INdice/contents DIcemBre/DECEMBER 2010
INterNIews INternational 19
IN copertina: House of Stone, installazione di John Pawson realizzata lo scorso aprile all’Università degli Studi di Milano in occasione del grande evento Interni Think Tank. Si tratta di un archetipo di casa di dimensioni 9,4x4,5xh4,93 metri interamente rivestito in Lithoverde, uno speciale materiale lapideo ecocompatibile, brevettato e realizzato da Salvatori con scarti di produzione della pietra, adattabile ai pattern richiesti dai progettisti. on the cover: House of Stone, the installation by John Pawson made in April at the Università degli Studi in Milan for the major event Interni Think Tank. A house archetype, measuring 9.4 x 4.5 x h4.93 meters, entirely covered in Lithoverde, a special ecocompatible stone material, patented and produced by Salvatori with scrap from stone production, and able to adapt to the patterns specified by designers. (foto di/photo by Andrés Otero)
dossier design in danimarca design in denmark
in collaborazione con il Consolato Generale di Danimarca Produced by Interni in collaboration with the Consulate General of Denmark Menti quadrate e pensieri fluidi Square minds and fluid thoughts Ole Jensen, materia e magia/Material and magic GamFratesi, il caldo nel freddo/The warmth in cold Ditte HammerstrØm, design fatto ad arte/Artful design Kasper Salto, versatile neofunzionalista Versatile neofunctionalism KiBiSi, il nome di un incontro/The name of an encounter Louise Campbell, la trama degli opposti/The plot of opposites Rivoluzione? No grazie/Revolution? No thanks Il trasformista/The transformer luci del nord/Northern lights All’insegna della leggerezza/Under the sign of lightness messaggi come quadri/Messages like paintings il virtuoso del legno/The wood virtuoso danish lifestyle Promotori d’innovazione/Promoting innovation 52 produzione production il design mette le ali/Design gets wings il nuovo aspetto del suono/The new look of sound INitaly
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produzione production natale pulp/Pulp Christmas fuori e dentro cersaie/Inside and outside Cersaie hasuike disegna l’acqua/Hasuike designs water Proporzioni auree/Golden proportions
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project
progetto morphing/Morphing project casalgrande ceramic cloud l’evoluzione del legno/The evolution of wood la forza delle idee/The force of ideas Evoluzione a 2 ruote/Evolution on 2 wheels 78 eventi events MILANO DESIGN WEEKEND 2010 92 showroom aton shop a/in bergamo
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INdice/CONTENTS II INtertwined
anniversari anniversaries 75 anni di/75 years of marazzi 75 anni di/75 years of artek deborah: 100 anni di bellezza/100 years of beauty 101 in libreria in bookstores 102 food design TUSCANIA: BOSCOLO ETOILE ACADEMY 104 mostre Exhibitions L’ARTE SBARCA A/Art goes to MARRAKECH 109 info & tech IL TABLET INTERATTIVO IN CUCINA/Interactive tablet in the kitchen 115 fashion file DA COSA NASCE COSA/One thing leads to another 116 progetto città city project CITYLIFE, UN PRODOTTO ARCHITETTONICO/An architectural product 118 sostenibile sustainability DALLA LAMPADA ALLA CITTÀ/From the lamp to the city CULTURES AND FUTURES 94
INservice
121 128
traduzioni translations indirizzi firms directorY
2
INtopics 1
editoriale editorial di/by gilda bojardi
INteriors&architecture
18
a cura di/edited by antonella boisi 2
john pawson: monografia
monograph Testo di/text by deyan sudjic
speciale danimarca
Special issue on Denmark
18
viva la evolucíon
Testo introduttivo di/introduction text by bjarke ingels/studio big 24 24
copenhagen, trilogia residenziale residential trilogy progetti di/projects by studio big testo di/text by alessandro rocca
32
32
copenhagen, horten headquarters progetto di/design by studio 3XN foto di/photos by adam mØrk testo di/text by antonella galli
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copenhagen, danish radio concert house progetto di/design by ateliers jean nouvel foto di/photos by philippe ruault testo di/text by matteo vercelloni
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INdice/CONTENTS III
INsight INfactory 42 42
elena zambon, benessere collettivo
collective wellness foto di/photos by Marino Ramazzotti di/by Virginio Briatore
48
INprofile 48
marc sadler, il progetto ruvido the rugged project di/by Cristina Morozzi INscape
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patti smith, the dark lady di/by ANDREA BRANZI
INdesign INcenter 56
classicismi contemporanei contemporary classicism di/by Nadia Lionello
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la chimica dell’attrazione
chemistry of attraction foto di/photos by Paolo Veclani di/by nadia Lionello INproject
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icone con sorpresa
icons with a surprise di/by Laura Traldi 76
tropical modern di/by Franco Raggi
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la forza, che bella forma!
force, what great form! video di/by Yoox di/by Maddalena Padovani
76 84
telefono senza fili
wireless phone di/by JoeVelluto (JVLT) INproduction
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guardando a nord
looking north di/by katrin coSSETA
INservice 94
indirizzi firms directorY di/by adalisa uboldi
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traduzioni translations
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INtopics / 1
EDiToriaLe
C’
è un link, forse non chiaramente percepibile e riconoscibile, che lega i due ‘corpi’ principali che strutturano la ‘copertina’ del numero di dicembre: la monografia su John Pawson e lo speciale su design e architetture in Danimarca. Si tratta di un segno progettuale di estrema pulizia espressiva: rigoroso, essenziale, fondamentalista. In cui il purismo della linea si coniuga con una ricchezza di contenuti, anche sensoriali, di ricerca sui materiali e di cura del dettaglio. Un segno progettuale complesso, ma proprio per questo bello, perché approfondisce i paradigmi di riferimento di un dna preciso dello spazio, del tempo e dei luoghi. La prima parte della nostra rubrica Interiors&Architecture è dedicata dunque alla lettura dell’opera di John Pawson, un maestro di lunga data nell’arte della semplificazione formale. L’ architetto britannico è protagonista fino al prossimo 30 gennaio di una personale al Design Museum di Londra raccontata dal direttore Deyan Sudjic. La seconda parte è invece focalizzata sulla nuova architettura danese. Lo specifico scenario di Copenhagen restituisce nei lavori di giovanissimi studi locali quali BIG o 3XN una libera interpretazione dei temi della sostenibilità ambientale, che suggeriscono un utilizzo innovativo di spazi abitativi privati e pubblici. Con tipologie e organizzazione dei percorsi molto ingegnosi, attenzione all’esposizione delle facciate e ottimizzazione del rendimento energetico degli edifici. Se le recenti architetture made in Denmark si propongono come landmark urbani di una città laboratorio, l’attuale design danese non risulta da meno in termini sperimentali. Il rispetto della tradizione e la lezione dei maestri restano sullo sfondo. Ma lo sguardo delle nuove generazioni è tutto rivolto al futuro. Gilda Bojardi
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Danish Radio Concert House, Copenhagen, progetto di Jean Nouvel. (foto di Philippe Ruault)
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INteriors&architecture
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La copertina della monografia John Pawson Plain Space di Alison Morris (Phaidon Press, Londra, 2010) uscita in occasione della personale al Design Museum. pagina a fianco, l’esposizione al Design Museum di Londra ripercorre il percorso di Pawson attraverso le sue opere più celebri. (foto di Gilbert McCarragher).
John Pawson
britannico, Architetto, 61enne, è protagonista fino al 30 gennaio di una personale al Design Museum di Londra. La profonda complessità del suo linguaggio che coniuga il gusto per l’essenzialità e il rigore con una ricchezza di contenuti sensoriali che epurano le linee e azzerano ogni fronzolo ci viene raccontata da deyan sudjic, il direttore del design museum di londra testo di Deyan Sudjic
L’
attuale mostra di John Pawson al Design Museum è affollatissima. I visitatori si siedono tranquillamente sulla lunga panchina realizzata dagli artigiani danesi di Dineseen, pezzo unico ricavato dal tronco di un abete di Douglas della Foresta Nera attentamente selezionato. Si soffermano intorno al tavolo ricavato da quello stesso albero e vanno alla scoperta dei ricordi, delle lettere e delle fotografie che segnano una vita e una carriera. C’è un appunto scribacchiato da Karl Lagerfeld in cui dice a Pawson che le stanze circolari non gli interessano. C’è una nota dello scrittore Bruce Chatwin, tra l’altro suo cliente, che si lamenta per le perdite nel soffitto
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dell’appartamento che Pawson ha realizzato per lui. Successivamente i visitatori si spostano nella sala dove Pawson stesso ha creato, nel bel mezzo della mostra, un ambiente con soffitto a volta e pavimento rivestito da doghe sempre in pino di Douglas. Da un’estremità della mostra si fa capolino sul resto del museo attraverso il filtro impalpabile di un velo di garza. Non si tratta di un rimando né di una spiegazione dell’architettura. Questa è architettura. Una mostra retrospettiva sull’architettura deve poter interessare e comunicare con il pubblico. Per quanto riguarda la mostra di Pawson, era chiaro fin dall’inizio che avremmo cercato di trasmettere l’essenza della sua opera. Questo avrebbe comportato la creazione di un’installazione architettonica a grandezza naturale e anche la modifica delle gallerie del museo per convogliare e incarnare le qualità della visione architettonica di Pawson. Era una mostra che doveva essere concepita in modo da poter trasmettere tutta una serie di messaggi diversi. Uno di questi è l’idea di processo, un altro la biografia. Durante la discussione è emersa l’idea di approfondire il rapporto tra il paesaggio e un’oculata selezione di progetti di Pawson, appositamente fotografati e stampati ad alta definizione in digitale. Quando Pawson ha accettato di lavorare con noi sulla mostra, non avevamo ancora cominciato il processo di selezione che alla fine ha portato ad affidargli l’incarico di creare la nuova sede del Design Museum. È solo un anno dopo che gli abbiamo commissionato il compito di rimodellare l’ex Commonwealth Institute, che per noi era una pietra miliare degli anni Sessanta. E la sua opera è entrata a far parte del nostro programma non per il potenziale progetto che avrebbe potuto rappresentare per il museo, ma perché abbiamo visto nel suo modo davvero particolare e personale di interpretare l’architettura la possibilità di offrire al nostro pubblico un insight sulla natura del design. Il destino ha poi voluto che la mostra aprisse proprio il giorno in cui l’Heritage Lottery Fund ha annunciato la propria decisione di sostenere il nuovo edificio, ma non prima che avessimo già preso in considerazione molto seriamente tutta una serie di altri designer per quel compito, alcuni dei quali avevano già esposto le loro opere al museo. La concomitanza dell’inaugurazione e della committenza è stata una coincidenza. Ma è sicuramente e decisamente diverso fare il curatore di un’esposizione di qualcuno con cui si sta cominciando anche a pensare di collaborare su un consistente progetto edilizio. Questo aiuta a definire l’essenza della sua opera e pertanto il messaggio che la mostra intende trasmettere. La mostra di Pawson è solo uno dei numerosi eventi architettonici che hanno costituito un elemento fondamentale del programma del museo da quando Terence Conran vi diede inizio più
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4 / INteriors&architecture Nelle immagini: la sala centrale, fulcro simbolico dell’esposizione, concepita come installazione site-specific, una stanza 1:1 dove i visitatori possono sperimentare il senso dello spazio. Uniche presenze, due panche in legno dove sedersi e una luce d’atmosfera. sotto, Planimetria e modelli per il progetto d’allestimento della mostra John Pawson Plain Space ospitata all’ultimo piano del Design Museum di Londra.
F
G
H
I Baron House
Sackler Crossing
J
K
Martyrs Pavilion
North Sea Apartment
Exit 1 Landscape and Materials
A
A Baron House (Falun Black Timber & Zinc)
Rosmead 1:20 Model
Sackler Crossing (Granite & Bronze)
Martyrs Pavilion (Oak & Marble)
North Sea Apartment (Lavastone & Onyx)
Exit 3
B
B
Pawson House Selected Models
Time Line
Exhibition Title & Text
Fabric Screen
Threshold
C
1:1 Room
Screening Room
C
Conc. Bench
Pawson Office Treviso Chapel Model
Drevviken 1:100
D
Scriptorium
Chapel model
D
Site Model
Treviso 1:25 Model
Exit 4 Display case
Jaffa 1:50 Facade
E
F
di 21 anni fa. Il museo si occupa del design delle auto e della questione dell’identità nazionale, della moda di Hussein Chalayan e dell’approccio alla grafica di Wim Crouwel. Per noi l’architettura fa parte integrante del mondo del design nelle sue varie sfaccettature. Abbiamo ospitato mostre su Frank Lloyd Wright, Eileen Gray (due volte), Buckminster Fuller, Archigram e Cedric Price, tutti progettisti che avrebbero potuto costituire una scelta interessante come architetti per il nuovo edificio; ma nessuno di loro, eccezione fatta per i sopravvissuti di Archigram, era ancora vivo all’epoca delle esposizioni. Presentare il design come un continuum di approcci diversi, che vanno dalla moda al product design senza soluzione di continuità, è una vera e propria strategia. Questo significa che, in qualsiasi momento, si sarebbe potuto attraversare il museo e vedere tutta la gamma: dalle fotografie di David Adjaye sul tema dell’Urban Africa a un certo piano al design sostenibile sull’altro. A un certo punto due forme di sobrio razionalismo sono emerse contemporaneamente, con David Chipperfield al primo piano, e Dieter Rams, all’ultimo. In altre circostanze c’è stata più dissonanza: il Sam Hecht di Industrial Facility non poteva essere più diverso dalla fotografia stravagante di Tim Walker, sebbene in entrambi i casi le mostre siano riuscite a trasmettere un’idea dei metodi di lavoro dei protagonisti. Nei quattro anni in cui sono stato direttore del museo, abbiamo aggiunto al programma più architetti contemporanei viventi. Zaha Hadid, Richard Rogers e David Chipperfield
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All discrepancies within these drawings are to be reported to the Architects and confirmed with the District Surveyor.
Date
.
Cloister/Lavabo/Chapter models Choir model
Jaffa 1:500 Site Exit 2
Rev © drawing is copyright do not scale . all dimensions to be checked on site All construction, materials, workmanship etc to meet The National Building Regulations and Codes of Practice.
Display case
1:20 Church model
Table Fabric Screen
G
Drevviken
Jaffa
Treviso 1:200 Model Treviso
Site Model
On Site
H
text & references
Cloister
text & references
I
Description
.
E Display case
Church models
Church
NOT FOR CONSTRUCTION
J
Novy Dvur
Design and Building
K
Client:
Project:
Scale:
Drawing No.:
Design Museum
John Pawson Exhibition
1:100 @ A3
A.02
1:50 @ A1
John Pawson Unit B 70-78 York Way London N1 9AG Telephone 020 7837 2929 Facsimile 020 7837 4949 email@johnpawson.com
Drawing Title:
Top Floor Plan
Job No:
0814
Date:
May 2010 Revision:
.
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sono stati dei nostri e John Pawson rientra in questo novero. In futuro lavoreremo, tra gli altri, anche con Kazuyo Sejima. Di conseguenza, il Design Museum è diventato uno dei luoghi pubblici di Londra che vanta la maggiore visibilità per presentare l’architettura. Lavoriamo su mostre monografiche in cui la chiave di volta sta nello scegliere un soggetto assicurandosi che il suo lavoro venga presentato con la massima efficacia e impegno. Ma organizziamo anche esposizioni tematiche in cui il ruolo del
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curatore è naturalmente più visibile, nel senso che il contenuto della manifestazione è improntato a un’idea, a un manifesto o a una serie di osservazioni. Può risultare più difficile ‘far passare’ questa forma di evento a un pubblico generico che non conosce le tematiche rispetto alla presentazione di una singola carriera. Una delle attrattive della mostra di Pawson è che può essere considerata nel contempo monografica e tematica. In altri termini, un’esposizione su Pawson si identifica per forza di
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Lungo le pareti bianche sono state appese gigantografie delle architetture piÚ note e rappresentative di Pawson che ha disegnato ad hoc i tavoli e le sedute dello spazio espositivo. grandi campioni dei materiali usati, anch’essi parte del repertorio iconografico dell’antologica, sono stati disseminati su pedane e piedistalli.
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L’esperienza architettonica di Pawson focalizzata sui paradigmi di riferimento di spazio, luce e proporzione, si racconta con immagini oversize e modelli dei progetti in fieri o già realizzati. le foto della mostra sono di gilbert mccarragher.
cose con l’individuo, ma è anche chiaramente vista come qualcosa di molto specifico nel panorama del design. Negli anni Novanta, Pawson ha prodotto un libro notevole intitolato Minimum, che, in quel suo modo di fare schivo ed elegantemente inglese, era un manifesto, pur senza aver mai fatto ricorso a questa parola. Prendeva in considerazione una serie di qualità architettoniche: sequenzialità, massa e così via, e il modo in cui queste sono state applicate nell’arte e nell’architettura nel corso di diversi secoli. Coglieva un certo aspetto del mondo e dimostrava i collegamenti tra idee e realizzazioni che non sempre sono connesse tra loro. In questo contesto, Pawson introduceva saltuariamente esempi tratti dal suo lavoro. Questo avrebbe potuto essere il punto di partenza della mostra, anche se sarebbe stato
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complesso e costoso organizzare i prestiti delle opere di Agnes Martin, Sol LeWitt e dell’argenteria del XVIII secolo. In loro assenza, non avrebbe funzionato. Le fotografie dei libri sono convincenti in un modo che le rappresentazioni fotografiche delle mostre fisiche non riescono ad essere. Abbiamo così optato per una struttura episodica della mostra. La biografia si trova sul tavolo all’ingresso della galleria. Al centro c’è la stanza in scala 1:1, su un lato la promenade dove si possono ammirare immagini immense di quattro progetti corredate da campioni dei materiali su cui questi sono basati, organizzati a coppie. Il bronzo e lo zinco stanno sul pavimento vicino alla rappresentazione del Sackler Crossing di Kew Gardens; lo zinco e il legno dipinto di nero rimandano alla fotografia della casa di Fabien Baron in Svezia. Sull’altro lato della volta, una seconda promenade si concentra sul progetto e sulla realizzazione del monastero di Novy Dvur e su un paio di altri progetti più recenti, mentre sul retro della galleria c’è uno schermo cinematografico su cui è proiettato un video sull’opera di Pawson. Pawson viene identificato come l’ideatore (originator) di ciò che, a torto o a ragione, è nota come la versione contemporanea del minimalismo architettonico. Devo confessare di aver avuto anch’io una certa responsabilità nell’aver associato questo termine a Pawson, quando ho ideato il titolo
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10 / INteriors&architecture Neuendorf House, Majorca, Spain,1989. una casa-vacanza per il mercante d’arte tedesco hans Neuendorf che si propone come un volume di riferimento iconico costituito da tagli assoluti, in intrinseco rapporto con la terra e i colori del luogo. (foto Richard Bryant)
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sopra, Baron House, Skåne, Sweden, 2005. una casa unifamiliare nel verde della campagna svedese. il total white dell’involucro spaziale interno è acceso da pochi e selezionati arredi di matrice nordica. sedie di hans wegner per fritz hansen. (foto Fabien Baron)
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in basso, House of Stone – La casa di pietra, archetipo di ‘casa’ realizzato con Salvatori per l’evento INTERNI ThinkTank, all’Università degli Studi di Milano, durante Milano Capitale del Design® 2010. (foto Andrès Otero)
sotto, Tetsuka House, Tokyo, Japan, 2005. ancora un segno assoluto che epura le linee e azzera ogni fronzolo a favore di un’estetica rigorosa e purista di ispirazione nipponica. (foto Hisao Suzuki)
di un articolo che ho scritto per la rivista Blueprint agli inizi degli anni Ottanta, prendendo con disinvoltura a prestito una parola associata all’arte di Donald Judd, Carl Andre e Dan Flavin. Sebbene Pawson fosse molto toccato dalla loro opera, c’è ben poco in comune tra i loro lavori, che si possono considerare come oggetti trovati, e la raffinatezza della sua architettura. Pawson è da molti punti di vista tutto tranne che un modernista. La sua opera ritorna costantemente a quelli che potremmo definire gli elementi architettonici più tradizionali per eccellenza: spazio, luce e materiale nonché il rapporto elementare che questi hanno con l’uomo. Pur non essendo un fondamentalista, ha a che fare con gli elementi fondamentali dell’architettura. Ci mostra lo stato di grazia che un certo ordine visivo e materico può comunicare. Ci aiuta a capire come l’architettura possa inquadrare la nostra vita. Ci dà un momento di requie e un senso di ottimismo. Pawson può essere visto come un membro di un certo filone dell’architettura che si distingue dalla corrente principale.
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dicembre 2010 Interni Sackler Crossing, passaggio pedonale sul lago dei Giardini Botanici Reali Kew, Londra, un progetto del 2006 che ha meritato il RIBA Award. (foto Richard Davies) Casa privata, Germania, 2004. volumi a sbalzo integrati in una sommatoria di elementi compiuti e definiti si riflettono nella composizione degli spazi interni e degli arredi. (foto werner huthmacher)
Il punto di vista del Direttore Una delle differenze che mi hanno maggiormente colpito quando sono passato dal ruolo di editor di riviste di design e architettura a quello di direttore di un museo è stata scoprire com’è avere un contatto diretto con il pubblico. Pubblicare una rivista è un po’ come mettere un messaggio in una bottiglia e lasciare che si allontani sulle onde del mare. Di tanto in tanto, si ha un feedback: la lettera adirata all’editore dell’architetto indignato che si proclama vittima dei mercenari anglosassoni (cosa che mi è capitata quando stavo a Milano); le minacce di azioni legali (mi è successo quando scrivevo per un giornale a Londra). Il tipo di richiesta più frequente, comunque, è quello di maggiori informazioni da parte delle biblioteche tecniche interessate al grado preciso di calcestruzzo utilizzato da Zaha Hadid per il ponte-padiglione di Saragozza. Gestire un museo è un po’ come gestire un teatro. C’è un riscontro immediato e fisicamente tangibile. Se ai visitatori piace quello che fa il museo, ci vengono volentieri e ci passano molto tempo. Ci si può mettere all’ingresso e osservare l’espressione sui loro volti. Si capisce quando apprezzano quello che trovano. Puoi ascoltarli mentre fanno commenti. Puoi guardarli mentre scattano foto dei cartelli con il cellulare. Naturalmente, anche se non sono felici, te ne accorgi. Se ne stanno alla larga. I giornali, le riviste, la televisione e i blog dicono cose poco carine. Anche le cifre sono molto diverse. Quando ero direttore della Biennale di Architettura di Venezia nel 2002, attiravamo più di 100.000 visitatori paganti in tre mesi. Non ho prove, ma sono pronto a scommettere una bella somma di denaro sul fatto che nessuna monografia di architettura in nessun posto sia mai riuscita neppur lontanamente a eguagliare queste cifre.
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L’allestimento scenico di Chroma, balletto per la London’s Royal Opera House, 2006. (foto Richard Davies)
Accanto, lavabo, Saatchi House, London, 1987. fa parte degli arredi disegnati per la casa della collezionista doris saatchi. sotto, ciotole in ceramica o pietra della serie When Objects Work, 2010. rappresentano una reinterpretazione sul tema del cilindro e della composizione sferica. (foto Sven Geboers)
il Monastero circestense di Nostra Signora di Novy Dvur in Boemia, progetto di ristrutturazione completato in una prima fase nel 2004, con ulteriori interventi di riconversione-ampliamento successivi (Premio Internazionale di Architettura Sacra Frate Sole per la migliore opera di culto dell’ultimo decennio). (foto Hisao Suzuki)
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Al Design Museum nel giro di una settimana riusciamo a vendere fino a 4000 biglietti a 8.50 sterline l’uno. Per una mostra della durata di quattro mesi questo significa 70.000 persone. L’esposizione di Ron Arad al MoMA l’anno scorso ha attratto quasi 500.000 visitatori, anche se naturalmente il prezzo del biglietto consentiva di accedere anche al resto della collezione. Nessun numero di qualsivoglia rivista di design o architettura al mondo potrebbe fare altrettanto. Dico tutto questo non per esprimere giudizi di merito sul valore o sui risultati che possono essere ottenuti da un media piuttosto che da un altro. È chiaro però che una mostra che funziona ha quel certo quid che convince molta più gente a pagare per viverne l’esperienza di quanto sia disposta a sborsare per un libro o una rivista. Il diverso grado di attrattiva potrebbe essere un semplice riflesso
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il primo flagship Calvin Klein a Manhattan, 1995. un progetto-pilota di semplificazione formale riproposto con le medesime modalità negli altri contesti che annoverano punti-vendita del brand. (foto Christoph Kicherer)
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del livello di investimento, in quanto la spesa maggiore rende le mostre proposte più allettanti agli occhi dei visitatori. Anche se si aggiungono gli stipendi degli scrittori, il pagamento dei diritti di autore per la fotografia e il design, per un numero di rivista probabilmente si può stimare un massimo di 250 sterline a pagina. Per una pubblicazione di 120 pagine quindi 30.000 sterline. Con questa stessa cifra si potrebbe organizzare anche una mostra, per quanto dipenda dallo spazio che si ha da riempire. 150.000 sterline sarebbe un budget più consono e le grandi mostre come quella di Ron Arad, con tanti prestiti internazionali, assicurazioni e corrieri che
insistono per prendere voli in business class quando viaggiano portando con sé opere preziose, necessiterebbero di investimenti ancora più elevati. Ma dato che queste 150.000 sterline comprenderebbero i costi dei tecnici, la produzione e il cantiere in loco, mentre le cifre relative alle riviste non sono comprensive di carta, stampa e distribuzione, non è facile fare confronti diretti. Nel complesso, direi che la differenza di dimensioni del bacino di utenza è determinata da ben altri fattori rispetto ai livelli di spesa. È troppo facile e banale ribadire il concetto trito e ritrito secondo cui una mostra di architettura non può
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Runkel Hue-Williams gallery, London, 1988. la dimensione estetica non trascura esigenze di carattere pragmatico. (courtesy photo John Pawson studio)
Lobby & Gallery del Puerta America Hotel, Madrid, 2005, realizzazione corale che ha visto all’opera nelle parti comuni e private dell’edificio architetti e designer quali interpreti del libero pluralismo linguistico caratterizzante la nostra epoca. (foto Rafael Vargas)
Sloop – B 60, 2007. cura del dettaglio e ricchezza di finiture raggiungono una notevole complessità di espressione nei progetti nautici firmati pawson. (foto Jens Weber)
riprodurre l’esperienza primaria dell’architettura; che quello che viene esibito è in un certo senso un’opzione di ripiego, se la si confronta, per esempio, con l’esperienza primaria di un’opera d’arte autonoma. Una mostra di architettura efficace e tangibile offre davvero un’esperienza più ricca e coinvolgente che parla alle persone più di quanto possa fare qualsiasi descrizione in un libro o rivista. Proprio come gli spettacoli live continuano a fiorire sebbene le vendite di CD siano calate drasticamente, anche l’esperienza primaria, condivisa e tangibile che offrono le mostre conferma l’attrattiva continua e crescente che esercitano sul pubblico.
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In queste pagine, The Black Diamond, la piĂš spettacolare e recente addizione alla scena del waterfront di Copenhagen, estensione in granito nero proveniente dallo Zimbabwe e vetro della Royal Library, un progetto dello studio danese Schmidt, Hammer & Lassen del 1999. Segni particolari: facciate inclinate, tagli di luce a tutta altezza e un atrio che restituisce la composizione astratta e aperta dei vari livelli. (foto di Alfio Garozzo)
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La nuova Copenhagen? Un laboratorio urbano, un terreno per ‘germogli’ sempre più fertili, un quadro dinamico per una visione abitativa sostenibile a tutte le scale di intervento. La riflessione introduttiva di Bjarke Ingels, socio fondatore dello studio BIG (European Prize for Architecture 2010), oggi di grande interesse e riferimento nel paesaggio danese, esprime un personale punto di vista Yes is more! che muove dall’analisi dell’evoluzione della società danese. Lo illustriamo con una serie di architetture iconiche dello scenario in cui Ingels & soci si trovano ad operare. La scelta ha privilegiato una serie di realizzazioni che, con matrici linguistiche differenti, restituiscono ospitali link tra city e landscape, cultura del waterfront e sapienti mix di acqua, spazio, verde e luce
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immagine tradizionale dell’architetto radicale è quella del giovane che si ribella all’establishment. L’avanguardia viene etichettata da ciò che denigra piuttosto che da quanto propone. Si giunge così a una successione edipica di contraddizioni, in base alla quale ogni generazione afferma l’opposto della precedente. E se il proprio programma si limita a posizionarsi in modo antitetico rispetto a qualcun altro, si diventa semplicemente dei seguaci al contrario. Piuttosto che atteggiarsi da radical
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ignorando il contesto (l’establishment, i vicini, il bilancio o la forza di gravità), intendiamo cercare di trasformare il compiacimento in un programma radicale. Il welfare danese è la cultura del consenso. Il Paese più egualitario al mondo dal punto di vista sociale è governato secondo alcuni principi assai validi: tutti hanno gli stessi diritti e ogni punto di vista ha lo stesso valore. Al di là delle ovvie virtù sociali, questi principi hanno avuto un effetto collaterale significativo nel regno dell’architettura: un grigio sentimentalismo dell’uniformità che spiega la stragrande maggioranza del tessuto urbano, dove quasi tutti i tentativi di emergere sono stati annacquati nella stessa scatola generica e non offensiva; e tutta la libido è stata veicolata nel lucidare e perfezionare anche i più minimi dettagli. La somma di tutte queste piccole ‘preoccupazioni’ sembra avere occultato lo sguardo d’insieme. E se il fatto di provare ad accontentare tutti non dovesse
necessariamente portare al compromesso o al minimo comun denominatore? Potrebbe essere un modo di realizzare quel capovolgimento sempre sfuggente che si torce e contorce per cercare di soddisfare qualunque desiderio e al contempo evitare di pestare i piedi a chicchessia. Ci interessa l’evoluzione più che la rivoluzione. Darwin descrisse la creazione come un processo di eccessi e selezione; così noi proponiamo di lasciare che siano le forze della società, i molteplici interessi di tutti, a decidere quali delle nostre idee possono vivere e quali devono morire. Le idee sopravvissute evolvono attraverso la mutazione e l’ibridazione in una specie totalmente nuova di architettura. La vita umana si è evoluta adattandosi ai cambiamenti dell’ambiente naturale. Con l’invenzione dell’architettura e della tecnologia abbiamo il potere di adeguare gli ambienti circostanti al modo in cui vogliamo vivere noi, invece di fare il contrario.
Sopra, The Harbour Baths. Accanto, Maritime Youth Centre, entrambi progetti di PLOT (=BIG + JDS), 2003-2004. (foto di Paolo Rosselli) Pagina a fianco, The PlayHouse of the Royal Theatre, progetto (2008) di Boje Lundgaard & Lene Tranberg, senior partners di C.F. Møller Arkitekts. (foto di Alfio Garozzo)
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qui a fianco, House of Music ad Aalborg, progetto di Coop Himmelb(l)au, in fieri. Dal foyer, il principale spazio di interconnessione interna, si raggiunge la Concert Hall principale e le sale dedicate a vari tipi di performance musicali. in basso, Cornerstone, edificio multi-uso comprensivo di spazi per ufficio e per lo shopping, progetto in fieri di jaja architects. pagina a fianco, Herning Museum of Contemporary Art, 2005-2009, progetto di Steven Holl, con la collaborazione degli architetti locali Kjaer and Richter. (foto di Iwan Baan)
È questo che rende interessante essere un architetto: con l’evoluzione della vita, le nostre città e la nostra architettura devono evolvere insieme ad essa. Le città non sono inquinate o congestionate perché così deve essere. Sono quello che sono perché noi le abbiamo fatte diventare così. Se qualcosa non va più bene, noi architetti abbiamo la capacità (e la responsabilità) di fare in modo che le nostre città non ci costringano ad adattarci ad obsoleti residui del passato, ma che siano loro ad adattarsi al modo in cui vogliamo vivere. Da questo punto di vista, noi architetti non dobbiamo restare dei geni misconosciuti, frustrati dalla mancanza di comprensione, di apprezzamento o di finanziamenti. Non saremo gli artefici-creatori dell’architettura, quanto piuttosto le ostetriche della nascita continua di specie architettoniche formate dagli innumerevoli criteri dei molteplici interessi. L’intero mondo insiste sul conflitto. I mass media vogliono il conflitto e i politici che desiderano la presenza dei mass media devono rinfocolare i conflitti per avere il loro momento di notorietà. Al momento il più grande conflitto della politica danese sta nel fatto che i socialdemocratici e i liberali (la destra e la sinistra) promuovono gli identici programmi politici. In qualsiasi altro contesto tale situazione sarebbe la definizione di armonia! In politica è l’opposto. E se il progetto potesse diventare il contrario della politica? Non ignorando i conflitti, ma traendone il proprio sostentamento. Un modo per incorporare e integrare le differenze, non attraverso il compromesso o scegliendo da che parte stare, ma legando gli interessi conflittuali in un nodo gordiano di nuove idee. Un’architettura inclusiva e non esclusiva. Un’architettura non oberata dalla monogamia concettuale dell’impegno a favore di un unico interesse o una sola idea. Un’architettura dove non è obbligatorio scegliere tra pubblico o privato,
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denso o aperto, urbano o suburbano, ateo o musulmano, appartamenti economici o campi da calcio. Un’architettura (progettualità) che consente di rispondere positivamente a tutti gli aspetti della vita umana, non importa quanto siano contraddittori! Una forma architettonica di bigamia, dove non è necessario scegliere uno o l’altro, ma si riesce ad avere entrambi. Un’architettura pragmatica e utopistica che si pone come obiettivo pratico la realizzazione di luoghi perfetti socialmente, economicamente ed ecologicamente. Yes is More, Viva la Evolucíon!
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ALLO studio danese BIG PENSANO davvero in grande. GRAZIE A UNA profonda cultura architettonica E A UNA creatività senza inibizioni, I GRANDI complessi residenziali DELLA periferia di Copenhagen DIVENTANO I modelli di riferimento PER LA COSTRUZIONE DELLA città di domani progetti di BIG testo di Alessandro Rocca
LA SPETTACOLARE FACCIATA DI VETRO COSTELLATA DI BALCONI TRIANGOLARI DEL COMPLESSO RESIDENZIALE VM, PROGETTATO DA BIG E JDS E COSTRUITO A ØRESTADEN, COPENHAGEN, NEL 2005. (FOTO NILS LUND) QUEST’ANNO BJARKE INGELS, SOCIO FONDATORE DELLO STUDIO BIG, HA RICEVUTO THE EUROPEAN PRIZE FOR ARCHITECTURE.
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Blocco residenziale VM, immagini del corridoio di distribuzione interna, coloratissimo e attrezzato. Per i 114 appartamenti sono state adottate 40 tipologie abitative diverse. (foto stuart mcintyre)
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anese, trentasei anni, Bjarke Ingels ha velocemente dimostrato un’eccezionale capacità di realizzare grandiose utopie urbane. I primi progetti di BIG (Bjarke Ingels Group, attivo dal 2005) hanno collegato con decisione utopia e pragmatismo con un’evidente discendenza dai pensieri e dalle opere del maître à penser dell’ultima generazione europea, Rem Koolhaas, con cui Ingels ha lavorato, all’inizio della carriera, e di cui rappresenta una versione aggiornata allo spirito di questi anni. Un altro aspetto caratteristico è l’interesse per il rapporto tra architettura e città e per
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l’organizzazione del territorio. Negli ultimi anni, si è molto rafforzata la figura dell’architetto-artista che crea spazi e forme d’eccezione in piena libertà creativa. Zaha Hadid e Kazuyo Sejima, da sponde opposte, sono due protagoniste esemplari di questa attitudine, sarà forse di qualche importanza la componente femminile? Difficile a dirsi. In ogni caso, Ingels segue vie opposte, mettendo in primo piano il ruolo urbano dell’architettura. Per esempio, ragionando sul progetto del superblocco 8H, Ingels dice: “Quando ha linee semplici e idee chiare l’architettura piace di più ma, d’altra parte, la città è viva quando è ricca di esperienze e di sorprese. Questa è la sfida paradossale: creare simultaneamente semplicità e varietà, diversità e coerenza. In altre parole, creare una città all’interno di un unico edificio, ritrovando la varietà della città storica. Ma come farlo? Facendo qualcosa che assomiglia a una città storica”. Una soluzione che poi, nel progetto, assume fattezze imprevedibili. Nessuna concessione stilistica, né sulle facciate né tantomeno nelle tipologie degli appartamenti o degli spazi aperti, e nessun materiale tradizionale, ma un dispositivo ultramoderno, nelle forme e nelle considerevoli dimensioni, che inventa nuove forme e percorsi per ripristinare quelle relazioni sociali di vicinato che, nella economicità delle tipologie moderniste, erano state colpevolmente trascurate. La sfida, e sarà il tempo a dire se la strategia di BIG è vincente, è trasformare un gigantesco condominio di
Tutti gli appartamenti sono caratterizzati da uno spazio ‘laboratorio’ multifunzionale a doppia altezza collegato a cucina e soggiorno, e da ampie stanze che possono essere ulteriormente suddivise a seconda delle esigenze degli abitanti. (foto jasper carlberg)
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Il complesso è formato da due blocchi separati a forma di ‘V’ e di ‘M’. A partire da una geometria tradizionale il progetto ha modificato e deformato i due blocchi per assicurare le migliori condizioni ambientali: penetrazione dell’aria e della luce del sole, vedute verso l’esterno della corte. (foto jimmy cohrssen)
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Veduta aerea del complesso VM e del successivo MTN (Mountain Dwellings), costruito da BIG nel 2008. Il secondo blocco sviluppa l’idea lecorbusiana dell’immeuble-villa, condominio urbano composto da una sommatoria di ville individuali. (foto dragor luftfoto) accanto, Il parcheggio, che occupa 2/3 del volume complessivo, contiene 480 auto e una piattaforma meccanizzata che sale in diagonale. In alcuni punti l’altezza del soffitto raggiunge i 16 metri e l’effetto di generosità e di accuratezza è rafforzato anche dal disegno delle pavimentazioni e dai colori. (foto ulrik jantzen) sotto, Dall’esterno si percepisce chiaramente come il blocco sia in realtà formato da due parti indipendenti: il volume maggiore del parcheggio, rifasciato da lastre di alluminio perforato, e la “collina” delle ville urbane. (foto jens lindhe)
475 appartamenti in una piccola città dinamica e vitale, e rendere nuovamente percorribile la strada dei grandi complessi ad alta densità che, a causa dei frequenti disastri dell’edilizia collettiva degli ultimi decenni, dallo Zen di Palermo a Corviale ai grandes ensambles francesi, sembrano condannati a un rapido degrado fisico e sociale. 8H segue da vicino altri due esperimenti appena condotti, sempre a Copenhagen, nel campo dell’housing ad alta densità, anch’essi due progetti innovativi e provocatori coronati da un indubbio favore, sia sul piano sociale e locale che sul piano dell’attenzione internazionale. Il primo è il sistema residenziale in due blocchi chiamato VM, dalla forma dei due corpi di fabbrica, firmato da Plot (cioè Big + JDS, iniziali di un altro giovane e brillantissimo progettista, Julien de Smedt) ed è un’interpretazione migliorativa del celebre sistema distributivo a strada centrale (la rue intérieure) sperimentata nell’Unité d’habitation di Le
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Le 80 ville, sospese all’altezza del decimo piano, sono separate dal tetto giardino soltanto da un infisso vetrato scorrevole che, nella bella stagione, permette di integrare le terrazze nelle attività quotidiane. (foto jakob boserup)
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8 House è un complesso residenziale, terminato nel 2010, che unisce il massimo di integrazione tra la privacy della vita suburbana e l’energia di un’intensa relazione sociale, attivata dalle corti-giardino e dal sistema dei percorsi pedonali in quota. (foto jens LindHe) Le 475 unità residenziali si suddividono in tre tipologie: appartamenti tradizionali, le townhouse, più adatte alle famiglie, e le più ricche penthouse sul tetto, con una magnifica veduta sul canale di Copenhagen e sull’oasi naturalistica di Kalvebod Fælled.
Un rendering del nuovo Danish Maritime Museum di HelsingØr, concepito come una rampa che risale lungo le pareti di un bacino di carenaggio in disuso; il vuoto centrale è attraversato da tre ponti che connettono i principali spazi espositivi.
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Corbusier. Tipologie e organizzazione dei percorsi molto ingegnose, con 40 tipi di appartamenti diversi, ma non manca anche il tocco d’astuzia di un’immagine memorabile, una folla di aggressivi balconi triangolari che si protende nel vuoto, sospesa su una una facciata completamente vetrata. Nelle parole di Ingels, “VM era un puzzle formato da appartamenti mentre Mtn è una collina artificiale di ville con giardino”. L’acronimo sta per Mountain Dwelling e indica un altro superblocco, nella periferia di Copenhagen, dove si contano almeno due invenzioni piuttosto abbaglianti. La prima è la decostruzione di un colossale condominio nella sommatoria degli appartamenti che, di nuovo sulla scorta di un modello lecorbusiano, sono trasformati in ville pensili. La seconda, altrettanto coraggiosa e innovativa, è la mutazione genetica imposta a un ingombrante parcheggio da 480 posti che diventa un ambiente di grande personalità, con spazi, materiali, colori e dettagli che ne fanno un interno di grande pregio e di forte impatto emozionale.
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Ricerca sui materiali, analisi delle funzioni, rapporto con il territorio convergono nel progetto dello studio danese 3XN per il quartier generale dello studio legale Horten a Copenhagen. Per un’architettura che ambisce a migliorare la sostenibilità e lo stile di vita
iL nuovo razIonaLIsmo progetto di 3XN - foto di Adam Mørk - testo di Antonella Galli
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gli headquarters dello studio legale Horten. L’edificio, di 10.000 mq, affaccia sul canale del porto Tuborg a Hellerup, sobborgo di copenhagen; in zona si trovano le sedi di importanti compagnie danesi, tra cui la Saxo Bank, altro progetto che porta la firma dello studio 3XN, proprio a fianco di Horten. Sotto, la facciata dell’edificio, dalle linee spezzate e dai volumi aggettanti, in cui le finestre, orientate a nord, si alternano al rivestimento in travertino e fiberglass ideato appositamente per questo edificio.
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l sobborgo di Hellerup, una manciata di chilometri a nord di Copenhagen, si affaccia sulle acque trafficate dell’Øresund, lo stretto che separa Danimarca e Svezia. Un tempo sede del birrificio Tuborg, Hellerup ha trovato una seconda vita come area satellite di Copenhagen, dove convivono complessi residenziali e palazzi per il terziario in una cornice ambientale ricca di verde e con alta qualità della vita. Qui, su uno dei canali dell’ex porto Tuborg, si specchia un nuovo edificio di ispirazione razionalista, dai volumi articolati e geometrici, che ospita la sede centrale dell’ufficio legale Horten. Il progetto, commissionato allo studio danese 3XN, guidato dal carismatico fondatore Kim Herforth Nielsen, si affianca alla sede della Saxo Bank, sempre a firma di 3XN, che nel 2009 ha meritato il Riba International Award. Lo sviluppo spaziale della nuova sede di Horten ricalca l’impostazione che contraddistingue lo studio 3XN nel suo percorso stilistico e
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progettuale: è una costruzione dai volumi lineari, spezzati e aperti secondo le esigenze di luminosità ed esposizione degli spazi interni. In questo edificio, infatti i progettisti hanno voluto migliorare il rendimento energetico rispetto ai requisiti richiesti a livello nazionale, agendo sullo studio accurato dell’esposizione e sulle prestazioni dei materiali impiegati per il rivestimento esterno. Il layout dei corpi che compongono l’edificio prevede che ciascuno degli uffici sia orientato verso nord, per impedire il surriscaldamento delle vetrate, e affacciato sul canale, per rendere piacevole la vista dagli spazi interni. A questo scopo l’involucro esterno è mosso da un gioco tridimensionale geometrico in cui le finestre aggettano verso l’esterno, o si compongono, sulla facciata a nord, come tagli diagonali dalla diversa inclinazione. Il rivestimento della superficie è stato oggetto di un lungo processo di ricerca, che ha portato alla realizzazione di moduli dalle varie forme composti da una base in fiberglass e schiuma poliuretanica isolante a cui è stata sovrapposta una lastra di travertino. Una nuova tipologia di rivestimento, mai prima d’ora sperimentata nell’edilizia civile, come afferma l’architetto Bo Boje Larsen, partner di 3XN e coautore del progetto: “Nella nostra ricerca abbiamo trovato diversi riferimenti alle navi e ai mulini a vento, ma nessuna costruzione civile con elementi in fiberglass autoportanti e isolanti”.
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Qui sopra: il vano scale che unisce i quattro livelli dell’edificio nelle due vedute inferiore e superiore. Sullo spazio circolare si affacciano le balconate dei vari piani, collegate da scale che lo tagliano in diagonale, con diversi orientamenti. L’effetto complessivo è di movimento e luminosità, grazie al bianco ottico delle pareti e al legno chiaro dei pavimenti.
in basso, l’atrio di ingresso, con la reception e i salotti d’attesa; non vi sono partizioni dell’ampio spazio, la riservatezza è garantita dalla distanza tra le varie postazioni. Il bianco prevale in tutti gli ambienti, con variazioni costituite dal legno chiaro dei pavimenti e della tinta scura naturale degli arredi. Lampada da terra Twiggy di Foscarini (design Marc Sadler) e Barcelona Chairs di Knoll international (design Mies van der Rohe).
La disposizione degli spazi interni prevede che le due ali in cui sono collocati gli uffici si raccordino in un vasto atrio centrale, di altezza pari a quella dell’edificio e illuminato da una vetrata affacciata sul canale. I quattro piani degli uffici si affacciano con balconate sinuose sull’atrio centrale, vero e proprio spazio di congiunzione concettuale e visuale dell’intero edificio (all’interno prevalgono le linee curve e continue rispetto a quelle spezzate dell’esterno). Il vano scale, più arretrato rispetto all’atrio, è di forma circolare: i vari piani sono collegati da scale lineari che attraversano il vano in diagonale, in più direzioni, creando un gioco di incroci alla vista di chi sale o scende. Il progetto degli interni è calibrato per regolare, con il massimo dell’efficienza, l’ergonomia del lavoro che si svolge all’interno, i contatti tra gli operatori, lo scambio di informazioni e la visibilità, garantendo anche, nell’ampia volumetria degli spazi comuni, la possibilità di isolarsi e concentrarsi o di svolgere incontri informali senza interferire con altre attività presenti nella medesima area.
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L’ampio volume centrale dell’atrio affaccia, tramite la vetrata, sul canale del porto Tuborg; al centro è sospesa una composizione luminosa di neon incrociati come le bacchette del gioco Shanghai: l’atrio è arredato con tavoli tondi per riunioni realizzati da gubi e tavoli lineari e lunghi con postazioni per la consultazione equipaggiati di lampade costanza prodotte da luceplan; sedute Eames Plastic Side Chair di Vitra (design Charles e Ray Eames).
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A Copenhagen, L’EDIFICIO DELLA Danish Radio Concert House SI OFFRE COME UN misterioso monolito blu IN GRADO DI MUTARE DAL GIORNO ALLA NOTTE, ATTIVANDO IL SUO involucro CON luci e proiezioni. TUTTO DA SCOPRIRE NEL SUO INTERNO PENSATO COME UN complesso spazio piranesiano progetto di Ateliers Jean Nouvel foto di Philippe Ruault testo di Matteo Vercelloni
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IL FOYER DELLA GRANDE SALA CONCERTI SCANDITO DA LUCI, COLORI E PROIEZIONI SI PROPONE COME UNO SPAZIO INIZIATICO DA SCOPRIRE ALL’INTERNO DELL’ARCHITETTURA COMPLESSIVA.
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er Jean Nouvel “ad un futuro incerto non possiamo che rispondere con l’incertezza: il mistero. Il mistero che non è mai troppo lontano dalla seduzione, dunque con l’attrazione”. Questa grande opera pubblica, calata in un quartiere di nuovo sviluppo della capitale danese affacciato sull’Emil Holms Kanal, è pensata per emergere dal sito con una precisa presenza e identità. La definizione del carattere dell’edificio non segue però la strada dell’esibizione ‘muscolare’, compositiva e monumentale, quella della scultura architettonica compiuta in sé, ma piuttosto tende a privilegiare quella della leggerezza e di un fascino dato appunto dal ‘mistero’. Come per il cubo in cor-ten che galleggiava magicamente sul lago di Murten in Svizzera (progettato da Nouvel in occasione dell’EXPO 2002), il parallelepipedo blu di Copenhagen, l’elementare forma geometrica di riferimento rivestita di rete metallica, se da un lato emerge in modo immediato dal tessuto urbano per la riconoscibilità della forma percepita, sottolineata dal blu Klein dell’involucro, dall’altro permette, grazie alla ‘trasparenza’ della pelle esterna, di intravedere quello che si sviluppa al suo interno: il paesaggio composto dall’architettura ‘nascosta’ e il suo skyline irregolare corrispondente ai diversi volumi che, come in un gioco di scatole cinesi, si sovrappongono per strati. È qui che l’idea progettuale gioca per definire un “volume che lascia indovinare la sua interiorità”, che attrae il suo pubblico e cambia il suo aspetto dal giorno alla notte, quando luci e proiezioni attivano in chiave spettacolare e mutevole l’intero organismo architettonico. Le quattro sale dedicate alla musica si affiancano e in parte si sovrappongono, una all’altra, al centro del perimetro complessivo formato da una strada interna che si affianca al canale urbano, allineando spazi commerciali, ristoranti e bar, in un “mondo di contrasti, di sorprese, un dedalo spaziale, un paesaggio interiore” (J. Nouvel).
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Sopra, Pianta generale con le sale affiancate. il fronte rivestito di rete metallica colorata blu Klein da cui si intravedono le sagome dei diversi volumi interni al perimetro regolare del parallelepipedo di riferimento. E Accanto, uno scorcio dei percorsi distributivi interni pensati come una strada coperta che si rapporta in modo diretto allo spazio urbano esterno. pagina a fianco, una vista notturna dell’edificio e dell’interno.
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una vista dell’interno della sala concerti rivestita di legno. sotto, Dettaglio del rivestimento a onde della copertura. Geometrie e soluzioni figurative in grado di rispondere alla qualità armonica dello spazio compiuto. pagina a fianco, la scala di salita al foyer della sala concerti.
Gli spazi pubblici che legano insieme le sale della musica diventano un percorso piranesiano di luci e colori, diventando un fondamentale e intricato insieme che lega tra loro gli spazi interni a quello esterno della città. Anche i materiali trovano una calibrata quanto studiata disposizione correlata all’idea della ‘scoperta’ che il visitatore man mano sviluppa, accompagnata in modo ‘iniziatico’ dal primo aspetto del metallo blu della rete di facciata alle luci, colori e proiezioni del denso percorso distributivo; sino all’interno ligneo della grande sala da concerto, quasi una conchiglia – un’avvolgente e voluta scultura abitabile –sospesa sul foyer sotto cui si sviluppano gli altri spazi per la musica. Quello per la musica orchestrale, con pannelli fonoassorbenti serigrafati dedicati ai musicisti del passato; la sala per la musica ritmica dal sapore più astratto e ‘matematico’, in sintonia con il genere trattato; e infine quella per i cori, di colore rosso fuoco, simbolo della passione e della forza del canto collettivo. Un progetto paradigmatico che diventa una sorta di ‘modello’, flessibile e percorribile per
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ogni edificio di uso pubblico. Un’architettura in cui “l’astrazione è invasa dalla figurazione. Il permanente è completato dall’effimero”. Un landmark urbano, dove le facciate diventano dei filtri leggeri che lasciano vedere il paesaggio urbano dell’intorno, in un rapporto complementare scandito dai dettagli, dalle porte e dalla luce artificiale e naturale, dai soffitti mossi e polimaterici, dalle scale che si arrampicano all’intorno della sala concerti. Dove, come scrive Jean Nouvel “ogni luogo diventa una scoperta, ogni dettaglio un’invenzione”, perché “l’architettura è come la musica, è fatta per farci muovere e darci piacere”.
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Benessere Collettivo foto di Marino Ramazzotti testo di Virginio Briatore
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alcune vedute esterne della sede di bresso della Zambon e un ritratto di Elena Zambon, presidente dell’azienda farmaceutica. Sotto: La facciata del capannone che ospita il museo; l’area relax esterna; l’ingresso alla palazzina uffici. La grafica è coordinata dal visual designer Marco Pennisi, uno dei quattro soci del Gruppo Bandello che ha curato la risistemazione degli uffici e delle facciate del quartier generale di Bresso. Nella pagina accanto: dettaglio di una parete divisoria degli uffici, la cui grafica riprende segni e simboli delle attività svolte.
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ella sede della Zambon, azienda farmaceutica, anche gli estintori sorridono. È solo un piccolo dettaglio ma esprime l’atmosfera di grande umanità e di benessere che si percepisce visitando questo luogo di lavoro. Fondata a Vicenza nel 1906, la Zambon ha sviluppato nel 2009 un fatturato di oltre 540 milioni di euro ed è una delle così dette corazzate tascabili dell’economia italiana. L’azienda, di cui Elena Zambon è presidente, è presente in 15 Paesi con circa 2.500 dipendenti ed ha tre specializzazioni forti: apparato respiratorio, cura della donna e dolore. Gli stabilimenti di produzione principali sono in Veneto, mentre il quartiere generale è a Bresso, alle porte di Milano, e comprende anche il museo e l’auditorium. Qui è in cantiere un nuovo edificio mensa immerso nel verde ed è prevista la creazione di un polo scientifico e qui abbiamo incontrato Elena Zambon, madre di quattro figli e anima pensante dell’azienda. Da dove nascono la sua passione e la sua competenza per la grafica e il design?
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Elena Zambon è un capitano d’impresa con un’energia speciale. Agisce seguendo l’esempio di Gandhi, Luther King, Teresa di Calcutta, Einstein. Organizza spazi di lavoro in cui facilitare i contatti fra le persone e trasformarli in relazione. con Michele de Lucchi sta lavorando al progetto di un giardino della scienza
“Non ho particolari competenze, ma da sempre osservo con sincera passione gli ambienti domestici, quelli di lavoro, il design, la grafica, l’arte. L’unica esperienza formativa diretta è stata la sessione estiva di un master in design che ho frequentato alla Domus Academy nel 1989. Mi ero da poco laureata in economia aziendale alla Bocconi e già lavoravo alla City Bank, ma volevo capire anche i processi creativi e l’estetica del prodotto. È stata una bella esperienza, conclusa con una tesi sugli occhiali con stanghette intercambiabili”. Nella vostra comunicazione c’è una forte propensione alla parola scritta, alla forza del pensiero di chi ci ha preceduto. Ci racconta in sintesi questa unione interessante di colore, grafica e parole?
“Lo sguardo ha pochi secondi per scegliere e per essere colpito. Da qui l’importanza della composizione visiva e della sapienza grafica. La presenza delle parole, inoltre, ci induce a fermarci e a leggere; sono quelle che ci entrano dentro e ci guidano nel cambiamento, ci danno le motivazioni. Antoine de Saint-Exupéry diceva che se vuoi far sì che i tuoi uomini diventino bravi marinai non devi insegnare loro a fabbricare una nave con legno e chiodi, ma devi parlargli dell’orizzonte, delle onde, delle stelle… sino a che non li colga la nostalgia del mare!”. Nei vostri spazi di lavoro, in particolare nelle aree relax, si respira un’aria allegra, colorata, informale, con una curiosa coesistenza di arredi firmati e no, vecchi e nuovi, serissimi o giocosi, che creano un effetto sorpresa
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Sopra, alcuni degli spazi collettivi di incontro e riflessione a disposizione degli impiegati della Zambon; a destra, un corridoio impreziosito dalle opere dell’artista Alfredo Gioventù e uno degli estintori ‘personalizzati’ presenti in azienda.
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per chi si immagina l’azienda farmaceutica come un ambiente asettico, algido e tecnocratico. Dicono che sia parte del vostro concetto ‘benvivere’: ce lo può spiegare? “Informalità, vivacità, benvivere sono parole fondamentali, che mi stanno a cuore. Noi facciamo un lavoro molto serio ma abbiamo bisogno di un atteggiamento informale, perché noi accogliamo tutti con la stessa cura. Un’azienda come la nostra prima di tutto deve saper ascoltare. Il respiro ed il dolore riguardano tutti, ma ogni individuo lo vive a modo suo e vi sono Paesi e culture con soglie di allarme o gradi di sopportazione profondamente diversi. Al tempo stesso noi siamo un’azienda che deve continuamente alimentare la conoscenza e la creatività, in tutte le direzioni: ricerca, tecnologia, biologia, chimica, marketing. Allo scopo ho coniato una sintesi che dice: “Non c’è formazione efficace senza comunicazione vivace!” Noi operiamo per il benvivere collettivo,
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Sopra, La sala riunioni principale, dominata da una grande immagine dedicata alla simbologia delle mani. Accanto, la zona dei bagni e una sala riunioni in cui spicca un’opera di Sol Lewitt.
cerchiamo di costruire legami che non siano dettati solo dall’interesse. Coltiviamo la diversità, parola dai molti significati, e per farlo partiamo da noi stessi. Quindi per i nostri spazi di lavoro abbiamo chiesto consiglio a un team di uomini e donne con esperienza nel settore delle terme e dell’accoglienza. Il tema dei nostri spazi è l’anonimato, non sopporterei che altri firmassero i nostri ambienti, riempiendoli di arredi preziosi. Abbiamo alcuni pezzi di valore ma da sempre siamo attenti agli sprechi e il lusso non ci interessa. Oggi i soldi sono pochi, anche per noi industriali, anche per le banche e quindi noi vogliamo un ambiente vivace e armonico, ma non sfarzoso”. Il vostro museo per certi versi sembra un locale di intrattenimento, un luogo di storia, oggetti, grafica. Ce ne spiega l’estetica, il contenuto, le finalità? “Anzitutto non un monumentale edificio nuovo, ma un vecchio capannone rimesso a norma. A noi non dispiacciono angoli trasandati, luoghi
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non rifiniti, perché essi sono metafora del lavoro e della vita. Ci fanno capire che è normale ogni tanto deprimersi un po’, essere nervosi e che niente è garantito in eterno. Al tempo stesso abbiamo stanze per il gioco, la lettura, l’incontro, luoghi in cui ci si può ricaricare e dove, magari dopo una discussione di lavoro animata, ci si può ritrovare, riconciliare. All’interno invece il museo è accogliente e con Michele de Lucchi abbiamo organizzato i nostri 104 anni di storia in sei container, che come bauli di merci preziose sono sempre pronti al viaggio. In parallelo abbiamo allestito una sala, pensata come un grande cerchio di sedute mobili, ricca di musica, proiezioni, luci, in cui incontrare i nostri collaboratori, organizzare una conferenza o ospitare una scolaresca”. Avete molti progetti in cantiere, sia a Vicenza sia a Bresso, che state sviluppando con l’ausilio di Michele De Lucchi. Come è nata questa collaborazione? “Io e Michele ci conosciamo da quando siamo
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L’Interno del Museo Zambon, curato da Michele de Lucchi. Le lettere che compongono il nome dell’azienda sono state realizzate con gli scatolati di metallo provenienti dalle vecchie insegne della fabbrica di Vicenza, ricoperti di policarbonato e retroilluminati. Sotto, L’Open Circle, sala multimediale per incontri e conferenze allestita con sedute Louis Ghost di Philippe Starck per Kartell e sospensioni realizzate su misura da I Guzzini. Nella pagina accanto, l’interno del container dedicato alla storia dei farmaci Zambon e dei loro packaging.
bambini, perché le nostre famiglie sono imparentate e non ci siamo mai persi di vista. Ci siamo ritrovati qualche anno fa: io stavo ragionando su come costruire un’azienda basata sulla logica della condivisione e chiamavo la mia idea ‘Comunità d’impresa’. Lui mi ha parlato della sua esperienza in Olivetti e mi ha detto che quello era il titolo del giornale fondato da Adriano Olivetti! Io credo nella possibilità di riconoscersi attraverso valori condivisi e spero che le persone che vengono a lavorare da noi ci scelgano perché si ritrovano in questi codici. Da quel momento io e Michele abbiamo iniziato a pensare molte cose, tra cui un sogno impegnativo ed eccitante, da portare avanti anche con l’amministrazione pubblica di Bresso: costruire nei terreni a noi adiacenti e nei vecchi edifici industriali dismessi un’area verde, una sorta di giardino della scienza che stiamo pensando di chiamare Oxygen Pavillon, un polo di ricerca in cui abbattere i confini fra discipline diverse”.
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Il progetto ruvido di Cristina Morozzi
Marc Sadler è un inventore. Si dedica alle materie e alle sue potenzialità per progettare prodotti riproducibili in grande serie negli ambiti più disparati. Per lui, applicarsi alla smussatura delle forme è quasi una devianza rispetto allo slancio dell’invenzione
Nell’ambito della collezione ‘Tra le Briccole di Venezia’ di Riva 1920, basata sul riuso delle vecchie Briccole, ovvero dei pali in legno di rovere utilizzati a Venezia per l’attracco delle gondole, Marc Sadler ha realizzato ‘Briccola totemica’, sorta di scultura caratterizzata da un gioco di fori passanti che, in riferimento al suo passato periodo di permanenza veneziana, il designer considera “quasi spartiacque tra un prima e un dopo”.
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Madeira, Sedia impilabile bimaterica. La seduta è stampata a iniezione in un composito di polipropilene con 40% di scarti di legno; lo schienale è in nylon colorato o in policarbonato trasparente. Produzione Skitsch, 2010.
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ndividuare un DNA geopolitico nei designer sovente è facile, quasi che l’appartenenza ad una morfologia geografica, a uno specifico contesto sociale e a una cultura locale trovi un puntuale riflesso nello stile. Difficile, quasi impossibile, trovarlo in Marc Sadler, un ‘apolide’ del progetto, che ha vissuto ed esercitato la professione in Francia, Stati Uniti, Asia e Italia. Il suo nomadismo non è solo geografico, ma prima di tutto progettuale. Da inventore, più che da designer, ha sperimentato nei territori più disparati, dallo sport al medicale, dalla moda all’arredo, dai fucili alle chiavi di sicurezza, dalle valigie alle canalizzazioni elettriche, dall’illuminazione alle pentole, riuscendo sempre a introdurre nei suoi prodotti un contenuto innovativo. Per lui la forma è conseguenza. Pensa alla materia, cercando per le sue potenzialità inesplorate applicazioni seriali. A differenza di quei designer che mettono ‘le mani in pasta’ per produrre virtuosismi artistici, che della materia esaltano le qualità intrinseche, rivelandone la natura primaria (fratelli Campana, Gaetano Pesce, Nacho Carbonell…), Marc dei materiali indaga la plasticità e la trasformabilità. La materia è un mezzo per raggiungere risultati inediti: per alleggerire, semplificare, rendere riproducibile, per modificare le forme e gli utilizzi. Viene spontaneo etichettarlo come designer da brevetti. Quello degli
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In alto, da sinistra. Installazione per Karol al Temporary Design Musem in via Tortona 27 durante il Salone del mobile 2010: scheletro di una gigantesca balena, le cui vertebre erano costituite da una sequenza decrescente di lavabi Kalla in tecnopolimero morbido disegnati da Sadler per Karol. Linea di contenitori pensili Kappa, caratterizzati da varie finiture e colori vivaci per modulare in maniera creativa il contenimento della zona bagno. Produzione Karol, 2010.
Sopra, a sinistra: Lavabo della serie Cento, connotato dal ricorrente spessore del bordo di 100 mm. Produzione Kerasan, 2009/10. a destra: Lampade da terra Twiggy in materiale composito a base di fibra di vetro, caratterizzate dalla flessibilità dell’esile stelo, voluto omaggio alla classica Lampada Arco di Castiglioni. Produzione Foscarini, 2006.
scarponi da sci in materiale termoplastico. Già agli inizi degli anni ’70 mise a punto il primo scarpone stampato, poi industrializzato dalla Caber, azienda veneta che in un anno ne vendette, sempre con gli stessi 200 operai, un milione e seicentomila paia, contro i 200.000 tradizionali dell’anno precedente. Ma anche il designer della protezione, per via del paraschiena progettato per Dainese, presente nella collezione permanente del MoMA di New York. Quello delle lampade Tite e Mite di Foscarini (le prime in fibra di vetro), Compasso d’Oro nel 2001. Quello delle scarpe sportive, per via della sua collaborazione con i marchi dello sport come Lotto, Ellesse, Nike. Reebok. Il suo sandalo per la Nike si vende ancora bene a distanza di 15 anni. E, invece, Marc è un designer difficile da decifrare: un po’ per il suo carattere riservato e scostante e per quel suo starsene lontano dal
palcoscenico della comunicazione, ma soprattutto per la varietà dei suoi interessi e delle sue competenze. Molto poco congeniale al sistema milanese, anche se ha scelto (chissà per quanto?) di stabilire il proprio studio a Milano, e molto più simile al profilo di certi designer internazionali, che spaziano dalle mutande ai computer (come Yves Behar), Marc è consapevole della sua estraneità alla qualità ‘fusion’ del design italiano. Sa che deve calmare il suo segno, smorzare la sua rigidità, trovando un modo di far combaciare la ricerca con l’immagine e scoprendo quell’alchimia che consente di proporre nuove materie e prestazioni in forme inedite ma aggraziate, in grado di offrire il senso della consuetudine. “Tornato in Italia”, dichiara, “ho dovuto imparare a disegnare alla milanese. Qui sono diversi i numeri, ero abituato alle grandi tirature dei beni di largo consumo, mai meno di 200.000 pezzi; sono
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diversi i segni, diverse le scale di gusto”. “L’arredamento”, prosegue, “è come un maglione di cashmere, ci vivi dentro e lo apprezzi per la sua dolcezza”. Si sta impegnando, ma certo gli è più congeniale la ruvida lana di pecora. Dedicarsi allo smussare le forme gli pare quasi una devianza rispetto allo stimolo e allo slancio dell’invenzione. Moltiplica i suoi progetti nel mondo dell’arredamento, mettendosi in gioco anche con nuove realtà imprenditoriali, come la Gaber, un terzista che vendeva prodotti disassemblati in America, per il quale ha creato una sedia in plastica da esterni, in due parti, gambe e scocca a incastro, che andrà in vendita a soli 27 euro. Sa che deve imparare a contestualizzare e ad amalgamare, ma lamenta la carenza di grandi committenti, quelli che inventano le lavorazioni, come a suo tempo fece la Caber. “Forse”, aggiunge, “sono meglio quelli ruspanti che non hanno niente da
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sopra: Lampade da terra Tress, realizzate con un intreccio di fettucce di fibra di vetro annegate nella resina, quindi verniciate, che fungono contemporaneamente da struttura portante, decoro e schermatura. Il filo elettrico è invisibile perché avvolto all’interno dell’intreccio strutturale. Produzione Foscarini, 2009.
IN ALTO: Divano Mike con meccanismi di regolazione delle posizioni. Produzione Busnelli, 2010. SOPRA: Cucina componibile Carré. Si distingue per la maniglia-non maniglia, scavata nell’anta in forme di quadrati e rettangoli di varie misure, e per la ricca cartella di materiali e colori. Produzione Ernestomeda, 2010.
SOPRA: Capo di abbigliamento tecnico-protettivo Safetyjacket, costruito attorno al paraschiena. Una imbragatura di tessuto a rete di nylon unisce gli elementi protettivi per schiena, spalle, gomiti, polsi e torace. Produzione Dainese, 1994. SOTTO: Poltroncina flessibile Vague in materiale termoplastico morbido, disponibile in due versione: in termoplastico schiumato, laccato lucido in colori glossy, o in polipropilene colorato in massa in tonalità fluorescenti. Produzione Flou, 2009.
perdere e che hanno voglia di giocare d’azzardo”. È nell’azzardo che Marc dà il meglio, quando si tratta di inventare delle nuove applicazioni, come il silicone nell’illuminazione (Drop di Flos, Compasso d’Oro nel 1995). Si sta appassionando al disegno di una serie di valigie per un nuovo marchio, Fabbrica Pelletterie Milano, che gli ha offerto grandi opportunità. “Sto tenendo la barra molto alta”, dice, “sono valigie prodotte interamente in Italia, con cinque brevetti d’invenzione, che saranno le più leggere, le più solide e, spero, le più belle”. Tra i progetti che più l’entusiasmano c’è un nuovo marchio di scarpe, fashion ma performanti e popolari, che verranno vendute al pubblico attorno ai 50 euro. Per produrle sta mettendo in piedi con sua moglie Paola e un socio francese (che già aveva lavorato con lui in Nike) un’azienda in Francia che si chiama Cut. Senza abbandonare l’arredo, dove ha
in cantiere molti progetti (Baxter, Karol, Ceramiche d’Imola, Fasem, Kersan), comprese nuove luci per Foscarini, non in fibra di vetro ma in un nuovo materiale top secret in grado di produrre magici effetti d’ombra e luce, si è rimesso a fare quello che faceva negli Stati Uniti, tornando, in un certo senso, agli esordi. Nei primi anni Settanta, quando ancora abitava a Parigi, dove si è laureato nel 1968 all’Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs, ha disegnato accessori e abbigliamento per Pierre Cardin, orologi per Ted Lapidus, packaging di profumi per Yves Saint Laurent, Christian Dior e Pierre Cardin e persino pellicce per Reveillon, iniziando a recuperare gli scarti per creare dei patchwork (lavorazione poi divenuta un cavallo di battaglia di Fendi). Nello spaziare dalla moda all’arredo, passando per lo sport, la protezione, le armi, le maniglie antipanico, i rivestimenti, le bottiglie e l’etichette per il vino (uno dei suoi
progetti più recenti è Orto, il vino delle vigne di Sant’Erasmo a Venezia), Marc si dimostra molto “elastic mind” (dal titolo dell’ultima mostra curata da Paola Antonelli al MoMA) con una visione del design a 360°, votata alla sperimentazione, libera da condizionamenti formali. Da qui certe sue asprezze, delle quali è consapevole, che costituiscono la nota distintiva dei suoi progetti, non riconducibili ad una cifra stilistica, ma ascrivibili, piuttosto, ad una vigile tensione per l’innovazione.
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Edward Mapplethorpe, Patti Smith, 2007, ŠEdward Mapplethorpe.
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Patti Smith the dark lady
testo di Andrea Branzi
recentemente è uscito anche in italia Just kids, un bel memoir della poetessa del rock patti smith. andrea branzi, che l’ha conosciuta a parigi e che la stima, ne ha preso spunto per tracciare un parallelo con l’auto -refenzialità del sistema del design
Andrea Branzi, Nature Morte, 2010, Courtesy Galleria Clio Calvi & RUdy Volpi, milano.
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da patti smith. Land 250, mostra personale costituita da 250 polaroid, scattatte tra il 1967 e il 2007, ed esposte nel 2008, insieme a disegni ed estratti di film, alla fondation cartier pour l’art contemporain di parigi. dall’alto: robert’s stair, hotel chelsea, NYC; hotel chelsea, robert mapplethorpe, septembre 1969; hotel chelsea, robert mapplethorpe, septembre 1969. accanto: la copertina di Just kids, libro memoir di Patti Smith, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2010.
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l percorso di Patti Smith m’interessa in maniera particolare, per motivi che non sono soltanto musicali. Questo percorso incomincia a New York City nel 1975 e poi a Londra, nell’ambito di una minoritaria e radicale area antagonista del rock, che reagiva agli eccessi edonistici della pop music e del suo superficiale consenso sociale, per affermare l’avvento di una generzione di sradicati che insiemne a lei, ai Ramones, ai Sex Pistols di Sid Vicious, ai Clash, in ambienti catacombali cominciavano a sparare musica e sputi come segno di una scelta di vita irreversibile, emarginata, tatuata, incatenata, ossessiva, drogata, violenta e pessimista.
Patti Smith ha attraversato quella sorta di stagione infernale segnata dagli eccessi e dalle perversioni, abitando – come molti poeti, artisti e musicisti – al Chelsea hotel del Greenwich Village, in convivenza con Robert Mapplethorpe, il grande fotografo scomparso che ha cambiato il nostro modo di guardare sia i fiori che il sesso, e, a partire dal 1979, dopo un concerto con 70.000 spettatori, ha deciso di ritirarsi per otto anni, al fine di sottrarsi a un destino di star di cui intuiva i limiti esistenziali e dare inizio a un progetto solitario, più ambizioso, che consisteva nel traghettare il rock nell’ambito più vasto della cultura, della letteratura e della poesia. Ho conosciuto Patti Smith nel 2008 a Parigi, dove abbiamo tenuto in contemporanea le nostre mostre personali alla Fondation Cartier pour l’art contemporain e dove ha composto, insieme a Oliver Ray, la musica ambientale per le mie istallazioni. In una sala tenebrosa, Patti Smith celebrava la
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sua rinascita e il suo mito di dark lady, sofisticata erede della Beat generation americana (da Allen Ginsberg a William Burroughs) e degli scrittori maudit della letteratura francese (da Louis-Ferdinand Céline a Jean Genet): fotografa, disegnatrice, ‘necrofila’ frequentatrice del vicino cimitero di Montparnasse, a meditare sulla tomba di Charles Baudelaire, autore degli ormai lontani Les fleurs du mal. La durezza estrema della cultura punk era sostituita, nei suoi concerti letterari, dalla presenza del figlio alla chitarra, della figlia al pianoforte, del fidanzato della figlia alla batteria, e, nei filmati in mostra, dei suoi affettuosi incontri con gli anziani genitori. Quello che m’interessa del suo percorso, dunque, non è l’apparente normalizzazione, ma, al contrario, il riuscito tentativo di spostare la sua musica dall’universo dell’entertainment a quello della cultura tout court, operazione che non è riuscita – ma neppure è stata tentata – alla cultura del progetto, che
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non varca ancora il limite della pura e semplice pratica professionale, costituita da risposte sempre intelligenti a domande sempre intelligenti. Ho già scritto su questo tema nei precedenti numeri di Interni e dell’ipotesi di un Independent design che interrompa la linearità di uno sviluppo troppo auto-referenziale in un mercato estetico sempre più raffinato ma privo di spessore, per confrontarsi in fine con i temi che da sempre sono al centro della cultura, come l’amore, la morte, la storia, il sacro, la psiche. È questa una operazione che non può essere programmata, né prefigurata in un manifesto, ma è il risultato di un percorso individuale, di una urgenza soggettiva, urgenza che può essere risvegliata come una opportunità possibile, come una sfida da proporre ai progettisti. Il vero problema, infatti, non è il design ma i designer e la loro attuale capacità, o incapacità, di pensare che il progetto può essere anche diverso da se stesso.
Robert Mapplethorpe, Patti Smith, 1975, stampa in gelatina d’argento, 40.6 x 50.8 cm Robert Mapplethorpe Foundation, New York copyright © 1975, Robert Mapplethorpe Foundation.
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CLassIcIsmI ConTemPoranei
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DESIGN ispirato AD ORIGINI DI ascendenza classica CON RICHIAMI AD ANTICHE TRADIZIONI ARTIGIANALI, LO spirito E LA sensibilità PERÒ SONO TUTTI contemporanei. COMMISTIONI DI forme, materiali E decori PER RIVISITARE E INTERPRETARE UN nuovo STILE classico-moderno CHE FA TENDENZA di Nadia Lionello
SELLERINA, POLTRONCINA IN FUSIONE DI ALLUMINIO DELLA COLLEZIONE PUNTO ORO. DISEGNATA DA PAOLA NAVONE PER BAXTER. DAVIS,TESSUTO JACQUARD IN 38% ACRILICO, 35% COTONE E 27% POLIESTERE CON RAPPORTO DISEGNO DI 28 CM, DISPONIBILE IN SEI VARIANTI DI COLORE E NELL’ ALTEZZA DI CM 140. DI ARMANI CASA EXCLUSIVE TEXTILES BY RUBELLI.
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PHILIPPE, COLLEZIONE TAVOLINI IN MDF LACCATO, LEGNO DI TIGLIO E INSERTI IN NOCE CON PIANO IN VETRO VERNICIATO O A SPECCHIO. DESIGNATA DA SAM BARON PER CASAMANIA. MOROSINI, LAMPASSO IN 57% ACRILICO, 22 % SETA E 21% LINO CON RAPPORTO DI DISEGNO DI CM 76, DISPONIBILE IN 11 COLORI E NELL’ALTEZZA DI CM140. DI RUBELLI.
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SUPERNATURAL, CHANDELIER CON MONTATURA IN TUBOLARE METALLICO LACCATO BIANCO, CON BRACCI IN VETRO SOFFIATO LATTIMO E TAZZINE IN CRISTALLO TRASPARENTE, LUCI ALOGENE. DISEGNATO DA NICOLA GRANDESSO PER DE MAJO. PERISHED PERSIAN, TAPPETO IN PURA LANA, TESSUTO A MANO IN INDIA. DISEGNATO DA STUDIO JOB PER NODUS.
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GAGA, POLTRONA CON STRUTTURA METALLICA CON IMBOTTITURA IGNIFUGA SCHIUMATA A FREDDO E RIVESTIMENTO IN TESSUTO O PELLE. DISEGNATA DA WILLIAM SAWAYA PER SAWAYA&MORONI. CROCODILE, VELLUTO DI COTONE A PELO BASSO, STAMPATO IN 50% COTONE E 50% VISCOSA, CON RAPPORTO DI DISEGNO DI CM 22,5, DISPONIBILE IN TRE VARIANTI DI COLORE E NELL’ALTEZZA DI CM 145. DI BISES.
FUGA, POLTRONCINA IN MASSELLO DI FAGGIO CURVATO E TORNITO, NATURALE O LACCATO. DISEGNATA DA PAUL LOEBACH PER NOVECENTOUNDICI BY BILLIANI. BRUSH, TAPPETO ANNODATO A MANO IN ALOE E SETA DI BANANO, DISEGNATO DA PAOLO ZANI PER WARLI.
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MONSTERCHAIR, SEDIA CON STRUTTURA IN METALLO E RIVESTIMENTO IN PELLE SINTETICA ANTIABRASIONE E IGNIFUGA, CON O SENZA DISEGNO STAMPATO. DISEGNATA DA MARCEL WANDERS PER MOOOI. STARDUST, TAPPETO IN LANA E SETA TINTE CON COLORI VEGETALI E MINERALI E TESSUTO A MANO. DI ILLULIAN.
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DOUBLE YOU, TAVOLO DA PRANZO CON STRUTTURA RIVESTITA IN PELLE MATELASSÉ E PIANO IN PELLE VEGETALE OPPURE VETRO O MARMO. DISEGNATO DA CARLO COLOMBO PER RUGIANO. KIOTO, ALCANTARA PLISETTATO.
PASHA, POLTRONA IN POLICARBONATO TRASPARENTE, BIANCA O NERA, CON O SENZA CUSCINO DI SEDUTA E CON POSSIBILITA’ DI RIVESTIMENTO IN TESSUTO. DISEGNATA DA POCCI&DONDOLI PER PEDRALI. ALCANTARA CON RICAMO TRAPUNTATO, DISPONIBILE NELL’ALTEZZA DI CM 142 E IN UNICA VARIANTE COLORE.
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GOODMOOD, CONTENITORE IN MULTISTRATO RIVESTITO IN VETRO LACCATO MULTICOLORE DECORATO CON INCISIONI E GAMBE IN FUSIONE DI ALLUMINIO. DI RIFLESSIVO BY ARTE VENEZIANA. DI DEDAR: RIFLESSI, TESSUTO SPALMATO CON EFFETTO CRACLÈ IN 80% PVC, 15% COTONE E 4% POLIURETANICA, IN 10 VARIANTI DI COLORE E NELL’ALTEZZA DI CM 137. ADATTO ANCHE PER RIVESTIMENTI MURALI; AL CENTRO, PLUSHY, VELLUTO MAREZZATO IN 100% TREVIRA IGNIFUGO, IN 28 VARIANTI DI COLORE E NELL’ALTEZZA DI CM 140; MEZZALUNA, JAQUARD CON DISEGNO IN POLIESTERE E SU FONDO SATIN DI COTONE IN 24 VARIANTI DI COLORE, CON RAPPORTO DI DISEGNO DI CM 8X9, NELL’ALTEZZA DI CM140.
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COMBACK, SEDUTA MONOSCOCCA IN TECNOPOLIMERO TERMOPLASTICO COLORATO IN MASSA IN OTTO VARIANTI DI COLORE. DISEGNATA DA PATRICIA URQUIOLA PER KARTELL. DUISBURG, TENDAGGIO IN 83% LINO E 17% POLIESTERE, DISPONIBILE IN TRE VARIANTI DI COLORE E NELL’ALTEZZA DI CM 330. DI ARMANI CASA EXCLUSIVE TEXTILES BY RUBELLI.
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La cHImIca DeLL’aTTrazIone di Nadia Lionello - foto di Paolo Veclani
Design E arte NON TRADISCONO. QUALITÀ PROPRIE E UNA MANIERA SPECIALE DI ESSERE LI accomuna. Forme E segni NATI DA pensieri, passione E IMMAGINAZIONE SI SCAMBIANO, SI RACCONTANO PER IL piacere quotidiano DELL’UOMO
COCOA, SEDUTA ERGONOMICA PER INTERNO ED ESTERNO CON STRUTTURA DI SOSTEGNO AD ELEMENTI IN COMPENSATO MARINO ASSEMBLABILI AD INCASTRO E SCOCCA IN VETRORESINA IN TRE COLORI, REGOLABILE IN TRE POSIZIONI: SEDUTA, CHAISE LONGUE O LETTO. DI MARC SADLER PER DANESE.
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UNA LOCATION D’ECCEZIONE: LA FONDAZIONE ARNALDO POMODORO DI MILANO IN CUI È IN MOSTRA, FINO AL 30 GENNAIO 2011, “LA SCULTURA ITALIANA DEL XXI SECOLO”. TUTTE LE OPERE FOTOGRAFATE NEL SERVIZIO SONO ESPOSTE IN VIA ANDREA SOLARI 35, SEDE DELLA FONDAZIONE. A LATO, “GRANDE VOLANTE VIII”, OPERA DI FABRIZIO CORNELI (2002).
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nella pagina accanto, Chair One4star, sedia girevole su quattro razze in pressofusione di alluminio lucido o con trattamento di fluotitanizzazione verniciato poliestere, disponibile anche con cuscini, adatta per outdoor. Di Konstantin Grcic per Magis. in questa pagina, Cloud, poltrona/poltroncina per outdoor con struttura portante in tubolare di acciaio laccato opaco con seduta in cinghie elastiche sintetiche intrecciate e cucini rivestiti in tessuto o pelle per esterno. Di Carlo Colombo per Arflex. Meteoriti di malinconia, di Massimo Kaufmann (2005). Collezione privata.
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Yang White, lampada da tavolo/appoggio in metacrilato e policarbonato con sorgenti fluorescenti con tre temperature di colore miscelabili per ottenere differenti luci bianche. Ăˆ disponibile anche con maniglia. Di Carlotta de Bevilacqua per Artemide. Otium, seduta con monoscocca in legno curvato in 3D naturale o imbottito, su struttura in acciaio. Di Mario Ruiz per Lapalma. “A Nord del futuroâ€?, opera di Diamante Faraldo (2007). Courtesy Galleria Oredaria Arti Contemporanee, Roma.
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Campana, lampada da soffitto realizzata con 180 fogli in alluminio anodizzato lucido, riciclabile al 100%, diversamente sagomati; ogni pezzo è reso unico grazie al libero assemblaggio dei fogli. Brasilia, tavolino con piano di forma irregolare composto da varie sagome di specchio acrilico e base in metallo con gambe in alluminio spazzolato lucido. è disponibile in diverse altezze. PROGETTI Di Fernando e Umberto Campana per Edra. “Altitudine 4049”, opera di Velasco Vitali (2007). Courtesy Galleria Giovanni Bonelli.
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ICOSÌ, ELEMENTI MULTIUSO IN TONDINO D’ACCIAIO CURVATO VERNICIATO IN DIVERSI COLORI, ADATTI ANCHE PER CONTRACT. DI AFRODITI GRASSA PER BONALDO. JONO, SISTEMA DI CONTENITORI IN ACCIAIO VERNICIATO BIANCO, ROSSO O VERDE COMPONIBILI LINEARMENTE, E VERTICALMENTE CON UN MASSIMO DI DUE ELEMENTI, E BLOCCATI TRAMITE CALAMITE. DI MIKA TOLVANEN PER ZANOTTA. LEPARC, TAPPETO DELLA COLLEZIONE HAND TIFTED IN 100% LANA VERGINE LAVORATA A MANO, DISPONIBILE IN DUE MISURE. DI JOSÉ A. GANDIA BLASCO PER GAN BY GANDIA BLASCO. “UNTITLED”, OPERA DI ALICE CATTANEO (2010). COURTESY GALLERIA SUZY SHAMMAH, MILANO.
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Offseat, poltrona caratterizzata dall’imbottitura a effetto trapuntato della seduta. È realizzata in schiuma poliuretanica con inserti in gomma sagomata, rivestita in tessuto e base in acciaio cromato o verniciato. Di Lorenzo Longo & Alessio Romano per Sphaus. 172 Le Klint, lampada a sospensione in PVC lavabile e antistatico, piegato a mano, disponibile in tre diametri e da terra, disegnata nel 1969 da Poul Christiansen per Le Klint. “Wallwave Vibrations (quanta canticum)”, opera di Loris Cecchini (2009). Courtesy Galleria Continua, San Gimignano, Beijing, Le Moulin.
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Le sculture fotografate nel servizio, sono esposte alla mostra “La scultura italiana del XXI secolo” che, curata da Marco Meneguzzo, si propone di analizzare le ultime tendenze italiane nel campo delle discipline plastiche attraverso le opere di 80 artisti, da Nunzio a Dessì, da Cattelan ad Arienti, da Beecroft a Cecchini, da Demetz a Simeti.
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Madeira, sedia impilabile bimaterica con seduta in PP-WPC (miscela di legno riciclato e poliestere) e schienale in policarbonato lucido colorato in massa, anche trasparente. È disponibile in 10 differenti combinazioni. Di Marc Sadler per Skitsch. Existence, libreria componibile verticalmente con moduli a vani, in due altezze, disponibile nella versione centro stanza, angolare e lineare. È realizzata in Cor-Ten, acciaio riciclabile, di elevata resistenza meccanica e alla corrosione. all’esposizione luminosa si riveste di una patina resistente e uniforme di colorazione bruna. Di Michele De Lucchi per De Castelli. “Madonna scheletrica”, opera di Bertozzi& Casoni (2008). Courtesy Gian Enzo Sperone.
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Alcuni pezzi della Jaime Hayon Sé Collection II, presentata a Londra lo scorso settembre. Da sinistra: La poltroncina Beetly Bridge con scocca in legno di faggio, gambe in acciaio verniciato a polvere, imbottito della seduta in pelle o tessuto; Il tavolo Flute con gambe in acciaio laccato e piano in marmo; La poltrona Bridge, imbottito con piedini in metallo; Il divano Beetly disponibile con rivestimento in pelle o tessuto; La poltrona Arpa con struttura in tubolare di acciaio verniciato a polvere e imbottito rimovibile.
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C’è la bergère in tubolare di acciaio che però è morbidissima. Il tavolino a forma di clessidra in bronzo che sembra sfidare le regole della statica. Con la sua prima collezione a tutto tondo, realizzata per il marchio Sé, Jaime Hayon propone un living prezioso ma anche sperimentale testo di Laura Traldi
Icone con sorpresa
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Nella pagina accanto: gli schizzi realizzati da Jaime Hayon per la realizzazione della sua collezione per Sé, marchio inglese degli arredi di lusso.
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on ci si aspetta, da un designer che da anni è sulla cresta dell’onda, un entusiasmo da neofita. Eppure è proprio quello che anima Jaime Hayon mentre presenta la sua ultima fatica al pop-up shop di Sé a Londra durante il London Design Festival. “Lavorare su un’intera collezione è stato fantastico”, dice Jaime, “e, strano a dirsi, è la prima volta che mi capita. Di solito mi viene commissionato un pezzo, massimo due o tre. Ma non è mai successo che mi affidassero un progetto di così ampio respiro nell’ambito dell’arredo”. Per Sé, il marchio inglese nato nel 2008, il designer spagnolo ha infatti disegnato tavoli, sedute, passando per imbottiti e complementi. In tutti i pezzi si ritrova il trademark di Hayon (il segno curvilineo, le forme accoglienti e protettive, il look che strizza con ironia l’occhio alla tradizione), che in questo caso viene declinato in un inusuale mix di legno e metalli, marmi e tessuti. È stata infatti proprio la particolare attenzione che Sé mette nella lavorazione dei materiali di pregio che ha convinto Hayon a progettare per loro. “Sono rimasto impressionato dalla qualità della produzione di Sé e quando il direttore Pavlo Schtakleff mi ha raccontato come lavorano ho immediatamente realizzato il potenziale della collaborazione che mi
proponeva”. Quello che Schtakleff chiedeva ad Hayon era infatti di trasformare la zona living in uno spazio iconico in cui far troneggiare pezzi importanti ma freschi e giovani nel tratto, realizzati con materiali e tecniche di qualità superiore. “Abbiamo un network di fornitori di fiducia altamente specializzati dislocati un po’ ovunque in Francia con cui lavoriamo in loco sulle varie parti”, spiega Schtakleff . Niente atelier parigini, però, ma artigiani in villaggi dimenticati nella France profonde, che Schtakleff ha girato in lungo e in largo alla ricerca della perfezione. “L’amore di queste persone per i materiali è qualcosa che abbiamo perso nella realtà industriale di oggi”, dice Jaime, “e che è stato meraviglioso ritrovare”. È stato contando su questo knowhow secolare che Hayon ha infatti potuto permettersi soluzioni inedite quanto ardite, come progettare un tavolo in marmo di Carrara e metallo o una bergère in tubolare di acciaio che, ricoperta da un semplice cuscino, risulti però assolutamente morbida e accogliente. Il risultato è una collezione in cui la parola d’ordine è mescolanza e in cui l’armonia nasce dalla capacità del progettista di sintetizzare continuamente gli opposti: ecco quindi imbottiti così gonfi da sembrare nuvolette posizionati su esili gambe in metallo, tavolini composti da due elementi sovrapposti a clessidra realizzati in bronzo (che paiono farsi beffa di ogni logica statica). Perché le icone del nuovo living funzionano meglio se oltre alla qualità sanno regalare qualche sorpresa.
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TroPIcaL MoDern La mostra Anticorpi. Antibodies, prodotta dal Vitra Design Museum e allestita alla Triennale di Milano (fino al 16 gennaio 2011), illustra i tratti salienti dell’opera dei fratelli Campana. Franco Raggi ripercorre con loro la storia e le ispirazioni di un lavoro che ha gettato le basi del design brasiliano contemporaneo intervista di Franco Raggi
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Sopra: uno scorcio della mostra Anticorpi. Antibodies. Fernando e Humberto Campana 1989-2010, prodotta dal Vitra Design Museum di Weil am Rheim e allestita alla Triennale di Milano (14 ottobre-16 gennaio 2011). In primo piano, i divani Aster Papposus e Boa prodotti da Edra (foto Fabrizio Marchesi). Nella pagina accanto: Fernando (a sinistra) e Humberto Campana. Sullo sfondo, la ‘foresta’ di vasi in resina con rami annegati, appositamente realizzati per la mostra milanese da Corsi Design Factory (foto Simone Barberis). A lato, il collage realizzato dai fratelli brasiliani per la Triennale di Milano.
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I
fratelli Campana segnano la rivoluzione antimodernista del design brasiliano. Una cultura europea di importazione, algida e astratta viene da loro istintivamente sostituita da procedimenti ibridi e spurii, che affondano però le loro radici nella vera natura dello scenario multiculturale brasiliano. I Campana usano procedimenti metodici e folli, in antitesi con il Razional/Funzionalismo importato in SudAmerica negli anni ’30. Il loro nucleo d’ispirazione è il brutalismo poetico di Lina Bo Bardi innestato su una cultura meticcia, eccessiva e caotica. L’opera dei Campana esorcizza e rivaluta procedimenti e parole come Accumulo,
Concentrazione, Disordine, Ibridazione, Instant furniture, Spontaneo. I semilavorati, la materia, il riuso e il comportamento sono gli ingredienti fondanti del progetto, la sperimentazione e l’autocostruzione il modo diretto per raggiungere economicamente un risultato al di fuori della retorica astratta del prodotto industriale. Quali studi avete fatto? Humberto: “Io ho studiato legge, dovevo fare l’avvocato”. Fernando: “Io architettura alla facoltà di San Paolo”. Non è che avete fatto qualche sbaglio? H. “Io totalmente; ero avvocato ma sentivo come un ‘mantra’ che mi diceva “Voglio costruire la mia vita con le mie mani…”. E allora ho cominciato a fare oggetti, animali, pesci, cornici fatte di conchiglie… Creazioni molto kitsch, ma le vendevo bene e potevo pagarmi le cose che mi interessava fare di più”.
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il lavoro dei Campana utilizza e ricompone suggestioni e materiali trovati nelle strade di San Paolo. Sopra, in senso orario: Un chiosco totalmente rivestito di animali di peluche; la seduta Banquete, 2002, composta di peluche (© Estudio Campana, foto Fernando Laszlo); Tombino di scolo, utilizzato come motivo ispiratore per il rivestimento del piano di un tavolo; Salvagente in PVC e manichini per intimo in Lurex. a destra: la seduta Harumaki, 2004, realizzata con rotoli di avanzi di tessuto (© Estudio Campana, foto Fernando Laszlo).
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E l’accoppiamento tra post-architettura ed ex-avvocatura? F. “Mi sono laureato architetto e ho fatto il tirocinio alla Biennale di San Paolo, nel 1984, ma come architetto non c’era molto lavoro, per cui ho cominciato ad aiutare Humberto nel suo laboratorio. Eravamo sotto Natale, bisognava organizzare le consegne degli orrendi specchi di conchiglie che gli avevano ordinato”. Humberto creativo e Fernando pratico? F. “Io ho una cultura più tecnica e cercavo di fare stare in piedi le cose che Humberto pensava. Lui è più onirico”. Onirico? H. “Nel senso letterale del termine. Spesso io sogno le cose, sogno un progetto e al risveglio cerco di ricordare quello che ho visto. La sedia Anemone l’ho proprio sognata, ho sognato che intrecciavo tubi di plastica in una sedia a forma di anemone e nel sogno tutto sembrava molto chiaro”. Il design nasce dai bisogni ma anche dai sogni? H. “Il sogno è uno spazio del nostro pensiero, più libero, ma sempre reale”. Come si passa dall’architettura al design? F. “Ho sempre avuto problemi con la dimensione dell’architettura, con la scala degli edifici, a me sembrava che la scala più appropriata fosse quella degli oggetti, neanche quella di una stanza, proprio quella minore degli oggetti e che la qualità fosse nei dettagli, nelle materie e nel modo di metterle insieme, nel linguaggio”. Definiteci la cultura brasiliana. F. “Meticcia. Se guardi la vita nelle strade di San Paolo capisci che la cultura brasiliana è un incrocio che produce vitalità e contrasti e anche forme di abitare. Alla scuola non interessava nulla di
questa realtà, di quello che succedeva per esempio nella favela. Per la scuola esisteva il dogma del linguaggio purista, il rigore del metodo che ci chiedeva architetture che somigliavano a ‘scatole da scarpe’. Ma alla gente non piace vivere nelle scatole da scarpe. Se guardi la favela capisci che non è una baracca ma un sistema, che nasconde disordinatamente un modo di abitare che lascia esprimere dei linguaggi spontanei, che contiene delle qualità umane, che ha una logica inconsapevole. Allora bisogna partire da queste cose, osservare, mettersi in sintonia”. Le differenze tra Rio e San Paolo? H. “A San Paolo c’è la creatività materiale dell’industria, a Rio quella più astratta della musica, della televisione, della danza. S. Paolo è materia pesante, Rio è materia leggera. Ci piacciono il disordine delle forme dei prodotti d’uso comune, i resti e la loro quantità, la ricchezza delle materie. È la materia la prima fonte di ispirazione, magari un ‘semilavorato’ su cui lavorare”. F. “A San Paolo ci sono quartieri specializzati nella vendita di una cosa sola, per esempio solo materiali elettrici, solo corde o funi o solo tubi, lastre e fili di plastica. Oppure quartieri dove vengono vendute solo cose di contrabbando, o solo cose rubate… Abbiamo cominciato a comprare roba che trovavamo nei negozi e dai grossisti, tondini, matasse di filo metallico, tubi di gomma, cordami colorati, cartoni, materiali da imballo. Ci sembrava che fossero cose utili, dotate di un design giusto, funzionale per fare esperimenti e creare oggetti connotati da un linguaggio diverso che nasceva da cose comuni. Così abbiamo fatto una mostra che si intitolava ‘Desconfortevole’”. Scomodo in senso intellettuale? H. “No… proprio nel senso di non confortevole, perché si trattava di cose fatte senza pensare al design e alle forme giuste dell’ergonomia. Ma i giornalisti ridevano, pensavano che fossero provocazioni, scherzi, che fossimo scultori non designer, che facessimo dell’ironia…
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La sedia Anemone, 2001, nelle strade di San Paolo. È realizzata da Edra con tubi in PVC trasparente intrecciati a mano su una struttura a corolla in metallo verniciato.
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L’ironia non si può vendere? H. “In Brasile domina una cultura modernista molto seria, molto composta. Nelle scuole di design agli studenti viene sempre chiesto di disegnare automobili, scooter, elettrodomestici per una industria che non c’è. Per una cultura industriale che non c’è”. Perché nel vostro lavoro prevalgono l’accumulo e i frammenti? H. “La mia testa è frammentata, io penso e vedo le cose come pezzi separati che aspettano di essere messi insieme. Il design per me è una sorta di terapia mentale per dar senso a questa frammentazione”. Qual è la malattia da curare? F. “Forse il nostro ‘inconformismo’”. Volete dire anticonformismo? F. “No, voglio dire in-conformismo nel senso di diversa conformazione, perché siamo nati in campagna e abbiamo avuto esperienze forti ed elementari. Eravamo in un posto bellissimo ma se
volevi fare qualcosa di diverso che non fosse giocare al calcio te lo dovevi inventare”. E cosa avete inventato? F. “Andavamo al cinema. Brotas, dove siamo nati, è un piccolo paese, ma c’era un avvocato, un tipo straordinario che si chiamava Josè Perricelli, che aveva la passione del cinema. Ogni settimana faceva arrivare col treno le pizze di film dei grandi registi italiani e le proiettava in una sala che aveva appositamente allestito. E così abbiamo visto le opere di Visconti, Fellini, Pasolini, Antonioni, Bertolucci… e non abbiamo giocato a calcio”. Che altri pezzi di Italia hanno contribuito al vostro ‘in-conformismo’? H. “Io non sapevo cosa fosse il design, mi piaceva fare sculture, fare arte, ho capito che c’era uno spazio diverso grazie a Lina Bo Bardi. Lei portava cose dall’Italia, ricordo una mostra della Olivetti con un allestimento bellissimo, lì ho capito che non ero un artista”.
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La seduta Favela, composta da piccoli pezzi di legno di recupero, assemblati a mano, simili a quelli con cui in Brasile si costruiscono le baracche delle favela. Produzione Edra, 2003.
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F. “Con la sua architettura Lina Bo Bardi ha dimostrato che si poteva guardare al Brasile in modo diverso, mettendo in risalto il suo aspetto più povero, aspro, misto, quello degli Indios e delle foreste, e non ha copiato da nessuno”. Cos’è per voi ‘meticcio’? F. “Meticcio è la globalizzazione, nata in Brasile cinquecento anni fa. Il Brasile ha mescolato indios, europei, asiatici, africani”. H. “Grazie al cielo la nostra cultura non comprende la parola ‘purezza’ mentre accetta la parola ‘flessibilità’. Quello brasiliano è un popolo flessibile”. Fatemi un esempio di flessibilità… F. “Accettare che la pratica possa venire prima della teoria. Dire che la pratica è la teoria. Si può dire che il vostro design cerca di dare ordine al caos? F. “Si può dire che proviamo a vedere il mondo in un’altra forma, una forma ‘imprecisa’
non tutta prevedibile e che questa imprecisione è un carattere della quotidianità”. Si può dire che fate una sintesi tra industria, artigianato e arte? F. “Non vogliamo parlare di arte. Fabbrichiamo forme che servono e ci piace che altri ci seguano su questa strada. Facciamo collegamenti imprevisti usando una cosa povera e facendola diventare ricca. Ma non possiamo parlare di industria”. Vi piace Brasilia? F. “Mi piace ma poi non mi piace. È un bellissimo teatro, pieno di corruzione; è una rappresentazione funzionale del potere. Perché funzionale? F. “Perché il potere ama i grandi spazi vuoti: se non ci sono strade strette è più facile controllare la gente. E poi se fai una città amministrativa lontana, senza popolo, sei sicuro che nessuno verrà mai fin lì, a protestare sotto il palazzo del governo”.
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Riferimenti culturali e materiali nel lavoro dei Fratelli Campana. In alto, da sinistra: un Indio del Rio Amazonas vicino a un vecchio aereo a elica; Una baracca nella Favela di San Paolo autocostruita con resti di legno e plastica; Bambù, fibre vegetali e velo Pluribol da imballo; la sedia Positivo-Negativo, Uno dei primi pezzi disegnati dai Campana. Sopra: Il cantiere della capitale Brasilia in una fotografia degli anni ’50. Sotto: Prototipo di studio della poltrona Corallo, costruita con filo di ferro piegato e saldato.
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H. “A me Brasilia piace, rappresenta la speranza di un futuro per il Brasile. Mi piace molto questo desiderio di forma assoluta nuova, di rappresentazione di un sogno. La cosa fantastica è che è costruita su una gigantesca roccia di quarzo”. Cos’è il carnevale? F. “Una rottura di scatole, un gran casino, una manifestazione commercial/sessuale”. H. “È una terapia collettiva per scaricare aggressività, una rappresentazione della gioia della ricchezza e della povertà messe insieme. Nel carnevale le classi povere fanno a gara per sembrare ricche anche solo per una notte”. Si può parlare anche di violenza figurativa nel carnevale? H. “Violenza ma specialmente eccesso, come la scena finale di un’opera lirica dove conta la grandiosità kitsch”. Come fareste un carro? H. “Esuberante, non letterale, astratto. Dovrebbe rappresentare le textures naturali del Brasile: quella della foresta, dei minerali, dell’acqua…”. Perché questa visione della natura come un mondo immenso, separato? F. “Non mi interessa la natura in città. Non
siamo nati in città, ogni week end torniamo a casa, andiamo a trovare nostra madre che abita in una fattoria, ai margini della foresta amazzonica. Lì abbiamo costruito una torre, per guardare verso la foresta, per osservare gli animali da lontano. La natura per noi è un mondo vicino, profondo e misterioso, non corrotto dall’uomo, puro”. H. “Da ragazzino desideravo entrare in rapporto con la foresta come gli indios, perché mi sembravano liberi, privi di regole sociali che non fossero quelle dettate dalle necessità semplici del vivere e sopravvivere in gruppi ristretti. Volevo vivere come loro”. F. “Infatti si rifiutava di mettere le scarpe. Io invece volevo fare l’astronauta, mi piaceva pensarmi nel futuro”. Che rapporti avete con il marketing? H. “Nessuno, siamo molto liberi. Non pensiamo mai a un progetto partendo dal costo o pensando a cosa il mercato comprerebbe… F. “Si segue un’idea, si fa una progetto, lo si realizza e poi si fa la teoria e si parla di mercato”. E con la tecnologia? H. “Non siamo tecnologi. Ci interessa lo strumento. Le tecnologie sono sul mercato. Hanno una loro immagine. Sono un materiale che ci consente di raggiungere un’idea e costruire questa immagine di casualità”. F. “Però c’è una razionalità nel costruire questa casualità. Se prendi un materiale devi studiarne la struttura e l’immagine per capirne le possibilità. Poi c’è un lavoro minuzioso necessario a far stare insieme le cose e renderle solide. A noi non interessa progettare nuovi materiali, semmai scoprire nuove possibilità d’uso e nuovi modi di mettere insieme quelli che ci sono già”.
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La Forza, cHe BeLLa Forma!
video di Yoox testo di Maddalena Padovani
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FRUTTO DI UNA COLLABORAZIONE TRA PIERLUIGI CERRI, DOMODINAMICA E YOOX, LA POLTRONCINA APTA È COMPOSTA DA UNA MEMBRANA IN POLIPROPILENE VERNICIATO TESA SU UNA STRUTTURA IN TONDINO DI ACCIAIO CROMATO.
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progetti di Pierluigi Cerri sono esattamente come il loro progettista: colti, raffinati, discreti e silenziosi, così distaccati e incuranti delle mode da risultare quasi snob. Non è facile parlare con l’architetto, partner fondatore della Gregotti Associati, che con i suoi rigorosi progetti d’immagine, grafica, allestimenti e design rappresenta ancora oggi un modo molto ‘milanese’ e quasi desueto di definire lo spazio e disegnare oggetti. “Detesto gli oggetti che urlano e scalpitano per essere in primo piano”, commenta Cerri. “Mi piace il silenzio e l’ironia. Una disciplina chiassosa e priva di ironia e humour è destinata al declino. Come la società”. Anche quando si tratta di raccontare la storia della sua nuova poltroncina Apta, disegnata per Domodinamica, Cerri preferisce affidarsi alla secca intelligenza di poche frasi inviate per e-mail, piuttosto che dare un volto e una voce a un prodotto che di fisicità ne ha tanta nonostante la ridottissima
presenza visiva e materiale. Formalmente, Apta si presenta con una semplicità quasi disarmante e addirittura ‘povera’ rispetto alla raffinatezza materica di altri arredi dello stesso autore che fanno dei dettagli e della precisione realizzativa il loro tratto distintivo. Un’esile struttura di metallo mette in tensione una membrana elastica forata che, a riposo, risulta una superficie bidimensionale ma che, sollecitata da pesi e forze, si allunga e si deforma per riassumere poi la sua configurazione originaria. “Tutte le sedie”, prosegue il progettista, “tentano di adattarsi al corpo con una struttura rigida che in qualche modo è già precostituita rispetto al corpo. Apta nasce dal desiderio di studiare la memoria della sedia, ovvero la sua capacità di deformarsi e di tornare poi alla sua conformazione originaria permettendo all’utilizzatore di assumere posizioni non conformiste. Un riferimento preciso è una vignetta di Altan che alcuni anni fa dichiarò che per disegnare una nuova sedia si sarebbe dovuto cambiare il sedere degli italiani. Noi abbiamo pensato che potesse essere la sedia ad adattarsi al sedere dei medesimi”.
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ISPIRATA A UN PRINCIPIO DI elasticità fisica E concettuale, LA SEDUTA APTA DISEGNATA DA Pierluigi Cerri PER Domodinamica SI ADATTA ALLE DIVERSE FISICITÀ ACCOMPAGNANDO LE FORME DEL CORPO
Un video realizzato da Yoox.com, partner di Domodinamica nello sviluppo del progetto (per la presentazione di Apta, lo scorso aprile, ha messo in vendita sul suo sito sei primi esemplari in diversi colori), racconta per immagini il principio di flessibilità e di interattività cui si ispira la poltroncina: due mimi vi ci siedono, ci saltano sopra e poi rimbalzano, si stendono, si accovacciano e si rotolano, ne fanno un attrezzo ginnico oppure un pretesto di gioco. Con la sua semplicità flessibile e possibilista, la seduta sembra alludere a un’esigenza più allargata di elasticità fisica e concettuale, a un vecchio sogno che lo stesso Cerri ripercorre nel commento del video: “Quando eravamo molto giovani pensavamo che fornire la gente di oggetti corretti dal punto di vista formale e funzionale potesse in qualche modo cambiare anche tipologicamente il luogo dell’abitare. Si discuteva di forma e funzione. Se la prima seguisse la seconda o viceversa. Furono i Castiglioni a rompere l’incantesimo affermando: ‘La funzione, che bella forma!’. Con la consueta e colta ironia. Oggi francamente vale l’ozioso adagio che propone: ‘La forma segue il business’”.
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Telefono senza fili
JoeVelluto (Jvlt)
è un percorso interpretativo che coinvolge di volta in volta quattro designer diversi. Lo scopo è quello di creare una sequenza ‘giocando’ attraverso il disegno di oggetti anziché le parole
di JoeVelluto (JVLT)
4. Cleto Munari “la velocità non è più meccanica ma visiva”
3. Marco Morosini “La mobilità è tutto. Aggiungi le ruote a qualsiasi oggetto e il viaggio inizierà”
1. JoeVelluto (JVLT)
2. Paolo Ulian “Al cubo vuoto aggiungo gli scarti derivanti dalla sua lavorazione per ottenere un nuovo vaso”
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5. Luca Nichetto “Del disegno astratto che ho ricevuto ho voluto dare una mia interpretazione che fosse il più realistica possibile. Ho dunque pensato a qualcosa di esistente ed immediatamente ho collegato lo schizzo a diversi spazi che compongono una veranda”
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P. Ulian
M. Morosini
C. Munari
L. Nichetto
Cubo
Questa volta si parte dal ‘cubo’. Mescoliamo le quattro lettere: c u o b o c b u c o u b b o u c u o b c b o u c b c o u c o u: buco. Un cubo col buco quindi. Anzi un buco al cubo che diventa vaso sfruttando il vuoto del buco. Un vaso che non contiene nulla, il vuoto quindi. Ma il nulla si può anche trasportare se ci metti le ruote, ed è per questo che si dice ‘viaggiare a vuoto’. E se gli dai una spinta diventa vuoto spinto. Vuoto d’aria. Complemento di moto a vuoto. Si va veloci con o senza ruote, destinazione: il viaggio. E gli occhi compiono movimenti regolari e veloci, al di qua del finestrino di un treno, nutrendosi di stimoli visivi. Viaggio in treno verso l’estetica per creare metafore e simboli. Per riposarsi infine all’ombra di una veranda. Pane al pane, vino al vino. Pane e salame. Formaggio a cubetti.
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1. lampada a sospensione di tapio anttila per showroom finland dalla collezione tuohi, in corteccia di betulla. 2. branca, di studioilse per de la espada panca con schienale alto dalla seating for eating collection, in legno massello di castagno.
guardando a nord legni e segni chiari. semplicità al limite dell’austerità. Rigore stilistico e intellettuale. la leggerezza nel purismo grafico delle strutture, la ricerca dell’autentico nel legno al naturale, la memoria nelle forme familiari. ECHI VICINI DI modernismo scandinavo
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di Katrin Cosseta
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Foto di helmut nÄgele per Mattiazzi 1.
1. codice: briccole, di terry dwan per riva 1920, consolle reaLIZzata con ‘bricole’, pali di quercia della laguna veneziana di recupero. 2.
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2. branca, di sam hecht/industrial facility per mattiazzi, sedia in frassino naturale cerato.
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1. natural genius medoc, di michele de lucchi e philippe nigro per listone giordano, parquet in rovere nella nuova variante colore #4 con finitura a olio. 2. road, di rodolfo dordoni per roda, sedia per esterni con struttura in listelli in teak a diverse sezioni e seduta in rete di Canatex. 3. vassoio, disegnato e prodotto da plinio il giovane, tavolo ultraleggero in rovere. 4. sedia tre, disegnata nel 1978 da angelo mangiarotti e rieditata da agapecasa, seduta in cuoio e struttura a tre gambe in rovere naturale o tinto.
1.
2.
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3.
4.
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ISPIRAZIONE SCANDINAVA / 89
1. caleido ghiaccio di tabu, piallaccio dalla collezione caleido, fiammato. 2. klara, di patricia urquiola per moroso, poltrona con struttura in faggio naturale finito a cera, schienale in faggio curvato e paglia di vienna. 3. il volo, di riccardo blumer per alias, tavolo nella nuova versione allungabile, struttura in legno massello o multistrato con impiallacciatura in varie essenze: acero, rovere, ciliegio, ebano, wengĂŠ. 4. hiroshima, di naoto fukasawa per mARUNI, sedia con struttura in faggio e seduta imbottita e rivestita in tessuto.
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90 / INdesign INproduction
1. wall illusion di berti pavimenti legno, pannello decorativo prefinito a effetto optical, in diverse essenze, a contrasto. collezione studiata da Matteo Berti ispirata agli studi sull’illusione del movimento del professore di psicologia giapponese Akiyoshi KITAOKA. 2. monza, di konstantin grcic per plank, poltroncina con struttura in frassino naturale e schienale in polipropilene. 3. dalla collezione night&day di patricia urquiola per molteni&c, tavolino con struttura in laccato opaco e piano in laccato o essenza noce canaletto, wengÊ, rovere scuro o grigio. 4. echo, di laura silvestrini per giorgetti, libreria girevole rivestita in pelle ecologica.
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ISPIRAZIONE SCANDINAVA / 91
1. anethum di alpi, legno multilaminare dalla collezione concept wood, con decoro disponibile in 4 varianti di colore. 2. sedia 130 di naoto fukasawa per thonet, in legno massello di faggio o quercia, naturale o tinto. 3. leonardo, di marco ferreri per morelato, tavolo con struttura a incastro in rovere, piano in cristallo o legno. 4. b chair, di konstantin grcic per bd - barcelona design, sedia in legno massello con seduta reclinabile disponibile anche in vari colori.
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92 / INdesign INproduction
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1. soundwave geo, di ineke hans per offecct, pannello acustico in fibra poliestere riciclabile. 2. ray, di orlandini design per horm, sedia con struttura in massello di frassino, crociere in acciaio cromato, scocca in impiallacciato rovere canaletto o legno bianco/nero, rivestita in laminato o imbottita. 3. fat fat, di patricia urquiola per B&B italia, tavolino con struttura in tondino d’acciaio, piano-vassoio disponibile bianco o nero. 4. antelope, di monica fÖrster per swedese, sedia in massello di frassino, seduta imbottita e rivestita in pelle o tessuto.
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ISPIRAZIONE SCANDINAVA / 93
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1. Snowflake Oro, decoro in mosaico di vetro Bisazza, design Marcel Wanders. 2. Instant seat, di Matali Crasset per Moustache, poltrona in multistrati di betulla, disponibile con bracciolo destro o sinistro, rivestimento in pelliccia di montone. 3. ics, di rodrigo torres per poliform, sgabello con struttura e seduta in rovere, disponibile anche laccato opaco in 28 colori. 4. ec03 eugene di stefan diez per e15, lounge chair con scocca in multistrato impiallacciato rovere laccato bianco, disponibile anche con seduta imbottita fissa.
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94 / INservice INdirizzi
AGAPE srl Via Pitentino 6 46037 GOVERNOLO DI RONCOFERRARO MN Tel. 0376250311 Fax 0376250330 www.agapedesign.it www.agapecasa.it info@agapedesign.it ALCANTARA spa Via Mecenate 86 20138 MILANO Tel. 02580301 Fax 0258030316 www.alcantara.com info@alcantara.com ALFREDO SALVATORI srl Via Aurelia 395/E 55046 QUERCETA LU Tel. 0584769200 Fax 0584768393 www.salvatori.it info@salvatori.it ALIAS spa Via delle Marine 5 24064 GRUMELLO DEL MONTE BG Tel. 0354422511 Fax 0354422590 www.aliasdesign.it info@aliasdesign.it ALPI spa V.le della Repubblica 34 47015 MODIGLIANA FC Tel. 0546945411 Fax 0546940251 www.alpi.it alpi@alpi.it ARFLEX SEVEN SALOTTI spa Via Pizzo Scalino 1 20034 GIUSSANO MB Tel. 0362853043 Fax 0362853080 www.arflex.it info@arflex.it ARTEMIDE spa Via Bergamo 18 20010 PREGNANA MIL.SE MI Tel. 02935181 nr verde 800 834093 Fax 0293590254 www.artemide.com info@artemide.com B&B ITALIA spa S. Provinciale 32, 15 22060 NOVEDRATE CO Tel. 031795111 Fax 031791592 www.bebitalia.com info@bebitalia.com BAXTER srl Via degli Artigiani 9 22040 LURAGO D’ERBA CO Tel. 0313599008 Fax 031698638 www.baxter.it info@baxter.it BD BARCELONA DESIGN Pujades 63 E 08005 BARCELONA Tel. +34934570052 Fax +34932073697 www.bdbarcelona.com BERTI - PAVIMENTI LEGNO Via Rettilineo 81 35010 VILLA DEL CONTE PD Tel. 0499323611 Fax 0499323639 www.berti.net info@berti.net
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BILLIANI srl Via della Roggia 28 33044 MANZANO UD Tel. 0432740180 Fax 0432740853 www.billiani.it info@billiani.it BISAZZA spa V.le Milano 56 36075 ALTE DI MONTECCHIO MAGGIORE VI Tel. 04447075111 www.bisazza.com info@bisazza.com BISES NOVITÁ spa San Marco 3877 30124 VENEZIA Tel. 0415216411 Fax 0415225557 info@rubelli.it BONALDO spa Via Straelle 3 35010 VILLANOVA PD Tel. 0499299011 Fax 0499299000 www.bonaldo.it bonaldo@bonaldo.it BUSNELLI GRUPPO INDUSTRIALE spa Via Kennedy 34 20020 MISINTO MB Tel. 0296320221 Fax 0296329384 www.busnelli.it gruppo@busnelli.it CASAMANIA Via Ferret 11/9 31020 VIDOR TV Tel. 04236753 Fax 0423819640 www.casamania.it casamania@casamania.it CORSI srl Viale Lombardia 23 20131 MILANO Tel. 0289451099 Fax 0289451086 www.corsidesign.it info@corsidesign.it DAINESE SPA Via dell’Artigianato 35 36060 MOLVENA VI Tel. 0424410711 Fax 0424410700 www.dainese.com info@dainese.com DANESE srl Via Canova 34 20145 MILANO Tel. 02349611 Fax 0234538211 www.danesemilano.com info@danesemilano.com DE LA ESPADA www.delaespada.com www.autoban212.com DE MAJO ILLUMINAZIONE srl Via G. Galilei 34 30035 MIRANO VE Tel. 0415729611 Fax 04157029533 www.demajoilluminazione.com demajo@demajomurano.com
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FRITZ HANSEN MOEBLER Allerodvej 8 DK 3450 ALLEROD Tel. +45 48 172300 Fax +45 48 171948 www.fritzhansen.com Distr. in Italia: FRITZ HANSEN A/S C.so Garibaldi 77 20121 MILANO Tel. 0236505606 Fax 0236505624 www.fritzhansen.com edg@fritzhansen.com GANDIA BLASCO sa c/Músico Vert 4 E 46870 ONTINYENT-VALENCIA Tel. +34962911320 Fax +34962913044 www.gandiablasco.com Distr. in Italia: DESIGN D’OCCASIONE Via Machiavelli 1 40069 RIALE DI ZOLA PREDOSA BO Tel. 051758908 Fax 0516167090 www.designdoccasione.com info@designdoccasione.com GIORGETTI spa Via Manzoni 20 20036 MEDA MB Tel. 036275275 Fax 036275575 www.giorgetti-spa.it info@giorgetti-spa.it GUBI INTERNATIONAL A/S Frihavnen, Klubiensvej 7-9, Pakhus 53 DK 2100 Copenhagen Tel. +45 3332 6368 Fax +45 3332 6069 www.gubi.dk gubi@gubi.dk HORM 1989 srl Via San Giuseppe 25 33082 AZZANO DECIMO PN Tel. 0434640733 Fax 0434640735 www.horm.it horm@horm.it I GUZZINI ILLUMINAZIONE spa Via Mariano Guzzini 37 62019 RECANATI MC Tel. 07175881 Fax 0717588295 www.iguzzini.com iguzzini@iguzzini.it ILLULIAN Via Manzoni 37, 41, 41a 20121 MILANO Tel. 026575418-6570108 Fax 026575418 www.illulian.com illulian@illulian.com KAROL srl Loc. Belvedere 53034 COLLE DI VAL D’ELSA SI Tel. 057790571 Fax 0577930222 www.karol.it karol@karol.it KARTELL spa Via delle Industrie 1 20082 NOVIGLIO MI Tel. 02900121 Fax 029053316 www.kartell.it kartell@kartell.it
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Interni dicembre 2010 KERASAN srl Z.I. - Loc. Prataroni 01033 CIVITA CASTELLANA VT Tel. 0761542018 Fax 0761540627 www.kerasan.it kerasan@kerasan.it KNOLL INTERNATIONAL spa Piazza Bertarelli 2 20122 MILANO Tel. 027222291 Fax 0272222930 www.knoll.com www.knolleurope.com italy@knolleurope.com LAPALMA srl Via Majorana 26 35010 CADONEGHE PD Tel. 049702788 Fax 049700889 www.lapalma.it info@lapalma.it LE KLINT Store Kirkestræde 1 DK 1073 COPENHAGEN Tel. +45 33 11 66 63 Fax +45 33 11 62 86 www.leklint.com butik@leklint.dk LISTONE GIORDANO MARGARITELLI spa Fraz. Miralduolo 06089 TORGIANO PG Tel. 075988681 Fax 0759889043 www.listonegiordano.com info@listonegiordano.com LUCEPLAN spa Via E.T. Moneta 40 20161 MILANO Tel. 02662421 nr verde 800800169 Fax 0266203400 www.luceplan.com info@luceplan.com MAGIS spa Via Triestina Accesso E 30020 TORRE DI MOSTO VE Tel. 0421319600 Fax 0421319700 www.magisdesign.com info@magisdesign.com MARUNI WOOD INDUSTRY INC. 3-6-13 Higashinihonbashi J CHUO-KU TOKYO 103-0004 Tel. +81 3 5614 6598 Fax +81 3 3663 0789 www.maruni.com MATTIAZZI Via Sottorive 19/2 33048 S.GIOVANNI AL NATISONE UD Tel. 0432757474 Fax 0432756572 www.mattiazzi.eu info@matiazzi.eu MOLTENI & C spa Via Rossini 50 20034 GIUSSANO MB Tel. 03623591 nr verde 800387489 Fax 0362355170 www.molteni.it customer.service@molteni.it
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MOOOI Minervum 7003 NL 4817 ZL BREDA Tel. +31765784444 Fax +31765710621 www.moooi.com info@moooi.com MORELATO srl Via Valmorsel 18 37056 SALIZZOLE VR Tel. 0456954001 Fax 0456954030 www.morelato.it morelato@morelato.it MOROSO spa Via Nazionale 60 33010 CAVALICCO UD Tel. 0432577111 nr. verde 800016811 Fax 0432570761 www.moroso.it info@moroso.it MOUSTACHE 3, rue du Buisson Saint Louis F 75010 PARIS Tel. +33148459460 Fax +33148459479 www.moustache.fr info@moustache.fr NIKE ITALY srl Via Isonzo 55 40033 CASALECCHIO DI RENO BO Tel. 0516115511 Fax 051590059 www.nike.com NODUS c/o Il Piccolo - Via Delio Tessa 1 (ang. C.so Garibaldi) 20121 MILANO Tel. 02866838 Fax 0272022889 www.nodusrug.it design@ilpiccolo.com OFFECCT Skovdevagen Box 100 SE TIBRO 543 21 Tel. +46 504 41500 Fax +46 504 12524 www.offecct.se support@offecct.se PEDRALI spa S. Provinciale 122 24050 MORNICO AL SERIO BG Tel. 0358358970 Fax 0358358888 www.pedrali.it marketing@pedrali.it PLANK COLLEZIONI srl Via Nazionale 35 39040 ORA BZ Tel. 0471803500 Fax 0471803599 www.plank.it info@plank.it PLINIO IL GIOVANE Via Cernuschi 1, ang. V.le Premuda 20129 MILANO Tel. 0255190210 Fax 0255191110 www.plinioilgiovane.it info@plinioilgiovane.it POLIFORM spa Via Montesanto 28 22044 INVERIGO CO Tel. 0316951 Fax 031695801 www.poliform.it info@poliform.it
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N. 607 dicembre 2010 December 2010 rivista fondata nel 1954 review founded in 1954
www.internimagazine.it
direttore responsabile/editor GILDA BOJARDI bojardi@mondadori.it art director CHRISTOPH RADL caporedattore centrale central editor-in-chief SIMONETTA FIORIO simonetta.fiorio@mondadori.it consulenti editoriali/editorial consultants ANDREA BRANZI ANTONIO CITTERIO MICHELE DE LUCCHI MATTEO VERCELLONI
Nell’immagine: scorcio del nuovo studio di matali crasset a parigi. Nello stesso edificio, al piano superiore, si trova anche l’abitazione della designer. In the image: view of the new studio of Matali Crasset in Paris. The designer’s home is in the same building, on the next level. (FOTO DI/phOTO BY henry thoreau)
Nel prossimo numero 608 in the next issue
Interiors&architecture
da Rudy Ricciotti a Moatti & Riviere, il progetto è made in France
from Rudy Ricciotti to Moatti & Riviere, design Made in France
INprofile
Aldo Cibic INdesign
L’abito fa il divano
Judging a sofa by its cover
I nuovi letti imbottiti
The new upholstered beds
Barber & Osgerby, Konstantin Grcic, JoeVelluto con/with Oliviero Toscani Speciale LIMITED editiON
redazione/editorial staff MADDALENA PADOVANI mpadovan@mondadori.it (vice caporedattore/vice-editor-in-chief) OLIVIA CREMASCOLI cremasc@mondadori.it (caposervizio/senior editor) ANTONELLA BOISI boisi@mondadori.it (vice caposervizio architetture/ architectural vice-editor) KATRIN COSSETA internik@mondadori.it produzione e news/production and news NADIA LIONELLO internin@mondadori.it produzione e sala posa production and photo studio rubriche/features VIRGINIO BRIATORE giovani designer/young designers GERMANO CELANT arte/art CLARA MANTICA sostenibilità/sustainability CRISTINA MOROZZI fashion ANDREA PIRRUCCIO produzione e/production and news DANILO PREMOLI hi-tech e/and contract MATTEO VERCELLONI in libreria/in bookstores ANGELO VILLA cinema TRANSITING@MAC.COM traduzioni/translations grafica/layout MAURA SOLIMAN soliman@mondadori.it SIMONE CASTAGNINI simonec@mondadori.it STEFANIA MONTECCHI internim@mondadori.it SUSANNA MOLLICA segreteria di redazione editorial secretariat ALESSANDRA FOSSATI alessandra.fossati@mondadori.it responsabile/head ADALISA UBOLDI adalisa.uboldi@mondadori.it assistente del direttore assistant to the editor BARBARA BARBIERI barbara.barbieri@mondadori.it contributi di/contributors: STEFANO CAGGIANO ODOARDO FIORAVANTI ANTONELLA GALLI BJARKE INGELS/STUDIO BIG MARTINA LUCATELLI FRANCESCO MASSONI FRANCO RAGGI ALESSANDRO ROCCA DEYAN SUDJIC LAURA TRALDI JOE VELLUTO (JVLT) fotografi/photographs IWAN BAAN RICHARD BRYANT RICHARD DAVIES ALFIO GAROZZO WERNER HUTHMACHER GILBERT MCCARRAGHER ADAM MØRK ANDRÉS OTERO PAOLO ROSSELLI PHILIPPE RUAULT HISAO SUZUKI RAFAEL VARGAS PAOLO VECLANI promotion ADRIANA AURELI
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corrispondenti/correspondents Francia: EDITH PAULY edith.pauly@tele2.fr Germania: LUCA IACONELLI radlberlin@t-online.de Giappone: SERGIO PIRRONE utopirro@sergiopirrone.com Gran Bretagna: DAVIDE GIORDANO davide.giordano@zaha-hadid.com Portogallo: MARCO SOUSA SANTOS protodesign@mail.telepac.pt Spagna: CRISTINA GIMENEZ cg@cristinagimenez.com LUCIA PANOZZO luciapanozzo@yahoo.com Svezia: JILL DUFWA jill.dufwa@post.utfors.se Taiwan: CHENG CHUNG YAO yao@autotools.com.tw USA: PAUL WARCHOL pw@warcholphotography.com
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There is a link, though it may not be clearly perceptible, between the two main ‘bodies’ that structure the ‘cover’ of our December issue: the monograph on John Pawson and the special on design and architecture in Denmark. It is a design approach of extreme expressive cleanliness: rigorous, essential, fundamentalist. Where the purism of the line combines with a wealth of content, also sensory content, research on materials, attention to detail. A complex sign – hence its beauty – because it explores the paradigms of reference of a precise DNA of space, time and places. The first part of our Interiors&Architecture section is on the interpretation of the work of John Pawson, a true master of the art of formal simplification. The British architect is the protagonist, until 30 January, of a solo show at the Design Museum of London, narrated by the museum’s director, Deyan Sudjic. The second part focuses on new Danish architecture. The specific scenario of Copenhagen illustrates, in the works of very young local studios like BIG or 3XN, a free interpretation of the themes of environmental sustainability, suggesting innovative uses of private and public spaces. With very ingenious typologies and layouts, attention to the orientation of facades, optimization of the energy performance of buildings. While recent works of architecture Made in Denmark appear as the urban landmarks of a city-laboratory, today’s Danish design is no less experimental. Respect for the tradition and the lessons of the masters is its backdrop, but the gaze of the new generations aims only at the future. Gilda Bojardi - Caption Danish Radio Concert House, Copenhagen, project by Jean Nouvel (photo Philippe Ruault).
INteriors&architecture John Pawson p. 2 text Deyan Sudjic
A British architect, 61 years old, protagonist until 30 January of a solo show at the Design Museum of London. The profound complexity of his language combines a taste for the essential with the rigor of a wealth of sensory content that purifies lines and erases any decorative trappings, as narrated by Deyan Sudjic, director of the Design Museum of London. The exhibition on John Pawson at the Design Museum is crowded. Visitors sit calmly on the long bench made by the Danish artisans of Dineseen, a unique piece created from the trunk of a Douglas fir from the Black Forest. They linger around the table made from the same tree and set off in search of memories, letters, photographs of a life and a career. There is a note scribbled by Karl Lagerfeld in which he tells Pawson that he is not interested in circular rooms. There’s a note by the writer Bruce Chatwin, also his client, complaining about the leaks in the ceiling of the apartment Pawson made for him. Later, the visitors move into the room where Pawson himself has created, right in the middle of the show, an environment with a vaulted ceiling and a floor covered with planks of Douglas fir. From one end of the exhibition it is possible to glimpse the rest of the museum through the impalpable filter of a gauze veil. This is not a reference to, not an explanation of architecture. This is architecture. A retrospective on architecture should be interesting to the general public. Where Pawson’s show is concerned, it was clear from the start that we would try to communicate the essence of his work. This would involve the creation of an actual-size architectural installation, modifying the galleries of the museum to convey and embody the qualities of the architectural vision of Pawson. It was an exhibition that had to be conceived to transmit a whole series of different messages. One of them is the idea of process, another is the biography. During the discussion the idea arose of investigating the relationship between the landscape and a careful selection of Pawson’s projects, photographed for the occasion, with high-definition digital prints. When Pawson agreed to work with us on the exhibition, we had still not started the selection process that, in the end, would lead to the commission to create the new headquarters of the Design Museum. This was just one year after we commissioned him to remodel the former Commonwealth Institute, which for us was a milestone of the 1960s. His work has become part of our program not for the potential project it could have represented for the museum, but because we saw, in his very particular, personal way of interpreting architecture, the possibility of offering our audience an insight into the nature of design. As destiny would have it, the exhibition opened precisely on the day when the Heritage Lottery Fund announced its decision to finance the new building, but not before we had very seriously taken into consideration an entire series of other designers for the job, some of whom had already shown their works at the museum. The combination of the opening and the commission was a coincidence. But it is certainly, decidedly different to be the curator of an exhibition of someone with whom you are thinking about collaborating on an important project. This helps to define the essence of his work and, therefore, the message the exhibition intends to send. The show by Pawson is just one of many architectural events that have constituted a fundamental part of the program of the museum since Terence Conran launched it over 21 years ago. The museum concentrates on the design of automobiles and the question of national identity, the fashion of Hussein Chalayan and the approach to graphics of Wim Crouwel. For us, architecture is an integral part of design, in all its various facets. We have hosted shows on Frank Lloyd Wright, Eileen Gray (twice), Buckminster Fuller, Archigram and Cedric Price, all designers who might have been interesting choices as the architects of the new building; but none of them, with the exception of the surviving members of Archigram, was still alive at the
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time. To present design as a continuum of different approaches, ranging from fashion to product design, seamlessly, is a true strategy. This means that at any time you can walk through the museum and see the whole range: from the photographs of David Adjaye on the theme of Urban Africa, on one floor, to sustainable design, on another. At a certain point two forms of sober rationalism have emerged simultaneously, with David Chipperfield on the first floor, and Dieter Rams on the upper level. In other situations there has been greater dissonance: Sam Hecht of Industrial Facility could not be more different from the extravagant photography of Tim Walker, though in both cases the exhibitions managed to convey an idea of working methods. In the four years in which I have been director of the museum, we have added more living, contemporary architects to the program. Zaha Hadid, Richard Rogers and David Chipperfield have joined us, and John Pawson is a part of this group. In the future we will work, among others, with Kazuyo Sejima as well. As a result, the Design Museum has become one of the public places of London with the greatest visibility for the discussion of architecture. We work on monographic shows where the key lies in choosing a subject, making sure his or her work is displayed with the greatest efficacy and commitment. But we also organize thematic shows in which the role of the curator, naturally, is more evident, in the sense that the content of the event is based on an idea, a manifesto or a series of observations. It may be more difficult to ‘sell’ this type of event to the general public, because the themes are harder to understand than the presentation of an individual career. One of the appealing things about the Pawson show is that it can be seen as both monographic and thematic. In other words, an exhibition on Pawson is identified, necessarily, with the individual, but it is also clearly seen as something very specific in the panorama of design. In the 1990s Pawson produced a remarkable book titled Minimum, which – in its understated, elegant English way – was a manifesto, though it did not make use of that word. It covered a series of architectural qualities: sequence, mass, and so on, and how they have been applied in art and architecture across the centuries. It captured a certain aspect of the world and demonstrated the ties between ideas and achievements that are not always connected. In this context Pawson introduced, here and there, examples drawn from his own work. This could have been the starting point of the exhibition, through it would have been complicated and costly to organize loans of works by Agnes Martin, Sol LeWitt, and silver from the 18th century. But without those things it would not have worked. Photographs in books are convincing in a way that photographic representations in exhibitions seldom are. So we opted for an episodic structure for the show. The biography is found on the table at the entrance to the gallery. At the center there is the room on a scale of 1:1, on one side the promenade with immense images of four projects, accompanied by samples of the materials on which they are based, organized in pairs. Bronze and zinc are on the floor, near the representation of the Sackler Crossing of Kew Gardens; zinc and black painted wood are connected with the photograph of the home of Fabien Baron in Sweden. On the other side of the vault, a second promenade concentrates on the design and construction of the monastery of Novy Dvur and a pair of other more recent projects, while to the back of the gallery there is a film screen on which a video on Pawson’s work is projected. Pawson is known as the originator of what, rightfully or not, is considered the contemporary version of architectural minimalism. I must confess that I have a certain amount of responsibility for having associated this term with Pawson, because I titled an article I wrote for the magazine Blueprint, at the start of the 1980s, by nonchalantly borrowing a word associated with the art of Donald Judd, Carl Andre and Dan Flavin. Though Pawson was of course influenced by their work, there is not much in common between their operations, which can be seen as found objects, and the refinement of his architecture. From many viewpoints, Pawson is anything but a modernist. His work constantly returns to what we might define as the most traditional architectural elements par excellence: space, light and material, as well as the basic relationship they have with man. Though not a fundamentalist, he operates with the fundamental elements of architecture. He shows us the state of grace that can be communicated by a certain visual or materic order. He helps us to understand how architecture can put our life into focus. He grants us a moment of respite and a sense of optimism. Pawson can be seen as a member of a certain current of architecture that stands out from the main current. The viewpoint of the Director. One of the differences that struck me most when I shifted from being the editor of design and architecture magazines to being the director of a museum was the direct contact with the public. Publishing a magazine is a bit like putting a message in a bottle and tossing it into the sea. From time to time you get some feedback: a letter to the editor from an irate architect claiming to be the victim of Anglo-Saxon mercenaries (that happened to me when I was in Milan); threats of lawsuits (when I was writing for a newspaper in London). The most frequent type of request, in any case, is for more information, on the part of technical libraries interested in the precise type of concrete used by Zaha Hadid for the bridge-pavilion of Saragossa. Managing a museum, on the other hand, is a bit like running a theater. There is an immediate, physically tangible reaction. If visitors like what the museum is doing they will come there of their own accord and spend lots of time. You can stand at the entrance and watch the expression on their faces. You can tell when they appreciate what they find there. You can listen to their comments. You can watch them as they take pictures of signs with their mobile phones. Of course if they are unhappy you notice. And if they stay away. Newspapers, magazines, television, blogs may say not very nice things. Even the numbers change. When I was director of the Venice Architecture Biennial in 2002, we attracted over 100,000 paying visitors in three months. I can prove it, but I’d
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wager a handsome sum that no architecture book has ever come even close to such numbers in terms of sales. At the Design Museum, in one week we can sell up to 4000 tickets at 8.50 pounds each. For an exhibition that lasts four months, this means 70,000 visitors. The exhibition on Ron Arad at MoMA last year pulled in almost 500,000 visitors, though of course the price of the ticket also allowed them to see the rest of the collection. No issue of any design or architecture magazine in the world can rival such figures. I’m saying all this not to pass judgment on the value or the results that can be achieved with one medium as opposed to another. But it is clear that an exhibition that works has that certain something that convinces many more people to pay to have an experience than would be willing to shell out for a book or a magazine. The different degree of appeal might simply reflect the different level of investment, because exhibitions that cost more to produce may be more attractive to visitors as well. But if we add the salaries of the writers, the payment of royalties for photographs, illustrations, graphics, for one issue of a magazine we can estimate a maximum cost of 250 pounds per page. For a publication of 120 pages, that’s 30,000 pounds. With the same sum, you could also organize an exhibition, though that depends on how much space needs to be filled. 150,000 pounds would be a more realistic budget, and the major exhibitions like the one by Ron Arad, with many international loans, insurance, shipping, with people involved who insist on flying business class when traveling with precious items, require even bigger investments. But given the fact that those 150,000 pounds include the costs of technicians, production and construction, while the figures for magazines do not include paper, printing and distribution, it is not easy to make an accurate comparison. As a whole, I’d say that the difference in size of the pool of users is determined by other factors, not investment levels. It is to facile and banal to reassert the trite idea that an architecture exhibition cannot reproduce the firsthand experience of architecture; that what is displayed is, in some sense, a compromise, if we compare it, for example, with the firsthand experience of an autonomous work of art. An effective and tangible architecture exhibition truly offers a richer, more engaging experience that speaks to people more than any description in a book or magazine. Just as live concerts continue to flourish in spite of the drastic drop in sales of CDs, so the firsthand, shared, tangible experience offered by an exhibition confirms its continuing, growing appeal for the public. Caption pag. 3 Cover of the monograph John Pawson Plain Space by Alison Morris (Phaidon Press, London, 2010), released for the solo show at the Design Museum. Facing page, the exhibition at the Design Museum of London retraces Pawson’s career through his most famous works (photo Gilbert McCarragher). - Caption pag. 4 In the images: the central room and symbolic fulcrum of the exhibition, conceived as a site-specific installation, a room on a scale of 1:1 where visitors can experience a particular sense of space. The sole presences are two wooden benches and atmospheric lighting. Below, plan and models for the exhibit design of the show John Pawson Plain Space, on the upper level of the Design Museum of London. - Caption pag. 7 Along the white walls, photographic enlargements of the bestknown and most representative architectural works of Pawson, who has designed the tables and seating of the exhibition space for the occasion. Large samples of the materials used in the projects are scattered on platforms and pedestals. - Caption pag. 8 The architectural experience of Pawson focused on paradigms of reference of space, light and proportion is narrated by oversized images and models of projects in progress or already completed. The photographs in the exhibition are by Gilbert McCarragher. - Caption pag. 10 Neuendorf House, Majorca, Spain,1989. A vacation home for the German art dealer Hans Neuendorf appears as an iconic volume of reference composed of absolute cuts, in an intrinsic relationship with the earth and the colors of the place (photo Richard Bryant). - Caption pag. 11 Above, Baron House, Skåne, Sweden, 2005. A single-family house in the greenery of the Swedish countryside. The total white of the internal spatial enclosure is enlivened by a few selected furnishings of Nordic origin. Chairs by Hans Wegner for Fritz Hansen (photo Fabien Baron). Below, House of Stone, a house archetype made with Salvatori for the event INTERNI ThinkTank, at the Università degli Studi of Milan, during Milan Design Capital® 2010 (photo Andrès Otero). Right, Tetsuka House, Tokyo, Japan, 2005. Again, an absolute sign that purifies lines and eliminates any decoration in favor of a rigorous, purist aesthetic with Japanese overtones (photo Hisao Suzuki). - Caption pag. 12 Sackler Crossing, pedestrian walkway on the lake of the Kew Royal Botanic Gardens, London, a project from 2006 that received the RIBA Award (photo Richard Davies). Private home, Germany, 2004. Overhanging volumes integrated in a sum of complete, well-defined elements, are reflected in the composition of the internal spaces and furnishings (photo Werner Huthmacher). - Caption pag. 15 The Cistercian monastery of Our Lady of Novy Dvur in Bohemia, restructuring project completed, in its first phase, in 2004, with further conversions and additions later (Frate Sole International Sacred Architecture Prize for best work of the last decade, photo Hisao Suzuki). The set design of Chroma, a ballet for London’s Royal Opera House, 2006 (photo Richard Davies). To the side, washstand, Saatchi House, London, 1987. Part of the furnishings designed for the home of the collector Doris Saatchi. Below, bowls in pottery or stone from the series When Objects Work, 2010. A reinterpretation on the theme of the cylinder and the spherical composition (photo Sven Geboers). - Caption pag. 16 The first Calvin Klein flagship store in Manhattan, 1995. A pilot project of formal simplification, repeated with the same approach in other contexts where the retail outlets of the brand have been updated (photo Christoph Kicherer). Runkel Hue-Williams Gallery, London, 1988. The aesthetic dimension does not push pragmatic concerns out of the picture (photo courtesy of John Pawson studio). Lobby and gallery in the Puerta America Hotel, Madrid, 2005, a collective effort involving the work of architects and designers, in the common and private parts of the building, as interpreters of
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the free linguistic pluralism that is a characteristic of our era (photo Rafael Vargas). Sloop – B 60, 2007. Attention to detail and richness of the finishes achieve remarkable complexity of expression in the yacht designs by Pawson (photo Jens Weber).
Viva la Evolucíon p. 18 text Bjarke Ingels/studio BIG ed. Antonella Boisi
The new Copenhagen? An urban laboratory, a terrain for increasingly fertile ‘sprouts’, a dynamic framework for a sustainable vision of living on all scales. The introductory reflections of Bjarke Ingels, founding partner of the studio BIG (European Prize for Architecture 2010), express a personal approach and viewpoint of great interest, “Yes is more!”, based on analysis of the evolution of Danish society. We illustrate it with a series of iconic works of architecture from the scenario in which Ingels & Co. operate. The choice focuses on projects that with different linguistic matrices generate hospitable links between city and landscape, waterfront culture and skillful blends of water, space, greenery and light. The usual image of the radical architect is that of a young person who rebels against the establishment. The avant-garde is labeled as something that protests rather than proposes. This leads to an Oedipal series of contradictions through which every generation champions the opposite of its predecessor. If the program is limited to taking a position somehow antithetical to that of someone else, we simply become followers of opposing views. Instead of a radical stance that ignores the context (the establishment, the neighbors, the balance sheet, the force of gravity), we want to try to transform the self-indulgence of a radical program. Danish welfare is a culture of consensus. The most egalitarian country in the world, from a social viewpoint, is governed by some very valid principles: all have the same rights, every viewpoint has the same value. Beyond the obvious social virtues, these principles have had a significant side effect in the world of architecture: a gray sentimentalism of uniformity that explains much of the urban fabric, where nearly all attempts to emerge have been watered down into the same generic, inoffensive box; all libido has been channeled to polish and perfect even the smallest details. The sum of all these little ‘concerns’ seems to have obscured the overall view. What if making everyone happy did not necessarily have to imply compromise or the lowest common denominator? It might be a way to achieve that always elusive reversal that twists and turns to try to satisfy all desires while avoiding stepping on anyone’s toes at the same time. We’re interested in evolution, more than revolution. Darwin described creation as a process of excesses and selection; so we propose letting the forces of society, the multiple interests of all, decide which of our ideas can live and which must die. The ideas that survive evolve through mutation and cross-breeding, into a totally new species of architecture. Human life has evolved by adapting to changes in the natural environment. With the invention of architecture and technology we have the power to adapt the environments around us in which we want to live, instead of adapting to them. This is why it is interesting to be an architect: with the evolution of life, our cities and our architecture have to evolve too. Cities are not polluted or congested because that is the way things must be. They are what they are because we have made them be that way. If something no longer works, we architects have the capacity (and the responsibility) to make our cities stop forcing us to adapt to obsolete leftovers of the past, and to make our cities adapt to the way we want to live. From this viewpoint, we architects should not operate as misunderstood geniuses, frustrated by a lack of comprehension, appreciation or financing. We should not be the makers-creators of architecture, but the obstetricians of the continuing birth of architectural species formed by numberless criteria of multiple interests. The whole world insists on conflict. The mass media want conflict and politicians that want to be visible in the mass media have to spur conflict to get their moment in the spotlight. Right now the biggest conflict in Danish politics lies in the fact that the Social Democrats and the Liberals (right and left) are promoting identical programs. In any other context, a situation like that would be the epitome of total harmony! In politics just the opposite is true. What if the project could become the opposite of politics? Not ignoring conflicts, but using them for nourishment. A way to incorporate and integrate differences, not through compromise, or by choosing sides, but by connecting conflicting interests in a Gordian knot of new ideas. An inclusive, rather than exclusive, architecture. An architecture not plagued by the conceptual monogamy of commitment to a single interest, a single idea. An architecture where the choice between public and private, dense or open, urban or suburban, atheist or Muslim, low-cost housing or soccer fields, would not be obligatory. An architecture (or project approach) that permits a positive response to all the aspects of human life, no matter how contradictory they may be! An architectural form of bigamy, where it is not necessary to choose one or the other, but you can have both. An architecture that is both pragmatic and utopian, whose practical aim is to create socially, economically and ecologically perfect places. Yes is More, Viva la Evolucíon! - Caption pag. 18 On these pages, the Black Diamond, the most spectacular and recent addition to the Copenhagen waterfront, an extension in black granite from Zimbabwe and glass of the Royal Library, a project by the Danish studio Schmidt, Hammer & Lassen, 1999. Vital signs: inclined facades, full-height openings for light, a lobby that conveys the abstract, open composition of the various levels (photo Alfio Garozzo) - Caption pag. 20 Above, the Harbour Baths. To the side, the Maritime Youth Centre, both projects by PLOT (=BIG + JDS), 2003-2004 (photo Paolo Rosselli). Facing page, the Playhouse of the Royal Theatre, a project (2008) by Boje Lundgaard & Lene Tranberg, senior partners of C.F. Møller Arkitekts (photo Alfio Garozzo). - Caption pag. 23 To the side, the House of Music at Aalborg, a project by Coop Himmelb(l)
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Interni dicembre 2010 au, now being built. From the foyer, the principal internal space of connection, one reaches the main Concert Hall and the rooms for different types of musical performance. Below, Cornerstone, multi-use building including spaces for offices and shops, project in progress by Jaja Architects. Facing page, the Herning Museum of Contemporary Art, 2005-2009, a project by Steven Holl, with the collaboration of the local architects Kjaer and Richter (photo Iwan Baan).
Think B.I.G.! p. 24 project BIG text Alessandro Rocca
At the Danish studio BIG they really do think that way. Thanks to profound architectural culture and uninhibited creativity, the large residential complexes of the outskirts of Copenhagen become the models of reference for the construction of the city of tomorrow. Danish, thirty-six years old, Bjarke Ingels has quickly demonstrated an exceptional ability to achieve grand urban utopias. The first projects of BIG (Bjarke Ingels Group, active since 2005), have decisively connected utopia and pragmatism, with the clear influence of the thought and work of the maître à penser of the latest European generation, Rem Koolhaas, with whom Ingels worked at the start of his career. Another characteristic aspect is the interest in the relationship between architecture and the city, and the organization of the territory. In recent years the figure of the architect-artist has emerged, a person who creates exceptional spaces and forms, with complete creative freedom. Zaha Hadid and Kazuyo Sejima, on opposite shores, are two exemplary protagonists of this approach. Does the fact that they are women have anything to do with it? It’s hard to say. In any case, Ingels takes an opposite road, focusing on the urban role of architecture. For example, thinking about the project of the 8H superblock, Ingels says: “When it has simple lines and clear ideas architecture meets with more consensus, but on the other hand the city is alive when it is full of experiences and surprises. This is the paradoxical challenge: to simultaneously create simplicity and variety, diversity and coherence. In other words, to create a city inside a single building, rediscovering the variety of the historical city. But how? By doing something that resembles a historical city”. A solution that then, in the project, takes on unpredictable features. No stylistic concessions, either on the facades or in the types of the apartments and open spaces, and no traditional materials, but an ultramodern device, in its forms and its considerable size, that invents new forms and paths to revive the social relationships of neighborhoods, which have been sadly neglected in the economics of the modernist typologies. The challenge, which only time will tell if it has been successfully met by BIG’s strategy, is to transform a gigantic complex of 475 apartments into a small, dynamic, vital city, and to make the path of large, high-density complexes seem feasible once again, which in the wake of frequent disasters of housing projects over the last few decades, from the Zen complex in Palermo to the Corviale to the large French projects, has seemed to be fated to undergo physical and social deterioration. 8H comes on the heels of two other experiments, also in Copenhagen, in the field of high-density housing. These are also innovative, provocative projects, which have met with acclaim on a social and local level, and in terms of international attention. The first is the residential system in two blocks called VM, from the form of the two buildings, created by Plot (i.e. Big + JDS, the initials of another brilliant young designer, Julien de Smedt), an improvement on and interpretation of the famous layout system with a central street (the rue intérieure) deployed in the Unités d’habitation of Le Corbusier. Very ingenious typologies and layouts, with 40 different types of apartments, as well as the astute touch of a memorable image, a crowd of aggressive triangular balconies protruding over the void, suspended on a completely glazed facade. As Ingels puts it, “VM was a puzzle formed by apartments, while MTN is an artificial hill of villas with gardens”. The name stands for Mountain Dwelling and indicates another superblock, on the outskirts of Copenhagen, which can boast of at least two quite stunning inventions. The first is the deconstruction of a colossal apartment building into the sum of the apartments, which (again with reference to the model of Le Corbusier) are transformed into villas. The second, equally courageous and innovative, is the genetic mutation triggered by a large parking area for 480 cars, which becomes an environment of great personality, with spaces, materials, colors and details that make it an interior of great quality and strong emotional impact. - Caption pag. 25 The spectacular facade in glass studded with triangular balconies of the VM housing complex designed by BIG and JDS and built at Ørestaden, Copenhagen, in 2005 (photo Nils Lund). This year Bjarke Ingels, founding partner of the BIG studio, received the European Prize for Architecture. - Caption pag. 26 VM housing block, images of the very colorful and well-equipped internal circulation corridor. For the 114 apartments, there are 40 different types (photo Stuart McIntyre). All the apartments have a multifunctional two-storey ‘lab’ space connected to the kitchen and the living area, and large rooms that can be subdivided to meet the needs of the inhabitants (photo Jasper Carlberg). - Caption pag. 27 The complex is formed by two separate blocks in the form of the letters V and M. Starting with a traditional geometry, the project modifies and deforms the two blocks to improve environmental conditions: penetration of air and sunlight, views of the courtyards (photo Jimmy Cohrssen). - Caption pag. 28 To the side, the parking area, which occupies 2/3 of the overall volume, contains 480 cars and a mechanical platform that rises diagonally. At certain points the height of the ceiling reaches 16 meters, and the effect of spaciousness and quality is also reinforced by the design of the paving and the colors (photo Ulrik Jantzen). Below, from the outside the fact that the block is actually composed of two independent parts is clearly perceptible: the larger volume of the parking facility, covered by
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sheets of perforated aluminium, and the ‘hill’ of urban villas (photo Jens Lindhe). Aerial view of the VM complex and the later MTN (Mountain Dwellings), built by BIG in 2008. The second block develops an idea of Le Corbusier of the immeublevilla, an urban apartment house composed of the sum of individual houses (photo Dragor Luftfoto). - Caption pag. 29 The 80 villas, suspended at the height of the tenth floor, are separated from the roof garden only by a sliding glass door that permits integration of the terraces with everyday activities in the warm months (photo Jakob Boserup). - Caption pag. 31 8 House is a housing complex completed in 2010 that combines maximum integration between the privacy of suburban living and the energy of intense social relations, activated by the garden-courtyards and the system of elevated pedestrian walkways (photo Jens Lindhe). The 475 housing units are divided into three types: traditional apartments, townhouses, more suitable for families, and the more luxurious penthouses on the roof, with a magnificent view of the canal of Copenhagen and the natural oasis of Kalvebod Fælled. Rendering of the new Danish Maritime Museum of Helsingor, conceived as a ramp that rises along the walls of an abandoned floating dock; the central void is crossed by three bridges that connect the main exhibition spaces.
The new rationalism p. 32 project 3XN photos Adam Mørk text Antonella Galli
Research on materials, analysis of functions and relationship with the territory merge in the project by the Danish studio 3XN for the headquarters of the Horten law firm in Copenhagen. For a work of architecture that aims at improving sustainability and lifestyle. The suburb of Hellerup, a few kilometers to the north of Copenhagen, faces the busy waters of the Øresund, the strait separating Denmark from Sweden. Once the home of the Tuborg brewery, Hellerup has found a second life as a satellite area of Copenhagen, where residential complexes and office buildings coexist in an environmental context rich in greenery, with a high quality of life. Here, on one of the canals of the former Tuborg port, stands a new rationalist building with articulated geometric volumes, to contain the headquarters of the Horten law firm. The project by the Danish studio 3XN, guided by its charismatic founder Kim Herforth Nielsen, joins the headquarters of the Saxo Bank, also by 3XN, which in 2009 won the Riba International Award. The spatial development of the new Horten facility reflects the characteristic approach of 3XN in its style and design: a construction of linear volumes, broken and opened to respond to needs for light and exposure of the interiors. In this building, in fact, the designers have improved energy performance over and above national standards, by focusing on exposure and the performance of the materials used for the external cladding. The layout of the volumes gives every office a north orientation, to prevent overheating of the glass, and a view of the canal, for pleasant visuals from all the interiors. To this end, the external wrapper is involved in a three-dimensional geometric game in which the windows protrude outward, or are composed, on the northern facade, as diagonal cuts at different angles. The cladding of the surface was studied in lengthy research that led to the creation of modules of different forms composed of a base in fiberglass and polyurethane foam, topped by a Travertine slab. A new type of facing, never utilized before in civil construction, as the architect Bo Boje Larsen, a 3XN partner and co-creator of the project, explains: “In our research we found different references to ships and windmills, but no civil constructions with self-bearing, insulating fiberglass parts”. The arrangement of the internal spaces features two wings for the offices that connect at a vast central atrium, whose height is equal to that of the building, lit by glazing facing the canal. The four office levels overlook the central lobby with sinuous balconies, a true space of conceptual and visual connection for the entire building (inside, the lines are mostly curved and continuous, as opposed to the interrupted lines of the exterior). The stairwell, set back from the lobby, has a circular form: the various levels are connected by linear staircases that cross the space diagonally, in multiple directions, to create a play of crossings seen by those who climb up or walk down. The design of the interiors is balanced to regulate, with maximum efficiency, the ergonomics of the work done inside, contacts among staff, exchange of information and visibility, also guaranteeing plenty of common spaces, the possibility of isolation for concentrating, or for informal meetings, without interfering with other activities taking place in the same area. - Caption pag. 33 The headquarters of the Horten law firm. The building, with an area of 10,000 m2, faces the canal of the Tuborg port at Hellerup, a suburb of Copenhagen; this zone contains the offices of important Danish companies, including the Saxo Bank, another project by the studio 3XN, right next to the Horten building. Below, the facade of the building, with broken lines and protruding volumes, in which the windows, facing north, alternate with Travertine and fiberglass facing created especially for this edifice. - Caption pag. 34 Above: the stairwell that unites the four levels of the building, seen from above and below. The circular space is faced by balconies on the various levels, connected by the staircase that cuts across them diagonally in different directions. The overall effect is one of movement and brightness, thanks to the optical white of the walls and the light wood flooring. Below, the entrance lobby with the reception and waiting areas; there are no partitions in the large space, but privacy is ensured by the distance between the various work areas. White is the dominant tone in all the spaces, with variations provided by light wood flooring and the dark natural tone of the furnishings. Twiggy floor lamp by Foscarini (design Marc Sadler) and Barcelona Chairs by Knoll International (design Mies van der Rohe). - Caption pag. 35 The large central volume of the lobby faces, through the glazing, the canal
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of the Tuborg port; at the center, a luminous composition of fluorescent lights, crossed like the pieces in a game of pick-up sticks: the atrium is furnished with round meeting tables produced by Gubi and long, linear tables for consultations, equipped with Costanza lamps produced by Luceplan; Eames Plastic Side Chairs by Vitra (design Charles & Ray Eames).
Initiatic volume p. 36 project Ateliers Jean Nouvel photos Philippe Ruault text Matteo Vercelloni
In Copenhagen, the building of the Danish Radio Concert House is like a mysterious blue monolith capable of changing from day to night, activating its enclosure with lights and projections. Inside, it is a process of discovery, like a complex Piranesian space. For Jean Nouvel “we can only respond to an uncertain future with uncertainty: mystery. Mystery that is never too far from seduction, and thus with attraction”. This large public work set down in a new neighborhood of the Danish capital facing the Emil Holms Kanal has been conceived to stand out from the site with a precise presence and identity. The definition of the character of the building, however, does not take the path of a ‘muscular’ compositional and monumental display, that of a self-fulfilled architectural sculpture; instead, it tries to favor lightness and charm, based precisely on ‘mystery’. As in the case of the Cor-ten cube that magically floated on the lake of Murten in Switzerland (designed by Nouvel for Expo 2002), the blue parallelepiped of Copenhagen, an elementary geometric form of reference clad in metal screen, stands out from the urban context due to its recognizable form, underlined by the Klein blue of its wrapper, while permitting – thanks to the ‘transparency’ of the outer skin – a glimpse of what happens inside it: the landscape composed of the ‘hidden’ architecture and the irregular skyline corresponding to the different volumes that, as in a game of Chinese boxes, are superimposed in layers. The design idea plays with this to determine a “volume that lets you guess what is inside it”, that attracts an audience and changes its image from day to night, when lights and projects activate the entire architectural organism in a spectacular, dynamic way. The four rooms set aside for music are next to each other and partially overlapped at the center of the overall perimeter formed by an internal street that flanks the urban canal, lining up shops, restaurants and bars, in a “world of contrasts, surprises, a spatial maze, an interior landscape” (J. Nouvel). The public spaces that link the music rooms become a Piranesian route of lights and colors, a fundamental, intricate complex that connects internal spaces and the external space of the city. The materials are also arranged in a balanced way, connected with the idea of ‘discovery’ on the part of the visitor, gradually accompanied, as in an ‘initiation’, from the initial feature of blue metal of the facade to the lights, colors and projections of the dense inner itinerary, all the way to the wooden interior of the large concert hall, almost a seashell – an enveloping sculpture – suspended over the foyer below, connected to other spaces for music. The orchestral hall, with silkscreened sound absorbing panels on musicians of the past; the hall for rhythmical music with a more abstract, ‘mathematical’ look; and final the hall for choral works, in bright red, a symbol of the passion and force of collective singing. A paradigmatic project that becomes a sort of flexible model for any building set aside for public use. A work of architecture in which “abstraction is invaded by figuration. The permanent is completed by the ephemeral”. An urban landmark where the facades become light filters that offer a glimpse of the cityscape, in a complementary relationship paced by the details, the doors and the natural and artificial light, by shaped, multi-materic ceilings, by staircases that climb up around the concert hall. Where, as Jean Nouvel writes, “every place becomes a discovery, every detail an invention”, because “architecture is like music, it is made to move us and to give us pleasure”. - Caption pag. 37 The foyer of the large concert hall, with lights, colors and projections, is like a space of initiation to be discovered inside the overall work of architecture. - Caption pag. 38 Above, overall plan with the various halls. The facade, clad in metal screen with a Klein blue color, offers glimpses of the profiles of the various volumes inside the regular parallelepiped. To the side, view of the internal circulation routes, conceived as a sheltered street with a direct relationship to the urban space outside. On the facing page, nocturnal view of the building and the interior. - Caption pag. 41 View of the interior of the concert hall, faced in wood. Below, detail of the undulated covering of the roof. Geometries and figurative solutions capable of responding to the harmonic quality of the completed space. On the facing page, the staircase rising from the foyer to the concert hall.
INsight INfactory
Collective wellness p. 42 photos Marino Ramazzotti text Virginio Briatore
Elena Zambon is a captain of business with special energy. She follows the examples of Gandhi, Martin Luther King, Mother Theresa of Calcutta and Einstein. She organizes workspaces in which to facilitate interpersonal contacts and relationships. With Michele De Lucchi she is working on the project of a science garden. At the headquarters of Zambon, the pharmaceuticals firm, even the fire extinguishers
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dicembre 2010 Interni smile. Just a small detail, but it describes the atmosphere of great humanity and wellbeing you can sense in this workplace. Founded in Vicenza in 1906, Zambon in 2009 reached a level of over 540 million euros in sales, making it one of the socalled pocket battleships of the Italian economy. The company, under its president Elena Zambon, operates in 15 countries with about 2500 employees, and has three areas of specialization: the respiratory tract, health care for women, and pain relief. The main production plants are in the Veneto, while the headquarters is in Bresso, near Milan, and also includes a museum and an auditorium. Work is underway here on a new building for the dining hall, immersed in greenery, and a scientific pole is also planned. This is where we met with Elena Zambon, mother of four and the driving force behind the company. Where does your passion (and expertise) for graphics and design come from? “I don’t have any particular expertise, but I have always observed homes, workspaces, design, graphics and art with sincere interest. The only direct educational experience in these areas was a summer session in a design masters program I attended at Domus Academy in 1989. I had just taken a degree in business economics at the Bocconi University and I was already working for Citibank, but I wanted to understand creative processes and the aesthetics of products. It was a good experience, which I completed with a thesis on eyeglasses with interchangeable temples”. Your communications seem to focus on the written word, the force of the thinking of those who came before us. Could you tell us something about this interesting combination of color, graphics and words? “The gaze grants only a few seconds to choose and be attracted. Thus the importance of visual composition and graphics. The presence of words can also prompt us to stop and read; some words get under your skin, and guide you to change, providing motivation. Antoine de Saint-Exupéry said that if you want to make men become good sailors, you don’t have to teach them to make a ship with wood and nails, you have to talk to them about the horizon, the waves, the stars… then they will yearn for the sea”. In your workspaces, an particularly in the lounge areas, there is a cheerful, colorful, informal atmosphere, with a curious combination of design furnishings and anonymous things, old and new, very serious and very playful, creating a surprising effect for those who think of a pharmaceuticals company as an antiseptic, cold, technological environment. They say this is part of your concept of ‘good living’: what’s the story there? “Informality, vivacity, good living are fundamental words, and I care about those things. We work in a very serious way but we need an informal attitude, because we want to welcome everyone with the same care. A company like ours has to know how to listen, first of all. Breath and pain are things that involve everyone, but every individual experiences them in his own way, and there are countries and cultures where the alarm threshold and the ability to put up with things are profoundly different. At the same time, we are a company that has to constantly nourish knowledge and creativity, in all directions: research, technology, biology, chemistry, marketing. To this end, I have come up with a slogan that says: “There is no effective training without lively communications!” We operate for collective wellbeing, we try to build links that are not dictated only by interest. We cultivate diversity, a word with many meanings, and to do that we start with ourselves. So for our workspaces we asked for advice from a team of men and women with experience in the spa and hospitality sectors. The theme of our spaces is anonymity, I would hate it if they were to overdesign our environments, filling them up with precious furnishings. We have some costly pieces, but we always pay attention to waste, and luxury does not interest us. Today money is tight, even for industrialists, even for banks, so we want a lively, harmonious environment, but without any ostentation”. Your museum, in some ways, seems like a place of entertainment, of history, objects, graphics. Would you explain its aesthetic, its content and aims? “First of all, it is not a new, monumental building, but an old industrial shed that has been renovated. We don’t mind neglected places, places that are not polished, because we see them as metaphors of work and life. They make us understand that it is normal to be depressed now and then, to be nervous, and that nothing is guaranteed forever. At the same time, we have rooms for play, reading, gathering, places where you can recharge and meet up again, to relax, maybe after a heated discussion about work. Inside, the museum is a welcoming place, and with Michele De Lucchi we have organized our 104 years of history in six containers, like trunks full of precious merchandise, always ready to begin a journey. In parallel, we have set up a room conceived as a large circle of mobile seats, full of music, projections and lights, in which to meet with our staff, to organize conferences or welcome school groups”. You have many projects in the works, both in Vicenza and in Bresso, which you are developing with the help of Michele De Lucchi. How did this relationship get started? “I’ve known Michele since we were kids, because our families are related, so we have never lost sight of each other. We began to talk about collaboration a few years ago: I was thinking about how to construct a company based on the logic of sharing, and I called my idea a ‘business community’. He told me about his experience at Olivetti, and it turned out that that was the title of the journal founded by Adriano Olivetti! I believe in the possibility of recognition, through shared values, and I hope the people who come to work with us choose us because they can identify with these codes. From that time on, Michele and I began to think about many things, including a challenging, exciting dream, also to be pursued with the public administration of Bresso: to construct, on the lots adjacent to us and in old abandoned industrial buildings, a green area, a sort of garden of science we are thinking about calling the Oxygen Pavilion, a pole of research to break down the barriers between different
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Interni dicembre 2010 disciplines”. - Caption pag. 43 Exterior views of the Bresso headquarters of Zambon, and a portrait of Elena Zambon, president of the pharmaceuticals company. Below: the facade of the shed that contains the museum; the outdoor relaxation area; the entrance to the office building. The graphics are coordinated by the visual designer Marco Pennisi, one of the four partners of the Bandello Group, which handled the renovation of the offices and the facades of the Bresso headquarters. On the facing page: detail of a divider wall of the offices, with graphics that include signs and symbols of the activities performed there. - Caption pag. 44 Above, some of the collective spaces for gathering and reflection made available to the employees of Zambon; right, a corridor enhanced by works by the artist Alfredo Gioventù, and one of the ‘customized’ fire extinguishers. - Caption pag. 45 Above, the main meeting room, with a large image on the symbolism of hands. To the side, the zone of the rest rooms and a meeting area featuring a work by Sol Lewitt. - Caption pag. 46 The interior of the Zambon Museum, designed by Michele De Lucchi. The letters that compose the name of the company were made with the metal parts of the old signs of the factory in Vicenza, covered with polycarbonate and backlit. Below, the Open Circle, a multimedia space for encounters and conferences, furnished with the Louis Ghost seating by Philippe Starck for Kartell and hanging light fixtures made to measure by I Guzzini. On the facing page, the interior of the container on the history of Zambon pharmaceuticals and their packaging.
INprofile
The rugged project p. 48 by Cristina Morozzi
Marc Sadler is an inventor. He works on materials and their potential to design mass-produced items in a wide range of fields. For him, working on the polishing of forms is almost deviant, with respect to the impulse of invention. Often it is easy to find a geopolitical DNA in designers, a sort of belonging to a geographical morphology, a specific social context, a local culture punctually reflected in their style. But it is almost impossible to do this for Marc Sadler, a man without a design country, who has lived and worked in France, the US, Asia and Italy. His nomadism is not only geographic; first of all, it has to do with projects. As an inventor, more than a designer, he has experimented in a wide range of fields, from sports to health care, fashion to furnishings, rifles to keys, luggage to electrical gear, lighting to cookware, always managing to inject some innovative content. For him, form is a consequence. He thinks about material, testing its unexplored potential in massproduced articles. Unlike those designers who get their hands dirty to produce artistic feats of skill, who exalt the intrinsic qualities of materials, revealing their primary nature (the Campana brothers, Gaetano Pesce, Nacho Carbonell…), Marc investigates the possibilities of shaping and transforming materials. The material is a means of achieving unprecedented results: to lighten, to simplify, to make something easy to reproduce, to modify forms and uses. We might call him a designer of patents. Like that of the thermoplastic ski boots. Already in the early 1970s he was developing the first moulded ski boot, later industrialized by Caber, the Venetian company that with just 200 employees sold 1.6 million pairs of the boots in just one year, as opposed to 200,000 pairs of traditional boots sold the previous year. But he is also the designer of protection, as in the case of the back shield created for Dainese, found in the permanent collection of MoMA New York. He has designed the Tite and Mite lamps for Foscarini (the first in fiberglass), Compasso d’Oro in 2001. He is also known for trainers, thanks to his collaboration with sports brands like Lotto, Ellesse, Nike. Reebok. His sandals for Nike are still selling, 15 years after their debut. So Marc is a bit hard to decipher, as a designer: partly because he is very reserved, and avoids the media spotlight, but above all due to the variety of his interests and skills. He doesn’t seem to fit into the Milanese system, though he has chosen (who knows for how long?) to set up a studio in Milan. He is much closer to the profile of certain international designers, who jump from underwear to computers (like Yves Behar). Marc is conscious of the fact that he does not fit into the ‘fusion’ approach of Italian design. He knows he will have to smooth his signs, temper his rigidity, find a way to combine research and image, discover the alchemy that permits proposition of new materials and performances in original but also appealing, reassuring forms. “Back in Italy”, he says, “I have had to learn to adapt to the Milanese approach to design. The numbers are different here. I was used to big production runs, never less than 200,000 pieces. The signs are also different, the scales of taste. Furnishings – he continues – are like a cashmere sweater, you live in them and appreciate them for the softness”. He is making an effort, but he is clearly more comfortable working with rugged lambswool. He gets bored working on polished forms. But he is multiplying his projects in the world of furnishings, coming to grips with new entrepreneurial realities, like Gaber, a company that sold products in parts in America, for whom he has created a plastic outdoor chair in two interlocking parts (legs and chassis), to be sold at a price of just 27 euros. He knows he will have to learn to contextualize and amalgamate, but he is disappointed by the lack of big clients, the kind that invent new ways of working, as Caber did in the past. “Maybe”, he adds, “the best ones are the hardiest, the ones with nothing to lose, who are ready to take risks”. Risky situations bring out the best in Marc, when the task is to invent new applications, like the use of silicon in lighting (Drop by Flos, Compasso d’Oro 1995). He is now intensely involved in the design of a luggage series for a new brand, Fabbrica Pelletterie Milano, that has offered him great opportunities. “I’m keeping the bar very high”, he says, “they are suitcases entirely produced in Italy, with five new patented
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inventions, that will be the lightest, the sturdiest and, I hope, the most beautiful on the market”. Among the projects that enthuse him most there is a new footwear brand, for fashion but also high performance and popularity, with products in the price range of 50 euros. To make the products he is putting together (with his wife Paola and a French partner who had already worked with him at Nike) a company in France, to be called Cut. Without abandoning the field of furnishings, where he has many projects underway (Baxter, Karol, Ceramiche d’Imola, Fasem, Kersan), including new lamps for Foscarini, not in fiberglass but in a new top-secret material capable of producing magical effects of light and shadow. In the early 1970s, when he was still living in Paris, where he took a degree in 1968 at the Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs, he designed accessories and clothing for Pierre Cardin, watches for Ted Lapidus, perfume packaging for Yves Saint Laurent, Christian Dior and Pierre Cardin, and even furs for Reveillon, the start of the idea of recovering scraps to make patchworks (a process that later became a sort of trademark of Fendi). Ranging from fashion to furnishings, sport to protection, weapons to panic handles, facings to bottles and labels for wine (one of his most recent projects is Orto, the wine from the vineyards of Sant’Erasmo in Venice), Marc proves that he has a very “elastic mind” (as in the title of the latest exhibition curated by Paola Antonelli at MoMA) and a 360° design vision, focused on experimentation, free of the conditioning of forms. - Caption pag. 48 In the context of the collection ‘Tra le Briccole di Venezia’ of Riva 1920, based on reutilization of the old Venetian briccole, the oak poles placed in the water to moor gondolas, Marc Sadler has created the ‘Briccola totem’, a sort of sculpture featuring holes. Speaking of the time he lived in Venice, the designer says it was “almost a watershed, between a before and an after”. - Caption pag. 49 Madeira bimateric stackable chair. The seat is injection moulded in polypropylene composite containing 40% wood scrap; the back is in colored nylon or transparent polycarbonate. Produced by Skitsch, 2010. - Caption pag. 50 Top, from left. Installation for Karol at the Temporary Design Museum at Via Tortona 27 during the Salone del Mobile 2010: the skeleton of a gigantic whale, whose vertebrae are replaced by a tapering sequence of Kalla sinks, in soft technopolymer, designed by Sadler for Karol. Kappa line of hanging cabinets, characterized by a range of different finishes and lively colors, a creative way of approaching the problem of storage in the bathroom zone. Produced by Karol, 2010. Above, left: washstand from the Cento series, marked by the recurring thickness of the 100 mm border. Produced by Kerasan, 2009/10. Right: Twiggy floor lamps in composite material based on fiberglass; the flexibility of the slender stem is an intentionally tribute to the classic Arco lamp by Castiglioni. Produced by Foscarini, 2006. - Caption pag. 51 Above: Tress floor lamps, made with a weave of fiberglass ribbons soaked in resin and then painted, simultaneously functioning as structure, decoration and screening. The electrical wiring is invisible because it is wrapped inside the structural web. Produced by Foscarini, 2009. Top: Mike divan with position adjustment mechanisms. Produced by Busnelli, 2010. Above: the Carré component kitchen stands out for its non-handles, cut into the doors in the form of squares and rectangles of different sizes, and for the fine range of materials and colors from which to choose. Produced by Ernestomeda, 2010. Above: technical-protective Safetyjacket, constructed around the back shield. Nylon mesh joins the protective parts for the back, the shoulders, the elbows, wrists and chest. Produced by Dainese, 1994. Below: Vague flexible chair in soft thermoplastic material, available in two versions: in foamed thermoplastic, with glossy lacquer colors, or in batch-dyed polypropylene, in fluo shades. Produced by Flou, 2009.
INscape
Patti Smith, the dark lady p. 52 text Andrea Branzi
Recently released in Italy, the book Just Kids is an interesting memoir by the rock poetess Patti Smith. Andrea Branzi, who met her in Paris and admires her work, takes this event as a pretext to discuss the self-referential character of the design system. I am particularly interested in the career of Patti Smith, for reasons that go beyond music. Her path began in New York City in 1975 and then in London, in the context of a radical minority of rock that reacted against the hedonistic excesses of pop music and its superficial social consensus to champion the advent of a rootless generation that together with Smith, the Ramones, the Sex Pistols of Sid Vicious, the Clash, in catacomb-like clubs, began to shoot music and spittle as the sign of an irreversible life choice, on the margins, with tattoos, chains, obsessions, drugs and a violent, pessimistic pose. Patti Smith went through that sort of season in hell of excess and perversion, living – like many poets, artists and musicians – in the Chelsea Hotel in New York, together with Robert Mapplethorpe, the late great photographer who changed our way of looking at both flowers and sex. Starting in 1979, after doing a concert for an audience of 70,000, Smith decided to leave the public eye for eight years, to avoid the fate of stardom, whose existential limitations were evident to her, and to begin a solitary, more ambitious project, that of taking rock into the larger sphere of culture, literature and poetry. I met Patti Smith in 2008 in Paris, where we had simultaneous solo shows at the Fondation Cartier pour l’Art Contemporain, and where she composed, together with Oliver Ray, the music for my installations. In a shadowy room, Patti Smith celebrated her rebirth and her myth as a dark lady, the sophisticated heir to the American Beat Generation (from Allen Ginsberg to William Burroughs) and the maudit writers of French literature (from Louis-Ferdinand Céline to Jean Genet): a photographer, maker of drawings, ‘necrophile’ haunter of the nearby cemetery of Montparnasse, to meditate on the
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tomb of Charles Baudelaire, author of the by-now distant Les fleurs du mal. The extreme toughness of punk culture was replaced, in her literary concerts, by the presence of her son on guitar, her daughter on keyboards, her daughter’s boyfriend on drums and, in the films in the exhibition, her affectionate encounters with her elderly parents. What interests me about her career, then, is not the apparent move toward normalcy but, instead, the successful attempt to shift her music from the universe of entertainment to that of culture tout court, an operation that has not been completed – or even attempted – by design culture, which has yet to get beyond the limits of pure and simple professional practice, composed of finding intelligent answers to intelligent questions. I have already written about this theme in earlier issues of Interni, about the hypothesis of an independent design that would break up the linear character of excessively self-referential growth in an aesthetic market that becomes increasingly refined but without depth, coming to grips, in the end, with the themes that have always been at the center of culture, namely love, death, history, the sacred, the psyche. This is an operation that cannot be programmed, nor outlined in a manifesto. It has to be the result of an individual path, a subjective urgency, an urgency that can be reawakened as a possible opportunity, a challenge to propose to designers. The real problem, in fact, is not design but designers and their present capacity, or lack of it, to think that design can be something different from itself. - Caption pag. 52 Edward Mapplethorpe, Patti Smith, 2007, © Edward Mapplethorpe. - Caption pag. 53 Andrea Branzi, Still Life, 2010, Courtesy Galleria Clio Calvi & Rudy Volpi, Milan. - Caption pag. 54 By Patti Smith. Land 250, solo show of 250 Polaroids shot between 1967 and 2007, and shown in 2008, together with drawings and film excerpts, at Fondation Cartier pour l’Art Contemporain in Paris. From top: Robert’s Stair, Chelsea Hotel, NYC; Chelsea Hotel, Robert Mapplethorpe, September 1969; Chelsea Hotel, Robert Mapplethorpe, September 1969. To the side: cover of the book Just Kids, a memoir by Patti Smith, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milan, 2010. - Caption pag. 55 Robert Mapplethorpe, Patti Smith, 1975, silver gelatin print, 40.6 x 50.8 cm, Robert Mapplethorpe Foundation, New York copyright © 1975, Robert Mapplethorpe Foundation.
INdesign INcenter
Contemporary classicism p. 56 by Nadia Lionello
Design inspired by classical origins, with hints of ancient crafts traditions, but a fully contemporary spirit and sensibility. Mixtures of forms, materials and decorations, to reinterpret a new, trendy classic-modern style. - Caption pag. 57 Sellerina chair in cast aluminium from the Punto Oro collection, designed by Paola Navone for Baxter. Davis jacquard fabric in 38% acrylic, 35% cotton and 27% polyester, with 28 cm pattern, in six colors, height 140 cm, from Armani Casa, exclusive textiles by Rubelli. Philippe collection of tables in painted MDF, linden wood and walnut inserts, with painted or mirror glass top, designed by Sam Baron for Casamania. Morosini, lampas fabric in 57% acrylic, 22 % silk and 21% linen, with 76 cm design, available in 11 colors, height 140 cm, from Rubelli. - Caption pag. 58 Supernatural chandelier with attachment in white painted metal tubing, arms in blown milk glass, cups in transparent crystal, halogen bulbs. Designed by Nicola Grandesso for De Majo. Perished Persian, pure wool carpet woven by hand in India. Designed by Studio Job for Nodus. - Caption pag. 59 Gaga chair with metal structure, flameproof cold-process foam filler, covered in fabric or leather. Designed by William Sawaya for Sawaya&Moroni. Crocodile low-plush cotton velvet, printed in 50% cotton and 50% viscose, design 22.5 cm, available in three color variants, height 145 cm. By Bises. Fuga chair in curved and lathed beech, natural or with lacquer finish. Designed by Paul Loebach for Novecentoundici by Billiani. Brush hand-knotted carpet in aloe and banana silk, designed by Paolo Zani for Warli. - Caption pag. 60 Monsterchair with metal structure, covered with scratchproof, flameproof synthetic leather, with or without printed decoration, by Marcel Wanders for Moooi. Stardust wool-silk carpet, colored with vegetable and mineral dyes, woven by hand. From Illulian. - Caption pag. 61 Pasha chair in transparent, white or black polycarbonate, with or without seat cushion, with the possibility of fabric covering. Designed by Pocci&Dondoli for Pedrali. Alcantara with quilted embroidery, available in 142 cm height, in a single color option. Double you, dining table with structure covered in matelassé leather, top in vegetable-tanned leather, glass or marble. Designed by Carlo Colombo for Rugiano. Kioto, pleated Alcantara. - Caption pag. 62 Goodmood cabinet in plywood covered with multicolor lacquered glass, decorated with incision, with legs in cast aluminium. From Riflessivo by Arte Veneziana. By Dedar: Riflessi, coated fabric with craquelé effect in 80% PVC, 15% cotton and 4% polyurethane, in 10 color variants, height 137 cm. Also suitable for wall coverings: center, Plushy, marbled velvet in 100% flameproof Trevira, with 28 color variants, height 140 cm; Mezzaluna jacquard with polyester design on cotton satin background, in 24 color variants, design size 8x9 cm, height 140 cm. - Caption pag. 63 Comeback chair in thermoplastic technopolymer, batch-dyed in eight colors. Designed by Patricia Urquiola for Kartell. Duisburg drapes, 83% linen and 17% polyester, available in three color variants, height 330 cm. From Armani Casa exclusive textiles by Rubelli.
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Chemistry of attraction p. 64 by Nadia Lionello photos Paolo Veclani
Design and art don’t betray each other. They share specific qualities and a special way of being. Forms and signs born of thoughts, passion and imagination get exchanged, telling their stories for the everyday pleasure of human beings. - Caption pag. 67 Cocoa, ergonomic indoor-outdoor seat with interlocking marine plywood structure and chassis in fiberglass, in three colors, adjustable in three positions: seat, chaise longue or bed. By Marc Sadler for Danese. An exceptional location: Fondazione Arnaldo Pomodoro in Milan presents the exhibition, until 30 January 2011, “Italian sculpture of the XXI century”. All the works photographed for this article are on display at Via Andrea Solari 35, home of the foundation. To the side, “Grande Volante VIII”, by Fabrizio Corneli (2002). - Caption pag. 69 On the facing page, Chair One4star, swivel chair on four-spoke base, polished or polyester coated with sputtered fluorinated titanium finish, in die-cast aluminium. Also available with cushions, suitable for outdoor use. By Konstantin Grcic for Magis. On this page, Cloud outdoor chair with structure in matte painted steel tubing, seat with woven synthetic elastic belting, cushions covered in fabric or leather for outdoor use. By Carlo Colombo for Arflex. - Caption pag. 70 Yang White table lamp in methacrylate and polycarbonate, for fluorescent bulbs with three mixable color temperatures to obtain different types of white light. Also available with handle. By Carlotta De Bevilacqua for Artemide. Otium, seat with one-piece chassis in 3D natural or padded curved wood on steel structure. By Mario Ruiz for Lapalma. “A Nord del futuro”, a work by Diamante Faraldo (2007). Courtesy Galleria Oredaria Arti Contemporanee, Rome. - Caption pag. 71 Campana ceiling lamp made with 180 sheets of shiny anodized aluminium, 100% recyclable, in different forms; each piece is unique thanks to the free assembly of the sheets. Brasilia table with irregular top composed of different acrylic mirror shapes, metal base with shiny brushed aluminium legs. Available in different heights. Projects by Fernando and Umberto Campana for Edra. “Altitudine 4049”, a work by Velasco Vitali (2007). Courtesy Galleria Giovanni Bonelli. - Caption pag. 72 ICosì, multiuse elements in curved steel rod, painted in different colors, also suitable for contract. By Afroditi Grassa for Bonaldo. Jono storage system in white, red or green painted steel, for linear and vertical configurations with a maximum of two elements, blocked by magnets. By Mika Tolvanen for Zanotta. Leparc carpet from the Hand-Tufted collection in 100% virgin wool, available in two sizes. By José A. Gandia Blasco for Gan by Gandia Blasco. “Untitled”, a work by Alice Cattaneo (2010). Courtesy Galleria Suzy Shammah, Milan. - Caption pag. 74 Offseat, characterized by the quilt-effect padding of the seat. Made in polyurethane foam with profiled rubber inserts, covered in fabric, base in chromium-plated or painted steel. By Lorenzo Longo & Alessio Romano for Sphaus. 172 Le Klint, hanging lamp in washable antistatic PVC, shaped by hand, available in three diameters and in a floor version, designed in 1969 by Poul Christiansen for Le Klint. “Wallwave Vibrations (quanta canticum)”, work by Loris Cecchini (2009). Courtesy Galleria Continua, San Gimignano, Beijing, Le Moulin. - Caption pag. 75 The sculptures photographed for this article are shown at the exhibition “Italian sculpture of the XXI century”. Curated by Marco Meneguzzo, the show sets out to analyze the latest Italian trends in the plastic arts, through the works of 80 artists, from Nunzio to Dessì, Cattelan to Arienti, Beecroft to Cecchini, Demetz to Simeti. Madeira, stackable bimateric chair with seat in PP-WPC (a mixture of recycled wood and polyester), back in shiny batch-dyed polycarbonate, also transparent. Available in 10 different combinations. By Marc Sadler for Skitsch. Existence bookcase, for vertical compositions of compartments, in two heights, available in versions for the center of the room, the corner or the wall. Made in Cor-Ten recyclable steel, very strong and resistant to corrosion. Exposure to light causes the formation of a durable, uniform brown patina. By Michele De Lucchi for De Castelli. “Madonna scheletrica”, a work by Bertozzi & Casoni (2008). Courtesy Gian Enzo Sperone.
INproject
Icons with a surprise p. 74 text Laura Traldi
There’s the day-bed in steel tubing, but very soft. The table in the form of a bronze hourglass that seems to defy the laws of structure. With his first complete collection, created for the brand Sé, Jaime Hayon proposes a precious but also experimental living area. You don’t expect a neophyte’s enthusiasm from a designer who has been riding a wave of success for many years now. But that is just the impression you get from Jaime Hayon when he introduces his latest creations at the pop-up shop of Sé in London during the London Design Festival. “It was fantastic to be able to work on a whole collection”, says Jaime, “and strangely enough this is the first time I’ve had the chance to do so. Usually I receive commissions for one piece, or at most two or three”. For Sé, the English brand founded in 2008, the Spanish designer has invented tables, seating, upholstered furnishings, complements. All the pieces contain the Hayon trademark (curved lines, welcoming, protective forms, an ironic wink at tradition), in an unusual mixture, in this case, of wood and metals, marble and fabrics. The particular care Sé puts into the working of materials, in fact, was what convinced Hayon to work with them. “I was impressed by the quality of the Sé production, and when the director Pavlo Schtakleff told me how they worked I immediately realized the potential of the situation”. What Schtakleff asked Hayon was to transform the living area into an iconic space in which to display important pieces, but with a fresh, youthful look, made with high-quality materials and techniques. “We have a network of specialized suppliers all over France, with whom we work on the various parts”, Schtakleff explains. No Parisian ateliers,
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Interni dicembre 2010 though, but artisans in forgotten villages of the deep provinces, where Schtakleff has traveled extensively in pursuit of perfection. “The love of these people for materials is something we have lost in today’s industrial reality”, says Jaime, “and it was marvelous to find it again”. Relying on this age-old know-how, Hayon has been able to attempt original, daring solutions, like designing a table in Carrara marble and metal, or a day-bed in steel tubing that can be covered with a simple cushion to become absolutely soft and comfortable. The result is a collection in which the password is mixture, where the harmony comes from the designer’s ability to constantly blend opposites: upholstered furniture so puffy as to seem like clouds resting on slender metal legs, tables composed of two stacked parts, like an hourglass, in bronze (that seem to defy any structural logic). Because the icons of the new living room work better if they can offer both quality and a few surprises. - Caption pag. 75 Pieces from the Jaime Hayon Sé Collection II, presented in London in September. From left: the Beetly Bridge chair with beech chassis, legs in powder-painted steel, seat padding covered with leather or fabric; the Flute table with painted steel legs and marble top; the Bridge upholstered chair with metal feet; the Beetly sofa, available with leather or fabric cover; the Arpa chair with powder-painted tubular steel structure and removable upholstery. On the facing page: sketches made by Jaime Hayon for the creation of his collection for Sé, the British luxury furniture brand.
Tropical Modern p. 76 interview by Franco Raggi
The exhibition “Anticorpi. Antibodies”, produced by the Vitra Design Museum and shown at the Milan Triennale (until 16 Jan 2011), illustrates the salient points of the work of the Campana brothers. Franco Raggi retraces their history and the inspirations behind work that has formed the basis for Brazilian contemporary design. The Campana brothers represent the antimodernist revolution of Brazilian design. A revolution that instinctively replaces an imported, cold, abstract European culture with hybrid procedures whose roots lie in the true nature of the Brazilian multicultural scenario. The Campana brothers use methodical and mad procedures, the antithesis of the Rational/Functionalism imported into South American in the 1930s. Their nucleus of inspiration is the poetic brutalism of Lina Bo Bardi, grafted onto a hybrid, excessive, chaotic culture. Their work exorcises and reassesses procedures and words like Accumulation, Concentration, Disorder, Hybridization, Instant furniture, Spontaneous. Semi-finished products, material, reuse, behavior are the basic ingredients of design, experimentation, self-construction, a direct way to achieve economical results, beyond the abstract rhetoric of the industrial product. What is your educational background? Humberto: “I studied law, I was supposed to be a lawyer”. Fernando: “I studied architecture at the school of Sao Paulo”. Did you make some mistake? H. “I sure did, completely, I was a lawyer but I heard a sort of mantra that said ‘I want to construct my life with my own hands’. So I began to make objects, animals, fish, frames made with seashells… Very kitsch stuff, but it sold, so I could afford to pay for the things I was more interested in doing”. And the post-architecture and ex-lawyer team? F. “I took my architecture degree and then got experience at the Sao Paulo Biennial, in 1984, but there was not much work for architects, so I began to help Humberto in his workshop. It was almost Christmas, we had to organize delivery of horrid seashell mirrors people had ordered from him”. Humberto the creative, Fernando the practical? F. “I have a much more technical background, I tried to make the things Humberto invented stand up. He is more dreamy”. Dreamy? H. “In the literal sense of the term. I often dream things, I dream a project and when I wake up I try to remember what I saw. The Anemone chair was something I dreamt, I dreamt I was weaving plastic tubes into a chair in the form of an anemone, and in the dream everything seemed very clear. So design comes from needs but also from dreams? H. “The dream is a space of our thought, freer, but still real”. How do you move from architecture to design? F. “I have always had problems with the dimension of architecture, the scale of buildings, to me it seemed like the most appropriate scale to work on was that of objects, not even the scale of a room, but precisely the smaller scale of objects. I see the quality in the details, the materials, the ways of putting them together, the language”. Define Brazilian culture for us. F. “Hybrid. Look at street life in Sao Paulo and you will understand that Brazilian culture is a crossing that produces vitality and contrasts, and also forms of dwelling. At school they never talked about this reality, about what was happening in the favelas, for example. In school there was only the dogma of the purist language, the rigor of method, requiring architecture that looked like shoeboxes. But people don’t like living in shoeboxes. If you look at a favela you understand that it is not a bunch of shacks but a system that conceals, in its disorder, a way of living that lets spontaneous languages find expression, that contains human qualities, an unconscious logic. So you have to start with these things, to watch, to get in tune”. The differences between Rio and Sao Paulo? H. “In Sao Paulo there is the material creativity of industry, in Rio the more abstract creativity of music, television, dance. Sao Paulo is heavy matter, Rio is light matter. We like the disorder of the forms of everyday products, the leftovers and their quantity, the richness of the materials. Material is the first source of
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inspiration, maybe a ‘semifinished’ thing that needs finishing”. F. “In Sao Paulo there are neighborhoods that specialize in the sale of just one thing, like electrical gear, for example, or only cords or ropes or tubes, sheets or strings of plastic. Or neighborhoods where only smuggled things are sold, or only stolen things… We started to buy the stuff we found in shops or at wholesalers, rods, balls of metal wire, rubber tubes, colored cords, cardboard, packing materials. They seemed useful, with the right design, functional for experiments and to create objects with a different language that came from common things. So we did an exhibition called ‘Desconfortevole’”. Uncomfortable in intellectual terms? H. “No… precisely in the sense of not comfortable, because they were things made without thinking about design and the right forms for ergonomics. But the journalists laughed, they thought it was provocative, that we were kidding, that we were sculptors, not designers, or we were being ironic… You can’t sell irony? H. “In Brazil a very serious, very composed modernist culture still dominates. In design schools students are asked to design cars, scooters, appliances for an industry that no longer exists. For an industrial culture that isn’t there”. Why are accumulation and fragments such a big part of your work? H. “My head is fragmented, I think and I see things as separate pieces that are waiting to be put together. Design, for me, is a sort of mental therapy to give some sense to this fragmentation”. What is the illness to be cured? F. “Maybe our ‘inconformism’”. You mean non-conformism? F. “No, I mean in-conformism in the sense of a different formation, because we were born in the country and we have had strong, basic experiences. We were in a very beautiful place but if you wanted to do something different, something that wasn’t playing soccer, you had to invent it for yourself”. And what did you invent? F. “We went to the movies. Brotas, where we were born, is a small town, but there was a lawyer, an extraordinary guy, called Josè Perricelli, who loved cinema. Every week he had reels of films shipped in by train, by the great Italian directors, and he screened them in a room he had set up for that purpose. So we saw the works of Visconti, Fellini, Pasolini, Antonioni, Bertolucci… and we did not play soccer”. What other pieces of Italy contributed to your ‘in-conformism’? H. “I didn’t know what design was, I like to make sculpture, to do art. I understood that there was a different space thanks to Lina Bo Bardi. She brought things from Italy, I remember an exhibition on Olivetti with a very beautiful installation. That is where I understood that I was not an artist”. F. “With her architecture Lina Bo Bardi demonstrated that you could look at Brazil in a different way, bringing out its humble, harsh, mixed aspects, those of the Indios and the forests, and she didn’t copy that from anyone”. What does ‘hybrid’ mean to you? F. “Hybrid means globalization, born in Brazil 500 years ago. Brazil has mixed Indios, Europeans, Asians, Africans”. H. “Thank heaven our culture does not include the word ‘purity’, and accepts the word ‘flexibility’. The Brazilian population is flexible”. Give me an example of this flexibility… F. “To accept the idea that practice can come before theory. To say that practice is theory. Can we say that your design tries to make order out of chaos? F. “We can say that we try to see the world in another form, an ‘imprecise’ form that is not totally predictable, and that this imprecision is a characteristic of the everyday dimension”. So you make a synthesis between industry, crafts and art? F. “We don’t want to talk about art. We make forms that serve and we are glad others are following us along this path. We make unexpected connections using something poor and making it become rich. But we cannot talk about industry”. Do you like Brasilia? F. “I like it but then I don’t like it. It is a very beautiful theater, full of corruption; it is a functional representation of power”. Why functional? F. “Because power loves big empty spaces: if there are no narrow streets it is easier to control people. And then, if you make an administrative city far away, without a populace, you can be sure no one will go all the way there to protest in front of the seat of the government”. H. “I like Brasilia, it represents the hope of a future for Brazil. I like this desire for an absolute new form, the representation of a dream. The fantastic thing is that it is constructed on a giant piece of quartz”. What is carnival? F. “An annoyance, a big mess, a commercial/sexual event”. H. “It is a collective therapy to vent aggressive feelings, a representation of the joy of wealth and poverty put together. During the carnival the poor classes compete to seem rich, but only for one night”. It is possible to talk about figurative violence in the carnival? H. “Violence, but especially excess, like the final scene in an opera, where grand kitsch is what counts”. How would you make a float? H. “Exuberant, not literal, abstract. It would represent the natural textures of Brazil: those of the forest, minerals, water…”. Why this vision of nature as an immense, separate world? F. “I’m not interested in nature in the city. We were not born in the city, every weekend
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we go back home, we go to see our mother who lives on a farm, at the edge of the Amazon forest. We have built a tower there to watch the forest, to observe the animals from a distance. Nature, for use, is a nearby world, deep and mysterious, not corrupted by man, pure”. H. “As a kid I wanted to have a relationship with the forest, like the Indios, because they seemed free, without social rules except those dictated by the simple necessities of living and surviving in small groups. I wanted to live like them”. F. “In fact, he refused to wear shoes. Instead, I wanted to be an astronaut, I liked to think of myself in the future”. What relationships do you have with marketing? H. “None, we are very free. We never think about a project by starting with questions of cost or what the market would buy… F. “You follow an idea, you make a project, you finish it, then you come up with the theory and talk about the market”. And with technology? H. “We are not technologists. We are interested in tools. The technologies are on the market. They have their image. They are a material that lets us reach an idea and construct this image of randomness”. F. “But there is a rationality in the construction of this randomness. If you take a material you have to study its structure and image to understand its possibilities. Then there is painstaking work required to make things hang together, to make them solid. We are not interested in designing new materials, of anything we discover new possibilities of use and new ways of putting together things that already exist”. - Caption pag. 77 Above: view of the exhibition “Anticorpi. Antibodies. Fernando & Humberto Campana 1989-2010”, produced by the Vitra Design Museum of Weil am Rhein and set up at the Milan Triennale (14 Oct – 16 Jan 2011). In the foreground, the Aster Papposus and Boa divans produced by Edra (photo Fabrizio Marchesi). On the facing page: Fernando (left) and Humberto Campana. In the background, the ‘forest’ of resin vases with enclosed branches, specially made for the exhibition in Milan by Corsi Design Factory (photo Simone Barberis). To the side, the collage made by the Brazilian brothers for the Milan Triennale. - Caption pag. 78 The work of the Campana brothers uses and reassembles suggestions and materials found in the streets of Sao Paulo. Above, clockwise: a kiosk completely covered with stuffed animals; the Banquete seat, 2002, composed of stuffed animals (© Estudio Campana, photo Fernando Laszlo); drainage cover, used as a motif for the covering of a table top; PVC lifesaver and Lurex underwear mannequins. Right: the Harumaki seat, 2004, made with bolts of fabric remnants (© Estudio Campana, photo Fernando Laszlo). - Caption pag. 79 The Anemone chair, 2001, in the streets of Sao Paulo. Made by Edra with transparent PVC tubes, woven by hand on a painted metal structure. - Caption pag. 80 The Favela seat, composed of small pieces of salvaged wood, assembled by hand, like the ones used in Brazil to construct the shacks in favelas. Produced by Edra, 2003. - Caption pag. 81 Cultural references and working materials of the Campana brothers. Above, from left: an Indio of the Rio Amazonas near an old prop plane; a shack in the favela of Sao Paulo, self-built with salvaged pieces of wood and plastic; bamboo, vegetable fibers and Pluribol packing fleece; the Positive-Negative chair, one of the first pieces designed by the Campana brothers. Above: the worksite of the capital Brasilia in a photograph from the 1950s. Below: working prototype of the Corallo chair, made with bent and welded wire.
Force, what great form! p. 82 video Yoox text Maddalena Padovani
Based on a principle of physical and conceptual elasticity, the Apta seat designed by Pierluigi Cerri for Domodinamica adapts to different people, accompanying the forms of the body. The projects of Pierluigi Cerri are just like their designer: erudite, refined, discreet, quiet, so detached from fashions that they seem a bit snobby. It is not easy to talk with Arch. Cerri, a founding partner of the studio Gregotti Associati, whose rigorous projects of image, graphics, installation and design still represent a very ‘Milanese’ and almost extinct way of defining space and objects. “I detest objects that shout and jostle to be seen”, Cerri says. “I love silence and irony. A noisy discipline with no sense of humor is destined to decline. Like society”. Even when the task at hand is to narrate the story of his new Apta chair designed for Domodinamica, Cerri prefers to rely on the terse intelligence of a few phrases sent by e-mail, rather than adding a face and a voice to a product that has plenty of its own physical presence, in spite of its reduced visual and material impact. In formal terms, Apta is almost disarmingly simple, even ‘humble’ with respect to the materic refinement of other furnishings by the same author, that make details and precision their distinctive traits. A slender metal structure stretches a perforated elastic membrane. When at rest, it is a two-dimensional surface, but when strained by weights and forces it lengthens and deforms. Later, it returns to its original configuration. “All chairs”, the designer continues, “try to adapt to the body with a rigid structure that somehow is already pre-set with respect to the body. Apta comes from the desire to study the memory of the chair, or its capacity to change shape and then return to its original form, allowing users to assume non-conformist positions. A precise reference is a cartoon by Altan, who a few years ago said that to design a new chair, it would be necessary to first change the backsides of Italians. We thought that perhaps the chair could adapt to their new ways of sitting”. A video made by Yoox.com, the partner of Domodinamica in the development of this project (for the presentation of Apta, in April, the first specimens in different colors were sold at its website), narrates the principle of flexibility and interaction in images: two mimes sit on the chair, jump and bounce, stretch out, curl up, roll, making it behave like some kind of fitness gear. With its simple flexibility the seat seems to allude to a widespread need for physical and conceptual elasticity, an age-old dream Cerri himself indicates
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in the soundtrack of the video: “When we were very young we thought that giving people objects that were correct, in formal and functional terms, could somehow also change the typology of our places of living. There was discussion of form and function. Whether the former follows the latter or vice versa. The Castiglioni brothers broke the spell, saying: ‘Function, what great form!’ With their usual cultured irony. Today, frankly, we are left with the cynical adage that states: ‘Form follows business’”. - Caption pag. 82 The result of collaboration between Pierluigi Cerri, Domodinamica and Yoox, the Apta chair is composed of a membrane in painted polypropylene stretched over a structure in chromium-plated steel rod.
Wireless phone p. 84 by JoeVelluto (JVLT)
It’s an interpretative path that involves four different designers. The aim is to create a sequence by ‘playing’, through the design of objects instead of words. 1. JoeVelluto (JVLT) 2. Paolo Ulian “I add the scrap from its making to an empty cube to obtain a new vase”. 3. Marco Morosini “Mobility is everything. I add wheels to any object and the trip can begin”. 4. Cleto Munari “Speed is no longer mechanical, but visual”. 5. Luca Nichetto “I received an abstract drawing and wanted to make my interpretation of it as realistic as possible. So I thought of something that exists and I immediately connected the sketch with different spaces that form a verandah”. Cubo. This time we start from the ‘cubo’. We mix the four letters: c u o b o c b u c o u b b o u c u o b c b o u c b c o u c o u: buco (hole). So it’s a cube with a hole. Actually, a cubed hole that becomes a vase, taking advantage of the empty space of the hole. A vase that contains nothing, the void. But nothing can also be transported, if you put it on wheels, and this is why we say ‘traveling with nothing’. If you push it, it becomes a pushed void. A void of air. The complement of empty motion. We can move fast, with or without wheels, the destination: the voyage. And the eyes make regular, quick movements, beyond the window of a train, feeding on visual stimuli. I travel by train towards the aesthetic to create metaphors and symbols. To rest, finally, in the shade of a verandah. Bread to bread, wine to wine. Bread and salami. Cubes of cheese.
INproduction
Looking north p. 86 by Katrin Cosseta
Light woods and signs. Simplicity bordering on austerity. Stylistic and intellectual rigor. The lightness of graphic purism of structures, the pursuit of the authentic in natural wood, the memory of familiar forms. Echoes close to Scandinavian modernism. - Caption pag. 86 1. Hanging lamp by Tapio Anttila for Showroom Finland from the Tuohi collection, in birch bark. 2. Branca by Studioilse for De La Espada, bench with high back, from the Seating for Eating collection, in solid chestnut wood. - Caption pag. 87 1. Codice: Briccole, by Terry Dwan for Riva 1920, console made with Venetian ‘briccole’, or oak poles salvaged from the lagoon. 2. Branca by Sam Hecht/Industrial Facility for Mattiazzi, chair in natural waxed ash wood. - Caption pag. 88 1. Natural Genius Medoc by Michele De Lucchi and Philippe Nigro for Listone Giordano, oak flooring in the new color #4 with oil finish. 2. Road by Rodolfo Dordoni for Roda, outdoor chair with structure in teak boards with different sections, seat in Canatex. 3. Tray designed and produced by Plinio il Giovane, ultralight table in oak. 4. Tre3 chair, designed in 1978 by Angelo Mangiarotti and reissued by AgapeCasa, seat in cowhide, three-leg structure in natural or stained oak. - Caption pag. 89 1. Caleido Ghiaccio by Tabu, sunburst veneer from the Caleido collection. 2. Klara, by Patricia Urquiola for Moroso, chair with natural beech structure, finished with wax, back in curved beech and rattan webbing. 3. Il Volo, by Riccardo Blumer for Alias, table in the new extensible version, structure in solid wood or plywood with veneer: maple, oak, cherry, ebony, wenge. 4. Hiroshima by Naoto Fukasawa for Maruni, chair with beech structure and padded fabric seat. - Caption pag. 90 1. Wall Illusion by Berti Pavimenti Legno, prefinished optical-effect decorative panel in different types of contrasting wood. Collection developed by Matteo Berti, based on the studies on the illusion of movement by the Japanese professor of psychology Akiyoshi Kitaoka. 2. Monza, by Konstantin Grcic for Plank, chair with natural ash wood structure and polypropylene back. 3. From the Night&Day collection by Patricia Urquiola for Molteni&C, table with structure in matte lacquer finish or Canaletto walnut, wenge, dark or gray oak. 4. Echo by Laura Silvestrini for Giorgetti, swivel bookcase covered with eco-leather. - Caption pag. 91 1. Anethum by Alpi, multilaminar wood from the Concept Wood collection, available in four color variations. 2. Chair 130 by Naoto Fukasawa for Thonet, in sold beech or oak, natural or stained. 3. Leonardo by Marco Ferreri for Morelato, table with interlocking oak structure, top in glass or wood. 4. B chair by Konstantin Grcic for BD – Barcelona Design, chair in solid wood with reclining seat, also available in a range of colors. - Caption pag. 92 1. Soundwave Geo by Ineke Hans for Offecct, acoustic panel in recyclable polyester fiber. 2. Instant Seat by Matali Crasset for Moustache, chair in birch plywood, available with right or left armrest, covered in shearling. 3. Fat Fat by Patricia Urquiola for B&B Italia, table with structure in steel rod, top-tray available in white or black. 4. Antelope by Monica Förster for Swedese, chair in solid ash wood, seat padded and covered in leather or fabric. - Caption pag. 93 1. Snowflake Oro, decoration in Bisazza glass mosaic, design Marcel Wanders. 2. Otium by Mario Ruiz for Lapalma, divanette with chassis in beech plywood, veneered with blanched oak or walnut, with steel structure. 3. Ics by Rodrigo Torres for Poliform, stool with structure and seat in oak, also available with matte lacquer finish in 28 colors. 4. EC03 Eugene by Stefan Diez for E15, lounge chair with plywood chassis veneered in white lacquered oak, also available with fixed upholstered seat.
08/11/10 12:16