Il Sole nel Panettone

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Il Sole nel Panettone Diego Nuzzo per Donatella Bernabò Silorata


Avere un amico che scrive un racconto per te è un dono del cielo. Grazie Diego, sedicente scrittore, amico straordinario.


Racconto di Diego Nuzzo per DBS, Interpretato da Marialuisa Firpo e Diego Nuzzo in occasione dell’incontro a sorpresa organizzato dagli amici con Valentina Napolitano presso Igienica Meridionale i l 17 dicembre 2014 con Donatella e I Panettoni del Sole



Il Sole nel Panettone Diego Nuzzo per Donatella Bernabò Silorata

Ho avuto la fortuna di non vivere mai un Natale come tutti quanti gli altri: ciò che per le mie amichette era scontato per noi era “assolutamente fuori discussione”. Mio padre era un severo oppositore di ogni consuetudine, di ogni abitudine e, in fin dei conti, la sua non era banale eccentricità o vieto anticonformismo: era un vero e proprio snobismo. Vistoso o bizzarro, eccessivo o stravagante, il suo era uno snobismo schietto e sentito. E il Natale il suo avamposto più fiero, il baluardo su cui non si sarebbe mai infranta la sua singolarità. Il giorno di Natale, come i giorni precedenti e successivi, dovevano scivolare via come tutti gli altri. Ma dopo un po’, diventati grandi mio fratello e io, cominciammo a reclamare i nostri regali, il cenone e tutte le altre amenità che appartengono alle feste. Fu così che mio padre decise che quell’anno anche noi avremmo avuto il nostro natale. Ma non a dicembre. Ad agosto. Il 12 di agosto per la precisione. Mio padre, seguendo non so bene quale perverso disegno, aveva deciso che quello poteva essere un buon giorno per festeggiare. Noi non andavamo neanche in vacanza come tutti quanti gli altri. Come i Tramontano i vicini di casa, come Maddalena la mia compagna di banco, come “la bizzoca”, la collega d’ufficio di mia madre che in casa nostra non ha mai goduto del piacere di un patronimico. La casa a Scalea o la villetta a Baia Domizia era una semplice eresia per mio padre. “I cafoni vanno in vacanza!” decretava ogni qual volta timidamente proponevamo delle mete balneari. La villeggiatura consisteva in un viaggio nelle capitali europee di due settimane a giugno una volta finita la scuola e un altro a settembre prima che, il 1 ottobre, ricominciasse. Di conseguenza i mesi


di luglio e agosto li passavamo rigorosamente in città nella casa di viale Elena: questo quarant’anni prima che diventasse di moda restare d’estate in città. Ad agosto Napoli era letteralmente deserta: e noi festeggiavamo il Natale! Facevamo l’albero, incartavamo i regali e ce li scambiavamo. L’albero era un abete vero che mio padre curava sul terrazzo amorevolmente per tutto l’anno cercando di tenerlo lontano dal sole e dal calore eccessivo e venendo ripagato dalla conifera con una tenacia ammirevole. Le vongole per lo spaghetto erano di facile reperibilità, il cavolo per l’insalata di rinforzo era appannaggio di Ciro il fruttivendolo, l’unico in città in grado di trovare le ciliegie a dicembre e le castagne a giugno, il capitone non piaceva a nessuno in casa per cui nessuno, in casa, si curava della sua assenza. Ma l’unico, vero, spinoso problema era rappresentato dal panettone. A nessuno di noi piacevano i dolci secchi della tradizione: mustacciuoli, roccocò e susamielli erano chiamati “i tre assassini” da mio padre dopo che per due anni di seguito un pasticcino particolarmente granitico gli spezzò prima un incisivo e poi un molare. Per cui l’unico dessert eletto in casa, nonostante il nonno con borbonico disprezzo lo definisse “lo sparecchio sabaudo”, fu il panettone. La discussione si dipanò per giorni e non si dimostrò incruenta: mio fratello proponeva la pastiera che fu però bocciata da mia madre che la riteneva esclusivamente un dolce pasquale. “Ne’ scusate, facciamo natale sotto ferragosto e voi vi rizzelate se propongo la pastiera?”. Ma non ci fu verso. Perché il fatto era che mio padre, ad onta della sua eccentricità, su certe cose era un uomo all’antica, un conservatore autentico in fatto di riti. Il cenone poteva anche essere fatto ad agosto ma le tradizioni andavano rispettate. A cena pretendeva lo spaghetto a vongole e la spigola lessa e per il “pranzo di Natale” aveva barattato i tagliolini in brodo solo perché mia madre aveva trovato su un vecchio libro di Marotta l’indicazione che il giorno di Natale a pranzo si


mangiavano gli ziti spezzati con il ragù. Che pur non essendo una pietanza propriamente estiva, ciò nondimeno erano maggiormente edibili con 38 gradi all’ombra rispetto al brodo bollente. Il panettone invece non si trovava in nessun modo. Ad agosto nessuna boulangerie trattava più (o ancora, a seconda dei punti di vista) né Motta né tampoco Alemagna. La risposta era sempre la stessa. “Dotto’ e vuje ‘o vulite ‘o mese aùsto?” Ma mio padre non si dava per vinto. Cominciò a chiedere a tutti gli amici, a consultare ogni pasticciere della città, qualsiasi grossista del circondario fino a che la sua vita non incrociò quella di don Anacleto Donnarumma. Costui non era un semplice rappresentante. Era il monopolista assoluto, il tetragono esclusivista, il più tenace avversario del libero mercato nel campo dei pistacchi di Bronte in Campania. Chiunque aspirasse a creare un biancomangiare, una cupola al cioccolato o anche una semplice bavarese doveva passare per questo omino che, sebbene fosse originario di San Sebastiano al Vesuvio, aveva assunto sembianze e cadenze di un vero etneo. Capelli impomatati, baffetto sottile e panciotto, sembrava la caricatura fatta da un vecchio attore di vaudeville del personaggio di Don Lolo’ Zirafa. Il suo nome era stato fatto a mio padre da Salvatore Ruoppolo, il pasticciere che aveva il laboratorio alla Torretta. “Prufesso’ don Anacleto vi può trovare di tutto. Non gli chiedete mai come, ma lui può.” Don Anacleto non aveva il telefono. O forse non amava fornire il suo recapito ai clienti. Era lui che passava dai bottegai a scadenze fisse, scriveva l’ordine e lo evadeva con una precisione tutt’affatto mediterranea. Il 25 luglio sarebbe passato da Tonino Liccardo, che vendeva le “ciociole” a Montesanto, a ordinare il riassortimento per dopo le vacanze estive. Mio padre passò quindi la mattina di quel sabato afoso alternando la


snocciolatura di olive dolci di Spagna con lo schiacciamento di gusci di anacardi, aspettando di veder varcare la soglia della piccola botteguccia dall’esile figura di don Anacleto Donnarumma. “Prufesso’ vuje vulite ‘nu panettone vero, anzi migliore di quelli che si trovano a dicembre? Tale e quale a quelli che vi mangiate a Milano (con rispetto parlando) anzi migliore? E lo volete ‘o mese aùsto? E che problema c’è? Voi dovete solo andare dal mio amico Costabile Catuogno meglio noto come “Pietto ‘e palummo”. Si vuje ce jate nun turnate ‘cchiù!” E fece scivolare nel taschino della camicia madida di sudore di mio padre il suo biglietto da visita su cui era solo scritto “Anacleto V. Donnarumma – direttore generale”. Senza indirizzo, senza recapito telefonico, senza alcuna indicazione della presunta ditta di cui don Anacleto “V.” avrebbe avuto il prestigioso ruolo dirigenziale. “Portategli i miei saluti. Farà qualunque cosa.” Fu così che tutta la famiglia unita fece l’unica gita al mare di quell’estate andando nella Lancia Fulvia berlina 1300 rigorosamente verde pistacchio, retroattivo omaggio a don Anacleto, a Castellabate nel Cilento per entrare nel mondo fatato di Costabile Catuogno detto “Pietto ‘e palummo”. Nel suo laboratorio al centro del vecchio paese arrivammo seguendo non le inesistenti indicazioni stradali ma il profumo che si spandeva nei vicoli. Il suo panettone, che faceva tutto l’anno “perché le cose buone non hanno stagione”, era un’esplosione di profumi, di sapori e anche di colori. Una pasta fragrante con il cedro frullato, perché dalle parti nostre spesso quei pezzettini di frutta candita vengono sputati “perché siamo ‘nu poco fisimosi e allora io li frullo insieme all’impasto così rimane il profumo ma non il fastidio”, l’uvetta nera e anche quella bianca “ché a me mi piace di più non mi chiedete perché”, la scorza d’arancia ma anche le noci, le mandorle caramellate e la cannella.


“Poi se venite a novembre vi faccio assaggiare quello con le castagne di Montella. Quelle vere non quelle faveze…”. La profezia di don Anacleto si avverò nel breve volgere di mezz’ora. Giusto il tempo di assaggiare due dei panettoni artigianali di Costabile Catuogno detto “Pietto ‘e palummo”. Quell’estate abbiamo festeggiato il Natale il 12 di agosto con tutti i sentimenti. Ma quella fu l’ultima estate passata in città. Dall’anno successivo non reclamammo più i regali sotto l’albero, il cenone e l’insalata di rinforzo (che peraltro per dirla tutta non mi ha mai entusiasmato). Da quella volta mio padre capì, senza bisogno di una rivolta popolare, che a volte si può fare un passo indietro guadagnandoci qualcosa. E, sua sponte, prese questa casa alla Madonna della Scala a Castellabate che da trentacinque anni continuiamo ad affittare per i mesi di luglio e agosto anche adesso che mio padre non c’è più. Dove ogni venerdì, per santificare il sabato che era il giorno preferito da mio padre, si fa colazione con un panettone diverso. Ogni giorno più buono. Perché come dice Rosario Catuogno, il figlio del compianto Costabile detto “Pietto ‘e palummo”, “le cose buone non hanno stagione. E non hanno neanche tempo”.


Impaginazione a cura di Irene Bernabò Silorata Immagine di copertina: Acquerello di Carlo Olivari




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