di sé’. Realizzata con uno speciale amalgama fluido che dà una superficie apparentemente grezza ma gentile al tocco, è una delle ultime lampade presentate da Foscarini. Design Lucidi-Pevere. (foto Massimo Gardone/Azimuth Photo).

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er il Maxxi a Roma, Zaha Hadid l’ha voluto au naturel: cioè faccia a vista. Ma liscio, capace di riflettere la luce e regalare un effetto quasi marmoreo. Per accontentarla, la Calcestruzzi (gruppo Italcementi) ne ha creato uno autocompattante da gettare a pressione praticamente liquido, con aggiunta di un additivo superfluidificante per riempire le casseforme senza difetti. Capricci da archistar? Forse. Sta di fatto che l’effetto finale è entusiasmante e la dice lunga sulle possibilità che il cemento, materiale edile vecchio come il mondo, ha ancora da offrirci. Da sempre nel mirino degli ecologisti (il WWF stima che il 5 per cento di tutte le emissioni di CO2

nel mondo abbiano origine dalla produzione di cemento!) il calcestruzzo sta infatti vivendo un nuovo rinascimento grazie all’impegno dei grandi gruppi nella ricerca verso soluzioni più sostenibili. Forse per questo oggi il cemento piace tanto anche ai designer, che non esitano ad utilizzarlo a piene mani per la realizzazione di arredi, lampade e persino accessori moda. La sfida è semplice da descrivere ma complessa da vincere. C’è da un lato la non rinnovabilità del materiale fondamentale per la sua realizzazione, il silicio. E di conseguenza la ricerca sulle possibilità di utilizzo di fonti alternative. Un pool di ricercatori del ChK Group nel Texas ha pensato ad esempio di sfruttare gli

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1. Per Fontana Arte, Marco Merendi trasforma il cemento in un gioco volumetrico di pieni e vuoti con la sua lampada da terra per esterni Smile.

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2. Il cemento c’è ma non si vede. È infatti disponibile con borchie e verniciatura effetto ferro antichizzato (con parte destra neutra ad effetto pietra fiammata) per rivestire il caminetto Oslo di Palazzetti. 3. Per realizzare questo divano in cemento dalle forme apparentemente soffici, Nacho Carbonell ha riempito delle borse di cemento colorato, lasciando che la materia si posizionasse liberamente. Il risultato sono strutture in stile libero (Foto di Studio Nacho Carbonell). 4. Cemento semitrasparente Luccon ad alta resistenza: lascia penetrare la luce grazie alla presenza delle fibre ottiche. Progetto di Kengo Kuma (Foto di Laura Traldi). 3.

scarti della lavorazione del riso: la pellicola che copre i chicchi quando sono sulla pianta è infatti ricca di ossido di silicio ma fino ad oggi l’eccessiva presenza di carbonio nella cenere della pula di riso non aveva condotto a risultati soddisfacenti in relazione all’utilizzo per la produzione del cemento. La soluzione degli studiosi americani, ancora in fase di ricerca, si basa invece su un processo di cottura a 800°C in fornaci prive di ossigeno che dà come risultato silicio allo stato puro. Ma la sfida più importante è quella della necessità, ormai quasi urgenza, di diminuire le emissioni prodotte dai forni. Si lavora verso la creazione di fornaci più efficienti e sull’utilizzo di biomasse come combustibili. Oppure rinnovando il prodotto, come ha fatto la Novacem in collaborazione con l’Imperial College di Londra: i suoi scienziati hanno messo a punto un particolare tipo di cemento realizzato a partire da silicati di

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magnesio da cuocere in forni di soli 650°C rispetto ai tradizionali 1500°C che non rilascia gas serra durante il processo di cottura e assorbe anidride carbonica durante la fase di solidificazione. Mentre la californiana Calera trasforma il carbonio emesso durante processi industriali di varia natura in componenti per la fabbricazione di calcestruzzo e asfalto utilizzando acqua di mare a pH regolato alcalinamente. Certo, si tratta di progetti ancora in fase di testaggio – la Novacem ha infatti avviato un progetto, in parte finanziato dal governo britannico, di costruzione di un impianto pilota per il nuovo cemento e prevede il primo inserimento sul mercato tra cinque anni circa – ma la direzione della ricerca è chiara. Il cemento del futuro dovrà essere verde. Ne sanno qualcosa alla Italcementi, orgoglio italiano del settore. L’azienda con sede a Bergamo ha firmato

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5. Sembra un oggetto gonfiato e morbido. In realtà, per realizzarlo, Tejo Remy e René Veenhuizen mettono insieme vari elementi realizzati a mano in PVC e li riempiono poi di cemento arricchito di fibre metalliche. Questo prototipo della Concrete Bench è stato presentato lo scorso maggio alla Galleria Industry di Washington (© Atelier Remy & Veenhuizen, courtesy Industry).

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l’anno scorso con il Ministero dell’Ambiente un ‘Patto per la Tutela dell’Ambiente’ che prevede un piano di investimenti di 510 milioni di euro per interventi tecnologici per la sostituzione di una parte di combustibili fossili utilizzati negli impianti nelle cementerie con combustibili derivati da rifiuti e la ristrutturazione di alcuni degli impianti di produzione di cemento finalizzata all’incremento dell’efficienza energetica e ambientale delle unità produttive. L’obiettivo è ridurre le emissioni di CO2 (circa 760 kt/anno) e risparmiare energia da fonti fossili (circa 260 Ktep/anno). Del resto, con oltre 5 miliardi di fatturato all’anno e 23mila dipendenti in 22 Paesi, il gruppo investe da sempre in innovazione. La sua piattaforma di ricerca i.nova coinvolge i 170 ricercatori dell’azienda, impiegati nei laboratori di Bergamo e Parigi, e un network che comprende 10 centri esterni, 30 aziende e 26 università italiane,

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europee ed extra-europee. È in questo incubatore di idee, dove la parola d’ordine è sostenibilità, che è nato nel 2006 il cemento mangia-smog TX Active®. Si tratta di un cemento arricchito di biossido di titanio che interagisce con l’ossigeno dell’atmosfera e si attiva in presenza della luce solare, ossidando in modo naturale, come in una fotosintesi clorofilliana, sostanze inquinanti come le polveri sottili, gli aromatici policondensati, gli ossidi di azoto, l’ossido di carbonio e l’ossido di zolfo che negli ambienti urbani sono prevalentemente generati dagli scarichi delle automobili e dai fumi emessi dagli impianti di riscaldamento. Dopo il processo di ossidazione, gli agenti inquinanti si trasformano in sostanze innocue. Altro nuovo prodotto di Italcementi è il cemento termico: realizzato impiegando aggregati vetrosi da riciclo non nobile (come schermi di tv e computer altrimenti difficilmente recuperabili),

1. Il Padiglione Italiano all’Expo di Shanghai: in linea con il tema Better City, Better Life, la grande struttura, progettata da Giampaolo Imbrighi e realizzata in i.light®, il cemento trasparente di Italcementi, rappresenta la capacità italiana del saper vivere e gestire al meglio gli spazi tradizionali di aggregazione sociale. 2. Il tunnel Umberto I a Roma, realizzato con il cemento mangia-smog TX Active® di Italcementi: si tratta di una gamma di materiali che sfruttano la capacità delle tecnologie fotocatalitiche di abbattere gli inquinanti presenti nell’aria grazie all’azione della luce.

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92 / INdesign INview 1. Sgabello e tavolino, Plinto è impilabile ed utilizzabile sia in interni che in esterni. Malgrado sia realizzato in calcestruzzo, è leggero e facilmente trasportabile grazie all’apposita maniglia basculante. Di Luca Nichetto per Skitsch. 2. Shangai, libreria bifronte con cornice esterna in rovere e ripiani in Cemento Ductal di Lafarge, un materiale composto da fibre organiche completamente riciclabile. Di Giuseppe Bavuso per Alivar.

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3. Nasce dall’accostamento modulare di blocchi in cemento il sistema di panche da esterno Bloc disegnato da Gerd Rosenauer. Fa parte della Cementum Collection realizzata da Viteo con Concreto. 4. Per Il Cantiere, Setsu & Shinobu Ito hanno progettato Bootamp, una collezione comprendente tavolo, panchina (nella foto) e altri complementi d’arredo in cemento Ductal, con sistema di illuminazione incorporato.

questo materiale ha coefficienti di conducibilità termica estremamente bassi. Il che, in parole povere, significa un ridottissimo scambio termico: quindi edifici freschi d’estate e caldi di inverno, con conseguente impatto sulle emissioni di CO2 (e sulle bollette!) Non a caso l’ha utilizzato Mario Cucinella per la sua abitazione sostenibile Casa 100K€, presentata al grande pubblico per la prima volta alla mostra Interni Design Energies nel 2008. È verde ma è anche molto ‘sensuale’ il primo cemento trasparente i.light®, realizzato in tempo record sempre da Italcementi a seguito della richiesta del Commissariato Italiano e dell’architetto Giampaolo Imbrighi di realizzare per il padiglione Italia all’expo di Shanghai una struttura in calcestruzzo che potesse però filtrare la luce. La trasparenza del cemento viene ottenuta utilizzando un premiscelato cementizio di nuova

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concezione che contiene circa 50 catene di resine plastiche particolarmente adatte per il trasporto della luce, dallo spessore variabile tra i 2 e i 3 millimetri. “Il cemento trasparente realizzato con resine plastiche è molto più economico di quello ottenuto con fibre ottiche (con costi che arrivano fino a un ordine di grandezza in meno) e meno fragile sia in fase di realizzazione che di utilizzo”, dice l’ingegnere Stefano Cangiano del centro ricerche Italcementi. “Inoltre la capacità di catturare la luce è maggiore, perché le resine contengono un angolo visivo più ampio rispetto alle fibre ottiche”. Per Shanghai, i.light® è stato fornito in pannelli prefabbricati di 500x1000x50 mm, con un peso di 50 kg, prodotti al ritmo di 200 al giorno per garantire la riuscita del progetto entro la data di apertura dell’Expo. Impossibile credere che nei pochi mesi messi a disposizione dalla richiesta del Commissariato, la Italcementi sia riuscita ad arrivare a tanto. “Al progetto lavora dal 2008 un team di ricercatori per un totale di 3000 ore di lavoro”, ammette Cangiano.

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“L’Expo è stata l’occasione per testarci dal punto di vista della realizzazione”. Già, perché quando si commercia un materiale di base come il cemento, anche e soprattutto in un momento di flessione come quello attuale, la parola d’ordine per mantenersi sulla cresta dell’onda è innovazione. Da far viaggiare ad alta velocità e in tandem con la sostenibilità.

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Il loro scopo? Riscattare l’estetica del cemento trasformandolo in un materiale a tutti gli effetti adatto agli interior. Per questo nella realizzazione di queste lampade della serie Concrete, Christina Tsiragelou & Babis Papanikolaou, alias 157+173 studio, lo hanno arricchito con metallo e fili colorati.

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di Katrin Cosseta

TecHno-Green reLax i nuovi divani outdoor come salotti en plein air. ricerca estetica e materiali performativi accomunano imbottiti extralarge, scultorei monoliti in rotazionale, leggeri volumi intrecciati. sullo sfondo, una natura artificiale e decorativa, in un dialogo giocoso tra segni e tecnologie.

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divano e vaso cÓdigo di ramÓn esteve per de castelli, collezione edition. la linea comprende, oltre al divano modulare e componibile, tre tipi di vasi e un tavolino. la struttura lineare in acciaio, l’alternanza ritmata di pieni e vuoti, il gioco di ombre connotano la collezione. Finiture disponibili: Cor-ten, laccato, brunito. picto, scultura decorativa outdoor a tema vegetale, di michael koenig per flora, in filo d’acciaio verniciato a polveri, disponibile in 4 misure anche in versione bianca.

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nella pagina accanto: ‘L’Albero rovesciato’ in alluminio, pigmenti e resine Gobbetto, con riproduzione fotografica su acetato. installazione permanente di Marica Moro presso L’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano, realizzata in collaborazione con il Museo d’Arte Paolo Pini. divano rap, di karim rashid per slide. realizzato in polietilene a stampaggio rotazionale, è ora proposto anche nella nuova finitura laccata a spruzzo in resina sintetica, lucida opaca e con effetto metalizzato.

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divani maze, di matteo nunziati per coro, con struttura in multistrato marino, imbottitura in poliuretano dryfeel, piani d’appoggio in acciaio inox satinato o teak con illuminazione opzionale led. circle lamp, di monica fÖrster per de padova, lampada da terra con struttura in acciaio e paralume in alluminio verniciato con vernice poliuretanica a effetto gomma.

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Divanetto bianco cloud, di carlo colombo per arflex, con Struttura portante in acciaio laccato opaco speciale per esterni. Molleggio a cinghie elastiche sintetiche SPECIFICHE per applicazioni outdoor. Cuscini e materassino rivestiti con tessuti e pelli per esterni. canapé asimmetrico méridienne, con schienale scultoreo, di dominique petot per moroso, collezione m’afrique. stuttura in ACCIAIO, intreccio in FIBRA SINTETICA realizzato a mano. BOTREE, LAMPADA PER ESTERNI IDEALE PER AMBIENTI URBANI, DI FERRARA PALLADINO E ASSOCIATI PER fontana arte COLLEZIONE ARCHITECTURAL OUTDOOR. Struttura e rami in estruso di alluminio con sezione a “H”, DISPONIBILI CON 4 DIVERSE SORGENTI LUMINOSE, TRA CUI CORPI LED ORIENTabili.

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divano modulare per esterni talete, di giuseppe viganò per pierantonio bonacina. Gli elementi schienale e fianco, caratterizzati dal dettaglio ad ala di rondine, hanno struttura in legno rivestita in tessuto di midollino traforato, profilato con cuoio a fascia larga impreziosita da una cerniera. appendiabiti freestanding tuboom, di giulio iacchetti per officinanove, in acciaio verniciato in 190 colori ral. in primo piano Flower, stelo decorativo in polietilene colorato di Emo design per Plust.

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divano componibile canvas, di francesco rota per paola lenti. La scocca è costituita da un telaio in tubolare d’acciaio trattato con cataforesi, su cui sono intrecciate grandi fasce portanti in Rope o Aquatech. rivestimento cuscini e seduta nei tessuti e nei colori della collezione Paola Lenti. tulip, lampade indoor/outdoor, in formato small o extralarge, di moredesign per myyour. realizzate in polietilene colorato in massa, disponibile anche in versione trasparente o verniciata lucida.

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divano componibile outdoor fence, di rodolfo dordoni per roda, connotato dallo schienale ritmato a doghe larghe in teak, che richiamano l’immagine di uno steccato. struttura in acciaio satinato, rivestimenti in tessuto idrorepellente. attaccapanni nara, di shin azumi per fredericia, relizzato con scarti in legno dell’industria del mobile.

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newport, divano modulare disegnato e prodotto da fendi casa by club house italia. Struttura in alluminio verniciato e intreccio di fibra sintetica Wave o Damier, bracciolo intrecciato in Damier tinta unita, resistente all’acqua e alle intemperie. tree light, appendiabiti in polietilene nella nuova versione con luce incorporata, di mario mazzer per bonaldo. appendiabiti nero bold di big-game per moustache, con struttura in acciaio laccato, schiumato e rivestito in tessuto sfoderabile.

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Interni luglio-agosto 2010 IITTALA OY Håmeentie 135 - P. O. Box 130 FI 00561 HELSINKI Tel. +358 204 3910 Fax +358 204 395160 www.iittala.fi www.iittala.com Distr. in Italia: FINN FORM V.le Monte Santo 4 20124 MILANO Tel. 02653881 Fax 0229003625 www.finnform.it info@finnform.it IL CANTIERE Via E. da Fiume Z.I. 27/A 33080 FIUME VENETO PN Tel. 0434560314 Fax 0434954153 www.ilcantieresrl.it info@ilcantieresrl.it ITALCEMENTI GROUP Via G. Camozzi 124 24121 BERGAMO Tel. 035396111 Fax 035396017 www.italcementi.it www.italcementigroup.com info@italcementi.it ITALESSE srl Via dei Templari 6 - Località Noghere 34015 MUGGIA TS Tel. 0409235555 Fax 0409235251 www.italesse.it italesse@italesse.it KNOLL INTERNATIONAL spa Piazza Bertarelli 2 20122 MILANO Tel. 027222291 Fax 0272222930 www.knoll.com www.knolleurope.com italy@knolleurope.com L’ABITARE Tel. 025099421 Fax 0258013160 www.labitare.mi.it LAFARGE 61, rue des Belles Feuilles BP40 FR 75782 PARIS CEDEX 16 Tel. +33144345830 Fax +33144341200 www.lafarge.com www.ductal-lafarge.com LEONARDO ITALIA Tel. 00800 53662736 numero verde www.leonardo.de LG ELECTRONICS ITALIA spa Via Dell’Unione Europea 6 20097 SAN DONATO MILANESE MI Tel. 02518011 Fax 0251801500 www.lge.it LUCCON Bundesstraße 1 A 6833 KLAUS/VORARLBERG, ÖSTERREICH www.luccon.com office@luccon.com LUCEPLAN spa Via E.T. Moneta 40 20161 MILANO Tel. 02662421 nr verde 800800169 Fax 0266203400 www.luceplan.com info@luceplan.com

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