NUMERO 2 / ESTATE 2011

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numero 2 / estate 2011 verdena / smart cops / rumatera /

elisa moro / zellaby / gianmaria testa e giuseppe battiston and much more...


A musica / almost famous

iodio / estate 2011

editoriale Ebbene sì, quei faccioni in copertina sono proprio i nostri. Così adesso sapete con chi avete a che fare. Non siamo tutti, ma certo una valida rappresentanza. E intanto che ci autocelebriamo, proviamo a crescere ancora un po’. Innanzitutto, abbiamo un sito internet: www.iodiomagazine.it, nel quale potete trovare i contenuti che per motivi di spazio non riusciamo ad inserire su carta. Un po’ alla volta li caricheremo tutti, vecchi e nuovi. Altra novità, oltre al nostro consueto nomadismo (continuerete a trovarci in giro per il globo, ma mai in posti a caso), abbiamo individuato alcuni punti ufficiali di distribuzione: gli Iodio’s official corners. Grazie alla magnanima disponibilità dei gestori/titolari, potrete trovarci lì, fino ad esaurimento scorte (elenco completo dei corners sul suddetto sito). Concludo con il solito proposito: scriveteci in libertà, che su carta o sito vogliamo accogliervi tutti. Siamo gente affettuosa. E teneteci d’occhio, che abbiamo altre novità in serbo... A presto!

Stefano Zadro stefano.iodio@gmail.com


IODIO n.2 / estate 2011

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Direttore Responsabile: Stefano Zadro Responsabile di redazione: Andrea Cansei Passador Progetto grafico: La Cloud - sayitcloud@gmail.com In redazione Katrin Battiston Matteo Berry Vanessa Soledad Cozzarin Anna De Nardi Giugi (Giovanni Simonato) Iana (Giuliana Zigante) Dave Martin’s (Davide Martin) Simona Pancaro Alessandra Perin Maura Piccin Marianna Puppulin Cliff Secord Davide Tramontin Alessandro Verona DottorQ Illustrazioni La Cloud Alessandra Perin Foto Elisa Moro in copertina Zellaby stampa Centro Stampa Puiatti via delle Industrie 4, Fossalta di Portogruaro (VE)

ioascolto verdena

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smart cops

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rumatera

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MAde in italy

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...sono cresciuti, eccome pessimi soggetti i teroni del nord shake some action!

io vedo elisa moro

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zellaby

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gianmaria testa e giuseppe battiston

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mauro merlino

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lo sguardo dietro la macchina old fashioned

NUM. REG. STAMPA 34 del 30.12.2010

redazione.iodio@gmail.com edito da

Associazione Giovanile IoDeposito

con il patrocinio del Comune di Pordenone

www.iodeposito.eu bigsofa10.blogspot.com facebook: Iodio la tua pubblicità su iodio? scrivi a:

redazione.iodio@gmail.com

irriducibili artisti dentro un sogno

io leggo andrea marcelli

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katrin battiston

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iodio - istruzioni per l’uso

io vesto put your pants in the air like you don’t care

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iodioetamo

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dottorq the sensual killer


wow! sold out! verdena! Di Iana e Dave Martins - foto Elisa Moro


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WOW è SOLD OUT ! Non potevamo scegliere miglior titolo per descrivere l’impatto che sta avendo il nuovo tour 2011 dei Verdena. Nella maggior parte delle date finora uscite, infatti, il gruppo Bergamasco ha venduto tutti i biglietti staccabili decine di giorni prima dei live! Questa piacevole sorpresa ha portato cosi ad un raddoppio delle date in molte città Italiane (circa una cinquantina da gennaio ad agosto 2011!). Iniziamo l’intervista partendo proprio dalla lunga e curiosa gestazione artistica che ha preceduto l’uscita di Wow. Sappiamo che vi siete rintanati per molto tempo presso i vostri Henhouse studio dove avete partorito e registrato, in analogico, i nuovi pezzi. Da dove nasce questa esigenza, alquanto particolare e originale, in controtendenza rispetto alle tradizionali strategie discografiche che regolano il mercato discografico? Quanto, questo “esilio compositivo”, ha influenzato la stesura dei nuovi pezzi? Logisticamente parlando il nostro studio è un posto un po’ isolato, ma non si tratta di alcun isolamento mistico creativo dell’artista. In realtà non ci siamo chiusi o ritirati, suoniamo e registriamo lì da sempre i nostri pezzi ed è come casa nostra, anzi è sempre aperto agli amici che passano a trovarci ! La scelta della registrazione dell’album in analogico a cosa è dovuta? Quando abbiamo iniziato a registrare in quella sala prove, l’analogico era ancora molto valido, a differenza del digitale, anche se ancora oggi, per noi, non è migliore, perciò abbiamo comprato la bobina che costava anche meno ed era più fisica. Il calore del suono sull’analogico c’è sempre piaciuto, più del digitale, ed anche per questo che tutti i nostri dischi sono stati registrati sul nastro. In che misura questo nuovo lavoro si discosta dalle precedenti uscite discografiche? Quali sono i punti di continuità con il passato e quali invece i tagli netti e definitivi, sia a livello compositivo che artistico-musicale? Sicuramente ogni nostro disco è un po’ diverso dagli altri, quindi è un meccanismo che riparte ogni qual volta componiamo musica. Non programmiamo nulla quando scriviamo, il tutto viene in maniera istintiva e sicuramente, a differenza del disco precedente che era un po’ più cupo, questo è decisamente più chiaro e dunque diverso. Il nuovo disco vede un ruolo più centrale di alcuni elementi come il pianoforte, partiture elettriche e suoni campionati. Cosa vi ha spinto verso questa ennesima esplorazione creativa? La curiosità nel voler cercare nuove strade. Il pianoforte, per esempio, ci ha dato uno stimolo nuovissimo perché, anche se non avevamo la padronanza perfetta dello strumento, ogni minima composizione creata ci attirava in maniera naturale spingendoci così verso questo percorso che in tre anni si è evoluto fino ad arrivare al nostro Wow. Nelle diverse recensioni sono molti gli aggettivi che usano per descrivere il vostro stile. C’è chi parla di indie, chi di rock (a cui connettono le più svariate parole), chi di grunge o punk... Vi ha dato fastidio essere associati ad altri gruppi ? come vi definireste ? Gli aggettivi che ci sono stati affibbiati non ci infastidiscono perché ognuno può pensare quello che preferisce. La cosa che più ci fa stranire è che per forza, qui in Italia, bisogna collegare ad ogni gruppo un altro estero e questa associazione per noi è un po’ denigrante. Anche perché, se si dovesse seguire il detto: “quello di cui ti nutri, sei”, noi saremmo influenzati da un infinità di musica, visto che abbiamo veramente degli ascolti musicali disperati ed ascoltiamo un quantità di musica esagerata. Giustamente, all’inizio del nostro percorso eravamo molto più

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derivativi, però, con il passare degli anni, abbiamo sempre cercato la nostra originalità, in altre parole suoniamo ciò che ci piacerebbe sentire! Per rispondere alla domanda sul tipo di genere in cui ci definiamo, rispondiamo semplicemente: Rock. Curiosando su internet abbiamo visto che su Wikipedia , nella pagina a voi dedicata, c’è un curioso paragrafo di “Citazioni e riferimenti” di cui i vostri brani sono ben arricchiti. Ma non si limitano solo alla musica. Tutte queste “chiavi nascoste” sono dei semplici giochi o vogliono comunicare altro? Si, alcuni sono dei giochi di parole abbastanza studiati che noi facciamo. Altri, invece, sono per ridere. Però non vogliamo dire di più altrimenti togliamo il gusto del divertimento per chi riesce ad intuirle e a capire i vari significati. Sia per aver pubblicato CD oltre confine, che per aver promosso dei tour europei, avrete sicuramente avuto occasione di entrare in contatto con la scena musicale internazionale. Quali sono le differenze più evidenti tra Italia e le diverse Germania, Svizzera, Austria o Francia? La Francia è molto bella, ci hanno trattato sempre divinamente, l’Inghilterra è molto simile all’ Italia, ovvero, sotto certi aspetti, è veramente un disastro. Anche in Germania i locali per i gruppi emergenti sono tutti bellissimi e attrezzatissimi, ma questo fattore è sicuramente dovuto al pubblico della Ger-

Sicuramente ogni nostro disco è un po’ diverso dagli altri. Non programmiamo nulla quando scriviamo, il tutto viene in maniera istintiva e sicuramente, a differenza del disco precedente che era un po’ più cupo, questo è decisamente più chiaro.


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mania che è molto recettivo e attento, sul genere rock. Comunque ci riesce difficile comparare il concerto estero rispetto a quello nel nostro paese perché comunque qua il pubblico ci conosce, dunque le aspettative sono diverse dai live che facciamo fuori confine, dove nessuno sa cosa proponiamo. Fuori dall’Italia l’obiettivo è conquistare il nuovo pubblico, mentre qui cerchiamo di mantenere a priori le attese, che il nostro pubblico vuole, che non sono per niente basse. In ogni caso se suoniamo in Italia, o meno, i più pretenziosi siamo noi, per noi stessi visto che amiamo quello che facciamo e vogliamo promuoverlo sempre ad ottimi livelli. Il nostro giornale è indirizzato a tutte le persone che amano la musica e cerca di dare spazio agli artisti emergenti. Voi siete invece una band affermata... ma come i Verdena sono diventati Verdena? Quali sono stati gli inizi, quali le strade percorse e le difficoltà incontrate? Avete qualche consiglio per il nostro pubblico? È iniziato tutto nel ‘89, i Verdena erano formati da me (Alberto Ferrari) e mio fratello Luca più nostra cugina, dopo di che nel ‘94/‘95 abbiamo provato tantissimi bassisti fino a quando nel ‘96 abbiamo trovato Roberta e da li la storia è cambiata. Non abbiamo trovato ostacoli perché suonavamo senza limiti ovunque, come facciamo tutt’ora. La rampa di lancio che, secondo noi, ci ha dato la spinta per poi crescere maggiormente, è stata l’occasione di partecipare ad uno dei tanti concorsi studenteschi, dove all’interno della giuria c’era chi è diventato il nostro manager, e ci ha aiutato a trovare il primo contatto discografico. Lui era un giornalista e, quando ci ha visti e sentiti, è impazzito per noi. Così si è messo subito al lavoro e nel giro di un anno circa, eravamo riusciti a far uscire il nostro disco. Sicuramente bisogna saper cogliere le occasioni che si presentano

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ed avere un po’ di fortuna per riuscire ad emergere, ma quello che consigliamo noi ai gruppi è di non avere questa smania di voler arrivare, perché spesso vediamo che avere un contratto, un booking, fare il disco è per una band emergente il punto di arrivo, ma non è cosi !La voglia di suonare e la determinazione di salire su qualsiasi palco che viene messo a disposizione è il vero punto d’ arrivo, noi per esempio all’ estero non siamo conosciuti come in Italia perciò appena arriva una proposta ci fiondiamo senza pensarci, al costo di rimetterci dei soldi nostri, ma non perché vogliamo andare a conquistare il mondo (se succede, ben venga!) ma perché noi abbiamo voglia di suonare e di metterci in gioco, questo è il nostro fine. Chiudiamo l’intervista basandoci sulle statistiche: il nuovo disco è stato accolto da pubblico e critica in maniera entusiasta e accogliente, balzando subito al secondo posto della classifica degli album più venduti in Italia. Vi aspettavate una così calorosa accoglienza e unanime partecipazione? Si, qual cosa ci aspettavamo, perché comunque abbiamo un pubblico molto solido. Già gli ultimi 2 dischi, che hanno preceduto questo, erano entrati nella top ten delle classifiche le prime due settimane d’ uscita, grazie appunto ai nostri fans più affezionati, però allo stesso tempo siamo rimasti piacevolmente stupiti, perché rimanere fermi per tre anni, con l’abbondanza di musica che fuoriesce continuamente, non sai mai cosa può accadere. Noi, comunque, fino all’ultimazione dell’album non ci abbiamo pensato minimamente all’impatto che poteva esserci o non, poi nel mese di promozione, interviste, preparazione del tour abbiamo iniziato a pensarci perché i giornalisti ti mettono sempre in ansia, ma a quanto pare sta procedendo tutto abbastanza bene, sia per la presenza di pubblico nei live, che nella vendita dei dischi.


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Smart Cops Il braccio punk della legge U n a d e l l e migliori band in circolazione in questo momento, rappresentano al meglio l’HC e il Punk italiano, nati nel 2007 e dal curriculum vitae imponente (membri ed ex della Piovra, Ban this,With Love e Ohuzaru) sulla scia de “L’amico di Martucci” e dopo un brillante tour che ha toccato gli Usa e Israele, gli Smart Cops sono usciti per la Tempesta con l’album “Per Proteggere E Servire”. Rapido e prepotente come una retata, il disco fa respirare atmosfere musicali ormai perdute (Dead Boys, Gaznevada). Undici canzoni tra Rock n’ Roll e Punk-HC che fanno muovere il culo e allo stesso tempo fanno riflettere con sarcasmo sulla realtà dell’uomo medio con la divisa. Efedrinici. Abbiamo incontrato Nicolò (cantante della band) e il chitarrista Edo. La vostra band annovera nomi parecchio importanti della scena, come

di Michele Petrovich è nata questa collaborazione? Edo: eravamo gli unici disposti a suonare con Baloo (Nicolò) dopo quella storiella della bambina nel bagagliaio… Nicolò: già, quella bambina, ancora non si reggeva in piedi...sono sempre io a dover fare i lavori sporchi. Battute a parte, frequentando lo stesso giro ci siamo trovati, ci siamo piaciuti e abbiamo condiviso insieme questo progetto anti-polizia. Nel punk è piuttosto visto come uno stereotipo, però letto in chiave sarcastica ha un altro effetto... Come mai la scelta di cantare in italiano? Edo: semplice autarchia, ci piace fare le cose con i nostri mezzi ed essere capiti dal glorioso popolo italiano. Nicolò: a me personalmente piace seguire la tradizione. L’hc italiano, soprattutto quello degli anni ‘80, è molto ricercato e stimato in giro per il mondo e bene o male tutti i gruppi hanno sempre usato i testi in italiano... quindi perché non farlo anche noi? E poi quando sussurri qualcosa nell’orecchio di una ragazza americana, che lingua userai se non l’ita-

liano? Band a cui vi ispirate? Edo: Gaznevada, Wind Spen e Section 8, principalmente. Nicolò: Indigesti, Man is the Bastard, Infest, Stigmathe, e quasi tutta la “Reagan Era hardcore”. “Cominciare A Vivere”, il 7" uscito tempo fa, è un disco di punta della vostra etichetta americana (Sorry State), soddisfatti della riuscita? Edo: sì, però vorrei puntualizzare che la vita è una merda e se questo disco mi avesse fatto guadagnare un sacco di soldi o fatto scopare mille fighe sarei molto più contento, comunque grazie Sorry State. Nicolò: felice oltre alle aspettative... tra l’altro il disco è stato sold out, quindi adesso ho messo le mie copie in vendita su e-bay. Come è nato l’incontro con la Sorry State? Edo: Siti per scambisti. Nicolò: Abbiamo spedito il master del disco a Daniel della Sorry State e gli è piaciuto, così ha deciso di buttarlo fuori, e così è andata anche con “Cominciare A Vivere” che, oltre a Sorry State è piaciuto anche alla


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ci fanno piacere le critiche più che positive ricevute fino adesso dalle maggiori testate italiane. A parte questo leggiamo solo riviste pornografiche. Adult-Crash (etichetta danese). Per questo abbiamo l’edizione sia europea che americana. Stati Uniti. Il non plus ultra per una band del vostro genere, quali sono state le reazioni del pubblico americano? Edo: molto carichi, c’è più considerazione per chi suona e la gente compra i dischi se il concerto gli è piaciuto, cosa che in Italia non accade; l’unica nota negativa del tour è stata il nostro driver, una vera testa di cazzo e approfitto di questo spazio per ribadire che è un coglione e spero che muoia. Vaffanculo! Nicolò: il pubblico è eccezionale, puoi suonare davanti a 20 o 500 persone che comunque lo show è grandioso... gente che vola, che canta i pezzi. Avete partecipato all’anti MTV Day, come mai? Cosa ne pensate di MTV? Edo: uhm... penso che, a parte tutte le ovvie considerazioni sulla minaccia culturale che rappresenta, sia di una noia mortale e per questo non la seguo più nemmeno casualmente da diversi anni. Nicolò: io vorrei diventare il miglior amico di Paris Hilton, oppure farmi una storia con Tila Tequila sopra un letto a forma di cuore, il tutto in una magnifica villa. A parte questo MTV non merita alcun commento. É spazzatura per ragazzini di 15 anni (o per trentenni che ne dimostrano 15), quindi è ovvio che vada sempre... c’è un ricambio generazionale, cosa che manca nel punk. E non è sempre un male... Secondo il vostro parere qualche nome della scena che vale in questo momento? Edo: in Italia non mi viene in mente nulla al momento a parte gli ED... in Svezia, Danimarca e America le cose vanno un po’ meglio anche se c’è un calo rispetto a 2 o 3 anni fa; fra i gruppi migliori al momento ci sono sicuramente i Social Cirkle, che hanno appena fatto uscire il nuovo lp, e gli Hjertestop di Copenhagen. Nicolò: a me piacevano molto gli Out With a Bang, ma ormai non esistono più. Direi ED anch’io. Egala!!!! Come è nato il sodalizio con la Tempesta, per la quale è uscito il vostro ultimo album “Per Proteggere e Servire”? Nicolò: conosciamo Davide ed En-

rico (Tre Allegri Ragazzi Morti) da molti anni, hanno sentito i nostri lavori precedenti e ci hanno proposto di entrare a far parte della Tempesta Dischi. É una buona opportunità per fare conoscere la nostra musica in giro per la penisola. Sono felice di questo sodalizio con questa etichetta così giovane e intraprendente. Il riscontro della critica è stato molto positivo. Vi aspettavate questo risultato? Che valore date ai giudizi della stampa di genere? Nicolò: ci fanno piacere le critiche più che positive ricevute fino adesso

dalle maggiori testate italiane (Rolling Stone, Rumore, Blow-Up). A parte questo leggiamo solo riviste pornografiche. Nicolò, adesso che sei famoso hai aumentato il numero di rapporti promiscui? Nicolò: sì, sono aumentati palesemente, alla fine penso che la droga e le troie siano come sempre lo Zenit del nostro pensiero. Comunque amo anche te.

E io, Nicolò, amo te.


benvenuti

nella

grande

v

intervista

ai

r u m a t e r a di Simona, Stefano, Giugi - foto Elisa Moro Qualsiasi cosa possiate leggere in questa intervista – tra le righe o nelle righe – è comunque vera. Anche se il sarcasmo e la comicità quando sono così spontanei fai fatica a trascriverli. Sul palco sono delle bestie, ma se parli con loro sembrano una riduzione di una squadra di basket, ragazzoni giganti (tutti studiati) che alla domanda “cosa fai nella vita” ti rispondono candidamente: “mi piacciono i film porno”. Fioi che ridono per natura, che fanno anche ridere di natura. Hanno una missione: diffondere il verbo (anca se xè in diaetto se capisse lo stesso), e raggiungere i tosi de campagna di tutto il mondo. Se c’è a mona, meglio. Perché Rumatera? Rispondo in italiano? È un pesce che ruma… Che muove la terra… Un nome un po’ esotico. Come il nostro rock’n’roll – punk rock, Rumatera è un pesce talmente inutile che gnanca la carne si può mangiare. Perché cantare in dialetto? Questa scelta vi limita? Non è stata una vera e propria scelta, ci siamo divertiti… Ci sentiamo a nostro agio, è una scelta naturalissima, la lingua che parliamo tra di noi, tutti i giorni. Poi sappiamo anche parlare in italiano eh... É solo un limite mentale, abbiamo suonato spesso in zone in cui la gente non capiva il nostro dialetto, ma la cosa non è stata affatto limitante. Anzi siamo piaciuti, abbiamo ottenuto dei passaggi radio, il Trio Medusa ci ha voluti. Eh appunto…Trio Medusa? Com’è andata? Eh, il Trio Medusa spacca! Passavano delle robe nostre per radio, poi ci han sentiti su internet, han visto dei nostri video … Sono informatissimi loro, cercano

sempre qualcosina su internet, ‘nsomma gà trova i Rumatera col video del motore, il video in barca… E così gli siamo sembrati sufficientemente stupidi che si sono appassionati. Abbiamo sentito che ci nominava in trasmissione e ci siamo proposti. Eh… quindi l’avete data una spinta… Eh insomma… una spinta… noi spingiamo un po’ sempre insomma, se c’è l’occasione noi spingiamo…. Oltre ad essere ospiti in trasmissioni voi la conducete anche una trasmissione. Eh sì! Noi abbiamo una nostra trasmissione tivù che si chiama “tosi de campagna” che passa su Telecittà, famosa per il liscio al canale 609 del digitale terrestre, la sarìa un emittente regionale però ogni tanto la xé in busa e non è che la vedi sempre, però siamo anche su Sky, canale CarpeDiem e praticamente la passano dopo la pubblicità dea machinetta che t’attacchi e te dise il rosario… Così gavemo ancora de più quest’aura familiare. Cioè, non è che siamo ‘na roba blasfema anzi! Semo vicini alla santità, escludendo il voto di castità. La trasmissione nasce dall’idea di valorizzare un po’ la scena musicale veneta e quest’anno abbiamo portato il format anche dentro ai locali. Diamo spazio ai gruppi che dimostrino lo stretto necessario in termini di impegno: già se hai fatto un video vuol dire che un po’ ti sei impegnato. Ha funzionato eh, abbiamo avuto un ottimo riscontro. “Tosi de campagna” però non è solo la trasmissione, è anche una filosofia di vita per voi e per i vostri seguaci. Sì, è uno stile di vita, una cosa naturale. I Tosi de campagna sono persone semplici che sanno da dove vengono, magari sanno anche dove vogliono andare perché


video dell’intervista realizzato da Giugi su www.iodiomagazine.it

di solito sognano, magari si sono trovati limitati in certe cose, non hanno trovato la situazione favorevole. E i sogna talmente tanto che a volte i xé sveglia coi nissioi duri! Perché fanno sogni talmente realistici, è gente genuina, spontanea. Magari anche i tosi de città non sono male però sono quelli che hanno un po’ di toso de campagna dentro… e un po’ tutti hanno un toso da campagna dentro. Basta superare un po’ di condizionamenti. Ci chiediamo tutti invece, cos’è sta grande V, cosa c’è dietro? La grande V è il Veneto…abbiamo voluto fare un omaggio alla nostra regione… Noi che pensavamo male… Eh no, il segno è diverso… quella è la grande A che sta per a mona. Comunque la Grande V non è una cosa troppo patriottistica eh… Noi amiamo la nostra regione ma amiamo anche scoprire le altre regioni, conoscere gli altri tosi de campagna ma ci dobbiamo sempre ricordare da dove veniamo e approfittiamo di questa canzone anche per raccontare la nostra versione del Veneto che non è quello di cui si parla fuori. Tutti che lavorano e che il lavoro rende liberi. Noi altri semo i terroni del nord, gavemo un modo di fare diverso. Parliamo anche delle collaborazioni: vi abbiamo visti con Drudi. Eh ciò…Drudi ga più voia de mona de tutti noi altri messi insieme! Siamo andati a trovarlo anche qualche giorno fa a Rimini, con ‘sto clima de festa, quest’aria romagnola e adesso abbiamo in programma di far fare un video a Gianni, proprio per la canzone Mi piace la foca; verrà anche a suonare al festival che si tiene dalle parti nostre a Cazzago il 3 settembre. Altre collaborazioni possibili o auspicabili? Avevamo delle cose in programma già per questo E.P. che non sono andate in porto ci sono sempre cose che bollono in pentola, c’è un continuo movimento (a livello pelvico), bolle bolle… Il nostro sogno è fare una canzone con Lea di Leo. Rumatera morti de figa, possibile con tutti quei concerti

in giro? Beh, ma non è una fame saziabile. Tornando alle cose serie: abbiamo visto il vostro sito ed è possibile visitarlo in dialetto veneto, in italiano e anche in inglese… l’inglese è una speranza o avete contatti anche esteri? Abbiamo fatto un disco anche in versione inglese, abbiamo collaborato con un’agenzia di stampa per distribuirlo in America. Ha girato in un po’ di college e in classifica s’è anche piazzato bene. Ovviamente però non è che quando venem suonare qua femo e canzoni in inglese perché se sentiressimo un fià deficenti però è un modo per portare il messaggio dei tosi de campagna anche all’estero, l’America xe pién de tosi de campagna. Che poi la gente dise anche “eh…te si toso de campagna e poi te fa il disco in inglese…” ma il problema è questo: se tu sei in spiaggia e conosci una ragazza straniera tu no ghe po’ dirghe “bella fìa ‘ndemo in camporea” perché quea no te capisse! Ti ga da parlarghe n’attimo nea so lingua per farse capire… [all’improvviso s’emozionano tutti, non riescono a parlare d’altro nè a guardare altrove, è arrivata finalmente la tanto attesa, soprattutto dai maschietti della nostra crew…Lady Poison!] Oh Lady! Qual è il tuo ruolo in questa band di fioi? lady poison Io sono sempre sul palco e do da bere direttamente in bocca alla gente fra il pubblico. Dentro gli spruzzini – che poi la gente se imagina chissà cosa, no gavemo mica i schei par darve a droga gratis – c’è rum e succo di pera, entrambi tra l’altro di pessima qualità! Perché è la nostra gente che beve sta roba corrosiva… Però dai, son tutti ancora vivi. gli altri Ma Lady Poison è importante anche prima e dopo il concerto, perché ci rilassa, ci tiene tranquilli… è una voce sempre presente che tiene alto (il morale). Consigliate ai nostri lettori delle band locali che ritenete valide da seguire e da ascoltare. Le band che compongono la Grande V che spero diventerà un movimento più avanti, che possa prendere piede e sono: i Chuma Chums con cui abbiamo collaborato, le Cattive Abitudini, sicuramente da seguire ed altre band dell’underground… I Ca’ Raggae, i Talco (mestrini, ma più famosi all’estero che in Italia), BotteMan che è un fantastico rapper nostrano, ci sono anche i Teodasia che si stanno muovendo molto bene e molte altre band che si stanno muovendo nell’ottica di fare le cose seriamente.


y l a t i n i e d a m

SHAKE SOME ACTION! il meglio del power-pop italiano di Davide Tramontin

Partendo dal presupposto che sotto l’etichetta power-pop si possono catalogare un’infinità di gruppi, anche molto diversi tra loro per riferimenti ed attitudine, in questo articolo si darà spazio a quello che trae la sua principale ispirazione dalla scena americana post 1976, lasciando quindi da parte il filone che dal punk inglese, attraverso il revival mod è giunto fino ai giorni nostri declinato in varie forme. I Treehouse Society da Mantova sono da considerarsi gli astri nascenti del panorama nazionale: sorti dalle ceneri degli High-School Lockers, hanno diretto il loro suono verso orizzonti più raffinati, incentrati sull’uso di armonie vocali e guitar-pop di alto livello. Al momento non hanno ancora pubblicato un disco e l’attività live è abbastanza sporadica, ma sul loro myspace sono ascoltabili due brani. L’ultima volta che li ho visti live hanno aperto il concerto con un pezzo degli Eagles (per dire la faccia da culo), passando anche per cover ricercate (come Call Yourself A Man degli Heats di Seattle), anche se la vera hit è la loro Molly, che il pubblico ha richiesto a gran voce come bis. Più in generale il loro stile si identifica come un tanto curioso, quanto riuscito mescolamento di Rubinoos, Boston e sigle di telefilm anni Settanta, dove riff machi sono stemperati dal controllo assoluto del suono e da coretti limati alla perfezione. Il gruppo perfetto per chi ama le atmosfere dei teen movie americani dei tempi che furono, non rassegandosi a vivere negli anni duemila. Tra parentesi per noi gli anni Ottanta sono come i Cinquanta visti dagli Ottanta stessi...come dire sono gli anni Cinquanta alla seconda: consumismo, benessere, drive-in, pomiciate adolescenziali, Breakfast Club e Goonies. Decisamente già affermati sono invece Miss Chain & The Broken Heels, partiti come progetto solista della cantante e


e d a m A musica / almost famous in italy chitarrista Astrid Dante cui si è presto costruita attorno una band (Silva Disaster e i fratelli Bruno e Franz Barcella), hanno riscosso un’ immediato successo già col primo singolo, Common Shell (SonicJett Records, 2008), seguito da Boys&Girls (DreamOn Records, 2008) sold-out in soli due mesi. Un discorso a parte merita il terzo singolo Lie (ShakeYourAss Records 2008), a mio parere vero fiore all’occhiello della produzione del gruppo, dove si esplora quella zona del sentimento che sta tra la tristezza e la felicità, o meglio tra il dolce e l’amaro. Nell’album On A Bittersweet Ride fatto uscire in Europa dalla tedesca Screaming Apple (etichetta guida nel settore powerpop e garage) e negli Stati Uniti su cassetta dalla mitica Burger Records, il grintoso carattere power-pop con voce al femminile che puo’ ricordare gruppi americani come gli Shivvers, non si ferma ad una sterile ricerca filologica di suoni e temi, ma si lascia contaminare con generi distanti tra loro come bubblegum music e country alla Gram Parsons. Singolone del disco la saltellante Flamingo (di cui esiste anche un video), ma sono contenute diverse perle: Beginning Of The End, Up All Night, e l’anfetaminica Roller Coaster. Non molto conosciuti in patria i quattro (provenienti da Veneto e Lombardia) hanno già completato due tour negli Stati Uniti e svariati in Europa, ma come si sa dalle nostre parti non è facile affermarsi con della buona musica. Continuiamo la carrellata i piacentini Temponauts con all’attivo uno dei più bei dischi usciti per TeenSound negli ultimi anni: A Million Year Picnic. Catalogare questo ibrido come power-pop è tanto comodo quanto riduttivo. Se il gruppo parte dai Sixties lo fa decisamente con lo sguardo rivolto al presente o meglio al futuro, non accontentandosi di riproporre semplicemente musica già scritta da altri. Il jingle-jangle e le armonie vocali byrdsia-

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ne, sono funzionali ad un’indolenza seconda forse solo a quella del primo disco degli Stone Roses. E se alcuni pezzi rimandano decisamente alla west coast americana di metà anni Sessanta (il risuonare del folk-rock dei Turtles in Captain Frustation), in altri momenti non viene disdegnato un netto approccio garage (Operation: Coroner). La componente più power-pop è riscontrabile in eco dei ThreeO’Clock declinati con un certo gusto pasely in un brano come Toxic & Lazy. Nella loro attività live i Temponauts possono vantare un concerto al Cavern di Liverpool. Attualmente stanno ultimando la lavorazione del nuovo album, documentata con video su Youtube, dai quali emerge, oltre ad un grande talento musicale, il profilo di una band che non disdegna un po’ di sana autoironia, a quanto pare merce alquanto rara di questi tempi. A chiudere la carrellata i Love Boat dalla Sardegna, da sempre terra fertile per la scena underground italiana. Con la prima uscita nel 2007, un singolo dal titolo Love Boat Song, salta subito all’orecchio una forte componente country-folk danzereccia e festailola che accompagna un po’ tutta la folta produzione della band. I due album su AlienSnatch (Imaginary Beatings Of Love e Love is Gone) ci offrono la parabola di un gruppo se non in ascesa, quantomeno desideroso di evolversi senza perdere la propria personalità partendo da un approccio versione Black Lips non sguaiati, per arrivare ora ad una sorta di college-rock non troppo patinato, ma sempre ricco di ritornelli che si imprimono nella memoria dopo l’ascolto di mezza canzone e chitarre di alto livello tecnico suonate con gusto. Quasi tutti i pezzi sono delle piccole gemme, ma, dato che lo spazio è tiranno ne consiglio uno, quello che mi ha fatto impazzire risentendo l’ultimo album: Modern Ties. A voi il giudizio.

da sinistra: Treehouse Society, Love Boat, Miss Chain & The Broken Heels, Highschool Lockers, Temponauts.


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tranquillamente

caos

e l i s a

intervista

a

m o r o

di Iana

Lunedì 21 Marzo 2011 – Bar della Biblioteca (PN) – ore 14:30 Riuscire a rendere esteticamente bello un istante è sinonimo di fotografia, come anche il realizzare rettangoli di realtà che, chi osserva, non si stanca di guardare. Tra i tanti volti cittadini che si nascondono dietro all’obiettivo si distingue quello di Elisa Moro, per bravura ed età: 21 anni compiuti da poco. Chi segue

la scena musicale pordenonese, l’avrà sicuramente intravista sottopalco con la sua reflex puntata all’insù, ma Elisa è anche ritratto, fotogiornalismo, divertimento, pazzia. Tutto per pura passione fotografica. Hai solo 21 anni e già sei una fotografa riconosciuta e affermata. Metà giornata in uno studio fotografico e l’altra metà con l’agenzia Press Photo

Lancia. Riesci quindi a guadagnarti da vivere mettendo in pratica la tua più grande passione? Non è un settore super pagato quello della fotografia, poi dipende dai vari ambiti, dal nome che hai, da quello che fai. Io riesco ad arrivare tranquillamente a fine mese, ma vivo ancora con i miei genitori e questo è un grande aiuto. Magari tocca fare più lavori contemporaneamente...


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Ci racconti un po’ come sei diventata la fotografa che sei adesso? Ci sono state persone fondamentali nel tuo percorso di crescita? Ho frequentato l’Istituto d’Arte a Cordenons (E. Galvani), ma lì ho solo potuto capire se poteva piacermi o meno la fotografia, non mi hanno insegnato di certo a lavorare. Durante l’estate della 3° superiore ho fatto uno stage in uno studio fotografico di Fiume Veneto, dove lavoro tuttora. Tra le persone fondamentali che mi hanno introdotto a quello che è il vero mondo della fotografia c’è il mio capo, colui che mi ha insegnato il 90% delle cose che so: dall’impostare un set, alle luci, ai soggetti… E con il tempo ho imparato a gestirmi nelle diverse applicazioni: matrimoni, servizi in studio, reportage in esterni. Grazie a tutto ciò ho iniziato a sperimentare e a mettere in pratica le varie tecniche, a divertirmi insomma. Se fai una cosa che ti piace, tutto risulta più semplice e divertente. Analogico o digitale? Quante e quali macchine fotografiche hai? La mia prima macchina fotografica è stata una reflex a pellicola di mio nonno. Ho iniziato quindi con l’analogico e il bianco e nero, e questa è una cosa che mi è sempre rimasta dentro. Lui mi ha semplicemente lasciato la macchina in mano. Poi ho avuto la fortuna che a scuola, se si finiva il lavoro velocemente, si potevano portare dei rullini a sviluppare... così ho avuto modo di avvicinarmi anche allo sviluppo. Purtroppo ora le esigenze lavorative richiedono il digitale, anche perché i tempi e i costi sono totalmente differenti rispetto alla pellicola. Se dovessi scegliere... la pellicola rimarrà sempre in un piccolo angolo nascosto dentro me, ma per lavorare scelgo indubbiamente il digitale. Nel lavoro guadagna chi arriva prima e sta al passo con i tempi. Possiedo tre reflex digitali, due professionali e una compatta, e 2 reflex a pellicola. Il digitale ha reso tutti fotografi, ma in ogni caso non è la macchina fotografica a fare di te un fotografo. Dando un’occhiata al tuo Flickr,

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La mia prima macchina fotografica è stata una reflex a pellicola di mio nonno. Ho iniziato quindi con l’analogico e il bianco e nero, e questa è una cosa che mi è sempre rimasta dentro.


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mi ha davvero incuriosito la sezione “Self Portrait”. C’è davvero di tutto! Ma quale, fra quelle già realizzate, sceglieresti come foto autorappresentativa? Tra quelle caricate ce n’è una che ho chiamato “Tranquillamente caos”: una doppia esposizione. La mia fotografia e quello che faccio... sono caos. Il fatto che poi risulti tutto ben fatto o ordinato è strano, in quanto per me non lo è. È questa la foto che più mi rappresenta, che penso mi appartenga di più... Un caos, tranquillo per gli altri, non per me. Non è la prima volta che il tuo nome appare su Iodio. Il numero zero infatti sventola su diverse pagine alcuni tuoi scatti a Capovilla e Slang For Drunk, e in questo numero sono tue le foto di Verdena e Rumatera. Filo conduttore: la musica, meglio se dal vivo. So infatti che uno dei rami in cui ti sei specializzata è quello dei concerti e degli eventi. Com’è nata questa passione? Che ruolo riveste la musica nella tua vita? Ho iniziato con i concerti per caso, quattro o cinque anni fa, con il Blues Festival a Pordenone. Era la prima volta che portavo la macchina fotografica ad un concerto ed ho iniziato a fare qualche foto... Da lì ho visto che la cosa mi

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Se dovessi scegliere... la pellicola rimarrà sempre in un piccolo angolo nascosto dentro me, ma per lavorare scelgo indubbiamente il digitale. in ogni caso, non è la macchina fotografica a fare di te un fotografo. divertiva e iniziava a piacermi. Uno dei primi concerti è stato quello degli Slang for Drunk, poi altre band di Pordenone. Il mio primo vero concerto è stato al Deposito Giordani, grazie ad un amico che mi ha fatta arrivare fino a sottopalco, con i Linea77. Ho iniziato a fare spesso fotografie e a farmi conoscere al Deposito. Di musica ne ascolto tutti i giorni: molto blues e jazz, a volte un po’ di rock. Lavorare per il Blues Festival è per me l’ideale! Una delle ultime attività ti vede coinvolta con il foto giornalismo (reportage): lavori con l’agenzia Press Photo Lancia per Il Gazzettino. E’ difficile come settore? Ti porta a spostarti spesso in tutta le regione? Io copro la zona di Pordenone con i servizi. Non sempre però il foto giornalismo è quello del fotografo che va agli eventi mondiali o alla caccia dello scoop, magari ti capita di andare a fotografare una semplice conferenza, una partita di calcio, tutto comunque sotto incarico. Corri sempre da una parte all’altra, è un lavoro in cui non esiste vacanza. Ultima domanda... prospettive per il futuro? Tutto ciò che riguarda la fotografia è bello per me. Il sogno nel cassetto non è tanto quello di avere uno studio fotografico mio, ma un lavoro in cui potermi dedicare esclusivamente al ritratto o lavorare per una grande agenzia e fare reportage. A fine intervista, la mia richiesta di scattare una foto assieme l’ha colta impreparata, ancor più quando le ho chiesto di scegliere come scattare questa foto e darle un senso. Ma alla fine ecco l’idea: una accanto all’altra, lei con la mano davanti agli occhi, io con la mano davanti alla bocca. Una copia incompleta di “non vedo, non sento, non parlo” privando alle rispettive professioni la cosa fondamentale: alla fotografa la vista, all’intervistatrice la parola. Io la interpreterei così: senza questa intervista non avrei potuto dare voce al suo sguardo.

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siamo tutti icone

P O P

Intervista a ZELLABY (GIUSEPPE COLLOVATI) di Simona Pancaro e Iana Lunedì 11 Aprile 2011 – Associazione Amici di Bambi (Porcia) - ore 19:00. Indovinello: tutti odiano farle, ma ciascuno di noi ne ha almeno una nel portafoglio. Cosa sono? Le fototessere! E per un’artista che si definisce POP la scelta di un elemento come la fototessera non è di certo casuale, anzi, direi del tutto azzeccata. Cosa c’è di più POPolare della fototessera? La storia di questi volti in miniatura risale alle origini della fotografia, ma l’idea di farne un’arte è una cosa che hanno pensato in pochi. E tra questa élite di creativi si distingue il gusto di Zellaby, artista tutto pordenonese, che se la spassa a modificare i visetti di amici e non, al ritmo di jazz e rock’n’roll. In che modo? Ingrandendoli, modificandoli, ricolorandoli e sovrastampando su essi dalle grafiche pubblicitarie, a semplici forme, alle vignette dei fumetti. Spesso anche in tempo reale dopo averle scattate di persona. Se poi l’icona ricorrente della sua arte è la maschera, viene da pensare che in questo modo lui cerchi di creare una maschera per ognuno di questi visetti. Ecco quindi come un oggetto per noi antipatico diventa a tratti ridicolo e autoironico. Se poi con esse si creano delle vere e proprie pareti di volti, in cui la gente gioca a riconoscersi, si mette in moto anche la questione del coinvolgimento. Partiamo dagli esordi. Come hai iniziato a fare arte? Cosa ti ha spinto e quali studi ti hanno portato a intraprendere questo percorso artistico? Il mio esordio è stato alle scuole medie: ho fatto alcuni manifesti in stile fumetto, con disegno. Successivamente al liceo scientifico ho realizzato alcune fanzine e una di queste capitò nelle mani di un illustratore-grafico pordenonese, Ugo Furlan, che mi disse: “Ragazzo, tu hai sbagliato scuola! Dovresti frequentare l’istituto d’arte perché lì riusciresti a sviluppare la tua dote”. Così riuscii a convincere i miei genitori ad iscrivermi all’istituto d’arte che, a quel tempo, non era ancora a Pordenone. Lì ho seguito un percorso artistico specifico in grafica pubblicitaria e fotografia e da allora ho continuato con le fanzine, poi con le copertine dei dischi, i manifesti dei concerti e molte cose legate alla grafica che negli anni ho più o meno sviluppato. Il discorso dei quadri e delle mostre, invece, è relativamente recente. Sappiamo che sei stato curatore della “Maratonina del Collage” negli anni passati... Di chi è l’idea di questa iniziativa? L’idea è partita contemporaneamente da me e da Enrico Sist, amico con cui condivido molte passioni, sia in ambito musicale che artistico: dalla letteratura, al fumetto, al cinema. Parlando di organizzare eventi presso Vastagamma, associazione di cui faccio parte ormai


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stimo moltissimo Rodriguez perchè è stato in grado di riadattare magnificamente il b-movie oppure potrei citare Lucio Fulci per quanto riguarda l’horror degli anni ‘80. Hitchock, invece, rimane sempre il maestro assoluto della suspense.

da molti anni, è saltata fuori quest’idea del collage in forma di maratona, gratuita e aperta a tutti! Ognuno poteva realizzare un lavoro personale o si poteva creare un’opera collettiva o a gruppi. Una specie di esperimento. La cosa interessante era data dal fatto che fosse aperta al pubblico, chiunque poteva vedere come procedeva e affiancare gli artisti con l’utilizzo degli strumenti in dotazione. Ci parli della tua abitudine di utilizzare la fototessera associandola alla grafica e al disegno? Le fototessere le ho sempre usate. Mi ricordo del marzo 1985, non avevo ancora 15 anni e frequentavo la salagiochi, quando un amico mi mostrò una fanzine con informazioni su gruppi musicali, fumetti... tornando a casa ho pensato di realizzarne una con ritagli, pennarelli, colla, macchina da scrivere! Già in quel mio “primo numero” avevo incollato fototessere con le nostre facce come elemento decorativo e da li l’ho sempre usato. Ci sono stati anche dei precessori in zona... Ad esempio nella copertina interna del primo LP dei Madness c’erano migliaia di fototessere. Poi anche in quello del Great Complotto, che nella copertina aveva tutta una serie di fototessere. Io ho iniziato da allora anche a collezionarle. Ricordo che andava-

mo il sabato pomeriggio in stazione a farci le foto: quattro pose diverse, anche con travestimenti, e poi le mettevo su queste fanzine. Hai parlato degli artisti del Great Complotto (GC)... Abbiamo visto che hai lavorato anche sulle loro immagini... Ho avuto l’occasione nel 2005 di realizzare la grafica di una réunion del GC al Deposito Giordani. Ho realizzato delle cartoline e i manifesti dell’iniziativa. Per fare questa grafica mi sono immerso per un mesetto nell’opera di Pier Mario Ciani, che è stato un personaggio veramente significativo per quanto riguarda la grafica underground e l’arte postale, e sfogliavo le fanzine da lui realizzate ascoltando il disco del GC e cercando di immedesimarmi in quel periodo che, marginalmente, avevo vissuto anche io. Poi, quando è stato presentato il CD, che raccoglie brani dei vecchi vinili, ho realizzato il manifesto per il lancio del CD. Per creare il manifesto e le grafiche del GC ti sei calato musicalmente nell’atmosfera di quegli anni. Tu sei anche dj... ma non commerciale, hai un gusto ed una scelta ben definita... Si, infatti ho due repertori: il primo, più movimentato, che va dagli anni ‘20 agli anni ‘50 e racchiude generi

Contatti: Flickr (http://www.flickr.com/photos/toymaster/) Facebook (http://www.facebook.com/zellaby)


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come il dixieland, la musica delle orchestre da ballo degli anni ‘20, il jazz più conosciuto, il rithm’n’blues, le orchestre di musica swing, fino agli albori del rock’n’roll degli anni ‘40 e ‘50. Il secondo, dedicato agli anni ‘60 e ‘70, con musica tratta da colonne sonore dei film: Morricone, Umiliani, Pregadio, … fino ai film poliziotteschi con le “musichette da inseguimento”. Un repertorio prevalentemente italiano. Per questo al posto della tua descrizione su Flickr c’è il testo della canzone “I’m old fashioned”? Infatti hai un’atmosfera che ti circonda creata dal tuo stile, delle tue immagini, dal tuo abbigliamento... Si, decisamente. La canzone fu portata al successo da Fred Astaire e mi piace tenerla come una sorta di “bandiera”... Mia madre, alle elementari, mi ha detto: <<Tu sei nato vecchio.>> Non saprei darti una spiegazione, ma allora mi sentivo proprio un pesce fuor d’acqua. Mio papà la mattina ascoltava Elvis Presley e per me la musica era quella. Nella tua opera ricorre sempre l’immagine della maschera. Cosa significa? È un altro punto di domanda a cui non saprei bene cosa rispondere. Ricordo però che durante il trasloco ho trovato la prima mascherina che mi regalò mia nonna quando ero alle elementari e che mettevo spesso. Poi, la passione per Zorro, da bambino, mi portava a riprodurre la famosa Z con i gessi sulla lavagna o sui vetri appannati... e questa Z è diventata quella di Zellaby. Di rimbalzo, la passione per la maschera e la Z, negli anni, l’ho vista in molte altre cose. Per esempio, quando è uscito il film Il favoloso mondo di Amelie, ho pensato: caspita questo film mi ha letto nel pensiero! In esso per altro c’erano anche i temi delle fototessere e dei nani da giardino, oltre a quello della maschera. L’idea della Hall of Fame, partita l’anno scorso, come è nata? Alcuni anni fa, per una mostra a Buttrio, un’anteprima Friuli Venezia Giulia sulle arti visive in cui ciascun curatore portava tre artisti, il mio curatore, Guido Comis,

mi propose di realizzare un collage veloce di immagini per una parete, poi eventualmente da intercambiare con altri quadri. Ho esposto in quell’occasione tre disegni che riproducono fototessere, ma come sfondo ho realizzato un mega-collage con le fototessere della mia collezione, ingrandendole e attaccandoci sopra pezzi di scotch e cose colorate è venuta una cosa carina. Tra l’altro è stata notata da un autore, Raynal Pellicer che stava realizzando un libro (Photobooth The art of the automatic portrait) sulle fototessere, sulla loro storia e sugli artisti che le hanno usate. A partire dal piccolo successo di quel mio lavoro ho pensato di farne uno nuovo, ma in maniera diversa. In occasione di Un’estate fa, manifestazione organizzata dall’associazione Amici di Bambi a Villa Correr di Porcia, ho pensato di fare un esperimento invitando un sacco di amici e conoscenti a cui avrei scattato una foto digitale in stile fototessera che in tempo reale acquisivo a computer, rielaboravo, sovrastampavo, correggevo e stampavo. L’unica cosa è che sono arrivate più di 120 persone e in un pomeriggio non sarei mai riuscito a finire tutto! Quindi lì è stato fatto solo il primo pannello utilizzando anche foto che avevo già. Il resto del lavoro l’ho finito piano piano: raccoglie diversi pannelli per un totale di 96 fototessere. La tua ispirazione POP c’è fin dalla nascita, ma come descriveresti la tua arte? Sicuramente POP è la parola giusta. Io non saprei fare un affresco e non dipingo ad olio. A me piace estrarre le immagini dagli oggetti che mi circondano... come possono essere una scatola di detersivo, una pubblicità, un cartone animato, ovvero tutte cose essenzialmente semplici o naturali, nulla di aulico; ma deve essere un qualcosa di ricercato (immagini meno recenti, le vecchie pubblicità degli anni ‘30, il fumetto,...), non scarti qualsiasi. Concludiamo questa ricca intervista chiedendoti un tuo pensiero sull’arte. Dal mio punto di vista ci sono diversi modi per definire un’opera: mi piace, non mi piace... Per me la migliore è quando il soggetto che sta visionando la raffigurazione, pensa: “Io questa composizione me la metterei in casa”. Sicuramente, in quel caso, l’artista ha suscitato un qualcosa. Dunque la mia soddisfazione più grande è sapere che quando una persona si sofferma sulle mie opere, che possono piacere o no, esse riescano a stimolare all’interno di ognuno un pensiero, o comunque, riescano a provocare una reazione, meglio se positiva! E la crew di Iodio non poteva farne a meno autocelebrandosi con una supercopertina firmata Zellaby. Deliziosamente pop!


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intervista a gianmaria testa e giuseppe battiston

il pitone ti prende le misure di Simona, Stefano e Giugi Mettiamo subito in chiaro una cosa: potrebbero sembrare l’ennesimo stereotipo della “strana coppia”, dei due che opposti che si completano a vicenda, ma sarebbe assolutamente fuorviante. Giuseppe Battiston e Gianmaria Testa sono due spiriti affini: tra di loro appaiono in armonia, per la visione delle cose e della vita, per l’umorismo, ma anche per la delicata malinconia che trasmettono con la loro arte. L’udinese Giuseppe Battiston ed il cuneese Gianmaria Testa, rispettivamente attore e cantautore, sono di certo due grandi artisti del nostro tempo. Erano a Pordenone per l’ultima replica del loro spettacolo “18.000 giorni – Il pitone”, dall’autore torinese Andrea Bajani e messo in scena da Alfonso Santagata. Il protagonista, Battiston, a 50 anni perde il suo lavoro, che gli viene soffiato da un collega più giovane. Il pitone è significativa metafora: il grosso serpente non aggredisce prima di aver preso le misure della vittima. Testa accompagna con musica e parole la messa in scena. I temi principali della pièce teatrale sono lavoro ed identità: perso il primo anche la seconda traballa pericolosamente. Prima di rientrare a teatro per prepararsi allo spettacolo, Gianmaria e Giuseppe ci hanno concesso una breve intervista, che è il gergo con cui in questo caso definiamo una chiacchierata amichevole tra un sorso di vino e svariate sigarette. Informali per inclinazione. Noi siamo fatti così; loro, anche. Noi di Iodio siamo in contatto con giovani artisti che, avendo necessità terrene, sono costretti a fare arte nel tempo libero. Voi invece siete riusciti a farne un mestiere. Come, siete stati dei miracolati? Giuseppe: Ci sono artisti che sono costretti a fare altri dei mestieri per fare arte. Io ho fatto un percorso molto simile a quello di un universitario. Ho fatto una scuola, e poi ho iniziato a lavorare, piano piano sono diventato indipendente. Erano altri anni, e c’erano altre possibilità, che davvero non ci sono più. Credo che proprio attraverso il lavoro, qualunque esso sia, uno si acquisti la propria indipendenza. Nei periodi in cui la vita era grama mi sono mantenuto con altri lavori. L’esigenza era quella. Se non potevo fare il mio lavoro perché era saltata un’estiva, facevo allestimenti pubblicitari. Non mi sono certo sentito deprezzato. Gianmaria: L’arte è una faccenda complicata. Se tu fai un lavoro che ti permette di assecondare la tua passione, misuri giorno per giorno il peso e l’importanza di quella passione per te. L’unico modo possibile è con la fatica. Se fai un lavoro qualunque, io ad esempio ho fatto il ferroviere per 25 anni, questo ti rende indipendente. Non devi fare delle cose che non ti corrispondono, non devi accettare compromessi. Io lasciavo alla mia passione tutto quello spazio che è la libertà. Ad un certo punto questa cosa è diventata predominante. Mi sono licenziato da ferroviere nel 2007, avevo quasi 50 anni. Direi che ho fatto un bella gavetta. Ma quando avete capito che quello che state facendo era il vostro vero “mestiere”? Gianmaria: Non c’è un momento in cui io penso che quello che

video dell’intervista realizzato da Giugi su www.iodiomagazine.it


spocchia nel giudicare i film. Gianmaria, il tuo lavoro invece è molto più apprezzato all’estero... Forse perché non capiscono le parole [mezzo secondo di sospensione, poi risate a crepapelle di Battiston]. Me lo sono sempre chiesto, la differenza è che io ho cominciato in Italia, ma il primo disco è stato prodotto in Francia. Preferisco cantare in Italia, ma mi capita di andare spessissimo all’estero. Quello che non faccio volentieri è fare televisione, e se non fai televisione in Italia sei fuori. Gli spazi di dignità nella televisione in Italia sono così esigui che non mi viene neanche voglia. Nel vostro spettacolo, il giovane che come un pitone prende le misure del protagonista e gli ruba il lavoro, vuole evidenziare anche un conflitto generazionale, tra chi ha un posto di lavoro e se lo vuole tenere, e chi invece lo cerca ed è disposto a tutto per ottenerlo? Giuseppe: questi sono i danni di una certa visione del mondo del lavoro. Io faccio

L’arte è una faccenda complicata. Se tu fai un lavoro che ti permette di assecondare la tua passione, misuri giorno per giorno il peso e l’importanza di quella passione per te. faccio valga la pena di essere monetizzato. Vivo due estremi: da un lato mi sembra assurdo monetizzare una canzone, dall’altro mi sembra che ogni mia canzone valga di più di quello che viene monetizzata. E quindi è un paradosso, per cui accetti le regole per quello che sono, diventa una legge di mercato. Per esempio questo lavoro è frutto di un incontro, di un’amicizia. E poi ci siamo telefonati. “La facciamo questa cosa insieme?”, non abbiamo mai detto: “Ma quanto ci rende?”. L’idea è nel progetto, il resto viene dalla tua credibilità. Giuseppe: Per quanto mi è stato possibile, e sono stato fortunato, ho cercato di non operare delle scelte tese solo al mantenimento. So benissimo che nel mio lavoro, e mi guardo bene dal criticare, sia necessario fare scelte non in linea con i suoi desideri per mandare avanti la propria famiglia. Non importa, l’importante è l’atteggiamento che hai nei confronti del tuo lavoro. Giuseppe, tu sei molto amato in Italia, ma all’estero? Sono stato ospite ai festival; una cosa che mi ha molto emozionato è successa l’anno scorso a Berlino: ho avuto un’accoglienza che non avrei mai immaginato. Ero lì per un film ma c’erano 2.000 persone che mi ricordavano ancora per Pane e Tulipani. Ho avuto un’accoglienza al limite del trionfale. Mi ha colpito molto. E ti dico di più: il nostro cinema è molto amato all’estero. C’è molta meno

l’attore, un mondo dove c’è una fortissima competizione, ma ho sempre pensato che qualsiasi lavoro tu possa fare è il risultato di un gruppo di lavoro, parlo di questo spettacolo come di un film. Il problema in cui ci troviamo in questo momento è una competitività vissuta, un homo homini lupus. Oltre che essere una visione profondamente diseducativa, mette in moto le cose peggiori di te. Nel lavoro ci dovrebbe essere solidarietà, e non cannibalismo. Gianmaria: In partenza c’era un ragionamento ed una scelta. Noi non volevamo che sul palco ci fosse un eroe vittima del sistema, ma una persona normale. Non è obbligatorio essere eroi per giustificare un condizione umanamente così degradante com’è perdere improvvisamente il posto di lavoro. Questa persona normale non se la prende con il sistema, se la prende con chi fisicamente gli ha soffiato il posto di lavoro. In questo sta la sua debolezza, ma anche il suo quotidiano eroismo: è l’umanità delle persone. Noi non siamo obbligati all’eroismo, noi viviamo ed abbiamo diritto ad una quantità di cose. La parabola di questa persona è di uno che all’inizio se la prende con uno, poi comincia a fare due più due, fa la sua piccola individuale rivolta e rifiuta. A quel punto non importa più chi gli ha portato via il lavoro. Si può essere persone comuni, normali, ordinarie, e ordinariamentepretendere una vita dignitosa. Arrivederci.


IODIO I l22 s o g/ GIULIOiurissevich no della ragione genera corti intervista a

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mauromerlino di Cliff Secord Nato a Bolzano e diplomato presso il Liceo Artistico ad indirizzo Grafico - Visivo della stessa città, Mauro Merlino è un giovane videomaker. Come molti di noi, in realtà come tutti prima o poi dovrebbero, prova a fare della sua passione una professione. Mauro ha scelto il cinema. Per eccellenza, metafora del sogno. Ciao Mauro, parlaci un po’ di te… Ciao sono Mauro Merlino, sono di Bolzano e studio a Verona. Frequento il Corso di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti Cignaroli, ho 24 anni e sono un testardo cronico. Perché la regia e in particolar modo la video arte? Ho trovato nel video una possibilità comunicativa molto efficace, moderna, ma soprattutto nelle mie corde. Esprimere qualcosa attraverso un mezzo molto vicino ad un senso che noi abbiamo, cioè la vista, ma che focalizza e isola un’azione, un evento o un singolo dettaglio, è eccezionale e affascinante. Mi fai un parallelo tra video arte e cortometraggi, sia dal punto di vista creativo che realizzativo? Sono due ambiti che utilizzano gli stessi strumenti, le stesse tecniche e gran parte della teoria filmica, ma sono distanti anni luce per quanto riguarda il resto. La video arte la identifico come cuore + cervello, invece la cinematografia come cervello + cuore, due elementi indispensabili per sopravvivere ma ben distinti, e che acquistano un’importanza differente a seconda che la precedenza venga data all’uno o all’altro. Puoi descrivermi i tuoi lavori partendo da La leggenda di San Giorgio, del 2007, al tuo ultimo progetto Fuori onda, del 2011? La leggenda di San Giorgio è un cortometraggio basato sulla leggenda del santo. È molto grezzo e semplice, però abbiamo affrontato il lavoro in maniera professionale, con la suddivisione di ruoli, riunioni di staff, allestimento di set, sessioni di montaggio congiunti. Sogno è composto da 4 video uniti da un filo conduttore, il sogno, inteso come viaggio mentale notturno. Io e il mio coinquilino, che quell’anno soffrivamo d’insonnia, abbiamo deciso di fare 4 sessioni di ripresa in 4 notti differenti. Il prodotto, assurdo e anche piuttosto brutto esteticamente,narra di un ragazzo che si risveglia in posti e situazioni differenti, sempre durante la notte. La denuncia dell’apocalisse è un testo scritto dal mio amico e coinquilino Enrico Giovanazzi, per una sua performance teatrale. Ho preso il testo e ci ho iniziato a

lavorare, ogni frase veniva trasformata in un’immagine. Il video poi, come risultato finale, è molto beckettiano. Il protagonista avvolto dal buio parla quasi freneticamente di una vicenda assurda che gli è accaduta. “Fuori onda” è un progetto accademico, creato durante un laboratorio di arti e mass media. Il concetto di base è la rappresentazione degli eccessi televisivi. Sono state scelte fotografie e non video per fermare l’istante esatto in cui questi avvenimenti accadono. Il lavoro è stato fatto da non più di dieci persone, io mi sono occupato del montaggio. Ci sono dei “miti” cinematografici a cui ti sei ispirato? Mi ispiro spesso alla grandezza sia narrativa che estetica di maestri del cinema come Stanley Kubrick o Sergio Leone, ma anche più vicini a noi come Guy Ritchie o Michel Gondry, più particolari ma con un grande senso estetico e di novità creativa. Domanda difficile: a quale dei tuoi lavori sei più affezionato? Beh, direi l’ultimo: Il sonno della ragione è il lavoro in team più bello e più affascinante che io abbia fatto. È stato affascinante sia pensarlo che realizzarlo. VIDEOGRAFIA - link su www.iodiomagazine.it 2006 “La leggenda di San Giorgio” premio sceneggiatura concorso U.P.A.D. Di Bolzano; 2008 “Sogno”; 2009 “Tumosa”; 2009 “pyramid song”; 2010 “La denuncia dell’apocalisse”; 2010 “Il sonno della ragione” proiettato presso la biblioteca civica di Rovereto durante l’evento “Cime contese”; 2011 “Fuori onda”


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di

Andrea Marcelli

ILLUSTRAZIONI DI ALESSANDRA PERIN

“Guardalo… Si sente proprio male!” Esclama la stagista, con la faccia incollata allo schermo. Non credo ci sia un termine più adatto per definirla: era una stagista prima e lo è tuttora, senza possibilità di appello. Certa gente non cambia affatto. Eccola che si toglie gli occhiali e pulisce le lenti con uno straccio ingrigito e sporco. Le indico il video e mi decido a prepararla al peggio: “Aspetta… vedi? Ora tossisce, ma tra un po’ sputerà sangue”. La stagista sgrana gli occhi, incredula. Fissa per qualche secondo la triste scena che si svolge come avevo predetto. Distoglie quindi lo sguardo e lo annega nello stesso fazzoletto con cui aveva pulito gli occhiali. Singhiozza come una poppante. Faccio spallucce e continuo la mia opera di montaggio. Non ho tempo da perdere a consolare una sbarbatella proveniente da chissà dove: oggi mi attendono numerosi impegni e, come se non bastasse, l’agenda continua a riempirsi di minuto in minuto. Piano americano, mezzo busto… infine dettaglio del rivolo di sangue che cola dalla bocca, rosso scuro come una mousse di lamponi. Poi, piano sequenza di grande effetto: i medici entrano nella stanza con le loro tute asettiche, come se la disinfezione dipendesse dal colore neutro degli abiti. Altra banalità: la pulizia nasce come esigenza estetica e solo dopo diventa un fatto clinico. Alcuni lo sorreggono, altri gli prestano le cure necessarie, infine lo conducono in un’altra sala, dove sarà sottoposto ad esami di laboratorio. Che diamine, sarà pure vecchio, ma ha una tempra d’acciaio: non c’è però forza nei suoi occhi…solo rassegnazione. Marta, che di solito mi dà le spalle lavorando all’altra scrivania, mi saluta con una pacca sulla spalla e mi porge un tazzone di caffè fumante. Poi si prende cura di quell’altra che non la smette più di rompere le scatole e le indica con delicatezza la porta del bagno. Scuoto la testa e sorseggio la bevanda, mentre con il cursore regolo la luminosità dell’inquadratura. Credo sia la cosa più buona che abbia bevuto da tre mesi a questa parte. Robusta di prima qualità e acqua che so essere purissima: un raro piacere in questi tempi tribolati. “Ha donato il suo corpo alla scienza” commenta Marta, che ora si è fermata accanto alla mia postazione. Scuoto ancora la testa: “Non alla scienza. No. Queste cose le conoscono bene, gli scienziati”. Marta s’acciglia, ma non le do tregua: “Ha donato il suo corpo alla stampa. Ci hanno mentito e per colpa di questa menzogna lui è spacciato. Lo sapeva, perciò ci ha chiesto di seguirlo fino alla fine. Per testimoniare che questo è stato”. Mi risponde: “Lo sai bene che ci accuseranno di lucrare sulla sua agonia”. Mi piace questa sua capacità di affrontare i problemi: li isola e li inquadra, sa astrarre dal contenuto dell’oggetto e lo considera come pura forma. Insomma, capiamoci: è lì, davanti ad uno che crepa in un video di qualità quasi amatoriale; c’è sangue ovunque e quei quattro bastardi non sono certo rassi-

curanti nei loro camici. Perfino il sottoscritto non nasconde un brivido quando gli infilano un ago nel braccio, per farlo star tranquillo: lo so bene io e lo sanno bene anche loro che si tratta solo d’un palliativo. Marta invece non guarda il filmato, ma fissa un qualche punto lontano ben al di là di esso: lo vede mentre si colloca al centro di una rete di contatti. Vi ritrova le reazioni del pubblico, le critiche dei nostri avversari, i discorsi dei politici... Il suo occhio naviga oltre, ed entra nelle case della gente: a tavola, mansueta nel suo pranzo domenicale, transita casualmente su una rete locale – una canale ignoto, concesso loro da un qualche errore di sintonizzazione del digitale terrestre. Marta li vede, mentre posano il piatto inorriditi. Vede il padre, moralmente impietrito, ma segretamente appagato da quella scena macabra che ne stimola alcune aree del cervello ancor preda di una brutalità ferina. Vede i bambini: i più grandi non capiscono cosa accade, mentre i fratellini si disinteressano totalmente ad un qualcosa che per loro non ha valore. Vede anche una madre, che ha sposato un debole per sentirsi forte nelle quattro mura di casa: indignata, dopo alcuni secondi di pausa, intima al coniuge di cambiar canale… tanto sa che a notte fonda, in tutta solitudine, potranno godersi entrambi la replica di mezzanotte. Insomma, vede un sacco di cose la mia Marta – e non a caso è la responsabile dell’ufficio stampa. Dà inoltre un contributo fondamentale alla linea editoriale e si preoccupa pure delle relazioni di marketing. Tutto ciò grazie ad una qualità rara, che io chiamerei a pieno titolo lungimiranza.


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l a

p o e s i a

Sia ben chiaro: io quella sua lungimiranza me la porterei a letto. Tuttavia tra noi c’è un rapporto d’altro genere, che mi pesa definire per esteso. Per farla breve, credo proprio che se restassimo soli in una stanza d’albergo, lasceremmo stare i convenevoli affettivi e ci metteremmo subito a discutere di indici d’ascolto e psicologia dell’acquirente. Già me l’immagino: sarebbe una gran serata e berremmo qualcosa di esotico – come il bourbon – seduti sul letto matrimoniale della suite in maglietta e calzini corti. Rigorosamente a strisce colorate. Infine, stanco ed alticcio, mi distenderei sul tappeto dell’ingresso, avvolto nel mio sacco a pelo da montagna; e dormirei un sonno tranquillo. É un buon punto, quello di Marta: romperanno le scatole e non ci risparmieranno le loro frecciatine caustiche nei confronti dell’editore. Poi toccherà a me vedermela con il panzone e finirà sicuramente male per tutti quanti… Qui, però, abbiamo un dovere che va oltre la banale difesa di una linea editoriale. La durezza delle immagini è commisurata alla necessità di informare su quanto accaduto – possibilmente nel tempo più breve. Le dico: “Noi non presentiamo la verità: presentiamo i fatti”. Il mio maestro lo ripeteva sempre: “La verità è un qualcosa di logico: in genere, una frase è sempre verificabile, ma ciò significa anche che c’è sempre il dubbio che sia falsa finché qualcuno non ci ficca il naso. I fatti, invece, parlano da soli. I fatti non sono veri: sono carne e ossa, sangue e tessuti. I fatti sono un corpo. Un corpo non è né vero né falso. C’è e basta. I fatti, ti ripeto, parlano da soli”. Furono proprio i fatti ad ucciderlo. Qualche anno fa, decisero di risparmiargli l’onore di diventare un martire del disastro che sarebbe accaduto di lì a poco. Morì prima di vedere le proprie ragioni confermate: lo tirarono giù dalle spese in un vicolo buio, vicino al locale dove andavamo sempre a bere l’ultimo. Bastardi. Fu allora che presi in mano la situazione, anzi, che tutti prendemmo in mano la situazione. Eravamo solo una redazione di provincia, ma avevamo tra le mani roba scottante. Credevano forse che quel locale, quel covo di dissidenti, avrebbe chiuso per timore d’altri delitti? Si sbagliavano: il ti-

la

caccia

di katrin

È il tempo del tramonto, il momento in cui si svegliano i ricordi. Tempi passati tornano a tormentare Gente nascosta che vuol dimenticare. Dolore e morte Cercan di tornare. Allora è follia, Visi di persone sconosciute Eppure molto amate… Grida di dolore mai sentite Ma comunque familiari… Il cielo si è tinto di rosso, Sangue di mille antenati ribolle in cielo Sangue di condannati innocenti… Ormai il tramonto è finito E la notte è scesa. Torna il silenzio, La morte è arrivata [la caccia è finita.]

iodio / estate 2011

I fatti non sono veri: sono carne e ossa, sangue e tessuti. I fatti sono un corpo. Un corpo non è né vero né falso. C’è e basta. I fatti, ti ripeto, parlano da soli tolare fece la sua fortuna proprio in quei mesi – e come dargli torto? Trasse un piccolo beneficio da quella tragedia indicibile. Non fummo forti a sufficienza per smuovere l’opinione pubblica del Paese, ma almeno eravamo preparati a fronteggiare il conflitto, le radiazioni e la crisi umanitaria che seguì di lì a poco i terribili eventi che devastarono la nostra piccola nazione. Fu così che, mentre lo Stato era allo sbando, qualcosa al confine orientale funzionava ancora: un paio d’uffici, una tipografia e due camionette dedicate alla distribuzione. Ben presto passammo all’azione, e ci concentrammo su ciò che sapevamo far meglio: stampammo volantini ed aggiornamenti sulle misure di sicurezza da adottare, organizzammo un bollettino dei dispersi e in breve ci ritrovammo addirittura a capo di numerose unità di soccorso, poiché eravamo tra i pochi a disporre di apparecchiature elettroniche completamente funzionanti. Ora le cose stanno tornando alla normalità, anche se la gente là fuori soffre ancora e senza dubbio ci vorranno anni affinché tutto si sistemi. Allora resterà solo la memoria e, se non saremo lì a rinverdirla, scomparirà anch’essa assieme agli ultimi di noi abbastanza fortunati da aver raggiunto un’età veneranda. Per adesso m’accontento d’esser tornato a fare il mio solito lavoro, con poche speranze ma ancor meno illusioni. A volte, forse, basta la consapevolezza d’aver fatto la cosa giusta. Bevo il caffè. Il caffè più buono del mondo. Brindo al mio maestro. É stato fortunato: s’è risparmiato la delusione di sapere quanto sia triste scoprire d’aver ragione.


iodio / estate 2011

io leggo / andrea passador 25

iodioistruzioni per l’uso l’estate è arrivata, iodio è con voi. Per superare tutte le difficoltà della stagione più calda dell’anno bastano iodio e questa guida. Una rivista, mille usi!

andrea passador


26 A musica / almost famous

iodio / estate 2011

put your pants in the air like you don’t care di Maura Piccin Eccoci qua puntuali come previsto: per i più distratti di voi che l’avessero perso, sullo scorso numero di Iodio avevo anticipato che avrei parlato della moda hip-hop per maschietti, rimasti probabilmente basiti dalla prospettiva di uscire di casa glitter/lustrinati e impauriti dal già affrontato glam rock. Parliamo allora in pillole di un’altra tendenza sempre molto in voga nelle passerelle di moda e nelle passeggiate in città,l’hiphop style, soffermandoci “solo” sull’aspetto fashion della questione, perché trattare l’argomento anche dal punto di vista delle innumerevoli influenze su costume, musica e design sarebbe bello ma decisamente oltre le 3000 battute a noi concesse (il direttore si riserva di diminuire ulteriormente le battute se non cominci ad affrontare l’argomento). Hip-hop è una corrente, anzi uno stile di vita, che fonda le sue radici nel Bronx dei favolosi anni ’80, anni di creatività e di sperimentazione che hanno sancito l’inizio della “nostra” era moderna. Anni di cui siamo tanto nostalgici, per la musica, per lo stile, per la libertà di inventare, sperimentare e creare tendenze (anche se a dirvi la verità le spalline e il risvolto le lascio volentieri nell’album dei ricordi). Ma veniamo a noi: come si riconosce un b-boy dal resto del mondo? Beh, non serve andare a scomodare Marky Mark e i suoi boxer Calvin in bella vista per capire di cosa parliamo (ragazze, per le più giovani di voi, consiglio una bella googlata di immagini di repertorio dell’amico Marky, oggi attore impegnato meglio conosciuto col nome di Mark Wahlberg). Sappiamo infatti che il jeans oversize portato a vita bassissima con l’intimo in bella vista, il catenone al collo, una maglia possibilmente ginnica, accompagnata da felpa con cappuccio e sneakers ai piedi (guerra tra baffo e 3 strisce sempre attuale) vi rende inevitabilmente seguaci di questa filosofia. Non è il mio compito analizzare il tipo di musica in oggetto, ma solo suggerirvi quanto sia facile e sempre attuale farsi stregare da una corrente musicale al punto di sentirsela, ma soprattutto portarsela addosso! Vi esorto però a non sconfinare nel “sagger”. Avete presente quei ragazzi che vanno in giro camminando come pinguini con i boxer aderenti completamente fuori dai pantaloni e con la cintura che inizia a stringere proprio a metà coscia? Ecco bene sappiate che negli Usa sono vietati perché causerebbero scompensi alla schiena e agli arti inferiori!!! Sperando di non aver annoiato le nostre ormai affezionatissime lettrici, vi lascio con un suggerimento: ragazze non snobbate la moda hip-hop, anzi cercatela e contaminatela con il vostro stile personale, perché se anche un mostro sacro come Chanel l’ha copiata nel ‘91 (vedi foto) allora significa che era è e sarà sempre molto, molto glamour. a sinistra, dall’alto: Busta Rhymes, Missy Elliot, Dj Shadow, Cypress Hill, Run DMC, Mark Wahlberg all’epoca della campagna Calvin Klein, modelli della linea di Commes de Garcon ispirata all’Hip Hop, completo e “scarpa-pistola”, entrambi di Gucci.


B musicaiodio / almost famous 27 / iodioetamo

iodio / estate 2011

AMORE AMORE, MA NO A MORE MAI.

Egregio Dottor Q, sono un ciclista amatore, ma ho subito un brutto infortunio che rischia di pregiudicare la mia vita sentimentale. Salendo di corsa sulla bici da corsa, ho calcolato male slancio e distanze, andando ad infrangere il cavallo dei pantaloni (e tutto il suo modesto ma pur sempre dignitoso contenuto) sul tubo orizzontale – volgarmente detto “ferro” - della mia due ruote. Visto che sei dottore, mi consigli un rimedio per riacquistare la virilità? Con stima,

Caro Dottor Q sono stata con un ragazzo che era convinto che qualsiasi cosa facessi fosse fatta in sua funzione parlava male di me e della nostra relazione con i suoi ed i miei amici arrivando anche a dire e a ripetere più volte che dipendevo da lui e che non riuscivo a staccarmene quando in realtà era lui a non riuscire a staccarsi da me pur sapendo di essere lui ad avere necessità della mia presenza come faccio a fargli capire che la nostra relazione avrebbe potuto funzionare benissimo se lui non fosse stato così egocentrico ed egoista? Flora

Guidobaldo

Siccome lui pensa di essere indispensabile per te e tu pensi di essere indispensabile per lui io dico che di indispensabile qui c’è solo la punteggiatura perciò impara che virgole e punti non sono solo le forme grezze con cui costruire gli emoticon ciao Flora non scrivermi mai più

Dottor Q, sei un cialtrone. Approfitti della sventure amorose dei giovani d’oggi per sfogarti delle frustrazioni e delle umiliazioni che hai subito in anni di sfighe affettive. E poi le tue risposte sono più noiose dei fondi di Alberoni sul Corriere. Tagliati i capelli e trovati un lavoro. Pasticcione. Pasqualia Pubblico questa dura missiva per dimostrare che rispetto le opinioni di tutti, anche se contengono offese gratuite contro la mia persone. Tornando a noi, ostile lettrice, ti ho subito riconosciuta. Lo so che sei tu, Natalia Aspesi, nascosta dietro ad un sofisticato pseudonimo. Per chi non lo sapesse, la Natalia cura (più o meno dal primo dopoguerra) la rubrica “Questioni di Cuore”, sul Venerdì di Repubblica. Senti il fiato sul collo, eh Nat?

Massima solidarietà per il povero Guidobaldo, da tutti coloro che hanno vissuto disavventure del genere. Magari in pubblico. Magari proprio davanti alla tipa che volevi impressionare con delle improbabili doti atletiche. E che invece è rimasta impressionata solo dal sordo rumore tipo schiaccianoci. Guidobaldo non disperarti, e unisciti anche tu alla Farinelli Posse!

Gentile Dottor Q, sul posto di lavoro ho conosciuto un ragazzo che mi piace molto. Ovviamente non posso farmi vedere con lui perchè non sarebbe professionale, così ci parlo di sfuggita quando lo incrocio. Mi ha invitato a casa sua il prossimo week end, per una serata pizza-film-gelato. Mi piace tanto, ma non vorrei mettermi nei guai, anche perchè lui verrà presto trasferito e non voglio soffrire; lui dice che è una serata “innocente”, ma non so... secondo te se accetto faccio bene o male? Buby Cara Buby, una grande differenza tra uomini e donne è la capacità linguistica. Voi donne nell’esprimervi siete chiare e, scusami, anche un po’ noiose; tendete ad usare parole precise, senza ambiguità, e a voler sempre puntualizzare. Noi uomini siamo molto più creativi e fantasiosi, e troviamo mille modi di esprimere i nostri pensieri. Ad esempio, in un determinato contesto, le frasi “ti porto la borsa della spesa”, “apprezzo molto il tuo punto di vista”, “dovrei prestarti la trilogia di Stieg Larsson” e “credo che investire nell’immobile resti ancora l’unica soluzione” per noi sono tutte parafrasi di “voglio trombarti”. Cara Buby, pensa a quanto ti piace e a quanto sei pronta a rischiare, e poi agisci di conseguenza. Un abbraccio.

inviate le vostre domande al dottor q all’indirizzo dottorq.iodio@gmail.com


A musica / almost famous

iodio / estate 2011


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