Interni n.600 - Aprile 2010

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IN copertina: la poltrona Nemo disegnata da Fabio Novembre per Driade Store. Come tanti altri progetti del designer pugliese, si ispira alla figura umana, in questo caso a un volto dalle sembianze classiche e dall’identità indefinita che diventa uno spazio abitabile. La poltrona, che è utilizzabile sia in interni che in esterni, è realizzata in polietilene rotazionale nei colori bianco o nero e nella versione laccato rosso (L. 90 P. 83 H. 135). on the cover: the Nemo chair designed by Fabio Novembre for Driade Store. Like many other projects by the designer from Apulia, it is based on the human figure, in this case a face of classic features and indefinite identity, that becomes an inhabitable space. The chair, for both indoor and outdoor use, is in rotomoulded polyethylene, in white, black or a red lacquer version (L. 90 D. 83 H. 135).

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project la seconda vita delle briccole/The second life of briccole biosphera, il legno verde/Biosphera, the green wood Exponenti per expo 2015/Exponents for EXPO 2015 design exchange realtà digitali/Digital realities ceramica project Ceramics project progetto ceramica/Ceramics project ceramica protagonisti/Ceramic protagonists: Claudio La viola ceramica produzione: nuove collezioni/Ceramics production: new collections ceramica showroom: art ceram a civita castellana/Ceramics showroom: Art Ceram at Civita Castellana ceramica design/Ceramic design

showroom

scavolini a milano/in Milan produzione production l’arte di contenere/The Art of Containing scuole schools I creativi della next economy Creative talents of the next economy storie d’impresa business histories Sulla via della seta /On the Silk Road S’illumina il progetto italiano/Lighting up Italian design comunicazione communication interni FuoriSalone® per iPhone fiere fairs la città dei saloni/The city of i Saloni

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project

le porte della percezione/The doors of perception marchiati svizzera/Swiss branded 100% british design

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design

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Basic values tendenze trends pulp!

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INdice/CONTENTS II

www.internimagazine.it/com FuoriSalone® 2010 day by day live! interviews

produzione production natura preziosa/Precious nature luci dal nord/Lights from the north 105 fiere fairs Rotterdam, Giovani talenti crescono/Young talents grow up Rotterdam, gioielli di design/design jewelry internationale mÖBELMESSE KÖLN STOCKHOLM DESIGN WEEK 34° showcase ireland 131 showroom minotti a sao paulo/Minotti at Sao Paulo architettura di vetro/Architecture of glass 137 fashion file alexander mcqueen 140 sostenibile sustainability kresse wesling, lusso ecologico/Ecological luxury 143 paesaggio landscapes 175 mq di verde pro-capite 175 sq meters of greenery per person 163 info & tech un computer fra le nuvole/Computers in the clouds 167 office & contract good design award e/and bocconi 100

INTERVISTE E TESTIMONANZE DEI PROTAGONISTI DEL FUORISALONE® NEI MINI-CLIP VIDEO REALIZZATI DALLa TROUPE DI INTERNI E TRASMESSI SUL CANALE YOUTUBE DEDICATO.

FuoriSalone® per iPhone

INtertwined

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LA PRIMA APPLICATION DI INTERNI DEDICATA AL FUORISALONE® È ORA DISPONIBILE SU APPLE ITUNES: PER ORIENTARSI TRA GLI OLTRE 400 EVENTI DELLA SETTIMANA MILANESE DEL DESIGN E SCOPRIRE LE ECCELLENZE DELLA CITTÀ.

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mostre Exhibitions

Mapplethorpe a Lugano/in Lugano il museo man di nuoro/The MAN Museum of Nuoro 183 premi prizes la luce che hanno in mente/THE LIGHT THEY HAVE IN MIND 187 cinema alice in london/Alice in Londonland 191 in libreria in bookstores 199 città e territori Cities and territories Milano, azioni di rinascita/actions for renewal 203 sostenibile sustainability ambiente ed eccellenza/Environment and excellence alcantara The Hub, Milano 208 think tank

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traduzioni translations indirizzi firms directorY

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INtopics / 1

EDiToriaLe

I

l futuro del presente ha un imperativo: meno cose e più pensiero. Lo dicono i sociologi, gli uomini di cultura, i media, lo dicono soprattutto gli architetti e i designer, costretti dalla recente crisi a ripensare le modalità del rinnovamento e a individuare nuove direzioni di ricerca. Era quanto emergeva da Interni Design thinking (settembre 2009), è quanto propone questo numero dal titolo Think tank, che riprende il concept dell’evento da noi proposto all’Università degli Studi di Milano attorno al tema del futuro prossimo del progetto. Finiti gli anni Zero con il loro carico di difficoltà, si delinea una comune esigenza di ripartire secondo nuovi valori che ci consentano di vivere con più profondità. Di riscoprire quindi l’essenza delle cose, per diventare più selettivi e puntare a esperienze stimolanti e riflessive. Perché nel futuro prossimo venturo ci interesserà sempre meno possedere e più sperimentare e riflettere. Questo il significato comune dei tanti e diversi progetti presentati. Le architetture fanno riferimento a precisi modelli interpretativi dell’abitare contemporaneo: lo spirito teatrale di Luigi Serafini, il modello rigoroso di Rodolfo Dordoni, il lusso misurato e sobrio di Lazzarini Pickering, la ricerca dell’integrazione con la natura di Michel Boucquillon. I servizi di design spaziano dalle ultime invenzioni in fatto di tecnologie produttive – la macchina per ‘stampare’ gli edifici con la sabbia e il ‘legno liquido’ che sostituisce la plastica nei tradizionali processi industriali – alle ultime realizzazioni dei più noti designer internazionali, come la pala eolica domestica di Philippe Starck e la seduta in alluminio riciclato di Tokujin Yoshioka. Ciò che emerge è l’interesse per una nuova qualità del quotidiano, fondata sulla sensorialità, la tecnologia, il rispetto per l’ambiente e per la vita in generale. Perché dal rispetto nascono le cose belle. Gilda Bojardi

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2 / EvenTI DI INTerNI

La rilettura degli eventi organizzati a Milano da Interni in occasione della Settimana del design permette di inquadrare storicamente un fenomeno, unico al mondo nel suo genere, che fa della cittĂ il luogo di riferimento e di propulsione di una cultura diffusa del progetto contemporaneo.

Design e cittĂ testo di Matteo Vercelloni

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FuoriSalone / 3

Un’immagine del Castello Sforzesco, sede della mostra DecodeElements allestita nell’aprile 2007.’ L’installazione luminosa è stata progettata per l’occasione da Ingo Maurer (foto A. Otero).

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4 / EvenTI DI INTerNI

2002

2002: INTERNI IN PIAZZA. SETTE MAESTRI DELL’ARCHITETTURA SONO INVITATI A COSTRUIRE, NEI PUNTI NEVRALGICI DI MILANO, UNA SERIE DI MICROARCHITETTURE TEMPORANEE. IN SENSO ORARIO, I PROGETTI DI PETER EINSENMAN, OSCAR TUSQUETS, BERNARD TSCHUMI, LÉON KRIER (FOTO C. LAVATORI).

È

l’equazione Design=Milano la formula cui occorre riferirsi per comprendere il fenomeno del FuoriSalone milanese, un evento nato per iniziativa di Interni nel 1990. Ogni anno, in concomitanza con la manifestazione ufficiale del Salone del mobile organizzata all’interno del recinto fieristico, il FuoriSalone ‘attiva’ il paesaggio urbano diventando una sorta di modello ripetibile in altre città – non solo europee – estendendo il concetto di design ad un consumo di tipo estetico-sociologico del disegno dell’arredo e dell’oggetto d’uso. Il FuoriSalone milanese, partito nel 1990 quando l’appuntamento settembrino con il Salone del Mobile venne spostato ad aprile, ha superato dal punto di vista dell’interesse culturale e di sperimentazione i confini della mostra-mercato istituzionale, portando appunto, in modo capillare e festoso, ‘il progetto di design’ nella città. Molte tracce – testimonianze e protagonisti – della storia del design italiano ci riconducono

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all’area del milanese. Quando si parla di design in Italia, in un modo o nell’altro si arriva a Milano. Andrea Branzi identifica addirittura il design milanese con “una cultura civile, l’espressione di un illuminismo laico e riformista, condiviso da una larga parte di una borghesia che si riconosceva nell’eleganza dei segni e nel rigore delle forme, ma anche nella logica dei buoni affari di impresa. La ‘differenza del design a Milano’ è proprio questa: essere altro (molto di più) di ciò che con lo stesso termine si può indicare a Roma o a Parigi. Una realtà strettamente intrecciata con una morale civile che sa distinguere con lucidità la missione culturale del progetto con la capacità dello stesso di ‘fare impresa’, senza ambiguità e senza malintesi”. Anche per questo è a Milano che il FuoriSalone nasce e trova un terreno di fecondo sviluppo, quasi inarrestabile, che via via occupa intere zone di città, trasformate per una settimana in sorta di ‘distretti’ espositivi di grande richiamo per quello che è chiamato ‘il

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2005

2000 popolo del design’ e che, appunto nella Settimana del Design® (marchio registrato da Interni), invade e conquista la città. L’estensione della cultura del design al vasto pubblico, raggiunto in modo ‘trasversale’ dal punto di vista sociologico e della comunicazione, appare come il più importante risultato del FuoriSalone, che certamente, insieme anche a nuove forme dello shopping furniture della grande distribuzione, introduce cittadini e passanti al tema ‘design’ che probabilmente non avrebbero mai incontrato in modo così diretto e propositivo, trasformandoli in potenziali fruitori. Se pensiamo che sino alla prima metà degli anni Ottanta ogni bar di Milano ‘capitale del design’, dal centro alla periferia, era arredato ‘chiavi in mano’ con arredi baroccheggianti color confetto (dal rosa, al verde, all’azzurrino) segnati da modanature oro e accompagnati da sedie falso Thonet in metallo con seduta in plastica traforata stampata effetto

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‘paglia di Vienna’, il tutto affidato “al talento dei fornitori” (come affermava Ülrich, il protagonista del celebre L’uomo senza qualità di Robert Musil), e che oggi chiunque si accinga a rinnovare o ad aprire un nuovo locale lo vuole necessariamente ‘di design’, ci accorgiamo che evidentemente qualcosa è cambiato: in meglio. Il ‘FuoriSalone’ è da analizzare e comprendere in questo contesto. Un tempo in relazione al successo delle mostre organizzate al Beaubourg parigino (forse il primo museo per un ‘consumo di massa’ della cultura in senso lato) si parlava di appétit culturel. Riferendoci a quel bisogno possiamo forse individuare un appétit du design cui gli eventi organizzati ogni anno a Milano in parte rispondono come appuntamento fisso. La Settimana del Design di aprile rappresenta oramai a livello internazionale un appuntamento unico per Milano che ogni cittadino e visitatore, a prescindere dall’interesse specifico alle tematiche del design, percepisce come

2004 TRE EVENTI ORGANIZZATI DA INTERNI PRESSO LA TRIENNALE DI MILANO. 2005: OPENAIRDESIGN. DIECI DESIGNER REALIZZANO UNA SERIE DI OGGETTI-SCULTURA DESTINATI AD ARREDARE, IN MODO PERMANENTE, IL GIARDINO DELLA TRIENNALE. NELLE FOTO, LE REALIZZAZIONI DI GAETANO PESCE E FABIO NOVEMBRE (FOTO A. OTERO). 2004: STREET DINING DESIGN. 10 CHIOSCHI PER IL CONSUMO GASTRONOMICO IN STRADA. NELLA FOTO, IL CHIOSCO BIOMORPHIC CAFÉ DI KARIM AZZABI (FOTO M. ZAGNOLI). 2000: ESSERE BEN ESSERE. 26 INSTALLAZIONI SUL TEMA DEL BENESSERE, CON PROGETTO GENERALE DI ATELIER MENDINI (FOTO S. ANELLI).

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6 / EvenTI DI INTerNI

2007

2007: DECODEELEMENTS, MOSTRA DEDICATA AI QUATTRO ELEMENTI NATURALI DELLA FILOSOFIA CLASSICA OCCIDENTALE, ALLESTITA PRESSO IL CASTELLO SFORZESCO. NELLA FOTO, L’INSTALLAZIONE 100 FLAMES FOR READING DI ODILE DECQ CON LE PROIEZIONI LUMINOSE DI CASTAGNA RAVELLI STUDIO.

PORTARE LA cultura del progetto NELLE strade, NELLE piazze, NEI luoghi storici DI Milano NE SOTTOLINEA IL valore. RIVITALIZZA IL PAESAGGIO URBANO.

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occasione imperdibile, un happening trasversale e spettacolare che ‘infuoca’ la città al pari della festa di Pamplona in Spagna o di quella del Redentore a Venezia, solo per fare due esempi di eventi di largo respiro e vasta risonanza in cui emerge un fenomeno di spettacolarizzazione urbana collettiva. In questa azione estesa a tutta la città, il FuoriSalone occupa ogni spazio possibile: da consuete location espositive a luoghi tradizionali come musei e gallerie d’arte svestite per l’occasione per accogliere allestimenti e oggetti, arredi sperimentali in gran parte autoprodotti; da ambienti ‘trovati’ (officine, depositi, fabbriche in disuso) a luoghi monumentali ben conosciuti nei circuiti turistici che però, ‘occupati’ da allestimenti temporanei, diventano ‘atipici’, offrendo al pubblico più vasto che in genere li frequenta (scolaresche, turisti, studenti, passanti) l’inconsueta presenza di espressioni del progetto contemporaneo. Il design viene dunque offerto in modo diretto, a prescindere dalla motivazione-interesse che spinge il pubblico interessato a visitare una mostra in un luogo specifico. È appunto questa la più profonda

2006: HEAVYLIGHT. NOVE INSTALLAZIONI LUMINOSE METTONO IN SCENA LE PORTE DELLA CITTÀ. IN SENSO ORARIO: THE GATE OF TIME DI PAUL FRIEDLANDER A PORTA TICINESE; XXX FROM MILAN DI DIEGO GRANDI ALL’OTTAGONO; PROIEZIONI SULLA FACCIATA DI PALAZZO MARINO; LE VIDEOPROIEZIONI DI THE FAKE FACTORY AL CASELLO OVEST DI PORTA VENEZIA (FOTO A. PEDROLETTI E D. ZANARDI).

e importante componente del FuoriSalone: il fatto di proporre un consumo culturale-spettacolare e di mercato – declinato in allestimenti ed espressioni sperimentali legati ad ogni artefatto – a chiunque, e in modo del tutto spontaneo, negli spazi della città trasformati in luoghi ‘atipici’ e seducenti, in palcoscenici di una pièce collettiva e dalle molte facce che diventa anche parte di un processo di ‘formazione’ indiretta a livello didattico-progettuale. Al tema della sperimentazione e della pratica dell’allestimento effimero (a volte con installazioni permanenti) si riconducono, in uno sforzo di allargamento della cultura del design al largo pubblico, gli eventi che la rivista Interni ha organizzato dagli anni Novanta sino a oggi, sotto la guida di Gilda Bojardi (premiata con l’Ambrogino d’Oro nel 2008 per tale attività), proprio in occasione del FuoriSalone milanese. “Il design è democratico”, sosteneva Giorgio Armani qualche tempo fa paragonando le sfilate della moda (offerte ad un pubblico ristretto di soli operatori) al successo ‘popolare’ che la settimana del design milanese riscontra tutte le

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2009

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2008 2009: INTERNIDESIGNENERGIES. MOSTRA ALLESTITA ALLA CA’ GRANDA DEDICATA ALLE ENERGIE DEL PROGETTO. NELLA FOTO, L’INSTALLAZIONE DIAMANTE DI MICHELE DE LUCCHI CON PHILIPPE NIGRO: IL PROTOTIPO IN SCALA RIDOTTA DI UNA PICCOLA CENTRALE SOLARE SVILUPPATA DA ENEL ALIMENTA SEI ELICHE ROTANTI (FOTO A. OTERO).

2008: GREENENERGYDESIGN. SERIE DI INSTALLAZIONI ISPIRATE ALL’ECOMOTIONAL DESIGN, ALLESTITE NEI CHIOSTRI DELLA CA’ GRANDA. NELLA FOTO, IN PRIMO PIANO, UN DETTAGLIO DELLA SCULTURA LUMINOSA OFIGEA DI JACOPO FOGGINI (FOTO A. OTERO).

primavere. Le mostre di Interni hanno sempre avuto come obiettivo quello di portare ‘in piazza’ la progettazione, declinata di volta in volta in allestimenti ‘oggettuali’, in forme di luce, spesso e volentieri in ‘microarchitetture’; in installazioni che hanno promosso l’incontro tra design e architettura, in un gioco progettuale di complessi e calibrati rimandi tra le due discipline che, come nella realtà, tendono sempre più a confondersi in un’espressione più vasta e interdisciplinare. Il portare la cultura del progetto in senso lato nelle strade, nelle piazze e soprattutto nei luoghi storici delle città – le vie e le piazze del centro storico con Light Tower (1998), Paesaggio Domestico (1999) e soprattutto con le costruzioni di Interni in Piazza (2002); il giardino della Triennale con le opere permanenti di Open Air Design (2005); le porte della città con Heavy Light (2006); il

Castello Sforzesco con Decode Elements (2007); la Ca’ Granda dell’Università Statale con GreenEnergyDesign (2008) e InterniDesignEnergies (2009) – ha significato non solo ricercare un rapporto tra preesistenze monumentali e intervento contemporaneo, tra storia della città e sperimentazione, ma ha voluto e vuole sottolineare il valore di opere e luoghi che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno e che forse non cogliamo nella giusta dimensione, nella loro potenzialità e nella prospettiva di ‘documento storico’. Luoghi che possono essere vissuti non come ‘fossili’ o ‘reperti immobili’, ma come materiali preziosi, risorse ambientali da utilizzare anche per sperimentazioni legate alla cultura del progetto e alla possibile azione del design, che permettono di offrire e suggerire dei contributi per la rivitalizzazione di nuove scene del paesaggio urbano.

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Un biliancio degli ultimi dieci anni del FuoriSalone ci permette di inquadrare storicamente uno sforzo corale, di cui Interni è protagonista, che non può essere ristretto ad un cappello istituzionale o organizzativo, ma che è frutto di idee e di sforzi sostenuti da una realtà produttiva, imprenditoriale e creativa multilineare che si pone in modo complementare e non antagonista alla storica manifestazione del Salone del mobile di Milano e che assume la città come luogo ideale per l’interazione di una cultura diffusa che faccia del design un fattore di riflessione, di sviluppo e d’incontro.

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10 / THINK TANK

DoPo I MaesTrI Maarten Baas

Alessandra Baldereschi Ole Jensen

Sam Baron Lagranja Design Alberto Biagetti

Oki Sato/Nendo Marco Ferreri

il design progetta il cambiamento secondo un approccio olistico che non tiene più conto dei confini tra discipline e competenze. Arte, letteratura, musica, cinema… I designer raccontano i mondi di riferimento ‘altri’ da cui traggono emozioni e ispirazioni per il loro lavoro.

Nucleo

a cura di Maddalena Padovani e Laura Traldi testo introduttivo di Stefano Maffei

Odoardo Fioravanti

Jonathan Olivares Diego Grandi

Giulio Iacchetti

Lorenzo Palmeri

Inga Sempé

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DOPO I MAESTRI / 11

Si intitola Paesaggio_2010 l’installazione di muffa coltivata direttamente sul muro della galleria Neon>campobase dall’artista Laura Renna, in occasione della mostra ORGANICinorganic allestita lo scorso gennaio. Nella pagina accanto, un dettaglio dell’installazione di Laura Renna.

F

orse per amare veramente qualcuno bisogna tradirlo. Per crescere davvero devi andartene, sfidare il mondo, diventare autonomo e adulto. Devi diventare te stesso. Uccidere il tuo Edipo. Discutere chi ti ha educato. Abbattere i confini. Spezzare la genealogia che ti lega al tuo passato. Guardare avanti. Guardare oltre. Uscire dal recinto. Stare fuori dal coro. Come John Cage, come Pollock, come Warhol. Detto così sembra un atto di rivolta autodistruttivo, una rivoluzione culturale stupida e infantile. Un deliberato atto per annientare la cultura materiale esistente. Ma tutti i grandi maestri hanno trasgredito, almeno un po’. Sono usciti di strada. Per trovare la loro di strada. Si sono immersi nel loro tempo, si sono lasciati pervadere dalle culture altre. La triade sacra del nostro design lo ha fatto. In ordine alfabetico: Castiglioni, Munari, Sottsass. E ora che non ci sono più dobbiamo camminare con le nostre gambe. Studiarli certo. E ricordarli nella loro grandezza. E citarli a volte. Ma distaccarci dal loro mondo utilizzando pienamente il loro lascito progettuale: quello che

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dice di essere liberi, originali, indipendenti, unici. Dobbiamo imparare a usare la loro grande eredità: l’intelligenza e lo sguardo curioso, dissonante, dissacrante che coglie tutto quello che vediamo, impariamo, tocchiamo, sperimentiamo. Che gli ha consentito di rimanere però sempre plastici, inafferrabili, nella loro personalità, la loro capacità, nel loro ruolo nel mondo. E questo atteggiamento ci occorre ora: ora che il design è diventato davvero quel fenomeno sociale globale di cui parlava Tomás Maldonado. Ma non solo all’interno di un circuito colto di élite che vedono il design come mezzo di distinzione culturale e sociale. Il design sta invadendo il mondo. Ma non solo con gli oggetti. Lo sta facendo ampliando i territori della disciplina come sta avvenendo con lo strategic e il service design piuttosto che con l’interaction design. La questione centrale è il cambiamento, non solo il progetto. E se parliamo di cambiamento non possiamo più parlare solamente di progetto tra progettisti. Il design thinking sta invadendo il mondo. Non solo quello del design. Ma anche quello che sta in quel territorio all’intersezione tra arte, sociale, tecnologia, ricerca scientifica, governance delle istituzioni pubbliche e delle imprese. E certamente quello del rapporto tra economia e design. È un approccio olistico. È

un approccio che non riguarda più solo la scala del singolo individuo. È un approccio che non tiene più conto di barriere rigide tra discipline e competenze. Come recita la Global Agenda Council on Design del recente World Economic Forum tenutosi a Davos nel gennaio di quest’anno: “Il design è un agente del cambiamento che ci consente di comprendere mutamenti e problemi complessi per trasformarli in qualcosa di utile. Per affrontare le sfide globali del giorno d’oggi sono necessari un approccio radicale, soluzioni creative e collaborazione”. Il design thinking quindi come un approccio, o un processo che mira a rendere il progetto aderente alla sua definizione più basica, quella di Herbert Simon, ma per questo più interessante e pluralista, di “…trasformare una situazione data in una situazione desiderata…”. Ma aggiungendogli degli ingredienti attuali, tradotti in parole chiave, che lo rendano: “Trasparente: per problemi complessi servono soluzioni semplici, chiare e oneste. Ispiratore: soluzioni riuscite toccheranno le persone soddisfacendo i loro bisogni, dando significato alla loro vita e accrescendo le loro speranze e aspettative. Trasformazionale: per problemi eccezionali servono soluzioni eccezionali che possono essere radicali o addirittura dirompenti. Partecipativo: le soluzioni efficaci sono collaborative, complessive e sviluppate insieme alle persone che le utilizzeranno. Contestuale: non si dovrebbe sviluppare o realizzare alcuna soluzione in isolamento, si dovrebbero invece considerare i sistemi informativi, sociali e fisici di cui fa parte. Sostenibile: ogni soluzione deve essere solida, responsabile ed elaborata considerando il suo impatto di lungo periodo sull’ambiente e la società”. (dal blog di Tim Brown, ceo di IDEO e novello guru del design thinking). Business Week, giornale feticcio del capitalismo avanzato mondiale, sta dedicando a questo tema della relazione tra innovazione, design e business un’attenzione crescente. Molti MBA di ambito economico offrono corsi in cui business, design e altre discipline stanno assieme. In questo ancora una volta l’Italia è stata un’anticipatrice che ha investito poco nelle proprie potenzialità: il Master in Design Strategico del Consorzio Poli.Design del Politecnico di Milano risale addirittura al 1998, seguito in tempi più recenti dal Master in Business Design di Domus Academy. Che cosa rimane quindi al design italiano che rischia di essere travolto da quest’onda? Di essere ancora una volta critico, intelligente, sovversivo. Riprendendo appunto lo spirito del design radicale, di quei grandi maestri citati all’inizio. Ma finendola di fare le vestali. E ironizzando sui custodi della memoria inviolabile che fanno un business infinito dell’imbalsamazione culturale. Dobbiamo ripartire dal nostro piccolo, che è interessante e differente proprio per questi grandi fenomeni globali se non si chiude in modelli ripetitivi, e accettare la sfida di una disomogenea, incostante, locale/globale, piccola o enorme, transdiscipinare, materiale/ immateriale creatività dispiegata non solo da coloro che si ritengono designer. D’altronde in Italia è sempre stato così. Basti pensare ai designerimprenditori, agli artigiani, ai tecnici e a tutti coloro che hanno aiutato l’Italia a diventare ciò che è (e le è riconosciuto) nel campo del design, ovvero un Paeseguida. Allonsanfan! (Stefano Maffei)

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Tom Waits by Maarten Baas Tom Waits è il mio uomo. Tutto quello che fa è una fonte di ispirazione per me, e credo di comprendere quanto ha fatto nel corso di tutta la sua gigantesca opera. Anche se il mio lavoro è di molto lontano da quel livello, potrei pensare ad alcuni elementi che spero di avere in comune con lui. La gente cerca di descrivere il mio lavoro, cerca di ‘catturarlo’ e metterlo in scatola, ma il mio lavoro salta da una parte all’altra. Probabilmente la mia opera non è fatta per essere descritta. Anche la musica di Waits non può essere realmente classificata e spazia in molti campi: dal rock alla classica, dal jazz al pop, dalla sperimentazione selvaggia alle ballate soft, dal serio al divertente. La sua musica, i concerti, i video, i film, le fotografie, la personalità, i testi, l’estetica: tutto gli appartiene, sebbene queste espressioni non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra. In tutto ciò, il minimo comun denominatore è ‘lui’. Le sue opere vengono dalla stessa mente, che cerca sempre di esplorare nuovi confini, tentare nuovi esperimenti. Vale anche per il mio lavoro: più cose faccio, meno sembrano appartenere a uno stile specifico, a parte il fatto che io ne sono l’autore. Penso sia il punto di partenza fondamentale per realizzare qualcosa che arrivi all’essenza. Tom Waits senza dubbio ci riesce, io posso solo sognare di farlo cercando di seguire la stessa ricetta.

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Jonathan Carroll by Alessandra Baldereschi

Erwin Wurm by Sam Baron

Jonathan Carroll, uno scrittore tra i piu’ visionari che conosco. Nei suoi romanzi, la realtà e la fantasia convivono in un modo nuovo ed eccezionale. Scrive di mondi dove ciò che è magico è invece visto come naturale, normale. È difficile raccontare un romanzo di Carroll, posso dire che le situazioni, gli argomenti e i personaggi descritti sono incredibili e sorprendenti ma al tempo stesso trasmettono una visione profonda della vita, vi sono intuizioni molto precise sulla condizione umana. Apprezzo il suo lavoro per la componente fantastica e insieme filosofica che vi trovo ma soprattutto per la capacità di questo scrittore di saper mescolare generi tra loro molto diversi quali l’horror, il noir, la fantascienza, realtà alternative, romanzi del XIX secolo, ecc. ottenendo un ‘genere nuovo’ non classificabile. Lui dice: “In tutti i miei libri uso topos letterari diversi”, e ogni romanzo è così diverso dal precedente che ti stupisce sia suo. Sento vicino a me il suo ‘modus operandi’ perché spesso, nel mio lavoro, combino stili appartenenti a luoghi ed epoche diverse: mi piace utilizzare suggestioni provenienti dal passato assieme a visioni futuristiche, materiali di nuova generazione con quelli che esistono da sempre, la magia con il banale quotidiano, l’ironia con la delicatezza, ma soprattutto desidero ogni volta potermi, per prima, meravigliare del risultato. Citando ancora Carroll: “Sogno cose strane e le faccio apparire come reali”.

Un personaggio contemporaneo che rappresenta per me una fonte di ispirazione è Erwin Wurm, artista austriaco nato nel 1954 a Bruck an der Mur. Si è formato come scultore per poi passare rapidamente alla fotografia e ai video. Le sue installazioni e fotografie costituiscono per me un modo di osservare il mondo da un’angolazione diversa. La sua ispirazione scaturisce da oggetti di uso quotidiano come biciclette, spazzole, verdure, palle e sedie. È sempre positivo avere qualcuno che metta una certa distanza tra sé e la quotidianità e che, ironicamente, proponga altri modi di vivere lo spazio, associando le persone agli oggetti e creando comportamenti singolari. In quanto designer, per me lui rappresenta davvero un ottimo punto di riferimento, un modo per ‘rilassarsi’ rispetto alle problematiche della produzione seriale, grazie all’assurdità dei suoi commenti che dissacrano una certa seriosità del mondo del design. Nelle situazioni descritte dalle sue bizzarre installazioni c’è sempre un po’ di fragilità o di squilibrio. L’assurdità con cui Wurm gioca ci fa sorridere ma ci consente anche di capire un po’ di più l’umanità. La sua originale visione della vita disturba le nostre abitudini, le piccole modifiche o ‘décalages’ inseriti nelle sue opere mettono in crisi le nostre regole funzionali. Il suo lavoro è focalizzato sull’essere umano; pur essendo un artista inserito nei circuiti commerciali dell’arte, delle gallerie, delle vendite all’asta e dei musei, riesce ad esprimere una posizione critica nei confronti del settore e del suo operato. Il suo senso dell’umorismo permette di assaporare le abitudini quotidiane di ognuno di noi. Wurm coinvolge gli spettatori nei suoi lavori affinché possano diventare essi stessi ‘sculture’. “Sono interessato alla vita quotidiana. Considero utili tutti i materiali che mi circondano, così come gli oggetti e le tematiche che riguardano la società contemporanea. Le mie opere parlano dell’essere umano nella sua totalità: fisica, spirituale, psicologica e politica”.

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Nella pagina accanto, da sinistra: Tom Waits in un ritratto di Michael O’Brian; la coperina di Tu e un quarto di Jonathan Carroll, Fazi (collana Lain), 2006; Erwin Wurm, House Attack, 2006.

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DOPO I MAESTRI / 13

Sopra, Tom Waits in un ritratto di Danny Clinch.

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Da sinistra: una pagina del catalogo della mostra in-finitum curata da Axel Vervoordt e Mattijs Visser; un ritratto dell’artista Flatz. Sotto, il regista Marco Ferreri in un’illustrazione di Anna Maria Dipalma.

Axel Vervoordt by Alberto Biagetti

Flatz by Markus Benesch

L’estate scorsa ho visitato una mostra al Palazzo Fortuny a Venezia. Si chiamava In-finitum, dalla trilogia In-finitum, Artempo, Academia curata da Mattijs Visser e Axel Vervoordt. Successivamente, ho scoperto che Axel Vervoordt era anche il proprietario delle opere esposte. Si sentiva che il progetto era stato accompagnato per mano dalla nascita, cresciuto e curato con attenzione costante. Nonostante le opere appartenessero a periodi e spazi lontani – se di appartenenza si può parlare – c’era qualcosa che permetteva loro di convivere naturalmente, e non era una questione di mero gusto. Il ritmo era scandito dall’arte, non dal tempo o dallo spazio, così come i pesi nelle nostre vite sono scanditi dall’importanza emotiva delle cose. Pochi istanti, quando ci innamoriamo, possono avere un peso infinito sulla nostra memoria. Axel Vervoordt cura l’arte. La protegge, la custodisce, la cerca, la compra, la pesa, la vende, la colloca. È curatore e curante. Vervoordt salva le cose in fin di vita, come per farle vivere all’infinito, ma senza paralizzarle. Le aspetta, le guarda maturare fino a mutare, invecchiare, arrugginire, stancarsi e sbiadire. Io ho sempre guardato all’arte per dimenticare il tempo. Vedendo la mostra, ho pensato che quello che ho sempre cercato di fare io non era molto diverso, pur essendo apparentemente un approccio antitetico. Forse ci sono due modi per far annientare il tempo e restituire l’infinito. Il primo, come nel caso di queste opere e questo palazzo antico, è quello di farle invecchiare all’infinito. Il secondo, come nel mio caso, è di non farle invecchiare mai. Ho disegnato dei paesaggi virtuali, un cielo digitale non ha né tempo né spazio; un paesaggio impossibile resta impossibile. Ho decorato uno scheletro facendo vivere il corpo dopo la morte, ho disegnato una mano sinistra lontana dal suo corpo, dandole una coda e vita propria, ho disegnato scatole magiche che rispecchiano paesaggi all’infinito, ho ridisegnato un vaso vecchio sdraiandolo, ho costruito una casa di specchio che riflettendo il suo ambiente sparisce e il suo spazio diventa il mondo intero, infinito. Infine, la mostra si riversa in un catalogo impeccabile, dove le opere sono accoppiate come anime simili che si trovano per caso e si scoprono perfette l’una con l’altra. E anche qui, tempo e spazio sono banditi, così tutto è fuori ogni schema convenzionale. Vervoordt accosta perfettamente il dettaglio di una stoffa veneziana di Mariano Fortuny a una scultura di Renato Bertelli, la fotografia del taglio di Lucio Fontana con la fotografia del retro dello stesso taglio. Le pagine stanno vicine per sensibilità umana, per sensibilità d’intelletto e d’arte.

Flatz è un artista austriaco che decisamente non segue le mode fugaci. Mi piace anche per la sua versatilità, dato che fa il musicista, lo scultore e soprattutto il performer usando uno strumento preziosissimo: il suo corpo. L’ho incontrato recentemente e ho avuto modo di constatare che è una persona molto gentile e allegra, un vero gentiluomo. Anche se la sua opera di primo acchito può sembrare proprio l’opposto: forte e provocatoria. Provocatoria non è probabilmente la parola giusta, diretta sarebbe più azzeccato. Spesso la sua arte è come un pugno allo stomaco: non segue vie traverse, non ha orpelli, punta diritta al risultato. Invia messaggi taglienti come spade, con estrema precisione punta alla sensibilità degli spettatori. Mi piacciono i suoi messaggi e il suo modo di farli passare. Sceglie le sue modalità di comunicazione e lascia agli altri i sentieri battuti. Sono il coraggio e la radicalità a rendere le sue opere particolarmente interessanti. Condivido la passione che lo spinge ad andare per la sua strada e perseguire gli obiettivi. Ma anche la sua profonda capacità di studiare la società e riflettere su quest’ultima. Spesso le sue opere provocano scandali. Una delle citazioni più famose di Wolfgang Flatz è: “Mut tut gut!”. Che vuol dire qualcosa come: Il coraggio è una buona cosa! Trovo questa citazione molto suggestiva e anche importante nell’epoca in cui viviamo. Di recente mi sono reso conto che la gente tende a rassegnarsi, invece di cercare di provare nuove cose o proporre nuove direzioni di ricerca. Per me avere il coraggio di intraprendere un viaggio in se stessi per scoprire e capire il proprio universo personale di colori, forme – insomma il proprio, unico dna estetico – è qualcosa di fondamentale. Imboccare questa strada è sicuramente più doloroso e difficile che seguire la corrente o persino copiare l’esistente, ma alla fine ripaga più di qualsiasi altra cosa. L’opera di Flatz è esposta nell’omonimo museo di Dornbirn in Austria.

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Nella pagina accanto: la mostra in-finitum allestita a Palazzo Fortuny a Venezia dal 6 giugno al 15 novembre 2009, Organizzata dalla Fondazione Musei Civici di Venezia e dalla Vervoordt Foundation con la cura di Axel Vervoordt e Mattijs Visser.

Marco Ferreri by Marco Ferreri Non lo conoscevo bene ma sapevo che per lui non era importante il giudizio del pubblico e che gli piacevano i mandarini. Sapevo anche che nel suo lavoro, usando ironia e satira, aveva raccontato della chiesa cattolica, del capitalismo, dei maschilisti, di sesso, della solitudine dell’uomo, della nostalgia, inventando ogni volta fiabe fatte di tenerezza e crudeltà. Ogni tanto di lui mi arrivavano notizie, gli auguri ogni Natale, i giudizi sul suo lavoro, registrati sulla segreteria o dal vivo, al telefono. Di lui mi arrivavano anche proposte, idee sulle storie da raccontare, incontri per una parte, una candidatura. Una volta le foto di un bambino, un’altra una richiesta di denaro, un’altra ancora la pretesa di un incontro. Lo conoscevo bene. Sapevo che per lui raccontare una storia era raccontarsi una storia, rimettendosi in gioco e cercando strade altre. Per la critica era difficilmente etichettabile, per me era geniale. E basta.

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Rachel Whiteread by Odoardo Fioravanti Nella realtà quotidiana, l’interesse per questo o quello stimolo si consuma sempre più rapidamente. Penso dunque che abbia più senso parlare dell’ultima ispirazione, piuttosto che di una fra tutte. Oggi ho pensato molto al lavoro di Rachel Whiteread che per convenzione tutti chiamano ‘giovane artista inglese’. Ho incontrato i suoi lavori qualche anno fa al Castello di Rivoli: erano mobili, sedie, armadi e scansie riempiti di cemento. Pensai subito che la Whiteread guardava alla realtà come di solito si guarda un negativo, quella stessa realtà che per noi è il positivo della tridimensionalità. Riempire un armadio di cemento significa usarlo come se fosse uno stampo per torte, dando, nel contempo, una presenza fisica allo spazio vuoto racchiuso. Le sue opere sono infatti perlopiù ‘calchi’ di oggetti o di spazi, che sfruttano la realtà materiale come una matrice che modifica lo spazio, sottraendogli volume. Fare il calco di una libreria intera, piena di libri, significa creare un altro-dalla-libreria; descrivere tridimensionalmente lo spazio vuoto – che quindi ‘non c’è’ – e misurare quanto sia intimamente intrecciato con quello che c’è. Lo spazio fa i conti con l’esser-ci delle cose che lo plasmano per esclusione, per differenza booleana. Una rivolta del vuoto contro il pieno che a un designer non può non far pensare ai processi produttivi, in cui si dà forma alla materia per differenza. Gli stampi sono fuori dall’oggetto, ma ne ricalcano la forma. Assistere a un processo di stampaggio e vedere lo stampo aprirsi e lasciar cadere un pezzo di plastica è un’esperienza frastornante. Per un istante non è più chiaro quale sia il positivo e quale il negativo: la sedia ha dato forma allo stampo o lo stampo ha dato forma alla sedia? Stampo e oggetto stampato non si assomigliano ma si conformano vicendevolmente, formando uno strano unicumdiviso-in-due. Di recente il Pompidou ha acquisito l’opera Room101 della Whiteread, il calco di una stanza intera riempita di gesso, con i vuoti lasciati da pareti, modanature, oggetti, ecc. Quest’opera e tutto il lavoro di quest’artista mi hanno ricordato che ‘mettere al mondo un oggetto’ è un modo di dire fazioso, che fa il tifo per chi l’oggetto lo fa. Invece ogni volta che costruiamo un oggetto o un’architettura dovremmo ricordarci che in verità la ‘togliamo al mondo’, rubandogli un pezzo della sua gentile e delicatissima vuotezza.

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Wim Delvoye by Diego Grandi

Daniel Clowes by Giulio Iacchetti

Era un periodo in cui stavo conducendo una ricerca sulla cartografia nell’arte. Avevo già preso in considerazione i grandi arazzi di Alighiero Boetti ma sentivo l’esigenza di uno scarto temporale e di una interpretazione differente rispetto alle mappe del mondo ricamate dall’artista torinese negli anni ’70. Nella rubrica di un settimanale italiano dedicata alle segnalazioni di mostre, vidi pubblicate due immagini di piccole dimensioni, due francobolli, che riproducevano un’idea di mappa basata su una geopolitica ludica, in cui gli stati venivano disegnati sotto forma di animali e oggetti. Erano gli Atlas di Wim Delvoye. Era quello lo scarto che cercavo per finalizzare concettualmente il mio lavoro! Successivamente, Wim ha truccato vecchie bombole del gas come preziose ceramiche di Delft; ha sostituito la rete di una porta da calcio con la vetrata di una cattedrale; ha tatuato polli e maiali; ha costruito un’enorme macchina ipertecnologica che riproduce le funzioni dell’apparato digerente (con prevedibile finale); ha esposto due ‘betoniere gotiche’ a grandezza naturale intagliate nel legno. Dicono sia l’erede dello spirito caustico appartenuto a Piero Manzoni. Non saprei. Quello che mi attrae di Wim Delvoye è la circuitazione rappresentativa e di senso che mette in atto in ogni suo lavoro, pescando da un immaginario estetico riconoscibile e vicino alla gente. Delvoye utilizza oggetti comuni per le sue installazioni che carica di significato attraverso un linguaggio vicino ai dadaisti e un intervento diretto condotto con ironia e sarcasmo. La disinvoltura con cui riesce a mischiare e confondere gli stili, attingendo dal passato, mette in discussione le nostre certezze ed esperienze. Ed io mi scopro alla ricerca dei suoi nuovi lavori… sorpreso di sorprendermi.

Daniel Clowes è un fumettista americano, classe 1961. Di lui non sapevo nulla sino a quando l’amico Franz Fiorentino non mi ha fatto leggere David Boring e da lì è scattato l’amore. Non sono un consumatore accanito di comics, ma ogni volta che viene pubblicato un suo fumetto state pur certi che sono lì a far la fila per comprarlo. Non so spiegare il perché di questo attaccamento, se no che passione sarebbe? Spesso mi chiedo cosa trovo in quegli albi traboccanti di personaggi odiosi, insipidi e quando va bene mediocri. I suoi racconti grondano di realtà spicciola e vividi sguardi impietosi sulla presunta civiltà americana. Più ci si introduce nel mondo di carta di Clowes e più si ha la netta impressione che è la realtà che assomiglia sempre più alle sue strisce e non il contrario. Del suo modo di disegnare c’è poco da dire: disegno fatto di nervosi tratti di china dallo spessore variegato e campiture di colore pieno, sullo sfondo un’America che non sogna più da tempo immemorabile. Ma se proprio devo dire cosa mi lascia senza fiato sono i dialoghi. I testi dei suoi fumetti sono più secchi di un racconto di Raymond Carver: con lui condivide lo stesso sguardo spietato ed annoiato di un cecchino che vede sfilare nel suo mirino una variegata umanità. Disperata razza umana che si esprime con parole rubate alla tv, delicate pillole di saggezza, copioni di film di quarta categoria, parole che avrebbero potuto risuonare in un qualsiasi diner illustrato da Hopper, appena sentite e subito dimenticate. Alla fine cosa resta di un incontro ravvicinato con Daniel Clowes? Forse la sottile inquietudine che dietro quelle maschere grottesche di personaggi destinati a consumarsi nello spazio di una vignetta ci sia un po’ di noi. Se la pagina di un albo si trasforma in uno specchio, anche se distorcente, significa che tra quei disegni si cela la verità: e quella io vado cercando.

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Lick 1, foto di Wim Delvoye realizzata in C-Print, stampa a colori ottenuta da negativo, su alluminio. Edizione limitata di sei pezzi. Nella pagina accanto, da sinistra: Un’opera di Rachel Whiteread dal libro di C. Mullins, Rachel Whiteread, Tate Publishing, London 2004, Foto di Anthony d’Offay; Wim Delvoye, Dump Truck, in acciaio corten tagliato al laser, al parco archeologico di Scolacium a Catanzaro: Una tavola dal graphic novel di Daniel Clowes Come un guanto di velluto forgiato nel ferro, copyright per l’edizione italiana 2009 Coconino Press.

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David Byrne by Lorenzo Palmeri

Brian Wilson by Ole Jensen

Sterling Ruby by Jonathan Olivares

Non è un giovincello, ma è sempre sulla cresta dell’onda. Le composizioni di quest’uomo hanno grande valore. Semplici ma complesse. Melodiose ma complicate. Spensierate e popolari in superficie. Colme di melanconia e desiderio in profondità. Generali eppur specifiche tutte di un pezzo. Si avvalgono del bello per richiamare il desiderio e trovare il bello nel desiderio è la quintessenza dell’arte. Nelle composizioni di Brian Wilson ciò che è immediatamente riconoscibile e si trova in superficie non stona con il significato profondo. Il sintetico non fa a pugni con il genuino. E viceversa. Estroverso e introverso convivono contemporaneamente. Proprio come in Cuore selvaggio e Blue Velvet di David Lynch, si può essere attratti dal coraggio di Brian Wilson e dalla sua capacità di coltivare la bellezza e l’armonia a livelli tali che il risultato è quasi spaventoso. Bello ma anche strappalacrime. Quando ero giovane, sentivo che nei Beach Boys c’era più di quanto la maggior parte della gente volesse ammettere. Break away, Till I die, Surf ’s Up, Good Vibrations, Heroes and Villains erano tutti pezzi che facevano la differenza. Precoci tendenze postmoderne, presumibilmente. Con il passare degli anni, Brian Wilson ha dimostrato che la mia premonizione era giusta. Smile e That lucky old sun hanno dato al suo contributo un valore topico e al tempo stesso universale. Come umile designer danese, potrebbe sembrare pretestuoso e non obiettivo cercare di avere una certa affinità con le composizioni di Brian Wilson. Il mio è, in realtà, solo un profondo rispetto per la capacità di sentire, creare e sviluppare le cose. Poco importa la forma dell’arte. I suoni di Wilson sono sempre stati un punto di riferimento e una consolazione nel mio lavoro.

Quadrati, rettangoli e solidi geometrici – forse potremmo chiamarli parallelepipedi – hanno svolto un ruolo importante nell’arte, nell’architettura e nel design dello scorso secolo. Il quadrato nero di Malevich, la fabbrica di scarpe Faguswerk di Walter Gropius e Adolf Meyer, gli armadi a muro di George Nelson, le sculture di Donald Judd, gli edifici di Mies Van der Rohe, le librerie monolitiche di Ettore Sottsass, il ThinkPad di Richard Sapper per IBM, sono stati tutti, più o meno, parallelepipedi. Ma si tratta di rare eccezioni tra milioni di parallelepipedi privi di ispirazione, privi di vita, sterili, che ci circondano ogni giorno. Computer grigi, edifici aziendali noiosi, lettori musicali banali e gli onnipresenti divani minimalisti hanno rovinato il solido geometrico moderno. La prima volta che ho visto i parallelepipedi di laminato di Sterling Ruby mi trovavo a casa di un collezionista d’arte a Dallas. Ricordo un volume rettangolare perfettamente bianco, più o meno delle dimensioni di un frigorifero, con alcune macchie e strisce. Di primo acchito ho temuto con terrore che qualche commerciante d’arte avesse provocato un danno irreparabile a un monolite altrimenti impeccabile, ma poi l’emozione mi ha sopraffatto mentre esaminavo questo atto trasgressivo e mi rendevo conto che qualcuno aveva spezzato il moderno codice dogmatico secondo il quale i parallelepipedi bianchi devono restare puliti. Era entrata in vigore una nuova legge: uno stato libero dove l’espressione e l’impegno fisico rovesciano l’autorità, e ordine e caos coesistono. In altre opere Sterling Ruby sfigura i suoi plinti di laminato con vernice spray colorata e smalto per unghie. Queste sculture evocano un programma che viene descritto al meglio dal suo stesso poster: “Farla finita con l’architettura – uccidere il minimalismo – viva la legge amorfa”. Mediante i suoi colorati atti di deturpazione, Sterling Ruby ha trovato il modo di immettere nuova vita nei parallelepipedi tanto amati dal movimento moderno e addirittura superarli.

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Mi è sempre risultato difficile scegliere una figura di riferimento nel catalogo infinito che ci offre la storia. Intendo dire, sceglierne una, perché in realtà ne ho molte e provengono dai campi più diversi, spesso così distanti, almeno apparentemente, dal mondo del design e del progetto: filosofi, sociologi, ricercatori... il mio panettiere, i mistici! Tutti portatori di qualità e a modo loro testimoni, va da sé, della loro splendente unicità. Nella difficoltà di scelta ho allora deciso di andare sul sicuro, facendo il nome di un personaggio che è stato definito nei modi più vari, da sincretista a figlio del futuro e che invece, forse, è semplicemente un progettista. David Byrne è stato uno dei fondatori dei Talking Heads, ha scritto e scrive splendide canzoni, girato film interessanti e divertenti, fondato un’etichetta discografica di musica etnica, prima che questa diventasse una mania collettiva, scritto libri, disegnato porta biciclette… David Byrne mi pare un grandissimo curioso, un infaticabile ricercatore, uno sperimentatore la cui opera, anche la più complessa, si caratterizza sempre per i modi elegantemente leggeri. La sua vita artistica, dominata dall’aspetto musicale, ha avvicinato e attraversato forme e mondi tra i più diversi evitando accuratamente facili retoriche e luoghi comuni. Di lui mi piace la capacità di collaborare con figure interessanti e, al tempo stesso, la volontà di curare personalmente tutti gli aspetti dei suoi progetti. Forse è per questo che ciascuno di loro emana un odore di sano artigianato, una ‘saporita’ dose di imprecisione, oserei dire umana. E proprio qui sta il punto. Dalla sua opera emerge l’idea del ‘viaggio’, ovvero l’attitudine a non puntare dritto alla meta come un proiettile, ma a godersi piuttosto lo spostamento. Una traiettoria che si fa ancora più interessante quando, come è facile intuire in David Byrne, si compie soprattutto dentro di sé .

Da sinistra: Brian Wilson in un ritratto di Guy Webster; Sterling Ruby, Acts/Blank, 2009, scultura in formica, plastica e legno dipinti, Foto di Robert Wedemeyer © Sterling Ruby, Courtesy PaceWildenstein, New York; un ritratto di David Byrne. Nella pagina accanto: David Byrne in un ritratto di Chris Buck.

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Miquel Barceló Gad Elmaleh by Gabriele Schiavon/Lagranja by Inga Sempé

Olafur Eliasson by Piergiorgio Robino/Nucleo 1 gennaio del 2004, entro alla Tate Modern per la prima volta e rimango pietrificato dall’installazione di questo per me allora sconosciuto artista danese: Olafur Eliasson. Un gigantesco sole nell’arancione del tramonto chiuso dentro le imponenti mura dell’ex centrale elettrica. Lo stupore lascia il posto alla genialità di Eliasson, la semplicità del progetto, la sensazione di un tramonto che si protrae all’infinito. L’illusione dello spazio raddoppiato con il sapiente uso di una specchiatura del soffitto e di una leggera nebbia. La forza di un’opera unica di 26 x 22 x 155 metri. Da qui incomincia il mio interessamento per questo artista/designer/architetto/fotografo rispettoso dei luoghi e dei contesti, che accoglie dentro di sé il genius loci, l’appartenenza alla fredda Danimarca, l’amore per gli spazi vuoti che spesso racconta con la sua macchina fotografica. Una delle doti che gli invidio di più è la sua capacità di coinvolgere, di riuscire a rendere partecipe lo spettatore in ogni suo lavoro. Le opere di Eliasson sono immersive ed esperienziali quasi totalizzanti. Dai suoi primi lavori come Moss Wall del 1994 – una parete di muschio vivo, un’esperienza olfattiva e visiva – a Lava Floor – un pavimento in lava su cui sperimentare una difficile camminata – a Room for one Color – la forza della luce monocrom – emergono le tematiche che continuamente ricorrono nel suo lavoro: la luce, la natura, il vuoto, l’illusione. Ammiro la sua semplicità, la sua intelligenza, la sua continua sperimentazione, un po’ mago, un po’ ingegnere, capace di invertire le leggi gravitazionali. Ci sono alcune tematiche nel lavoro di Eliasson che sento vicine a quelle sviluppate da Nucleo: per esempio, la sperimentazione continua e il confronto con la natura, presenti nei nostri progetti di ricerca come Terra, la poltrona d’erba, oppure gli arredi in ghiaccio di Nucleo_Ice, per arrivare al recentissimo Primitive, una collezione di arredi ispirati alle figure geometriche primarie e agli oggetti originari, grezzi, selvaggi, volumi dalla struttura nevralgica e portante, solide e vitali consistenze materiche.

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Avevo deciso di parlare delle capre decapitate di questo artista, dei suoi tori e delle sue corride, di “piraguas y negritos agitandose en el rio”, delle papaie o degli acquerelli dei quaderni del Mali. Ora che ci provo mi rendo conto che si tratta di un’impresa davvero difficile. Ogni qual volta che ne ho l’opportunitá corro a vedere qualche nuova opera di Miquel Barceló. Il suo lavoro mi attrae in un modo ben poco celebrale, è un magnetismo che parte più in basso, vicino alla pancia. Come quando un buco allo stomaco spinge incoscientemente ad aprire la porta del frigorifero. Provando a parlarne mi sento sull’abisso dell’ovvietá. Cosí apro uno dei suoi quaderni d’Africa e leggo: “lejos de los rebaños, pinto” (lontano dai greggi, dipingo). A Gao, la cittá più povera di uno dei Paesi più poveri del mondo, a 50 gradi, tra la polvere e le “mosche grandi come colombe”, Barceló raccoglie pezzi di legno, formiche e scorpioni e dipinge. “Non è molto, peró che fare altrimenti? Non farò certo arte astratta con triangoli e quadrati, per favore. Nemmeno sociologia o scherzi sul futuro dell’arte occidentale. Neppure esercizi di cinismo con il telefono in una mano e Art Forum nell’altra”. Per me quella di Barceló è una pittura della necessitá, bisogno impellente e primordiale. Senza orpelli. Diretta, sensuale e bellissima anche quando ci racconta la fatica e la morte. Mi piace perché con poco fa moltissimo, con gesti semplici trasforma le cose e le fa diventare eccezionali. Mi interessa perché scava in profonditá e risputa una realtá trasfigurata, più vera di quella che ci scorre sotto gli occhi distratti.

Penso che le cose divertenti e buffe non siano mai abbastanza valutate, sono anzi sempre un po’ disprezzate, come se fare ridere non fosse difficile né importante. Esiste sempre questa scala, questa gerarchia fra le arti chiamate maggiori e quelle considerate minori. Io, invece, mi sono accorta di essere spesso più sensibile proprio a quelle definite minori. Quelle che, essendo legate all’humour, non sono considerate per il loro aspetto artistico ma solo per la loro funzione di divertimento. Penso invece che la leggerezza e l’humour abbiano un loro valore intrinseco che non deve essere sottovalutato. Io sono la figlia di un fumettista, conosco la difficoltà di un mestiere basato su questi aspetti, che fanno parte della mia cultura basica, quotidiana. Sono queste le ragioni che mi hanno fatto pensare all’attore di origine marrochina Gad Elmaleh come a un personaggio che mi piace particolarmente. È un artista completo, come lo erano tempo addietro i grandi artisti del musical americano, che sa scrivere, recitare, ballare, cantare con sottile e leggera eleganza. Lui riesce a parlare della società francese con uno sguardo delicato e originale. Senza nessuna pesantezza né presuntuosità, senza fare troppe ‘menate’. Il suo lavoro è difficilmente traducibile e descrivibile perché è basato sulla lingua francese, sui piccoli dettagli e sulle sfumature che definiscono una cultura. Non posso dire che il suo lavoro sia per me una fonte di ispirazione, perché lavoriamo in due ambiti completamente diversi, ma sicuramente preferisco vedere un suo spettacolo che dedicarmi a tanti altri interessi culturali ritenuti più nobili e pregevoli.

Doraemon by Oki Sato/Nendo Sono cresciuto leggendo i fumetti giapponesi, in particolare Doraemon, un personaggio che possiede molti aggeggi strani. Sono proprio questi oggetti a dare origine alle storie, con un processo che ha influenzato il mio modo di considerare il design. Non è quindi un caso che Doraemon sia il mio eroe sin da quando ero bambino.

In alto, da sinistra: Olafur Eliasson, L’installazione The Weather Project nella Turbine Hall della Tate Modern a Londra, 2003 (Foto di Jens Ziehe); Miquel Barceló, Vegap, opera realizzata con tecnica mista su tela, 2009 (Foto di Agustí Torres); un ritratto delL’attore comico Gad Elmaleh. In basso, il cartoon kult giapponese Doraemon.

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BIoGraFIe JONATHAN CARROLL scrittore americano (1949) Quando esce un suo libro, Stephen King è sempre il primo a congratularsi con lui. Jonathan Carroll, americano di New York, è infatti l’altro re della fiction a cavallo tra l’horror e la metafisica, tra il noir e lo psicoracconto. Tra i suoi romanzi più conosciuti c’è il suo primo, Il Paese delle pazze risate (Mondadori, 2004), e Tu e un quarto, una raccolta di racconti pubblicata da Fazi nel 2006. WIM DELVOYE artista belga (1965) Lo chiamano l’ Huckleberry Finn dell’arte. Nel Museo di Arte Contemporanea di Anversa ha installato un macchinario sputa-feci, un gigantesco corpo meccanico che, riempito di cibo, lo rispediva al mittente dopo apposita ‘digestione’, Rivoluzionario e anti-tutto, l’artista belga Wim Delvoye decontestualizza, mescola e crea ibridi, perché sorriso e disorientamento sono per lui l’essenza della vita contemporanea. DANIEL CLOWES fumettista americano (1961) Parlando di Daniel Clowes si fa spesso riferimento a un isolamento nato durante un’infanzia difficile, lo stesso che si ritrova in tanti protagonisti dei suoi comics. Come quelli di Come un guanto di velluto forgiato nel ferro, pubblicato nel 2009 in Italia da Coconino Press, che si perdono in un mondo fatto di stimoli ad alto tasso di sessualità e di consumismo sfrenato. GAD ELMALEH attore comico marocchino naturalizzato francese (1971) Una recenta inchiesta del Journal du Dimanche gli ha attribuito il terzo posto tra i personaggi pubblici più amati dai francesi dopo essere stato eletto, nel 2007, “la persona più divertente di Francia”. Attore, musicista, comico di origine marocchina, Gad Elmaleh è conosciuto per il suo stile pungente e leggero. Tra le sue interpretazioni più note, Coco del 2009 e Hors de prix del 2006. Sterling Ruby artista americano (1972) L’artista e critica Sarah Conaway l’ha definito “un Joseph Beuys in versione serial killer”. Uno, insomma, difficile da definire, perché usa ogni tipo di materiale o approccio, dal recupero alla creazione ex novo. Ma anche perché Sterling Ruby, artista, non crea oggetti ma spazi e ogni pezzo del suo lavoro va letto, per sua stessa affermazione, “partendo da un punto di vista diverso”. La sua arte è rappresentata dalla galleria Pace Wildenstein di New York.

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MIQUEL BARCELÓ artista spagnolo (1957) Nelle sue opere mescola l’elemento etnografico con il primitivismo africano. Il tutto, con un pizzico di glamour parigino. Quello dell’artista majorchino Miquel Barceló è un mondo di oggetti immaginati o sognati. Del resto, lui stesso dice di non dipingerli ma di lavorare sullo spazio che li separa gli uni dagli altri. Il risultato è un universo allo stesso tempo lussureggiante e primitivista, fatto per stupire. DAVID BYRNE musicista scozzese naturalizzato americano (1952) Leader e fondatore dei Talking Heads, David Byrne affianca all’attività di musicista quella di artista. Come compositore, insieme a Ryuichi Sakamoto e Cong Su, tra il 1988 e il 1999 ha vinto il Golden Globe, il Grammy Award e l’Oscar per la colonna sonora de L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. Ma Byrne crea anche installazioni, sculture, dipinti, spesso non firmati. Se ne è accorto però il New York Times che qualche anno fa gli ha dedicato un profilo. Come artista e non come musicista! TOM WAITS, cantautore americano (1949) Della voce di Tom Waits, il critico Daniel Durchholz ha detto che sembra “lasciata a mollo nel bourbon, poi appesa in un luogo fumoso per qualche mese e infine portata all’aperto per essere investita da un’auto”. Un marchio da artista maledetto, soprattutto quando va a braccetto con testi tutti incentrati su personaggi grotteschi, spesso inquietanti. Per questo Tom Waits è diventato un mito della musica contemporanea. FLATZ artista austriaco (1952) Ha fatto di tutto: scultura, pittura, video, foto e persino teatro e performance. Tra le più recenti, l’occupazione di una ex struttura carceraria a San Michele di Ripa dove voleva provare la vita da prigioniero. Insieme ad altri artisti, era stato invitato dall’Università di Innsbruck per ragionare sull’isolamento. L’avventura gli è costata una notta in cella (una vera!). Pare che durante il mese in clausura Flatz si fosse dilettato nel fare graffiti sui muri. Che, a giudicare dal suo curriculum di tutto rispetto (che annovera presenze ad Ars Electronica e Documenta), forse un giorno verranno rivenduti a peso d’oro. OLAFUR ELIASSON artista danese (1967) Le opere che crea nel suo ‘laboratorio di ricerca spaziale’ di Berlino sono state esposte alla Biennale di Venezia. I progetti di Eliasson, a cavallo tra architettura e arte, coinvolgono spesso lo spazio pubblico e sono incentrati sull’ecologia. Nel 2003, per esempio, con duecento lampadine, uno specchio e dei fumogeni ha costruito alla Tate Modern di Londra un sole artificiale, eletto un inno alla natura e alla tecnologia.

RACHEL WHITEREAD artista inglese (1963) Per le sue sculture utilizza spesso calchi di oggetti del quotidiano. In questo modo, Rachel Whiteread trasforma il negativo in positivo e fa sì che l’oggetto venga assorbito dallo spazio, diventandone parte integrante. Utilizzando poliuretani, resine, gesso e gomma, crea un mondo che è allo stesso tempo riconoscibile (e per questo confortevole) ma allo stesso tempo sinistro e alieno. Una poetica che le è valsa – prima donna artista ad ottenerlo – il prestigioso Turner Prize. BRIAN WILSON musicista americano, 1942 È il simbolo della beach culture degli anni Cinquanta e Sessanta. Brain Wilson è stato infatti il leader e il compositore numero uno dei Beach Boys per i quali aveva il ruolo anche di bassista e tastierista, oltre che arrangiatore e produttore. Un artista a tutto tondo, tant’è che la Rock and Roll Hall of Fame lo definisce “uno dei pochi innegabili geni della musica pop”, mentre la rivista Rolling Stone, solo due anni fa, l’ha posizionato al numero 52 tra i più grandi cantanti della storia. ERWIN WURM artista austriaco (1954) È famoso per le sue case e automobili ‘ciccione’ che spesso fa anche parlare. Ma soprattutto per le “one minute sculptures”, sculture viventi per le quali chiede a volontari, arruolati tramite annunci sul giornale, di trasformarsi in opere d’arte per sessanta secondi. Il loro compito è semplice: devono interagire con oggetti del quotidiano forniti dall’artista. Ecco perché della sua vasta produzione non rimangono poi che foto e video. AXEL VERVOORDT interior designer belga Appassionato di collezionismo e con un passato da gallerista e antiquario, Axel Vervoordt è famoso nel mondo per i suoi interior in cui mescola tradizione e modernità. Il risultato è un eclettismo colto e prezioso di grande successo. FlammarionPère Castor gli ha dedicato una bella monografia, a cura di Armelle Baron, che non a caso ha per titolo Timeless Interiors. Abita in un castello del XII secolo. MARCO FERRERI regista, attore e sceneggiatore italiano (1928-1997) Il più noto dei suoi film è La grande abbuffata (1973), dove alcuni amici si incontrano in una villa, e lì consumano cibo, bevande, sesso, amicizia, fino a stare male e ad uccidersi. I suoi film raccontano in modo tipicamente stralunato la decadenza di una società e il più delle volte terminano con la fuga, l’automutilazione o la morte dei protagonisti. Ai tempi della commedia all’italiana, Ferreri veniva considerato il più controcorrente tra i registi/ autori italiani. Doraemon cartone giapponese (1969) Doraemon è un manga giapponese di Fujiko F. Fujio, da cui è stato poi tratto il cartone animato che narra le avventure di un gatto robot giunto dal futuro. Doraemon è uno dei personaggi più celebri in assoluto dell’animazione giapponese, tanto da essere stato nominato nel 2008 “ambasciatore degli anime (i cartoon giapponesi, ndr)” nel mondo dal Ministro degli Esteri giapponese Masahiko Komura.

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ROMA. In un palazzo del 500, a pochi passi dal Pantheon, abita Luigi Serafini, un artista che declina trasversalmente il suo singolare eclettismo, restituendo spiazzamento e sorpresa con un talento pirotecnico. La sua dimora è una vera e propria casa-ritratto, affidata alla descrizione di chi l’ha interpretata e rappresentata fotograficamente.

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Domus Seraphiniana progetto di Luigi Serafini foto e testo di Aurora Di Girolamo

nel living o stanza dei contrasti, intorno al tavolino tondo con piano a specchio, una sedutaseggio in capitonnè di velluto rosso e la scultura dipinta di un cane in gesso, come in attesa immobile e laconica sul pavimento. DUE PRESEPI IN MOSTRA dentro teche trasparenti arricchiscono il repertorio di oggetti d’affezione e d’eccezione di serafini. pagina a lato. altri particolari del paesaggio domestico serafiniano dall’orologio a muro in legno con appendici decorative alle antiche sedie tornite dipinte di bianco.

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PROLOGO: Pittore, scultore, architetto, designer, scrittore, Luigi Serafini (Roma, 1949) è soprattutto “un ironico viaggiatore nei territori dell’inconscio”. È noto internazionalmente soprattutto per il Codex Seraphinianus, un libroenciclopedia con più di mille disegni accompagnati da una scrittura indecifrabile. Si tratta di una interpretazione in chiave fantastica e visionaria delle materie più varie, dalla zoologia alla botanica, dalla mineralogia all’etnografia, dalla tecnologia all’architettura e che richiamò l’attenzione, tra gli altri, di Roland Barthes, Italo Calvino e Federico Zeri. È stato pubblicato nel 1981 da Franco Maria Ricci e ha avuto otto edizioni fino all’attuale per i tipi della Rizzoli. Scenografo alla Scala, autore di sigle televisive, consulente di Fellini ne La Voce della Luna, designer negli anni Ottanta per Memphis, Artemide, Sawaya & Moroni, nel 2007 gli è stata dedicata al PAC di Milano una mostra antologica dal titolo Luna-Pac Serafini che ha contato quasi 11.000 visitatori in poco più di 30 giorni. Ultimamente ha pubblicato con BUR-Rizzoli una reinterpretazione delle Storie Naturali di Jules Renard in chiave di erbario immaginario.

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u-i-gi : “un grande cervo” questo è in cinese il significato del suo nome. Nomen omen, come dicevano i latini, e infatti dalle finestre che si aprono su S. Eustachio è curioso notare la sagoma della testa di un cervo in cima alla chiesa, a testimonianza del miracolo attribuito al Santo. La casa-studio di Luigi Serafini si apre come un diaframma e come un’enciclopedia si lascia sfogliare dall’ospite che, incuriosito e attonito, comincia un viaggio nei territori favolistici alla Lewis Carroll, con le sue miniature teatralizzate. In questa specie di Wunderkammer prendono forma gli artifici fantastici dell’artista che è pittore, scultore, designer, scenografo, architetto, calligrafo, scrittore. Con leggerezza Serafini scompone e sapientemente riordina nello spazio domestico i suoi oggetti, ridisegnati, scolpiti, ridipinti, costruendo un percorso

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emozionale e rimembrante nella sua Domus Seraphiniana in continuo cambiamento. Nell’ingresso rosso e nero la luce mostra grandi tele e sculture montate su ruote. La casa segue un percorso circolare. Dall’ingresso parte il bivio tra lo studiolo e il corridoio verso la cucina. Tra le pareti colorate il corridoio, con pavimento optical in linoleum, porta a un cunicolo sormontato da una volta in legno bianco da cui sporgono piccoli volti scolpiti dalle svariate espressioni e sulle strette pareti, ancora una tela ad olio con figure appese e alcuni disegni scappati dal suo mirabolante capolavoro enciclopedico. Verso lo studiolo, le librerie a strisce orizzontali, rosse e bianche, stazionano come palafitte, lungo il corridoio e dall’alto della biblioteca strabordante di volumi, un cervo da fiaba, sta a guardia dello spazio dominato dai colori, insieme alla figura totemica a forma di ciambella rossa chiamata King Botto. È lì che Serafini elabora al computer le immagini per le Storie Naturali di Jules Renard. Da qui si intravvede

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la grande scultura della mano gialla che sporge dal muro della stanza-atelier. In questa luminosa altura metropolitana, nido Seraphiniano dalle pareti blu notte, gli alfabeti non strillati sono ammaestrati al fantastico, declinando la genesis dei mondi Codexiani, irridendo all’ovvietà e travestendo i sogni. Come dalla cima di un albero che cambia i colori e i volumi con le stagioni, Luigi rincorso dalle immagini le fissa ora sulle tele che si trovano sui cavalletti o su carta tra i tanti appunti e schizzi sul grande tavolo da lavoro dalle gambe zebrate. Le vetrine ordinate del mobile blu ospitano legioni di pastelli, matite, manichini, cartoni, pennelli, oli e acquarelli. Sulla grande cassettiera rossa sono in mostra due presepi dentro campane di vetro e sulla parete a ridosso riluce il neon che riporta una lettera del suo alfabeto misterioso. Sopra il caminetto colorato, come un trofeo, spicca con fierezza la testa di un grande cervo argenteo dalle corna che si illuminano e due sedie colorate creano un’atmosfera conviviale.

qui sopra: la stanza-atelier. in primo piano, SEDIA santa DISEGNATA DA LUIGI SERAFINi PER SAWAYA & MORONI. particolare delLA TESTA-TROFEO DI UN GRANDE CERVO ARGENTEO DALLE CORNA LUMINOSE SOPRA IL CAMINETTO. Pagina a lato. LA STANZA-ATELIER segnata daLLA PARETE BLU NOTTE con la CITAZIONE ROMANTICA DeL POETA BAROCCO G.B.GUARINI. dietro il tavolo da lavoro con gambe zebrate si intravvede il living e la poltrona blow in plastica trasparente gonfiabile disegnata da de pas-d’urbino-lomazzi per zanotta nel 1967. scorcio del CORRIDOIO CON PAVIMENTO OPTICAL IN LINOLEUM CHE FUNGE DA ASSE VISIVO ED ELEMENTO DI COLLEGAMENTO TRA GLI AMBIENTI. due coleotteri dipinti su piccole porte ‘segrete’ spiccano Nella parte conclusiva del cunicolo. LA grande SCULTURA della MANO GIALLA CHE SPORGE DA UN MURO DELLA STANZA-ATELIER.

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incuriosito e attonito, l’ospite comincia un viaggio in territori favolistici alla Lewis Carroll

NELL’INGRESSO SEGNATO DA UN PRECISO BICROMATISMO ROSSO E NERO, GRANDI TELE E SCULTURE MONTATE SU RUOTE INTRODUCONO AL PERCORSO EMOZIONALE degli ambienti. IN PRIMO PIANO LA FIGURA TOTEMICA A FORMA DI CIAMBELLA ROSSA DENOMINATA KING BOTTO. LUIGI SERAFINI RITRATTO AL COMPUTER MENTRE ELABORA IMMAGINI PER LE STORIE NATURALI DI JULES RENARD. pagina a lato. LUNGO IL CORRIDOIO VERSO LO STUDIOLO LIBRERIE TUTT’ALTEZZA A STRISCE ORIZZONTALI ROSSE E BIANCHE Sostengono UNA BIBLIOTECA STRABORDANTE DI VOLUMI.

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con leggerezza serafini scompone e riordina nello spazio domestico i suoi oggetti disegnati, scolpiti, dipinti, mutevoli

INTORNO AL TAVOLO TONDO, UN PEZZO UNICO SU DISEGNO impiallacciato e TINTO ALL’ ANILINA, SEDIE SUSPIRAL DISEGNATE DA SERAFINI PER SAWAYA & MORONI. pagina a lato. SERAFINI, RITRATTO SU UN GRANDE PANNELLO IN GUISA DI CAVALIERE CON ARMATURA 400ESCA, INTRODUCE ALLA GRANDE E CONVIVIALE CUCINA.

Sopra la porta che ci introduce al salotto, si legge a caratteri cubitali una citazione del poeta barocco G.B. Guarini, dedicata alla sua amata: “Baciando i detti, ragionando i baci”. Le pareti cambiano nuovamente colore, dilatate da larghe strisce dipinte di bianco e giallo senape, con decori in movimento sembrano piccole onde fluttuanti; siamo nella stanza dei contrasti dove spicca la grande poltrona in plastica trasparente gonfiabile, di fronte un tavolino tondo a specchio dove si riflettono frammenti della stanza ricca di oggetti d’eccezione. Si avanza verso una strettoia di legni rossi e bianchi, riflessi dagli specchi a soffitto, attraversando un cunicolo caleidoscopico, dove si mostrano due coleotteri giganti dipinti su piccole porte segrete. Serafini si mostra poi ritratto su un grande pannello in guisa di cavaliere con armatura 400esca e ci introduce in compagnia

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del coccodrillo verde alla grande cucina. Sul frigo a colonna troneggia una vecchia sedia impagliata dipinta di grigio, in memoria della nonna prediletta. Si ripercorre il corridoio optical chiudendo il cerchio, ritornando come per finire il gioco sul pavimento a scacchiera, che conduce l’ospite tra luci e ombre verso l’ingresso. Si può assaporare così a ritroso la segnaletica da fiaba surreale nella stravaganza delle suggestioni ricevute, dove in ogni stanza si cela uno stato d’animo.

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Nel cuore della Ville Lumière, un interno totalmente custom-made, concepito e realizzato per un nuovo re sole che desidera abitare in un appartamento parigino del terzo millennio con tanto di boiserie e mobili che sembrano pepite d’oro.

Rigore e nuovo lusso progetto di Lazzarini Pickering Architetti collaboratori Barbara Fragale, Simone Lorenzoni, Filippo Pernisco, Arianna Vivenzio local architect Sopha architectes foto di Matteo Piazza testo di Antonella Boisi

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ell’epoca della società liquida come l’ha definita il sociologo Zygmunt Bauman il ‘pensiero della mano’ che guida il confronto tra tradizione e contemporaneità dell’ architettura può dare esiti davvero inconsueti e sorprendenti. Soprattutto quando il dualismo interessa un preesistente portatore di valori solidi, di radici storiche, di prospettive profonde e un nuovo che diventa sinonimo di intervento rigoroso e di nuovo

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lusso coerente nell’esprimere nuove esigenze estetiche e funzionali. Basta osservare questo interno parigino d’epoca, reimpaginato da Claudio Lazzarini e Carl Pickering per un nuovo re sole, un globetrotter internazionale con la passione per il collezionismo di vasi anni Cinquanta in vetro di Murano. Un luogo dall’identità forte, 360 mq, a due passi dalla Torre Eiffel, dal nuovo Musée du quai Branly di Jean Nouvel e dal Pont de l’Alma,

Qui sopra, composizioni variabili della boiserie in legno bianco che caratterizza l’ambiente living, segnata dal taglio di nicchie dorate e da aperture che mostrano vani contenitori laccati di nero. L’area d’ingresso con il ‘muro fantasma’, la griglia modernista di bianco e oro vestita che rende omaggio alle cornici di Sol Lewitt sottolineando la nuova impaginazione aperta ed eterea del tradizionale appartamento primi novecento.

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nel 16esimo arrondissement. Un ampio e tradizionale appartamento primi Novecento, formato da una sequenza di stanze passanti che si susseguono l’una nell’altra con fughe inarrestabili e vedute fronte Senna, all’interno di una planimetria regolare dalla forma a L. “È stato concepito” spiega Carl Pickering, partner australiano di Claudio Lazzarini, un sodalizio professionale ormai trentennale, “come un site-specific portrait, un ritratto in tre dimensioni, un’opera d’arte in divenire, in cui il committente avesse la possibilità di intervenire non soltanto da spettatore nello spazio complessivo del suo pied-à-terre, successione di ingresso, living room, studio, sala da pranzo, cucina, camera da letto, camera ospiti, bagno”. E se questa è la cifra anche del product design firmato dallo studio romano, nella fattispecie il dialogo con la storia è stato risolto all’insegna di una sintesi compositiva che restituisce dimensioni di smaterializzazione dell’architettura, fluidità, flessibilità, leggerezza

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e continuità visiva degli ambienti. Questi vivono una ‘seconda giovinezza’ grazie all’innesto di una griglia modernista di bianco, nero e oro vestita, un omaggio ai colori archetipi parigini e ai loro ritmi. “Ma, non è stato un intervento da decorateur” precisa Lazzarini. “Abbiamo immaginato un appartamento parigino del terzo millennio che reinterpretasse il tema tradizionale della boiserie in legno di rovere, restituendola con un nuovo significato, aperto e in fieri, all’interno di una costruzione-origami che si presta a infinite configurazioni. Di fatto, abbiamo ‘vivisezionato’ molte boiseries classiche parigine, studiandone rapporti di scala, linee, altezze, forme per giungere a una definizione delle proporzioni ritenute adatte agli spazi”. Il primo segno di riferimento del progetto si materializza nella hall: è un murofantasma traslato nella figura di uno scheletro in metallo bianco su cui si innestano una serie di scatole-display dorate, permeabili alla luce e alla comunicazione visiva diretta con l’ambiente living.

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Nel living, reso luminoso dalla parete interamente finestrata che abbraccia vedute della Torre Eiffel e della Senna, tutto l’arredo fisso, su disegno, è stato realizzato da Monti di Rovello intervenuta come general contractor. Gli apparecchi illuminotecnici integrati nella struttura architettonica sono Secret di Kreon. i tavoli in fibra di carbonio e finitura foglia d’oro sono invece un pezzo unico appositamente realizzato in cantiere navale. Sono formati da una serie di ovali irregolari su cui si innestano elementi di congiunzione che possono ruotare generando un’infinita varietà di forme e configurazioni.

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Vista della cucina, tutta custom made e attrezzata con elettrodomestici di Gaggenau. Nuovo il pavimento di parquet effetto anticato.

Una figura come sospesa, un simbolico portale che rende omaggio alle cornici di Sol Lewitt, in soggiorno estesa nella figura parietale di una boiserie bianca cesellata di linee, nicchie in nido d’ape d’alluminio finito foglia d’oro, ripiani e pannelli apribili con superficie interna lucente laccata nera e all’esterno di vetro, uno dei quali sulla parete corta cela addirittura la presenza del camino. La scena di una rappresentazione teatrale dell’abitare è sostenuta in questo ambiente anche dalla presenza del tavolo in fibra di carbonio e finitura foglia d’oro, appositamente realizzato in cantiere navale, che varia forma funzionalmente ed emozionalmente secondo desideri personali, di uso formale o conviviale. È infatti composto di quattro ovali e di tre elementi di congiunzione ruotanti con il ruolo anche di piccole consolles indipendenti che possono disegnare una sorta di sinuosa goccia gold ininterrotta dal living al pranzo fino alla cucina dove è previsto un loro innesto con il bancone di lavoro. Se i colori parigini

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archetipi caratterizzano il pattern cromatico e la nuova pavimentazione uniforme a doghe di quercia lasciata al naturale si ispira agli schemi tradizionali dei parquet d’epoca francesi, l’illuminazione affidata ad essenziali apparecchi integrati nella struttura architettonica mette in risalto la ragnatela sospesa delle linee di fuga compositive. L’interpretazione al di fuori di ogni convenzione che caratterizza il progetto si palesa però appieno nella sala da bagno principale. Qui protagonista è un unico monolite dalle superfici soft-touch, una mega ‘conchiglia’ di resina vestita dell’immancabile foglia d’oro che alloggia tutte le attrezzature d’uso quotidiano (dalla vasca al lavabo, dal wc al bidet). La circondano una serie di partizioni verticali vetrate, in parte mobili, che delimitano varie funzioni, tra cui quella della doccia dotata di hammam. E se non è tutto oro quello che luccica, questa strana pepita sfavillante sembra promettere straordinari effetti speciali senza cercare troppo lontano.

Il blocco-bagno assume l’inconsueta forma di una dinamica ‘pepita’ in fibra di carbonio rivestita di foglia d’oro che accoglie le varie apparecchiature funzionali ed è equipaggiata con rubinetteria Vola in versione dorata.

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A Crans Montana, stazione turistica della Svizzera francese, un interno domestico che si distacca dall’involucro architettonico che lo accoglie per figura e intenti progettuali. Un’accogliente casa di vacanze giocata sulla definizione di un’elegante semplicità, scandita da una studiata scelta dei materiali rapportata al mondo della montagna, reinventata per analogie e segni contemporanei.

Polifonia materica

progetto di Dordoni Architetti, Rodolfo Dordoni-Luca Zaniboni con Sara Masotti, Benedetta Papa, Giovanna Vallardi, Silvia Vergani foto di Pietro Savorelli testo di Francesco Vertunni

Un lungo portale in ferro e bronzo brunito attraversa e lega tra loro gli spazi del soggiorno e della cucina. Il camino passante incastonato all’interno del volume in metallo risulta il punto focale di simbolica comunicazione tra i due ambienti. Nel soggiorno il rovere della boiserie viene utilizzato per riprodurre a terra un motivo con disegno alla ‘Versailles’. Divani di Minotti, tessuti di loro piana, illuminazione integrata di Viabizzuno.

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Nella cucina e nella zona pranzo, con tavolo in noce su disegno e sedie Y chair di hans j.wegner per carl hansen & son (1950), i toni caldi si azzerano con l’utilizzo dell’acciaio e delle lastre grigie di pietra del cardoso a pavimento. Cucina di Bulthaup, arredi antichi di Antiquités Bonvin-Barras.

L’

edificio, uno dei tanti condomini per vacanze che ricalca, moltiplicandola in scala, la tradizionale figura dello chalet alpino, con tanto di balconi dalle balaustre di legno traforato e, secondo le possibilità stagionali, rossi gerani alle finestre, è stato volutamente abbandonato per scelte generali d’intervento e immagine d’insieme da questo interno contemporaneo di montagna. Alla stucchevole quanto rassicurante immagine alpina ‘da cartolina’, ancora seguita dalla maggior parte delle nuove iniziative immobiliari per seconde case di vacanza, il progetto di questo grande appartamento sostituisce una riflessione che potrebbe essere estesa all’architettura in senso lato per lucidità delle scelte e linee guida generali. Consegnato allo stato rustico, privo di partizioni e di finiture, lo spazio della casa ha

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Nella famiglia eterogenea dei materiali adottati, la lamiera di ferro smerigliata tra la cucina e il soggiorno (vista di scorcio) con i suoi riflessi di luce satinati e morbidi contrasta con la boiserie in tavole di rovere di recupero che riveste come

permesso di lavorare ex-novo in totale libertà senza vincoli e costrizioni con cui confrontarsi. L’idea è stata quella di creare un ambiente indipendente e compiuto, in aperto contrappunto rispetto alla figura dell’esterno. La casa è stata divisa in due zone collocate a nord e a sud, separate dal percorso d’ingresso, rivestito di pietra del cardoso grigia, contenuto da pareti coperte da tavole di legno di rovere recuperato ad andamento orizzontale che già dalla soglia annunciano il forte aspetto ‘materico’ degli spazi. Le scelte dei materiali tendono a caratterizzare l’intera filosofia dell’intervento che si basa su una sorta di reinvenzione delle atmosfere locali dettate dalla sincera semplicità della ‘casa di montagna’ appartenente ad una tradizione storica e domestica di lunga durata. Il legno anzitutto, declinato nelle essenze di rovere per la parte

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Il legno si declina ancora nell’essenza di rovere invecchiato delle pareti e delle porte scorrevoli nella parte sud della casa in cui sono disposti la camera da letto principale con bagno proprio rivestito con travertino color noce. Pareti e soffitto in grassello di calce.

sud della casa in cui sono disposti la camera da letto padronale con bagno proprio rivestito con travertino color noce, collocata in conclusione della prospettiva d’ingresso, e l’ampia cucina e zona pranzo, ampliata in una zona relax nel bow-window, separate dal soggiorno con un volume metallico che accoglie un grande camino bifronte e disegna un ampio portale in ferro e bronzo brunito. Il metallo, richiamo dei portoni antichi fitti di borchie e dettagli in materiale ferroso lavorato da abili artigiani, è ripetuto anche per il portale d’ingresso di lamiera smerigliata in grado di produrre riflessi di luce nel corridoio centrale. Mentre in alcune porzioni della parete libreria su disegno a parti libere si alterna una serie di pannelli di alpacca a geometria variabile, disposti all’interno di una griglia modulare. Il legno di larice, più chiaro e luminoso, è stato invece scelto per scandire la zona a nord in cui sono state ricavate due ampie camere da letto e un piccolo studio. Qui il larice segna a volte l’intero spazio salendo dal pavimento

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alle pareti, sino al soffitto, per costruire una sorta di ‘ambiente totale’ e monomaterico dove anche la vasca da bagno, contenuta in un box vetrato, è rivestita con lo stesso materiale. Le lunghe tavole di legno impiegate in gran parte della casa sottolineano la regolarità della forma delle stanze dell’impianto complessivo, per concedersi una leggera digressione solo nel disegno del pavimento del soggiorno che segue il classico motivo Versailles. Anche l’aspetto del valore della dimensione artigianale, del ‘fatto a mano’, diventa parte dell’approccio progettuale: ad esempio nell’impiego della piastrelle colorate craquelé (rosse e petrolio) dei bagni della zona nord, nell’uso dell’intonaco in calce naturale e nell’accurata esecuzione degli arredi su disegno che si confrontano, in un dialogo aperto e costruttivo, con le antiche sedie di legno massiccio della tradizione locale; frammento figurativo e funzionale del mondo alpino, parte di una polifonia materica tradotta in chiave abitativa.

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CRANS MONTANA / 41 Il piccolo studio organizzato nella zona a nord privilegia il rivestimento in legno di larice più chiaro e luminoso adottato per gli arredi, il pavimento e alcune pareti. Lampada di Flos, seduta di Vitra. L’utilizzo di un unico materiale, larice siberiano, solare e caldo, caratterizza anche l’involucro di una delle due camere da letto ricavata nella zona a nord. Ampia, austera e lineare è segnata dal continuum spaziale e visivo tra zona notte, bagno e guardaroba. Nel bagno rivestimenti in cotto smaltato di Diemme/Domenico Mori.

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la Casa nella Roccia Casa Boucquillon sulle colline intorno a Lucca, nella campagna toscana. La nuova abitazione-studio di Michel, architetto e designer di punta per le major del settore, e di Donia, architetto, scultrice e pittrice, si pone come elemento abitabile in continuitĂ con la natura.

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La pietra della collina diventa protagonista degli interni quale sfondo naturale alle spalle della cucina aperta verso zona pranzo e living e, in due camere e un bagno del piano superiore. in primo piano, il divano flap disegnato da Francesco binfarÉ nel 2000 per edra, in versione pelle bianca.

progetto di Michel e Donia Boucquillon foto di Pietro Savorelli testo di Matteo Vercelloni

pagina a lato. La volontà di azzerare i confini tra casa e natura si percepisce appieno nella veduta della costruzione esterna realizzata da arvo. L’impermeabilizzazione è stata realizzata da Rubber. Luce da esterni Nord Light di Artemide. Il complesso segue il disegno a balze della collina. il volume preesistente ricostruito si estende nel nuovo volume dello spazio di lavoro che apre sull’ampia terrazza. La facciata a valle è segnata da poche aperture, il fronte principale resta di pietra, come i muri di contenimento delle terrazze laterali.

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livi, pietra e marmo bianco, caratterizzano il paesaggio della collina su cui sorge questa nuova casa-studio che Michel e Donia Boucquillon (lui, designer di punta per major del settore e architetto autore tra l’altro nel 1988 della sede del Parlamento Europeo a Bruxelles, lei architetto ma anche scultrice e pittrice) hanno voluto come loro sede operativa e di vita quotidiana lontano dalla città. Un ‘ritorno alla natura’ che però non si riconduce alla riscoperta dell’architettura vernacolare e alla dimensione campestre, come rinuncia della realtà contemporanea e della ‘necessità’ d’essere moderni. Piuttosto la consapevolezza di operare nel presente sia dal punto di vista delle tematiche ambientali, del rispetto e dell’ottimizzazione delle fonti energetiche (la casa sfrutta un criterio

di autosufficienza energetica ‘totale’ grazie alla raccolta di acque piovane e all’uso di una pompa di calore e di pannelli solari), sia per il delicato fattore di costruire oggi in un ambiente naturale, sono affrontati in modo chiaro, quasi programmatico, in questa costruzione aperta e integrata, senza facili mimetismi, nel paesaggio che la accoglie. Una costruzione che ha ottenuto l’interesse e la comprensione del Comune di Lucca e della Sovraintendenza specifica locale. La morfologia della collina, il sovrapporsi di balze e porzioni di marmo bianco insieme al verde degli ulivi e della macchia autoctona, hanno suggerito di affiancare alla ricostruzione del volume preesistente gravemente ammalorato, un’estensione dello spazio abitabile che si aggiunge al corpo vero e proprio della casa affiancato da ampie terrazze

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la parete del camino accoglie nel suo taglio orizzontale lo schermo tv e una finestra-quadro. luci a soffitto della serie Picto e Rastaf di Artemide. Tavolo da pranzo Fractal di piero lissoni per Porro e sedie la Regista di Michel Boucquillon per Serralunga. le sculture sono di niki de st phalle e di Donia Maaoui, moglie di michel boucquillon. LA cucina è composta dal piano bianco che integra piano cottura in vetro ceramica foster by alessi e cappa con aspirazione verso il basso integrata all’elemento sporgente. il resto delle attrezzature si cela dietro alle tre porte scorrevoli. la scala secondaria che si sviluppa dal livello inferiore interrato e prende luce dal living. Lo sbarco al piano è delimitato da una serie di tavolini che formano una ringhiera d’eccezione in metallo, su disegno. La scala principale a chiocciola, trattata come un elemento scultoreo segnato da fori circolari e all’interno da un colore papavero, Si sviluppa sui due livelli in uno spazio libero a doppia altezza. la resina a pavimento è prodotta da Teknai.

Il progetto, sperimentale e innovativo, costruito secondo moderni criteri di efficienza e risparmio energetici, ricostruisce un rudere agricolo senza nascondere la sua dichiarata figura contemporanea

su cui si apre lo spazio di lavoro. Queste rileggono, trasformandone figura e dimensione, i terrazzamenti agricoli di un tempo, rendendo armonico e ben calibrato l’inserimento della nuova costruzione nel suo complesso. Un atteggiamento che già proietta il progetto alla necessaria scala paesaggistica, assumendo l’architettura non come un inserimento ‘a priori’, ma come un contributo al ridisegno di una parte della collina. Da questo punto di vista la scelta di un unico materiale come il marmo bianco, impiegato per il rivestimento esterno di tutta la costruzione si pone come fattore di continuità con la roccia, lo stesso materiale verso cui la casa si appoggia, diventandone di fatto una sorta di architettonica estensione che trasforma la geografia materica del luogo. Ma senza ricorrere a mimetismi vegetali o

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a mascheramenti scenografici, la casa afferma in questo suo processo compositivo una dichiarata e sincera modernità. Il nuovo volume abitativo segue la dimensione di quello precedente con tetto a falda, segnando la facciata a valle con poche aperture disposte in modo irregolare e funzionale agli interni, garantendo così la percezione del fronte principale come figura di pietra, legata allo stesso trattamento dei muri di contenimento delle terrazze laterali e del volume, più basso in curva, dello studio. Girando sui due fronti laterali (il retro è appoggiato alla collina) la casa si apre con delle ampie vetrate scorrevoli integrando spazi esterni con quello dell’ampia zona giorno e configurando nettamente lo scatto tra pieni e vuoti, il ritmo tra il marmo del fronte verso valle, la trasparenza degli spazi interni, la pietra della collina. Questa è

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la camera da letto padronale forma un tutt’uno con l’ambiente fitness e la stanza da bagno. in primo piano, tavolo da comodino meteor di arik levy per serralunga e lampada egle di michel boucquillon per artemide. nell’area dedicata al relax, seduta a dondolo voido di ron arad per magis e pittura di donia boucquillon. nei bagni, vasche, lavabi e accessori sono tutti disegnati da michel boucquillon. nel bagno dei genitori, lavabo e vasca fanno parte della collezione strip in cristalplant di aquamass (premio design plus nel 2005), gli accessori sono della serie strict di valli arredobagno. pagina a fianco, il bagno destinato alle bambine, al piano superiore. lavabi e vasca di aquamass, accessori della collezione worn e lampade-applique della serie ecco-ecco di valli arredobagno. in tutti i bagni, rubinetterie love me di maurizio duranti per ib rubinetterie.

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chiamata a diventare protagonista degli ambienti, portata all’interno quale sfondo naturale alle spalle della cucina aperta verso zona pranzo e living, e in due camere e un bagno del piano superiore. Il confronto con la roccia è diretto ed enfatizzato dalle linearità del disegno degli spazi, dagli arredi impiegati, dal trattamento geometrico delle superfici dell’interno che si rapportano per voluto contrasto alla matericità della collina. Al piano terreno due sono gli elementi compositivi che caratterizzano lo spazio: la parete del camino (con doppio recupero di calore passivo e attivo) accoglie nel suo taglio orizzontale lo schermo tv e una finestra laterale, quasi un ‘quadro’ che incornicia la campagna colorandosi delle diverse stagioni; il volume della scala a chiocciola trattato come elemento scultoreo, forato da aperture circolari e caricato di valori astratti sia per il suo emergere in modo isolato e compiuto dallo spazio unitario

della zona giorno, sia per il colore papavero del suo interno che ancora vuole ricordare una tonalità presente nei prati dell’intorno durante la stagione di fioritura. La scala si sviluppa sui due livelli in uno spazio libero a doppia altezza che ne enfatizza la dimensione e il ruolo di elemento centrale. Cuore della casa a livello figurativo oltre che connettivo. Al piano superiore la camera da letto padronale occupa la zona di testata con bagno proprio e cabina armadio, mentre altre tre camere da letto si dispongono lungo un corridoio centrale concluso dal bagno comune. In tutta l’area notte, durante la stagione più calda, la casa si può ‘aprire’ per vedere il cielo stellato: il tetto si alza come due ali di farfalla, incernierato lungo il colmo centrale, per permettere all’aria di raffrescare in modo naturale le notti estive trasformando un meccanismo di ottimizzazione ambientale in un ‘dispositivo poetico’ a scala domestica.

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A Losanna, lo studio SANAA disegna il Rolex Learning Center per l’EPFL (Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne). I due architetti giapponesi pensano uno spazio multidisciplinare policentrico, un parco artificiale dedicato all’apprendimento.

l’onda del lago progetto di Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa /SANAA foto e testo di Sergio Pirrone

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sopra, vista esterna della facciata settentrionale, verso il lago di ginevra. pagina a fianco. dettaglio della copertura in acciaio verso ovest. vista della corte a forma di clessidra adiacente la zona ristorante.

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o un sogno, ritornare ragazzo. Da studente, amerei trascorrere il mio tempo dentro quest’architettura così speciale. È un luogo totalmente dedicato ai giovani, in cui non studiano soltanto, ma vivono”. Patrick Aebischer, presidente dell’EPFL (Ecole Polytecnique Fédérale de Lausanne) passeggia attorno al Rolex Learning Center e racconta di come la creatività sia l’elemento che unisce arte e scienza e di come questa nuova icona architettonica contenga quest’ambizione. Il lago di Ginevra è a ‘pochi metri’, a sud, oltre le villette con giardino. Ha la forma di un ‘pesce’ che salta sopra acque calme mentre la nebbia del tramonto sbiadisce i contorni del campus universitario. Il miglior centro di ricerca tecnologico europeo e il desiderio di primeggiare

hanno condotto il governo svizzero e un gruppo di finanziatori privati guidati dalla Rolex a bandire un concorso d’architettura internazionale verso l’ultimo capolavoro dello studio SANAA. Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa sono scarni, essenziali nei gesti, e nei lineamenti. Icone anch’essi di un modo nuovo del disegnare, del pensare lo spazio in movimento, del vivere senza una linea nera che imponga dove stare, se dentro o fuori, se insieme o semplicemente soli. Tra le trasparenze leggere e nei riflessi di foglie verdi su superfici arrotondate di vetro e di resina, diafani, abbagliati dal bianco assoluto di volumi senza raggi di sole, hanno immaginato un parco. “È uno spazio che aiuta a comunicare. Attivamente, incoraggia gli studenti a scegliere. Dove andare, dove e cosa studiare, se concentrarsi

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veduta interna dell’entrata principale del Rolex Learning Center con il bancone circolare in primo piano. vista della libreria, sullo sfondo i dossi che portano al vertice nord-occidentale dell’edificio. pagina a fianco. la corte a lato della zona per la collezione dei libri antichi. la rampa che conduce alla libreria multimediale.

nel silenzio o unirsi agli altri studenti”. La pianta quadrata, 20.000 mq tra colline, valli e discese, scorre fluida con due onde parallele, il piano di calpestio di cemento e la copertura d’acciaio, che ondulano il programma funzionale attorno a 14 bolle d’aria. Corti interamente vetrate, ellissi irregolari, inspirano e attraversano lo spazio con la delicatezza d’un soffio. Senza mai dividerlo, uniscono la terra, l’aria e il cielo, guardando orizzontalmente ai percorsi interni, quelli che scendono in diagonale e s’insinuano tra le adiacenze d’altri cilindri. La libreria multimediale da 500.000 volumi, le sale studio da 860 posti, l’auditorio da 600, le 3 zone ristorazione da 250, gli uffici, condividono un mondo insieme democratico ed anarchico, pubblico e privato. Non servono i muri, qui la presenza dell’altro si può solo intravedere, percepire. Sulla cresta di un’onda o in fondo ad un dosso si vedono gambe o teste scivolare tra bordi di piani orizzontali, mentre snelle colonne d’acciaio puntellano il saliscendi. Ci ricordano che questo nuovo dominio architettonico è un gioiello strutturale ordinato da due gusci poggiati su 11 archi con luci di 3090 metri. Il telaio d’acciaio e legno annegato nel cemento disegna i suoi contorni con le ombre del giorno. Sotto gli intradossi curvi qualcuno parla della sera prima, al centro della corte principale illuminata dall’iride zenitale, sul prato, qualcun altro mangia, noi pensiamo a come sarebbe stato bello studiare, ai bordi del lago di Ginevra.

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Ant. Igendel ipsam nulpa alitatiur, officiis molore, eum idus eost dolorest, cum alita simuscia voluptae. Adi diore, officid elictus provitas dolorupta volorum quid eum quam non con con plab inctum alitatet as id ullaut lab idelign imilitatur, ut unti repro blaudae odionsedita ipsa accaeressit ilicatur, volorectores mint. Exerfer chillandandi quiatese cone sim voloriorio voloria dolut pro modis commos as quidell oribus, eture nectat. Ducidig entio. Nam aceatiur re, officia nis consecuptate re ne pra quo ex et aut essinctemos des ditat vent, incium doloribus. Bit alit ius volut ius qui alit ipsant porume deste

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IL futuro è oggi?

sopra, il ‘dosso’ che collega la zona ristorazione all’auditorio, verso il versante occidentale. le sedute sono state risolte con il modello the ant disegnato da Arne Jacobsen nel 1952 per l’azienda danese fritz hansen. pagina a fianco. vista della rampa situata all’estremo sud-orientale e adiacente alla corte principale.

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Per la giapponese Kazuyo Sejima – primo architetto donna chiamata dal presidente Paolo Baratta alla curatela della XII Mostra Internazionale di Architettura (29 agosto/21 novembre 2010), Venezia (Arsenale e Giardini) – rispondere a questa domanda significa innanzitutto parlare e inquadrare il tema di People meet architecture. È il titolo da lei scelto per spiegare che “l’architettura ci aiuta a diventare civiltà, a organizzare gli spazi in cui viviamo, ad adattarli, a chiarire nuovi valori e stili di vita del XXI secolo”. Ma non solo. Il costruito nelle sue opere è sempre stato fortemente relazionato al valore d’uso che ne fanno le persone – gli studenti e le giovani generazioni nella fattispecie del Rolex Learning Center –privo di aspetti di rappresentazione celebrativi o autoreferenziali. Così la recente opera di Losanna si presta a diventare il manifesto di un mood e di un indirizzo più ampi. Gli ha anticipati nella presentazione alla stampa, raccontando il programma della sua

Biennale veneziana: “La mia progettualità aspira a tracciare i confini tra In /Out, dentro e fuori, we and you (noi e voi) e con una natura protagonista, ma educata. Ho invitato gli architetti che parteciperanno all’evento (Luca Molinari si occuperà del Padiglione Italiano, ndr) ad essere curatori di se stessi o meglio di uno spazio in modo creativo. Non mi interessa che portino in mostra soltanto qualche maquette o foto. Perché l’importante è comunicare come si sviluppano le idee e come si contestualizzano sia rispetto all’ambiente che allo spettatore-fruitore chiamato a essere parte attiva della progettazione. Non credo che l’architettura contemporanea possa modificare, come è stato in passato, grandi brani della città o prestarsi alla realizzazione di veri e propri masterplan. Ma si può partire dal piccolo e anche questo ha un valore. Anche l’abbattimento di un muro cambia il modo di relazionarsi tra le persone. Anche il ridisegno di una pensilina del bus influisce sul modo in cui le persone siedono e interagiscono tra loro”. (Antonella Boisi)

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VITra, IL CamPuS DeI MIracoLI foto di Iwan Baan testo di Alessandro Rocca

IL virtuosismo spaziale DI Herzog & De Meuron, ULTIMA ACQUISIZIONE TRA LE ARCHITETTURE D’AUTORE DI Rolf Fehlbaum, È IL NUOVO FOCUS VISIVO ED ESPOSITIVO DEL CAMPUS VITRA.

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a “città che sale” di Herzog & De Meuron è formata da una catasta di volumi semplici, case lunghe e strette coperte da un tetto a doppia falda e poste una sull’altra, in una logica che sembra del tutto casuale. L’archetipo della casa indica un ritorno alla figurazione che, spiega Jacques Herzog, “oggi diventa interessante proprio in rapporto, e in contrasto, alla proliferazione di immagini generate dal computer che tendono a esaurire la nostra capacità di immaginazione”. L’uniforme intonaco color antracite ricopre i fronti laterali mentre le facciate brevi sono completamente finestrate, come grandi occhi

che scrutano il paesaggio nelle diverse direzioni. All’interno, l’edificio espone la Home Collection di Vitra, con un display dell’intera produzione: le storiche edizioni degli Eames, George Nelson, Jean Prouvé e Isamu Noguchi e i pezzi più recenti, con le collezioni per l’ufficio, la casa e gli spazi pubblici e la nuova ricerca sui nuovi colori, oggi visitabili anche sul nuovo sito www.vitra.com/vitrahaus. Nei cinque piani del nuovo complesso, gli ambienti inondati di luce sono molto flessibili nell’accogliere i display più diversi, mentre la parte più interna dell’edificio è attraversata da uno spazio verticale continuo e irregolare che offre, scivolando tra

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Le grandi finestre proiettano le immagini della Home Collection verso l’esterno e portano il paesaggio circostante all’interno dell’edificio. L’ingresso si apre su una accogliente piazza coperta, pavimentata in legno, che mette in evidenza la geometria complessa dell’edificio, un labirinto a tre dimensioni. Cinque piani, oltre quattromila metri quadrati, dedicati in buona parte all’esposizione della Vitra Home Collection e completati dai servizi per il visitatore: reception, bar ristorante, business lounge e design shop.

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La piazza coperta su cui affacciano la reception, la business lounge e il piccolo edificio vetrina, apparentemente deformato dalla pressione dei volumi che lo sovrastano. L’intero complesso è formato dalla sommatoria di un elemento che all’esterno simula la forma archetipica della casa e, all’interno, riproduce la situazione spaziale di un loft metropolitano.

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un piano e l’altro, affacci e scorci sempre diversi. Al termine del percorso di visita discendente si torna nella zona di accoglienza, con ristorante e negozio, e nella piazza coperta pavimentata in doghe di legno. Il Vitrahaus riesce nel miracolo di combinare esigenze opposte, si afferma come un landmark che segna da lontano la presenza del campus, sviluppa un rapporto complesso e interessante con gli altri edifici d’autore e con il dolce paesaggio di morbide colline e valorizza i pezzi della collezione, proiettandoli sullo sfondo di vigneti e primaverili distese di ciliegi in fiore. “Se cammini arttraverso le varie parti dell’edificio” ci racconta Jacques Herzog, “è incredibile con quanta forza il paesaggio è presente, con una varietà di immagini e di atmosfere che non ti aspetti. Si può dire che l’edificio sia uno strumento ottico che rende visibile l’esperienza di essere in un luogo in cui si incontrano nazioni e paesaggi diversi (Germania, dove ci troviamo, Svizzera e Francia),

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Il percorso di visita scende dall’ultimo piano fino a terra, una promenade architettonica, con scorci e affacci imprevisti sugli ambienti inondati di luce. è un viaggio attraverso la memoria storica, la produzione corrente e la ricerca del design Vitra.

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La produzione Vitra, esposta in allestimenti molto curati, comprende i classici di Charles e Ray Eames, George Nelson, Isamu Noguchi, Jean Prouvé e Verner Panton e il design contemporaneo di Maarten Van Severen, Ronan & Erwan Bouroullec, Antonio Citterio, Hella Jongerius, Jasper Morrison e altri.

con la Foresta nera a nord, la pianura di Basilea a sud, e la valle del Reno e il rilievo dei Vosgi a ovest”. Vitrahaus è anche un punto di osservazione sulle altre architetture del campus, firmate da maestri contemporanei come Zaha Hadid, Tadao Ando, Alvaro Siza, Nicholas Grimshaw, con una cupola geodetica di Buckminster Fuller, una deliziosa stazione di servizio degli anni Cinquanta di Jean Prouvé e una pensilina di Jasper Morrison. Chiediamo a Rolf Fehlbaum, il patron, se Vitrahaus è il completamento del campus, e scopriamo che: “tra pochi mesi si inaugura un nuovo edificio industriale di Sanaa-Kazuyo Sejima, mentre è in fase di studio un progetto di Alejandro Aravena per un edificio dedicato alla formazione e ai workshop di studio già attivati da tempo, soprattutto in collaborazione con le scuole locali”.

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Enrico Dini, INGEGNERE TOSCANO ABITUATO FIN DA PICCOLO A RESPIRARE ARIA DI CORAGGIO E INNOVAZIONE, HA AVVERATO UN SOGNO: IL SUO sistema di costruzione D-Shape CONSENTE INFATTI DI STAMPARE case e oggetti di roccia ATTRAVERSO LA SOLIDIFICAZIONE DI SABBIA GUIDATA DA UN FILE CAD. UN INNOVATIVO PROCESSO CHE scompagina la grammatica dell’architettura E ABBATTE UN ALTRO DEI (POCHI) LIMITI IN CUI ANCORA SI TRATTIENE IL PROGETTO.

La nuova eTà DeLLa PIeTra testo di Stefano Caggiano

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Un dettaglio e una veduta generale di Radiolaria Pavillon, progetto di Andrea Morgante. Si tratta di una struttura monolitica alta 2 metri composta da 200 strati di sabbia di 10 mm di spessore, la cui forma deriva dal microrganismo monocellulare da cui prende il nome.

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Nella pagina accanto, un’altra veduta di Radiolaria Pavillon. Da anni lo sviluppo di software tridimensionali aiuta i progettisti ad allargare i propri orizzonti, restando però sempre nei limiti della costruzione in scala ridotta di prototipi. D-SHAPE colma questo vuoto nel mercato costruttivo sviluppando il primo strumento in grado di dare concretezza a complessi modelli digitali.

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ambiguità che si trova al cuore del design è la stessa che si trova nel concetto di forma, sempre in bilico tra il mondo delle idee e il mondo delle cose. Forse non pensava a questo Enrico Dini quando, 40 anni fa, si divertiva a fare castelli di sabbia sulle spiagge dell’Argentario; ma questo è quello che fa oggi in un capannone vicino a Pontedera, nelle campagne pisane: portare fino in fondo l’emancipazione della forma dalla materia, trasformando la sabbia di cui sono fatti i sogni in oggetti e case di solida roccia. Non è solo una metafora: D-Shape, la tecnologia inventata da Dini, si avvale della stessa logica della prototipazione rapida per realizzare rapidamente e in modo automatico strutture di qualsiasi forma e dimensione, da chaise longue a interi edifici, utilizzando come materiale base una sabbia calcarea dolomitica solidificata da

La morfologia geometrica di Radiolaria riflette il potenziale della mega-stampante D-Shape, capace di costruire qualsiasi geometria complessa senza l’impiego di stampi temporanei, cassaformi o anime in metallo. “Mi piace pensare”, dice l’inventore Enrico Dini, “che con la tecnologia D-SHAPE il grande maestro Gaudí avrebbe potuto realizzare il suo sogno di costruire forme mai viste e di dare vita a tutte le sue oniriche visioni senza preoccuparsi dei limiti delle tecniche costruttive dell’epoca”.

uno speciale collante inorganico ecocompatibile. La ‘stampante’ in questo caso è una struttura in alluminio di 6x6 m sollevabile fino a 12 metri di altezza, che esegue il progetto depositando il collante strato su strato su un letto di sabbia. Al termine della solidificazione, il granulare in eccesso viene rimosso, lasciando emergere la struttura come da uno scavo archeologico. Ciò che così viene alla luce, però, non è il passato, ma il futuro. I materiali utilizzati oggi in architettura (cemento armato e muratura) oltre ad essere costosi vincolano il progetto a una scarsa flessibilità: sono limiti come questi che per 150 anni hanno definito lo specifico del medium architettonico moderno. Con D-Shape nasce una nuova grammatica dell’architettura, fatta di forme concave e convesse, cave e porose, che possono supportare con la stessa facilità (leggi: con gli stessi

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D-SHAPE si presenta come una grande struttura in alluminio di dimensioni 6x6 m, sollevabile da dispositivi ascensori che si muovono lungo le quattro colonne portanti allungabili fino a 9-12 metri. La ‘testa di stampa’, pilotata da un sistema CAD-CAM, deposita il collante (un bicomponente inorganico) strato dopo strato compattando localmente il materiale granulare (sabbia o ghiaia) fino ad ottenere il pezzo finale. Al termine del processo il granulare in eccesso viene rimosso.

Sotto, la collezione Trabeculae Series di Andrea Morgante (Shiro Studio), composta da un tavolo e un complemento d’arredo a scaffalatura, ispirata alle micro-strutture ossee spugnose trabecolari. La porosità della forma, conseguita dopo mesi di studio di tomografie computerizzate di formazioni ossee spugnose, è applicata alla struttura portante degli oggetti concepiti come micro-strutture ingegneristiche piuttosto che come semplici ‘oggetti di arredo’.

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A destra e qui sotto, due render della villa di 300 metri quadri che Enrico Dini intende realizzare nella zona di Porto Rotondo, in Sardegna, su progetto dell’architetto australiano James Gardiner di FAAN Studio. D-Shape permette la massima caratterizzazione dei fabbricati, letteralmente ‘stampati’ in pietra In un pezzo unico o in macro-blocchi da assemblare sul posto. in basso, Il progetto di arredo urbano Era Glaciale dello studio Modoloco, composto da una serie di elementi modulari di grande effetto scultoreo che esaltano la specificità tecnico-poetica della progettazione resa possibile da D-Shape.

costi di realizzazione, inferiori del 30 per cento rispetto a quelli delle comuni tecniche edilizie) volumi dal segno netto o linee sinuosamente organiche. Dini – che di sé dice di non essere un creativo ma un uomo che inventa tecnologie – quattro anni fa si recò a Londra per capire cosa fare della sua invenzione, e lì incontrò l’architetto milanese Andrea Morgante, il quale gli propose un progetto fattibile solo con D-Shape, Radiolaria Pavillon, una struttura monolitica alta 2 metri composta da 200 strati di sabbia ispirata al microrganismo da cui prende il nome. Ma la storia era cominciata prima, quando Dini, per dare un messaggio forte, si rende conto che deve stampare “la più piccola delle case possibili”, e il padre – collaboratore di Corradino D’Ascanio nella progettazione dei primi elicotteri Piaggio – gli suggerisce di stampare il tempietto di S. Pietro in Montorio. Dal tempietto del Bramante a Radiolaria, spiega Dini, “è possibile leggere un preciso concetto di architettura, perché come l’opera del Bramante è stata il modello per tutta una serie di grandi cupole, tra cui S. Pietro a Roma, così Radiolaria vuole essere il modello di un nuovo modo di fare architettura”. Attualmente Dini lavora a una villa di 300 metri quadri da realizzare nella zona di Porto Rotondo, in Sardegna, su progetto dell’architetto australiano James Gardiner di FAAN Studio. Anche se per ora dovrà accontentarsi di stamparla in parti, il sogno (possibile) resta quello di

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stampare un edificio in una soluzione unica. Nel frattempo, a rappresentare le potenzialità del metodo D-Shape sono oggetti di design progettati da Morgante (Shiro Studio) e dallo studio Modoloco. Morgante ha proposto la collezione di complementi d’arredo in roccia Trabeculae Series, tavolo e mobile a scaffale (ma altri pezzi sono in arrivo) in cui la porosità applicata alla struttura è stata ricavata dallo studio di tomografie computerizzate di formazioni ossee spugnose. Modoloco ha invece pensato a Era Glaciale, una seduta per esterni modulare in cui il volume è trattato come una pasta fluida i cui i pieni si inverano nei vuoti. La ricerca di forme organiche, libere, ossee, appartiene nel profondo al DNA di D-Shape: “Ho sempre pensato che Gaudì fosse il vero antesignano di questo approccio all’architettura”. Dini guarda alle cose così, con un occhio al passato e l’altro al futuro: Bramante e Radiolaria, D’Ascanio e gli oggetti di roccia, Gaudì e la luna. La prossima avventura di D-Shape consiste infatti nella messa a punto di un sistema per stampare fabbricati sulla luna usando la terra che si trova in loco. Il progetto, pensato per far parte della missione Aurora dell’Agenzia Spaziale Europea, nel 2020 dovrebbe accompagnare l’uomo che, diretto su Marte, farà tappa sulla luna: “In questo momento siamo in fase di sperimentazione. Stamperemo una porzione di fabbricato disegnato da Foster & Partners con delle terre simulanti (terre terrestri molto simili al suolo lunare, ndr) e faremo delle prove in camera a vuoto per riprodurre l’assenza di gravità”. Così la materia, già liberata dalla forma, si libererà forse anche dal peso.

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Docente di estetica, conferenziere, saggista, critico d’arti maggiori e minori, pittore, fondadore del mac, movimento arte concreta, gillo dorfles gode di fama internazionale. In occasione di un importante compleanno, Milano gli dedica una grande mostra antologica. di Ugo La Pietra

Gillo Dorfles:

I

nell’immagine qui sopra: Gillo Dorfles durante un seminario a Vela Luka, jugoslavia, 1970 (foto di ugo la Pietra).

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n tanti anni, molti, conoscendo Gillo Dorfles (Trieste, 1910), si sono stupiti: per la sua salute di ferro (ancor’oggi grande camminatore e sciatore, e, d’estate al mare, fa ancora due bagni al giorno); per la conoscenza di tante lingue; per il suo grande ruolo di divulgatore (tanta cultura internazionale l’abbiamo appresa da lui); per la sua attività di semiologo e di saggista (Dal discorso tecnico delle arti al Kitsch, Disegno industriale e sua estetica, La moda della moda, Atti e fattoidi, Ultime tendenze nell’arte d’oggi e tanti altri titoli che hanno riempito tutte le nostre librerie) e anche per la sua vasta produzione pittorica e grafica, dal tempo del MAC, il Movimento d’Arte Concreta

(fondato a Milano nel 1948, insieme a Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet), fino alle recenti opere esposte a Palazzo Reale in occasione di Gillo Dorfles. L’avanguardia tradita,la grande mostra antologica che Milano gli dedica fino al 23 maggio (a cura di Luigi Sansone, catalogo edito da Mazzotta). Tra tutte queste espressioni eccezionali di Gillo Dorfles, ce ne sono due che non sono molto conosciute o, forse, di cui si parla meno. Fin da quando l’ho conosciuto, già nei primi anni Sessanta, e poi man mano che ho potuto frequentarlo in tanti anni, ciò che ho sempre apprezzato, e che quindi mi ha sempre legato a

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l’avanguardia tradita Gillo, è la sua grande disponibilità nei confronti degli artisti. Io, giovane pittore, all’inizio degli anni Sessanta, ricevetti la mia prima presentazione proprio da Dorfles, che coniò per le mie esperienze segniche la definizione “pittura randomica”: elementi segnici di rottura e di azzardo all’interno di una base programmata. Per generazioni di artisti, Dorfles ha saputo leggere e descrivere con saggi e monografie la loro opera; sempre disponibile e, ciò che è straordinario, non chiedendo mai nulla in cambio! Inoltre, nonostante il suo riserbo e la sua scarsa o nulla frequentazione con il ‘sistema dell’arte’ (e con la politica che spesso lo governa),

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Dorfles ha avuto un ruolo di animatore capace di determinare anche momenti importanti per la nostra storia. Basterebbe ricordare la prima mostra che segna l’apertura dell’arte verso i nuovi media Al di là della pittura, a San Benedetto del Tronto nel 1968-’69, o la gestione culturale, con Gianfranco Bettetini e Umberto Eco, della rinnovata Triennale del 1979. Molte furono le occasioni in cui Dorfles raccolse intorno a sé le migliori figure di creativi, come nella mostra sull’arte italiana al Museo di Dortmund nel 1971 o come, nel 1960, nell’isola di Korciula, nell’exJugoslavia, dove architetti, artisti, grafici e saggisti (Perilli, Scheggi, Omcicus, Porro, Cieslewicz,

in questa pagina, da sinistra e dall’alto: Lalla dorfles, Gilda Bojardi e Gillo Dorfles a Dubrovnik, 1970 (foto di ugo la pietra); fiorella minervino, emilio isgrò, gillo dorfles, gianfranco bellora, eugenio miccini e franco vaccari allo studio sant’andrea, milano, 1972 (foto enrico cattaneo), gillo dorfles con lucio fontana alla galleria l’indiano, milano, 1964. (foto di enrico cattaneo); gillo dorfles e ugo la pietra al Museo di Dortmund, 1971; gillo dorfles a lajatico (pisa), 2006; gillo dorfles con rodolfo aricò e carlo grossetti in occasione della mostra man ray all’annunciata, milano, 1973 (foto toni nicolini).

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IN questa pagina, da sinistra: due figure con appendici,1992, Acrilico e olio su tela, Collezione privata. perplessità, 2000, Acrilico e olio su tela, Collezione privata.

nella pagina accanto, dall’alto e da sinistra: Custodire l’intervallo, 1996, Acrilico su tela, 200 x 180 cm, Collezione privata. Guerriero verde azzurro, 1993, Acrilico e olio su tela, Collezione privata. due schieramenti, 2001, Acrilico e olio su tela, Collezione privata. anacoreta con inserzione femminile rilingue, 1989, Acrilico e olio su tela, Collezione privata.

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Rykwet) si frequentarono in un seminario estivo a Vela Luka. Fu un’esperienza importante, che portò a diverse espressioni di lettura e trasformazione della costa dalmata con scambi vitali tra i vari artisti: fu in quell’occasione che, con Paolo Scheggi, misi le basi della rivista IN Argomenti e immagini di design, e che conobbi Gilda Bojardi, quella che sarebbe diventata la futura segretaria della rivista. E fu proprio in quell’estate che con Gilda, Gillo e la moglie Lalla viaggiammo lungo la Jugoslavia; lui sempre avanti e noi, di trent’anni più giovani, arrancavamo per seguirlo nelle varie escursioni. Vorrei inoltre esprimere tutto il mio stupore, ammirazione, apprezzamento nei confronti di Gillo, frequentatore assiduo di tutte le espressioni artistiche: molti lo conoscono per essere presente ai vari concerti, a tutte le rappresentazioni teatrali (anche le più faticose,

come quelle di un certo teatro alternativo e d’avanguardia) e ancora non manca mai alle inaugurazioni delle mostre d’arte (anche di artisti giovani e poco conosciuti) e alle mostre di design e architettura, ma ciò che mi impressiona di più è come ancor’oggi riesca a visitare i faticosissimi Saloni del mobile e le fiere d’arte. Una disponibilità, una capacità e volontà di guardare, capire, aggiornarsi in tante discipline, che spesso tra di loro si ignorano e vivono in mondi separati. Gillo riesce ad attraversarle e a lasciare il segno della sua presenza! Non è un ‘alieno’, è un essere umano che rappresenta un esempio importante e prezioso per la nostra città. In qualsiasi parte del mondo, il suo nome porta con sé valori inestimabili fatti di cultura, di conoscenza e di impegno morale, ma soprattutto rappresenta l’eccezione di uno studioso che sa

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Giardino, 1988, Tappeto di lana su ordito di cotone, trama di canapa 140 x 200 cm, Tappeto annodato a mano, realizzato da Elio Palmisano- Arazzi e Tappeti d’autore, da un bozzetto del 1940 (nell’immagine sotto).

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essere attento nei confronti dell’evoluzione delle varie discipline artistiche: dal teatro all’architettura, dalla moda all’arte, dal design alla musica in una società dove, nel migliore dei casi, troviamo buoni studiosi e critici specializzati nelle varie discipline. Il suo pensiero è quindi il risultato di questa osservazione critica di fatti concreti all’interno delle diverse discipline, fatti di cui spesso se ne intravedevano solo i primi sintomi. Dorfles ne sa leggere gli aspetti secondari e periferici di quei segni che, proprio perché non ancora nella logica del sistema, ne anticipano i mutamenti. Forse, il segreto di questo suo modo di

impegnarsi nella critica e nella saggistica sta proprio nel frequentare la ‘cantina’, dove vengono rappresentati spettacoli teatrali sperimentali, le gallerie non ancora affermate nel mercato, e soprattutto nel suo continuo viaggiare. Oggi Gillo Dorfles può rappresentare cento anni di cultura perché l’ha saputa frequentare dal di dentro, con una apertura e disponibilità decisamente rare. Tutti lo amiamo e ringraziamo, e tutti siamo andati a vedere la sua grande mostra antologica, orgogliosi per ciò che rappresenta. Una mostra che svela un Dorfles artista, pittore tra i pittori, capace di esprimere i suoi stati d’animo, capace di rappresentare i suoi lati più

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da sinistra a destra e dall’alto in basso: Senza titolo, 2009, Spilla in argento 925, fusione a cera persa e interventi manuali, 8,5 x 7,5 cm, Realizzata per San Lorenzo, Milano; Senza titolo, 2009, Spilla in argento 925, fusione a cera persa e interventi manuali, 8,5 x 5,7 cm. Realizzata per San Lorenzo, Milano; Spilla, 2006 Argento dorato (fusione nell’osso di seppia), 4,5 x 5,5 cm, Collezione dell’artista. ceramiche: senza titolo, 2000, senza titolo 2002, piatti in ceramica dipinti; senza titolo, 2004, terracotta dipinta; senza titolo, 1947, terracotta dipinta.

intimi e la sua voglia di creare in piena libertà. I suoi disegni sono soprattutto atti liberatori di fantasia e dimostrano il piacere che egli trova, attraverso il segno e l’accostamento dei colori, quasi sempre luminosi ed eccitanti. C’è molto gioco e ironia nelle sue opere, forse un modo per mantenere una certa distanza da tutte le impegnate avanguardie che si sono succedute soprattutto nel secolo scorso. Lui stesso ci dice che le sue opere non sono figurative e nello stesso tempo però ci parlano di personaggi di cui Dorfles sembra esplorare le anomalie psichiche. C’è chi cerca di vedere nelle opere di Dorfles riferimenti all’organicità di Arp, ma poi la sua vena

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ironica e sarcastica ci porta altrove, in una continua metamorfosi di immagini. Credo che la grande mostra a Palazzo Reale sia soprattutto la rara occasione in cui Milano riesca a esprimere il suo ringraziamento e il suo orgoglio per tutto ciò che Dorfles ha saputo dare all’evoluzione culturale della città. Milano non è mai stata generosa con i grandi personaggi protagonisti della sua vita culturale, e così, in questo specifico caso, con questa specifica mostra, Gillo Dorfles. L’avanguardia tradita, siamo tutti felici di potere esprimere, anche se tardivamente, la nostra ammirazione e la nostra riconoscenza per Gillo Dorfles.

il catalogo della mostra gillo dorfles. l’avanguardia tradita, a palazzo reale di milano sino al 23 maggio, è edito da mazzotta.

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La mostra parigina al Passage de Retz racconta 25 anni di design francese e internazionale e rivela l’uomo: Pierre Staudenmeyer, fine intellettuale, collezionista d’arte, designer di gioielli e uno dei primi a proporre il design artistico nelle sue gallerie Neotu e Mouvements Moderns.

Les années Staudenmeyer di Cristina Morozzi

“I

l tempo invecchia in fretta”, titola Antonio Tabacchi il suo ultimo libro di racconti (Feltrinelli 2009) per rammentarci che stiamo perdendo la memoria. La mostra Les années Staudenmeyer (3 dicembre 2009 - 15 gennaio 2010) allestita al Passage de Retz da Christian Gavoille, accompagnata da un corposo catalogo curato da Chloé Braunstein-Kriegel ed edito da Norma, è un cammino a ritroso in 25 anni di storia del design artistico, soprattutto francese. Pierre Staudenmeyer, morto nel 2007 a 54 anni, personaggio ambiguo e misterioso, amante degli anelli, che disegnava, e dei tatuaggi, teorico e mercante, come amava definirsi, è stato

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uno dei primi a proporre nella sua galleria Neotu a Parigi, in rue de Renard, accanto al Beaubourg, le edizioni limitate. Erano gli inizi degli anni ’80, periodo in cui il design industriale era ancora ritenuto portatore di valori etici e le edizioni limitate erano ancora guardate con sospetto, presentate in sordina, quasi clandestinamente. Oggi occupano il palcoscenico, protagoniste nelle fiere e nelle gallerie di design artistico, che si moltiplicano in giro per il mondo. Sono diventate mediatiche e altri sono i galleristi di riferimento ma, forse, non tutti ricordano che Pierre fu uno dei primi a presentare il design come terreno delle ambiguità e come luogo delle emozioni.

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UNA SEZIONE DELLA MOSTRA LES ANNテ右S STAUDENMEYER, ALLESTITA LO SCORSO GENNAIO A PARIGI AL PASSAGE DE RETZ, CHE ESPONEVA LE SEDIE DI VARI AUTORI PRODOTTE DALLA GALLERIA NEOTU NEL CORSO DEGLI ANNI. NELLA PAGINA ACCANTO, UN RITRATTO DI PIERRE STAUDENMEYER. IN ALTO, CHAISE CHIAVARINA DI OLIVIER VEDINE CON STRUTTURA IN LEGNO E SEDUTA IN PLASTICA, 1997.

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In alto, da sinistra: Rivisitazione di un trono di Pucci De Rossi, 1993; Letto ‘Il etait une fois’ di Kristian Gavoille, 1992; Tavolo basso in legno con finitura sfumata di Vincent Beaurin, 1995; Armadio Satragno di Martin Szekely, 1994. Sotto: Neverland light di Nanda Vigo, 2005, Mouvments Moderns.

La sua galleria era un territorio di ricerca, il regno di tutto il possibile prima della probabile produzione. Neotu è stata una piattaforma di scoperte. Da lì sono passati quasi tutti i designer francesi, oggi famosi, richiesti dalle aziende e dai galleristi, dai fratelli Bouroullec a Kristian Gavoille, da Garouste e Bonetti a Christian Biecher, da Christophe Pillet a Matali Crasset, ma anche Constantin Boym, Dan Friedman, Marco Zanuso Junior, Jasper Morrison persino Shao Fan, il designer cinese, oggi star della galleria Contrast di Shangai e Londra. Formazione commerciale, Pierre arriva al design dai percorsi incrociati dell’arte (di cui era collezionista) e della psicanalisi. Fine teorico, cultura enciclopedica, si è sempre considerato prima di tutto un mercante. “Ho dei pezzi”, confessava, “che tengo in casa giusto il tempo per imparare un poco a vivere. Quando mi pare d’avere appreso, li metto in vendita”. Le sue scelte obbedivano sia ai principi teorici, sia al suo gusto personale, sia alle opportunità commerciali, anche se non ha fatto in tempo ad

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assistere all’escalation delle quotazioni. È stato uno dei primi a riavvicinare il design all’artigianato, alle tecniche dimenticate, ai materiali preziosi, al lusso. Ha sempre operato sul filo dell’ambiguità tra oggetto d’arte e di design, mettendo assieme una collezione eclettica. Precursore nell’interesse per la ceramica (da Ettore Sottsass ai ceramisti anni ’50 che fece riscoprire), ha costruito una delle collezioni più importanti in Europa. “La ceramica”, soleva dire, “regala l’emozione di un oggetto che non è né artificiale, né industriale”. Utilizzava la galleria e la sua casa come scenografie per pezzi d’eccezione. Giunse, persino, a trasformare Neotu in una discoteca in occasione della presentazione degli arredi della discoteca torinese Il Grifone (1968), appartenenti al gallerista torinese Fulvio Ferrari. Già il nome, Neotu, della galleria creata nel 1984 e chiusa nel 2001, è un programma: Neo tout (nuovo tutto), un inventario di nuovi talenti ,di pezzi unici, di serie limitate, di linguaggi inediti, di scelte inusuali basate sulla forma, sulla funzione, ma soprattutto sul “senso”. Il suo obiettivo era di

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In alto dA sinistra: Cabinet Dream di Dan Friedman, 1987; Tavolo Satomi San di Borek Sipek, 1980; Sedia King di Shao Fan, 1995; Vaso in vetro L’amour di William Sawaya, 1991. Sotto, Vasi in vetro di Christian Ghion, 1999.

fare piacere, ma in modo informativo. Paradossale, era anche il primo e più feroce critico del sistema che aveva contribuito a creare. Il denso catalogo contiene scritti di Pierre, testi omaggio dei designer che sono passati dalla sua galleria, tra i quali uno di Andrea Branzi, che da Neotu espose più volte, che sottolinea il carattere avanguardista della galleria: “Le gallerie d’arte e di design”, scrive, “nascono per mostrare qualcosa che ancora non esiste e che ancora deve nascere e di cui incoraggiano l’apparizione. Grazie a Pierre è apparsa in Francia e non solo una generazione non rivoluzionaria, ma riformista che lavorava alla produzione di trasformazioni basate sul rifiuto della bruttezza, da eliminare al più presto, almeno dal quotidiano”. Alla fine del volume riccamente illustrato, c’è persino un profetico abbecedario del design in 24 voci, dall’a di amore alla z di Zanzibar, che “assomiglia al design, attrattivo, ma spesso impraticabile”. Alla m compare la voce Milano: “è diventata il punto centrale del progetto”, afferma Pierre.“È

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la città che affascina i giovani designer. Il Salone del mobile è il centro nevralgico, è il luogo d’emergenza del nuovo design (Satellite). L’osmosi tra in e off fa la gloria di Milano. Attenzione, però, Milano deve rigenerarsi dall’interno, altrimenti rischia il declino creativo”. Nel 2001 Neotu chiude e nel 2002 Pierre riapre in rue Jan Jacques Rosseau Mouvmentes Moderns per continuare le sue esplorazioni nel passato (mostra retrospettiva di Nanda Vigo) e nel futuro. Rilevata da Sophie Mainier-Jullerot e Chloé Braunstein Kriegel, legata da complicità intellettuale a Pierre, Mouvments Moderns prosegue nel solco tracciato dal suo fondatore.

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senza orizzonti

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i è capitato, nell’ultimo anno, di visitare alcune delle principali università dove si insegna progetto: la A.A. School of Architecture di Londra, la Harvard University di Cambridge (Massachusetts), il Berlage Institut di Rotterdam, la Columbia University di New York. Ne ho tratto una impressione inquietante: ovunque si lavora esclusivamente sul tema dell’ambientalismo, sull’architettura ecosostenibile, sul risparmio energetico. Sembra che queste tematiche costituiscano oggi una sorta di piattaforma globalizzata, un nuovo International style del pensiero progettuale.

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Questa ricerca si sviluppa sempre a partire dai nuovi materiali, riciclicati o eco-compatibili, che vanno a sostituire i vecchi mattoni e le antiche (e dispersive) tecnologie costruttive; questa sostituzione puntuale ha come risultato una sorta di ‘clone’ dell’architettura precedente, salvo il fatto che l’impatto ambientale è (forse) migliore e il consumo di energia minore. Nessuna vera innovazione tipologica, nessun nuovo modello di urbanizzazione: ancora città fatte di scatole architettoniche. L’unica novità sembra costituita da inquietanti fenomeni di co-housing, dove piccoli gruppi di cittadini si consorziano

di Andrea Branzi

per risparmiare sull’energia, sull’acqua, sugli elettrodomestici. Il co-housing, nato storicamente per favorire la socializzazione, sembra oggi alimentare un atteggiamento sostanzialmente a-sociale, difensivo, che tende a dividere in piccoli nuclei ‘politicamente corretti’ la società globalizzata. Sembra che il mondo del progetto abbia trovato nell’ambientalismo un teorema riduttivo e un territorio circoscritto su cui operare: la crisi ambientale sembra avere prodotto non un rinnovamento culturale, ma, al contrario, una tattica ambulatoriale, cioè del ‘caso dopo caso’, senza orizzonti più vasti che non siano quelli

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dai grandi atenei esteri, un’inquietante impressione: il nuovo international style è incentrato su ambientalismo, architettura eco–sostenibile, risparmio energetico, co-housing. non si rischierà di salvare la natura ma d’impoverire l’ambiente umano?

della conservazione dello status quo e di una architettura ricostruita in formula light. Questo atteggiamento porta con sé un latente neocolonialismo culturale e economico, perché di fatto solo i Paesi ricchi possono assumersi l’onere di queste ricerche, per gestire poi la formula di sviluppo di quelli meno ricchi. Del resto, non possiamo lasciare andare in malora il mondo! Ma ci possiamo fidare di questi ambientalisti che rischiano di salvare la natura e impoverire l’ambiente umano, riducendo al solo parametro energetico la ricchezza delle relazioni antropologiche che attraversano lo

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spazio umano? Sembra che il futuro si limiti a due opzioni: o un disastro apocalittico, o un abitare light, che si colloca tra Ikea e un ospedale, asettico, apparentemente democratico ma, in sostanza, nemico della creatività e della contaminazione. Questa sorta di panacea consolatoria che ci propone un futuro fiorito ma che conferma l’antica idea di un governo della natura da parte dell’uomo, dove la felicità sembra coincidere con la diffusione dei prati, prospetta una pacificazione mondiale al ribasso, governata da un girotondismo che ignora i livelli quotidiani e politici della vita, per proporre un ordine mondiale al profumo di lavanda.

Questa omologazione sembra paradossalmente il risultato della logica dei prodotti all’Ogm: meno saporiti, tutti uguali, ma privi di capacità riproduttive.

karen Knorr, the green bedroom e the music room, dalla serie Fables, 2004-2007, vale a dire 18 grandi opere fotografiche (e un video), che costituisco la mostra personale karen knorr. Favole, dal 15 maggio al 21 settembre al Museo di Fotografia Contemporanea di cinisello balsamo (mi).

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Indesign

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è il fil rouge che lega nove fotografi, veterani e non, della storia di Interni, nell’interpretare i percorsi progettuali di nove designer combinati per affinità. e dare così vita a nuovi pensieri.

Le scaToLe DeL PensIeRo di Nadia Lionello

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nterpretazioni fotografiche sul tema del pensiero creativo di nove designer. L’immagine, elemento di comunicazione visiva del linguaggio umano diventa integrazione insostituibile della parola, traduce in sintesi un pensiero, in questo caso l’idea progettuale che dà vita alle cose, agli oggetti. La straordinarietà di nove linguaggi fotografici ci racconta istanti irripetibili, bloccati in un’ immagine, raffigurazione della vita fatta di secondi, colori, luci, sentimenti… pensieri, capaci di catturare la vista, il cuore, il cervello, la simpatia, l’interesse. Quando sembra che tutto già sia stato fatto, ecco che dal sentimento, dalla mente, dall’esperienza, dalla tecnica nascono nuove idee, nuove visioni di vita, nuovi linguaggi da rappresentare, a volte, al di là del didascalico.

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Simone Barberis interpreta Luca Nichetto con i progetti: Robo, sedia assemblabile in multistrato e feltro riciclati, per Offecct (novita’ 2010) e Otto, collezione di vasi in tre combinazioni di forma e colore, per Venini (2009). “Nel ritrarre Luca e l’essenza dei suoi progetti, la sfida è stata di figurare l’istante in cui l’idea creativa si manifesta nitida nella metaforica scatola del pensiero, sfondandola con forza esplosiva”.

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Giacomo Giannini interpreta Alessandra Baldereschi con i progetti: In senso orario, dalla Collezione Bosco seduta, per Dilmos e Moss Gallery NY (2004/2005); Collezione SottoVetro vasi in vetro e argento, per De Vecchi (2008): Valesia, collezione Le piantine, per Coin Casa Design (2007); Lord, vassoio in argento con maniglie, per Skitsch (2010); Cactusia, collezione Le piantine per Coin Casa Design (2007); autunno, credenza collezione Quattro stagioni, per Skitsch (2009); Helix cavatappi in argento, per de VECCHI (2006); Soufflè, poltrona, per Coin Casa Design (2007). “... è come se guardassi dentro il suo “pensiero”, processo mentale dove avviene la manipolazione di simboli, avvenimenti o idee che sono nella memoria; le polaroid dei prodotti di Alessandra affiorano dalla rappresentazione non casuale di “oggetti simbolo” in miniatura...”.

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Carlo Lavatori interpreta Philippe Bestenheider con il progetto Titti, sedia in legno e cuoio traforato, per Frag (novità 2010). “ Una ‘scatola’ uterina o meglio un utero ‘escatologico’. Le visioni di un designer svizzero fecondate in un cortile milanese, partoriscono progetti... Forme di schienali che ricordano androni di portinerie condominiali... decori di trame di pelle ricamate dal laser sposati a pavimenti in usurato marmetto meneghino...”.

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Efrem Raimondi interpreta Giovanni Levanti con i progetti: in alto, da sinistra, Cameo canestro (2009), O-By-O cuscino per schienale (2000) e Conetto dondolo per bambini (2006); al centro, Rilassata poltroncina (2007) Gobbalunga seduta relax (2007) e Sneaker imbottito per streching (2006); sotto, No-code chaise longue (2002) e Candore dondolo per adulti (2006), per Campeggi. “Leggero e ludico... Come un bambino intento nella sua costruzione; come un bambino, avventato nell’affrontare i volumi, incollato com’è alla sua percezione del mondo, bidimensionale e rigorosa. Dove tutto ha un posto”.

Maurizio marcato interpreta monica graffeo (a sinistra) con i progetti: LAPIGRA, SEDIA IN TONDINO E SEDUTA IMBOTTITA CON PALLINE DI POLISTIROLO, PER ZILIO (NOVITA’ 2010); steps, sedia in legno e seduta in listelli di feltro, per Lago (2008) CON FIAMMELLA, PICCOLE LAMPADE IN GEL POLIURETANICO e LED, PER GELLI (NOVITA’ 2010) E, SOSPESA, RAYS, SEDIA CON GAMBE IN FUSIONE DI ALLUMINIO E SEDUTA in poliuretano autopellante, per KREATY (2009). “Monica ama il quotidiano, la vita semplice, le forme morbide, gli oggetti sono come compagni di viaggio che amano la casa. In questa icona-stanza, contenitore che vive ma che non sposa i suoi sogni, ho voluto che disegnasse con grandi cerchi di luce la sua scatola ideale, morbida, fatta di luna. Avrei voluto ci fossero stati anche i suoi figli, in maniera fiabesca, per sottolineare di più la sua personalità, sensibilità e fantasia ricchissima,che appartiene prevalentemente al mondo femminile”.

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LiveStyle.

Una visione esclusiva e privilegiata sull’universo dell’abitare. Una rivista dedicata al piacere e al gusto di vivere la casa, al design e alle tendenze piÚ attuali. Pagine che raccontano atmosfere quotidiane di stile, in cui la casa diventa protagonista di storie di vita contemporanea.

Scopri la nuova Grazia Casa. In edicola.

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Il piacere di viverci

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LE SCATOLE DEL PENSIERO / 83

Paolo Veclani interpreta Oki Sato, fondatore del gruppo Nendo, con i progetti: Cord-chair, sedia in acero e metallo, per Maruni (2009); Corona, mappamondo in metallo e carta, per Watanabe Kyogu; Blown-fabric, lampade prototipo per la mostra Tokio Fiber Senseware (Triennale Milano 2009); Cubo, portariviste in schiuma poliuretanica verniciata, per Arketipo (novità 2010). “la scatola del pensiero É un luogo in cui il creativo istintivamente si rifugia, materializzando l’ essenzialità di milioni di emozioni, stimoli e visioni che fluttuano senza tempo nel suo pensiero. Non ho voluto chiudere questa scatola, perché essa non ha confini spazio temporali. Il lavoro dei Nendo trasmette essenzialità, perfezione, leggerezza, sintetizzando il flusso emozionale che si libra nella grande scatola del pensiero”.

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Gionata Xerra interpreta Philippe Nigro con i progetti: in senso orario, disegno di T.U., basamento universale in lamiera per piani tavolo, per Ligne Roset (2010); maquette della sedia Twin, in lamiera di alluminio e rovere (prototipo VIA 2009); foto di Market, cestino in marmo di Carrara, autoprodotta in serie limitata (2008); maquette della sedia in cartone Build Up per Skitsch (2009); Confluente, divano rivestito in tessuto di lana, cotone o pelle (2009) e schizzo della poltrona Flax (novità 2010) per Ligne Roset (2010). “La valigia delle idee. Le idee abitano nell’aria. Nel tempo. Philippe le raccoglie, per lasciarle poi appese a fili di memoria. A volte, molto tempo dopo, diventano progetto. Fino a quel momento però riposano in una grande valigia. Grande com’ erano grandi le valige dei nonni quando noi eravamo bambini, così piccoli da poterci nascondere dentro. Con Philippe, una di quelle valige l’abbiamo aperta ancora: per scoprire che, in realtà, le idee, i sogni, sono sempre, anche adesso che siamo cresciuti, più grandi di noi”.

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LE SCATOLE DEL PENSIERO / 85

Miro Zagnoli interpreta Francisco Gomez Paz con i progetti: Hope, lampada con sottili lenti di Fresnel che deviano i raggi luminosi aumentandone l’intensità, con Paolo Rizzato, per luceplan(2009), E Solar Bottle, BOTTIGLIA in PETg e trasparente e metallizzato ideato per depurare acqua contaminata attraverso il passaggio dei raggi UV-a, con Alberto meda, autoproduzione (2007). “Il primo contatto con la seduzione di un oggetto, dopo il suo acquisto, avviene con la scatola che lo contiene la quale, come un’abito sensuale, ci lusinga”.

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VOYAGER UN’ASTRONAVE VIAGGIA OGGI INCONTRO AL futuro. Materiali SOFISTICATI, forme SINUOSE E colori NEUTRI RACCONTANO MONDI INCONTAMINATI ED EMOZIONANTI. ACCIAIO INOX, ALLUMINIO riciclabile, POLIPROPILENE E LUCI A led CARATTERIZZANO GLI ARREDI CHE “FLUTTUANO” DAVANTI A scenari naturalistici SEMPRE NUOVI. foto di Gionata Xerra di Ravaioli Silenzi Studio foto ritocco Danilo Pasquali

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PROJECT

INterNIews INternational / 87

Le PorTe DeLLa PercezIone Poliedrici, innovativi, ‘impegnati’. I giapponesi Nendo curano il progetto di interni di una nuova clinica per la salute mentale ad Akasaka.

Se quella di cambiare il mondo può apparire impresa troppo ardua nel breve periodo, che almeno si modifichi la percezione (visiva, spaziale) che abbiamo di esso. Forse è quello che hanno pensato i designer dello studio Nendo quando sono stati chiamati a realizzare il progetto di interni per una nuova clinica per la salute mentale con sede ad Akasaka, Tokyo. Lontana dall’immagine stereotipata della clinica scandita da una successione di spazi neutri, quella di Akasaka offre ai propri pazienti un’esperienza ‘altra’: un tentativo congiunto, clinico da un lato e progettuale dall’altro,

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per fornire ai pazienti prospettive diverse con cui affrontare la realtà quotidiana. Per accedere ai diversi ambienti, per esempio, non si ricorre alle classiche porte (pur presenti, ma defunzionalizzate): sono alcune pareti mobili, dall’aspetto del tutto comune, ad aprirsi e a consentire l’accesso ai diversi ambienti. L’ingresso alle sale di consultazione è permesso da una serie di librerie scorrevoli, mentre la porta collocata alla fine del corridoio si apre su una finestra e l’insieme delle luci presenti nell’andito è collegato all’apertura e alla chiusura delle porte. Offrire prospettive inedite, si diceva,

per permettere ai pazienti (ma anche ai membri dello staff), di non restare intrappolati negli schemi preesistenti e consolidati. Un tentativo generoso quello dei Nendo, che ha il merito di riconsegnare al mondo del progetto un obiettivo fondamentale: quello di intervenire sulla realtà per renderla sì migliore, ma anche diversa, inedita, spiazzante. (Andrea Pirruccio)

in alto, un ambiente della clinica mentale realizzata ad akasaka, tokyo, su progetto di interior design a cura dello studio nendo. per accedere alle stanze non è previsto l’utilizzo delle porte: sono le pareti ad aprirsi per mettere in comunicazione i diversi ambienti. le librerie scorrevoli che permettono l’ingresso alle sale di consultazione.

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FreeFlow, Sistema modulare componibile con elementi lineari e curvi, pensato per grandi spazi, anche contract. seduta e schienale sono combinabili anche per la variante bi-facciale. gambe in alluminio. Di gordon guillaumier per moroso. Oyster e Oyster II , tavolini alto e basso con base e piano in acciaio inox lucidato, spessore 2 mm. di Marco Zanuso Jr per Driade. Bamboo, lampade da terra con Asta allungabile (da 265 a 310 cm) in acciaio e diffusore in PMMA. di Roberto Giacomucci per Ultraluce.

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DESIGN

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1. Triciclo in metallo, prodotto da Wisa-Gloria-Wierke AG, dal 1970. 2. Pattini da ghiaccio, parte in metallo, modello Test, prodotta da Schraner, montati su stivaletti prodotti da Oco. 3. Ferro da stiro elettrico, in legno e metallo, produzione Jura. 4. Slittino di legno, prodotto da Davos. 5. Asse per lavare, in legno e metallo, prodotto da Herkules con sapone di Marsiglia prodotto da Migros. 6. Coltellino multifunzionale tascabile, in metallo e corno, produzione Victoria. foto di di Franco Mattei, Claro.

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raccolti da Riccardo Blumer e messi in vetrina, fino al 30 aprile, presso le sedi della banca BSI, Ottanta oggetti realizzati con umana perfezione.

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MarcHIaTI SvIzzera Progetto anonimo, super-normal, no-name, nuova semplicità, stile Muji, stile ferramenta. O, anche, stile Svizzera, cioè quel Paese di cui si riconoscono molti prodotti e pochi designer. Lo si chiami come si vuole, per questo tipo di oggetto è un momento molto favorevole e, quindi, in prospettiva drammatico. In altre parole: piacciono perché sono rari, quasi in estinzione. La sedicente crisi ha fatto venire voglia di ricca austerità, di benpensante sobrietà o, più semplicemente, di vivere un po’ meglio con meno cose e ancora meno ‘applicazioni’. Viene voglia di oggetti normali e belli, che magari facciano una cosa sola e per giunta bene, che costino poco e durino tanto. Beni che siano tali perché esprimono un talento, un ambiente geografico e umano. Oggetti silenti, che, al posto della firma, abbiano un’aura. Il problema è che questi beni appartengono in buona parte al passato; quelli di oggi sembrano essere il loro contrario. Grazie quindi a Riccardo Blumer, architetto e designer nato a Bergamo, con studio vicino a Varese, che apre la sua biografia con le parole “cittadino

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svizzero”. Con l’aiuto della BSI, Banca della Svizzera Italiana, la sua passione per oggetti fabbricati, marchiati o brevettati in Svizzera, in prevalenza tra il 1930 e il 1970, è diventata un’esposizione e un libro. Gli oggetti raccontano di una cultura del vivere quotidiano svizzero, impostata su sentimenti di durata, solidità ed efficienza, che si è perpetuata in epoca moderna fino alla comparsa della produzione ‘globalizzata’. Scrive Blumer: “Ferri da stiro, pentole, bilance, macchine da cucire e fornelli per bambini, temperamatite e penne, scarponi e pattini da ghiaccio, serrature e chiavi, contenitori da ufficio e scatole di metallo in genere, slitte di legno, sci e bastoni da passeggio, sono giunti al capolinea della cessata produzione e commercializzazione. Negozi di coltelleria o ferramenta in genere e piccoli produttori, che non hanno superato la boa epocale, scompaiono con la scomparsa delle persone che li mantenevano vivi. Elementi che fino a un ventennio fa erano ritrovabili sugli scaffali di negozi locali, sono oggi introvabili nelle grandi catene di

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distribuzione che li stanno sostituendo.” Riccardo Blumer dice che ha raccolto questi oggetti ‘umanissimi’ non per nostalgia, ma per determinare la conoscenza diretta di una formazione culturale che storicamente possediamo e che ci qualifica. A noi però viene un po’ di nostalgia, perché non vi è dubbio che in Svizzera – come in India, in Nigeria o in Marocco – spiaccia vedere abilità

artigiane e industriali svanire nel nulla della banalizzazione. Ci consoliamo pensando che la generazione ‘glo-cal’, con radici in tre continenti, cresciuta fra campus , duty free e shopping mall, soffrirà di meno e potrà sempre scovare su e-bay oggetti di un mondo antico e profondo, di una “normalità prossima al mito”, come direbbe Carl Gustav Jung, cittadino svizzero. (Virginio Briatore)

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Flow, sedia con base in metallo vernicito opaco o lucido e seduta con imbottitura in poliuretano e rivestimento trapuntato, in tessuto o pelle. di Jean Marie Massaud per Mdf. Zoe, sedia con base in acciaio cromato, schienale in cuoio con taglio brevettato e seduta imbottita in poliuretano rigido rivestita in cuoio design. di Franco Poli per Matteo Grassi. Air, tavolo in Cristalplant bianco opaco, con piano unico (cm 260x73) e gambe a sbalzo. di Carlo Colombo per Poliform. sopra il tavolo, Flower tube, Vaso cilindrico asimmetrico in acciaio inossidabile lucido. di MartĂ­ GuixĂŠ per Alessi.

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Pistillo, Lampada A sospensione con tubo in policarbonato e cavi in acciaio. Disponibile in bianco, rosso, blu, e verde. di Emiliana Martinelli per Martinelli LUCE. POUF-Pot, seduta in polipropilene realizzato in rotazionale nei Colori bianco, nero, arancio, verde e grigio. di Mark Naden per Frighetto by estel partners. Looper, Poltroncinai con Base fissa o girevole in acciaio cromato e seduta Monoscocca stampata in poliuretano verniciata con Cuscino rivestito in pelle o tessuto sfoderabili. di Harry & Camilla per Living Divani.

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WA, Lampada Terra con base in ferro, struttura in acciaioe astina in rame nichelati, lente in cristallo, luce a led. di Enzo catellani per Catellani & Smith. Loop, Poltrona con Struttura in metallo con imbottitura in poliuretano rivestita interamente in pelle bicolore, con cerniera. di Ilaria Marelli per Axil. Cleo, Lampada da terra in alluminio con finitura a specchio o verniciata argento. di Andrea Zanini Azdesign per Martinelli Luce.

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Maze, Divano componibile per esterno, con Struttura in acciaio inox, imbottitura dry-feel antiumiditĂ , Rivestimento in polipropilene. luci a led per schienale e bracciolo di Matteo Nunziati per Coro. Moon, tappeto in lana annodato a mano, diametro 200 cm, disponibile anche in seta o misto lana e seta, in qualsiasi colore su richiesta. di Peter Rankin e realizzato in Nepal per Nodus. Lampade da parete della serie Quadra small silver, in policarbonato argentato e montate in serie. di Francesco Paretti per Slamp.

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Atlas, Panca In polietilene stampato in rotazionale. nei colori verde, rosso, arancio, lavanda, bianco latte e grigio o laccata. di Giorgio Biscaro per Slide. Masters, Sedia in policarbonato, Disponibile nei colori pieni bianco, rosso e nero. di Philippe Starck con Eugeni Quitllet per Kartell. 100% Al , Tavolo con cavalletto e piano in alluminio. di Ross Lovegrove per Danese. sopra il tavolo, Communicator balloon, ciotola in acciaio inox con supporti removibili per messaggi in PMMA. di Martí Guixé per Alessi. Miss you, Sedia In policarbonato con seduta trasparente e frame colorato nero, bianco, fumè, ambra, viola, o seduta fumè con frame nero oppure interamente trasparente. di Marco Piva per Pedrali. Aplomb, Lampada a sospensione in cemento Grigio oppure Bianco o Marrone. di Lucidi & Pevere per Foscarini. Alodia, sgabello, Alto o basso con base in tubolare metallico e seduta in lamiera di acciaio, tagliata al laser, verniciato opaco nei colori bianco, antracite, senape, verde, blu chiaro e blu avio. di Todd Bracher per Cappellini. Target, libreria in fibra di legno con moduli di appoggio formati da piccole croci. di Nendo per Arketipo.

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DEDICATO AI giovani CHE IL futuro SE LO DEVONO CONQUISTARE. SCEGLIENDO SOLUZIONI alternative E DI rottura. IN UNO SPAZIO OFF, mix match TRA FERRO E FELTRO, RESINA E TESSUTO. E IL TOCCO ONIRICO DELL’oggetto feticcio .

Neo GrunGe foto di Henry Thoreau a cura di Patrizia Catalano

POLTRONA SHADOW, IN POLIURETANO RIVESTITA IN COTONE FUCSIA, DI GAETANO PESCE, PER MERITALIA. DIFFUSORI GRANDE FORMATO S-1EX, DI PIONEER. TAPPETO COLLEZIONE CARPET RELOADED, DI GOLRAN. DIVANO DOUBLE UP, CON SCHIENALE CHE SI CHIUDE SULLA SEDUTA PER TRASFORMARSI IN PANCA, DI STURM UND PLASTIC. POUF IN TESSUTO LUCIDO OPACO, COLLEZIONE MISSONI HOME. PELUCHE IPPOPOTAMO, DI TRUDI.

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goodluck under the umbrella, dell’artista newyorkese signe baumane, courtesy aspesi. portaombrelli in resina, di gaetano pesce, per fishdesign. sedia de la varr pavillon, di barberosgerby, per established & sons. Panca color con base in metallo e seduta in silicone, di alessandro ciffo, per dilmos. Casco briko. Roller, di rollerblade.

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gallo kekazzĂŠ, di omaR ronda, per casamania. pouf sweet 40, in maglia di cotone, di paola navone, per gervasoni. tavolino con base in metallo e piano con fiori sagomati, di missoni home. divano patchwork dello studio bokja, per rossana orlandi. chitarra elettrica, di prina.lampada da terra tank di alexander taylor, in metallo verde, per established & sons. tavole da surf, di ripcurl.

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tavolo basso in ferro, di piero lissoni, per cassina. pinguino peluche di trudi. tappeto block, di diego grandi, per skitsch. bicicletta freewheeling, FWR hunters hill. caschi, di briko. lampada toio di achille castiglioni, per flos. poltrona a disco in resina con struttura in acciaio, di imperfetto lab, da entrata libera. occhio in feltro di gaia clerici. pouf extra large in lana lavorata a maglia, di Rossana orlandi.

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pouf tavolini, collezione gli amici, di meritalia. vasi nativo collection, in silicone e fibra, dei fratelli campana per cORSI. poltrona marumaru, di kazujo sejima, per driade. pannello ramoc, design studio salvati, per abet laminati. divanoletto anfibio, in rivestimento jeans, di giovannetti. tappeto in lana nilufar. skateboard di rollerblade. lampada diesel FOScarini.

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poltrona nimrod, in polietilene bianco e panno fucsia, di marc newson per magis. radiatore vu, di massimo iosa ghini, per antrax. tavolo con piano in resina di gaetano pesce e tappeto maculato, di nilufar. sedia con struttura in metallo e seduta in resina, di alberto landra, per Entrata libera. feltri, poltrona in feltro rosso e cotone trapuntato viola, di gaetano pesce, per cassina.

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Parlare con Fabio Novembre è come navigare su un sito pieno di link. Il suo dire è un continuo rimando ad altri saperi. Apre finestre su tutti i mondi possibili: arte, cinema, musica, letteratura, teatro, sport... A proposito del suo ultimo progetto, la sedia Nemo disegnata per Driade, cita il saggio di Roland Barthes sulla metafora dell’occhio. di Cristina Morozzi

La luce degli occhi

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on racconta i suoi progetti ma le idee che li hanno nutriti. Al posto delle foto e dei rendering mostra Google Earth. Parte sempre dalla carta geografica del mondo o da un cielo di stelle per descrivere il suo modo di fare design. È in partenza per Buenos Aires. Va a riprendere le sue donne, Candela, Verde e Celeste, che hanno svernato in Argentina. Ha già pronto il libro da leggere in aereo, La storia dell’occhio di Georges Bataille, che contiene un fondamentale saggio di Roland Barthes sulla metafora dell’occhio. Si parla di occhi e lo sguardo cade inevitabilmente su Nemo, la sua ultima seduta in plastica stampata che Driade presenterà durante la settimana del mobile: un volto cavo con occhi vuoti che, però, sanno guardare. “Ho sempre pensato agli occhi”,

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dichiara Fabio. “Canova diceva che alla perfezione delle statue greche manca la luce degli occhi”. Continuiamo con la letteratura. Ad aprile uscirà un suo nuovo libro, Il design spiegato a mia madre (Rizzoli, collana 24/7). Gli domando qual è l’urgenza di scrivere. “Picasso”, risponde Fabio, “soleva dire: ‘io non cerco, trovo’. Sono venuti a cercarmi per chiedermi un libro sul design. L’idea di parlare di design in un modo diverso mi ha ingolosito. Per renderlo più vivace ho pensato a un libro in forma d’intervista, con domande di Francesca Alfano Miglietti (critica d’arte, ndr). Dare spiegazioni a tua madre è come darle al mondo. M’interessa il mondo e lo guardo ancora con gli occhi dell’infanzia che hanno conservato lo stupore. Sono un animale sociale.

In alto, un Ritratto di Fabio Novembre. Qui sopra, da sinistra: Candela, moglie di Fabio Novembre, incinta; Installazione per la mostra Casa ad Abitare il tempo, Verona, 2003; Sanitari della serie Void System, Flaminia, 2008; Uno scorcio della personale di Fabio Novembre Insegna anche a me la libertà delle rondini, a cura di Beppe Finessi, Rotonda della Besana, Milano, 2008, Allestimento di Peter Bottazzi (In primo piano S.O.S. Sofa of Solitude, Cappellini, 2003); Partita di calcio in India, immagine trovata navigando sul web; La terra vista dallo spazio, immagine tratta dal web. Nella pagina accanto: In alto, un’altra veduta della personale Insegna anche a me la libertà delle rondini, alla Rotonda della Besana; Sotto, la mostra Il fiore di Novembre, Triennale di Milano, 2009, ideazione e allestimento di Fabio Novembre. In primo piano un dettaglio del tavolo Org per Cappellini, 2003.

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In alto: un’Immagine di Palmanova vista dall’alto, tratta da Google earth, e il Vassoio Palmanova in acciaio della serie Piazze d’Italia, Driade, 2007. Qui sopra, da sinistra: Fabio Novembre con Ettore Sottsass; la Copertina del volume A Sud di Memphis di Fabio Novembre con prefazione di Ettore Sottsass, Idea Books, 1995; Sedia e tavolo Histogram, Gipsen, 2008; Immagine dello showroom Bisazza a New York, 2003; Foto delle gambe di Candela.

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Paul Valery diceva che un uomo solo è in cattiva compagnia. Ogni mercoledì, da vent’anni, gioco a calcio con il solito gruppo di amici. Il calcio è un gioco metaforico: obbliga il corpo ad addomesticare la palla, una sfera simbolo del mondo. Il gioco del calcio è una sinfonia, la squadra ha il respiro dell’orchestra. Bisogna sempre passare la palla, mai trattenerla”. Sei un fantasista allora, come Gilardino? “No”, risponde Fabio,” gioco da terzino, non ho la fisicità per lo sport. Non sono un José Arcadio (primo figlio di Ursula e José Arcadio Buendia, protagonisti di Cento anni di solitudine di José Garcia Marquez), impulsivo e violento, ma piuttosto un Aureliano (il secondogenito) dotato di un sguardo lucido e analitico. Ma la fisicità mi attrae. Ho amato il Gladiatore di Ridley Scott”. Ritorniamo ai libri. L’ultimo letto?

“Emmaus di Alessandro Baricco. L’ho letto con benevolenza. È un libro generazionale sulla paranoia dell’educazione religiosa, tipica della sua generazione. Ma non è stato folgorante come I barbari, un libro fondamentale. Lo dovrebbero leggere tutti. Non mi è dispiaciuto Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti. Azzeccata la considerazione sulla ‘figura di merda’: ‘in uno stato come il nostro... che ti frega! Fai quello che vuoi’. Ti consiglio quello di Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione. Paolo è bravo a scrivere, fa il regista per caso. È bello il ruolo del cantastorie. Noi italiani abbiamo costruito il nostro potere sulla capacità di affabulazione. Le nostre emozioni bisogna cantarle, come Omero il cantore cieco. La tradizione orale è importante”. È vero, le storie vanno narrate come faceva il Narratore ambulante nella foresta amazonica (Mario

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FABIO NOVEMBRE / 105

A destra: un Vaso della Greenline collection decorato con una grana nera simile all’asfalto, Bitossi ceramiche, 2010; una Foto della Greenline di Beirut, la linea che separava le opposte fazioni cristiana e musulmana. L’appellativo si riferiva alla colorazione che assunse il manto stradale a causa della crescita di piante e arbusti attraverso lo strato di asfalto. Sotto, da sinistra: maniglia Love opens doors, Valli&Valli, 2007; Campagna stampa per le sedute Him e Her, Casamania, 2008; Tavolo Fleur, Kartell, 2009; Showroom Bisazza a Berlino, 2004; Showroom Bisazza a Milano, 2002 (L’idea di fotografare una ragazza nuda sdraiata, con il volume a Sud di Memphis aperto sul sedere, è ripresa dal manifesto del film Le Mépris di Jean-Luc Godard che mostra nella stessa postura una giovane Brigitte Bardot.

Vargas Llosa, 1987). “Raccontare storie”, prosegue Fabio, “è un segno di generosità. Agostino narra che rimase stupito e trovò egoista Ambrogio che leggeva senza proferire parola. Bisogna relazionarsi, non isolarsi. Odio l’iPod. Akio Morita, fondatore della Sony, fece mettere due jack al walkman per ascoltarlo in due. Mi è parso un gesto di amore. A proposito, dovresti leggere un libro fantastico La morte del prossimo di Luigi Zoja. Il mio nuovo blog si chiama ‘io-noi’. Nel mio libro (Il design spiegato a mia madre, ndr), a proposito di ‘io-noi’ racconto una storia meravigliosa. Alla domanda di Francesca Alfano Miglietti: che rapporto c’è tra potenza e poesia, rispondo citando Muhammad Alì. Nel 1975, dopo il ritiro, invitato ad Harvard per una conferenza a una classe di neo laureati, Alì tiene un discorso molto brillante sull’importanza dell’istruzione e della cultura...

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Un ragazzo gli grida: ‘Alì, recita per noi una poesia’. Il vecchio campione esita appena qualche secondo e poi declama ‘Me-we’ (io-noi), la poesia più breve della storia della letteratura. Il noi è l’io all’ennesima potenza”. Ci concediamo la licenza di parlare della sua ultima sedia. “La sedia”, afferma Fabio, “è sempre stata un oggetto asessuato. Con Him e Her (Casamania) le ho dato sessualità. Quella nuova è un ermafrodito. Si chiama Nemo. Ulisse rispose a Polifemo che si chiamava Nemo (nessuno). Nemo non vuole assomigliare a nessuno. Rappresenta la supremazia dell’intelligenza (Ulisse) sulla bestialità (Polifemo). Si riferisce anche all’ultima opera di Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila: l’uomo non è unico e la realtà è molteplice. Voglio parlare di messaggi. Non credo sia più il caso di usare la foglia di fico della

funzionalità. La definizione più bella di sedia l’ha data Alessandro Mendini: ‘la sedia è un fazzoletto appoggiato sui gradini della chiesa per non sporcarsi il vestito della domenica’”. Si ritorna alla relazione con il corpo. Quello nudo di donna (Candela) è ricorrente nelle tue immagini di riferimento. Perché questa insistenza sul corpo? “Veniamo da un corpo nudo di donna”, conclude Fabio, “e vogliamo ritornarvi. Aneliamo a ciò da cui proveniamo”. In questo rapporto con il corpo femminile pare quasi ci sia la voglia di raggiungere la dolorosa ebbrezza del concepimento, che poi è l’estasi della creazione. Prima di salutarlo sbircio i libri sul tavolo: Il libro d’ombra di Yunichiro Tanizaki e Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini. Ci tiene a dirmi che sul comodino ha le Metamorfosi d’Ovidio, cui molto s’ispira.

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Telefono senza fili

Jvlt

è un percorso interpretativo che coinvolge di volta in volta quattro designer diversi. Lo scopo è quello di creare una sequenza ‘giocando’ attraverso il disegno di oggetti anziché le parole.

di JVLT/JoeVelluto

4. Matteo Ragni “Una volta un vaso con due manici mi ha detto che aveva problemi di vista. Così è bastato ruotarlo ed allargargli il fondo per inserire una bella lente nuova. Questo sì che è un belvedere”.

1. Joe Velluto

3. Emmanuel Babled “un tubo Di ritmi e di onde, un po’ come la Bossa Nova”.

2. Giulio Iacchetti “Un tubo che si sbuccia, ovvero un nitido elemento verticale che genera germogli ad esso perpendicolari...”

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5. Philippe Nigro “Partendo dal telescopio, con gli stessi elementi e aggiungendone qualcuno in più, si può vedere un imbuto, una tromba... o una macchinina da corsa”.

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G. Iacchetti

E. Babled

M. Ragni

P. Nigro

Tubo

Si parte da uno schizzo iniziale che viene passato al primo designer/giocatore che lo elabora liberamente. Il disegno passa quindi al secondo designer/ giocatore che vi aggiunge la sua personale interpretazione. E così via, lo schizzo passa progressivamente per le mani dei quattro progettisti coinvolti, arricchendosi via via di nuovi dettagli progettuali e interpretativi. 1. Si parte col ‘tubo’. Non vederlo e “non capire propriamente un tubo” è stato il percorso adottato o adottivo. Ma anche additivo in taluni casi. Pronti, via: tu-bo. 2. Tubo che si sbuccia: tu-be-ro, come una patata. Che genera germogli perpendicolari, mica a caso. Da mettere in un vaso, magari. Anche questo non a caso: tu-BE-Ro – BE-Rim-bau. 3. Un vaso berimbau, composto come lo strumento musicale da un arco di legno e una corda fissata ad una zucca, mica ad una patata. Un vaso dalle sonorità brasiliane come la Bossa Nova, letteralmente ‘nuovo pallino’, fissazione. 4. Un tubo per fissare quindi. Un telescopio. Certo, un tubo per fissare corpi celesti solidi. O per fissare bolidi. 5. Un tubo con una marcia in più: turbo. Anzi biturbo. Tubotuberoberimbaubossanovatelescopiobolidebiturbo

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la seduta Memory di Tokujin Yoshioka per Moroso mette a fuoco un nuovo pensiero progettuale che, al prodotto finito, predilige il suo percorso generativo.

Form follows experience di Maddalena Padovani

“N

essun design”. Ha quasi i toni di una provocazione la definizione che Tokujin Yoshioka usa per raccontare uno dei suoi ultimi progetti, la seduta Memory per Moroso. In effetti, se pensiamo all’accezione che il termine ‘design’ ha assunto negli ultimi anni e che oggi lo fa corrispondere, nell’immaginario collettivo, al concetto di ‘bella forma’, non si può che concordare con il designer giapponese: Memory non è certo un prodotto progettato e realizzato per arredare con eleganza il salotto di casa. Piuttosto, è una ‘non

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forma’, un oggetto dall’identità indefinita e mutevole, che nella sua natura evolutiva e intercambiabile segna uno spostamento profondo del significato del prodotto, non più oggetto da utilizzare quanto oggetto da esperire. La nuova storia di Tokujin Yoshioka – ogni suo progetto racconta di un’intuizione e di una sperimentazione, sviluppata nel corso di mesi o addirittura di anni e scrupolosamente documentata in ogni sua fase evolutiva – nasce anche questa volta da un materiale. Un materiale innovativo, curioso, proveniente da settori industriali ben lontani da quello dell’arredo, di cui il designer rimane affascinato per le particolari caratteristiche estetiche ma, soprattutto, per l’inedito impiego che intuisce possa riservare anche nell’ambito del quotidiano.

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Memory nasce dall’idea di Tokujin Yoshioka di una seduta ‘senza forma’, che potesse essere liberamente conformata dal suo utilizzatore. È composta da una comunissima sedia su cui viene sovrapposto un tessuto di alluminio riciclato a memoria di forma. Moroso ha ingegnerizzato il processo e il prodotto ideati dal designer giapponese.

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Il materiale è, questa volta, un tessuto fatto di alluminio riciclato. “Già da tempo”, spiega Tokujin, “avevo in mente di fare qualcosa con il metallo. Mi interessava soprattutto per la sua capacità di interagire con la luce”. La luce costituisce da sempre un punto fermo del lavoro di Yoshioka, l’impalpabile legante con cui, in tutti i suoi allestimenti, anima i materiali più banali e crea magiche visioni partendo dal nulla. La luce è la grande protagonista anche dei suoi ultimi progetti allestitivi, quello per Seoul World Design Capital e quello per l’Expo di Shangai (entrambi verranno realizzati il prossimo maggio). Il primo si ispira alla vetrata di una chiesa che Tokujin ha ricreato con una superficie di prismi di cristallo, alta 9 metri, che filtra e rifrange l’illuminazione, proiettando lo spazio in una dimensione rarefatta e spirituale. Il secondo usa invece come corpo di rifrazione un’enorme sfera di cristalli naturali ottenuta con il processo di cristallizzazione spontanea già impiegato per la sedia Venus, che avendo una conformazione casuale genera un effetto luminoso altrettanto unico e irripetibile. Il metallo è dunque il materiale scelto da Yoshioka per portare la magia della luce e dei riflessi alla scala dell’oggetto d’arredo. Ancora una volta, la sua ricerca si orienta verso nuove qualità strutturali del materiale d’origine, quindi si focalizza, dopo

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decine di prove, su un tessuto di alluminio riciclato a ‘memoria di forma’ che presenta la resistenza e la lucentezza del metallo, la leggerezza e la maneggevolezza del tessuto, ma anche un’incredibile duttilità, dato che può essere liberamente conformato e successivamente modificato secondo le esigenze e i gusti personali dell’utilizzatore finale. Il concept di Memory è di fatto molto semplice: la struttura portante della seduta è costituita da una banalissima sedia da cucina, il rivestimento da un ‘sacco’ in tessuto di alluminio, fornito con la sedia al momento dell’acquisto. Arrivato a casa, l’acquirente infila il sacco sulla sedia, quindi lo plasma con le mani e lo modella come più gli piace. La forma che ne risulta è ovviamente diversa caso per caso e può anche variare nel tempo; ciò che conta per Tokujin non è arrivare a una soluzione fissa e definita, quanto tracciare un processo aperto, in costante evoluzione. Come in tutti i progetti precedenti, anche in Memory emerge l’interesse del designer giapponese per la natura e i suoi processi generativi che per lui costituiscono l’unica vera fonte di ispirazione creativa. “La sedia Memory si ispira alla bellezza della natura e alle sue infinite espressioni in costante evoluzione. Allo stesso modo ci ricorda che in natura non esistono forme predefinite, ma tutto nasce

e si evolve in modo spontaneo e casuale. Non mi interessa la forma fine a se stessa. La forma nasce dal cuore e non può essere disegnata. Ciò che mi interessa veramente è la dimensione sensoriale del progetto e l’aspetto esperienziale delle cose. Il senso estetico della gente è profondamente cambiato. A dimostrarlo è la stessa dinamica dei consumi, non più legata al valore dei prodotti o alla sfera dei bisogni, quanto dall’esperienza associata all’atto dell’acquisto. Che si tratti di uno spazio o di un prodotto, i miei progetti sono sempre pensati per creare stupore, curiosità, sensazioni tattili e visive”. In poche parole, per generare emozioni.

In alto, Tokujin Yoshioka mostra il processo realizzativo della seduta, la cui conformazione può essere modificata quando l’utilizzatore lo desidera. Il designer giapponese, che intendeva utilizzare il metallo per avere una superficie che rifrangesse la luce, ha optato per un tessuto in alluminio riciclato dopo lunghe sperimentazioni su vari tipi di materiali metallici.

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TOKUJIN YOSHIOKA / 111

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Magis porta sulla scena del mobile italiano un materiale rivoluzionario: il legno liquido, legno vero a tutti gli effetti che può essere stampato come un polimero. Il progetto dello studio Zaha Hadid ne interpreta le inedite caratteristiche poetico-tecnologiche.

Il mondo dopo la plastica di Stefano Caggiano

Sopra: una prova di stampo realizzata da Magis con il legno liquido. Prima della formatura questo materiale si presenta come una farina di legno finissima o un granulato. Una volta nello stampo, le particelle di legno vengono compattate da un legante naturale, che trasforma il materiale di partenza in un oggetto solido di forma libera. Nella pagina accanto: Il modulo scaffale Minimal Shelf disegnato per Magis dallo studio Zaha Hadid Architets valorizza la specificità poetica e tecnologica del legno liquido.

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ugenio Perazza, presidente di Magis, non ha dubbi: “In un mercato destinato a calare, solo una cosa è destinata a crescere: la qualità del progetto”. E questa volta il salto di qualità appare davvero importante, perché in gioco non c’è solo un’innovazione tecnologica, ma un materiale incredibile – il legno liquido – che mette in discussione la contrapposizione di aristotelica memoria fra materiali naturali e materiali artificiali. Quella di Magis è del resto una storia fatta di continue rivoluzioni tecnologiche, dall’utilizzo pionieristico della plastica fino alle prime sedute in gas-moulding. A inaugurare la strada del legno liquido sarà il progetto Minimal Shelf dello studio Zaha Hadid Architects, da più di 30 anni in prima fila nella sperimentazione di nuove

soluzioni tecnologico-formali in ambito urbanistico, architettonico e di design. Il presupposto da cui muove il progetto dello studio Hadid è che il legno liquido – che consiste in un legno vero a tutti gli effetti, dotato però della proprietà di essere stampato come un termoplastico – debba esprimersi in un oggetto leggero interprete del passaggio dagli arredi tradizionali in legno agli spessori minimi propri della plastica. Da qui l’idea di rifarsi agli algoritmi delle superfici minime, che presentano una deviazione a curvatura zero come nelle bolle di sapone. Ne nasce un modulo scaffale con quattro facce uguali che, ruotando su cinque assi, crea diverse conformazioni spaziali, per adattarsi alle differenti necessità modificando il proprio assetto compositivo lungo un movimento sinuoso nel quale, grazie anche alle due varianti dimensionali, i pieni e i vuoti si rincorrono senza soluzione di continuità.

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La suggestione del progetto Minimal Shelf deriva dagli algoritmi delle superfici minime che presentano una deviazione di curvatura pari a zero, come quelle delle bolle di sapone che si formano quando uno spago viene immerso in una soluzione saponata. Il modulo Minimal Shelf presenta quattro facce uguali che ruotano su cinque assi per creare diverse conformazioni spaziali. I moduli sono stati pensati in due varianti dimensionali, in modo da rendere ancora più ampie e flessibili le possibilità di composizione.

La valorizzazione della curva minima, della leggerezza esatta, della ‘plasticità’ del legno ben sottolinea la specificità di un materiale che non trova collocazione nei quadri consolidati in cui si organizza la tecnologia dei materiali contemporanea. Il legno liquido trova piuttosto una collocazione tecnico-poetica nel prossimo futuro. Composto di lignina, una sostanza che si estrae dagli alberi, può essere ottenuto anche dagli sfridi di produzione del legno e da vecchi materiali lignei abbandonati, macinati fino a ottenere una farina finissima; questa viene poi iniettata in uno stampo del tutto identico a quelli usati per i polimeri, quindi compattata mediante un legante naturale. Una volta aperto lo stampo il pezzo non è solo sorprendente da un punto di vista estetico – odora di legno, sa di legno, è legno a tutti gli effetti: però foggiato come uno stampato polimerico – ma anche biodegradabile al 100 per cento, oltre che riciclabile all’infinito: è sufficiente infatti un piccolo rabbocco su un recupero di materiale che può arrivare al 98 per cento per preservare il livello qualitativo della prima scelta, a differenza della plastica che a ogni ciclo si recupera solo al 40-50 per cento diventando presto inadeguata per il settore arredo (pur restando valida per usi industriali).

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Il senso di un cambio di paradigma è spesso confermato dai cambiamenti nelle piccole cose. Così, per esempio, praticare un foro su un piano in legno liquido non rappresenta più un costo supplementare, come nella tecnologia tradizionale, e lo stesso vale per le decorazioni superficiali, che escono direttamente dallo stampo. La novità è, senza dubbio, di quelle che aprono un’epoca – e qui entra in scena il design, che dei materiali è abituato a leggere sempre insieme prestazioni tecnologiche e valori antropologici. Da questo punto di vista la rottura è forse ancora più forte, perché se fino a ieri era ovvio connotare la plastica come materiale ‘artificiale’ e il legno come materiale ‘naturale’ – e associare una vasta fenomenologia di forme libere alla prima e una ridotta scala di fogge al secondo – l’ entrata in scena del legno liquido costringe a ripensare a fondo non solo le prestazioni ma il significato stesso del legno nel progetto. Questo materiale ora tenero ora massiccio, ora flessuoso ora orgogliosamente fermo sui propri vincoli formali, può oggi essere stampato come un termoplastico, sganciandosi definitivamente dal nobile ma ristretto registro di fogge che ne hanno fatto la storia. E in un’epoca come la nostra, in cui il progetto è chiamato a una grande responsabilità ambientale,

Biodegradabile e riciclabile al cento per cento, Il legno liquido determina un ripensamento profondo dell’utilizzo del legno nel progetto

il legno liquido ha tutte le caratteristiche per giocare un ruolo da protagonista, soprattutto nel campo del design dove la sostenibilità ambientale fa tutt’uno con la sostenibilità emozionale, e le sensazioni che gli oggetti ci trasmettono non possono più essere separate dalle ‘sensazioni’ che gli stessi oggetti trasmettono al pianeta. Forse è prematuro sognare di sedie che crescono sugli alberi, ma già da adesso sembra profilarsi un mondo in cui gli oggetti d’arredo, al termine del loro ciclo di vita, vengono sepolti sottoterra, come le persone, e come le persone vengono riassorbiti dalla terra. Per nutrire il pianeta e le cose che verranno.

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l’acchiappavento testo di Antonella Galli

Approdano sul mercato le turbine eoliche domestiche disegnate da Philippe Starck per Pramac. L’energia pulita è ora a disposizione di tutti, trasportata dal soffio gentile del design.

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FIERE

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STocKHoLM DESIGN WEEK 2010 DALLA MAGGIORE RASSEGNA DI design scandinavo, SEMPRE PIÙ APPREZZATA ANCHE DAGLI ESPOSITORI ITALIANI, NOTE DI COLORE, IDEE GIOVANI, HUMOUR E TRADIZIONE. CON UN TOCCO fashion: QUELLO DI SIR Paul Smith.

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un’inedita connotazione fashion, grazie all’estro di Paul Smith, stilista protagonista di numerose e scanzonate incursioni nel mondo del design. “Volevo creare una coinvolgente atmosfera di ottimismo, che ispirasse il pubblico e andasse al di là di una pura espressione di eleganza”, ha commentato il Sir della moda. Nella sua installazione, una sequenza di quattro ambienti eterogenei: un sobrio omaggio a Gio Ponti, un’esplosione floreale, un patchwork di immagini Aria di novità, per struttura delle sue boutique nel mondo, una e contenuti, all’ultima Stockholm curiosa miscellanea di oggetti inviati, Furniture Fair, svoltasi dal 9 al 13 pare, da un misterioso ammiratore. febbraio. Giunta alla 59ª edizione, Espediente scenico o reale, quanto la manifestazione ha inaugurato un originale, tributo? nuovo layout, concentrando il tema Greenhouse, lo spazio dedicato design nell’ampliato padiglione A dove ai giovani designer, quest’anno ha ha debuttato, tra gli espositori (780 dato particolare rilievo alle scuole in tutto), il Gruppo Frau. Integrato e all’estrazione nordica dei creativi nel percorso espositivo, e non più indipendenti, dove gli italiani, nella hall d’ingresso, il lounge del brillavano per assenza. Guest of Honour quest’anno ha assunto

1. PANCA MOTION DISEGNATA DA MONICA FÖRSTER PER GÄRSNÄS. 2. SNOWFLAKES, TAVOLINI DI CLAESSON KOIVISTO RUNE PER OFFECCT. 3. SOUNDWAVE GEO, PANNELLO ACUSTICO DI INEKE HANS PER OFFECCT. 4. MAMALOCK, DIVANO DISEGNATO DA ANNA KRAITZ PER KÄLLEMO. 5. ANTELOPE, SEDIA IN LEGNO MASSELLO DI MONICA FÖRSTER PER SWEDESE. 6. NEST, SEDIA DISEGNATA DA ALEXANDER LERVIK PER JOHANSON. 7. CLAMP LAMP, DI ANDREAS MARTIN-LÖF, LAMPADA DA LETTURA IN EDIZIONE LIMITATA GRIFFATA MONOCLE. IL MAGAZINE DIRETTO DA TYLER BRÛLÉ HA APERTO A FEBBRAIO IL SEASONAL SHOP MONOCLE X MALMSTEN. DOVE HA ESPOSTO, TRA GLI ALTRI, DUE ARREDI IN LEGNO REALIZZATI IN COLLABORAZIONE CON IL MARCHIO SVEDESE MALMSTEN.

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Revolutionair bipala di Pramac, modello WT400W, di 0,9 metri di lato, potenza massima di 400 Watt a 14m/s; i pali di supporto possono variare da 0,3 m a 3 m di altezza. Nella pagina accanto, la campagna di comunicazione per il lancio di Rivolutionair, realizzata con vari Street Artist delle principali cittĂ europee.

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qui accanto, l’allestimento realizzato da Philippe Starck per la presentazione del prototipo di turbina eolica domestica in occasione dell’evento GreenEnergyDesign, organizzato da Interni durante la settimana del design di Milano nell’aprile 2008 presso i chiostri della Ca’ Granda, oggi Università Statale di Milano (foto Andrés Otero). Sotto: a sinistra Philippe Starck ‘soffia’ sulla pala eolica presentata a GreenEnergyDesign (foto Marino Ramazzotti); a destra, il nuovo modello tripala di Revolutionair.

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ue anni fa, nell’aprile 2008, la microturbina eolica quadrangolare firmata Starck faceva bella mostra di sé nei chiostri della Ca’ Granda milanese (l’attuale Università Statale) tra le sedici installazioni progettuali di GreenEnergyDesign, la mostra di prototipi e idee promossa da Interni durante il Salone milanese. Pramac, la multinazionale di origini italiane con sede a Casole d’Elsa (Siena) attiva nel settore delle energie alternative, aveva realizzato il prototipo del designer francese, presentandolo durante la rassegna con il nome di Democratic Ecology. All’inizio del 2010, dopo quasi due anni di studio necessari per l’ingegnerizzazione del prototipo, Pramac ha portato sul mercato Revolutionair, la nuova linea di microturbine eoliche (due fino a oggi) disegnate da Philippe Starck e rivendute in tutto il mondo dal sito www.revolutionair-pramac.com In questi due anni nei laboratori di ricerca di Pramac, in collaborazione con l’Università degli

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studi di Napoli, si è lavorato per creare un prodotto destinato all’utilizzo residenziale urbano, quindi sicuro, affidabile, efficiente e silenzioso, sensibile non solo alle correnti ma anche alle turbolenze, tipiche dei microclimi delle città. I due modelli Revolutionair sono collocabili nei giardini, sui balconi o sui tetti delle abitazioni, ma anche su imbarcazioni e nei parchi pubblici o nelle aree condominiali: il primo, il WT 400 è l’erede diretto del prototipo originario, di forma quadrangolare e ad asse verticale, con una potenza di 400 Watt, mentre il WT 1KW, di potenza pari a 1 KW, ha forma elicoidale, sempre su asse verticale, e dimensioni e peso maggiori. Il valore aggiunto di questi straordinari strumenti tecnologici, vere e proprie centrali domestiche, risiede nel profilo estetico, nell’attrattività delle linee che li trasforma da strumenti utili in oggetti desiderabili e da mostrare. Per una turbina eolica, per sua natura

impossibile da mimetizzare, il pregio estetico assume un peso di mercato decisivo. I precedenti esempi di microgeneratori eolici per uso domestico trascuravano completamente il valore del design, tranne Energy Ball, forse l’unico vero predecessore di Revolutionair, una microturbina ad asse orizzontale prodotta dall’olandese Home Energy International, azienda specializzata in soluzioni per le energie alternative. La svolta di Starck, però, non è circoscritta alla plusvalenza estetica; il concept iniziale, che accompagnava il prototipo presentato nel 2008, si basava su un’idea democratica e sostenibile di progetto, un tema radicale caro al maestro francese, anticipatore di una tendenza sempre più attuale. Starck pronosticava come gli sforzi progettuali dovessero prima o poi orientarsi non a generare sempre più ‘materia’, quanto piuttosto sempre più energia sostenibile, a basso costo e capillarmente diffusa. Questa

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MINITURBINE EOLICHE / 119

Revolutionair Pramac tripala, modello WT1kW, in materiale plastico e metallo, di diametro e altezza di 1,45 m, con pali di supporto da 1 a 6 m. La potenza massima a 14 m/s è di 1000 W.

inversione di tendenza trova oggi l’opinione pubblica molto più ricettiva, sotto i colpi di una lunga crisi non solo economica, ma anche energetica, politica, identitaria a livello globale. La direzione indicata da Starck e intrapresa da Pramac risulta essere quella corretta, e l’Italia, che appare sempre pachidermica rispetto alle tematiche di sostenibilità ambientale, ha sorpreso i più pessimisti con i risultati pubblicati all’inizio del 2010 dalle principali società di produzione e monitoraggio delle energie rinnovabili: il 2009 si è chiuso con una crescita del settore su base annua superiore al 30 per cento, record assoluto per l’Italia. La produzione elettrica annuale derivata dall’eolico è stata pari a circa 6,7 TWh, equivalenti ad oltre il 2,1 per cento del consumo interno lordo, pari al consumo domestico di circa 7 milioni di italiani e di 4,7 milioni di tonnellate di CO2 risparmiate. L’anno appena trascorso, quindi, per Enea (Agenzia nazionale per le nuove

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tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile), per Anev (Associazione nazionale energia del vento), per Aper (Associazione produttori energia da fonti rinnovabili) e per Ises Italia (International Solar Energy Society) ha costituito un anno di svolta, l’inizio di un’applicazione estensiva dell’energia eolica, un segno di cambio di mentalità, di fiducia in un settore che, tra i tanti vantaggi, potrebbe portare anche quello di un incremento occupazionale. La congiuntura scelta da Pramac per proporre al mercato le microturbine di Starck, sembra dunque la più favorevole: un carico da undici come la firma del designer francese più celebre al mondo terrà i riflettori accesi sul prodotto e dissolverà le esitazioni dei più diffidenti. Come un colpo di vento tra le nuvole.

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testo di Stefano Caggiano

Oggetti mutanti Cresce la presenza di ‘alieni’ nel mondo del design. Esprimono una nuova sensibilità che si ispira alle forme evolutive naturali. Per affrontare un futuro difficile da programmare.

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a realtà è sempre stata abitata dal demone della contraddizione. Ma mentre il mondo antico viveva nel senso tragico del contrasto, l’epoca moderna ha visto nelle incoerenze della realtà il dominio del negativo, che il progetto era chiamato a comporre in una sintesi armonica finale. In questo quadro la divergenza, la difformità, la resistenza della materia alla forma era vista come l’antitesi, o la nemesi, del progetto. Il primo decennio del XXI secolo ha assistito a un radicale stravolgimento di questa concezione. Il design contemporaneo, più che nel ‘risolvere’ le incongruenze delle forme culturali, sembra piuttosto impegnato nella liberazione di possibilità

alternative per gli oggetti e le sensazioni a cui essi danno accesso. Nello scenario che così si delinea, la contraddizione, ancorché vissuta come un disvalore, diventa una sorgente altamente energetica dalla quale attingere linfa per le robuste iniezioni di progetto impegnate su tutti i fronti a differenziare le cose da se stesse. È questo il senso profondo di estetiche indefinite come quella della seduta Self-Portrait della giovane Ka-Lai Chan, di Eindhoven, ottenuta dalla ‘somatizzazione’ delle esperienze e sensazioni provate dalla designer in prima persona. O come quella della lampada a sospensione Formation disegnata da Angus Hutcheson per il brand

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Il lampadario Julia.MGX, progettato da Peter Jensen per Materialize, Ăˆ relizzato con la tecnologia del rapid prototyping. La foggia finale si basa su una struttura frattale matematica, che dona all’oggetto la capacitĂ€ di offire un aspetto diverso da ogni angolazione. Nella pagina accanto: La lampada Formation di Angus Hutcheson per Ango, realizzata in bozzoli di seta montati su una matrice piana di pelle rigida; Lo sgabello impilabile Apis di Alessandro Loschiavo per Aliantedizioni, ispirato al mondo degli insetti e Realizzato in alluminio.

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Sopra, Urban Adapter, un elemento di arredo urbano disegnato dallo studio Rocker-Lange Architect per Honk Kong. il progetto prevede molteplici soluzioni ricavate da uno stesso modello digitale parametrico che utilizza le informazioni in sito per esplicitare reazioni formali mirate. A destra, La panca Muscle disegnata da Alexandre Moronnoz. Come la struttura fibrosa di un muscolo, il fascio di fogli in metallo tagliato restituiscono il lavoro di compressione e tensione che mantiene rigida la forma, lasciandola attraversare dalla luce del sole. Sotto, la seduta Self-Portrait della giovane designer Ka-Lai Chan, realizzata con struttura in metallo, imbottitura poliuretanica e rivestimento in pelle stretch.

thailandese Ango, la cui fisionomia, piuttosto che dal confinamento dell’idea, sembra derivare dalla voluta liberazione delle difformità latenti nella forma. Non si tratta solo di scelte stilistiche: il design traduce sul piano del sensibile ciò che un’epoca già sente, ma ancora non conosce. Accogliere il lato generativo della difformità comporta un profondo rimescolamento dei valori di fondo del progetto, direttamente collegato al generale indebolimento delle strutture sociali e antropologiche della nostra modernità liquida, in cui ogni segno, per quanto ben riuscito, avrà comunque vita breve, e si trasformerà presto in qualcos’altro, facendo venire meno per il progetto la capacità di pre-vedere, in senso forte, i propri esiti. Ma questa condizione, invece che arrestare l’azione progettuale, le ha donato una nuova vivacità, più simile a quella della biologia evolutiva che al travaglio costruttivo del

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progetto tradizionale. Nascono da qui, e sembrano concepiti quasi come i piani corporei di creature estinte, oggetti transgenici come le sedute urbane Muscle, di Alexandre Moronnoz, e Urban Adapter, disegnata per la propria città dallo studio Rocker-Lange Architects di Hong Kong. L’accettazione delle logiche evolutive appare ancora più esplicita in progetti come Apis, disegnato da Alessandro Loschiavo per Aliantedizioni e ispirato alla sofisticata sintesi morfologica degli insetti, o come la lampada Julia. MGX immaginata da Peter Jansen per Materialise, che sfrutta l’informalità morfogenetica della prototipazione rapida per esplorare quelle che sembrano strategie organiche aliene. Il DNA è il replicatore più efficace che esistita: ma ancora più grande, ed enorme e sterminato, è il tempo profondo, nel corso del quale i rari errori di copiatura dei geni portano le specie a mutare, attraverso la conservazione selettiva e l’accumulo delle variazioni genetiche che,

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OGGETTI MUTANTI / 123

La lampada Foglie di Matali Crasset per Pallucco. Il progetto, basato sul principio che regola la crescita delle piante, si sviluppa da uno schema frattale in cui lo stesso elemento geometrico si replica a scale diverse. Il diffusore in policarbonato opalino è retto da una struttura portante in metallo verniciato. Sotto, La scultura tessile Il Sogno, di Laura De Gennao, Daniela Santucci e Thomas De Falco, realizzata con vari materiali –lana, canapa, lino, cotone e argento – assemblati con la tecnica del wrapping. In basso, la lampada Bloom, progettata da Igor Knezevic per lo studio Alienology e realizzata in fogli di betulla tagliati al laser in modo da generare il minimo scarto di materiale possibile.

casualmente, e non per un’intenzione deliberata, si rivelano utili alla sopravvivenza. È così, senza progetto né disegno (intelligent design), che alcuni pesci sono diventati mammiferi e alcuni mammiferi sono mutati in esseri umani (noi abbiamo quattro arti perché i pesci da cui deriviamo avevano quattro pinne). Ma a differenza dei geni, che si replicano identici (salvo gli errori che li fanno evolvere), i segni della nuova creatività evolutiva puntano volutamente a riprodursi nella diversificazione: oggetti come la lampada a sospensione Foglie di Matali Crasset per Pallucco, o come la lampada Bloom disegnata dallo studio Alienology di Los Angeles, o, ancora, come la ‘scultura tessile’ Il Sogno realizzata da Laura De Gennaro, Daniela Santucci e Thomas De Falco, esprimono il senso estetico di un’epoca in cui la mutazione non è più un mezzo, ma un fine. L’evoluzione ha potuto disporre di un numero spaventosamente grande di generazioni per diversificare gli organismi viventi. Dal canto

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suo, la creatività del XXI secolo può contare sul grande numero di focolai sperimentali accesi ogni istante in ogni dove da un fare design che ha assunto le dimensioni di una professione di massa, quale strategia alternativa resa necessaria (e possibile) dal generale indebolimento delle strutture culturali che non permettono più di individuare a priori le vene più ricche per il progetto. Così, costretta ad agire senza progetto (nel senso forte di pianificazione rigida a lungo termine), la creatività diffusa assume un comportamento analogo a quello dell’evoluzione, agendo non per adeguare l’essere al dover essere (come esigeva l’etica tradizionale) ma per diversificare le cose da se stesse nell’immediata contingenza, mantenendole così in vita. E le nostre sensazioni con loro.

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È bello, fa atmosfera. Ma è anche indomabile: più lo si taglia, più cresce rigoglioso. Ma l’innata invadenza di questa pianta, dannazione dei giardinieri, è una vera e propria risorsa per chi vuole progettare in modo sostenibile.

BaMBooM

di Laura Traldi

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er una volta, il made in China è all’insegna della sostenibilità. Protagonista del lieto evento è una pianta, diffusissima soprattutto nel Sud del mondo e nei climi subtropicali: il bamboo. Tecnicamente, si tratta di una larga erba legnosa, di fatto un’erbaccia, data la sua caratteristica invasività: si innalza spontaneamente fino a 60 cm al giorno, non richiede trattamenti con antiparassitari o cure a base di concimi, naturali o chimici. La sua presenza fa bene al pianeta: il bambù infatti ricicla una grande quantità di anidride carbonica

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(12 tonnellate per ettaro) e produce il 35 per cento in più di ossigeno rispetto a qualsiasi altro albero di stazza equivalente. E, dulcis in fundo, più lo si taglia più ricresce. Una sorta di toccasana per chi è alla ricerca di soluzioni sostenibili, soprattutto perché il prodotto di questa pianta è un materiale resistentissimo (la cui superficie esterna si dice sia più dura del legno di quercia) ma allo stesso tempo leggero e flessibile. Che la nostra sia l’era del bambù, lo dicono le cifre. Dal 2004 al 2006 la Cina ne ha decuplicato l’export destinato al settore tessile (dove fa faville per la sua morbidezza e proprietà antibatteriche) e aziende specializzate nel settore della pavimentazione in bambù (come l’olandese Plyboo)

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La panchina ‘socializzante’ Linger del designer indonesiano Alvin Tjitrowirjo, che permette di far sedere più persone secondo uno schema fluido, focalizzato intorno al perno centrale dello schienale. Nella pagina accanto: La collezione Blow Up dei Fratelli Campana per Alessi. Progettata nel 2004, in acciaio inossidabile, è stata proposta quest’anno in bambù.

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a destra: un Tagliere della linea Bamboo di Sagaform (distribuito da Schoenhuber). Sotto: Installazione di totem in bambù, utilizzati come sostegno per computer, sistemi acustici e di illuminazione, complementi d’arredo. Progettata da Ezri Tarazi, è stata presentata al Cooper Hewitt National Design Museum di New York (Foto di Udi Dagan). Nella pagina accanto: in alto, un Vassoio per sushi in bambù massello di LegnoArt; Forchettine bambù di Giulio Iacchetti per Pandora. in basso, la Sedia Bourke di Ryan Frank per Rossmore Furniture, in bambù e feltro colorato, e il Pouf Mello in bambù laccato di Ekobo, azienda francese da sempre attiva nell’utilizzo di questo materiale nell’arredo.

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hanno registrato dal 1993 al 2006 un aumento del volume d’affari da 150.000 a 12 milioni di euro. Anche nel settore dell’arredamento, il bambù da sempre va alla grande. Non solo in Oriente, dove è simbolo della tradizione, ma anche sempre di più in Occidente, soprattutto grazie al boom dei mobili etnici. È forse questa connotazione ‘etnica’, lontana nell’immaginario dal gusto contemporaneo e avanguardistico, che ha fatto sì che per anni il bambù venisse ignorato dai designer, fatta eccezione per alcuni esempi di utilizzazione nel settore della posateria (come la collezione firmata da Giulio Iacchetti per Pandora nel 2000) o degli accessori per la preparazione e il consumo del cibo (come le proposte di LegnoArt o

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Sagaform che non esitano da anni ad utilizzarlo). A rendere appetibile l’impiego del bambù nel settore dell’arredo ci aveva provato Konstantin Grcic solo due anni fa con la sedia 43, realizzata in collaborazione con il NTCRI (National Taiwan Crafts Research Institute) e il TDC (Taiwan Design Center). Concepita all’interno di un progetto che vedeva impegnati artigiani taiwanesi e progettisti in vista di un’attualizzazione dei materiali tradizionali asiatici, la seduta era composta da 43 strisce di bambù laminato intrecciate a mano a formare una struttura avvolgente priva di scocca e per sua stessa natura estremamente flessibile ed adattabile al corpo umano. Caratteristiche che, insieme all’innato valore ecologico del materiale, hanno convinto Skitsch, un anno dopo, a metterla

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in produzione. Nel frattempo l’attenzione alla produzione ‘virtuosa’ e all’utilizzo di materiali sostenibili ha subito un’impennata. E il bambù e il design hanno cominciato a viaggiare a braccetto. Non è un caso che, in occasione della mostra Design for a Living World, conclusasi lo scorso gennaio al National Design Museum Cooper Hewitt di New York, un occhio di riguardo sia stato dato al bambù attraverso i progetti dell’israeliano Ezri Tarazi che l’ha utilizzato per creare una foresta domestica in cui trovano felice alloggio anche gli immancabili accessori high tech contemporanei: computer e sistemi acustici e di illuminazione. Parlando di produzione italiana, per la primaveraestate 2010 i fratelli Campana hanno proposto per Alessi una nuova versione della collezione Blow

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Up di ciotole, porta-agrumi, tavolino, portariviste e centrotavola in bastoncini di bambù fumigato ed essiccato, legati a mano utilizzando della rafia naturale imbevuta di colla. Una sorta di ritorno alle origini, di fatto, poiché il duo brasiliano aveva progettato Blow Up nel 2004 utilizzando proprio il bambù, a ulteriore conferma della nascita di un nuovo interesse per questo materiale da parte delle aziende. Del resto, oltre ad essere poco costoso e assolutamente ecologico, il bambù è anche versatile e, come dimostrano i nuovi pouf Mello dell’azienda francese Ekobo e le sedute Bourke di Ryan Frank, fa la sua bella figura anche se interpretato in chiave colore.

una struttura flessibile e indossabile in bambù, l’oggetto-scultura progettato da Maria Blaisse.

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1. Posate in bambù di Hannu Kähönen per Creadesign. 2. Sedia 43 di Konstantin Grcic per Skitsch: strisce di bambù laminato intrecciate danno forma ad un corpo avvolgente e flessibile senza scocca. 3. Forchettine in bambù di Hannu Kähönen per Creadesign. 4. Per Petit Déjeuner, un complemento d’arredo in edizione limitata per la londinese Gallery Fumi, che lo Studio Glithero ha realizzato in bronzo utilizzando uno stampo in bambù.

5. Oltre il parquet: le pavimentazioni tessili modulari di InterfaceFlor, qui in una versione in bambù. 6. È ancora un concept, ma verrà presto messa in produzione da Gelderland. Architettonica e massiccia, si chiama Bamboo Chair ed è un Progetto di Tejo Remy e Rene Veenhuizen (Foto di Thomas Fasting). 7. Una sessantina di cerchi, provenienti direttamente da un fusto di bambù tagliato in orizzontale, formano la seduta della chaise longue Bamboo, con scocca in metallo. Di Ezri Tarazi (foto di Udi Dagan).

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Gestaltung oggi: forme tra pensiero e azione. ritorna l’estetica dell’imperfetto e dell’indefinito. Mobili e oggetti dalle superfici corrugate, profili accartocciati, come cristallizzati nel loro formarsi. volumi plasmati da sollecitazioni casuali che determinano pezzi unici. Il disegno discende dal processo, il provvisorio diventa definitivo, in una sperimentazione continua tra arte, industria e artigianato.

elogio dell’imperfetto di Katrin Cosseta

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Batucada Collection, disegnata e prodotta da Brunno Jahara/ Jahara Studio, composta da vasi, vassoi e lampade in alluminio riciclato, martellato a mano. proposta in vari colori. Sponge, di Peter Traag per Edra, nella nuova versione oro. La poltrona è ottenuta schiumando direttamente il poliuretano dentro il rivestimento tagliato oversize che in fase di raffreddamento si aggiusta, corrugandosi, attorno alla sagoma.

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1. Tab.u, di Bruno Rainaldi per Opinion Ciatti, sgabello in alluminio stropicciato a mano. Disponibile in versione oro, bianco e nero, e nella Nuova finitura a specchio. 2. poltrona Luxury Silver disegnata e prodotta da essent’ial, realizzata in cotone grezzo naturale e accoppiata a una lamina d’argento. Le imbottiture possono essere realizzate dal consumatore finale con il recupero di capi tessili dismessi, quotidiani o bottiglie di plastica. 3. sleeve, di silvio stefani e paolo miatto per inside, lampada da soffitto con paralume tubolare in tessuto gommato con cuciture a vista, liberamente piegabile. 4. chippensteel, di oskar zieta per Zieta Prozessdesign, sedia realizzata con ‘fidu technology’: il volume è creato da due fogli utrasottili in acciaio, saldati alle estremità e gonfiati da un getto di aria ad alta pressione. 5. Plopp, di Oskar Zieta per Hay, sgabello in lamiera d’acciaio inossidabile lucidata o verniciata a polveri epossidiche, realizzato con tecnologia fidu. Disponibile in 5 varianti di colore.

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1. Saving Space Vase, di Joe Velluto per Plust Collection, vaso in polietilene a bassa densità stampato in rotazionale che, sottoposto a compressione all’uscita dallo stampo, assume ogni volta forme uniche e irripetibili. 2. Ambar, dalla collezione Nativo di Fernando e Humberto Campana per Corsi, vaso in resina flessibile trasparente accoppiata con pelle naturale reverse. 3. mesh vases, di werner aisslinger, collezione di vasi soffiati a bocca, con interno argentato, realizzata con il laboratorio sperimentale CIAV Meisenthal. 4. coupole, disegnata da tavazzani+kassem per alt luci alternative, lampada a sospensione con diffusore in alicrite string light. 5. structura paper, di Martin Freyer per Rosenthal studio-line, vaso in porcellana finitura matt, da un disegno del 1967. 6. voronoi, disegnato e prodotto da sander mulder, vaso in nylon realizzato in prototipazione rapida.

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1. Diamond cabinet, disegnato e prodotto da Fendi Casa, mobile in legno lucido laccato, con ante effetto Crystal a rilievo e ripiani in legno laccato o vetro temperato. Disponibile in 8 colori.

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2. arctic rock, di jasper van grootel per jspr, collezione di arredi a superficie sfaccettata, in legno massello verniciato glossy, completa di vaso in bone china realizzato da Pol’s Potten. 3. Angolo, di marko macura e ingeborg van uden per covo, pouf in poliuretano con seduta sfaccettata.

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4. tonda, di alessandro mendini per zerodisegno, credenza con frontale decorato a stilemi policromi stropicciati fotografati a luce radente e poi sublimati su alluminio. Edizione limitata di 9 esemplari. 5. pimp my sharpei, pezzo unico creato da massimiliano adami, ottenuto da una sedia sharpei di cappellini rivestita con carta di giornale accoppiata e impregnata di silicone. 6. To be continued, di Julien carretero, tavolino in poliuretano composito, colato manualmente in stampi di polietilene. autoproduzione.

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N. 600 aprile 2010 April 2010 rivista fondata nel 1954 review founded in 1954

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direttore responsabile/editor GILDA BOJARDI bojardi@mondadori.it art director CHRISTOPH RADL caporedattore centrale central editor-in-chief SIMONETTA FIORIO simonetta.fiorio@mondadori.it consulenti editoriali/editorial consultants ANDREA BRANZI ANTONIO CITTERIO MICHELE DE LUCCHI MATTEO VERCELLONI

NELL’IMMAGINE: LO SPECCHIO D’ACQUA E LA PARETE DI ALLUMINIO ONDULATO CHE REINVENTANO LA CORTEGIARDINO DI UN’ELEGANTE DIMORA ART DèCO DI SINGAPORE, PROGETTO DI ONG&ONG. IN THE IMAGE: the reflecting pool and aluminium wall that reinvent the courtyard garden of an elegant Art Deco house in Singapore, project by Ong&Ong. (FOTO DI/FOTO BY DEREK SWALWELL)

Nel prossimo numero 601 in the next issue

Interiors&architecture

Le geografie del progetto, da Singapore a Bruxelles, da Valencia a New York design geography, from Singapore to Brussels, Valencia to New York

INsight

La Triennale a New York

Milan Triennale in New York Il futuro dei sensi/Future senses

Omaggio a Joe Colombo Tribute to Joe Colombo

INdesign

Gli ultimi progetti di Gaetano Pesce

The latest projects of Gaetano Pesce Neo-classico/Neoclassical Home fashion/Home fashion Il verde in una stanza/Greenery in a room Effetto cocooning/Cocooning effect

redazione/editorial staff MADDALENA PADOVANI mpadovan@mondadori.it (vice caporedattore/vice-editor-in-chief) OLIVIA CREMASCOLI cremasc@mondadori.it (caposervizio/senior editor) ANTONELLA BOISI boisi@mondadori.it (vice caposervizio architetture/ architectural vice-editor) KATRIN COSSETA internik@mondadori.it produzione e news/production and news NADIA LIONELLO internin@mondadori.it produzione e sala posa production and photo studio rubriche/features VIRGINIO BRIATORE giovani designer/young designers GERMANO CELANT arte/art CLARA MANTICA sostenibilità/sustainability CRISTINA MOROZZI fashion ANDREA PIRRUCCIO produzione e/production and news DANILO PREMOLI hi-tech e/and contract MATTEO VERCELLONI in libreria/in bookstores ANGELO VILLA cinema TRANSITING@MAC.COM traduzioni/translations grafica/layout MAURA SOLIMAN soliman@mondadori.it SIMONE CASTAGNINI simonec@mondadori.it STEFANIA MONTECCHI internim@mondadori.it SUSANNA MOLLICA SILVIA FRASCA segreteria di redazione editorial secretariat BARBARA BARBIERI barbara.barbieri@mondadori.it ALESSANDRA FOSSATI alessandra.fossati@mondadori.it ADALISA UBOLDI adalisa.uboldi@mondadori.it contributi di/contributors: STEFANO CAGGIANO PATRIZIA CATALANO ANTONELLA GALLI SERGIO PIRRONE ALESSANDRO ROCCA STUDIO RAVAIOLI SILENZI ROSA TESSA LAURA TRALDI fotografi/photographs IWAN BAAN SIMONE BARBERIS AURORA DI GIROLAMO GIACOMO GIANNINI CARLO LAVATORI MAURIZIO MARCATO MATTEO PIAZZA SERGIO PIRRONE EFREM RAIMONDI PIETRO SAVORELLI ENRICO SUÁ UMMARINO HENRY THOREAU PAOLO VECLANI GIONATA XERRA MIRO ZAGNOLI promotion ADRIANA AURELI

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corrispondenti/correspondents Francia: EDITH PAULY edith.pauly@tele2.fr Germania: LUCA IACONELLI radlberlin@t-online.de Giappone: SERGIO PIRRONE utopirro@sergiopirrone.com Gran Bretagna: DAVIDE GIORDANO davide.giordano@zaha-hadid.com Portogallo: MARCO SOUSA SANTOS protodesign@mail.telepac.pt Spagna: CRISTINA GIMENEZ cg@cristinagimenez.com LUCIA PANOZZO luciapanozzo@yahoo.com Svezia: JILL DUFWA jill.dufwa@post.utfors.se Taiwan: CHENG CHUNG YAO yao@autotools.com.tw USA: PAUL WARCHOL pw@warcholphotography.com

ARNOLDO MONDADORI EDITORE 20090 SEGRATE - MILANO INTERNI The magazine of interiors and contemporary design via D. Trentacoste 7 - 20134 Milano tel. +39 02 215631 telefax +39 02 26410847 e-mail: interni@mondadori.it Pubblicazione mensile/monthly review. Registrata al Tribunale di Milano al n° 5 del 10 gennaio1967. PREZZO DI COPERTINA/COVER PRICE INTERNI € 8,00 in Italy PUBBLICITÀ/ADVERTISING Mondadori Pubblicità 20090 Segrate - Milano Pubblicità, Sede Centrale Divisione Living Direttore: Simone Silvestri Responsabile Vendite: Lucie Patruno Coordinamento: Silvia Bianchi Agenti: Ornella Forte, Claudio Bruni, Fulvio Tosi Tel.: 02/75422675 - Fax 02/75423641 www.mondadoripubblicita.com Sedi Esterne: LAZIO/CAMPANIA CD-Media - Carla Dall’Oglio Corso Francia, 165 -00191 Roma Tel.: 06/3340615 - Fax: 06/3336383 email: carla.dalloglio@tiscali.it PIEMONTE/VALLE D’AOSTA Comunication & More Fulvio Tosi - Luigi D’Angelo Via Bologna, 220 - Int.17/13 - 10154 Torino Tel.: 011/8128495 - Fax:011/2875511 email: communication2@mondadori.it TRIVENETO Luciana Giacon Riviera Paleocapa, 54 - 35100 Padova Tel/Fax: 049/8725245 email: luciana@giacon.net EMILIA ROMAGNA/SAN MARINO Universal Italiana - Lucio Guastaroba Via A. Pulega, 7 - 40133 Bologna Tel.: 051/4845749 - Fax: 051/4846394 email: info@universalitaliana.it TOSCANA/UMBRIA Marco Marucci - Gianni Pierattoni Paola Sarti - M.Grazia Vagnetti Piazza Savonarola, 9 - 50132 Firenze Tel.: 055/500951- Fax: 055/577119 email: mondadoripubblicita.fi@mondadori.it ABRUZZO/MOLISE Luigi Gorgoglione Via Ignazio Rozzi, 8 - 64100 Teramo Tel.: 0861/243234 - Fax: 0861/254938 email: monpubte@mondadori.it PUGLIA/BASILICATA Media Time - Carlo Martino Via Diomede Fresa, 2 - 70125 Bari Tel.: 080/5461169 - Fax: 080/5461122 email: monpubba@mondadori.it CALABRIA/SICILIA/SARDEGNA GAP Srl - Giuseppe Amato Via Riccardo Wagner, 5 - 90139 Palermo Tel.: 091/6121416 - Fax: 091/584688 email: monpubpa@mondadori.it ANCONA Annalisa Masi Via Virgilio, 27 - 61100 Pesaro Cell.: 348/8747452 - Fax: 0721/638990 email: amasi@mondadori.it ABBONAMENTI/SUBSCRIPTIONS: Italia annuale: 10 numeri + 3 Annual + 2 Interni OnBoard + Design Index Italy, one year: 10 issues + 3 Annuals + 2 Interni OnBoard + Design Index € 89,50

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Interni aprile 2010

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editorial p. 1 The future of the present has one imperative: less things, more thought. Sociologist, men of culture, the media are all saying it, and above all architects and designers, forced by the recent crisis to rethink modes of renewal and find new directions for research. This is what emerged from Interni Design Thinking (September 2009), and what is discussed in this issue entitled Think Tank, which picks up the concept of the event we produced at the Università degli Studi of Milan on the theme of the near future of design. Now that the Zeroes are over, with all their difficulties, a common need appears to share new values that will add some depth to our lives. To rediscover the essence of things, to become more selective and to focus only on stimulating, thought-provoking experiences. Because in the near future we will be less interesting in possessing, more interested in experiencing and reflecting. This is the shared meaning of the many different projects we present. The works of architecture make reference to precise models of interpretation of contemporary living: the theatrical spirit of Luigi Serafini, the rigorous model of Rodolfo Dordoni, the measured, sober luxury of Lazzarini Pickering, the pursuit of integration with nature of Michel Boucquillon. The design articles range from the latest inventions in the area of production technologies – the machine for ‘printing’ buildings with sand, and the ‘liquid wood’ that replaces plastic in traditional industrial processes – to the most recent projects of the best known international designers, like the domestic windmill by Philippe Starck and the recycled aluminium chair by Tokujin Yoshioka. What emerges is an interest in new everyday qualities, based on the use of all the senses, technology, respect for the environment and for life in general. Because respect can lead to beautiful things. Gilda Bojardi

Events by Interni

Design and the city p. 2 text Matteo Vercelloni Tracing back through the events organized in Milan by Interni during Design Week is an opportunity to gain historical perspective on a phenomenon, the only one of its kind in the world, that makes this city the reference point and engine behind the spread of contemporary design culture. It’s the equation Design=Milan, the formula that can enable us to understand the phenomenon of the FuoriSalone, an event supported by Interni, which since 1990 has been its operative connection. Every year, during the official Salone del mobile at the Fair, the FuoriSalone ‘activates’ the urban landscape and becomes a sort of model that can be repeated in other cities – not just in Europe – extending the concept of design to a type of aesthetic-sociological consumption. The Milanese FuoriSalone, which began in 1990, when the annual September appointment with the Salone del Mobile was moved to April, goes beyond the confines of an institutional fair, generating more cultural interest and experimentation and bringing a festive tone to the whole city. When you talk about the history of Italian design, all roads seem to lead to Milan. Andrea Branzi equates Milanese design with “a civic culture, expression of secular, reformist enlightenment, shared by a large part of a middle class that identified with the elegance of signs, the rigor of forms, but also the logic of good business. The ‘Milan design difference’ is precisely this: to be much more than what the same term might indicate in Rome or Paris”. This may explain in part why the FuoriSalone was born and found fertile ground to grow right here, gradually spreading into all the zones of the city, transformed for one week into display ‘districts’ of great appeal for the ‘design people’ of the Settimana del Design® (Interni registered trademark) who invade and conquer the city. Bringing design culture to a vast audience, reached in a ‘transversal’ way in terms of sociology and communication, seems to be the most important fallout of the FuoriSalone, introducing visitors and passers-by to the ‘design theme’, something they might not otherwise encounter in such a direct, interesting way. Just consider the fact that until the mid-1980s ever bar or cafe in Milan (the ‘design capital’), from the center to the suburbs, was furnished in the same way, with colorful kitsch, fake metal Thonets and corny mirrors, all provided by the same ‘decorator’ companies with standard tastes and catalogues. Today practically all new venues have to be ‘design’, and the picture has certainly improved. This is the context in which to analyze and understand the ‘FuoriSalone’. Design Week in April, at this point, is a unique international appointment, not to be missed, a wide-ranging, spectacular happening that ‘charges up’ the city. The FuoriSalone occupies every available space: from the usual display locations to traditional institutions like museums and galleries, stripped for the occasion to show installations and objects, experimental furnishings, indie production; from ‘found’ settings (garages, warehouses, factories) to familiar monuments that get ‘squatted’ by temporary installations. Design is thus offered in a very direct way, over and above the specific interest of professionals and fans. This positive relationship with the general public is perhaps the factor of greatest impact, the most important change brought about by the FuoriSalone: combining culture, entertainment and business in an appealing, seductive way. Fertile experimentation is conducted in the area of temporary architecture and installations, as the effort to get everyone involved in this festival of design spreads across the city. Interni has led the way with the example of the events the magazine has organized from the 1990s to the present, under the guidance of Gilda Bojardi (winner of the Ambrogino d’Oro in 2008 for these activities). “Design is democratic”, Giorgio Armani said some time ago, comparing fashion shows (open only to invited guests and sector professionals) with the ‘pop’ success of Milan Design Week every spring. The exhibitions produced by Interni have always had the aim of taking design into the streets, with installations, lights, and in many cases with works of ‘microarchitecture’, an encounter between design and architecture, a game of complex, balanced interaction between two disciplines that – just as in the real, working world – tend to combine and blend in a more vast,

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interdisciplinary expression. This way of entering streets, squares and, above all, the historic places of the city – the historical center, with Light Tower (1998), Domestic Landscape (1999) and above all with the constructions of Interni in Piazza (2002); the garden of the Triennale with the permanent works of Open Air Design (2005); the gates of the city with Heavy Light (2006); Castello Sforzesco with Decode Elements (2007); Ca’ Granda of the Università Statale with GreenEnergyDesign (2008) and InterniDesignEnergies (2009) – has meant not only establishing a relationship between existing monumental settings and contemporary creativity, between the history of the city and experimentation, but also underlining the value of works and places we can see every day, but perhaps do not notice in their proper dimension, seeing their true potential and their status as ‘historical documents’. Places that can be experienced not as ‘fossils’ or ‘immobile relics’ but as precious materials, environmental resources to also use for experimentation connected with design culture and the possible action of design, making a contribution toward revitalization of new scenes in the cityscape. Evaluating the activities of the last ten years of the FuoriSalone, we can see the historical growth of a major, coordinated effort in which Interni is the protagonist. Not just an institutional or organizational role, but one that combines efforts supported by manufacturers, entrepreneurs, multi-linear creative talents, to generate a phenomenon that is complementary to, not in conflict with, the official event of the Salone del Mobile, making the city an ideal place of interaction with a widespread culture, making design a factor of reflection, growth and interaction. - Caption pag. 3 Image of Castello Sforzesco, location of the exhibition DecodeElements held in April 2007, with a light installation by Ingo Maurer. - Caption pag. 4 2002: Interni in Piazza. Seven masters of architecture were invited to construct, in strategic points around Milan, a series of temporary microarchitectures. Clockwise, projects by Peter Eisenman, Oscar Tusquets, Bernard Tschumi, Léon Krier. - Caption pag. 5 Three events organized by Interni at the Milan Triennale. 2005: OpenAirDesign. Ten designers make a series of sculpture-objects to permanently furnish the garden of the Triennale. In the photographs, the creations of Gaetano Pesce and Fabio Novembre. 2004: Street Dining Design. 10 kiosks for street food. In the photo, the Biomorphic Café by Karim Azzabi. 2000: Essere Ben Essere. 26 installations on the theme of wellbeing, with overall exhibit design by Atelier Mendini. - Caption pag. 6 2007: DecodeElements, exhibition on the four natural elements of western classical philosophy, at Castello Sforzesco. In the photo, the installation 100 Flames for Reading by Odile Decq with luminous projections by Castagna Ravelli Studio. 2006: HeavyLight. Nine luminous installations at the gates of the city. Clockwise: The Gate of Time by Paul Friedlander at Porta Ticinese; XXX from Milan by Diego Grandi at the Ottagono; projections on the facade of Palazzo Marino; video projects of the Fake Factory at the western Casello of Porta Venezia. - Caption pag. 9 2009: InterniDesignEnergies. Exhibition at Ca’ Granda on design energies. In the photo, the installation Diamante by Michele De Lucchi with Philippe Nigro: the scale model of a small solar power plant developed by Enel powers the six rotating parts. 2008: GreenEnergyDesign. Series of installation based on eco-emotional design, in the cloisters of the Ca’ Granda. In the picture, foreground, detail of the luminous sculpture Ofigea by Jacopo Foggini.

Think Tank

After the masters p. 10 edited by Maddalena Padovani and Laura Traldi introduction by Stefano Maffei Design triggers change through a holistic approach that no longer takes borderlines between disciplines into account. Art, literature, music, cinema… Designers narrate ‘other’ worlds of reference from which they get emotions and inspirations for their work. Maybe to really love someone you have to betray them. To really grow you have to depart, to face the world, to become independent and adult. You have to become yourself. Like Oedipus. Challenging those who raised you. Knocking down boundaries. Breaking the genealogy that links you to your past. Look forward. Look beyond. Get out of the corral. Leave the choir. Like John Cage, Pollock, Warhol. If we put it this way it seems like an act of self-destructive revolt, a stupid, infantile cultural revolution. A deliberate act to erase existing material culture. But all the great masters broke the rules, at least a little bit. They left the path. To find their own. They explored their time but let themselves be influenced by other cultures. The great triad of our design certainly did it. In alphabetical order: Castiglioni, Munari, Sottsass. Now that they’re gone we have to set out on our own. Of course we study them. And remember their greatness. And quote from them. But we have to detach ourselves from their world, while fully using their legacy: which tells us to be free, original, independent, unique. We have to learn to use what we’ve inherited: intelligence and curiosity, the dissonant, irreverent gaze that captures everything we see, learn, touch, experience. Which allowed them to always remain a bit elusive, hard to grasp, in terms of personality, ability, role in the world. We need this attitude now: now that design has truly become that global social phenomenon posited by Tomás Maldonado. But not just inside an elite circuit that sees design as a sign of cultural and social distinction. Design is invading the world. But not just with objects. It’s doing it by widening the territories of the discipline, as in the cases of strategic and service design, or interaction design. The central question is change, not just projects. And if we talk about change we can no longer keep the conversation restricted to designers. Design thinking is invading the world. Not just the world of design. But the world at the intersection of art, society, technology, scientific research, public institutions, corporations. And the relationship between economics and design. It’s a holistic approach. An approach that no longer has to do only with the scale of the individual. An approach that no longer takes the rigid barriers between disciplines into account. So design thinking is a process, close to that basic definition provided by Herbert Simon: “to transform a given situation into a desired situation…”. But adding timely ingredients, translated

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into key words, that make it: “Transparent: complex problems require simple, clear and honest solutions. Inspiring: successful solutions will move people by satisfying their needs, giving meaning to their lives, and raising their hopes and expectations. Transformational: exceptional problems demand exceptional solutions that may be radical and even disruptive. Participatory: effective solutions will be collaborative, inclusive and developed with the people who will use them. Contextual: no solution should be developed or delivered in isolation but should instead recognize the social, physical and information systems it is part of. Sustainable: every solution needs to be robust, responsible and designed with regard to its long-term impact on the environment and society” (from the blog of Tim Brown, CEO of IDEO and new design thinking guru). Business Week is devoting more and more space to this theme of the relationship between innovation, design and business. Many MBA programs in economics are offering courses in which business, design and other disciplines mingle. Once again, Italy was ahead of the game but failed to invest in its potential: the Masters in Strategic Design of Consorzio Poli.Design at the Milan Polytechnic dates back to 1998, followed more recently by the Masters in Business Design at Domus Academy. So what is left for Italian design, which runs the risk of being swept away by this wave? Its job is still to be critical, intelligent and subversive. Going back to the spirit of Radical Design, and of the great masters mentioned above. We need to start with our own little world, which is interesting and different precisely in the context of these major global phenomena if it does not shut itself up in repetitive models, and accepts the challenge of a varied, inconstant, local/global, small or enormous, transdisciplinary, material/immaterial creativity deployed not only by those who call themselves designers. After all, it has always been like that in Italy. Just think of the designer-entrepreneurs, the artisans, the technicians, and all those who have helped Italy to become what it is (and what it is recognized as being) in the field of design, namely a guiding light. Allonsanfan! (Stefano Maffei) Tom Waits by Maarten Baas Tom Waits is the man for me. Everything he does is inspiring to me, and I think I understand what he does over the full range of his giant oeuvre. Even though my work is by far not on that level, I could think of some things which I hope to have in common with him. People try to describe my work, they try to “catch” it and put it in a box, but my work jumps from one side to the other. Probably my work is not made to be described. Waits’ music is not really to be categorized either and it also crosses many fields: from rock to classic, from jazz to pop, from wild experimental to soft ballads, from serious to hilarious. His music, his performances, his videos, his films, his photographs, his personality, his lyrics, his looks: it all comes together, even though the expressions couldn’t be more different from each other. The thing it all seems to have in common is “him”. All his works come from the same mind, which always tries to find new boundaries, new experiments. That’s also in my work: the more I make the less it fits into a certain style, apart from the fact that it comes from me. I think that’s the main starting point to make things which hit the most essential part. Tom Waits absolutely reaches that point, I only can dream of it by trying to follow that recipe... Jonathan Carroll by Alessandra Baldereschi Jonathan Carroll, one of the most visionary writers I know. In his novels reality and fantasy coexist in a new, exceptional way. He writes about worlds where magic is seen as natural, normal. It is hard to narrate a story by Carroll, I can say that the situations, the arguments and the characters described are incredible and surprising, but at the same time they transmit a profound vision of life, there are very precise intuitions about the human condition. I appreciate his work for the fantastic and, at the same time, philosophical component I find there, but above all for this writer’s capacity to mix very different genres like horror, noir, science fiction, alternative realities, 19th-century, etc., obtaining a ‘new genre’ that eludes classification. He says: “In all my books I use a different literary topos”, and every novel is so different from the last that you are surprised to learn it is his. I think his ‘modus operandi’ is close to me because often, in my work, I combine styles from different places and eras: I like to use suggestions from the past together with futuristic visions, materials from the new generation with those that have always existed, magic with everyday things, irony with delicacy, but above all I want to be able, every time, to be the first to get a sense of wonder from the results. As Carroll says: “I dream strange things and make them seem real”. Erwin Wurm by Sam Baron As a inspiring person that is acting nowadays, I will name Erwin Wurm, an Austrian artist born in 1954 in Bruck an der Mur. His training was in sculpture but very quickly he made himself into a photographer and video artist. For me, his installations and photographs are a way to represent life with a strong capacity for observing the world from a different angle. His inspiration comes from everyday objects such as bicycles, brooms, vegetables, balls and chairs. It’s always good to have someone that brings distance to the quotidian and also brings ironic proposals about ways of living in a space, engaging someone with objects, behaving in particular situation. For me as a designer, he is that kind of person, a really good reference point that lets you “relax” with respect to a mass production world, thanks to the absurdity of his comments that undermine a kind of seriousness of the design world. There is always a bit of fragility or unbalanced aspects in the situations he describes through bizarre installations. The absurdity that Wurm is playing with makes you smile and also understand a bit more about human beings. His original vision of life perturbs our habits and functional rules thanks to the slight modifications or “décalages” he includes in his pieces. His serious work is a reference point in contemporary art and has been shown all over the world. His work is based on humanity and the human being and even as an artist, part of the commercial world of galleries, auctions and museums, he comments on politically correct attitudes, criticizing his own domain. His certain sense of humor is a great way to enjoy the daily habits of each of us. He engages viewers of his work cause they can become “sculptures” themselves thanks to the instructions he proposes. “I am interested in everyday life. All the materials that surround me can be useful, as well as the objects, topics involved in contemporary society. My work speaks about the whole entity of a human being: the physical, the spiritual, the psychological and the political”.

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Axel Vervoordt by Alberto Biagetti Last summer I saw a show at Palazzo Fortuny in Venice. It was called In-finitum, from the trilogy In-finitum, Artempo, Academia curated by Mattijs Visser and Axel Vervoordt. Later, I discovered that Axel Vervoordt was also the owner of the works. You could sense that the project had been carefully nurtured, with constant attention. Though the works came from different periods and spaces, there was something that enabled them to coexist naturally, and it was not a question of mere taste. The rhythm was based on art, not time or space, just as the weights of our lives are marked by the emotional importance of things. A few instants, when we are falling in love, can have an infinite weight in our memory. Axel Vervoordt takes care of art. He protects it, shelters it, searches for it, buys it, sells it, positions it. A curator who cures. Vervoordt saves dying things, making them live forever, but without paralyzing them. He waits, watches them mature and change, age, rust, pale and fade. I’ve always looked at art to forget time. Seeing the exhibition, I thought that what I have always tried to do was not that different, though the approach might seem antithetical. Maybe there are two ways to erase time and restore the infinite. The first, as in the case of these works and this old palace, is to make them age infinitely. The second, as in my case, is to not make them ever age. I have designed virtual landscapes, a digital sky that has no time or space; an impossible landscape remains impossible. I have decorated a skeleton making the body live after death, I’ve drawn a left hand far from its body, giving it a tail and a life of its own, I’ve designed magic boxes that infinitely reflect landscapes, I’ve redesigned an old vase, lying it down, I’ve constructed a mirror house that reflecting its environment disappears and its space becomes the entire world, infinite. Finally, the exhibition is put into an impeccable catalogue, where the works are paired like similar souls that meet by chance and discover they are perfect for each other. Here too, time and space are banished, so everything is outside of any conventional scheme. Vervoordt perfectly combines the detail of a Venetian fabric by Mariano Fortuny with a sculpture by Renato Bertelli, the photograph of a cut by Lucio Fontana with that of the back of the same cut. The pages are close to each other thanks to human sensitivity, the sensibility of the intellect and art. Flatz by Markus Benesch Flatz is an Austrian artist who is definitely not following the fashion of the day. I like his body of work because he is a very versatile artist who works as musician, sculptor and mostly performance artist with a very precious tool: his own body. I had an encounter with him three weeks ago and got to know him as a very kind and cheerful person – a real gentleman. Though at first his work seems just the opposite – strong and provocative. Provocative is probably not the right word – direct and strictly to the point is more correct. His art is often like a punch in the stomach, without detours, without anything unnecessary, getting straight to the point. He sends out messages as sharp as blades, with utmost precision aiming at the perceptions of his viewers. I like his messages and how he brings them across. He chooses his own way of communication and leaves the safe path to others. His courage and radicalism make his works very interesting to me. I share his passion for going his own way and pursuing his own goals. As well as his profound ability to study society and reflect on it. Often his works create scandals, but I find it impressive that one can cause such a stir with a single sticker, saying : Fressen Ficken Fernsehen in the colors of the German flag. One of Wolfgang Flatz`s famous quotes is: Mut tut gut! Which means something like: courage is good! I find this very inspiring and also important these days. Lately I’ve realized that people tend to resign themselves, instead of trying out new things or proposing new ways. To me having the courage to go on a journey with yourself in order to discover and find your own personal set of colors, shapes – your unique aesthetic DNA – is essential. Going that way is certainly more painful and harder than going with the flow, or even copying what already exists – but in the end to me it is much more rewarding than anything else. Flatz`s work can be seen in his own museum in Dornbirn, Austria. Marco Ferreri by Marco Ferreri I didn’t know him that well but I knew that for him public opinion was not important. And I knew he liked mandarin oranges. I also knew that in his work, using irony and satire, he had narrated the Catholic church, capitalism, male chauvinists, sex, human solitude, nostalgia, inventing fables of tenderness and cruelty each time. I occasionally hear from him, with a card every Christmas, comments on his work, recorded on the answering machine, or live, on the phone. He also sends me proposals, ideas about stories to tell, meetings for a part, a recommendation. One time he sent the photos of a child, another time he was looking for money, on another occasion he insisted on a meeting. I understood him. I knew that for him telling a story was telling himself a story, challenging himself, finding other paths. Critics thought he was hard to label, but for me he was brilliant. That’s all. Rachel Whiteread by Odoardo Fioravanti In everyday reality interest in this or that stimulus gets consumed with increasing speed. So I think it makes more sense to talk about the latest inspiration, instead of one among many. Today I thought a lot about the work of Rachel Whiteread, who by convention everyone calls a ‘young English artist’. I first encountered her works a few years ago at the Castello di Rivoli: furniture, chairs, wardrobes, filled with cement. I immediately thought Whiteread was looking at reality the way you usually look at a negative, that same reality that for us is the positive of three-dimensional existence. Filling a wardrobe with cement means using it like a cake mould, while giving physical presence to the enclosed empty space. Her works are mostly ‘castings’ of objects or spaces, that exploit material reality as a matrix that modifies space, subtracting its volume. Making a casting of an entire bookcase full of books means creating an otherthan-bookcase; describing empty space in three dimensions – space that therefore ‘isn’t there’ – means measuring how closely it is intertwined with what is there. The space comes to terms with the being-there of the things that shape it by exclusion, by Boolean difference. A revolt of the void against the full that cannot help but make a designer think about production processes, in which we give form to matter through difference. Moulds are outside the object, but they bear its form. Watching a moulding process and seeing the mould open and eject a piece of plastic is a stunning experience.

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For a second, it is no longer clear which is the positive and which the negative: did the chair give form to the mould or did the mould give form to the chair? Mould and moulded object do not resemble each other, but they give each other form, a strange unicum-divided-by-two. Recently the Centre Pompidou acquired the work Room101 by Whiteread, the casting of an entire room filled with plaster, with the gaps left by stucco, objects, etc. This work, and all the output of this artist, remind me that ‘bringing an object into the world’ is a tendentious way of saying it, rooting for the person who makes the object. Instead, every time we construct an object or a work of architecture we should remember that we are actually ‘subtracting it from the world’, stealing a piece of the world’s gentle, delicate emptiness. Wim Delvoye by Diego Grandi It was a period in which I was doing research on cartography in art. I had already examined the big tapestries by Alighiero Boetti, but I felt the need for a shift in time, a different interpretation than the maps embroidered by the artist from Turin in the 1970s. In a column in an Italian weekly that listed current exhibitions, I saw two small images, two postage stamps, reproducing an idea of a map based on a playful geopolitical formula, where the states had the forms of animals and objects. It was an Atlas by Wim Delvoye. That was the shift I was looking for! Later, Wim disguised old gas canisters as precious Delft ceramics; he replaced the net of a soccer goal with a window from a cathedral; he tattooed chickens and pigs; he built an enormous hypertechnological machine that reproduces the functions of our digestive system (with a predictable finale); he showed two ‘gothic betonieres’ in actual size, carved in wood. They say he is the heir to the caustic spirit of Piero Manzoni. I wouldn’t know. What attracts me about Wim Delvoye is the representational short-circuit in every work, based on a recognizable aesthetic image-bank, close to people. Delvoye uses common objects for his installations, charged with meaning through a language close to that of Dada, and direct intervention done with irony and sarcasm. The nonchalance with which he manages to mix and confuse styles, drawing on the past, challenges our certainties and experiences. And I find myself looking for his new works… surprised at being surprised. Daniel Clowes by Giulio Iacchetti Daniel Clowes is an American comic artist born in 1961. I knew nothing about him until my friend Franz Fiorentino made me read David Boring, and I fell in love. I’m not a big fan of comics but whenever one of his comes out I’m one of the first to buy it. I can’t explain this attachment, otherwise I guess it wouldn’t be a passion, would it? I often ask myself what appeals to me in those albums full of hateful, insipid characters, the best of them just mediocre. His stories are dripping with petty reality and a vivid, pitiless gaze at the so-called American civilization. The further you enter Clowes’ world, the more you get the impression that reality imitates his comics, not vice versa. There’s not much to say about his way of drawing: nervous ink strokes of different thicknesses, full color fields, against the backdrop of an America that hasn’t known how to dream for a long time now. What really leaves me breathless is the dialogue. The texts of his comics are dryer than a Raymond Carver story, sharing that merciless, bored sniper’s gaze, watching all kinds of human animals pass through his crosshairs. A desperate human race that expresses itself with words stolen from TV, delicate pearls of wisdom, scripts of grade-D movies, words you could have heard in an Hopper diner, and then forgotten as soon as you’d heard them. In the end, what remains after a close encounter with Daniel Clowes? Maybe the subtle doubt that a bit of us lurks behind the grotesque masks of characters destined to vanish in the space of a comic strip. If the page of a comic becomes a mirror, though a distorting one, it means that those drawings conceal some truth: that’s what I’m looking for. Brian Wilson by Ole Jensen He’s no spring chicken, but always updated. This man’s compositions are worth everything. Simple yet complex. Melodious, though intricate. Carefree and pop on the surface. Full of melancholy and longing underneath. General yet specific in one and the same piece. Making use of the beautiful to evoke longing and finding the beautiful in longing is the quintessence of art. In Brian Wilson’s compositions the immediately recognizable and superficial is not at odds with what lies within. The synthetic is not at odds with the genuine. And vice versa. Extrovert and introvert at one and the same time. Just as in David Lynch’s ‘Wild at Heart’ and ‘Blue Velvet’, one can be attracted by Brian Wilson’s courage and ability to cultivate the beautiful and the harmonious to such an extent that the effect is almost frightening. Beautiful, and tear-jerking too. When I was young, I sensed there was more in The Beach Boys than most people would admit. ‘Break away’, ‘Till I die’, ‘Surf’s Up’, ‘Good Vibrations’, ‘Heroes and Villains’ were all music that made a difference. Early postmodern tendencies, presumably. In my more mature years, Brian Wilson has shown my premonition to be right. ‘Smile’ and ‘That lucky old sun’ make his contribution a resource that is both topical and universal. To be a humble Danish designer and to plead a certain affinity with Brian Wilson’s compositions is, of course, not an objective or measurable truth. Just a profound respect for the ability to sense, shape and send further. No matter the art form. Brian Wilson’s sounds have always offered strength and consolation in my work. Sterling Ruby by Jonathan Olivares Squares, rectangles and rectangular solids – or we could say boxes – have played a prominent role in the art, architecture and design of the last century. Malevich’s Black Square, Walter Gropius and Adolf Meyer’s Faguswerk shoe factory, George Nelson’s storage walls, Donald Judd’s sculptures, Mies van der Rohe’s buildings, Ettore Sottsass’ monolithic bookcases, Richard Sapper’s IBM ThinkPad have all, more or less, been boxes. These are the rare spirited exceptions among the millions of uninspired, lifeless, sterile boxes that surround us everyday. Beige computers, bland corporate architecture, cheap music players and ubiquitous minimalist sofas have collectively spoiled the modern box. The first time I encountered one of Sterling Ruby’s formica boxes was at the home of an art collector in Dallas. I remember it as a perfect white, rectangular volume about the size of a refrigerator, with a few scuffmarks and smears. At first glance I was horrified that some art handler had caused irreparable damage to the otherwise impeccable monolith, but then excitement took hold as I processed this act of wrong-doing and realized that someone had broken the dogmatic modern code that

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tells us the surface of white boxes must be left clean. It was apparent that a new law was in order: a free state where expression and physical engagement topple authority, and order and chaos coexist. In other works Sterling Ruby defaces his formica plinths with colorful spray paint and nail polish. These sculptures evoke an agenda best described by his own poster: FINISH ARCHITECTURE - KILL MINIMALISM - LONG LIVE THE AMORPHOUS LAW. Through his colorful acts of defacing, Sterling Ruby has found a way to breath fresh life into modernism’s cherished boxes, and in turn, he moves beyond them. David Byrne by Lorenzo Palmeri I’ve always found it hard to choose one figure of reference from the infinite range offered by history. I mean, choosing one, because I have so many and they come from all kinds of different fields, often very distant, at least apparently, from the world of design: philosophers, sociologists, researchers... my baker, mystics! They all bring qualities and evidence, it goes without saying, of splendid uniqueness. So for this difficult decision I want to go with a sure thing, naming a person who has been called all kinds of things, from syncretist to son of the future and instead is simply a designer. David Byrne was one of the founders of the Talking Heads, he has written and writes excellent songs, shot interesting and amusing films, founded a record label for world music, before it became a fad, written books, designed a bicycle rack… I think David Byrne is a very curious person, a tireless researcher, an experimenter whose work, even the most complex, always stands out for its elegant lightness. His artistic career, dominated by the musical side, has brought him to and through forms and worlds of all kinds, carefully avoiding facile rhetoric and clichés. I like his way of collaborating with interesting figures while still personally overseeing all the aspects of his projects. Maybe that’s why every project conveys a sense of good craftsmanship, a ‘tasty’ dose of imprecision I’d call human. That’s the point. His work emits the idea of the ‘voyage’, or the attitude of not heading straight for the goal like a bullet, but enjoying the view along the way. A trajectory that becomes even more interesting when the trip happens above all inside you. Olafur Eliasson by Piergiorgio Robino/Nucleo 1 January 2004, I enter the Tate Modern for the first time and remain spellbound by an installation by a Danish artist I knew nothing about at the time: Olafur Eliasson. A gigantic orange setting sun closed in the imposing walls of the former power plant. Amazement gives way to appreciation of Eliasson’s brilliance, the simplicity of the project, the sensation of a sunset that never ends. The illusion of doubled space through skillful use of a mirrored ceiling and a light fog. The force of a single work of 26 x 22 x 155 meters. This is the start of my interest in this artist/designer/architect/photographer who respects places and contexts, who grasps the genius loci, the belonging to cold Denmark, the love of empty spaces he often narrates with his camera. One of the gifts I envy the most is his capacity to involve, to make the viewer a participant in every work. Eliasson’s works are immersive and experiential. From his early pieces like Moss Wall in 1994 – a wall of living moss, an olfactory and visual experience – to Lava Floor – a floor of lava on which to experience the difficulty of walking – to Room for one Color – the force of monochrome light – themes emerge that constantly recur in his work: light, nature, emptiness, illusion. I admire his simplicity, intelligence, continuing experimentation, a bit magician, a bit engineer, capable of inverting the laws of gravity. Some of the themes addressed are close to those developed by Nucleo: for example, continuous experimentation and confrontation with nature, found in our research projects like Terra, the grass chair, or the ice furnishings of Nucleo_Ice, all the way to the very recent Primitive, a collection of furnishings based on elementary geometric figures and primordial, crude objects, volumes with a load-bearing nerve structure, solid and vital materic consistencies. Miquel Barceló by Gabriele Schiavon/Lagranja I have decided to talk about the beheaded goats of this artist, his bulls and bullfights, of “piraguas y negritos agitandose en el rio”, papayas and watercolors of the Mali sketchbooks. Now that I try to do it I realize it’s a really tough job. Every time I have the chance I hurry to see some new work by Miquel Barceló. His work attracts me in a way that is not very cerebral, it’s a magnetism that starts lower, in the gut. Like when a hole in your stomach makes you unconsciously open the refrigerator. When I try to talk about it I can feel myself hovering on the edge of an abyss of banality. So I open one of his African sketchbooks and read: “lejos de los rebaños, pinto” (far from the herds, I paint). At Gao, the poorest city in one of the world’s poorest countries, 50 degrees, amidst dust and “flies as big as doves”, Barceló gathers pieces of wood, ants and scorpions, and paints them. “It’s not much, but what else can be done? I will certainly not make abstract art with triangles and squares, mind you. No sociology or jokes about the future of occidental art. No cynical exercises with a phone in one hand and Art Forum in the other”. For me, Barceló’s painting is one of necessity, an impelling, primordial need. Without the tinsel. Direct, sensual and very beautiful, even when the story it tells is one of fatigue and death. I like him because he does a lot with a little, with simple gestures he transforms things and makes them exceptional. He interests me because he digs deep and spits out a transfigured reality, truer than the one that flows before our distracted gaze. Doraemon by Oki Sato/Nendo I grew up reading Japanese comic books, especially Doraemon, a character that owns many strange products. The objects become the triggers of stories, a process that influenced my way of thinking about design. Doreaemon has been my hero, ever since. Gad Elmaleh by Inga Sempé I think amusing, funny things are never sufficiently appreciated, in fact they are always slightly scorned, as if making people laugh wasn’t difficult or important. This ranking, this hierarchy between the so-called minor and major arts has always existed. Instead, I realize I am often more sensitive precisely to the minor arts. Arts connected with humor, that are not considered for their artistic aspects, but simply for their function as fun. I think levity and humor have their own intrinsic value that should not be underestimated. I am the daughter of a comic artist, I know about the difficulties of a craft based on these aspects, which are part of my basic, everyday culture.

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These are the reasons why I thought about the actor of Moroccan origin Gad Elmaleh as a personality I particularly admire. He is a complete artist, like the great artists of the American musicals used to be. He knows how to write, act, dance and sing with subtle, light elegance. He manages to talk about French society in a delicate, original way. Without being heavy or presumptuous, without complaining. His work is hard to translate and describe because it is based on the French language, on the little details and nuances that define a culture. I can’t say his work is a source of inspiration for me, because we work in two completely different fields, but I certainly prefer to see one of his shows rather than devoting my time to other cultural interests that are considered more noble and praiseworthy. Jonathan Carroll, American writer (1949). When one of his books is published Stephen King is always the first to send congratulations. Jonathan Carroll, from New York, is the other king of fiction that straddles horror and the metaphysical, noir and psycho-narrative. His best-known works include his first novel, The Land of Laughs, and The Panic Hand, a collection of short stories. Wim Delvoye, Belgian artist (1965). They call him the Huckleberry Finn of art. At the Museum of Contemporary Art of Antwerp he installed a machine that made excrement, a gigantic mechanical body that, after being filled with food, “digested” it and gave it back, transformed. Revolutionary, anti-everything, Wim Delvoye decontextualizes, mixes and creates hybrids, because humor and disorientation are the essence of contemporary life, in his view. Daniel Clowes, American comic artist (1961). Talking about Daniel Clowes people often refer to an isolation that began in a troubled childhood, the same situation that reappears in many of the protagonists of his comics. Like those of “Like a Velvet Glove Cast in Iron”, published in Italy in 2009 by Coconino Press, who get lost in a world composed of stimuli based on sex and unbridled consumption. Gad Elmaleh, comic actor from Morocco, resident of France (1971). A recent survey by Journal du Dimanche put him in third place among the public figures loved best by the French, after he was elected, in 2007, as “the funniest person in France”. An actor, musician and comedian of Moroccan origin, Gad Elmaleh is known for his pungent, light style. Famous roles include Coco in 2009 and Hors de prix in 2006. Sterling Ruby, American artist (1972). The artist and critic Sarah Conaway has called him “a serial killer version of Joseph Beuys”. In short, he’s hard to define, because he uses every type of material or approach, from recycling to new creations. Also because Ruby does not create objects but spaces, and every work should be interpreted, as he says, “starting from a different point of view”. He is represented by the gallery Pace Wildenstein of New York. Miquel Barceló, Spanish artist (1957). In his works he mixes ethnographic elements with African primitivism. All with a touch of Parisian glamour. The world of the artist from Majorca is one of imagined and dreamt objects. After all, he says he does not paint them, but works on the space that separates them from one another. The result is a flourishing primitivist universe, made to amaze. David Byrne, musician, from Scotland, American (1952). Leader and founder of the Talking Heads, David Byrne works in the fields of music and art. As a composer, together with Ryuichi Sakamoto and Cong Su, from 1988 to 1999 he won the Golden Globe, the Grammy Award and an Oscar for the soundtrack of The Last Emperor by Bernardo Bertolucci. But Byrne also creates installations, sculptures and paintings, often without a signature. The New York Times noticed, in any case, and published a profile on his work as an artist, not as a musician! Tom Waits, American singer (1949). Critic Daniel Durchholz has said that Tom Waits has a voice that seems “soaked in bourbon, then hung out in a smoky place for a few months, then finally taken outside to get hit by a car”. Trademark of the maudit, especially when the lyrics describe grotesque, often disturbing personalities. All this has made Tom Waits a contemporary music legend. Flatz, Austrian artist (1952). He’s done a bit of everything: sculpture, painting, video, photography, even theater and performance. Among his most recent works, the occupation of a former prison at San Michele di Ripa, where he wanted to experience the life of a prisoner. Together with other artists, he had been invited by the University of Innsbruck to think about the theme of isolation. The adventure cost him a night in jail (a real one!). Apparently during his month of isolation Flatz killed time by making graffiti on the walls. Which, judging by his resumé (including outings at Ars Electronica and Documenta), may be worth their weight in gold some day. Olafur Eliasson, Danish artist (1967). The works he creates in his ‘space research lab’ in Berlin have been shown at the Venice Biennial. Eliasson’s projects, between architecture and art, often involve public space, and focus on ecology. In 2003, for example, with 200 light bulbs, a mirror and smoke machines, he constructed an artificial sun inside the Tate Modern in London, an ode to nature and technology. Rachel Whiteread, English artist (1963). For her sculptures she often uses castings of everyday objects. In this way Whiteread transforms the negative into the positive and makes the object be absorbed by space, becoming an integral part of it. Using polyurethane, resin, plaster and rubber, she creates a world that is simultaneously recognizable (and therefore reassuring) but also sinister and alien. A poetics that made her the first woman artist to win the prestigious Turner Prize. Brian Wilson, American musician, 1942. Symbol of the beach culture of the 1960s. Brain Wilson was the leader and main songwriter of the Beach Boys, as well as their bass and keyboard player, arranger and producer. A well-rounded artist, so much so that the Rock and Roll Hall of Fame calls him “one of the few undeniable geniuses of pop music”, while the magazine Rolling Stone, just two years ago, ranked him at number 52 among the greatest singers of all time. Erwin Wurm, Austrian artist (1954). Famous for his oft-discussed ‘chubby’ cars and houses. But above all for his “one minute sculptures”, living sculptures for which he enlists volunteers by taking out want ads in the newspaper, who are transformed into artworks for sixty seconds. Their job is simple: they interact with everyday objects supplied by the artist. As a result, of his vast production nothing remains except photographs and videos.

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Axel Vervoordt, Belgian interior designer. An avid collector with a past as an art and antiques dealer, Axel Vervoordt is famous for his interiors that mix tradition and modernity. The result is an erudite, precious eclecticism of great success. FlammarionPère Castor has published a fine monograph, edited by Armelle Baron, not coincidentally entitled Timeless Interiors. He lives in a 12th-century castle. Marco Ferreri, Italian director, actor and film writer (1928-1997). His most famous film is La Grande Bouffe (1973), where some friends gather in a villa and indulge in food, drink, sex and friendship until they get ill and kill themselves. His films narrate, in a typically offbeat way, the decadence of a society, and they often end with flight, self-mutilation or the death of the protagonists. In the days of Italian comedies, Ferreri was considered the most countercurrent of all Italian directors. Doraemon, Japanese cartoon (1969). Doraemon is a Japanese manga by Fujiko F. Fujio, later used for a cartoon narrating the adventures of a robot cat from the future. Doraemon is one of the most famous Japanese cartoon characters, and in 2008 was named “ambassador of anime” in the world by the Japanese Minister of Foreign Affairs Masahiko Komura. - Caption pag. 11 Paesaggio_2010 is the title of the installation of moulds cultivated directly on the wall of the Neon>campobase gallery by the artist Laura Renna, for the exhibition ORGANICinorganic held in January. On the facing page, detail of the installation by Laura Renna and portraits of the designers who have narrated their extra-sectorial personalities of reference in this article. Left column, from top: Maarten Baas, Alessandra Baldereschi, Sam Baron, Alberto Biagetti, Marco Ferreri, Odoardo Fioravanti, Diego Grandi, Giulio Iacchetti. Right column, from top: Ole Jensen, Lagranja Design, Oki Sato/Nendo, Nucleo, Jonathan Olivares, Lorenzo Palmeri, Inga Sempé. - Caption pag. 13 Facing page, from left: Tom Waits in a portrait by Michael O’Brian; the cover of “Tu e un quarto” by Jonathan Carroll, Fazi (collana Lain), 2006; Erwin Wurm, House Attack, 2006. Above, Tom Waits in a portrait by Danny Clinch. - Caption pag. 15 From left: page from the catalogue of the exhibition In-finitum, curated by Axel Vervoordt and Mattijs Visser; portrait of the artist Flatz. Below, director Marco Ferreri in an illustration by Anna Maria Dipalma. On the facing page: the exhibition In-finitum at Palazzo Fortuny in Venice, 6 June to 15 November 2009, organized by Fondazione Musei Civici di Venezia and Vervoordt Foundation, curated by Axel Vervoordt and Mattijs Visser. - Caption pag. 17 Lick 1, photo by Wim Delvoye, C-Print on aluminium. Limited edition of six. Facing page, from left: work by Rachel Whiteread from the book C. Mullins, Rachel Whiteread, Tate Publishing, London 2004, photo Anthony d’Offay; Wim Delvoye, Dump Truck, laser-cut Cor-Ten steel, at the Scolacium archaeological park in Catanzaro; plate from the graphic novel by Daniel Clowes “Like a Velvet Glove Cast in Iron”, copyright for Italian edition 2009 Coconino Press. - Caption pag. 19 From left: Brian Wilson in a portrait by Guy Webster; Sterling Ruby, Acts/Blank, 2009, sculpture in painted formica, plastic and wood, photo Robert Wedemeyer © Sterling Ruby, courtesy PaceWildenstein, New York; portrait of David Byrne. Facing page: David Byrne in a portrait by Chris Buck. - Caption pag. 20 Upper left: Olafur Eliasson, Weather Project at the Turbine Hall of the Tate Modern in London, 2003 (photo Jens Ziehe); Miquel Barceló, Vegap, mixed media on canvas, 2009 (photo Agustí Torres); portrait of the comic actor Gad Elmaleh. Below, the Japanese cult cartoon Doraemon.

INteriors&architecture Domus Seraphiniana p. 22 project Luigi Serafini photos and text Aurora Di Girolamo Rome. A 16th-century palazzo near the Pantheon is the home of Luigi Serafini, a singularly eclectic artist who produces surprising works of spectacular talent. His home is a true portrait, entrusted to those who interpret it and document it in photographs. PROLOGUE: Painter, sculptor, architect, designer, writer, Luigi Serafini (Rome, 1949) is above all “an ironic traveler in the territories of the unconscious”. He is internationally renowned, above all for the Codex Seraphinianus, a book-encyclopedia with over a thousand drawings accompanied by writing that cannot be deciphered. This is a fantastic, visionary interpretation of the widest range of materials, from zoology to botany, mineralogy to ethnography, technology to architecture, which attracted the attention of Roland Barthes, Italo Calvino and Federico Zeri, among others. It was published in 1981 by Franco Maria Ricci and has had eight editions, until the present one issued by Rizzoli. Set designer at La Scala, creator of television intros, consultant to Fellini for La Voce della Luna, designer in the 1980s for Memphis, Artemide, Sawaya & Moroni, in 2007 Serafini had a retrospective exhibition at PAC in Milan entitled Luna-Pac Serafini, with almost 11,000 visitors in little more than 30 days. Recently he has published, with BUR-Rizzoli, a reinterpretation of the National Histories of Jules Renard, as an imaginary herbarium. Lu-i-gi : “a big deer”, the Chinese meaning of his name. Nomen omen, as the Romans said, and from the windows that overlook Sant’Eustachio you can see the profile of the head of a deer at the top of the church, a reference to the story of a miracle attributed to the saint. The home-studio of Luigi Serafini opens like a diaphragm, and like an encyclopedia it can be browsed by curious, stunned guests on a fantastic voyage. Inside this sort of Wunderkammer the artist’s creations take form: he is a painter, sculptor, designer, set designer, architect, calligrapher and writer. With levity, Serafini breaks down and reorganizes, in domestic space, the objects he has redesigned, sculpted, repainted, constructing a constantly changing emotional path of memory in his Domus Seraphiniana. In the red and black entrance the light reveals large canvases and sculptures on wheels. The house continues along a circular route. From the entrance we reach a dividing point, leading to the study and the corridor to the kitchen. Between the colored walls of the corridor, with optical linoleum flooring, we encounter a passage topped by a white wooden vault from which little sculpted faces emerge, with different expressions. The narrow walls feature another oil on canvas, with suspended figures, and some drawings. Heading for the study, the bookcases with

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horizontal red and white stripes stand along the corridor, and from the heights of the library packed with volumes a fairytale deer looks down on the space dominated by colors, together with the totemic figure in the form of a red ring known as King Botto. This is where Serafini works at the computer to make the images for the Natural Histories of Jules Renard. From here we can glimpse the large sculpture of the yellow hand that protrudes from the wall of the atelier. In this luminous metropolitan highland, the Seraphinian nest of midnight blue walls, alphabets are tamed to adapt to fantasy, in the genesis of Codex-like worlds. Luigi captures the thronging images on canvas or paper, in the midst of many notes and sketches on a big work table with zebra-stripe legs. The orderly vitrines of the blue cabinet contain all kinds of pastels, pencils, cardboard, mannequins, brushes, oil paints and watercolors. On the big red chest of drawers two nativity scenes are displayed under glass bells, and on the wall nearby neon glows with a letter from his mysterious alphabet. Over the colored fireplace, like a trophy, the head of a large silvery deer has antlers that light up, while two colored chairs create a convivial atmosphere. Serafini can be seen in a portrait on a large panel in the guise of a knight with 15th-century armor, urging us on to the large kitchen in the company of a green crocodile. On the column refrigerator there is an old caned chair painted gray, a memorial of his beloved grandmother. Back down the optical corridor and we’ve come full circle, proceeding amidst lights and shadows back to the entrance. - Caption pag. 23 In the living room or room of contrasts, around the circular mirror-top table, a seat in red capitonné velvet and a painted plaster sculpture of a dog, waiting silently on the floor. Two nativity scenes inside transparent vitrines enrich the range of objects of affection and exception of Serafini. On the facing page: other details of Serafini’s domestic landscape, from the wall clock in wood with decorative appendices to the antique lathed chairs, painted white. - Caption pag. 25 Above: the atelier. In the foreground, the Santa chair designed by Luigi Serafini for Sawaya & Moroni. Detail of the head-trophy of a large silvery deer with luminous antlers over the fireplace. On the facing page: the atelier with a midnight blue wall, featuring a quote from the baroque poet G.B. Guarini. Behind the work table with zebra-stripe legs, we can glimpse the living area and the Blow chair in transparent inflatable plastic, designed by De Pas-D’Urbino-Lomazzi for Zanotta in 1967. View of the corridor with the optical linoleum flooring, that functions as a visual axis and connection for the spaces. Two beetles painted on small ‘secret’ doors stand out in the final part of the passage. The large sculpture of a yellow hand extending from a wall in the atelier. - Caption pag. 26 In the entrance, marked by precise red and black coloring, large canvases and sculptures on wheels welcome visitors to the emotional itinerary of the rooms. In the foreground, the totemic figure in the form of a red ring known as King Botto. Luigi Serafini working at the computer to develop images for the Natural Histories of Jules Renard. Facing page: along the corridor to the study, full-height bookcases with red and white horizontal stripes contain a huge collection of books. - Caption pag. 29 Around the circular table, a custom piece with veneer and aniline finish, the Suspiral chairs designed by Serafini for Sawaya & Moroni. Facing page: Serafini, portrayed on a large panel in the guise of a knight in 15th-century armor, welcomes us to the large, convivial kitchen.

Rigor and new luxury p. 30 project Lazzarini Pickering Architetti collaborators Barbara Fragale, Simone Lorenzoni, Filippo Pernisco, Arianna Vivenzio local architect Sopha Architectes photos Matteo Piazza text Antonella Boisi In the heart of the Ville Lumière, a totally custom-made interior created for a new Sun King who wants a Parisian flat of the third millennium, with lots of boiseries and furnishings that seem like gold nuggets. In the era of the liquid society, as sociologist Zygmunt Bauman calls it, the ‘thought of the hand’ that guides the encounter of tradition and the contemporary in architecture can lead to truly surprising results. Especially when the dualism appears in an existing context of solid values, historical roots, deep perspectives and novelty that becomes a synonym for rigorous intervention, a coherent new luxury that expresses new aesthetic and functional needs. Just observe this Parisian interior reworked by Claudio Lazzarini and Carl Pickering for an international globetrotter with a passion for collecting Fifties vases in Murano glass. A place with a strong identity, 360 m2, very close to the Tour Eiffel, the new Musée du Quai Branly by Jean Nouvel and the Pont de l’Alma, in the 16th arrondissement. A large, traditional apartment from the early 1900s, formed by a sequence of rooms, with views of the Seine, inside a regular L-shaped layout. “It was conceived” says Carl Pickering, Australian partner of Claudio Lazzarini, a professional partnership that has continued, by now, for three decades, “as a site-specific portrait, an artwork in progress, where the client has the possibility of intervening, not just as a spectator, in the overall space of his pied-à-terre, a succession of the entrance, living room, studio, dining room, kitchen, bedroom, guestroom and bath”. As in the product design by the Rome-based studio, the dialogue with history is resolved in terms of compositional synthesis that restores dimensions of dematerialization to architecture, with fluidity, flexibility, lightness, visual continuity. The rooms get a ‘second life’ thanks to the grafting of a modernist grid of white, black and gold, a tribute to the archetypal colors of Paris. “But there has been no intervention by a decorateur” Lazzarini explains. “We imagined a Parisian apartment for the third millennium that reinterprets the traditional theme of the oak boiserie, giving it a new meaning inside an origami-like construction that lends itself to infinite configurations. We ‘dissected’ many classic boiseries, studying the relationships of scale, the lines, heights and forms, to define the right proportions for these spaces”. The first sign of reference is in the hall: a phantom-wall shifted into the figure of a skeleton in white metal on which to graft a series of gilded display boxes, open to light and direct visual communication with the living area. A suspended figure, a symbolic portal like a tribute to the frames of Sol Lewitt, extended in the living room by a white boiserie cut by lines, niches in honeycomb aluminium finished with gold

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leaf, shelves and panels that can be opened with shiny black lacquer inner surfaces and glass on the outside. One of them, on the shorter wall, even conceals the presence of a fireplace. The theatrical setting is also created by the presence of a carbon fiber table finished with gold leaf, custom made at a shipyard, which can vary its form for different functions and desires. It is composed of four ovals and three connections that also act as small independent consoles that form a sort of sinuous gold drop from the living room to the dining room and the kitchen, where they meet the work counter. While Parisian colors are found in the chromatic pattern and the new natural oak flooring is based on traditional French parquet, the lighting from essential fixtures built into the architectural structure brings out the suspended web of the compositional lines. The unconventional approach is fully legible in the main bathroom, where the protagonist is a single monolith of soft-touch surfaces, a giant ‘seashell’ of resin covered with the gold leaf leitmotiv, containing all the equipment for everyday use (from the tub to the washstand, toilet and bidet). It is surrounded by a series of vertical glass partitions, some of them mobile, to border the various functions, including the shower with hammam. While all that glitters may not be gold, this strange, sparkling nugget seems to promise extraordinary special effects without searching too far afield. - Caption pag. 30 Above, variable compositions of the white wood boiserie in the living area, with gilded niches and openings that show the compartments, in black lacquer. The entrance area with the ‘phantom wall’, the modernist white and gold grid that is a tribute to the frames of Sol Lewitt, underscoring the new open, ethereal layout of this traditional apartment from the early 1900s. - Caption pag. 33 In the living area, illuminated by the entirely fenestrated wall that offers views of the Tour Eiffel and the Seine, all the custom fixed furnishings have been made by Monti di Rovello, the general contractor. The lighting fixtures built into the architectural structure are the Secret model by Kreon. The carbon fiber tables finished with gold leaf are one-offs made in a shipyard. The tables are formed by a series of irregular ovals on which to attach connectors that can rotate to generate an infinite variety of forms and configurations. - Caption pag. 34 View of the kitchen, entirely custom made and equipped with Gaggenau appliances. The antique-effect wood floor is new. The bath-block takes on the unusual form of a dynamic ‘nugget’ in carbon fiber covered with gold leaf, to contain all the functional fixtures, with gold Vola faucets.

Material polyphony p. 36 project Dordoni Architetti, Rodolfo Dordoni-Luca Zaniboni with Sara Masotti, Benedetta Papa, Giovanna Vallardi, Silvia Vergani photos Pietro Savorelli text Francesco Vertunni At Crans Montana, a resort in French-speaking Switzerland, a domestic interior that detaches itself from the architectural enclosure in terms of its figure and design intent. A welcoming vacation home of elegant simplicity, marked by a refined choice of materials that reflect the world of mountain living, reinvented in terms of analogies and contemporary signs. The building, one of the many vacation condos that multiply the scale of the traditional Alpine chalet, with balconies featuring the same perforated balustrades in wood, and the usual red geraniums in window boxes, has been intentionally ignored in this contemporary interior design. The cloying, reassuring postcard image of most of the real estate ventures here is replaced, in this apartment, by reflection that could be extended to architecture as a whole in terms of lucid reasoning and general guidelines. Delivered in a rustic state, without partitions or finishings, the space of the house made it possible to work in total freedom. The idea was to create an independent, complete environment, in open contrast with the figure of the building seen from the outside. The house has been divided into two zones connected at the north and south, separated by the entrance path clad in gray stone, contained by walls covered with recycled oak planks, with a horizontal design that already announces the strong materic aspect of the spaces from the threshold. The choices of materials tend to underscore the entire philosophy of the project, based on a sort of reinvention of local atmospheres dictated by the sincere simplicity of the ‘mountain home’ belonging to a historical and domestic tradition of long standing. Wood, first of all, in oak for the southern part of the house containing the master bedroom with its own bath, clad in walnut colored Travertine, and the large kitchen and dining area, extended in a relaxation area with a bow window, separated from the living area by a metal volume that contains a large double-face fireplace and forms a large portal in iron and burnished bronze. The metal is a reminder of ancient doors dense with studs and details in handcrafted hardware, and repeats in the entrance, thanks to sheet metal that produces reflections of light in the central corridor. Certain portions of the custom wall shelving alternate with a series of alpacca panels of variable geometry, arranged in a modular grid. Paler, more luminous larch wood is used for the northern zone, containing two large bedrooms and a small study. Here the larch marks the entire space, at times, rising from the floor to the walls and ceiling, to construct a sort of total, monomateric environment where even the bathtub, in a glazed box, is covered with the same material. The long wood planks used in most of the house underline the regular character of the form of the rooms in the overall layout, with a slight digression only in the design of the floor of the living room, which follows the classic Versailles motif. The value of handiwork also becomes a part of the overall design approach: for example, in the use of colored craquelé tiles (red and petroleum) in the baths of the northern zone, or the use of natural lime stucco, and the careful craftsmanship of the custom furnishings that establish a dialogue with antique solid wood chairs from the local tradition, a figurative and functional fragment of the Alpine world, part of a materic polyphony transposed in a residential key. - Caption pag. 36 A long portal in iron and burnished bronze crosses and links the spaces of the living room and kitchen. The fireplace set into the metal volume becomes the focal point of symbolic communication between the spaces. In the living area the oak of the panels is used to reproduce a floor design using a ‘Versailles’ motif. Divans by Minotti, fabrics by Loro Piana, built-in lighting by Viabizzuno. - Caption pag. 38 In the kitchen and

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dining room the warm tones are countered by the use of steel and gray Cardoso stone for the floors. Kitchen by Bulthaup, antiques from Antiquités Bonvin-Barras. In the heterogeneous family of materials, the polished iron sheet between the kitchen and the living room, with its soft reflections of light, forms a contrast with the recycled oak panels that clad the central nucleus of the furnishings like a ribbon. - Caption pag. 40 Wood reappears, this time as aged oak for the walls and sliding doors of the southern part of the house, containing the master bedroom and its bath clad in walnut Travertine. Walls and ceilings in lime plaster. - Caption pag. 41 The small study in the northern part features paler, more luminous larch wood for the furnishings, floor and some of the walls. Lamp by Flos, seat by Vitra. The use of a single warm material, Siberian larch, also characterizes the enclosure of the two bedrooms in the northern zone. Large, austere and linear, this area is marked by the spatial and visual continuum of the bedroom zone, bath and closet. In the bath, facings in glazed terracotta by Diemme/Domenico Mori.

The house in the rock p. 42 project Michel & Donia Boucquillon photos Pietro Savorelli text Matteo Vercelloni The Boucquillon house on the hills near Lucca, in the Tuscan countryside. The new home-studio of Michel, an architect and designer working for leaders in this sector, and Donia, architect, sculptor and painter, is a dwelling that exists in continuity with nature. Olive trees, stone, white marble are the characteristic elements of the landscape of the hill on which the house stands, a place for work and everyday life, far from the noisy city. But this ‘back to nature’ doesn’t involve the rediscovery of vernacular architecture and bucolic tastes, avoiding contemporary reality and the burden of being modern. Instead, it operates in the present, both in terms of environmental issues, including optimization of energy sources (total self-sufficiency, including collection of rain water, the use of a heat pump, solar panels), and in finding a delicate solution to construction in a natural setting. The clear, almost programmatic approach avoids facile imitation, yet blends into the landscape. The project met with the interest and support of the City of Lucca and the local authorities. The shape of the hill, the layering of rises and portions of white marble together with the green of the olive trees and the native brush, suggested flanking the existing, seriously damaged structure with an extension of living space added to the house proper, placed between large terraces faced by the work space. The terraces reinterpret, transforming their figure and size, the agricultural terraces of the past, making the insertion of the new construction more harmonious. This approach already shifts the project to the necessary landscape scale, where the architecture is not seen as an ‘a priori’ to insert, but as a contribution to the redesign of a part of the hill. In these terms the choice of a single material like white marble, used for the external facings of the entire construction, becomes a factor of continuity with the rock, the very material on which the house stands, becoming a sort of architectural extension that transforms the materic geography of the place. Without camouflage or disguise, the house uses its compositional process to assert its open, sincere modernity. The new residential volume follows the proportions of its predecessor, with a pitched roof, marking the downhill facade with a few openings organized in an irregular way that functions for the interiors, and thus guaranteeing perception of the main facade as a figure in stone, linked to the same treatment of the embankment walls of the lateral terraces and of the lower curved volume of the studio. On the two lateral facades (the back is placed up against the hill), the house opens with large sliding glazings, mingling outdoor space with the large living area and clearly configuring the contrasts of full and empty zones, the rhythm between the marble of the downhill facade, the transparency of the interior spaces, the stone of the hillside. The latter becomes the protagonist of the spaces, brought inside as a natural backdrop behind the kitchen open to the dining and living areas, and in two bedrooms and a bath on the upper level. The relationship with the rock is direct and emphasized by the linear design of the spaces, by the furnishings utilized, by the geometric treatment of the internal surfaces, in a relationship of intentional contrast with the materic character of the hill. On the ground floor two compositional elements characterize the space: the wall of the fireplace (with dual, active-passive heat recovery) contains the TV screen and a lateral window in its diagonal opening, almost a ‘painting’ that frames the countryside, changing color with the changing seasons; the volume of the spiral staircase treated as a sculptural feature, perforated by circular openings and laden with abstract values, both due to its isolated presence in the unified space of the living room, and for the poppy color of its interior, another echo of the tones found outside at certain times of year. The staircase rises through two levels in a free, open space that underscores its size and role as a central element. The heart of the house in figurative and connective terms. On the upper level the master bedroom occupies the end zone with its own bath and closet, while three other bedrooms area arranged along a central corridor that concludes with a common bathroom. In the entire nighttime area, in the summer, the house can be opened for a view of the stars: the roof rises, like the wings of a butterfly, hinged on the central peak, to let the air provide natural cooling, transforming an environmental optimization mechanism into a ‘poetic device’ on a domestic scale. - Caption pag. 43 Facing page: the desire to erase the boundaries between the house and nature can be fully perceived in the exterior view of the construction by Arvo. The waterproofing was done by Rubber. Outdoor lighting: Nord Light by Artemide. The complex follows the form of the hill. The reconstructed existing volume extends in the new volume of the work space that opens to the large terrace. The downhill facade is marked by a few openings, with the main surface in stone, like the embankment walls of the lateral terraces. The stone of the hill becomes the protagonist of the interiors, as a natural backdrop for the kitchen, open to the dining and living areas, and in two bedrooms and a bath on the first floor. In the foreground, the Flap divan designed by Francesco Binfaré in 2000 for Edra, in the white leather version. - Caption pag. 44 The wall of the fireplace has a horizontal cut that contains the TV screen and a window like a painting. Ceiling lamps from the

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Picto and Rastaf series by Artemide. Fractal dining table by Piero Lissoni for Porro, and Regista chairs by Michel Boucquillon for Serralunga. The sculptures are by Niki De St Phalle and Donia Maaoui, the wife of Michel Boucquillon. The kitchen is composed of a white counter that includes a Foster by Alessi range with downward exhaust. The rest of the equipment is hidden behind three sliding doors. The secondary staircase descends to the basement and gets its light from the living area. The landing is bordered by a series of small tables that form an exceptional metal railing, custom-designed. The main staircase is a spiral, treated as a sculptural feature marked by circular openings, with a bright poppy color on the inside. It extends through two levels in a free two-storey space. The resin for the floor is produced by Teknai. - Caption pag. 46 The master bedroom forms a whole with the fitness room and bath. In the foreground, Meteor bedside table by Arik Levy for Serralunga and Egle lamp by Michel Boucquillon for Artemide. In the relaxation area, Voido rocking chair by Ron Arad for Magis and a painting by Donia Boucquillon. In the bathrooms, tubs, washstands and accessories all designed by Michel Boucquillon. In the parents’ bath, the washstand and tub are part of the Strip collection in Cristalplant by Aquamass (Design Plus prize, 2005), while the accessories are from the Strict series by Valli Arredobagno. Facing page, the children’s bath on the upper level. Washstands and tub by Aquamass, accessories from the Worn collection and applique lamps from the Ecco-Ecco series by Valli Arredobagno. In all the baths, Love Me faucets by Maurizio Duranti for IB Rubinetterie.

The wave of the lake p. 48 project Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa /SANAA photos and text Sergio Pirrone In Lausanne, the studio SANAA designs the Rolex Learning Center for EPFL (Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne). The two Japanese architects invent a multidisciplinary, multicentric space, an artificial park for learning. “I have a dream, of returning to youth. As a student, I would have loved to spend time inside this special architecture. It is a place totally devoted to young people, in which they not only study but also live”. Patrick Aebischer, president of EPFL strolls around the Rolex Learning Center and talks about how creativity is the factor that unites art and science, and how this new architectural icon embodies that ambition. Lake Geneva is close by, to the south, beyond the houses and gardens. The best technological research center in Europe and a desire to excel prompted the Swiss government and private investors, guided by Rolex, to hold an international architecture competition, leading to the latest masterpiece by SANAA. Kazuyo Sejima and Ryue Nishizawa have bare, essential gestures and features. They are icons, themselves, of a new way of designing, of thinking about space in movement, of living without any black lines that tell you where to stand, whether you are inside or outside, together with others or simply alone. Amidst the light transparencies and reflections of green leaves on rounded surfaces of glass and resin, diaphanous, dazzled by the absolute white of volumes without the sun’s rays, they imagined a park. “It’s a space that helps to communicate. Actively, it encourages students to choose. Where to go, where and what to study, whether to concentrate in silence or join groups of other students”. The square plan, 20,000 sq meters amidst hills, valleys and slopes, runs fluidly in two parallel waves, the concrete floor and the steel roof, undulating the functional program around 14 air bubbles. Entirely glazed courtyards, irregular ellipses, cross the space with the delicacy of breath. Without ever dividing it, they unite earth, air and sky, gazing horizontally at internal paths, those that descend diagonally and wind through other, adjacent cylinders. The multimedia library with 500,000 volumes, the study rooms for 860 persons, the auditorium for 600, the three refreshment zones for 250, the offices, all share a world that is both democratic and anarchic, public and private. Walls are not needed, here the presence of others can only be glimpsed, perceived. On the crest of a wave or at the back of a rise you can see legs and heads slide between borders of horizontal planes, while slender steel columns serve as props. They remind us that this new architectural domain is a structural gem ordered by two shells resting on 11 arches with spans of 30-90 meters. The frame in steel and wood set in cement forms its contours with the shadows of the day. Under the curved intrados someone talks about the previous evening, at the center of the main courtyard lit by a zenithal iris; on the meadow someone else is eating. We think how nice it would have been to get an education on the shores of Lake Geneva. Is the future now? For Kazuyo Sejima – the first woman architect to be invited, by the president Paolo Baratta, to direct the 12th Venice Architecture Biennial (29 Aug/21 Nov 2010) – answering this question means first of all talking about the theme “People meet architecture”. That’s the title she has chosen to explain that architecture helps us to become civilization, to organize the spaces in which we live, to adapt them, to clarify new values and lifestyles in the 20th century. But there’s more. In her works, construction is always closely related to use by people – students and young people, in the case of the Rolex Learning Center – without aspects of self-referential posturing. The recent work in Lausanne could become the manifesto of a mood, a wider-ranging indication. She offered a preview of this at the press conference, narrating the program of her Venice Biennial: “My design approach attempts to trace the boundaries between in and out, we and you, with nature as the protagonist, but tamed. I have invited the architects who will take part in the event (Luca Molinari will be responsible for the Italian Pavilion, ed.) to be their own curators or, more precisely, to curate a space in a creative way. I’m not interested in having them just bring models or photos to show. Because the important thing is to communicate how ideas are developed and contextualized with respect to the environment and to the observer-user, who becomes an active part of the design work. I don’t believe that contemporary architecture can modify, as happened in the past, large segments of the city, or lend itself to the implementation of true master plans. But it can start with small things, and this too has its value. Even knocking down a wall can change the way people relate to each other. Even the redesigning of a bus-stop shelter can influence the way people sit and interact”. - Caption pag. 49 Above, exterior view

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of the northern facade, toward Lake Geneva. On the facing page, detail of the steel roof, looking west. View of the courtyard in the form of an hourglass, adjacent to the restaurant zone. - Caption pag. 50 Interior view of the main entrance of the Rolex Learning Center with the circular counter in the foreground. View of the library, with the rises that lead to the northwestern top of the building in the background. Facing page: the courtyard beside the area for the antique book collection. The ramp leading to the multimedia library. - Caption pag. 53 Above, the ‘rise’ that connects the refreshment zone to the auditorium, toward the western side. The seating features the Ant model designed by Arne Jacobsen in 1952 for the Danish company Fritz Hansen. Facing page: view of the ramp at the southeastern end, next to the main courtyard.

INsight INtoday

Vitra, the campus of miracles p. 54 photos Iwan Baan text Alessandro Rocca The spatial feats of Herzog & de Meuron, the latest addition to the architecture collection of Rolf Fehlbaum, is the new visual focus of the Vitra campus. The “rising city” of Herzog & de Meuron is formed by a stack of simple volumes, long narrow houses with pitched roofs in an apparently random arrangement. The archetype of the house indicates a return to figuration, which Jacques Herzog says “becomes interesting today precisely in relation, and in contrast, to the proliferation of computer-generated images that tend to exhaust our imaginative capacity”. Uniform anthracite stucco covers the sides while the short facades are completely fenestrated, like big eyes gazing at the landscape in different directions. Inside, the building displays the Home Collection of Vitra: the historic editions of the Eameses, George Nelson, Jean Prouvé and Isamu Noguchi, and more recent pieces, as well as the office, home and public space collections, and research on new colors that can now be seen at the new website, www.vitra. com/vitrahaus. On the five levels of the new complex the spaces flooded with light are very flexible to contain a wide range of exhibits, while the innermost part is crossed by a continuous vertical space that offers, from one level to the next, varying views and perspectives. At the end of the descending visit itinerary one returns to the reception area, with a restaurant and shop, and the covered plaza with wooden deck flooring. The Vitrahaus successfully combines opposing needs, becoming a landmark that indicates the presence of the campus from afar, while developing a complex, interesting relationship with the other buildings and the landscape of gentle hills. At the same time it enhances the pieces in the collection, projecting them against the backdrop of vineyards and springtime expanses of flowering cherry trees. “If you walk through the various parts of the building” Jacques Herzog tells us, “it’s incredible how forceful the landscape is, with an unexpected variety of images and atmospheres. The building is like an optical device that makes the experience of being in a place visible, a place where different nations and landscapes meet (Germany, Switzerland and France), with the Black Forest to the north, the plains of Basel to the south, the Rhine valley and the Vosges to the west”. Vitrahaus is also an observation point for the other buildings of the campus, by contemporary masters like Zaha Hadid, Tadao Ando, Alvaro Siza, Nicholas Grimshaw, with a geodesic dome by Buckminster Fuller, a delightful service station from the Fifties by Jean Prouvé, and a canopy by Jasper Morrison. We asked Rolf Fehlbaum, the owner, if Vitrahaus is the completion of the campus, and find out that: “in a few months we’ll be opening a new industrial building by Sanaa-Kazuyo Sejima, and we are know working on a project by Alejandro Aravena for a training facility, and for the workshops that have already been going on for some time, especially in collaboration with local schools”. - Caption pag. 55 The large windows project the images of the Home Collection toward the outdoors, and bring the surrounding landscape into the building. The entrance opens onto a covered plaza, with wooden flooring, that reveals the complex geometry of the building, a three-dimensional labyrinth. Five storeys, over 4000 sq meters, mostly for the display of the Vitra Home Collection, completed by service areas for visitors: reception, bar-restaurant, business lounge and design shop. - Caption pag. 56 The covered plaza faced by the reception, the business lounge and the small showcase building, apparently deformed by the pressure of the volumes above. The entire complex is formed by the sum of an element that, from the outside, simulates the archetypal form of the house. Inside, the design reproduces the spatial situation of a metropolitan loft. - Caption pag. 57 The visit itinerary descends from the top floor down, an architectural promenade with unexpected views and perspectives on spaces flooded with light. A voyage through the historical memory, current production and research of Vitra design. - Caption pag. 59 The Vitra production shown in carefully created displays, including classics by Charles & Ray Eames, George Nelson, Isamu Noguchi, Jean Prouvé and Verner Panton, and the contemporary design of Maarten Van Severen, Ronan & Erwan Bouroullec, Antonio Citterio, Hella Jongerius, Jasper Morrison and others.

New stone age p. 60 text Stefano Caggiano Enrico Dini, a Tuscan engineer used to breathing an air of courage and innovation since childhood, has made a dream come true: his D-Shape construction system makes it possible to mould houses and objects from stone through the solidification of sand guided by a CAD file. An innovative process that breaks up the grammar of architecture and destroys another one of the few remaining limits on design. The ambiguity at the core of design is the same one found in the concept of form, always balanced between the world of ideas and the world of things. This may not have been on Enrico Dini’s mind 40 years ago when he played with sand castles on the beach, but it is the same thing he does

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today, in a shed near Pontedera, near Pisa: he liberates form from matter, transforming the sand of dreams into houses and solid stone. It is not just a figure of speech: D-Shape, the technology invented by Dini, uses the same logic as rapid prototyping to quickly, automatically make structures of any form and size, from a chaise longue to a whole building, using sand as its basic material, solidified by a special inorganic ecocompatible binder. The ‘moulder’ in this case is an aluminium structure, 6x6 m, that can be raised to 12 meters in height, that executes the design by depositing the binder layer by layer on a bed of sand. At the end of the solidification, the excess grains are removed, letting the structure emerge as from an archaeological dig. But what is revealed is not the past, it’s the future. The materials used in architecture today (reinforced concrete and masonry) are costly, and constrain the project due to lack of flexibility: for 150 years not, such limits have defined the specifications of the modern architectural medium. With D-Shape a new grammar appears, made of concave and convex forms, hollow and porous, that can support with the same ease (i.e. the same construction costs, thirty percent lower than common building techniques) volumes with clear lines or sinuous organic forms. Dini – who says he is not a creative designer but a man who invents technologies – went to London four years ago to figure out what to do with his invention, and met the Milanese architect Andrea Morgante, who proposed a project that could only be made with D-Shape, the Radiolaria Pavilion, a monolithic structure 2 meters high, composed of 200 layers of sand, inspired by the microorganism that gives it its name. But the story began even earlier, when Dini, to send out a strong message, realized he would have to mould “the smallest possible house”, and his father – who worked with Corradino D’Ascanio on the design of the first Piaggio helicopters –suggested moulding the Tempietto di San Pietro in Montorio. From Bramante’s little temple to Radiolaria, Dini explains, “it is possible to see a precise concept of architecture, because just as Bramante’s work became the model for a whole series of grand domes, including St. Peter’s in Rome, so Radiolaria can be the model for a new way of making architecture”. Today Dini is working on a 300-sq-meter villa in the zone of Porto Rotondo, in Sardinia, designed by the Australian architect James Gardiner of FAAN Studio. Though for the moment he has to be satisfied with moulding it in parts, the (possible) dream remains that of moulding a building in a single solution. In the meantime, the potential of the D-Shape method is illustrated by the designs of Morgante (Shiro Studio) and the studio Modoloco. Morgante proposes a collection of furnishing complements in rock, the Trabeculae Series, a table and shelves (but other pieces are on the way) in which the porous quality of the structure comes from the study of the computer tomograms of spongy bone formations. Modoloco, on the other hand, has come up with Era Glaciale, modular outdoor seating in which the volume is treated as a fluid paste whose solids become hollows. The search for organic, free, bony forms is part of the nature of D-Shape: “I have always thought of Gaudí as the true forerunner of this approach to architecture”. Dini looks at things this way, with one eye on the past, the other on the future: Bramante and Radiolaria, D’Ascanio and rock objects, Gaudí and the moon. The next D-Shape adventure is to develop a system for moulding things on the moon, using its sand. The project, conceived as part of the Aurora mission of the European space agency, in 2020 should accompany the man who, while headed for Mars, will make a stop on the moon: “We’re in the experimentation phase right now. We will mould a portion of a building designed by Foster & Partners with simulating sand (terrestrial soil very similar to that of the moon) and do vacuum chamber tests to reproduce the situation of weaker gravity”. So the material, already freed of form, will also be freed of weight. - Caption pag. 61 On the facing page, another view of the Radiolaria Pavilion. For years the development of 3D software has helped designers to widen their horizons, but always on the scale of prototypes. D-SHAPE fills this gap in the construction market, with the first tool capable of giving concrete form to complex digital models. A detail and an overall view of the Radiolaria Pavilion, a project by Andrea Morgante. A monolithic structure, 2 meters high, composed of 200 layers of sand, each 10 mm thick, whose form is based on the one-cell microorganism of the same name. The geometric morphology of Radiolaria reflects the potential of the mega-moulder D-Shape, capable of constructing any complex geometry without the use of temporary moulds, formworks and metal cores. “I like to think”, says inventor Enrico Dini, “that with D-SHAPE technology the great master Gaudí would have been able to achieve his dream of constructing forms never seen before, of giving life to all his dream visions without worrying about the limitations of the construction techniques of his time”. - Caption pag. 62 D-SHAPE is a large aluminium structure, 6x6 m, that can be raised by lifts that move along four columns that extend 9-12 meters in height. The ‘print head’, driven by a CAD-CAM system, deposits binder (an inorganic bicomponent glue) layer by layer, capturing granular material (sand or gravel) to make pieces. At the end of the process the excess grains are removed. Below, the Trabeculae Series by Andrea Morgante (Shiro Studio), composed of a table and shelving, based on spongy trabecular bone structures. The porous form, developed after months of study of computer tomograms of spongy bone formations, is applied to the load-bearing structure of the objects, conceived as engineering micro-structures rather than simple ‘furnishing objects’. - Caption pag. 63 Right and below, two renderings of the 300-sq-meter villa Enrico Dini intends to make in the zone of Porto Rotondo, Sardinia, based on a design by the Australian architect James Gardiner of FAAN Studio. D-Shape permits maximum characterization of buildings, that are literally ‘printed’ in stone, in a single piece or in large blocks to be assembled on site. Below, the urban furnishings project Era Glaciale by the studio Modoloco, composed of a series of modular parts of great sculptural effect, bringing out the technical-poetic specificities of design made possible by D-Shape.

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Gillo Dorfles: the avant-garde betrayed p. 64 by Ugo La Pietra Professor of aesthetics, lecturer, essayist, critic of the major and minor arts, painter, founder of MAC, the Movimento Arte Concreta, Gillo Dorfles is internationally re-

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nowned. Until 23 May, Milan presents a major retrospective exhibition. Many people have been amazed by Gillo Dorfles (Trieste, 1910): by his exceptional good health (he’s still a great hiker and skier, and swims twice a day in the summer); by his knowledge of many languages; by his great role as a communicator (we’ve learned lots of international culture from him); by his activity as a semiologist and essayist and his vast pictorial and graphic output, first with MAC, the Movimento d’Arte Concreta (founded in Milan in 1948, together with Bruno Munari, Atanasio Soldati and Gianni Monnet), all the way to the recent works shown at Palazzo Reale in “Gillo Dorfles. L’avanguardia tradita”, the major retrospective in Milan until 23 May (curated by Luigi Sansone, catalogue published by Mazzotta). Among these exceptional expressions of Gillo Dorfles, there are two that are less familiar and less often discussed, perhaps. Ever since I first met him in the early 1960s, what I have always appreciated, and what has kept me linked to Gillo, is his great openness to artists. When I was a young painter, at the start of the 1960s, my first introduction was written precisely by Dorfles, who coined the term “random painting” for my efforts. For many generations of artists Dorfles has understood how to interpret their work and describe it in essays; he is always open and, even more extraordinary, never asks for anything in return! Moreover, in spite of his reserved character and his lack of schmoozing contact with the with the ‘art system’ (and the politics that often govern it), Dorfles has had the role of a driving force, even capable of determining important moments in our history. Just think about the first exhibition that marked the opening of art to new media, “Al di là della pittura”, at San Benedetto del Tronto in 1968-69, or the cultural management, with Gianfranco Bettetini and Umberto Eco, of the updated Triennale in 1979. On many occasions Dorfles has gathered around him the best creative talents, as in the exhibition on Italian art at the Museum of Dortmund in 1971, or at the island of Korcula, in the former Jugoslavia, where architects, artists, graphic designers and writers (Perilli, Scheggi, Omcicus, Porro, Cieslewicz, Rykwert) joined forces in a summer seminar at Vela Luka. It was an important experience that led to a range of expressions of interpretation and transformation of the Dalmatian coast, with vital exchanges among the various artists: it was on that occasion that, with Paolo Scheggi, I laid the groundwork for the magazine “IN Argomenti e immagini di design”, and that was where I met Gilda Bojardi, who would become the future secretary of the magazine. That summer we traveled in Jugoslavia with Gilda, Gillo and his wife Lalla; he was always ahead of us, and though we were thirty years younger it was hard to keep up with him on our excursions. I would also like to express all my amazement, admiration and appreciation for Gillo, that assiduous observer of all types of artistic expression: many have met him at concerts, at the theater and art openings (even of young or unknown talents), but also at exhibitions on design and architecture. What impresses me most is that even today he still visits the extremely tiring events, like furniture and art fairs. He is open and able to observe, understand, stay up to date on many disciplines, which often ignore each other and live in separate worlds. Gillo manages to cross them and even to leave a sign of his presence! He is not an ‘alien’, he is a human being, an outstanding, precious example for our city. In any part of the world his name brings with it inestimable values of culture, knowledge and moral commitment, but above all it represents the exception of a scholar who pays attention to the evolution of all the various artistic disciplines: from theater to architecture, fashion to art, design to music, in a society where, in the best cases, we encounter only experts and critics specialized in one subject or another. His thinking is the result of this critical observation of concrete things inside different disciplines, things others may only have perceived in terms of the earliest symptoms. Dorfles knows how to read the secondary, peripheral aspects of this signs that, precisely because they are not yet part of the logic of the system, anticipate its changes. Today Gillo Dorfles can represent one hundred years of culture because he has lived with culture from within, with a rare way of keeping an open mind. We all love him and are grateful to him, and we have all gone to see his great retrospective, proud of what he represents. An exhibition that reveals Dorfles as an artist, a painter among painters, capable of expressing his moods, capable of representing his inner aspects and his desire to create in complete freedom. His drawings are above all liberating acts of fantasy, and demonstrate the pleasure he finds in combining signs and colors. There is a lot of play and irony in his works, maybe a way to keep a certain distance from the committed avant-gardes that have followed one another across the last century. He too says that his works are not figurative, but at the same time they speak to us of personalities whose psychic anomalies Dorfles seems to explore. Some see references to the organicity of Arp, but then Gillo’s ironic, sarcastic side moves elsewhere, in a continuous metamorphosis of images. I believe the major exhibition at Palazzo Reale is above all a rare occasion in which Milan manages to express its gratitude and pride for everything Dorfles has been able to give to the cultural evolution of the city. Milan has never been generous with the great personalities who have been the protagonists of its cultural life, so in this specific case, with this specific show, “Gillo Dorfles. L’avanguardia tradita”, we are all happy to be able to express, if belatedly, our admiration of Gillo Dorfles. - Caption pag. 64 In the image above: Gillo Dorfles during a seminar at Vela Luka, ex-Jugoslavia, 1970. - Caption pag. 65 On this page, from upper left: Lalla Dorfles, Gilda Bojardi and Gillo Dorfles at Dubrovnik, 1970; Fiorella Minervino, Emilio Isgrò, Gillo Dorfles, Gianfranco Bellora, Eugenio Miccini and Franco Vaccari at Studio Sant’andrea, Milan, 1972; Gillo Dorfles with Lucio Fontana at Galleria l’Indiano, Milan, 1964; Gillo Dorfles and Ugo La Pietra at the Museum of Dortmund, 1971; Gillo Dorfles at Lajatico (Pisa), 2006; Gillo Dorfles with Rodolfo Aricò and Carlo Grossetti at the Man Ray exhibition at the Annunciata, Milan, 1973 - Caption pag. 66 On this page, from left: Due figure con appendici,1992, acrylic and oil on canvas, private collection. Perplessità, 2000, acrylic and oil on canvas, private collection. Facing page, from upper left: Custodire l’intervallo, 1996, acrylic on canvas, 200 x 180 cm, private collection. Guerriero verde azzurro, 1993, acrylic and oil on canvas, private collection. Due schieramenti, 2001, acrylic and oil on canvas, private collection. Anacoreta con inserzione femminile rilingue, 1989, acrylic and oil on canvas, private collection. - Caption pag. 68 Giardino, 1988, wool carpet on cotton and hemp base, 140 x 200 cm, hand-knotted carpet, made

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by Elio Palmisano- Arazzi e Tappeti d’autore, from a sketch from 1940 (in the image below). - Caption pag. 69 Left to right, top to bottom: Untitled, 2009, pin in 925 silver, cire-perdu casting and handiwork, 8.5 x 7.5 cm, made for San Lorenzo, Milan; Untitled, 2009, pin in 925 silver, cire-perdu casting and handiwork, 8.5 x 5.7 cm, made for San Lorenzo, Milan; Pin, 2006, gilded silver (cuttlefish bone casting), 4.5 x 5.5 cm, collection of the artist. Ceramics: Untitled, 2000, Untitled 2002, plates in painted ceramic; Untitled, 2004, painted terracotta; Untitled, 1947, painted terracotta. The catalogue of the exhibition Gillo Dorfles. L’avanguardia tradita”, at Palazzo Reale in Milan, until 23 May, is published by Mazzotta.

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Les Années Staudenmeyer p. 70 by Cristina Morozzi The exhibition in Paris at Passage de Retz narrates 25 years of French and international design and reveals the man: Pierre Staudenmeyer, refined intellectual, art collector, designer of jewelry and one of the first to present artistic design in his galleries Neotu and Mouvements Modernes. The show (3 Dec 2009 – 15 Jan 2010) installed by Christian Gavoille, with a large catalogue edited by Chloé Braunstein-Kriegel and published by Norma, traces back through 25 years of art-design history, especially in France. Pierre Staudenmeyer, who died in 2007 at the age of 54, was an ambiguous, mysterious character, a lover of rings and tattoos, theorist and merchant, as he liked to call himself. He began to offer limited editions in his gallery next to the Beaubourg back in the early Eighties, when industrial design was still a field of ethical values and limited editions were still viewed with suspicion and presented almost in a clandestine way. Today they are everywhere, protagonists in fairs and galleries around the world. Other gallerists lead the way now, but Pierre was one of the first to understand that design can be a terrain of ambiguity and emotions. His gallery was a place for research, the realm of the possible. Neotu was a platform for discoveries. Almost all the French designers who are famous today passed through there, from the Bouroullecs to Kristian Gavoille, Garouste and Bonetti to Christian Biecher, Christophe Pillet to Matali Crasset, but also Constantin Boym, Dan Friedman, Marco Zanuso Junior, Jasper Morrison, even Shao Fan, the Chinese design star. Pierre came to design from commerce, art (he collected it) and psychoanalysis. A refined theorist of vast culture, he always thought of himself, first of all, as a merchant. His choices responded to theoretical principles, personal taste and commercial opportunities, but he did not live long enough to see prices soar in this market. He was a forerunner in connecting design and crafts, forgotten techniques, precious materials and luxury. His interest in ceramics (from Ettore Sottsass to the 1950s ceramists he helped to rediscover) led to one of Europe’s most important collections in this area. He used the gallery and his home as showcases for exceptional pieces. He even made Neotu into a disco for the presentation of the furnishings of the Il Grifone disco in Turin (1968), belonging to the Turin-based gallerist Fulvio Ferrari. The name Neotu, for the gallery founded in 1984 and closed in 2001, was already a program in itself: Neo tout (all new), an inventory of new talents ,one-offs, limited editions, original languages, unusual choices based on form, function, but above all on “meaning”. In 2001 Neotu closed, and in 2002 Pierre re-opened on Rue Jean Jacques Rousseau, with Mouvements Modernes, to continue his explorations of the past (a Nanda Vigo retrospective) and the future. Now run by Sophie Mainier-Jullerot and Chloé Braunstein Kriegel, linked by intellectual complicity to Pierre, Mouvements Modernes now follows in the footsteps of its founder. - Caption pag. 71 Section of the exhibition Les Années Staudenmeyer, in January in Paris at Passage de Retz, showing chairs by different designers produced by the Neotu Gallery over the years. On the facing page, portrait of Pierre Staudenmeyer. Above, Chaise Chiavarina by Olivier Vedine, with wooden structure and plastic seat, 1997. - Caption pag. 72 Upper left: Reinterpretation of a throne by Pucci De Rossi, 1993; ‘Il etait une fois’ bed by Kristian Gavoille, 1992; low wooden table with shaded finish by Vincent Beaurin, 1995; Satragno wardrobe by Martin Szekely, 1994. Below: Neverland Light by Nanda Vigo, 2005, Mouvements Modernes. - Caption pag. 73 Upper left: Cabinet Dream by Dan Friedman, 1987; Satomi San table by Borek Sipek, 1980; King chair by Shao Fan, 1995; L’amour glass vases by William Sawaya, 1991. Below, glass vases by Christian Ghion, 1999.

INscape

No horizons p. 76 by Andrea Branzi A disturbing impression from major foreign schools: the new international style focuses on environmentalism, ecosustainable architecture, energy savings, co-housing. Aren’t we running the risk of saving nature and ruining the human environment? Over the last year I’ve had a chance to visit some of the main schools where design is taught: the A.A. School of Architecture in London, Harvard University in Cambridge (Massachusetts), the Berlage Institut in Rotterdam, Columbia University in New York. And the impression I got was disturbing: everyone is working only on environmentalism. These themes are a sort of global platform, a new international style of design thinking. This research always starts with new, recycled or eco-compatible materials, replacing the old bricks and the old construction technologies. This replacement results in a sort of ‘clone’ of earlier architecture, except for the fact that the environmental impact is (perhaps) less, as is the consumption of energy. No real typological innovation, no new model of urban growth: still cities made of architectural boxes. The only novelty seems to be the disquieting phenomena of co-housing, where small groups of citizens organize to save on energy, water, appliances. Co-housing, initially created to favor socializing, now seems to feed a substantially anti-social, defensive attitude, dividing

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global society into small ‘politically correct’ nuclei. The design world seems to have discovered, in environmentalism, a reductive theorem and a circumscribed territory in which to work: the environmental crisis seems to have produced not cultural renewal but, instead, a sort of clinical tactic, a ‘case by case’ approach, without bigger horizons than those of conservation of the status quo and architecture reconstructed in a ‘light’ formula. This attitude harbors a latent cultural and economic neocolonialism, because only the wealthy countries can afford to pay for this research, to then manage the development formula for the less affluent countries. After all, we can’t just stand by while the world is getting sick! But can we really trust these environmentalists who run the risk of saving nature and ruining the human environment, reducing the wealth of anthropological relationships that cross human space into mere considerations of energy savings? The future seems to be limited to two options: either apocalyptic disaster or a ‘light’ way of living, someplace between Ikea and a hospital, aseptic, apparently democratic but, in substance, the enemy of creativity and contamination. This sort of consoling panacea that proposes a blossoming future but also confirms the ancient idea of a government of nature by man, where happiness seems to coincide with the spread of meadows, points to a world pacification on the lowest terms, governed by a collectivism that ignores the everyday and political levels of life, proposing a world order built on lavender air freshener. This standardization, paradoxically, appears to be the result of the logic of GMO products: less flavor, all equal, but without the capacity to reproduce. - Caption pag. 75 Karen Knorr, the green bedroom and the music room, from the series Fables, 2004-2007, 18 large photographic works (and one video) in the solo show of Karen Knorr, Favole, 15 May – 21 Sept at the Museum of Contemporary Photography of Cinisello Balsamo (MI).

INdesign INcenter

Thought boxes p. 76 by Nadia Lionello The fil rouge that links new photographers, veterans and others in the history of Interni, to interpret the paths of nine designers, combined by affinities to give rise to new thoughts. Photographic interpretations on the theme of the creative thinking of nine designers. The image, the visual element of communication of human language, becomes an indispensable auxiliary for words, translating thought into synthesis. In this case, the design idea that leads to things, to objects. The extraordinary quality of nine photographic languages that narrate unique moments, captured in an image, depictions of life made of seconds, colors, lights, feelings… thoughts, capable of catching the gaze, the heart, the brain, sympathy, interest. When it seems as if everything has already been done, then emotion, mind, experience and technique suddenly generate new ideas, new visions of life, new languages to represent, at times, beyond the caption. - Caption pag. 77 Simone Barberis interprets Luca Nichetto with the projects: Robo, chair for assembly in recycled plywood and felt, for Offecct (new for 2010) and Otto, collection of vases in three form-color combinations, for Venini (2009). “To do a portrait of Luca and the essence of his objects, the challenge was to show the instant in which the creative idea clearly emerges, in the metaphorical box of thought, breaking out of it with explosive force”. - Caption pag. 78 Giacomo Giannini interprets Alessandra Baldereschi with the projects: clockwise, from the Bosco collection, seat for Dilmos and Moss Gallery NY (2004/2005); SottoVetro collection, vases in glass and silver for De Vecchi (2008): Valesia, Le piantine collection, for Coin Casa Design (2007); Lord silver tray with handles, for Skitsch (2010); Cactusia, Le piantine collection, for Coin Casa Design (2007); Autunno credenza, Quattro stagioni collection, for Skitsch (2009); Helix silver corkscrew for De Vecchi (2006); Soufflè chair for Coin Casa Design (2007). “...it’s like looking inside her ‘thought’, a mental process where symbols are manipulated, events or ideas that are stored in memory; the Polaroids of the products of Alessandra emerge from the non-random representation of miniature object-symbols...”. - Caption pag. 79 Carlo Lavatori interprets Philippe Bestenheider with the project Titti, a chair in wood and perforated cowhide, for Frag (new for 2010). “A uterine ‘box’ or, more precisely, an ‘eschatological’ uterus. The visions of a Swiss designer fecundated in a Milanese courtyard give birth to projects... Forms of backs like the passageways of apartment building conciergeries... decorations of skin patterns embroidered by lasers wed with floors in worn Milanese marmetto...”. - Caption pag. 81 Maurizio Marcato interprets Monica Graffeo (left) with the projects: Lapigra chair in rod, seat filled with styrofoam pellets, for Zilio (new for 2010); Steps chair in wood, seat in felt strips, for Lago (2008) with Fiammella, small lamps in polyurethane gel and LEDs, for Gelli (new for 2010) and, suspended, Rays chair with cast aluminium legs and self-sealing polyurethane seat, for Kreaty (2009). “Monica loves everyday, simple living, soft forms. The objects are like traveling companions who love the home. In this icon-room, a container that lives but does not wed her dreams, I wanted her to draw her ideal box with big circles of light, soft, made of the moon. I would have liked her children to be there, too, in a fairytale way, to further underline her personality, sensitivity and rich imagination, that belong prevalently to the feminine world”. Efrem Raimondi interprets Giovanni Levanti with the projects: above, from left, Cameo basket (2009), O-By-O back cushion (2000) and Conetto rocker for children (2006); center, Rilassata chair (2007), Gobbalunga lounge chair (2007) and Sneaker upholstered piece for stretching (2006); below, No-code chaise longue (2002) and Candore adult rocking chair (2006), for Campeggi. “Light and playful... Like a child absorbed in a construction game; like a child, approaching volumes, glued to his perception of the world, two-dimensional and rigorous. Where everything has its place”. - Caption pag. 82 Enrico Sua Ummarino interprets Matteo Ragni with the projects: Tulip, fireplace in thermoformed DuPont™ Corian®, for Biò Fireplaces (2009); “...e quindi (ri)uscimmo a riveder le stelle”, box with internal reproduction of the 12 zodiac con-

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stellations, a limited edition produced by Danese (2009); Sunglass profiled stackable tumbler for Pandora Design (2007); Clic glass made by Pandora Design for the event RED-design for CampariSoda (2009). “We escape, every day, from the things that surround us, things we desired in the past, but no longer want to partake of, so we seek refuge in our thoughts, as if we were elsewhere, in a stupendous container...”. - Caption pag. 83 Paolo Veclani interprets Oki Sato, founder of the Nendo group, with the projects: Cord-chair, chair in maple and metal, for Manuri (2009); Corona globe in metal and paper, for Watanabe Kyogu; Blown-fabric lamp prototype for the exhibition Tokyo Fiber Senseware (Milan Triennale 2009); Cubo magazine rack in painted polyurethane foam, for Arketipo (new for 2010). “The box of thought is a place in which the creative person instinctively seeks refuge, materializing the essence of millions of emotions, stimuli and visions that float timelessly in his mind. I didn’t want to close that box, because it does not have space-time boundaries. The work of Nendo transmits the essential, perfection, lightness, summing up the flow of emotions freed from the great box of thought”. - Caption pag. 84 Gionata Xerra interprets Philippe Nigro with the projects: clockwise, drawing of T.U., universal base in sheet metal for table tops, for Ligne Roset (2010); model of the Twin chair, in aluminium sheet and oak (prototype, VIA 2009); photo of Market, basket in Carrara marble, self-produced in limited edition (2008); model of the Build Up cardboard chair for Skitsch (2009); Confluente, divan covered with wool, cotton or leather (2009) and sketch of the Flax chair (new for 2010) for Ligne Roset (2010). “The suitcase of ideas. The ideas live in the air. In time. Philippe gathers them, leaving them hanging on threads of memory. At times, much later, they become projects. Until that moment, they rest in a big suitcase. Big, like the luggage of our grandparents when we were kids, so small that we could hide inside. With Philippe we opened up one of those suitcases again: to discover that actually the ideas, the dreams are always there, even now that we’re grown up. They are bigger than us”. - Caption pag. 85 Miro Zagnoli interprets Francisco Gomez Paz with the projects: Hope lamp with slender Fresnel lenses that deviate light rays and increase their brightness, with Paolo Rizzato, for Luceplan (2009), E Solar Bottle, bottle in PETG, transparent and metallized, to purify contaminated water thanks to the passage of UVa rays, with Alberto Meda, self-production (2007). “The first contact with the seduction of an object, after purchasing it, happens with the box that contains it, which flatters us like a sensual dress”.

Voyager p. 86 photos Gionata Xerra by Ravaioli Silenzi Studio A spaceship travels today, toward the future. Sophisticated materials, sinuous forms and neutral colors narrate uncontaminated, thrilling worlds. Stainless steel, recyclable aluminium, polypropylene and LED lights characterize furnishings that “float” in front of always new natural scenes. - Caption pag. 87 FreeFlow modular component system with linear and curved elements, conceived for large spaces and contract applications. The seat and back can also be combined in double-face configurations. Aluminium legs. By Gordon Guillaumier for Moroso. Oyster and Oyster II, high and low tables with base and top in polished stainless steel, thickness 2 mm. By Marco Zanuso Jr for Driade. Bamboo floor lamp with extensible rod (265-310 cm) in steel, PMMA shade. By Roberto Giacomucci for Ultraluce. - Caption pag. 88 Flow chair with matte or glossy painted metal base and seat with polyurethane padding and quilted cover in fabric or leather. By Jean Marie Massaud for Mdf. Zoe chair with chromium-plated steel base, back in cowhide with patented cut, seat padded with rigid polyurethane covered with cowhide. Design by Franco Poli for Matteograssi. Air table in opaque white Cristalplant, with single top (260x73 cm) and cantilevered legs. By Carlo Colombo for Poliform. On the table, Flower tube asymmetrical cylindrical vase in shiny stainless steel, by Martí Guixé for Alessi. - Caption pag. 89 Pistillo hanging lamp with polycarbonate tube and steel cables. Available in white, red, blue and green. By Emiliana Martinelli for Martinelli Luce. Pouf-Pot, seat in polypropylene, rotomoulded in white, black, orange, green and gray. By Mark Naden for Frighetto by Estel Partners. Looper chair with fixed or swivel base in chromium-plated steel, monocoque seat moulded in painted polyurethane, cushion with removable leather or fabric cover. By Harry & Camila for Living Divan. - Caption pag. 90 WA floor lamp with iron base, steel structure and rod in nickel-plated copper, crystal lens, LED light. By Enzo Catellani for Catellani & Smith. Loop chair with metal structure, polyurethane filler covered entirely with two-tone leather, with zipper. By Ilaria Marelli for Axil. Cleo floor lamp in mirror-finish or silver painted aluminium by Andrea Zanini Azdesign for Martinelli Luce. - Caption pag. 91 Maze component divan for outdoor use, with structure in stainless steel and dry-feel padding. Covered with polypropylene. LED lights for the back and armrest. By Matteo Nunziati for Coro. Moon carpet in handknotted wool, diameter 200 cm, also available in silk or wool-silk blend, in any color by request. By Peter Rankin, made in Nepal for Nodus. Wall lamps from the Quadra small silver series, in silver-plated polycarbonate, assembled in a series. By Francesco Paretti for Slamp. - Caption pag. 92 Atlas bench in rotomoulded polyethylene, in green, red, orange, lavender, milk white and gray, or lacquer. By Giorgio Biscaro for Slide. Masters chair in polycarbonate, available in the solid colors white, red or black. By Philippe Starck with Eugeni Quitllet for Kartell. 100% Al table with trestle and top in aluminium, by Ross Lovegrove for Danese. On the table, Communicator Balloon, stainless steel bowl with removable supports of messages in PMMA. By Martí Guixé for Alessi. Miss You chair in polycarbonate, with transparent seat and black, white, fumé, amber or violet frame, or fumé seat with black frame, or entirely transparent. By Marco Piva for Pedrali. Aplomb hanging lamp in gray, white or brown cement, by Lucidi & Pevere for Foscarini. Alodia high or low stool with base in metal tubing, seat in laser-cut steel sheet, matte painted in white, anthracite, mustard, green, light blue, avio blue. By Todd Bracher for Cappellini. Target bookcase in wood fiber with support modules formed by small crosses. By Nendo for Arketipo.

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Neo Grunge p. 94 photos Henry Thoreau ed Patrizia Catalano Dedicated to the young people who have to conquer the future. Choosing alternative solutions, clean breaks. In an offbeat space of mix and match of iron and felt, resin and fabric. And the dreamy touch of the fetish object. - Caption pag. 94 Shadow chair in polyurethane covered with fuchsia cotton, by Gaetano Pesce for Meritalia. Large-format S-1ex speakers by Pioneer. Carpet from the Carpet Reloaded collection by Golran. Double Up divan with back that closes on the seat to become a bench, from Sturm und Plastic. Hassock in shiny-matte fabric, Missoni Home collection. Plush hippo by Trudi. - Caption pag. 96 Goodluck under the umbrella, by the New York-based artist Signe Baumane, courtesy Aspesi. Umbrella stand in resin by Gaetano Pesce for Fishdesign. De La Warr Pavillion chair by BarberOsgerby for Established & Sons. Color bench with metal base and silicon seat by Alessandro Ciffo for Dilmos. Briko helmet. Roller by Rollerblade. - Caption pag. 97 Gallo Kekazzé by Omar Ronda for Casamania. Sweet 40 hassock in cotton knit by Paola Navone for Gervasoni. Table with metal base and top with shaped flowers by Missoni Home. Patchwork sofa by Studio Bokja for Rossana Orlandi. Electric guitar by Prina. Tank floor lamp by Alexander Taylor in green metal for Established & Sons. Surfboards by Ripcurl. - Caption pag. 99 Low iron table by Piero Lissoni for Cassina. Plush penguin by Trudi. Block carpet by Diego Grandi for Skitsch. Freewheeling bicycle, FWR Hunters Hill. Helmets by Briko. Toio lamp by Achille Castiglioni for Flos. Disk chair in resin with steel structure by Imperfetto Lab, from Entrata Libera. Eye in felt by Gaia Clerici. Extralarge hassock in knitted wool by Rossana Orlandi. - Caption pag. 100 Pouf tables, Gli Amici collection, Meritalia. Vases from the Nativo collection, in silicon and fiber, Campana brothers for Caso. Marumaru chair by Kazujo Sejima for Driade. Ramoc panel, designed by Studio Salvati for Abet Laminati. Anfibio sofa-bed with jeans cover by Giovannetti. Wool carpet from Nilufar. Skateboard by Nordica. Diesel lamp. - Caption pag. 101 Nimrod chair in white polyethylene and fuchsia cloth, by Marc Newson for Magis. Vu radiator by Massimo Iosa Ghini for Antrax. Table with resin top by Gaetano Pesce and carpet from Nilufar. Chair with metal structure and resin seat by Alberto Landra for Entrata Libera. Feltri, chair in red felt and violet quilted cotton by Gaetano Pesce for Cassina.

INproject

Light in your eyes p. 102 by Cristina Morozzi Talking with Fabio Novembre is like navigating in a site full of links. He constantly connects with other types of knowledge. He opens windows on all possible worlds: art, cinema, music, literature, sports... On the subject of his latest project, the Nemo chair designed for Driade, he pulls out an essay by Roland Barthes on the metaphor of the eye. He doesn’t narrate his projects by the ideas behind them. Instead of photos and renderings he shows you Google Earth. He always starts with a globe or a star map to describe his way of doing design. He’s leaving for Buenos Aires. To pick up his women, Candela, Verde and Celeste, who passed the winter in Argentina. The book is ready to read on the plane, the Story of the Eye by Georges Bataille, which contains that fundamental essay by Roland Barthes. He talks about eyes and his gaze inevitably settles on Nemo, his latest moulded plastic chair that Driade will present during Design Week: a hollow face with hollow eyes, but they know how to observe. “I’ve always thought about eyes”, Fabio says. “Canova said eyes are the only thing lacking in the perfection of Greek statues”. We continue with literature. In April his new book will come out, “Il design spiegato a mia madre” (Rizzoli, 24/7 series). I ask him why he has the urge to write. “Picasso”, Fabio responds, “used to say: ‘I don’t seek, I find’. They came looking for me and asked me to write a book on design. The idea of talking about design in a different way was appealing. To make it more lively I thought about a book in the form of an interview, with questions by Francesca Alfano Miglietti (art critic, ed). Explaining this to your mother is like giving her the world. I’m interested in the world and I still look at it with the eyes of a child, still amazed. I’m a social animal. Paul Valery said a man alone is in bad company. Every Wednesday, for twenty years now, I’ve played soccer with the same group of friends. Soccer is a metaphorical game: it forces the body to tame the ball, a sphere that is a symbol of the world. The game of soccer is a symphony, the team is like an orchestra. You need to always pass the ball, never hang onto it”. Back to books. The last one read? “Emmaus by Alessandro Baricco. I read it benevolently. It’s a generational book on the paranoia of a religious education, typical of his generation. But it wasn’t a realization, like ‘I barbari’, a fundamental book. Everyone should read it. I also liked ‘Che la festa cominci’ by Niccolò Ammaniti. His thoughts about making a shameful impression are only too apt: ‘in a country like ours... what do you care?! Do whatever you want’. I recommend the book by Paolo Sorrentino, ‘Hanno tutti ragione’. Paolo is a good writer, he’s a director by chance. The role of the storyteller is a nice one. We Italians have built our power on our capacity to spin yarns. Our emotions need to be sung, like Homer. The oral tradition is important”. “Telling stories”, Fabio continues, “is a sign of generosity. Augustine narrates that he was amazed and thought Ambrose was an egotist because he read without speaking. You need to relate, not to isolate yourself. I hate the iPod. Akio Morita, the founder of Sony, had two jacks put into the Walkman for listening in tandem. I thought that was a gesture of love. Speaking of which, you have to read this fantastic book ‘La morte del prossimo’ by Luigi Zoja. My new blog is called ‘io-noi’. In my book (Il design spiegato a mia madre, ed.), on the subject of ‘io-noi’ I tell a marvelous story. When Francesca Alfano Miglietti asks me: what is the relationship between power and poetry, I respond with a quote from Muhammad Ali. In 1975, after his retirement, he was invited to Harvard for a lecture to a class of new graduates. Ali delivered a brilliant talk on the importance of education and culture… Someone from the audience asked him to recite a poem. The old champion hesitated for a second, and

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then said ‘Me-we’ (io-noi), the shortest poem in the history of literature”. Finally we get around to talking about his latest chair. “The chair”, Fabio asserts, “has always been an asexual object. With Him and Her (Casamania) I gave chairs sexuality. The new one is a hermaphrodite. It’s called Nemo. Ulysses told Polyphemus his name was Nemo (noone). Nemo doesn’t try to resemble anyone. It represents the supremacy of intelligence (Ulysses) over bestiality (Polyphemus). I want to talk about messages. I don’t believe it’s correct to hide behind the fig leaf of function. The best definition of the chair comes from Alessandro Mendini: the chair is a handkerchief placed on the steps of the church to avoid dirtying your Sunday best”. We move on to the relationship with the body. The nude body of a woman (Candela) is a recurring theme in his images of reference. Why this insistence on the body? “We come from a nude body of a woman”, Fabio concludes, “and we want to stay there. We yearn for what we come from”. This relationship with the female body seems almost to reflect the desire to reach the painful inebriation of conception, which is the ecstasy of creation. Before leaving, I take a glance at the books on the table: Tanizaki, Pasolini. He lets me know that on his bedside table he keeps the Metamorphoses of Ovid. For inspiration. - Caption pag. 102 Top, portrait of Fabio Novembre. Above, left: Candela, Fabio Novembre’s wife, pregnant; Installation for the exhibition Casa at Abitare il tempo, Verona, 2003; Bath fixtures from the Void System, Flaminia, 2008; View of the solo show by Fabio Novembre, “Insegna anche a me la libertà delle rondini”, curated by Beppe Finessi, Rotonda della Besana, Milan, 2008, exhibit design by Peter Bottazzi (in the foreground, S.O.S. Sofa of Solitude, Cappellini, 2003); Soccer game in India, image found on the Internet; Earth seen from space, image from the Internet. On the facing page: top, another view of the solo show “Insegna anche a me la libertà delle rondini” at Rotonda della Besana; below, the exhibition “Il fiore di Novembre”, Milan Triennale, 2009, idea and installation by Fabio Novembre. In the foreground, detail of the Org table for Cappellini, 2003. - Caption pag. 104 Above: an image of Palmanova seen from above, from Google Earth, and the Palmanova tray in steel from the Piazze d’Italia series, Driade, 2007.Above, left: Fabio Novembre with Ettore Sottsass; the cover of the book “A Sud di Memphis” by Fabio Novembre with preface by Ettore Sottsass, Idea Books, 1995; Histogram chair and table, Gipsen, 2008; image of the Bisazza showroom in New York, 2003; photo of Candela’s legs. - Caption pag. 105 Right: a vase from the Greenline Collection, decorated with a black grain similar to asphalt, Bitossi ceramiche, 2010; a photo of the Green Line of Beirut, the line that separated the opposing Christian and Muslim factions. The name came from the color of the pavement due to the growth of plants through the layer of asphalt. Lower left: Love opens doors handle, Valli&Valli, 2007; print campaign for the Him and Her seats, Casamania, 2008; Fleur table, Kartell, 2009; Bisazza showroom in Berlin, 2004; Bisazza showroom in Milan, 2002 (the idea of photographing a nude girl lying down with the book A Sud di Memphis open on her bottom comes from the poster for the film Le Mépris by Jean-Luc Godard, showing the young Brigitte Bardot in the same pose.

Cordless phone p. 106 by JVLT/JoeVelluto A path of interpretation involving four different designers. The aim is to create a sequence, ‘playing’ with the design of objects rather than words. 1. Joe Velluto 2. Giulio Iacchetti “A tube that peels, or a clear vertical element that generates sprouts perpendicular to it...” 3. Emmanuel Babled “A tube of rhythms and waves, a bit like the Bossa Nova”. 4. Matteo Ragni “A vase with two handles once told me it had eyesight problems. It was enough to rotate it and widen the bottom to insert a nice new lens. Now that’s a beautiful sight”. 5. Philippe Nigro “Starting with the telescope, with the same elements, and adding a few more, you can see a funnel, a trumpet... or a little racing car”. Tube It begins with an initial sketch that gets passed to the first designer/player, who freely develops it. The drawing then goes to the second designer/player who adds his own interpretation. And so on, passing through the hands of the four designers involved, the drawing gets new details, new interpretations. 1. Start with the ‘tube’. The path starts with not seeing it, not understanding it. But it can be a path of additions. Ready, set, go: tu-bo. 2. A tube that peels: a tu-ber, like a potato. That generates perpendicular sprouts, not by chance. To put in a vase, maybe. Again not by chance: tu-ber –> ber-im-bau. 3. A berimbau vase, like the musical instrument composed of a wooden bow with string attached to a gourd, not a potato. A vase with Brazilian sounds like the Bossa Nova, literally the ‘new thing’, a fixation. 4. A tube for fixating, then. A telescope. Right, a tube for fixating on solid heavenly bodies. Or projectiles. 5. A tubo with an added gear: turbo. Biturbo. Tubotuberoberimbaubossanovatelescopiobolidebiturbo.

Form follows experience p. 108 by Maddalena Padovani The Memory seat by Tokujin Yoshioka for Moroso focuses a new design thought for a product based on its generative process. “No design”. This is the provocative definition Tokujin Yoshioka uses to narrate one of his latest projects, the Memory seat for Moroso. In effect, if we think of the meaning the term ‘design’ has taken on in recent years, corresponding to the concept of ‘good form’, we can only agree: Memory is certainly not a product created to elegantly furnishing the sitting room. Instead, it is a ‘non-form’, an object with an indefinite, mutable identity, whose evolutionary and interchangeable nature marks a profound shift of meaning of the product, no longer an object to use, but an object to experience. The new story of Tokujin Yoshioka – all his projects narrate an intuition, an experiment, developed over months or even years, carefully documented in every phase of its evolution – comes from a material. An innovative, curious material from industrial sectors far away from furnishings. This material fascinates the designer for its particular aesthetic characteristics, but also for the unusual use that might be made of it in everyday life. It is a fabric made with recycled aluminium. “For some time now”, Tokujin explains, “I was thinking about doing something with metal. Above all, I was

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interested in its capacity to interact with light”. Light is always a presence in Yoshioka’s work, the impalpable bond with which, in all his installations, he gives life to the most banal materials and creates magical visions starting with nothing. Light is also the main protagonist of his latest installation projects, like the ones for Seoul World Design Capital and for the Shanghai Expo (both in May). The first is based on the window of a church, which Tokujin has recreated with a surface of crystal prisms, 9 meters high, that filters and refracts light, projecting space into a rarified, spiritual dimension. The second uses an enormous sphere of natural crystals as the body of refraction, obtained with the process of spontaneous crystallization already used for the Venus chair, where the random form generates an equally unique, unrepeatable luminous effect. So metal was the material chosen by Yoshioka to bring the magic of light and reflections to the scale of the furnishing object. Once again, his research moved toward new structural qualities of the original material, focusing after dozens of trials on a recycled aluminium fabric with ‘form memory’ that has the strength and shine of metal, the lightness of fabric, but is also incredibly ductile, because it can be freely shaped and later modified to meet the needs and tastes of the user. The concept of Memory is very simple: the load-bearing structure of the seat is composed of a very normal kitchen chair, covered by a ‘sack’ in aluminium fabric supplied at purchase. At home, the customer slips the sack over the chair and then shapes it by hand. The resulting form is always different, and can vary in time; what counts for Tokujin is not to find a fixed solution, but to trace an open process in constant evolution. As in all his previous projects, Memory reflects the Japanese designer’s interest in nature and its generative processes, his only true source of creative inspiration. - Caption pag. 109 Memory comes from Tokujin Yoshioka’s idea of a ‘formless’ seat that can be freely shaped by its user. It is composed of a very normal chair covered by a form-memory recycled aluminium fabric. Moroso has engineered the process and the product invented by the Japanese designer. - Caption pag. 110 Above, Tokujin Yoshioka demonstrates the process behind the seat, whose form can be modified when the user so desires. The Japanese designer, who wanted to use metal to have a surface that reflects and refracts light, chose this recycled aluminium fabric after lengthy experimentation with different types of metal materials.

The world after plastic p. 114 by Stefano Caggiano Magis brings a revolutionary material to the Italian furnishings scene: liquid wood, namely real wood that can be moulded like a polymer. The project by Zaha Hadid interprets its unusual poetic-technological characteristics. Eugenio Perazza, president of Magis, is convinced: “In a market that is shrinking, only one thing is destined to grow: design quality”. And this time the leap forward seems even more important, because it’s not only about technological innovation, but also involves an incredible material – liquid wood – that challenges Aristotle’s old adages about the distinction between natural and artificial. Magis has always had a taste for technological revolutions, from its pioneering use of plastic to the first gas-moulded chairs. The first shot at liquid wood gets taken by the Minimal Shelf by Zaha Hadid Architects, a studio that is always a front runner in experimentation with new technological and formal solutions in urban planning, architecture and design. The starting point of Hadid’s project is to make liquid wood into a light object that interprets the passage from traditional wooden furnishings to minimum thicknesses that resemble plastic. Thus the idea of using the algorithms of minimum surfaces, with zero curvature deviation like that of soap bubbles. The result is a shelving module with four equal faces, rotating on five axes to create different spatial formations, to adapt to different needs, modifying its composition along a sinuous movement in which, thanks to two sizes, the full and empty zones alternate seamlessly. The utilization of the minimum curvature, of precise lightness, of the ‘plasticity’ of the wood underscores the specificities of a substance that doesn’t fit into the framework of technology of contemporary materials. Liquid wood seems to have its technical-poetic place in the near future. Composed of lignin, a substance extracted from trees, it can also be made from wood shavings and recycled wood, ground up into a very fine powder; it then gets injected into a mould identical to those used for polymers, and solidified with a natural binder. When the mould is opened the pieces are not just surprising in terms of aesthetics – they smell and taste like wood, they are wood in all senses of the term, yet they have the shape of a moulded part – they are also 100% biodegradable and can be infinitely recycled: up to 98% of the material conserves its highest quality level, while recycled plastic can be recovered only to the extent of about 40-50%, making it useless for a return to the furniture sector (though it can still have industrial uses). The impression of a paradigm shift is often confirmed by changes in little things. For example, making a hole on a plank of liquid wood does not represent an added cost, as it would with traditional technology. The same goes for surface decorations, that come right out of the mould. So this is an epoch making change, and this is where design comes in, accustomed as it is to interpreting both technological performance and anthropological values. In this light the breakthrough seems even bigger. If until yesterday it seemed obvious to think of plastic as ‘artificial’ and wood as ‘natural’ – associating a vast range of free forms with the former and a small range of traditional forms with the latter – the advent of liquid wood forces profound rethinking not only of performance but also of the meaning itself of wood in projects. This material that can be tender or solid, flexible or sturdily rooted in its formal constraints, can now be moulded like plastic, definitively abandoning the limited repertoire of shapes it has always assumed throughout history. In an era like ours in which design is faced with major environmental responsibilities, liquid wood has all the characteristics required to play a leading role, especially in the field of design, where environmental sensibility goes hand in hand with emotional sustainability, and the sensations transmitted by objects cannot be separated from their impact on the planet. It may be a bit early, as yet, to dream about chair that grow on trees, but a world in which furnishing objects get buried, like people, at the end of their life cycle, nourishing the planet, doesn’t seem so far away anymore. - Caption pag. 112 Above: a moulding test done by Magis with liquid wood. Before moulding this material

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is a very fine powder. Once inside the mould, the wood particles are joined by a natural binder, transforming the material into a solid object in any form. On the facing page: the Minimal Shelf module designed for Magis by the studio Zaha Hadid Architects to demonstrate the poetic and technological specificities of liquid wood. - Caption pag. 114 The beauty of the Minimal Shelf project comes from minimum area algorithms with zero curvature deviation, like that of the soap bubbles that form when twine is immersed in a soap solution. The Minimal Shelf module has four equal faces that rotate on five axes to create different spatial formations. The modules have been made in two sizes, to multiply the compositional possibilities.

Windcatcher p. 116 text Antonella Galli The domestic windmills designed by Philippe Starck for Pramac are now on the market. Clean energy is available for everyone, transported by the gentle breeze of design. Two years ago, in April 2008, the square microturbine by Starck showed its face in the cloisters of the Ca’ Granda in Milan among the sixteen installations of GreenEnergyDesign, the exhibition of prototypes and ideas produced by Interni during the Salone in Milan. Pramac, the multinational of Italian origin with headquarters in Casole d’Elsa (Siena), active in the alternative energy sector, made the prototype by the French designer and showed it during the events under the name Democratic Ecology. At the start of 2010, based on two years of engineering, Pramac hits the market with Revolutionair, the new line of micro-windmills designed by Philippe Starck and sold all over the world from the website www.revolutionair-pramac.com. The Pramac research labs, in collaboration with the Università degli Studi of Naples, have worked to create a product for urban residential use, meaning it has to be safe, reliable, efficient and quiet, responding not just to air currents but also to the turbulence typical of metropolitan microclimates. The two Revolutionair models can be placed in gardens, on balconies or roofs, but also on boats, in public parks or gardens. The first, the WT 400, is the direct heir of the original prototype, with a squared form on a vertical axis, for 400 Watts of power, while the WT 1KW, for 1 KW, has a helicoid form, still on a vertical axis, and is larger in size and weight. The added value of these extraordinary technological instruments, true domestic power plants, lies in their aesthetic profile, the attractive lines that transform them from useful tools into objects of desire, to be displayed. Windmills, by nature, cannot be hidden, so good looks becomes a major factor in their appeal. Previous examples of home windmills completely overlooked the need for design, except for the Energy Ball, perhaps the only true predecessor of Revolutionair, a microturbine on a horizontal axis produced by Holland’s Home Energy International, a company specializing in alternative energy solutions. Starck’s breakthrough is not limited to aesthetics, though; the initial concept, seen in the prototype in 2008, is based on a democratic, sustainable idea of design, a radical theme often addressed by the French master, a pioneer of increasingly timely trends. Starck predicted that design efforts, sooner or later, would move toward not generating more ‘matter’, but more sustainable energy, at an affordable cost. This trend reversal now meets with the approval of public opinion, as a result of a worldwide economic, political and identity crisis. The direction indicated by Starck and taken by Pramac seems correct, and Italy, always a slow learner when it comes to themes of environmental sustainability, has surprised the pessimists with the results announced at the start of 2010 by the main companies on production and monitoring of renewable energies: 2009 witnessed annual growth in this sector of more than 30 percent, a record for Italy. Annual electricity production using wind reached the level of about 6.7 TWh, or 2.1% of gross consumption, equal to the domestic consumption of about 7 million Italians, and saving 4.7 million tons of CO2. So last year was a turnaround for national agencies, associations and companies in the field of renewable energy. Just the right moment for Pramac to introduce Starck’s appealing windmills. - Caption pag. 117 Revolutionair dual-blade by Pramac, model WT400W, 0.9 meters per side, maximum power 400 Watts at 14m/s; the support poles can range from 0.3 to 3 m in height. Facing page: the ad campaign for the launch of Revolutionair, done with street artists in the major European cities. - Caption pag. 118 Installation by Philippe Starck for the presentation of the home windmill prototype during the event GreenEnergyDesign, organized by Interni during Design Week in Milan in April 2008, at the cloisters of Ca’ Grande, part of the Università Statale of Milan. Below: on the left, Philippe Starck ‘blows’ on the windmill shown at GreenEnergyDesign; right, the new three-blade model of Revolutionair. - Caption pag. 119 Revolutionair Pramac three-blade, model WT1kW, in plastic and metal, diameter and height 1.45 m, support poles from 1 to 6 m. Maximum power at 14 m/s 1000 W.

Mutant objects p. 120 text Stefano Caggiano There’s a growing presence of ‘aliens’ in the design world. They express a new sensibility based on the evolution of natural forms. To approach a future that is hard to program. Reality has always been the demon of contradiction. But while the ancient world lived in the tragic sense of contrast, the modern era sees discrepancies in reality as the domain of negativity, which design is supposed to put back together in a harmonious synthesis. In this perspective differences, deformities, the resistance of matter to form was seen as the antithesis, the nemesis of design. The first decade of the 21st C. witnessed a radical disruption of this concept. Contemporary design, rather than ‘resolving’ the incongruent conflicts of cultural forms, seems to be busy liberating alternative possibilities for objects and the sensations they give us. In this scenario contradiction, instead of a defect, becomes a highly energetic source on which to draw for projects intent on differentiating things from themselves on all fronts. This is the deeper sense of aesthetics like that of the Self-Portrait seat by the young Ka-Lai Chan, of Eindhoven, obtained by ‘somatic’ absorption of first-hand experiences and sensations. Or like that of the Formation hanging lamp designed by Angus Hutcheson for the Thai brand Ango, whose physiognomy,

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rather than containing an idea, seems to come from the intentional liberation of the latent deformities of form. These are not just stylistic choices: design translates into perceptible terms what an era is already feeling but doesn’t yet know. Grasping the generative side of deformity leads to a deep remixing of basic design values, directly connected with a general weakening of social and anthropological structures in our liquid modernity, where every sign, no matter how effective, is short-lived and soon transforms into something else, depriving design of its capacity to pre-view, to pre-dict its results. But this condition, instead of stopping design action, gives it new vivacity, closer to evolutionary biology than to the constructive labor of traditional projects. The results, which seem almost conceived as the bodies of extinct creatures, are transgenic objects like the Muscle urban seating by Alexandre Moronnoz, and Urban Adapter, designed by the studio Rocker-Lange Architects of Hong Kong for that same city. Acceptance of evolutionary logic seems even more explicit in projects like Apis, designed by Alessandro Loschiavo for Aliantedizioni and inspired by the sophisticated morphological synthesis of insects, or the Julia.MGX lamp imagined by Peter Jansen for Materialise, which exploits the morphogenetic informalism of rapid prototyping to explore what seem like alien organic strategies. DNA is the most efficient replicator of all: but even greater, more enormous, is the power of deep time, in which the rare copying errors of genes make species mutate, through the selective conservation and accumulation of genetic variations that randomly, not through deliberate intent, turn out to be useful for survival. This is how, without intelligent design, certain fish became mammals and certain mammals mutated into human beings (we have four limbs because the fish we came from have four fins). But unlike genes, that replicate identically (except for the mistakes that make them evolve), the signs of new evolutionary creativity intentionally opt for reproduction in diversification: objects like the Foglie hanging lamp by Matali Crasset for Pallucco, or the Bloom lamp designed by the studio Alienology of Los Angeles, or the ‘textile sculpture’ Il Sogno made by Laura De Gennaro, Daniela Santucci and Thomas De Falco, express the aesthetic sense of an era in which mutation is no longer a means but an end. Evolution has had a frighteningly large number of generations in which to diversify living organisms. The creativity of the 21st century can count on a large number of experimental hotbeds of design activity that has taken on the dimension of a mass profession, an alternative strategy made necessary (and possible) by the widespread weakening of cultural structures that no longer permit a priori identification of the most fertile directions for design. Forced to act without a plan (in the sense of a forceful, long-term program), widespread creativity apes the behavior of evolution, acting not to adapt being to what being should be (as in the traditional ethic), but to diversify things from themselves in the immediate situation, thus keeping them alive. And our sensations with them. - Caption pag. 121 The Julia.MGX lamp designed by Peter Jensen for Materialize is made with the rapid prototyping technology. The final form is based on a fractal mathematical structure that gives the object the capacity to look different from every angle. Facing page: the Formation lamp by Angus Hutcheson for Ango, made with cocoons of silk mounted on a flat matrix with a rigid skin; the Apis stackable stool by Alessandro Loschiavo for Aliantedizioni, based on the world of insects and made in aluminium. - Caption pag. 122 Above, Urban Adapter, an urban furnishing element by the studio RockerLange Architects for Honk Kong. The project calls for multiple solutions based on the same parametric digital model that uses on-site information to generate strategic formal reactions. Right, the Muscle bench designed by Alexandre Moronnoz. Like the fibrous structure of a muscle, the bundle of cut metal sheets does the work of compression and tension that keeps the form rigid, letting it be crossed by sunlight. Below, the Self-Portrait seat by the young designer Ka-Lai Chan, with metal structure, polyurethane filler and stretch leather cover. - Caption pag. 123 The Foglie lamp by Matali Crasset for Pallucco. The project, based on the principle that governs the growth of plants, develops from a fractal scheme in which the same geometric element is replicated on different scales. The opaline polycarbonate shade is supported by a structure in painted metal. Below, the textile sculpture Il Sogno by Laura De Gennao, Daniela Santucci and Thomas De Falco, made with different materials –wool, hemp, linen, cotton and silver – assembled with the wrapping technique. Below, the Bloom lamp designed by Igor Knezevic for the Alienology studio and made with sheets of birch, cut by lasers to produce as little scrap as possible.

Bamboom p. 124 by Laura Traldi It’s attractive and sets an atmosphere. But it’s strong too: the more you cut it, the more it grows. The aggressive nature of the plant makes it a true resource for sustainable living. For once, Made in China also means sustainability. The protagonist of this positive development is a plant found mostly in subtropical climates: bamboo. Technically it is a woody grass, and it invades areas easily. It can grow 60 cm a day, requires no special treatments or fertilizers, and helps the planet just by existing: bamboo recycles lots of CO2 (12 tons per hectare) and produces 35 percent more oxygen than any other plant of similar size. Besides all these virtues, as a material bamboo is extremely strong but very light at the same time. The numbers tell the story of the coming bamboo age. From 2004 to 2006 China increased exports of bamboo by a factor of ten to the textile industry and to companies specializing in bamboo flooring (like the Dutch company Plyboo). The furniture sector is also using the material extensively. Not just in the Orient, where it is a symbol of tradition, but also in the Occident, especially due to the boom of ethnic styles. Perhaps it is this ‘ethnic’ connotation that has kept bamboo off the minds of designers for so many years, with the exception of some ideas for flatware (like the collection by Giulio Iacchetti for Pandora in 2000) or kitchen utensils (like the proposals of LegnoArt or Sagaform). Konstantin Grcic tried his hand at boosting bamboo’s popularity in the furniture industry just two years ago with the 43 chair, made in collaboration with NTCRI (National Taiwan Crafts Research Institute) and TDC (Taiwan Design Center). Conceived as part of a project involving Taiwanese craftsmen and designers to update use of traditional Asian materials, the seat was composed of 43 strips of laminated bamboo, woven by hand to form a frameless structure that is extremely flexible and

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adapts to the human body. These characteristics, together with the intrinsic ecological value of the material, convinced Skitsch to put it into production one year later. In the meantime the focus on ‘virtuous’ production and sustainable materials grew by leaps and bounds. So bamboo and design began to go hand in hand. In the exhibition Design for a Living World that closed in January at the Cooper Hewitt National Design Museum in New York, bamboo was seen in the projects of Israel’s Ezri Tarazi, who used it to create a domestic forest containing all the customary contemporary high-tech accessories: computers, sound systems, lighting. In Italian production, for spring-summer 2010 the Campana brothers have proposed, for Alessi, a new version of the Blow Up collection of bowls, fruit holders, a table, a magazine rack and centerpiece in smoked, dried bamboo, tied by hand with natural glue-soaked rafia. A sort of return to the roots, because the Brazilian duo originally designed Blow Up back in 2004 precisely with bamboo. After all, besides being inexpensive and absolutely ecological, bamboo is also versatile. As the new Mello hassocks by the French company Ekobo and the Bourke seats by Ryan Frank demonstrate, it also looks great in color. - Caption pag. 125 The ‘socializing’ Linger bench by Indonesian designer Alvin Tjitrowirjo, permitting multiple persons to sit in a fluid way, focusing on the central pivot of the back. On the facing page, the Blow Up collection by the Campana brothers for Alessi. First made in 2004 in stainless steel, this year it comes in bamboo. - Caption pag. 126 Right: a cutting board from the Bamboo line by Sagaform (distributed by Schoenhuber). Below: installation of bamboo totems used to support computers, speakers, lighting fixtures and furnishing complements. Designed by Ezri Tarazi, seen at the Cooper Hewitt National Design Museum in New York. Facing page: above, a sushi tray in solid bamboo by LegnoArt; bamboo forks by Giulio Iacchetti for Pandora. Below, the Bourke chair by Ryan Frank for Rossmore Furniture, in bamboo and colored felt, and the Mello hassock in painted bamboo from Ekobo, a French company that has always used this material for furnishings. - Caption pag. 128 A flexible, wearable structure in bamboo, object-sculpture designed by Maria Blaisse. - Caption pag. 129 1. Bamboo flatware by Hannu Kähönen for Creadesign. 2. 43 chair by Konstantin Grcic for Skitsch: strips of laminated bamboo, woven to create an enveloping, flexible volume with a chassis. 3. Bamboo forks by Hannu Kähönen for Creadesign. 4. For Petit Déjeuner, limited-edition furnishing complement for the London-based Fumi Gallery, made by Studio Glithero in bronze using a bamboo mould. 5. Beyond parquet: modular textile floors by InterfaceFlor, seen here in a bamboo version. 6. Still a concept but soon to hit the production line of Gelderland. Architectural, massive, the Bamboo Chair is a project by Tejo Remy and Rene Veenhuizen 7. About sixty circles taken directly from a bamboo trunk cut crosswise, form the seat of the Bamboo chaise longue, with a metal chassis. By Ezri Tarazi.

Becoming forms p. 130 by Katrin Cosseta Gestaltung today: forms between thought and action. The aesthetic of the imperfect and the indefinite is back. Furniture and objects with corrugated surfaces, crumpled profiles, as if crystallized in their formation. Volumes shaped by random strains that determine one-of-a-kind pieces. Design comes from process, the provisional becomes definitive, the metaproject becomes product. The protagonists are materials: metal, plastic, ceramics, fabric, leather, in continuing experimentation between art, industry and crafts. - Caption pag. 131 Batucada Collection, designed and produced by Bruno Jahara/Jahara Studio, composed of vases, trays and lamps in recycled aluminium, hammered by hand, in a range of different colors. Sponge by Peter Traag for Edra, in the new gold version. The chair is obtained by directly foaming polyurethane inside the oversized cover. When the material cools it adjusts to fit around the profile. - Caption pag. 132 1. Tab.u by Bruno Rainaldi for Opinion Ciatti, hand-wrinkled aluminium stool. Available in gold, white and black, and the new mirror finish. 2. Luxury Silver chair designed and produced by Essent’ial, made with raw natural cotton bonded with silver sheet. The fillers can be made by the consumer by recycling discarded clothing, newspapers or plastic bottles. 3. Sleeve by Silvio Stefani and Paolo Miatto for Inside, ceiling lamp with tubular shade in rubberized fabric with visible stitching, freely folded. 4. Chippensteel by Oskar Zieta for Zieta Prozessdesign, chair made with ‘Fidu technology’: the volume is created by two ultrathin sheets of steel, welded at the ends and inflated by high air pressure. 5. Plopp by Oskar Zieta for Hay, stool in polished or epoxy powder-coated stainless steel sheet, made with Fidu technology. Available in 5 colors. - Caption pag. 135 1. Saving Space Vase by Joe Velluto for Plust Collection, vase in low-density rotomoulded polyethylene, which when subjected to pressure when leaving the mould takes on unique, unrepeatable forms. 2. Ambar, from the Nativo collection by Fernando & Humberto Campana for Corsi, vase in transparent flexible resin bonded with natural reverse leather. 3. Mesh vases by Werner Aisslinger, collection of handcrafted blown vases with silver interior, made with the experimental laboratory CIAV Meisenthal. 4. Coupole designed by Tavazzani+Kassem for Alt Luci Alternative, hanging lamp with shade in Alicrite String Light. 5. Structura Paper by Martin Freyer for Rosenthal Studio-Line, vase in matte-finish porcelain, designed in 1967. 6. Voronoi designed and produced by Sander Mulder, vase in nylon made with rapid prototyping. - Caption pag. 136 1. Diamond cabinet, designed and produced by Fendi Casa, in glossy painted wood, with Crystal effect relief door and shelves in painted wood or tempered glass. Available in 8 colors. 2. Arctic Rock by Jasper van Grootel for Jspr, collection of furnishings with faceted surfaces, in glossy painted solid wood, complete with bone china vase made by Pol’s Potten. 3. Angolo by Marko Macura and Ingeborg van Uden for Covo, pouf in polyurethane with faceted seat. - Caption pag. 137 4. Tonda by Alessandro Mendini for Zerodisegno, credenza with front decorated with polychrome wrinkled stylemes, photographed with oblique lighting and then sublimation printed on aluminium. Limited edition of 9 pieces. 5. Pimp my Sharpei, one-off created by Massimiliano Adami, obtained with a Sharpei chair by Cappellini covered with newspaper bonded and impregnated with silicon. 6. To be continued by Julien Carretero, table in polyurethane composite, poured by hand into polyethylene moulds. Independent production.

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