Stefano Maglia
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z 350 problemi, 350 soluzioni
Terza edizione integralmente riveduta
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z 350 problemi, 350 soluzioni Terza edizione integralmente riveduta @ 2012 Irnerio Editore tutti i diritti sono riservati
Finito di stampare nel mese di Luglio 2012 da Associazione Padre Monti - Saronno (VA) Printed in Italy
“This land is your land” Woody Guthrie
VII
Premessa
Nel febbraio del 2009 uscì la prima edizione de “La gestione dei rifiuti dalla A alla Z”, che inaugurò l’attività editoriale di Irnerio Editore. Questa nuova edizione (che raccoglie quasi 200 casi in più rispetto ad allora!) esce in un momento di grande fermento nella normativa italiana ed europea del settore. In particolare il volume raccoglie alcuni dei casi trattati dal mio Studio di consulenze legali ambientali (www.studiomaglia.it) in questi ultimi 6 anni “post TUA”, segno inequivocabile di una richiesta di chiarezza e di autorevolezza sempre più avvertita. Si pensi solo a quante cose sono cambiate in questi ultimi tre anni: la nuova Dir. 98/2008/ CE, il quarto correttivo (D.L.vo 205/10) che la recepì, la “parabola” del SISTRI giunta probabilmente al capolinea ancor prima di nascere, le discipline di micro e macro livello (con le relative interpretazioni giurisprudenziali) su sottoprodotti ed EoW, intermediari e commercianti, trasporto transfrontaliero ed ADR, rifiuti pericolosi, terre e rocce, rottami ferrosi, ecc., per non parlare delle numerosissime “incompiute” che caratterizzano il complesso e disarticolato panorama della normativa italiana sui rifiuti. Gestione dei rifiuti vista non solo come un coacervo di obblighi ed adempimenti (si veda anche il recente D.L.vo “231-ambiente”), ma anche come una opportunità: questa è la vision che dovrebbe guidare legislatore, operatori e P.A., ma molto spesso non accade così. Si pensi per esempio allo stesso ruolo delle P.A. che – cercando di passare da una tutela formale ad una sostanziale dell’ambiente – dovrebbe superare l’attuale sistema di eccessiva burocratizzazione del sistema industriale-ambientale (quando non addirittura di amministrativazione del diritto penale dell’ambiente: vedasi per esempio il comma 4 dell’art. 256 del T.U.A. che punisce penalmente chi non adempie ad una “prescrizione” amministrativa contenuta in una autorizzazione), per assurgere ad un ruolo propositivo e maggiormente sensibile e responsabilizzato nella corretta gestione dei rifiuti, per esempio attraverso l’istituto della “preparazione per il riutilizzo”, potenziale importante strumento in visione green economy (e green job), attualmente in fase di stand by in attesa di un decreto ministeriale che sarebbe dovuto entrare in vigore entro il giugno del 2011! Rammento, a tal proposito, lo stesso obiettivo del Vertice di Rio +20 di investire nella gestione sostenibile delle risorse, soffermandosi in particolare sul punto 64 della Risoluzione del Parlamento europeo del 29 settembre 2011, che evidenzia come “una buona gestione dei rifiuti non solo riduce al minimo l’impatto ambientale, ma rappresenta anche una fonte di materiali riutilizzabili e riciclati e di posti di lavoro”, riferendosi in particolare proprio al ruolo delle pubbliche amministrazioni in questo processo. In chiusura permettetemi di parafrasare e far nostro un famoso slogan assolutamente attuale e condivisibile: “se non ora…quando?” Stefano Maglia stefano.maglia@tuttoambiente.it www.tuttoambiente.it Piacenza, luglio 2012.
IX
Indice
Abbandono Rifiuti 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Quando si configura un abbandono di rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quali sono le caratteristiche e gli obblighi relativi alla rimozione dei rifiuti abbandonati? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qual è la differenza tra l’ordine di rimozione e quello di bonifica? . . . . . . . . . . . . . . Quali sono le sanzioni previste? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Chi è il soggetto tenuto alla rimozione dei rifiuti abbandonati? . . . . . . . . . . . . . . . . . Può configurarsi in capo al proprietario di un fondo l’obbligo di recinzione per evitare che terzi vi abbandonino rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1 1 2 3 4 5
Albo gestori ambientali 7. 8. 9. 10.
11. 12. 13.
Quali imprese sono tenute ad iscriversi all’Albo Gestori Ambientali? . . . . . . . . . . . . . 6 Quando è obbligatoria l’iscrizione secondo le procedure semplificate per il trasporto dei propri rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 Qual è la disciplina per il rinnovo dell’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Per effetto delle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10 le imprese iscritte in “semplificata” anteriormente al 14 aprile 2008 dovevano aggiornare l’iscrizione entro il 27 dicembre 2011: quali sono le conseguenze in caso di omesso aggiornamento? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 In caso di cessione di un ramo d’azienda è necessario rinnovare l’iscrizione all’Albo Gestori? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8 L’impresa straniera che esercita solo il trasporto transfrontaliero di rifiuti ha l’obbligo di iscrizione all’Albo Gestori Ambientali? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 In quale categoria deve iscriversi una ditta che ha avuto in appalto da un Comune il servizio di prelievo, trasporto e conferimento di oli e grassi commestibili (cer. 20.01.25) prodotti dalle utenze domestiche? . . . . . . . . . . . . . . . . . 10 Amianto
14. 15.
Quale è la disciplina applicabile ai rifiuti contenenti amianto? . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Come sono smaltiti i rifiuti contenenti amianto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
X
16.
Nel caso di un’azienda che esegue interventi di manutenzione e sostituzione delle condotte in fibro-cemento, quali adempimenti deve affrontare per ciò che concerne la sicurezza del lavoro? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 Attività ambulanti
17.
Che disciplina si applica alle attività ambulanti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 Autorizzazioni
18. 19. 20.
21.
22. 23. 24.
25. 26.
Nell’ambito della gestione dei rifiuti, quali sono le attività soggette ad autorizzazione ordinaria? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cosa accade in caso di “silenzio” della Pubblica Amministrazione, a seguito dell’attivazione di un procedimento amministrativo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . Un consorzio di bonifica, in base a quale titolo o autorizzazione può continuare ad esercitare, in via ordinaria e regolare, la raccolta ed il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi, il deposito ed il recupero di inerti da demolizione, la bonifica di manufatti e/o parte di fabbricati contenenti amianto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La compatibilità dell’attività di gestione dei rifiuti di una ditta iscritta in procedura semplificata va accertata anche in riferimento agli strumenti urbanistici o ai vincoli di pianificazione vigenti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le condanne penali sono ostative ai rinnovi autorizzatori della gestione rifiuti? . . . In caso di rinnovo delle autorizzazioni qual è la procedura da seguire? . . . . . . . . . . Gli impianti autorizzati in procedura ordinaria ex art. 208 possono accettare solo trasportatori con autorizzazione ordinaria in Cat. 1 se urbani o 4 e 5 se speciali ma non, ad esempio, trasportatori in cat. 2? . . . . . . . . . . Sussiste l’obbligo di verifica della correttezza delle autorizzazioni tra soggetti legati nella gestione dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La P.A. può modificare unilateralmente l’autorizzazione rilasciata ex art. 208? . . . .
16 18
19 20 21 24 25 26 27
Biogas e biomasse 27. 28.
29. 30.
Le biomasse sono rifiuti o no? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nella prospettiva di utilizzare la biomassa come combustibile proveniente dal circuito Rilegno, sono utilizzabili le biomasse individuate dai codici CER 03.01.05 – 15.01.03 – 17.02.01 – 19.12.07 – 20.01.38? L’energia prodotta dà diritto al riconoscimento delle incentivazioni riservate agli impianti IAFR? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come deve essere considerata la pollina destinata alla produzione di biogas? . . . . . . Paglia, sfalci e potature destinati alla produzione di energia da biomasse sono da considerare rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
28
28 29 30
Indice
XI
Bonifica siti inquinati 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40.
Cosa si intende per bonifica dei siti inquinati? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quali sono le procedure amministrative prescritte per procedere alla bonifica? . . . . . . Quali modifiche ha apportato il D.L.vo 4/08? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quali novità ha introdotto il D.L. 201/11, convertito dalla legge 214/11? . . . . . . . Alcune responsabilità possono ricadere anche sul soggetto che succede nella titolarità di un diritto reale ovvero nel possesso, al responsabile dell’abbandono? . . . Come è possibile individuare il corretto momento consumativo del reato di omessa bonifica? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qual è il destino dei materiali provenienti da un sito sottoposto a bonifica, in particolare da un punto vendita carburante? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qual è la disciplina prevista per l’utilizzo delle terre e rocce da scavo per il ripristino di un sito contaminato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In caso di aree contaminate di piccole dimensioni quali sono le procedure da seguire? Quali le responsabilità del proprietario del fondo? . . . . . . . . . . . . . . . . . In caso di contaminazioni pregresse è possibile imporre all’attuale proprietario la bonifica dell’area? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
31 31 33 33 34 34 35 36 37 38
CSS 41. 42.
Che cosa si intende per Combustibile solido secondario? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 A seguito delle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10 qual è il regime autorizzatorio per l’utilizzo dell’ormai abrogato CDR? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 Centri di raccolta
43. 44. 45. 46. 47. 48. 49.
50.
Qual è l’attuale disciplina di riferimento per i centri di raccolta dei rifiuti urbani? . . 41 Quali sono i compiti e le responsabilità del personale addetto ad un centro di raccolta? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 Quali documenti vanno compilati per il trasferimento verso i luoghi di destino? . . . 44 Cosa s’intende per bilanci volumetrici e quali sono i documenti da compilare? . . . . . 44 È possibile il conferimento dell’indifferenziato urbano nel centro di raccolta a seguito di apposita delibera del Comune? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 È previsto un regime di esenzione del formulario per la gestione del servizio pubblico di raccolta – trasporto dei RU dalle piazzole ecologiche? . . . . . . . . . 45 Se il trasporto dei rifiuti urbani dal territorio (raccolta domiciliare) al centro di raccolta viene effettuato da ditte in subappalto per conto del gestore del servizio pubblico necessita di formulario? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 Se il trasporto dei rifiuti urbani viene effettuato da enti e imprese aventi sede legale nel comune oggetto di raccolta e tali rifiuti vengono conferiti nel centro di raccolta, deve essere accompagnato dal formulario e dall’allegato 1a o può avvenire senza formulario? Se la ditta dovesse presentare il formulario, cosa si deve indicare nel campo del formulario destinato a “rifiuto destinato a”? . . . . . . . . . . 47
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
XII
51. 52.
53.
54.
L’ente gestore del centro di raccolta ha l’obbligo di compilare il registro di carico e scarico? E il registro degli intermediari (Mod. B)? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nel registro (compilato dall’ente gestore) occorre registrare in uscita tutti i formulari (allegato 1 B). Per integrare il registro è necessario indicare, oltre al n. del formulario, anche il n. dell’allegato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I rifiuti in entrata provenienti dalle utenze non domestiche (allegato 1 a) devono essere registrati sul registro di carico e scarico? Per integrare il registro all’operazione di carico deve essere indicato anche il numero dell’allegato? . . È possibile conferire presso un CdR i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
48 49 49 50
CER (Catalogo Europeo Rifiuti) 55. 56. 57. 58. 59. 60.
Cos’è il Catalogo Europeo dei Rifiuti e quale la sua funzione? . . . . . . . . . . . . . . . . Come si procede alla scelta del codice CER? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cosa accade in caso di erronea attribuzione per assenza di analisi? . . . . . . . . . . . . Qual è la procedura corretta per verificare se un rifiuto deve essere classificato come pericoloso? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’elencazione dei CER è esaustiva di tutte le tipologie di rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . È possibile attribuire un codice CER adattandolo all’attività economica? . . . . . . . . .
52 52 53 54 54 55
Compost 61. 62.
63.
64.
Qual è la nozione di compost? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In un impianto di compostaggio, come deve essere gestito il sovvallo, inteso quale residuo della vagliatura del compostaggio, se reimpiegato tal quale nell’impianto stesso e senza modifica alcuna del processo di produzione? . . . . . Può un imprenditore agricolo, che ha un vivaio in area agricola e che vuole, sempre nello stesso sito, recuperare il verde che deriva dalla sua attività, realizzare un impianto di compostaggio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quali sono le norme tecniche applicabili per ottenere un compost? . . . . . . . . . . . . . .
56 58 58 59
Deposito temporaneo 65. 66. 67. 68. 69.
Come si configura il deposito temporaneo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Esistono delle norme tecniche preordinate alla disciplina del deposito temporaneo? . . Come ci si deve comportare in merito al deposito di eventuali sostanze pericolose contenute nei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come deve avvenire la corretta gestione del deposito temporaneo dei rifiuti a bordo delle navi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il deposito temporaneo deve essere effettuato dal produttore dei rifiuti o può anche avvenire ad opera di un’impresa di pulizia industriale? . . . . . . . . . . . . .
60 61 61 62 62
Indice
70.
71. 72. 73.
XIII
Ai sensi del D.L.vo 152/06 oggi vigente, è possibile affidare la gestione del deposito temporaneo di rifiuti ad un soggetto terzo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cosa si intende per luogo di produzione dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Com’è realizzabile il deposito temporaneo dei rifiuti agricoli? . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dove è realizzabile il deposito temporaneo dei rifiuti derivanti da attività da manutenzione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
63 65 65 66
Discariche 74. 75.
76.
77. 78. 79. 80. 81.
82. 83. 84.
Qual è la corretta gestione dei rifiuti in ingresso in discarica? . . . . . . . . . . . . . . . . Come si configura una discarica abusiva e che differenze ci sono con il divieto di abbandono? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come deve essere richiesta l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione di una discarica per inerti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qual è la definizione di rifiuto inerte? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quali sono le norme che descrivono i criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica? . Quali sono gli obblighi del detentore del rifiuto e del gestore della discarica? . . . . . . Qual è il criterio distintivo tra produttore dei rifiuti e gestore della discarica? . . . . . È legittima una prassi che scinde in due fasi – documentale e analitica – la caratterizzazione del rifiuto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Esiste qualche legame, tra la Direttiva Seveso e la normativa sulle discariche? . . . . . Chi è soggetto al pagamento dell’Ecotassa? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come si calcola l’Ecotassa? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
67 67 68 69 69 69 70 71 72 72 73
Dragaggi 85.
Qual è la disciplina per il trattamento dei materiali di dragaggio di aree portuali e marino-costiere nei siti di bonifica di interesse nazionale? . . . . . . . . . . . . 74 End of waste
86. 87. 88.
Quando un rifiuto cessa di essere tale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 76 Quali sono i trattamenti in base ai quali un rifiuto cessa di essere tale? . . . . . . . . . 76 Qual è il rapporto tra MPS ed EoW? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 Estetiste
89.
Come sono gestiti i rifiuti derivanti dall’attività di estetista? . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
XIV
Fanghi 90. 91. 92.
93.
94.
Qual è in genere la disciplina da applicare ai fanghi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quale codice CER deve essere utilizzato durante le fasi di miscelazione di fanghi biologici? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . È possibile effettuare con impianti mobili mod. TRI 1611 FP una miscelazione meccanica di fanghi ed inerti in modo da poter produrre una variazione di concentrazione di inquinanti presenti nei fanghi tali da renderli meno pericolosi, e quindi smaltibili come inerti in discariche o per il riutilizzo per rifiuti non pericolosi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qual è la disciplina da applicare ad un impianto di macellazione che produce fanghi di depurazione poi stoccati direttamente all’interno dell’area di proprietà? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . È possibile effettuare operazioni di attivazione impianti di depurazione tramite l’inoculo di fango biologico prelevato da un altro impianto senza che si configuri un’attività di smaltimento rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
79 79
80 81 81
Imballaggi Cosa si intende per imballaggio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quali sono i soggetti tenuti ad iscriversi al CONAI? Quali obblighi impone tale adesione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97. Chi è il produttore di imballaggi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98. Chi è l’utilizzatore di imballaggi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99. A quali oneri deve adempiere il produttore di imballaggi che non intenda aderire al CONAI? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100. È consentito il riutilizzo degli imballaggi ed in particolare di fusti vuoti che contenevano sostanze pericolose? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101. Se un’azienda che rifornisce i negozi di ortofrutta volesse aggiungere anche il servizio di raccolta degli imballaggi restituiti dai commercianti per riutilizzarli la volta successiva, gli imballaggi da ritirare sarebbero da considerarsi rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102. Quali sono gli aspetti sanzionatori? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95.
83
96.
84 85 85 86 86
87 87
Intermediari e commercianti è l’intermediario nella gestione dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . intermediari devono iscriversi all’Albo Gestori? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105. Quali responsabilità sono a carico dell’intermediario/commerciante? . . . . . . . . . . . . 106. Gli intermediari tengono i registri di carico e scarico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107. Un’impresa iscritta all’Albo alle categorie dalla 1 alla 5 che svolga l’attività di raccolta e trasporto di rifiuti e che affidi, tramite subappalto, questi servizi a terzi deve iscriversi in categoria 8? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108. Esiste la figura giuridica del cessionario dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109. Chi è il commerciante di rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103. Chi 104. Gli
88 88 89 89 89 90 90
Indice
XV
Manutenzione 110. Qual
è la disciplina dei rifiuti dell’attività di manutenzione? . . . . . . . . . . . . . . . . . è considerato “produttore” dei rifiuti da manutenzione nel caso in cui un’impresa titolare del servizio incarichi un’impresa specializzata? . . . . . . . . . . . . . 112. Qual è la disciplina dell’attività di pulizia manutentiva delle reti fognarie? Che differenza c’è con la manutenzione delle fosse Imhoff? . . . . . . . . . . . . 113. Quale disciplina si applica alla gestione/trasporto dei rifiuti da manutenzione eseguita da un soggetto non iscritto al SISTRI? . . . . . . . . . . . . . . . . 114. Quale disciplina si applica alla gestione/trasporto dei rifiuti da manutenzione eseguita da un soggetto iscritto al SISTRI? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115. Chi è il produttore dei rifiuti derivanti da attività di manutenzione? . . . . . . . . . . . 116. Le deroghe alla disciplina sul deposito temporaneo dei rifiuti provenienti dall’attività di manutenzione ex art. 230, c. 1, del D.L.vo 152/06, sono applicabili anche nel caso in cui essi non siano oggettivamente riutilizzabili? . . . . . 117. Per derogare alla regole sul deposito temporaneo è necessario che l’attività di manutenzione sia esclusiva? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111. Chi
91 92 93 94 95 96 97 98
Merci pericolose/ADR è il confine giuridico tra merci pericolose/ADR e rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 è il consulente per il trasporto delle merci pericolose? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 120. La nomina del consulente ADR è prevista per tutte le realtà aziendali? . . . . . . . . . 100 121. Cosa si intende con il concetto di “operazioni”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 118. Qual 119. Chi
Microraccolta quale norma è disciplinata la microraccolta dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . da ritenersi legittimo il diniego di accesso dei rifiuti provenienti da microraccolta di rifiuti liquidi prodotti dall’uso di bagni mobili da parte dell’impianto di destino finale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124. In caso di microraccolta effettuata solo nell’ambito della propria provincia, per ottimizzare il trasporto all’impianto finale, è possibile effettuare la raccolta su più giorni avvalendosi dell’istituto della sosta? . . . . . . . . . 125. Chi è il detentore nel caso di microraccolta di rifiuti pericolosi effettuata da un terzo appaltatore incaricato dal soggetto gestore pubblico? . . . . . . . . . . . . . . 122. In 123. È
103 103 104 105
Miscelazione vietato miscelare i rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . divieto di miscelazione è applicato ai rifiuti in deposito temporaneo? . . . . . . . . . 128. Quale sanzione è applicabile in caso di violazione del divieto di miscelazione? . . . . 129. La de-miscelazione di sostanze oleose deve necessariamente considerarsi attività di trattamento? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126. È
127. Il
107 107 107 108
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
XVI
MUD 130. Sulla
base della disciplina oggi vigente, quali sono i soggetti obbligati ed esentati alla presentazione del MUD? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109 131. Quali soggetti sono tenuti all’invio della dichiarazione MUD al Cobat? . . . . . . . . 110 132. Cosa s’intende per “soggetti istituzionali” responsabili del servizio di gestione integrata e tenuti alla compilazione del MUD in base al disposto dell’art. 189 c. 5 D.L.vo 152/06? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 Nozione di rifiuto 133. Cosa
si intende per rifiuto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
Oli usati 134. Cosa
si intende per olio usato e qual è la disciplina ad esso applicabile? . . . . . . . . 114 sono i soggetti coinvolti nel ciclo di gestione dell’olio usato? . . . . . . . . . . . . . . 114 136. Quali sono gli adempimenti previsti per la corretta gestione dell’olio esausto? . . . . . 115 137. Esiste un obbligo di iscrizione al Coou? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 138. Come è disciplinato l’olio esausto di origine alimentare, con particolare riguardo a quello prodotto sulle navi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 139. Il trasporto dell’olio esausto è sottoposto alla normativa ADR? . . . . . . . . . . . . . . . 117 140. Quali sono le norme tecniche applicabili nell’ambito della gestione degli olii usati? . 117 135. Chi
Ordinanze contingibili e urgenti 141. Qual
è la disciplina delle ordinanze contingibili ed urgenti? . . . . . . . . . . . . . . . . . 118
Pile e accumulatori 142. Pile
e accumulatori, qual è la disciplina applicabile? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120 del D.M. 24 gennaio 2011, n. 20 dipende dal quantitativo di batterie utilizzato/stoccato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120 144. La raccolta delle batterie al piombo deve essere oggetto di autorizzazione alla gestione rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 122 143. L’applicazione
Pneumatici fuori uso è la disciplina applicabile agli pneumatici fuori uso? . . . . . . . . . . . . . . . . . 124 adempimenti deve svolgere il privato cittadino che desiderasse liberarsi degli pneumatici fuori uso in proprio possesso/detenzione? . . . . . . . . . . . . 124 147. È possibile conferire in discarica, ad uso ingegneristico, pneumatici fuori uso? Se ciò fosse praticabile, come devono essere considerati detti pneumatici? . . . . 125 145. Qual
146. Quali
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XVII
Produttore/Detentore 148. Qual
è la nozione di produttore dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . è l’orientamento giurisprudenziale in merito alla individuazione del produttore? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150. Quale ruolo e responsabilità sono proprie del produttore di rifiuti per una corretta gestione dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151. Come possono essere compiuti i controlli sulle autorizzazioni e iscrizioni all’Albo dei soggetti che vengono in contatto con il produttore nel ciclo di gestione dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
126
149. Qual
126 127 128
Preparazione per il riutilizzo e riutilizzo 152. Che
differenza c’è tra “riutilizzo” e “preparazione al riutilizzo”? . . . . . . . . . . . . . . 153. La preparazione per il riutilizzo è attività che necessita di autorizzazione? . . . . . . . 154. Il trasporto di un prodotto da riutilizzare può considerarsi trasporto di rifiuti? . . . 155. Quali vantaggi potrebbero comportare il riutilizzo e la preparazione per il riutilizzo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 156. Ci sono esempi di “riutilizzo” e “preparazione al riutilizzo”? . . . . . . . . . . . . . . . . .
129 129 130 131 131
Raccolta differenziata 157. Quali
sono le novità introdotte dal D.L.vo 205/10 in materia di raccolta differenziata? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133 158. Attraverso quali modalità può essere strutturata la raccolta differenziata all’interno di un condominio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133 RAEE 159. Quale
disciplina si applica alla gestione dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160. A seguito dell’entrata in vigore della disciplina sulla corretta gestione dei RAEE del 2005, è obbligatoria la domanda di adeguamento per i titolari di impianti di stoccaggio, trattamento e recupero di RAEE? . . . . . . . . . . . . . . . . . 161. Qualora vengano prodotti RAEE professionali, è possibile richiedere raccolta, trasporto, smaltimento e recupero ai produttori di AEE? . . . . . . . . . . . . . 162. Quali sono i tratti salienti del DM “uno contro uno”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163. Chi conferisce RAEE provenienti da utenze domestiche ad un centro di raccolta è tenuto alla compilazione del FIR? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164. I cittadini che portano un frigorifero in ecostazione possono pretendere un certificato di corretto smaltimento per ottenere l’ecoincentivo? . . . . . . . . . . . . . . . . .
135 135 136 136 139 139
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
XVIII
165. Cosa
prevede la disciplina sulle garanzie finanziarie di cui all’art. 11, c. 2 del D.L.vo 151/05? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 166. Nel caso in cui i clienti portino i loro RAEE presso i punti vendita è obbligatorio il loro ritiro da parte dei distributori? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167. Posta come necessità quella di separare nel trasporto AEE e RAEE può essere realizzato tale adempimento per mezzo dell’apposizione di un apposito adesivo o di un calamitato sui RAEE ritirati? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 168. Quali sono le procedure da seguire a fronte di una richiesta di ritiro RAEE fatta da un’altra azienda, posto che non trattasi di RAEE professionali ma assimilabili ai domestici? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169. Qual è il ruolo del produttore circa l’applicazione dell’eco-contributo e quale quello del distributore? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170. Qual è il ruolo istituzionale del c.d. “sistemi collettivi” per la gestione dei RAEE? . 171. Quali sanzioni si applicano in caso di mancato ritiro di RAEE usato? . . . . . . . . . 172. Qualora per cause di forza maggiore venisse persa/distrutta la documentazione relativa ai RAEE, quali adempimenti si devono svolgere? . . . . . . . 173. A chi spetta la gestione dei pannelli solari divenuti rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . 174. Anche gli uffici sono tenuti a smaltire i RAEE come rifiuti pericolosi e pertanto a iscriversi al SISTRI? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
140 141 141 141 142 143 144 144 145 145
REACH una specifica disciplina applicabile ai rifiuti chimici? . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 applicabile il Regolamento REACH alle attività di recupero (R2) di rifiuti a base solvente?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 177. Quali sono le modifiche introdotte dal Regolamento (CE) n. 790/2009? . . . . . . . . 148 175. Esiste 176. È
Recupero 178. L’elenco
delle operazioni di recupero di cui all’Allegato C della Parte IV del D.L.vo 152/06 deve ritenersi esaustivo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151 179. Qual è la corretta interpretazione della voce di recupero R12? . . . . . . . . . . . . . . . . 151 180. La riformulazione della voce R12, contenuta nell’Allegato C della Parte IV del D.L.vo 152/06, come si rapporta con le operazioni di messa in riserva di cui al D.M. 5 febbraio 1998 per il recupero agevolato? . . . . . . . . . . . . . 152 Registri di carico/scarico normativa si applica ai registri di carico e scarico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 182. Quali sono i soggetti tenuti alla compilazione dei registri? . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 183. Qual è la corretta tenuta dei registri di carico e scarico per i rifiuti da attività di servizio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 154 181. Quale
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XIX
184. È
possibile l’utilizzo di un registro carico e scarico, già vidimato nell’anno 2008 con le nuove procedure presso la CCIAA, per le annotazioni relative alla gestione rifiuti 2009 o c’è la necessità di annullare le rimanenti pagine o registri completi e provvedere alla vidimazione di un nuovo registro di carico e scarico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185. Con quale periodicità devono avvenire le registrazioni? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 186. È possibile tenere i registri seguendo le procedure di registrazione previste per i registri IVA? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187. È ancora possibile la tenuta dei registri presso la sede dell’azienda, relativamente agli impianti di depurazione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188. Sono possibili deroghe per impianti quali le fosse Imhoff che risultano strutture non adeguatamente presidiate, non dotate di infrastrutture che consentano l’adeguata e sicura tenuta dei registri e non sono normalmente presidiate da personale aziendale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 189. È necessario tenere un registro di carico e scarico anche nelle filiali oltre che nella sede principale dell’attività, per i rifiuti prodotti esclusivamente in loco? . 190. Chi è obbligato alla tenuta del registro in caso di impianti consortili? . . . . . . . . . . 191. È possibile tenere il registro di carico e scarico in formato informatico, stampandolo poi su fogli a modulo continuo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192. Come devono essere numerate le pagine di un registro c/s? . . . . . . . . . . . . . . . . . . 193. I soggetti tenuti alla compilazione e alla tenuta del registro c/s hanno l’obbligo di mostrarlo agli enti di controllo, anche se i registri sono tenuti in modo cartaceo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194. Qual è la corretta compilazione del/dei registro/i di carico e scarico rifiuti in un caso di sito ove sono ubicati diversi impianti di trattamento e una discarica? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195. Se si dovesse smarrire un registro cartaceo di c/s di un Comune, senza supporto informatico, che cosa bisogna fare? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 196. Un’impresa che esercita attività di trasporto rifiuti dove deve conservare il registro c/s? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197. Quali adempimenti deve rispettare un’impresa che cambia la sua unità locale? . . . 198. In che unità di misura devono essere trascritti i rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
154 154 155 155
156 156 157 157 158
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Responsabilità disciplina si applica in tema di responsabilità? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 200. Esiste un principio di “co-responsabilità” nella gestione dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . 201. Può un ente essere responsabile di un reato ambientale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 202. In che termini il produttore di un prodotto è responsabile nell’ambito della gestione dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203. Quali responsabilità hanno produttori e detentori di rifiuti nell’adempimento dei loro oneri? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 199. Quale
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XX
Rifiuti agricoli 204. Da
un punto di vista normativo quali sono i rifiuti agricoli? . . . . . . . . . . . . . . . . 167 rifiuti agricoli sono esclusi dalla normativa generale sui rifiuti? . . . . . . . . . 167 206. Per gli altri rifiuti agricoli non rientranti nell’elenco di cui sopra, a quali oneri è assoggettato il produttore? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 205. Quali
Rifiuti alimentari 207. Cosa
si intende con il termine “scarti alimentari”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169
Rifiuti assimilabili e assimilati 208. Che
differenza c’è tra i rifiuti assimilabili e assimilati? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170 Rifiuti da demolizione
209. Cosa
si intende per rifiuti da demolizione e chi è da considerare quale produttore dei medesimi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 210. L’impresa edile è tenuta alla iscrizione all’Albo Gestori Ambientali in caso di trasporto di rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 211. Qual è la differenza tra rifiuti da demolizione e le terre e rocce da scavo? . . . . . . . 212. I rifiuti da demolizione possono spostarsi legittimamente dal cantiere verso un magazzino a qualche chilometro di distanza da esso? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213. È possibile riutilizzare, all’interno della stessa area di cantiere di realizzazione di una strada, i materiali di risulta dalla scarifica del vecchio manto stradale (materiale bituminoso), come materiale per sottofondo per la realizzazione del nuovo rilevato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
172 173 173 174
174
Rifiuti liquidi 214. Qual
è la differenza tra un rifiuto liquido ed uno scarico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . base al D.L.vo 152/06 e alla definizione di scarico, un chiosco in legno, fronte mare, con bagni, necessita di autorizzazione allo scarico per le 2 fosse settiche a tenuta stagna da 10000 litri in C.A.V. che vengono svuotate periodicamente? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 216. Quali oneri incombono sul soggetto manutentore riguardo alla gestione dei rifiuti derivanti dalla sanificazione degli impianti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217. È necessario il rinnovo dell’autorizzazione allo scarico in caso di nuova titolarità dell’attività dalla quale origina il refluo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 218. È necessaria l’autorizzazione per il trattamento di rifiuti liquidi presso impianti di trattamento acque reflue urbane? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215. In
177
178 178 179 180
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Rifiuti pericolosi 219. Qual
è la vigente nozione di rifiuto pericoloso? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . vero che l’elenco dei rifiuti è vincolante solo per i rifiuti pericolosi? . . . . . . . . . . . 221. Quando scatta l’obbligo di analisi per la classificazione dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . 222. Che differenza c’è tra un certificato di analisi falso ed uno semplicemente sbagliato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 223. A quali condizioni i rifiuti urbani possono essere classificati come pericolosi? Quali sono le conseguenze di questa classificazione per il gestore dei RU? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224. Come influenza l’uso del parametro del ph la classificazione di un rifiuto pericoloso? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 225. Cosa si intende per rifiuto ecotossico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 220. È
183 184 184 184 185 185 187
Rifiuti portuali 226. Esiste
una specifica disciplina per i rifiuti portuali? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188 è individuabile il produttore dei rifiuti sulle navi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188 228. Come si concretizza la gestione dei rifiuti nelle aree portuali? . . . . . . . . . . . . . . . . 189 227. Come
Rifiuti radioattivi 229. Qual
è l’attuale disciplina per i rifiuti radioattivi? In particolare, quali sono gli adempimenti connessi al trasporto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190 Rifiuti sanitari
230. Qual
è l’attuale disciplina per i rifiuti sanitari? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192 prescrizioni particolari per il trasporto di rifiuti sanitari a rischio infettivo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 193 232. Come va effettuata la corretta gestione dei medicinali scaduti delle cassette di pronto soccorso? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 193 231. Esistono
Rottami ferrosi 233. Come
sono considerati i rottami ferrosi: EoW o rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . sono i limiti di applicabilità del Reg. (UE) 333/2011? . . . . . . . . . . . . . . . . 235. Quale documentazione è necessario predisporre per il trasporto transfrontaliero in lista verde di rifiuti costituiti da rottami ferrosi verso paesi europei ed extraeuropei? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 236. Come si coniuga la normativa di cui al D.M. 5 febbraio 1998 con il Reg. 333/2011? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 234. Quali
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XXII
Sfalci e potature 237. Come
si devono considerare gli sfalci e le potature? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 199
Sistri cos’è il SISTRI? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . è il punto sulla normativa SISTRI? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240. Quali sono i compiti e le responsabilità associate alla figura del delegato SISTRI? . 241. È legittima la costituzione di una o più unità locali (pari al numero degli impianti di depurazione che strutturalmente sono definiti unità organizzative) e definendo i restanti impianti, privi di linea telefonica, a volte non raggiungibili nemmeno da una rete via cellulare, come unità operative presenti sul territorio provinciale gestito dal soggetto gestore del servizio idrico integrato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 242. È necessario procedere all’iscrizione al SISTRI di tutti i mezzi inseriti in autorizzazione o è possibile valutare quali sono i mezzi effettivamente utilizzati e procedere alla sola iscrizione di questi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243. In merito alle modalità di calcolo dei contributi, occorre indicare all’atto dell’iscrizione (nella Sezione 3) sia il trasporto di rifiuti pericolosi che non pericolosi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 244. Come ci si deve comportare in ordine all’iscrizione al SISTRI nel caso di due società che devono attuare una fusione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245. In merito all’iscrizione SISTRI riguardante una società mista pubblicoprivata che si occupa di raccolta e trasporto di rifiuti urbani per il Comune, chi deve obbligatoriamente iscriversi, il Comune o la società mista? . . . . . 246. Le black-box presenti sui mezzi sono sempre attive o lo sono solo quando si dà avvio al trasporto rifiuti e quindi si inseriscono i dati sul portale del SISTRI? Questo perché in alcune situazioni i mezzi si muovono pur non trasportando rifiuti (es.: quando si recano presso le officine per effettuare le manutenzioni). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 247. In che categoria devono essere iscritte le piazzole ecologiche autorizzate ex D.L.vo 152/06 (e non D.M. 8 aprile 2008)? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 248. Quanti dispositivi USB devono essere richiesti per ogni unità locale? . . . . . . . . . . . 249. Il peso dichiarato sul carico, sullo scarico e sulla scheda movimentazione devono coincidere? Il peso registrato sul carico e sullo scarico (peso effettivo rilevato da pesa o verificato a destino) può essere diverso da quello indicato sulla scheda movimentazione (stima iniziale)? . . . . . . . . . . . . . . . . 250. Si può lasciare il carico in bozza e firmarlo entro 10 giorni dalla data della presa in carico del trasportatore come previsto per lo scarico (semplificazione contenuta nella guida rapida produttori) o è necessario firmarlo prima della partenza del mezzo e quindi dell’effettiva presa in carico del rifiuto da parte del trasportatore? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 251. È corretto spuntare sempre la casella del peso da verificare a destino indipendentemente dalla presenza o meno della pesa nello stabilimento da cui viene movimentato il rifiuto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 238. Che
239. Qual
200 201 201
202 202 202 203 204
206 206 207
207
208 208
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XXIII
252. Con
quale delle due procedure (ordinaria o semplificata) è consigliabile operare dopo la piena operatività del SISTRI? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209 253. Quale linea operativa è consigliabile seguire? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209 254. A seguito delle recenti proroghe di operatività del SISTRI, ad oggi esiste la possibilità o addirittura l’obbligo, di poter utilizzare la piattaforma SISTRI come registro di carico e scarico, oppure l’obbligo è quello di continuare la gestione dei rifiuti con l’ordinario registro di carico e scarico e relativa dichiarazione MUD? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 211 Sottoprodotti è la nozione di sottoprodotto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . va interpretata la condizione sub lett. a dell’art. 184 bis c. 1 in cui si afferma che i sottoprodotti devono essere originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto? . 257. Cosa si intende quando si chiede che l’utilizzo di tali sostanze sia certo e avvenga nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione? . . . 258. Cosa si intende quando si chiede che la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259. Cosa si intende quando si chiede che l’ulteriore utilizzo sia legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfi, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porti a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana? . . . . . 260. Cosa si intende per certezza del riutilizzo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 261. È possibile sottoporre a trattamento un sottoprodotto prima di reimmetterlo in un ciclo produttivo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 262. È possibile ritenere l’olio esausto proveniente dal processo produttivo della cottura dei prodotti a base di carne, ed utilizzarlo nel processo produttivo di trasformazione degli scarti e sottoprodotti di origine animale, un sottoprodotto ai sensi dell’art. 184 bis del D.L.vo 152/06? . . . . . . . . . . . . . . . . . . 263. Gli scarti della lavorazione dei metalli preziosi sono sottoprodotti? . . . . . . . . . . . . . 264. Una volta abrogata la circolare prot. n. 3402/V/MIN del 1999, le MPS all’origine possono considerarsi, almeno in linea teorica, sottoprodotti? . . . . . . . . . 255. Qual
256. Come
212
212 213 214
216 216 217
218 222 223
Sottoprodotti di origine animale (S.O.A.) 265. Qual
è la disciplina applicabile ai sottoprodotti di origine animale? . . . . . . . . . . . 266. Anche i “prodotti animali trasformati” devono sottostare al Reg. CE 1774/02? . . . 267. Come devono essere classificati il liquame suino ed i S.O.A. in ingresso al digestore di un impianto di produzione di energia? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 268. Un impianto di trasformazione di sottoprodotti di origine animale necessita della verifica di assoggettabilità a VIA? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
224 224 225 226
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
XXIV
Spedizioni transfrontaliere è regolamentato il trasporto transfrontaliero dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . sono disciplinate, dal Regolamento CE 1013/2006, le spedizioni di rifiuti e le miscele a scopo smaltimento? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271. Come viene sanzionato il traffico illecito di rifiuti in ambito transfrontaliero? . . . . 272. Quali sono gli adempimenti connessi alla spedizione all’estero di rifiuti in lista verde? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273. Quali limiti sono previsti per la spedizione all’estero di rifiuti in lista verde? . . . . . 269. Come
270. Come
228 229 230 232 234
Stoccaggio lo stoccaggio di rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . gestire correttamente i rifiuti che hanno come destinazione in ingresso ad esempio D… e che a seguito di controllo, risultano recuperabili presso il medesimo impianto quindi da trattare in R2? . . . . . . . . . . . . 276. Come bisogna agire nell’assegnare il destino di trattamento (D o R) con i prodotti che arrivando da centro di stoccaggio hanno spesso solo il CER come punto fisso ma dei quali la tipologia e quindi il conseguente trattamento vengono accertati solo al momento del controllo interno in impianto, quindi a conferimento già effettuato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277. Un deposito preliminare prolungato, sebbene sia ben custodito ed autorizzato, può dar luogo a qualche sanzione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 278. È possibile un doppio stoccaggio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274. Cos’è
275. Come
235 235
237 238 238
Tassa e tariffa è il soggetto competente alla fissazione della tariffa e come viene commisurata? 239 è possibile ottenere i rimborsi dell’IVA sulla TIA? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240 281. Vi sono aspetti problematici per ottenere il rimborso dell’IVA pagata sulla TIA? . . . 240 279. Chi
280. Come
Terre e rocce da scavo è la disciplina delle terre e rocce da scavo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . è il codice CER delle terre e rocce da scavo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 284. Quali sono le condizioni per cui le terre e rocce non sono rifiuti, ma “sottoprodotti”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285. Qual è la linea di confine tra rifiuti da demolizione e terre e rocce da scavo? . . . . . 286. Cosa accade se il proprietario del sito in cui sono stati realizzati gli scavi ha commissionato le analisi del terreno, ma i risultati non sono al momento disponibili? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 287. Come ci si comporta con scavi di fondali e terreni litoranei emersi? . . . . . . . . . . . . 288. Quali requisiti deve contenere un progetto di gestione delle terre e rocce da scavo? . . 282. Qual
283. Qual
242 244 244 245 245 246 247
Indice
XXV
289. In
caso di subappalto di un’attività di costruzione dalla quale possono generarsi rifiuti su chi incombe la responsabilità della corretta gestione delle terre e rocce? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 290. Cosa si intende per “suolo”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 291. Nel caso di recupero di rifiuti avente ad oggetto le terre e rocce da scavo l’indicazione delle “attività di recupero” alla voce 7.31bis3 del D.M. 5 febbraio 1998 è tassativa? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 292. Cosa è cambiato con il nuovo regolamento? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
248 249 249 250
Toner e cartucce 293. Toner
e cartucce: per il trasporto dei relativi rifiuti, quando occorre compilare il formulario? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 294. Toner e cartucce esausti sono RAEE o imballaggi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 254 295. Toner e cartucce esausti possono essere oggetto di preparazione per il riutilizzo? . . . 254 Trasporto (F.I.R.) 296. In
cosa consiste il formulario di trasporto e quali sono le corrette modalità di tenuta dello stesso? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297. È sanzionabile il trasporto di rifiuti pericolosi senza FIR o con formulario incompleto e/o inesatto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 298. Cosa accade in caso di errata indicazione della codifica CER nell’ambito del formulario? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 299. Cosa deve essere indicato nello spazio riservato alle “annotazioni”? . . . . . . . . . . . . 300. Quale procedura si deve adottare nella fattispecie di un carico respinto dal destinatario? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 301. Quali sanzioni sono previste in caso di trasporto di rifiuti con FIR riportante dati incompleti o inesatti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 302. L’utilizzo di formulari di trasporto rifiuti non vidimati, quale tipo di sanzione comporta? La sanzione è applicabile a ciascun formulario non vidimato o è cumulativa? Quali i rimedi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 303. Nel caso in cui il formulario venga compilato con l’indicazione di un peso di partenza presunto deve sempre essere barrata l’opzione di “peso da verificarsi a destino”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 304. In un formulario, nell’ipotesi in cui venga barrata la casella che indica “recupero”, deve essere indicato un solo codice di recupero oppure tutti i codici di recupero che sono ammessi dall’autorizzazione di un determinato impianto di recupero per un determinato rifiuto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 305. Cosa accade qualora entro il termine di tre mesi non ritorni al produttore la quarta copia del formulario? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 306. A quale sanzione si espone il produttore che non comunica alla Provincia il mancato ritorno della copia del formulario? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
256 257 258 258 259 260 261 262
263 264 265
XXVI
307. Come
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
è disciplinato il trasporto dei rifiuti all’interno di un’area privata? . . . . . . . 308. Il trasferimento di rifiuti in una società diversa da quella di partenza, all’interno di un centro impianti situato in area privata, necessita di essere accompagnato dal formulario di trasporto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 309. Nel caso di un mezzo con un carico di rifiuti superiore alla portata massima consentita, bisogna respingere il carico oppure consentire lo scarico solo del quantitativo corrispondente al carico consentito? . . . . . . . . . . . . . . 310. I Comuni, per i rifiuti prodotti nel proprio territorio, a quali vincoli normativi sono soggetti in merito a raccolta e trasporto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 311. Un trasportatore che abbia in iscrizione un CER “sbagliato” rispetto alla categoria può essere comunque considerato legittimamente autorizzato a trasportare lo specifico rifiuto anche se ricadente nella categoria impropria? . . . . . . 312. È corretto accettare un formulario che riporta il peso in litri e indicare, poi, sulle copie del trasportatore, del destinatario e sulla copia del trasportatore da restituire al detentore il peso indicato dalla pesa certificata ed effettuare successivamente la registrazione sul registro di carico e scarico in Kg? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 313. Nel caso di un conferimento di rifiuti accompagnati da un formulario dove è correttamente indicato il peso in Kg, ma non è barrata l’opzione “peso da verificarsi a destino”, all’arrivo all’impianto si è autorizzati a pesare il carico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 314. Nel caso in cui non fosse stata indicata l’unità di misura del peso riportato alla partenza come ci si deve comportare? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 315. Nel caso in cui un carico di rifiuti viene totalmente respinto in discarica, come bisogna comportarsi con il formulario? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 316. I formulari di identificazione del rifiuto vanno conservati per 5 anni. Tale periodo vale per tutti i rifiuti, compresi i pericolosi e i sanitari? . . . . . . . . . . . 317. Qual è la procedura che il destinatario deve eseguire per compilare correttamente un FIR in caso di accettazione parziale del rifiuto? . . . . . . . . . . . . . 318. È possibile ipotizzare nell’erronea compilazione del formulario anche la responsabilità solidale dell’impianto di destino? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 319. L’esenzione alla compilazione del FIR del gestore di rifiuti urbani può estendersi al terzo appaltatore di cui si avvale il soggetto pubblico? . . . . . . . . . . . . 320. Alla luce del DM 30 giugno 2009 il trasporto dei rifiuti per conto terzi può essere considerato un trasporto di merci su strada? E in caso affermativo, il FIR può essere considerato equipollente alla scheda di trasporto? . . . 321. È possibile praticare il trasbordo totale di rifiuti da un mezzo più piccolo ad uno più grande? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 322. La sanzione amministrativa di cui all’art. 258 c. 4 del D.L.vo 152/06 è applicabile anche al destinatario del rifiuto che accetta in impianto il carico accompagnato da un FIR incompleto o inesatto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 323. La fattura di acquisto dei formulari va registrata sul registro IVA acquisti? . . . . . 324. Alla voce quantità del FIR viene inserita una stima di peso del rifiuto. Nel caso ci si dimentichi di barrare la casella “Peso da verificarsi a destino” si corre qualche rischio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
265 265 266 266 267
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XXVII
325. In
casi di gestione dei RAEE a casa del cliente capita, a volte, di annullare alcuni FIR (perché il ritiro non viene effettuato). Questi FIR annullati devono essere comunque annotati sul registro c/s? . . . . . . . . . . . . . . . . . 326. Capita a volte che ci sia accorga, dopo che il FIR è già stato consegnato al trasportatore, di errori nella compilazione dello stesso. In questo caso come ci si deve comportare per la correzione degli errori? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 327. Nel caso in cui ci si accorga di aver dimenticato la registrazione di alcuni FIR è possibile effettuare una registrazione tardiva nel registro c/s? . . . . . . . . . . . . 328. Nel caso di operazioni annullate si può procedere con la numerazione senza riprendere il numero dell’operazione annullata? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 329. I produttori del rifiuto devono sempre indicare nel FIR il proprio indirizzo nel campo in questione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 330. È corretto registrare il peso stimato del rifiuto facendo corrispondere in quantitativi del registro c/s con quelli del FIR indicati alla voce quantità? . . . . . . 331. È possibile registrare nel registro c/s un solo carico e un solo scarico raggruppando più FIR relativi allo stesso codice CER? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 332. In caso di trasporto rifiuti per conto terzi, qualora sia necessario compilare la scheda di trasporto, in che modo tale obbligo si rapporta a quello FIR? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333. Esiste un regolamento standard per regolare le modalità di conferimento dei rifiuti da parte dei mezzi con cui le utenze domestiche conferiscono i propri rifiuti presso le piazzole ecologiche? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 334. È possibile, tramite delega diretta rilasciata dal produttore iniziale al trasportatore, far spedire dallo stesso la quarta copia del FIR ad un soggetto diverso dal produttore? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 335. Nel caso di notevoli differenze tra peso presunto indicato nel FIR e peso a destino, come ci si comporta? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 336. In casi di trasporto rifiuti in conto terzi, ricorre l’obbligo della redazione della scheda di trasporto, ai sensi dell’art. 7 bis del D.L.vo 286/05, anche in presenza di formulario di identificazione del rifiuto? . . . . . . . . . . . . . . . . 337. In caso di assenza di pesa, è possibile indicare sul formulario il volume (stimato) dei rifiuti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 338. Qual è la corretta procedura per l’annotazione del peso verificato a destino? . . . . . 339. L’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani in quanto esonerata dall’obbligo di emissione del formulario di accompagnamento ed anche dalla gestione SISTRI, si può ritenere esclusa dalla compilazione della scheda di trasporto di cui al D.L.vo 286/05? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
280 280 281 281 281 282 282 283 285 286 286 288 289 290
291
Trattamento 340. Cosa
si intende con il concetto di “trattamento”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 293 un rifiuto viene sottoposto ad un trattamento in D09 (inertizzazione) e tale processo determina la produzione di un nuovo rifiuto codificato con un altro CER avente natura e composizione diversa da quello iniziale, è consentito porre tale nuovo rifiuto in carico presso l’impianto di trattamento in D15? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 294
341. Se
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
XXVIII
Veicoli fuori uso un veicolo diventa giuridicamente un rifiuto? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . è il regime autorizzatorio in materia di veicoli fuori uso? . . . . . . . . . . . . . . . 344. Quali sono le annotazioni che vanno compiute sui registri di entrata e uscita veicoli? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 345. Qual è il corretto codice CER legato alla produzione di carcasse di veicoli? . . . . . . 346. Qual è la sanzione prevista in caso di superamento del termine di 30 giorni previsti per il deposito temporaneo presso il concessionario, ai sensi del D.L.vo 209/03, come modificato dal D.L.vo 149/06, art. 6, co. 8 bis? Si configura il caso di attività di gestione di rifiuti non autorizzata (art. 256 D.L.vo 152/06)? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 347. Le barche possono essere conferite in un centro di raccolta per il loro smaltimento? . 348. Qual è la disciplina di riferimento per lo smaltimento dei veicoli aeroportuali? . . . 349. È possibile ritirare dei veicoli radiati provenienti da un Paese europeo? Occorrono particolari autorizzazioni per un centro di raccolta e per il trasportatore che effettua il servizio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 350. Un’azienda che si occupa di servizio pubblico di raccolta rifiuti che si trovi nella necessità di smaltire i rifiuti derivanti dalla manutenzione dei propri mezzi, può considerarsi anche azienda che effettua attività di autoriparazione ai sensi del D.L.vo 209/03? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 342. Quando 343. Qual
295 296 297 298
298 299 300 301
302
1
Abbandono Rifiuti
1.
Quando si configura un abbandono di rifiuti?
La disciplina dell’abbandono di rifiuti si ritrova in tre articoli del T.U.A.: l’art. 192 ne configura la fattispecie (divieto di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo) e tratta degli obblighi conseguenti ed accessori (ordinanza sindacale di rimozione) all’applicazione delle sanzioni previste dagli art. 255 (sanzione amministrativa, se l’abbandono è commesso da una persona fisica) e 256, co. 2 (sanzione penale, se commessa da una persona giuridica). La fattispecie dell’abbandono è caratterizzata dalla sua occasionalità (a tal punto che si potrebbe più correttamente definire come “abbandono o deposito non autorizzati ed occasionali di rifiuti”) e dalla sua natura di reato di pericolo. Per Cass. Pen. 23 maggio 2012, n. 19435, infatti, “l’offesa al bene giuridico protetto consiste in un nocumento potenziale dello stesso, che viene soltanto minacciato, e può parlarsi di “pericolo” quando, secondo un giudizio ex ante e secondo la migliore scienza ed esperienza, appare probabile che dalla condotta consegua l’evento lesivo”. Nel corso degli anni, varie pronunce hanno meglio specificato il concetto, in particolare con riguardo alla fattispecie del deposito incontrollato. Secondo Cass. Pen. sez. III, 10 agosto 2001, n. 31128, “in tema di gestione dei rifiuti, nell’ipotesi di inosservanza delle condizioni e prescrizioni regolanti il deposito temporaneo – di cui all’art. 6 lett. m) del D.L.vo 5 febbraio 1997 n. 22 – si configura il reato previsto dal comma secondo dell’art. 51 dello stesso decreto, che sanziona, con riferimento all’art. 14, l’abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti, quale norma residuale rispetto alle ipotesi tipiche previste dallo stesso decreto n. 22”, e ancor più chiaramente la successiva pronuncia Cass. Pen., sez. III, 28 maggio 2002, n. 20780, “in tema di gestione dei rifiuti, affinché possa configurarsi l’ipotesi di deposito controllato e temporaneo, di cui all’art. 6 lett. m) del D.L.vo 5 febbraio 1997 n. 22, occorre il rispetto delle condizioni dettate dal citato articolo, ed in particolare il raggruppamento dei rifiuti nel luogo di produzione e l’osservanza dei tempi di giacenza, in relazione alla natura ed alla quantità del rifiuto; in mancanza si configura il reato di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti, sanzionato dall’art. 51, comma 2, del citato decreto n. 22”.
Quali sono le caratteristiche e gli obblighi relativi alla rimozione dei rifiuti abbandonati?
2.
L’art. 192, co. 3, D.L.vo 152/06 individua il Sindaco come il soggetto incaricato di disporre l’ordinanza di rimozione dei rifiuti abbandonati: a questo proposito, non solo
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Cass. Pen. 23930 dell’11 luglio 2006, ma anche il Tar Abruzzo, sez. Pescara, 4 marzo 2006, n. 145 hanno precisato che “un consolidato e costante orientamento degli organi di giustizia amministrativa, ha già in merito chiarito che, ai sensi del combinato disposto dell’art. 14 del D.L.vo 5 febbraio 1997, n. 22, e dell’art. 107 del D.L.vo 18 agosto 2000, n. 267, il potere di adottare ordinanze per disporre la rimozione e l’avvio a recupero di rifiuti abbandonati non spetta solo al sindaco, ma rientra nella generale competenza gestionale dei dirigenti”. Da ultimo si segnala che Tar Puglia (LE), Sez. I, 2 gennaio 2012, n. 6 ha ribadito che “la competenza ad emettere l’ordinanza di rimozione ex art. 192, co. 3 del D.L.vo 152/06 dei rifiuti abbandonati in un’area interessata da deposito abusivo spetta al dirigente dell’ufficio tecnico a ciò preposto”. Così precisato quale sia il soggetto deputato ad adottare l’ordinanza di rimozione dei rifiuti abbandonati, si tenga presente che per il Sindaco/dirigente competente non è una potestà adottare tale atto, ma un vero e proprio obbligo: in tal senso si è pronunciata anche Cass. Pen., sez. III, 7 settembre 2005, n. 33034, secondo cui “nel caso di deposito o di abbandono dei rifiuti o di immissione di essi nelle acque superficiali o sotterranee l’art. 14 D.L.vo 5 febbraio 1997, n. 22 fa obbligo al Sindaco di intervenire senza ritardo per la rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti e al ripristino dello stato dei luoghi, ingiungendo ai soggetti obbligati – gli autori del deposito o dell’abbandono o dell’immissione in solido con il proprietario o con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area impegnata, ai quali la violazione sia imputabile anche a titolo di colpa – se noti, di provvedere alle relative operazioni entro un certo termine, decorso inutilmente il quale, procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati e al recupero delle somme anticipate. Deve escludersi, pertanto, che la disposizione citata faccia obbligo al Sindaco di attendere dall’ufficio tecnico i nomi dei proprietari dei terreni inquinati dalla discarica al fine di ordinare il risanamento di questi. L’obbligo posto a carico del sindaco riguarda l’immediato intervento per l’eliminazione dei rifiuti e il ripristino dello stato dei luoghi, sostituendosi se necessario ai soggetti obbligati, non noti o inadempienti, con diritto di rivalersi su di loro per le spese anticipate”. Da quanto riportato discende altresì che il Sindaco/dirigente competente deve attivarsi anche quando non si trovi il responsabile dell’abbandono di rifiuti o il proprietario sia incolpevole, posto che in via preliminare devono essere svolte le opportune indagini per individuare i soggetti responsabili: infatti, il Tar Campania (Napoli), sez. I, 26 luglio 2005, n. 10383, sancisce la non correttezza della procedura che risulti priva di “alcuna valida attività istruttoria tesa ad accertare i responsabili dell’abbandono di rifiuti”.
3.
Qual è la differenza tra l’ordine di rimozione e quello di bonifica?
È estremamente importante non confondere l’ordine di rimozione di rifiuti abbandonati con l’ordine di bonifica: scelte e presupposti ben diversi, infatti, hanno ispirato i criteri di responsabilità di cui al Titolo V del D.L.vo 152/06 (Bonifica di siti contaminati), al cui art. 239, co. 2, si precisa innanzitutto che “le disposizioni del presente titolo non si applicano: a) all’abbandono dei rifiuti disciplinato dalla parte quarta del presente decreto. In tal caso qualora, a seguito della rimozione, avvio a recupero, smaltimento dei rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato, si accerti il superamento dei valori di attenzione, si dovrà procedere alla caratterizzazione dell’area ai fini degli eventuali interventi di bonifica e ripristino ambientale da effettuare ai sensi
Abbandono rifiuti
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del presente titolo”. Stante l’ispirazione al principio europeo “chi inquina, paga”, il successivo art. 242 dispone che “al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell’inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all’articolo 304, comma 2 …” e l’art. 244, co. 2 e 4, precisa che “la provincia … dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell’evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo. Se il responsabile non sia individuabile o non provveda e non provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli interventi che risultassero necessari ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo sono adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto dall’articolo 250”. Infatti, ex art. 250 del D.L.vo 152/06, “qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano nè il proprietario del sito nè altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’articolo 242 sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione …”. La responsabilità per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale è ben più ampia di quella generalmente vigente in campo ambientale e, soprattutto, diversamente dall’art. 192, D.L.vo 152/06, non è limitata ai casi di solo dolo o colpa: l’obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge, infatti, in conseguenza di un’azione anche accidentale, ossia a prescindere dall’esistenza di qualsiasi elemento soggettivo in capo all’autore dell’inquinamento.
4.
Quali sono le sanzioni previste?
Per determinare la sanzione applicabile occorre distinguere in primo luogo se l’abbandono o il deposito incontrollato (per es. un deposito temporaneo che non rispetti le condizioni stabilite dalla legge) sono commessi da persona fisica o giuridica e, in secondo luogo, se le condotte hanno ad oggetto rifiuti pericolosi o non pericolosi. Nel caso in cui l’illecito sia commesso da persona fisica ed abbia ad oggetto rifiuti non pericolosi è applicabile – ex art. 255, co. 1 del D.L.vo 152/06 – una sanzione amministrativa pecuniaria da trecento euro a tremila euro; se l’abbandono riguarda rifiuti pericolosi, invece, la medesima disposizione prevede che “la sanzione amministrativa è aumentata fino al doppio”. La formulazione letterale della norma potrebbe far ritenere che l’aumento della sanzione per il caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti pericolosi sia una mera facoltà dell’accertatore. In realtà, per due ordini di ragioni, così non è. Pertanto, l’inciso “fino al doppio” rappresenta la misura massima in cui la sanzione deve essere aumentata qualora la fattispecie di abbandono abbia ad oggetto rifiuti pericolosi. Se le condotte sono poste in essere da una persona giuridica è applicabile – ex art. 256, co. 2 – la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro, nel caso si tratti di rifiuti non pericolosi; per contro, si applica la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se la condotta ha ad oggetto rifiuti pericolosi. Inoltre, per effetto delle modifiche apportate dal D.L.vo 121/11, in tema di responsabilità amministrativa
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delle persone giuridiche, sono altresì applicabili sanzioni pecuniarie che vanno da un minimo di centocinquanta fino ad un massimo di duecento quote, oltre ad eventuali ed ulteriori sanzioni accessorie.
5.
Chi è il soggetto tenuto alla rimozione dei rifiuti abbandonati?
Ai sensi dell’art. 192 del D.L.vo 152/06, in caso di violazione del generale divieto di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti, la norma individua il soggetto obbligato al ripristino anzitutto nel soggetto che ha effettuato l’abbandono. L’obbligo di rimozione e ripristino è subordinato all’adozione di un’ordinanza che disponga “… le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere”, decorso il quale potrà procedersi all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate. Seguendo l’orientamento giurisprudenziale costante della giurisprudenza, il Legislatore ha individuato con precisione i soggetti solidalmente responsabili con colui che ha commesso l’illecito ed i casi in cui ricorre tale solidarietà: in particolare il proprietario del fondo (o, comunque, il soggetto che ne abbia la gestione), se soggetto diverso dall’autore dell’illecito, è destinatario dell’ordine ma solo se ed in quanto sia stato, con il proprio comportamento (doloso o colposo), compartecipe dell’illecito. Nel caso si configuri un abbandono di rifiuti lungo una strada comunale i rifiuti acquistano la qualificazione di rifiuti urbani “ex lege”, per effetto della generica classificazione data dall’art. 184, c. 2, lett. d), D.L.vo 152/06, secondo cui: “i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime e lacuali e sulle rive dei fiumi” sono rifiuti urbani. In tal caso si deve ritenere che alla rimozione sia deputato il Comune (o per esso il gestore incaricato alla raccolta dei rifiuti urbani), proprio sulla base di quanto previsto dal citato art. 192. Se la strada non fosse comunale, ma provinciale, statale o anche arteria autostradale, occorre individuare anzitutto il “gestore” della medesima. A tale conclusione si arriva interpretando estensivamente il principio espresso da Consiglio di Stato sentenza 4 maggio 2011 n. 2677 in tema di rifiuti abbandonati sulle autostrade. I Giudici hanno fornito un criterio interpretativo di più ampio respiro, ritenendo di applicare il Codice della Strada piuttosto che il TUA nei seguenti termini: “È illogico imporre al Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati sulle strade di proprietà di soggetto terzo; l’obbligo di pulizia incombe doverosamente in capo all’ente proprietario, ovvero al concessionario. È quindi corretta l’applicazione dell’articolo 14 del D.L.vo 285/92 (Codice della strada) in relazione alla mancata rimozione di rifiuti indifferenziati depositati sul raccordo autostradale rientrante nel territorio comunale. Tale norma affida la pulizia delle strade e delle loro pertinenze – e quindi non limitata al “nastro stradale”. Il D.L.vo 152/06 non contiene difatti alcuna disposizione che possa incidere sulla questione, mentre la “procedura sostitutiva” istituita dal DL 172/2008 sull’emergenza rifiuti in Campania, seppur dotata di valenza generica, mal si concilia con la norma speciale di settore contenuta nell’articolo 14”. In questi termini, ancor più recentemente, si è espresso Tar Puglia (BA), I, 9 febbraio 2012, n. 299: “Poiché l’A.N.A.S. ha un dovere di manutenzione, di custodia e di vigilanza sui tratti stradali di cui è proprietaria, deve ritenersi legittima l’ordinanza
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sindacale ex art. 192, co. 3 del D.L.vo 152/06 che ingiunga la rimozione e l’avvio a recupero o smaltimento dei rifiuti pericolosi (nel caso di specie, eternit) abbandonati da terzi in un’area di cui essa risulta essere proprietaria”. 6. Può configurarsi in capo al proprietario di un fondo l’obbligo di recinzione per evitare che terzi vi abbandonino rifiuti?
In tema di abbandono di rifiuti, va esclusa l’esistenza di un obbligo sul proprietario del terreno in quanto abbia omesso di recintarlo adeguatamente ovvero abbia omesso di vigilare diligentemente affinché i rifiuti non fossero abbandonati e/o depositati sul suo terreno. Invero, ai sensi dell’art. 841 c.c., la chiusura di un fondo costituisce una facoltà e non un obbligo del proprietario. In tal senso si è pronunciato il TAR Umbria, Sez. I, con sentenza n. 13 del 27 gennaio 2012.
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Albo gestori ambientali
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Quali imprese sono tenute ad iscriversi all’Albo Gestori Ambientali?
Ai sensi dell’art. 212, c. 5, del D.L.vo 152/06, come modificato dal D.L.vo 205/10, l’iscrizione all’Albo è requisito per lo svolgimento delle attività: – di raccolta; – di trasporto di rifiuti; – di bonifica dei siti; – di bonifica dei beni contenenti amianto; – di commercio e intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi. A seguito delle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10 si è verificato che non sono più soggette ad iscrizione all’Albo le attività di gestione di impianti di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi e di gestione di impianti mobili di smaltimento e di recupero di rifiuti atteso l’evidente stralcio e riscrittura del comma 5 dell’art. 212.
Quando è obbligatoria l’iscrizione secondo le procedure semplificate per il trasporto dei propri rifiuti? 8.
L’art. 212, comma 8, D.L.vo 152/06 prevede un regime di iscrizione semplificata all’Albo Nazionale Gestori Ambientali, per i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti, e per i produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto di trenta chilogrammi o trenta litri al giorno dei propri rifiuti pericolosi, a patto che, in entrambi i casi, si tratti di un’attività che costituisca parte integrante ed accessoria dell’organizzazione dell’impresa. Due elementi si pongono di fondamentale rilievo. Il primo, peraltro assolutamente preliminare, è quello relativo all’esatta configurabilità del produttore iniziale. Con tale termine ci si riferisce alla persona dalla cui attività sono scaturiti i rifiuti. Deve pertanto sussistere una corrispondenza rigorosa e diretta tra attività e rifiuto. Tale figura del produttore iniziale, rientra a sua volta nell’ambito della più generale figura giuridica del produttore dei rifiuti, che l’art. 183, comma 1, lettera f), definisce come “il soggetto la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti”. Infine, oltre a questo requisito soggettivo, esiste anche una condizione oggettiva ben precisa, ai fini dell’iscrizione ai sensi dell’art. 212, comma 8: la raccolta ed il tra-
Albo gestori ambientali
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sposto devono costituire parte integrante ed accessoria dell’organizzazione dell’impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti. L’iscrizione semplificate non è assolutamente consentita, qualora le predette attività non rappresentino un elemento accessorio della più generale attività di impresa, bensì un elemento essenziale dell’impresa stessa. 9. Qual è la disciplina per il rinnovo dell’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali?
Mentre la procedura di iscrizione (nella duplice versione ordinaria e semplificata) è pacifica perché descritta dall’art. 212 del D.L.vo 152/06, quella di rinnovo dell’iscrizione, peraltro prevista obbligatoriamente dalla legge, lo è un po’ meno, con particolare riguardo alla tempistica da rispettare. La norma non pone (come ad esempio per le autorizzazioni di cui all’art. 208) un termine di scadenza per la presentazione della domanda di rinnovo e si sarebbe portati a pensare che, nel silenzio della legge, il termine massimo per il medesimo è dato dalla scadenza stessa dell’atto (in tal senso si veda TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 14 febbraio 2008, n. 220). Il rinnovo – da un punto di vista puramente amministrativo – presuppone l’inefficacia dell’atto precedente per raggiungimento del termine. Sul punto, la citata sentenza sottolinea anche che un rinnovo presentato oltre il termine di un anno dalla scadenza dell’atto non può qualificarsi come tale, ma corrisponde a tutti gli effetti ad una nuova richiesta; e infatti esiste una differenza tra una nuova richiesta (o prima richiesta) ed un rinnovo. Ai sensi dell’art. 212, c. 6, del D.L.vo 152/06, l’iscrizione deve essere rinnovata ogni cinque anni e costituisce titolo per l’esercizio delle attività di raccolta, di trasporto, di commercio e di intermediazione dei rifiuti; per le altre attività l’iscrizione abilita alla gestione degli impianti il cui esercizio sia stato autorizzato o allo svolgimento delle attività soggette ad iscrizione”. Peraltro, l’art. 8 del D.M. 28 aprile 1998, n. 406 (Regolamento recante norme di attuazione di direttive dell’Unione Europea, avente ad oggetto la disciplina dell’Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti) conferma ulteriormente che “l’iscrizione all’Albo è richiesta per le seguenti attività di gestione dei rifiuti: …”. Da ciò discende che, in assenza di regolare iscrizione per le corrispondenti classi di spettanza, l’Azienda che prosegua nella sua attività effettua una gestione di rifiuti non autorizzata, sanzionata dall’art. 256, c. 1, D.L.vo 152/06. 10. Per effetto delle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10 le imprese iscritte in “semplificata” anteriormente al 14 aprile 2008 dovevano aggiornare l’iscrizione entro il 27 dicembre 2011: quali sono le conseguenze in caso di omesso aggiornamento?
L’art. 212, c. 8, del D.L.vo 152/06, come modificato dall’art. 25, c. 1, lett. c), del D.L.vo 205/10, prevede che le iscrizioni dei produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti, nonché le iscrizioni dei produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedente 30 kg/l al giorno devono
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essere rinnovate ogni 10 anni. La norma prevede, altresì, che le iscrizioni effettuate entro il 14 aprile 2008, ai sensi e per gli effetti della normativa vigente a quella data, dovevano essere aggiornate entro il 27 dicembre 2011. Lo schema di domanda di aggiornamento è contenuto nell’Allegato “A” alla circolare n. 432/ALBO/PRES del 15 marzo 2011. Con la deliberazione del 26 ottobre 2011, prot. n. 04/ALBO/CN, l’Albo Nazionale Gestori Ambientali ha stabilito che le imprese in parola che non avessero presentano richiesta di aggiornamento dell’iscrizione entro il 27 dicembre 2011, sarebbero state cancellate d’ufficio dall’Albo, in quanto la mancata presentazione della richiesta di aggiornamento entro tale ultima data è considerata quale mancanza di interesse al permanere dell’iscrizione. Inoltre, con deliberazione prot. 02/ALBO/CN del 23 gennaio 2012 è stata data attuazione alla cancellazione d’ufficio delle imprese che non hanno rinnovato l’iscrizione. Durante un controllo stradale, pertanto, al momento del controllo di un veicolo ad oggi non più iscritto all’Albo, verranno accertate le eventuali sanzioni penali ex art. 256, co. 1, lett. a) e b) del D.L.vo 152/06. Si ricordano inoltre le eventuali sanzioni pecuniarie fino a 250 quote, per le imprese rientranti nel D.L.vo 121/11 c.d. Tutela penale dell’ambiente.
In caso di cessione di un ramo d’azienda è necessario rinnovare l’iscrizione all’Albo Gestori?
11.
Sul punto, è preliminarmente necessario affrontare il problema civilistico della cessione d’azienda. Nonostante l’articolo 2555 Cod. Civ. definisca l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (cd. teoria unitaria dell’azienda), anche l’alienazione frazionata dei singoli elementi aziendali, in quanto idonei a trasferire il complesso aziendale o un’unità organica produttiva, è considerata ugualmente cessione d’azienda: la stessa, infatti, può essere composta da più centri (unitari e autonomi) di produzione, comunemente definiti “rami d’azienda”, sicché tutto ciò che concerne la cessione d’azienda è applicabile anche alla cessione di rami d’azienda. È noto che presso l’Ufficio Registro Imprese della Camera di Commercio è operativo il numero Rea “Repertorio Economico Amministrativo”. Detto repertorio è stato istituito dall’articolo 8 della Legge n° 580 del 29 dicembre 1993 (Riordinamento delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura), e nel momento in cui un’impresa si costituisce e si iscrive al registro imprese le viene assegnato dalla Camera di Commercio un numero Rea che varrà ad identificarla nei vari atti; si tratta in particolare di un numero decimale progressivo associato alla codifica della particolare provincia della CCIAA che lo ha attribuito, e può avere da un minimo di 1 carattere numerico ad un massimo di 9. Nel caso in cui un’impresa cessi l’attività e successivamente ne venga costituita un’altra, anche se relativa al medesimo oggetto, a quest’ultima sarà assegnato un diverso codice fiscale ed un numero Rea ex novo. In questa ipotesi si è in presenza di due soggetti giuridici distinti facenti capo a due distinti titolari su ciascuno dei quali graveranno oneri diversi: un imprenditore, infatti, non è assolutamente esonerato dalle responsabilità di carattere civile, penale o amministrativo e dagli oneri riferiti al periodo di attività di propria competenza.
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In sintesi, qualora dalla visura camerale emerga che un’impresa è cessata, e quindi la modifica di denominazione in realtà significa costituzione di una nuova impresa con l’attribuzione di un nuovo e diverso numero Rea, allora dovranno essere adempiuti diversi obblighi temporalmente scanditi: il vecchio titolare farà riferimento alla frazione di anno in cui la sua impresa era ancora in attività, mentre il titolare della nuova impresa si adopererà per i primi mesi della sua attività. Ciò premesso, ne consegue che la tempestiva domanda di rinnovo dell’iscrizione all’Albo Gestori Ambientali è di competenza del nuovo titolare dell’impresa. 12. L’impresa straniera che esercita solo il trasporto transfrontaliero di rifiuti ha l’obbligo di iscrizione all’Albo Gestori Ambientali?
Al riguardo, si segnala che la Delib. Albo 22 dicembre 2010, prot. n. 03/ALBO/CN reca le prime disposizioni applicative per l’iscrizione all’Albo per il solo esercizio dei trasporti transfrontalieri nel territorio italiano di cui all’art. 194, c. 3, D.L.vo 152/06, come sostituito dall’art. 17 del D.L.vo 205/10. A tal fine è previsto che le imprese che intendono iscriversi all’Albo per il solo esercizio dei trasporti transfrontalieri dei rifiuti nel territorio italiano in attività alla data di entrata in vigore del D.L.vo 205/10 (25 dicembre 2010) presentano domanda d’iscrizione alla Sezione regionale o provinciale territorialmente competente, utilizzando il modello di cui all’allegato “A”. Dette imprese, con la domanda d’iscrizione, attestano in lingua italiana mediante dichiarazione sostitutiva il possesso dei requisiti di cui all’articolo 10 del D.M. 406/98; i numeri di targa e l’idoneità tecnica dei veicoli utilizzati per il trasporto dei rifiuti anche in relazione al trasporto delle merci pericolose (ADR) ove previsto; il possesso della licenza comunitaria o dell’autorizzazione internazionale all’autotrasporto di merci ove previste; l’elenco delle tipologie di rifiuti che si intendono trasportare e relativo codice dell’Elenco europeo dei rifiuti. La Sezione regionale procede a verificare la sussistenza delle condizioni e dei requisiti richiesti e attestati con la domanda d’iscrizione e notifica all’interessato il provvedimento formale di iscrizione. Entro il termine di sessanta giorni dalla presentazione della domanda, le imprese interessate presentano l’attestazione di cui all’art. 12, c. 3, lett. a), del D.M. 406/98; le copie delle carte di circolazione dei veicoli; la copia della licenza comunitaria o dell’autorizzazione internazionale all’autotrasporto di merci ove previste; la documentazione attestante i requisiti del responsabile tecnico; la documentazione equivalente al certificato generale del casellario giudiziario relativo al legale rappresentante e al responsabile tecnico. All’art. 2 la delibera prescrive altresì alle imprese interessate l’obbligo di istituire in Italia una sede secondaria con rappresentanza stabile nel termine di 120 giorni dalla data di presentazione della domanda d’iscrizione. Tale previsione è stata tuttavia rettificata con la circolare n. 146 del 24 gennaio 2011, con la quale è stato opportunamente precisato che tale requisito può ritenersi soddisfatto anche dall’impresa che disponga di un domicilio in Italia.
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In quale categoria deve iscriversi una ditta che ha avuto in appalto da un Comune il servizio di prelievo, trasporto e conferimento di oli e grassi commestibili (cer. 20.01.25) prodotti dalle utenze domestiche? 13.
Il C.O.N.O.E. – Consorzio Obbligatorio Nazionale di raccolta e recupero di Oli e grassi vegetali ed animali Esausti – è stato istituito dall’art. 47 del D.L.vo 22/97, poi riconfermato dall’attuale art. 233 del D.L.vo 152/06. Al Consorzio partecipano le imprese che effettuano la raccolta, il trasporto e lo stoccaggio di oli e grassi vegetali ed animali esausti (art. 233, c. 5, lett. c). Ex art. 233, c. 12, chiunque, in ragione della propria attività professionale, detenga oli e grassi vegetali ed animali esausti è obbligato a conferirli al Consorzio direttamente o mediante consegna a soggetti incaricati dal Consorzio. Peraltro, chiunque, in ragione della propria attività professionale ed in attesa del conferimento al Consorzio, detenga oli e grassi animali e vegetali esausti, è obbligato a stoccarli in apposito contenitore (art. 233, c. 13). Si ritiene che il servizio di prelievo, trasporto e conferimento di oli e grassi commestibili (cer 20.01.25) provenienti dalle utenze domestiche debba essere svolto utilizzando soltanto la 1° categoria (raccolta e trasporto di rifiuti urbani ed assimilati). La 4° categoria (raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi) non risulta propriamente corretta, in quanto concerne rifiuti speciali e non urbani, come nella fattispecie. La 2°, invece, risulta essere abrogata (fatte salve le iscrizioni in essere al 25 dicembre 2010, data di entrata in vigore del D.L.vo 205/10): infatti, l’art. 212 del D.L.vo 152/06, come modificato dall’art. 25 del D.L.vo 205/10, non prevede più la specifica procedura d’iscrizione per l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti avviati alle operazioni di recupero svolte ai sensi dell’art. 216 del D.L.vo 152/06 (tale procedura era stata inquadrata nelle categorie 2 e 3 dal D.M. 406/98). In considerazione del fatto che le disposizioni relative all’istituzione delle categorie 2 e 3 e alla relativa procedura d’iscrizione di cui agli articoli 8, 9 e 13, del D.M. 406/98, non sono compatibili con le introdotte previsioni legislative, con la Circ. prot. 240/ALBO/PRES del 9 febbraio 2011 il Comitato nazionale dell’Albo ha ritenuto che, fatte salve le iscrizioni in essere e le eventuali successive variazioni, non sia più possibile presentare domanda d’iscrizione o di rinnovo dell’iscrizione per tali categorie: pertanto, in sede di domanda o di rinnovo dell’iscrizione, le imprese o gli enti dovranno iscriversi nella categoria 4 o 5 per i rifiuti speciali individuati, rispettivamente, dal D.M. 5 febbraio 1998 e dal D.M. 12 giugno 2002, n. 161.
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Amianto
14.
Quale è la disciplina applicabile ai rifiuti contenenti amianto?
La normativa in materia di amianto e di rifiuti di amianto è particolarmente ampia e articolata, accanto a normative di base si ritrovano infatti norme attuative e di dettaglio che si susseguono nel tempo dettando disposizioni tecnico-pratiche alle quali attenersi nella gestione di questa particolare tipologia di materiale e di rifiuto. La L. 27 marzo 1992, n. 257 “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto” costituisce la disciplina cardine dell’intero reticolato normativo su cui poggia la corretta gestione dell’amianto. Ma si tratta di una disciplina che pur ponendo dei principi importanti in materia, necessitava dell’emanazione di una pletora di decreti ministeriali che dessero concreta attuazione alle disposizioni in essa contenute. Ciò che viene stabilito con certezza dalla L. 257/1992, è la individuazione delle condotte vietate (art. 1, comma 2), la determinazione dei valori limite e dei rispettivi sistemi di valutazione, per i quali viene comunque operato un rinvio ad altre discipline (art. 3). Tutte queste disposizioni sono rimaste per diverso tempo inattuate, più precisamente fino agli anni 1994 e 2004, in cui è stata data attuazione rispettivamente, ai provvedimenti in materia di normative e metodologie tecniche per gli interventi di bonifica attraverso il D.M. 6 settembre 1994 (precedente punto 2) e ai disciplinari tecnici attraverso il D.M. 29 luglio 2004, n. 248 (precedente punto 3). Si tratta di provvedimenti normativi che rivestono una importanza fondamentale nella gestione dell’amianto e dei rifiuti contenenti amianto. Si noti che in particolare quest’ultimo dà attuazione ai disciplinari tecnici; individua, distinguendoli, i processi di trattamento dell’amianto ai fini di un potenziale riutilizzo dei rifiuti contenenti amianto (RCA) quale materia prima ed infine si pone quale normativa di raccordo tra la disciplina generale sui rifiuti e quella speciale sull’amianto. La parte IV del nuovo testo unico in materia ambientale ha introdotto qualche modifica anche in tema di RCA, senza stravolgere tuttavia l’impianto normativo preesistente. Tant’è che all’art. 227 “Rifiuti elettrici ed elettronici, rifiuti sanitari, veicoli fuori uso e prodotti contenenti amianto” – nell’ambito del Titolo III riferito alla gestione di particolari categorie di rifiuti – al comma 1, lettera d) conferma la vigenza delle disposizioni speciali, nazionali e comunitarie, relative al recupero dei rifiuti dei beni e prodotti contenenti amianto ed in particolare di quanto stabilito nel D.M. 248/2004. L’art. 195, del richiamato Testo Unico colloca – come peraltro anche il previgente decreto Ronchi – tra le competenze statali, la determinazione e la disciplina delle attività di recupero dei prodotti di amianto e dei beni e dei prodotti contenenti amianto,
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aggiungendo solo rispetto alla precedente disciplina che queste determinazioni avvengano attraverso decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro della salute e con il Ministro delle attività produttive. Inoltre, all’art. 212 viene riconfermato il requisito dell’iscrizione all’Albo Gestori Ambientali per l’esercizio dell’attività di bonifica dei beni contenenti amianto, puntualizzando sempre che questa iscrizione abilita la gestione degli impianti il cui esercizio sia stato autorizzato. La sola precisazione che viene inserita nel predetto nuovo articolo, è rappresentata dal fatto che questa particolare efficacia dell’iscrizione vale anche per lo svolgimento delle attività soggette ad iscrizione (art. 212, comma 6). Il successivo comma 11, dell’art. 212, prescrive alle imprese che effettuano attività di gestione di impianti fissi di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi, alle imprese che effettuano attività di bonifica dei siti nonché di bonifica dei beni contenenti amianto, di prestare idonee garanzie finanziarie a favore della regione territorialmente competente. Infine, a partire dalla data di entrata in vigore del testo unico avvenuta il 29 aprile 2006, risulta abrogata espressamente (per effetto del disposto dell’art. 264, comma 1, lettera b), l’armonizzazione dei piani di smaltimento dei rifiuti di amianto con i piani di organizzazione dei servizi di smaltimento dei rifiuti di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915 (avente ad oggetto l’attuazione delle direttive numero 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi), che era stata disposta dall’art. 5 del D.P.R. 8 agosto 1994 “Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano per l’adozione di piani di protezione, di decontaminazione, di smaltimento e di bonifica dell’ambiente, ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall’amianto”.
15.
Come sono smaltiti i rifiuti contenenti amianto?
L’unica forma di smaltimento consentita è quella dell’avvio in discarica. I criteri di ammissibilità dei rifiuti di amianto o contenenti amianto sono riportati nell’Allegato 2 al D.M. 27 settembre 2010 che ha abrogato il precedente D.M. 3 agosto 2005 (che a sua volta aveva interamente sostituito il D.M. 13 marzo 2003). In generale, ai sensi del citato Allegato 2 si può affermare che i rifiuti di amianto o contenenti amianto possono essere conferiti: “a) in discariche per rifiuti pericolosi, dedicate o dotate di cella dedicata; b) in discariche per rifiuti non pericolosi, dedicate o dotate di cella monodedicata per i rifiuti individuati dal codice dell’elenco europeo dei rifiuti 17 06 05; per le altre tipologie di rifiuti contenenti amianto, purché sottoposti a processi di trattamento e con valori conformi alla tabella 1. Inoltre, l’art. 6, co. 7, lett. c) del D.M. 27 settembre 2010 prevede che possono essere smaltiti nelle discariche per rifiuti non pericolosi “i materiali edili contenenti amianto legato in matrici cementizie o resinoidi in conformità con l’art. 7, comma 3, lettera c) del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, senza essere sottoposti a prove. Le discariche che ricevono tali materiali devono rispettare i requisiti indicati all’allegato 2 del presente decreto”.
Amianto
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Nel caso di un’azienda che esegue interventi di manutenzione e sostituzione delle condotte in fibro-cemento, quali adempimenti deve affrontare per ciò che concerne la sicurezza del lavoro?
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Le nuove norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, D.L.vo 81/08 (in vigore dal 15 maggio 2008) – così come il precedente D.L.vo 277/91 – contengono una parte dedicata alla protezione dei lavoratori per il caso di esposizione all’amianto. L’art. 246 in particolare precisa che tali norme si applicano alle “attività lavorative che possono comportare, per i lavoratori, il rischio di esposizione ad amianto, quali manutenzione, rimozione dell’amianto o dei materiali contenenti amianto, smaltimento e trattamento dei relativi rifiuti, nonché bonifica delle aree interessate”. Occorre però precisare che l’art. 247 definisce anche i vari tipi di amianto cui si riferiscono le norme inserite al Capo III del D.L.vo 81/08. In particolare, l’art. 256 obbliga il datore di lavoro che legittimamente (poiché iscritto all’Albo gestori ambientali, nell’apposita categoria 10) rimuove l’amianto a presentare un piano di lavoro ed attendere 30 giorni prima dell’inizio dei lavori, per il caso in cui l’Autorità di controllo e vigilanza (solitamente Arpa e Asl) non abbia osservazioni da formulare sugli interventi proposti, è altresì vero che ai sensi dell’art. 249 D.L.vo 81/08 nell’ambito della procedura di valutazione del rischio è possibile stabilire l’esclusione dell’applicazione della disciplina citata nei casi di esposizioni sporadiche e di debole intensità ed a condizione che il valore limite di esposizione all’amianto non sia superato nell’aria dell’ambiente di lavoro, non si applica il comma 1, per le seguenti attività: a) brevi attività non continuative di manutenzione durante le quali il lavoro viene effettuato solo su materiali non friabili; b) rimozione senza deterioramento di materiali non degradati in cui le fibre di amianto sono fermamente legate ad una matrice; c) incapsulamento e confinamento di materiali contenenti amianto che si trovano in buono stato; d) sorveglianza e controllo dell’aria e prelievo dei campioni ai fini dell’individuazione della presenza di amianto in un determinato materiale (art. 249). Da evidenziare, poi, che le modalità tecniche di rimozione e bonifica dell’area o dei beni contaminati non sono definite nell’ambito del D.L.vo 81/08, bensì dai decreti attuativi della Legge n. 257 del 27 marzo 1992 “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto” (oggi vigente e citata nello stesso D.L.vo 81/08) in particolare il Decreto Ministeriale 6 settembre 1994 “Normative e metodologie tecniche di applicazione relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”. Questo D.M. indica tre diversi metodi di “bonifica” dall’amianto (in riferimento agli edifici, ma applicabili nella generalità dei casi): – Rimozione dei materiali di amianto: è il procedimento più diffuso perché elimina ogni potenziale fonte di esposizione ed ogni necessità di attuare specifiche cautele per le attività che si svolgono nell’edificio. Comporta un rischio estremamente elevato per i lavoratori addetti e per la contaminazione dell’ambiente e produce notevoli quantitativi di rifiuti pericolosi che devono essere correttamente smaltiti. In genere richiede l’applicazione di un nuovo materiale, in sostituzione dell’amianto rimosso;
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– Incapsulamento: consiste nel trattamento dell’amianto con prodotti penetranti o ricoprenti che (a seconda del tipo di prodotto usato) tendono ad inglobare le fibre di amianto, a ripristinare l’aderenza al supporto, a costituire una pellicola di protezione sulla superficie esposta. In tal modo non sono prodotti rifiuti tossici. È il trattamento di elezione per i materiali poco friabili di tipo cementizio. Data la permanenza del materiale di amianto può darsi la necessità di mantenere un programma di controllo e manutenzione; – confinamento; consiste nell’installazione di una barriera a tenuta che separi l’amianto dalle aree occupate. Occorre sempre un programma di controllo e manutenzione, in quanto l’amianto rimane nell’edificio; inoltre la barriera installata per il confinamento deve essere mantenuta in buone condizioni. La scelta del metodo di bonifica può avvenire sulla base delle indicazioni fornite dallo stesso D.M., ove leggiamo, tra l’altro che se: “un intervento di rimozione spesso non costituisce la migliore soluzione per ridurre l’esposizione ad amianto …” comunque l’incapsulamento non è ritenuto adeguato: “nel caso di materiali molto friabili o che presentano scarsa coesione interna o adesione al substrato … nel caso di materiali friabili di spessore elevato (maggiore di 2 cm)…” ed in ogni caso: “gli interventi di ristrutturazione o demolizione di strutture rivestite di amianto devono sempre essere preceduti dalla rimozione dell’amianto stesso”.
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Attività ambulanti
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Che disciplina si applica alle attività ambulanti?
Bisogna fare riferimento al co. 5 dell’art. 266 del D.L.vo 152/06 che fornisce la definizione di “attività ambulante”, cioè l’attività di raccolta e trasporto rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle medesime attività in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio. Tale norma sancisce l’esclusione dei soggetti di cui sopra dalla necessità di autorizzazioni e dalla tenuta di documentazione inerente i rifiuti. Non si applicano, infatti, alle fattispecie rientranti nella definizione prevista dall’articolo in esame, gli artt. 189, 190, 193 e 212; ossia la disciplina relativa, rispettivamente, al “Catasto dei rifiuti”, al “Registro di carico e scarico”, al “Trasporto” e all’”Albo nazionale gestori ambientali”. Di contro, in merito agli esercenti in forma ambulante, la Corte di Cassazione – Sez. III Penale – in particolare, con la sentenza n. 28366 dell’8 agosto 2006, ha precisato che: “ l’attività di raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante può essere legittimamente esercitata solo previo conseguimento del titolo abilitativo [dopo l’abrogazione dell’art. 121 T.U. è necessaria l’iscrizione dell’attività presso la CCIA e l’apertura della partita IVA per l’esercizio della medesima attività] e limitatamente ai rifiuti compresi nell’attività autorizzata…”. Sicché, in mancanza dell’abilitazione, è configurabile il reato di attività di gestione dei rifiuti non autorizzata, previsto e punito dall’art. 256 D.L.vo 152/06. Da non confondere con tali “attività” ambulanti sono ovviamente quelle operate senza alcun titolo abilitativo (es. nomadi, ecc.). Da ultimo si segnala la recente sentenza Cass. Pen. 17 febbraio 2012, n. 6602, per la quale “integra il reato di gestione illecita di rifiuti ex art. 256 D.L.vo 152/06 il trasporto di materiale ferroso e di altri rifiuti speciali da parte del titolare di una licenza comunale per il commercio itinerante su aree pubbliche o per il recupero di rottami metallici, non potendo quest’ultima valere come autorizzazione a fini ambientali la cui presenza esclude l’illiceità della condotta”.
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Autorizzazioni
Nell’ambito della gestione dei rifiuti, quali sono le attività soggette ad autorizzazione ordinaria?
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L’articolo 208 disciplina l’autorizzazione unica per gli impianti di smaltimento e recupero, incorporando sia l’approvazione del progetto e autorizzazione alla realizzazione degli impianti prevista dall’art. 27 del D.L.vo 22/97, sia l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento e di recupero in precedenza definita dall’art. 28 del medesimo decreto. Il procedimento di autorizzazione prevede che i soggetti che intendono realizzare e gestire nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti presentino domanda alla Regione o alla Provincia Autonoma competente per territorio (o alla Provincia o al Comune ai quali la Regione abbia delegato questa funzione) allegando il progetto definitivo dell’impianto e la documentazione tecnica prevista per la realizzazione del progetto stesso dalle disposizioni vigenti in materia urbanistica, di tutela ambientale, di salute e di sicurezza sul lavoro, e di igiene pubblica. Nel caso in cui l’impianto debba essere sottoposto alla procedura di valutazione di impatto ambientale, alla domanda deve essere allegata la comunicazione del progetto all’autorità competente ed il termine entro il quale deve essere conclusa l’istruttoria (centocinquanta giorni dalla convocazione della conferenza dei servizi) resta sospeso fino all’acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale. La conferenza dei servizi – alla quale partecipano i responsabili degli uffici regionali competenti, i rappresentanti delle Autorità d’ambito e degli Enti locali sul cui territorio è realizzato l’impianto – deve essere convocata entro trenta giorni dal ricevimento della domanda di autorizzazione. Alla conferenza è invitato a partecipare, con preavviso di almeno venti giorni, anche il richiedente l’autorizzazione o un suo rappresentante al fine di acquisire documenti, informazioni e chiarimenti. Ai sensi dell’art. 208, comma 4, del D.L.vo 152/06: “Entro novanta giorni dalla sua convocazione, la Conferenza di servizi: a) procede alla valutazione dei progetti; b) acquisisce e valuta tutti gli elementi relativi alla compatibilità del progetto con quanto previsto dall’articolo 177, comma 4; c) acquisisce, ove previsto dalla normativa vigente, la valutazione di compatibilità ambientale; d) trasmette le proprie conclusioni con i relativi atti alla regione”. Per l’istruttoria tecnica della domanda la Regione può avvalersi delle Agenzie regionali per la protezione dell’Ambiente.
Autorizzazioni
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La regione, entro trenta giorni dal ricevimento delle conclusioni della conferenza e sulla base delle risultanze della stessa, in caso di valutazione positiva approva il progetto e autorizza la realizzazione e la gestione dell’impianto. L’approvazione: – sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, – costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico comunale, – e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori. Il termine complessivo per la conclusione del procedimento è quindi di 150 giorni (30 giorni dalla ricezione della domanda di autorizzazione per nominare il responsabile del procedimento e convocare la conferenza dei servizi, 90 giorni per l’istruttoria da parte della conferenza e 30 giorni per la deliberazione da parte della regione) e può essere interrotto, una sola volta, da eventuali richieste istruttorie rivolte al soggetto interessato al rilascio dell’autorizzazione. La realizzazione di varianti sostanziali in corso d’opera o di esercizio dell’impianto deve essere preventivamente autorizzata secondo la procedura in precedenza descritta. L’autorizzazione individua le condizioni e le prescrizioni necessarie per garantire l’attuazione dei principi secondo i quali i rifiuti devono essere recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente ed in particolare individua: a) i tipi ed i quantitativi di rifiuti che possono essere trattati; b) per ciascun tipo di operazione autorizzata, i requisiti tecnici con particolare riferimento alla compatibilità del sito, alle attrezzature utilizzate, ai tipi ed ai quantitativi massimi di rifiuti e alla modalità di verifica, monitoraggio e controllo della conformità dell’impianto al progetto approvato c) le misure precauzionali e di sicurezza da adottare; d) la localizzazione dell’impianto autorizzato; e) il metodo da utilizzare per ciascun tipo di operazione; f) le disposizioni relative alla chiusura e agli interventi ad essa successivi che si rivelino necessarie; g) le garanzie finanziarie; h) la data di scadenza dell’autorizzazione; i) i limiti di emissione in atmosfera per i processi di trattamento termico dei rifiuti, anche accompagnati da recupero energetico. Le autorizzazioni concernenti l’incenerimento o il coincenerimento con recupero di energia sono subordinate alla condizione che il recupero avvenga con un livello elevato di efficienza energetica, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili. L’autorizzazione è concessa per un periodo di dieci anni, in luogo dei cinque in precedenza previsti dal D.L.vo 22/97, ed entro centottanta giorni dalla scadenza deve essere presentata domanda di rinnovo all’autorità competente che è tenuta a decidere in proposito prima della scadenza dell’autorizzazione. A norma del comma 12 dell’art. 208 le prescrizioni dell’autorizzazione: «possono essere modificate, prima del termine di scadenza e dopo almeno cinque anni dal rilascio, nel caso di condizioni di criticità ambientale, tenendo conto dell’evoluzione delle migliori tecnologie disponibili». Nel caso in cui controlli successivi all’avviamento dell’impianto rilevino l’inosservanza delle prescrizioni dell’autorizzazione l’autorità competente procede, secondo la gravità dell’infrazione:
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“a) alla diffida, stabilendo un termine entro il quale devono essere eliminate le inosservanze; b) alla diffida e contestuale sospensione dell’autorizzazione per un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente; c) alla revoca dell’autorizzazione in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni che determinino situazione di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente”. 19. Cosa accade in caso di “silenzio” della Pubblica Amministrazione, a seguito dell’attivazione di un procedimento amministrativo?
La disciplina generale sul procedimento amministrativo, ovvero la Legge 7 agosto 1990 n. 241 e sue successive modificazioni (in particolare, la Legge 11 febbraio 2005, n. 15) ha regolamentato, tra le altre, una delle problematiche giuridiche che maggiormente incidono sullo svolgimento dell’attività dei privati, ovvero il silenzio della P.A. In termini generali, senza pretese esaustive sull’argomento, è possibile affermare che il silenzio corrisponde all’inerzia dell’amministrazione. Sulla base del dato normativo (art. 20 legge n. 241/90) quando l’amministrazione rimane inerte generalmente il silenzio assume significato di assenso, ovvero l’ordinamento collega al decorso del termine per la produzione di un effetto equipollente all’emanazione di un provvedimento favorevole. Pochi sono i casi di silenzio diniego, che devono comunque essere espressamente previsti dalla legge. Il comma 4 dell’art. 20 ha però anche tipizzato una serie di importanti eccezioni in ordine alle quali il silenzio non può valere come assenso ma va qualificato come inadempimento; si tratta di tutte quelle ipotesi in cui l’amministrazione, sulla quale grava il dovere giuridico di agire emanando un atto amministrativo a seguito di istanza del privato, ometta di provvedere a conclusione di procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l’immigrazione, la salute e l’incolumità pubblica. In campo ambientale tutte le volte in cui si dà il via, per mezzo di richiesta di autorizzazione, ad un procedimento amministrativo, non solo l’amministrazione ha il dovere generico di concludere il procedimento ai sensi dell’art. 2 comma 1 legge n. 241/90, ma il decorso del tempo prefissato dal legislatore nella disciplina speciale ambientale senza l’adozione del provvedimento, ovvero senza il rilascio dell’autorizzazione richiesta (salva la motivata interruzione dei termini per chiarimenti e integrazioni, e naturalmente salvi i casi in cui si tratti di semplice comunicazione, come per le procedure semplificate per l gestione dei rifiuti), costituisce una forma di inadempimento della P.A. Il rimedio a tale situazione di inerzia – prima della riforma del 2005 alla Legge n. 241/90 sopra citata – secondo la giurisprudenza maggioritaria, avvalorata anche dall’interpretazione governativa, prendeva le mosse da una diffida formale alla amministrazione inerte (per mezzo di ufficiale giudiziario) così come disposto dall’art. 25 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 “Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”, secondo il quale:
Autorizzazioni
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“L’omissione di atti o di operazioni, al cui compimento l’impiegato sia tenuto per legge o per regolamento, deve essere fatta constare da chi vi ha interesse mediante diffida notificata all’impiegato e all’amministrazione a mezzo di ufficiale giudiziario”. Il D.L.vo 2 luglio 2010, n.104 ha sostanzialmente ribadito quanto precedentemente disposto dalla legge 11 febbraio 2005 annullando tutti i dubbi in merito alla necessità di diffida espressa quale atto necessario per l’avvio dei rimedi verso l’inerzia della P.A.: l’art. 117 del citato decreto legislativo prevede infatti che “il ricorso avverso il silenzio è proposto, anche senza previa diffida, con atto notificato all’amministrazione e ad almeno un controinteressato”. Infine si segnala che il D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, conv. con modif., dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, ha ulteriormente modificato la materia de qua sostituendo, tra l’altro, i cc. 8 e 9 dell’art. 2 della legge n. 241/1990. Il primo dei menzionati commi dispone ora che “la tutela in materia di silenzio dell’amministrazione è disciplinata dal codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n.104. Le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento dell’amministrazione sono trasmesse, in via telematica, alla Corte dei conti”. Il comma 9 prevede invece che “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”. 20. Un consorzio di bonifica, in base a quale titolo o autorizzazione può continuare ad esercitare, in via ordinaria e regolare, la raccolta ed il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi, il deposito ed il recupero di inerti da demolizione, la bonifica di manufatti e/o parte di fabbricati contenenti amianto?
L’art. 212, co. 5, D.L.vo 152/06 dispone che “l’iscrizione all’Albo è requisito per lo svolgimento delle attività … di bonifica dei beni contenenti amianto” e il successivo co. 8, D.L.vo 152/06 prevede che “i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti, nonché i produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedenti trenta chilogrammi o trenta litri al giorno, non sono soggetti alle disposizioni di cui ai commi 5, 6, e 7 a condizione che tali operazioni costituiscano parte integrante ed accessoria dell’organizzazione dell’impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti”. Com’è evidente, si tratta di due tipologie di attività tra loro differenti, anche perché l’art. 212, co. 5 cit. parla genericamente dell’iscrizione all’Albo Gestori Ambientali come un requisito da possedere per effettuare l’attività di bonifica dei beni contenti amianto; viceversa, l’art. 212, co. 8 si rivolge espressamente alle “imprese” che, esercitano la raccolta e il trasporto di propri rifiuti non pericolosi come parte integrante ed accessoria dell’impresa. A questo punto, è necessario calare la sopraccitata normativa nella fattispecie concreta, in quanto il Consorzio di bonifica non è giuridicamente qualificabile come impresa ai sensi dell’art. 2082 cod. civ., ma è un ente pubblico economico non commerciale.
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Per capire se codesto ente pubblico sia soggetto o meno all’obbligo di iscrizione, è opportuno considerare la ratio dell’istituzione dell’Albo stesso: quest’ultimo riveste un ruolo centrale nel complesso sistema che regola la gestione dei rifiuti, in quanto si configura come strumento di qualificazione delle imprese del settore, punto di riferimento e garanzia per tutti i soggetti coinvolti nel complesso sistema della gestione dei rifiuti: le imprese che producono rifiuti, e che li devono affidare a soggetti qualificati, le amministrazioni pubbliche, gli organi di controllo e i cittadini. Istituito, dunque, quale ente pubblico di qualificazione (delle sole imprese) e non di verifica, in via generale l’Albo non iscrive altri soggetti pubblici (non ha senso che un ente pubblico dimostri a un ente pubblico la sua attività): in particolare, il Consorzio di bonifica, creato appositamente a tale scopo, non necessita di essere qualificato (il suo fine non è il profitto, ma persegue obiettivi di tipo ambientale in senso lato).
La compatibilità dell’attività di gestione dei rifiuti di una ditta iscritta in procedura semplificata va accertata anche in riferimento agli strumenti urbanistici o ai vincoli di pianificazione vigenti?
21.
Un forte limite presente già nel Decreto Ronchi, relativamente alla procedure semplificate, è l’assenza di ogni riferimento alla disciplina urbanistica: se per svolgere attività soggette ad autorizzazione era ed è prevista apposita conferenza di servizi all’interno della quale sono valutati tutti i profili del progetto, ed è inoltre espressamente prevista (art. 208 c. 6 ultimo cpv) la possibile variazione automatica degli strumenti urbanistici, nel caso di attività iniziate a seguito di semplici comunicazioni né gli articoli 214 e 216 D.L.vo 152/06 fanno riferimento alcuno al profilo urbanistico. È dunque legittimo il dubbio delle Province circa la possibilità di iscrivere ditte nel registro delle imprese che svolgono operazioni di recupero solo avendo verificato il rispetto delle norme tecniche sui rifiuti o se invece non si debba anche accertare la compatibilità dell’attività di gestione dei rifiuti con lo strumento urbanistico vigente o i vincoli di pianificazione, come nel caso di specie. Invero la risposta viene dall’interpretazione stessa delle norme di legge, secondo quanto espresso dalla prevalente dottrina, unitamente a quanto – indirettamente – affermato sul punto dall’Albo Gestori Ambientali. L’art. 214 c. 7 precisa, infatti, che: “La costruzione degli impianti che recuperano rifiuti nel rispetto delle condizioni, delle prescrizioni e delle norme tecniche di cui ai commi 2 e 3 (ergo, impianti in cui si effettuano attività di recupero in procedura semplificata – N.d.R.) è disciplinata dalla normativa nazionale e comunitaria in materia di qualità dell’aria ed inquinamento atmosferico”; l’art. 216 invece chiarisce che: “… l’esercizio delle operazioni di recupero dei rifiuti può essere intrapreso decorsi novanta giorni dalla comunicazione di inizio di attività alla provincia territorialmente competente”. Le procedure semplificate per il recupero rifiuti, dunque, riguardano esclusivamente l’esercizio delle operazioni e non anche la costruzione degli impianti, che per l’esercizio di alcune operazioni non sono nemmeno necessari (nel senso che l’operazione è svolta senza il supporto di un vero e proprio impianto; si pensi – per esempio – al recupero in cava per rilevati e sottofondi stradali) oppure gli impianti sono già esistenti e realizzati secondo il rispetto di tutte le norme che riguardano la costruzione di impianti industriali.
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In tal senso l’Albo, per mezzo di apposita Circolare n. 1962 del 29 dicembre 2006, affermava che le comunicazioni di inizio attività (inviate nel periodo transitorio in cui le competenze all’iscrizione al registro recuperatori erano passate alle sezioni regionali dell’Albo) il recupero rifiuti in procedura semplificata presso impianti non ancora realizzati o parzialmente realizzati dovevano considerarsi non ammissibili. Al di là della variazione delle competenze (avutasi già a seguito del D.L.vo 4/08), tornate alle province, il principio espresso dall’Albo resta ad oggi senz’altro valido, oltreché conforme alla ratio della disciplina vigente in materia. Del resto, che l’accesso alla procedura semplificata possa avvenire solo ove si disponga delle strutture destinate all’esercizio è principio affermato anche da una pronuncia del Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 4 maggio 2004, n. 2707, ove i giudici hanno dichiarato requisito indispensabile per il legittimo svolgimento della procedura semplificata la “disponibilità del sito” ove si svolge l’attività (seppur in senso lato e non strettamente in termini di compatibilità urbanistica). Se ne conclude che la Provincia competente al rilascio dell’iscrizione al registro dei recuperatori deve procedere sulla comunicazione di inizio attività ad una verifica d’ufficio che interessa anche gli aspetti sostanziali (oltreché meramente formali del rispetto della disciplina ambientale in senso stretto) quindi anche la conformità dell’impianto a fini industriali cui è destinato.
Le condanne penali sono ostative ai rinnovi autorizzatori della gestione rifiuti?
22.
L’esecuzione di operazioni di gestione rifiuti, sia di recupero che di smaltimento, è soggetta al rilascio preventivo di autorizzazione ex art. 208 D.L.vo 152/06. Unica eccezione a tale principio è rappresentata dallo svolgimento di attività di recupero rifiuti, secondo le procedure standard contenute al D.M. 5 febbraio 1998, se trattasi di non pericolosi, e al D.M. 161/2002 nel caso di rifiuti pericolosi, per le quali è prevista la possibilità di esercitare la gestione (ovvero il recupero) per mezzo di semplice comunicazione all’autorità competente ai sensi degli articoli 214 e ss del T.U.A. Tra i requisiti richiesti per legge per poter esercitare l’attività di gestione ve ne sono alcuni di carattere soggettivo, per i quali l’art. 195, comma 2 lett. g) D.L.vo 152/06 rimanda ad una competenza specifica dello Stato: “… per la determinazione dei requisiti e delle capacità tecniche e finanziarie per l’esercizio delle attività di gestione dei rifiuti, …”, che dovrebbe emanare appositi decreti, eventualmente successivamente recepiti dalle Regioni. Ad oggi risultano emanati provvedimenti in tema di requisiti soggettivi solo relativamente allo svolgimento di intermediario e commerciante senza detenzione di rifiuti (cfr. deliberazione Albo Gestori Ambientali n. 2 del 15 dicembre 2010, come modificata dalla successiva deliberazione 18 aprile 2012, n. 04). Alcune regioni, infatti, proprio nelle more della predisposizione dei decreti ministeriali si sono attivate allo scopo di disciplinare (per mezzo di atti o delibere, spesso di carattere dirigenziale) i procedimenti e la modulistica per la richiesta di autorizzazioni alla gestione di impianti di rifiuti. Frequentemente (si veda quanto previsto in tema dalle regioni Emilia Romagna, Lombardia, Toscana e Abruzzo) si è verificato che la domanda che accompagna la do-
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cumentazione tecnica presuppone la compilazione di un modulo in autocertificazione (ex art. 46, D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445) nel quale il titolare e/o rappresentante legale della ditta è tenuto a dichiarare (tra le altre cose): “ (…) – che la stessa ditta non si trova in stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione d’attività o di concordato preventivo e in qualsiasi situazione equivalente secondo la legislazione straniera; – di non aver riportato condanne con sentenza passata in giudicato, salvi gli effetti della riabilitazione e della sospensione della pena: 1. a pena detentiva per reati previsti dalle norme a tutela dell’ambiente; 2. alla reclusione per un tempo non inferiore ad un anno per un delitto contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica, contro il patrimonio, contro l’economia pubblica, ovvero per un delitto in materia tributaria; 3. alla reclusione per un tempo inferiore a due anni per un qualunque delitto non colposo; – di essere in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali o assistenziali in favore dei lavoratori, secondo la legislazione italiana o quella del Paese di residenza…” Questi stessi requisiti, in particolare il riferimento alle condanne penali, sono previsti solo dall’art. 212 del D.L.vo 152/06 (in tema di iscrizione all’Albo gestori ambientali) per mezzo del richiamo al D.M. n. 406 del 28 aprile del 1998 “Regolamento recante norme di attuazione di direttive dell’Unione europea, avente ad oggetto la disciplina dell’Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti”. Tale D.M., all’art. 10, c. 2, riporta una lunga lista di requisiti soggettivi per i titolari delle attività che intendono iscriversi all’Albo tra cui proprio il riferimento alle condanne penali: “… f) non abbiano riportato condanna passata in giudicato, salvi gli effetti della riabilitazione e della sospensione della pena: 1) a pena detentiva per reati previsti dalle norme a tutela dell’ambiente; 2) alla reclusione per un tempo non inferiore ad un anno per un delitto contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica, contro il patrimonio, contro l’ordine pubblico, contro l’economia pubblica, ovvero per un delitto in materia tributaria; 3) alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni per un qualunque delitto non colposo; …”. L’art. 208 del T.U.A. invece, in riferimento alla procedura “ordinaria” per il rilascio delle autorizzazioni non riporta alcun riferimento ai requisiti soggettivi, mentre l’art. 216, in tema di procedure semplificate per il recupero dei rifiuti al c. 3 lett. b) si riferisce genericamente “al possesso dei requisiti soggettivi richiesti per la gestione dei rifiuti”; per questa verificata assenza di riferimenti molto probabilmente le regioni si sono organizzate – nel modo più garantista possibile – per la gestione delle procedure riferendosi, anche nel caso del rilascio delle autorizzazioni e comunicazioni, ai medesimi requisiti previsti per l’iscrizione all’Albo. In tutti e tre i casi (autorizzazione, iscrizione e comunicazione) il legislatore ambientale punisce, penalmente, il titolare dell’attività esercita in essenza del titolo autorizzatorio o della comunicazione o dell’iscrizione, o che non ne rispetta le prescrizioni. Ai sensi dell’art. 256 c. 1, infatti: “Chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 è punito: a) con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi;
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b) con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi”; e le stesse pene (seppur diminuite della metà), sono previste, ai sensi del c. 4 del medesimo articolo, anche per: “… l’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni”. Trattandosi di reati punibili d’ufficio (ovvero su iniziativa della magistratura inquirente) il pubblico ministero, quando ritiene che si debba applicare soltanto una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva, può presentare al giudice per le indagini preliminari, entro sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato, richiesta motivata di emissione del decreto penale di condanna, indicando la misura della pena. In tal modo, se il giudice è in accordo con PM, il procedimento penale si chiude senza alcuna udienza e con “sconti di pena”: per l’imputato è prevista infatti la diminuzione sino alla metà del minimo edittale (art. 459 cod. proc. pen.). Il decreto penale di condanna non opposto – pur essendo equiparato ad una sentenza penale di condanna (in tal senso anche – in tema di scarichi idrici si veda Cass. Pen. sez. III, 11 maggio 2009, n. 19875) si differenzia dalle normali sentenze di condanna in relazione ad alcuni significativi effetti: – non è prevista la condanna al pagamento delle spese processuali; – la condanna una volta esecutiva non ha efficacia di giudicato in altri procedimenti civili o amministrativi; – il reato si estingue nel termine di 5 anni, quando il decreto concerne un delitto, ovvero di 2 anni, quando il decreto concerne una contravvenzione, e l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale e la condanna non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena. Nella formulazione originaria dell’articolo il legislatore prevedeva che il giudice potesse valutare la non menzione nel certificato penale, ma per effetto della riforma introdotta con la Legge n. 479/1999 tale riferimento è stato eliminato perché il T.U. in materia di casellario giudiziale esclude l’iscrizione di tutti i decreti penali sul certificato richiesto dall’interessato. Ciò significa che nel caso della richiesta di un’autorizzazione alla gestione rifiuti – a parere di chi scrive – sulla base dei requisiti sopra illustrati, la sussistenza di un decreto penale di condanna, non opposto, non è di ostacolo sia perché non compare nel casellario giudiziale sia perché esso non costituisce una condanna ad una pena detentiva. Nell’ipotesi in cui, invece, si intenda opporre il decreto penale, ai sensi dell’art. 464 c. 2, cod. proc. pen. la procedura prevede che possa essere presentata contestuale domanda di oblazione solo se trattasi di contravvenzione (quindi solo nel caso di rifiuti non pericolosi, art. 256 c. 1 lett. a); l’oblazione costituisce causa di estinzione del reato, per cui non solo vi è alcuna segnalazione nel casellario giudiziale ma essa non è ostativa in nessun modo (ma al pari del decreto penale di condanna, in base a quanto sopra detto, con la differenza che quest’ultimo si estingue nei tempi detti) alla richiesta di rilascio di autorizzazione alla gestione rifiuti.
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23.
In caso di rinnovo delle autorizzazioni qual è la procedura da seguire?
La disciplina nazionale vigente richiede che gli impianti che effettuano operazioni di smaltimento (quelle di cui all’Allegato D della Parte IV del D.L.vo 152/06) e recupero (operazioni di cui all’Allegato C della Parte IV del D.L.vo 152/06) debbano essere espressamente autorizzati. L’autorizzazione è rilasciata dalla Regione competente (o dalla Provincia delegata) e, ai sensi dell’art. 208 c. 12, ha una durata di 10 anni. Il rinnovo dell’atto autorizzatorio è vincolato per la sua validità a due condizioni (art. 208 c. 12): – richiesta dell’interessato 180 giorni prima della scadenza; – anticipo delle garanzie finanziarie secondo il regime specifico previsto da ogni regione. Solo in presenza di entrambe le condizioni, in pendenza dell’ottenimento del rinnovo dell’atto, è possibile proseguire legittimamente l’attività di recupero o smaltimento. Il rinnovo autorizzatorio rappresenta un’ipotesi di modifica dell’atto amministrativo. Qualora si tratti di modifica sostanziale, ovvero tale per cui “… l’impianto non è più conforme all’autorizzazione rilasciata” (art. 208 c. 19) sarà necessaria una nuova procedura ex art. 208, preceduta correttamente dalla convocazione di una conferenza di servizi; se invece l’amministrazione procedente valuta (eventualmente per mezzo dei pareri delle altre P.A. coinvolte) che si tratta di una modifica non sostanziale non sarà necessaria la convocazione della conferenza di servizi. L’ottenimento di una autorizzazione ordinaria alla gestione rifiuti può essere derogato solamente nel caso in cui l’impianto possa svolgere operazioni di recupero, ed in particolare quelle operazioni descritte al D.M. 5 febbraio 1998 in riferimento ai rifiuti non pericolosi o al D.M. del 12 giugno 2002 n. 161 per i rifiuti pericolosi, ad esito delle quali si ottengono MPS collocabili sul mercato. Il recupero dei rifiuti, da sempre privilegiato dal legislatore, lo è anche dal punto di vista amministrativo, infatti, tali operazioni possono essere svolte senza una vera e propria autorizzazione, ma per mezzo di semplice comunicazione alla Provincia competente che provvede alla iscrizione nel registro dei recuperatori (c.d. procedure semplificate ex artt. 214 e 216 D.L.vo 152/06). Occorre inoltre fare riferimento alla disciplina generale sul procedimento amministrativo contenuta nella Legge n. 241/1990 e ssmm., cui peraltro lo stesso articolo 214 rimanda. In particolare il riferimento è agli articoli 19 e 20 della Legge n. 241/90 (come modificati dalla Legge n. 80/2005) rispettivamente regolanti la “Dichiarazione di inizio attività” ed il “Silenzio assenso”, che rappresentano una fattispecie di formazione di effetti legali equivalenti al rilascio di atti di assenso, seppur per tramite di due vie diverse: nel caso del silenzio assenso (art. 20) a seguito di una finzione (di legge) dell’esistenza di un provvedimento favorevole; con la DIA invece avviene una sostituzione al provvedimento degli effetti legali fatti derivare dalla legge dalla stessa dichiarazione congiuntamente al decorso del termine, senza che l’amministrazione competente sia intervenuta con provvedimenti inibitori. L’ambito di operatività dei due istituti (apparentemente sovrapposto) è, in realtà, regolato dallo stesso articolo 20 (silenzio assenso) che al c. 1 precisa che la sua applicazione avviene: “Fatta salva l’applicazione dell’art. 19…” e l’art. 19 si applica ad ogni
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atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi. Si ritiene dunque che la fattispecie di cui all’art. 214 si possa far rientrare nella disciplina della dichiarazione di inizio attività di cui alla legge n. 241/90 ma, in rapporto di specialità – e quindi prevalente – rispetto a quest’ultima. Quanto al rinnovo, dunque, la disciplina speciale prevede (art. 216 co. 5, D.L.vo 152/06 e idem il previgente regime di cui all’art. 33 D.L.vo 22/97) il rinnovo di comunicazione ogni 5 anni. La norma non pone (come sopra illustrato per le autorizzazioni ordinarie di cui all’art. 208) né un termine di scadenza per la presentazione della domanda di rinnovo e, nel silenzio della legge, il termine massimo per il medesimo è dato dalla scadenza stessa dell’atto (in tal senso si veda TAR Em. Rom. BO, sez. I, sentenza n. 220 del 14 febbraio 2008), né riferimenti procedurali particolari. Soccorrono però alcune considerazioni. Il rinnovo – da un punto di vista puramente amministrativo – presuppone l’inefficacia dell’atto precedente per raggiungimento del termine. Sul punto la citata sentenza sottolinea anche che un “rinnovo” presentato oltre il termine di un anno dalla scadenza dell’atto non può qualificarsi come tale ma corrisponde a tutti gli effetti ad una nuova richiesta. Esiste dunque una differenza tra una nuova richiesta (o prima richiesta) ed un rinnovo. Nel caso della comunicazione in procedura semplificata la nuova richiesta (o prima richiesta) infatti presuppone la presentazione di documentazione ex novo e l’ottenimento di un (nuovo) numero di iscrizione al registro recuperatori, mentre in caso di mero rinnovo nulla di tutto ciò è previsto, poiché prevale – come detto – il meccanismo dell’autocertificazione, secondo cui è sufficiente una dichiarazione di prosecuzione della medesima attività svolta fino a quel momento. Alla luce delle norme procedurali, generali, si ritiene quindi che una conferenza di servizi non sia affatto richiesta nè in caso di rilascio di prima iscrizione al registro recuperatori tanto meno per un rinnovo. Resta inteso che se l’amministrazione lo ritiene opportuno (o il richiedente intenda confrontarsi) non è certo vietata la convocazione di conferenza di servizi anche nelle procedure semplificate. Per la procedura “ordinaria” ex art. 208, invece, occorre aver riguardo alla natura delle modifiche, sostanziali o meno. 24. Gli impianti autorizzati in procedura ordinaria ex art. 208 possono accettare solo trasportatori con autorizzazione ordinaria in Cat. 1 se urbani o 4 e 5 se speciali ma non, ad esempio, trasportatori in cat. 2?
Per quanto riguarda la possibilità di ricevere i conferimenti presso gli impianti di trattamento – smaltimento dai trasportatori iscritti in categoria 2, si precisa che poiché la categoria 2 è quella riguardante la “raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi indivi-
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duati ai sensi dell’articolo 216 del D.L.vo 152/06, avviati al recupero in modo effettivo ed oggettivo”, il trasportatore iscritto solo in categoria 2 non può conferire i rifiuti oggetto del suo carico presso un impianto di smaltimento. Viceversa, è ammissibile il conferimento qualora il trasportatore sia iscritto in categoria 1 “raccolta e trasporto di rifiuti urbani e assimilati”, categoria 4 “raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi”, categoria 5 “raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi”. Ciò in quanto non esistono restrizioni relativamente alla destinazione: non si fa, infatti, riferimento né all’avvio a recupero piuttosto che a smaltimento. Non c’è, dunque, contrasto, come invece si rileva per i conferimenti che avvengono mediante trasportatori iscritti solo in categoria 2 (recupero): i rifiuti individuati ex art. 216 (operazioni di recupero) e avviati al recupero in modo effettivo ed oggettivo non possono essere destinati a smaltimento. Qualora, invece, il gestore dell’impianto di smaltimento accetti un conferimento di rifiuti destinati a recupero, ad avviso di chi scrive si ritiene configurabile un’attività di gestione rifiuti non autorizzata, sanzionata dall’art. 256, c. 1 con la pena dell’arresto da 3 mesi a 1 anno o con l’ammenda da 2.600 € a 26.000 € (rifiuti non pericolosi). Si tenga presente, tuttavia, che l’Albo Nazionale Gestori ambientali, con la circolare n. 240 del 9 febbraio 2011, ha precisato che: “L’articolo 212 del D.L.vo 152/06, come modificato dall’articolo 25 del D.L.vo 205/10, non prevede più la specifica procedura d’iscrizione per l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti avviati alle operazioni di recupero svolte ai sensi dell’art. 216 del D.L.vo 152/06. Come è noto, tale procedura è stata inquadrata nelle categorie 2 e 3 dal D.M. 406/98. Inoltre, il comma 15 dello stesso articolo 212 prevede che, fino all’emanazione del nuovo regolamento dell’Albo, continuano ad applicarsi, per quanto compatibili, le disposizioni del D.M. 406/98. Considerato che le disposizioni relative all’istituzione delle categorie 2 e 3 e alla relativa procedura d’iscrizione di cui agli articoli 8, 9 e 13, del D.M. 406/98, non sono compatibili con le nuove previsioni legislative, il Comitato nazionale ha ritenuto che, fatte salve le iscrizioni in essere e le eventuali successive variazioni, non sia più possibile presentare domanda d’iscrizione o di rinnovo dell’iscrizione per tali categorie. Pertanto, in sede di domanda o di rinnovo dell’iscrizione, le imprese o gli enti dovranno iscriversi nella categoria 4 o 5 per i rifiuti speciali individuati, rispettivamente, dal D.M. 5 febbraio 1998 e dal D.M. 12 giugno 2002, n. 161”.
Sussiste l’obbligo di verifica della correttezza delle autorizzazioni tra soggetti legati nella gestione dei rifiuti? 25.
Sul punto si è recentemente espressa la Corte di Cassazione Penale, Sez. III, con la sentenza n. 13363 del 10 aprile 2012, nella quale è affermato che “dall’esame degli att. 188, 193 e ss. del D.L.vo 152 del 2006 emerge che tutti i soggetti che intervengono nel circuito della gestione dei rifiuti sono responsabili non solo della regolarità delle operazioni da essi stessi posti in essere, ma anche di quelle dei soggetti che precedono o seguono il loro intervento mediante l’accertamento della conformità dei rifiuti a quanto dichiarato dal produttore o dal trasportatore, sia pure tramite la verifica della regolarità degli appositi formulari, nonché la verifica del possesso delle prescritte autorizzazioni da parte del soggetto al quale i rifiuti sono conferiti per il successivo smaltimento”.
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La P.A. può modificare unilateralmente l’autorizzazione rilasciata ex art. 208?
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Il comma 12 dell’art. 208, D.L.vo 152/06 dispone che “le prescrizioni dell’autorizzazione possono essere modificate, prima del termine di scadenza e dopo almeno cinque anni dal rilascio, nel caso di condizioni di criticità ambientale, tenendo conto dell’evoluzione delle migliori tecnologie disponibili e nel rispetto delle garanzie procedimentali di cui alla legge n. 241/1990”. Si tenga presenta, inoltre, che l’Autorità competente, nel rilasciare le autorizzazioni, può introdurre prescrizioni, condizioni e limiti più gravosi di quelli previsti dalla legge. In questi termini, infatti, si è altresì espressa la giurisprudenza amministrativa: “il rilascio dell’autorizzazione è subordinato alla pronuncia circa la compatibilità ambientale del progetto, ma è ben possibile che, a fronte di una pronuncia in sede V.I.A. favorevole con prescrizioni, l’autorizzazione possa comunque essere rilasciata, sia pure con la puntuale imposizione delle precauzioni da prendere in materia di sicurezza ed igiene ambientale. (…) In particolare, è da ritenere che: – laddove le prescrizioni in materia ambientale presentino carattere – per così dire – “a regime”, l’avvio della gestione dell’impianto sarà possibile e l’adozione di tali prescrizioni dovrà avvenire durante l’intero corso della gestione; – laddove, invece, l’adozione delle prescritte misure di salvaguardia ambientale risulti necessaria per lo stesso avvio dell’iniziativa, è da ritenere che tale avvio sia in concreto possibile solo laddove le prescrizioni risultino de facto realizzate” (cfr. TAR Puglia, LE, Sez. I, 20 novembre 2007, n. 3918). Di fronte ad un potere discrezionale tanto ampio della Pubblica Amministrazione, la limitazione temporale di cui al citato art. 208, comma 12, deve essere letta a garanzia dell’autorizzato: deve cioè essere intesa nel senso che è fatto divieto all’Amministrazione di modificare unilateralmente le prescrizioni contenute nelle autorizzazioni rilasciate prima della scadenza del quinquennio e solo qualora sussistano condizioni di criticità ambientale. Ciò pertanto non significa che all’Amministrazione è fatto sempre divieto di modificare prima del quinquennio le prescrizioni contente nelle autorizzazioni rilasciate, soprattutto se tale modifica avviene a seguito di istanza dell’autorizzato, nella quale si suggeriscono valide soluzioni alternative.
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Biogas e biomasse
27.
Le biomasse sono rifiuti o no?
L’art. 2, c. 1, lett. e), D.L.vo 28/11 (che riporta fedelmente quanto previsto dall’art. 2, lett. e, direttiva 2009/28/CE) definisce biomassa “la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”. Tale previsione deve però coordinarsi con quanto previsto negli Allegati alla Parte V del D.L.vo 152/06. Dall’esame della suddetta normativa si evince infatti che una biomassa non è rifiuto nel caso in cui il processo dal quale deriva l’energia che produce rispetti i valori di emissione di cui all’Allegato I, parte IV e, contestualmente, essa sia censita nei materiali di cui all’Allegato X.
Nella prospettiva di utilizzare la biomassa come combustibile proveniente dal circuito Rilegno, sono utilizzabili le biomasse individuate dai codici CER 03.01.05 – 15.01.03 – 17.02.01 – 19.12.07 – 20.01.38? L’energia prodotta dà diritto al riconoscimento delle incentivazioni riservate agli impianti IAFR?
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La sezione 4, Parte II dell’Allegato X alla Parte V del T.U.A. a seguito delle modifiche introdotte dal D.L.vo 29 giugno 2010, n. 128 (cd. terzo correttivo), stabilisce al paragrafo1-bis che l’elenco delle biomasse ivi contenuto non esaurisce il complesso di quelle che il D.L.vo 387/03 definisce biomasse, poiché ne tiene fuori, evidentemente le cd. biomasse-rifiuti. Di conseguenza, in ordine all’applicabilità della tariffa onnicomprensiva, riconosciuta dal D.M. 18 dicembre 2008 (art. 3, co. 2) per tutti gli impianti a fonti rinnovabili con potenza nominale media annua non inferiore a 1 kW e con potenza elettrica nominale non superiore a 1 MW (non superiore a 0,2 MW per l’eolico), entrati in esercizio in data successiva al 31 dicembre 2007, laddove all’art. 16 (attraverso un rinvio alla Tabella 3 della Legge finanziaria 2008) tra le fonti rinnovabili ammesse al relativo beneficio, indica le biomasse, esso non può che far riferimento alla definizione contenuta nel D.L.vo 387/03, art. 2 la quale ricomprende anche i rifiuti che la ditta intende utilizzare come combustibili ed individuati con i codici CER 03.01.05 – 15.01.03 – 17.02.01 – 19.12.07 – 20.01.38.
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Sull’utilizzo di biomasse rifiuti, occorre inoltre guardare alla previsione dello stesso Decreto Rinnovabili, contenuta al comma 8 dell’art. 3: “Fermo restando quanto previsto all’art. 19, comma 2, per tutte le tipologie di rifiuto la quota di produzione di energia elettrica imputabile a fonti rinnovabili, riconosciuta ai fini dell’accesso ai meccanismi incentivanti di cui al presente articolo, è derivata applicando le procedure di cui al decreto del Ministro dello sviluppo economico di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 21 dicembre 2007”. A sua volta, l’art. 19, comma 2 prevede che “…Nelle more della definizione delle modalità di calcolo di cui al periodo precedente, la quota di produzione di energia elettrica imputabile a fonti rinnovabili riconosciuta ai fini dell’accesso ai meccanismi incentivanti è pari al 51% della produzione complessiva per tutta la durata degli incentivi nei seguenti casi: a) impiego di rifiuti urbani a valle della raccolta differenziata; b) impiego di combustibile da rifiuti ai sensi dell’art. 183 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, prodotto esclusivamente da rifiuti urbani”. L’analisi della normativa afferente la questione dell’ammissibilità delle biomasse al regime delle fonti rinnovabili, conduce in definitiva a ritenere che la qualificazione delle biomasse provenienti dal circuito Rilegno in termini di biomasse-rifiuti, esclude la riconducibilità delle stesse all’alveo dei “prodotti energetici” di cui all’art. 17 del D.L.vo 387/03, e quindi alla categoria delle esclusioni prevista dalla medesima norma. Ciò porta, pertanto, a ritenere applicabile il regime della tariffa onnicomprensiva di cui al D.M. 18 dicembre 2008, anche in ordine alle disposizioni relative all’incentivazione di rifiuti.
Come deve essere considerata la pollina destinata alla produzione di biogas? 29.
Relativamente alla natura giuridica del materiale principale che si intende utilizzare come combustibile per la produzione di energia, vi è da rilevare l’introduzione di una disposizione ad hoc (art. 2-bis, co. 1, del D.L. n. 171/2008, così come modificato dall’art. 18 della L. 4 giugno 2010, n. 96, cd. Legge comunitaria 2009). L’introduzione della norma contenuta nella Legge Comunitaria 2009 si è resa necessaria proprio al fine di chiarire il regime giuridico applicabile alla pollina, ove utilizzata in impianti di combustione per produrre energia, poiché nonostante la modifica introdotta dal secondo decreto correttivo all’art. 185, co. 2, sono rimasti aperti alcuni dubbi interpretativi derivanti dalla mancata inclusione della pollina tra i combustibili disciplinati come “fonti rinnovabili” dalla Sezione 4, Allegato X della Parte V del D.L.vo 152/06, recante le “Caratteristiche delle biomasse combustibili e relative condizioni di utilizzo”. L’art. 2-bis vigente dal 9 luglio 2010 così dispone: “Le vinacce vergini nonché le vinacce esauste ed i loro componenti, bucce, vinaccioli e raspi, derivanti dai processi di vinificazione e di distillazione, che subiscono esclusivamente trattamenti di tipo meccanico fisico, compreso il lavaggio con acqua o l’essiccazione, nonché, previa autorizzazione degli enti competenti per territorio, la pollina, destinati alla combustione nel medesimo ciclo produttivo sono da considerare sottoprodotti soggetti alla disciplina di cui alla sezione 4 della parte II dell’allegato X alla parte quinta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”.
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Tale disposizione qualifica la pollina destinata alla combustione nel medesimo ciclo produttivo, previa autorizzazione degli enti competenti per territorio, come “sottoprodotto”, soggetto alla disciplina di cui alla sezione 4 della parte II dell’allegato X alla parte quinta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, seppur in riferimento ad un processo di “combustione” e non di digestione anaerobica. 30. Paglia, sfalci e potature destinati alla produzione di energia da biomasse sono da considerare rifiuti?
Sulla possibilità di considerare rifiuti paglia sfalci e potature destinate alla produzione di energia da biomassa si rimanda al quesito n. 237.
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Bonifica siti inquinati
31.
Cosa si intende per bonifica dei siti inquinati?
Per bonifica si intende, ex art. 240, co. 1, lett. p), “l’insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)” ovvero i livelli di contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con applicazione della procedura di analisi di rischio sito specifica descritta negli allegati alla Parte IV del D.L.gs. 152/06 e sulla base dei risultati di un piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede anzitutto la messa in sicurezza e poi la bonifica. I livelli di concentrazione così definiti costituiscono, infatti, livelli di accettabilità per il sito. Esiste però una soglia di contaminazione del sito che non comporta necessariamente il passaggio alla bonifica e che si definisce concentrazioni soglia di contaminazione (CSC): ovvero un livello di contaminazione delle matrici ambientali che costituisce valore al di sopra dei quali è necessaria la caratterizzazione del sito e l’analisi di rischio sito specifica. La disciplina della bonifica è contenuta nel titolo V della parte IV del T.U.A., nonché nell’art. 257, per ciò che concerne le sanzioni. 32. Quali sono le procedure amministrative prescritte per procedere alla bonifica?
Le procedure amministrative ed operative sono di due tipologie. Entro 24 ore dall’evento o dall’individuazione di una contaminazione storica il responsabile dell’inquinamento deve mettere in opera le misure necessarie di prevenzione e messa in sicurezza, dandone apposita comunicazione al comune, alla provincia, alla regione e al prefetto, che sarà il tramite per inoltrare la notizia al Ministero dell’Ambiente. Peraltro, se il responsabile omette tale comunicazione l’autorità preposta al controllo (o comunque il Ministero) può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 € a 3.000 € per ogni giorno di ritardo. Attuate le necessarie misure di prevenzione, il responsabile svolge, nelle zone interessate dalla contaminazione, un’indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato, provvede al ripristino della zona contaminata, dandone notizia, con apposita autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti per
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territorio entro 48 ore dalla comunicazione. In tal caso, quindi, attraverso l’autocertificazione, si conclude il procedimento di ripristino ambientale senza giungere all’effettiva bonifica, ferme restando le attività di verifica e di controllo da parte dell’autorità competente da effettuarsi nei successivi quindici giorni. Qualora invece l’indagine preliminare accerti l’avvenuto superamento delle CSC, anche per un solo parametro, il responsabile dell’inquinamento ne deve dare immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate e, nei successivi 30 giorni, dovrà presentare alle predette amministrazioni, nonché alla regione territorialmente competente, il piano di caratterizzazione. Entro i trenta giorni successivi la regione, convocata la conferenza di servizi, procede all’autorizzazione del piano di caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative. Tale autorizzazione regionale costituisce assenso per tutte le opere connesse alla caratterizzazione, sostituendosi ad ogni altra autorizzazione, concessione, concerto, intesa, nulla osta. Sulla base delle risultanze della caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR) della quale, entro sei mesi dall’approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto responsabile dovrà presentare alla regione i risultati. L’analisi di rischio consiste in un puro calcolo probabilistico della frequenza di un evento, sulla base scientifica delle analisi precedentemente effettuate. Il rischio non è esclusivamente sanitario, ma più correttamente trattasi di “rischio ecologico”, ben più esteso, ad esempio connesso ad un’eventuale perdita di biodiversità. L’analisi comporta l’interpretazione probabilistica di transito della fonte nociva dalla sorgente al ricevente. Nella definizione dei limiti totali tollerati per CSR, vanno considerati i limiti per il singolo analita e le caratteristiche dello stesso (immobilità e persistenza del contaminante nelle matrici ambientali). La somma degli effetti di ciascuno sarà misura del rischio globale. Sono inoltre da considerare le caratteristiche della sorgente: valutazione delle dimensioni della stessa e se i riceventi sono soggetti a rischio espositivo diretto o indiretto. La conferenza di servizi convocata dalla regione, a seguito dell’istruttoria svolta in contraddittorio con il soggetto responsabile, approva il documento di analisi di rischio. Qualora gli esiti della procedura dell’analisi di rischio dimostrino che la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è inferiore alle concentrazioni soglia di rischio, la conferenza dei servizi, con l’approvazione del documento dell’analisi del rischio, dichiara concluso positivamente il procedimento. In tal caso la conferenza di servizi può prescrivere lo svolgimento di un programma di monitoraggio sul sito circa la stabilizzazione della situazione riscontrata in relazione agli esiti dell’analisi di rischio e all’attuale destinazione d’uso del sito. Se invece al contrario si dimostra che le concentrazioni contaminanti sono superiori alle CSR il soggetto responsabile deve sottoporre alla regione, nei successivi sei mesi, per l’approvazione il documento di analisi di rischio, il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente nel sito.
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Quali modifiche ha apportato il D.L.vo 4/08?
Per quanto attiene alle correzioni apportate dal D.L.vo 4/08 alla disciplina della bonifica, si segnala che sono state modificate alcune voci dell’allegato tecnico della bonifica. In particolare in riferimento al calcolo di del punto di conformità delle acque sotterranee, che rappresenta il punto a valle idrogeologico della sorgente dove deve essere garantito il ripristino dello stato originale, ecologico e chimico, del corpo idrico, che dovrà, ora, coincidere con il confine dell’area da bonificare, al fine di non consentire che dal sito vi sia una trasmissione della contaminazione al di fuori dello stesso. Quanto invece all’analisi rischio sanitaria per le acque sotterranee, il legislatore con il correttivo non consente più l’analisi del rischio per individuare gli obiettivi di bonifica, bensì afferma che l’obiettivo di bonifica deve essere costituito dai valori limite riportati in tabella 2 Allegato 5 al titolo V, cioè alle CSC e non alle CSR. Infine, avuto riguardo al rischio incrementale cancerogeno, si precisa che questo deve essere differenziato per la singola sostanza cancerogena e per quello cumulato. Tali modifiche sono vigenti a far data dal 13 febbraio 2008, in attesa di un decreto ministeriale di completa revisione delle modalità dell’analisi di rischio sanitaria. Si vuole precisare che l’art. 242 ai commi 5 e 7, prescrive solo le diverse procedure amministrative da attuarsi a seconda dell’esito della predetta analisi di rischio, ma non si preoccupa di prescrivere eventuali misure da porre in essere in caso di mancata approvazione dell’analisi stessa, per cui, sotto un profilo strettamente giuridico – normativo, non si riscontrano obblighi specifici imposti dalla legge a carico del responsabile dell’inquinamento in questa particolare fase.
Quali novità ha introdotto il D.L. 201/11, convertito dalla legge 214/11?
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L’art. 40, c. 5, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con modif. nella L. 22 dicembre 2011, n. 214 ha introdotto importanti modifiche all’art. 242: in primo luogo si segnala che al c.7 è stato aggiunto il seguente periodo: “Nel caso di interventi di bonifica o di messa in sicurezza di cui al periodo precedente, che presentino particolari complessità a causa della natura della contaminazione, degli interventi, delle dotazioni impiantistiche necessarie o dell’estensione dell’area interessata dagli interventi medesimi, il progetto può essere articolato per fasi progettuali distinte al fine di rendere possibile la realizzazione degli interventi per singole aree o per fasi temporali successive”. In secondo luogo si rileva che è stato altresì modificato il c. 9 del medesimo art. 242. Attraverso la suddetta modifica, è previsto che la messa in sicurezza operativa debba garantire la sicurezza sanitaria/ambientale ed evitare ulteriori propagazioni dei contaminanti in tutti i casi di siti contaminati, non limitandosi, come in passato, ai soli casi di siti contaminati con attività in esercizio. Si stabilisce, infine, che possano essere oggetto di autorizzazione gli interventi di manutenzione e di messa in sicurezza degli impianti e delle reti tecnologiche, a patto che non compromettano l’effettuazione o il completamento degli interventi di bonifica condotti adottando appropriate misure di prevenzione dei rischi.
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Alcune responsabilità possono ricadere anche sul soggetto che succede nella titolarità di un diritto reale ovvero nel possesso, al responsabile dell’abbandono? 35.
Una volta affermato l’obbligo di attivarsi per rimuovere l’inquinamento pregresso in capo all’autore dello stesso, resta aperta la problematica relativa al distinto ed eventuale obbligo di attivarsi in capo ad un soggetto diverso, succeduto all’inquinatore, per porre in essere le medesime attività di bonifica. Sul punto specifico il Tribunale di Venezia, sez. I penale, nella sentenza 29 maggio 2002 ha escluso l’esistenza, nel nostro ordinamento giuridico, di “una posizione di garanzia legata ad uno stato giuridico particolare quale quello di successore nell’esercizio del potere di impresa, successore nella titolarità di diritti reali ecc… che comporti l’obbligo di intervenire sullo stato di contaminazione pregresso”. Autorevole dottrina (Luca Prati) ha però commentato, pur condividendo il principio generale sopra esposto, che occorre distinguere i casi in cui un nuovo soggetto subentri nel possesso di un sito in cui sia presente una situazione di inquinamento “statica” o in cui l’inquinamento rappresenti un fenomeno storicizzato, che sfugge al potere attuale di custodia ed intervento che il proprietario deve esercitare, da quelli in cui vi sia una successione di soggetti distinti su una fonte attiva di inquinamento o su una fonte di pericolo attuale e concreto di inquinamento che il titolare dell’attività di impresa abbia l’obbligo di controllare in base alla normativa vigente. Anche in questo caso la responsabilità del subentrante non potrà essere apoditticamente affermata, ma dovrà puntualmente essere ricostruita sulla base delle norme in tema di gestione rifiuti, sicurezza sul lavoro, igiene pubblica. Appare esplicita la diversità delle posizioni giuridiche e di responsabilità tra l’inquinatore ed il proprietario del sito, distinguendo poi la posizione del proprietario nel caso dell’abbandono di rifiuti e di quello del caso della bonifica dei siti inquinati. Il proprietario è tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica; gli interventi di messa in sicurezza costituiscono onere reale sulle aree inquinate che deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica, mentre le spese per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale delle aree inquinate sono assistite da privilegio immobiliare ex art. 2748 cod. civ., opponibile anche nei confronti dei diritti acquistati da terzi sull’immobile. Chi ha cagionato l’inquinamento resta dunque il responsabile diretto e principale della bonifica ed il destinatario dell’ordinanza comunale di diffida ad adottare gli interventi necessari: quest’ultima dovrà essere, sì, notificata anche al proprietario del sito, ma, lo si ripete ancora una volta, ciò solo in forza dell’esistenza dell’onere reale sulle aree inquinate.
Come è possibile individuare il corretto momento consumativo del reato di omessa bonifica? 36.
La responsabilità per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale ha dato luogo, in vigenza del decreto Ronchi, a diverse opzioni interpretative sul momento consumativo del reato e sugli effetti penali conseguenti, che comunque oggi possono ritenersi ancora valide.
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Alcune tesi dottrinali hanno configurato la contravvenzione di omessa bonifica come un reato a condotta mista, oppure quale due ipotesi contravvenzionali con una causa di non punibilità derivante dal provvedere alla bonifica secondo il procedimento previsto dall’art. 17, ovvero infine, come reato di pericolo presunto che si consuma ove il soggetto non proceda al corretto adempimento dell’obbligo di bonifica con le cadenza procedimentalizzate dalla norma. Tale ultima ricostruzione è quella maggiormente condivisa anche dalla giurisprudenza, che ha sottolineato come essa sia maggiormente coerente anzitutto con il sistema complessivo della bonifica – nel quale si ravvisa una preferenza per gli adempimenti di messa in sicurezza e bonifica dei siti contaminati, ricollegata ad un rafforzamento penalistico dell’effettività delle misure integratorie del bene offeso, oltreché con i principi comunitari e nazionali in tema di danno ambientale. In tal senso si è anzitutto espressa la giurisprudenza amministrativa, interpretando l’obbligo di attivarsi per la bonifica dei siti inquinati in termini retroattivi, poiché il combinato disposto dell’art. 17 del decreto Ronchi e degli obblighi di cui al D.M. n. 471/99: “è diretto a risanare qualunque sito inquinato, purché sia tale al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo: infatti la situazione d’inquinamento va considerata come fenomeno permanente fintanto che non venga riportata nei limiti di accettabilità”. Secondo i giudici amministrativi la disciplina sulle bonifiche deve ritenersi operativa al momento dell’entrata in vigore del D.L.vo 22/97 e soprattutto ritenersi riferita a qualsiasi episodio di contaminazione che venga accertato dall’autorità competente, dalla sua vigenza in poi. Anche la terza sezione della Corte di Cassazione penale ha condiviso la tesi della giurisprudenza amministrativa e, nell’ambito di un procedimento riguardante il reato previsto dall’art. 51bis del D.L.vo 22/97, ha aderito all’orientamento dottrinario secondo cui il reato in questione avrebbe natura di reato omissivo di pericolo presunto: “…che si consuma ove il soggetto non proceda all’adempimento dell’obbligo di bonifica secondo le cadenze fissate dall’art. 17 del medesimo decreto. L’inquinamento o il pericolo concreto di inquinamento debbono essere inquadrati nei “presupposti di fatto” e non negli elementi essenziali del reato; questo consente l’applicazione della predetta norma anche a situazioni di inquinamento verificatesi in epoca anteriore all’emanazione del regolamento recato dal D.M. 471/1999”. La Corte ha da ciò ricavato la possibilità di applicazione della norma di cui all’art. 51 bis anche a situazioni verificatesi in epoca anteriore all’emanazione del regolamento 471/99 e ciò, non solo nell’ipotesi in cui il soggetto venga diffidato dal comune ai sensi dell’art. 17, ma ogniqualvolta sia rimasto inerte pur conoscendo o dovendo conoscere l’obbligo di attivarsi per la bonifica del sito.
Qual è il destino dei materiali provenienti da un sito sottoposto a bonifica, in particolare da un punto vendita carburante? 37.
Nei punti vendita di carburante, i serbatoi di benzina e gasolio vengono sottoposti periodicamente a prove tecniche di tenuta. A seconda del risultato, i gestori di detti punti vendita sono tenuti ad adempimenti differenti: in particolare, se le prove non riescono, il gestore effettua la notifica di cui all’art. 242 D.L.vo 152/06, in quanto ci
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si trova di fronte ad una situazione concreta potenzialmente in grado di contaminare il sito (se i serbatoi non tengono bene, potrebbero rilasciare imprecisate quantità di carburante, il quale a sua volta potrebbe contaminare il terreno circostante); viceversa, se le prove vanno a buon fine, il gestore non è tenuto ad effettuare alcuna comunicazione e procede con la sua normale attività. In questa seconda ipotesi, è possibile che il gestore debba effettuare, all’interno del suo punto vendita, attività di manutenzione tra loro diverse e che vanno opportunamente tenute distinte. Ad esempio, nulla quaestio qualora si tratti di cambiare semplicemente la recinzione di confine (non si tratta di un’attività rischiosa potenzialmente in grado di contaminare il sito, per cui il modesto quantitativo di terreno smosso può essere riutilizzato per il completamento della stessa attività di manutenzione); viceversa, nel caso in cui si debba procedere alla movimentazione dei serbatoi di carburante, la situazione è differente, perché trattasi di un’attività delicata la cui mala conduzione potrebbe mettere a rischio la tenuta dei serbatoi stessi e, nella peggiore delle ipotesi, cagionare uno sversamento di carburante e, quindi, una contaminazione del sito (in questo secondo caso, è del tutto evidente che dovranno approntarsi le procedure di cui al Titolo V della parte IV del D.L.vo 152/06 e che il terreno movimentato e contaminato non potrà essere riutilizzato in sito, ma andrà smaltito come rifiuto). Per quanto attiene, in particolare, all’ipotesi di un punto vendita carburanti sottoposto a bonifica, nel quale le indagini di caratterizzazione hanno evidenziato una contaminazione cd. “a macchia di leopardo”, ovvero sono state rilevate zone contaminate e zone non contaminate, la situazione si presenta più complessa. Infatti, in questo caso il riutilizzo delle terre scavate incontra grossi limiti posti dall’art. 186, D.L.vo 152/06. Il co. 1 della citata norma prescrive che “le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ottenute quali sottoprodotti, possono essere utilizzate per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati purché: … e) sia accertato che non provengono da siti contaminati o sottoposti ad interventi di bonifica ai sensi del titolo V della parte quarta del presente decreto”. Anche qualora sussistessero gli altri requisiti richiesti dalla legge, la lett. e) richiede espressamente che, ai fini dell’utilizzo delle terre quali sottoprodotti (ovvero al di fuori della normativa rifiuti), le terre non provengano da siti contaminati o sottoposti a bonifica, quale invece è il caso di specie. Non rileva che a seguito delle indagini di caratterizzazione alcune zone del sito non siano contaminate: pur comprendendo le ragioni di molti operatori del settore, purtroppo la norma “parla chiaro” e richiede non l’assenza di contaminazione delle terre scavate, bensì la prova della loro provenienza da un sito non contaminato o sottoposto a bonifica. E si tratta di una prova che, nel caso presentato nel quesito, non può essere fornita, proprio perché si muove dal presupposto che il sito sia sottoposto a bonifica. In questa fattispecie, pertanto, le terre scavate, lungi dal poter essere utilizzate quali sottoprodotti, dovranno essere gestite come rifiuti e correttamente smaltite secondo le disposizioni di cui alla Parte IV del D.L.vo 152/06.
Qual è la disciplina prevista per l’utilizzo delle terre e rocce da scavo per il ripristino di un sito contaminato? 38.
L’art. 17, c. 4, del D.L.vo 22/97 disponeva che “il Comune approva il progetto ed autorizza la realizzazione degli interventi”. Il successivo c. 7, precisava che “l’autoriz-
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zazione di cui al comma 4 costituisce variante urbanistica, comporta dichiarazione di pubblica utilità, di urgenza e di indifferibilità dei lavori, e sostituisce a tutti gli effetti le autorizzazioni, le concessioni, i concerti, le intese, i nulla osta, i pareri e gli assensi previsti dalla legislazione vigente per la realizzazione e l’esercizio degli impianti e delle attrezzature necessarie all’attuazione del progetto di bonifica”. Con l’entrata in vigore del D.L.vo 152/06, invece, la bonifica dei siti contaminati ha trovato apposita disciplina nel Titolo V della parte IV e le terre e rocce da scavo sono state normate, pur con frequenti modifiche, dall’art. 186. In particolare, l’art. 242, c. 7 prevede oggi che “ai soli fini della realizzazione e dell’esercizio degli impianti e delle attrezzature necessarie all’attuazione del progetto operativo e per il tempo strettamente necessario all’attuazione medesima, l’autorizzazione regionale di cui al presente comma sostituisce a tutti gli effetti le autorizzazioni, le concessioni, i concerti, le intese, i nulla osta, i pareri e gli assensi previsti dalla legislazione vigente compresi, in particolare, quelli relativi alla valutazione di impatto ambientale, ove necessaria, alla gestione delle terre e rocce da scavo all’interno dell’area oggetto dell’intervento ed allo scarico delle acque emunte dalle falde. L’autorizzazione costituisce, altresì, variante urbanistica e comporta dichiarazione di pubblica utilità, di urgenza ed indifferibilità dei lavori”. Senza dubbio la nuova disposizione è assai più precisa ed esaustiva rispetto a quella precedente, facendo peraltro apposito riferimento alle terre e rocce da scavo. A ciò si aggiunge, peraltro, che l’art. 186 precisa due aspetti di importanza decisiva: il c. 6, I cpv, dispone che “la caratterizzazione dei siti contaminati e di quelli sottoposti ad interventi di bonifica viene effettuata secondo le modalità previste dal Titolo V, Parte quarta del presente decreto”, per cui si riconferma la correttezza del ricorso alle specifiche norme in tema di bonifica e non alla prescrizione ex art. 186 D.L.vo 152/06. 39. In caso di aree contaminate di piccole dimensioni quali sono le procedure da seguire? Quali le responsabilità del proprietario del fondo?
Nel caso in esame occorre valutare l’applicazione di quanto previsto dall’art. 249, per le aree contaminate di piccole dimensioni, che godono di procedure amministrative e tecniche semplificate. Il riferimento è a superfici non superiori a 1.000 mq, per le quali devono applicarsi le procedure di cui all’Allegato IV del D.L.vo 152/06, ovvero il responsabile dell’inquinamento deve comunque effettuare una comunicazione di superamento delle CSC a comune, provincia e regione e, se gli interventi di messa in sicurezza si chiudono riportando i valori al di sotto delle soglie CSC, anche da un punto di vista amministrativo la procedura si chiude, diversamente, occorrerà procedere con l’analisi di rischio ed il relativo progetto di bonifica. Resta comunque fermo il principio di responsabilità in capo al soggetto inquinatore identificato. A riconferma di questo principio la vigente disciplina espressamente prevede, all’art. 245 comma 2, in merito agli obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione, che “Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all’articolo 242, il proprietario o il
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gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento delle concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’articolo 242. La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il comune, per l’identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o disponibilità”. Il D.L.vo 152/06 dunque esclude che il responsabile della bonifica o del danno ambientale vada individuato solo in virtù del rapporto esistente con l’apparato produttivo esistente nel sito inquinato, o con la proprietà di quest’ultimo. È però onere del proprietario incolpevole della contaminazione, una volta che la stessa sia posta a sua conoscenza, esclusivamente denunciare (comunicare) il fatto, per dare avvio alla procedura di ricerca del responsabile e dell’eventuale bonifica dell’area a spese della P.A (che porrà a garanzie degli interventi oneri reali e privilegi speciali sul sito ai sensi dell’art. 250 D.L.vo 152/06). 40. In caso di contaminazioni pregresse è possibile imporre all’attuale proprietario la bonifica dell’area?
Per il caso di contaminazioni pregresse l’art. 245, terzo comma, dispone: “Qualora i soggetti interessati procedano ai sensi dei commi 1 e 2 [le procedure di messa in sicurezza e ripristino] entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto, ovvero abbiano già provveduto in tal senso in precedenza, la decorrenza dell’obbligo di bonifica di siti per eventi anteriori all’entrata in vigore della parte quarta del presente decreto verrà definita dalla regione territorialmente competente in base alla pericolosità del sito, determinata in generale dal piano regionale delle bonifiche o da suoi eventuali stralci, salva in ogni caso la facoltà degli interessati di procedere agli interventi prima del suddetto termine”. Il riferimento ai “soggetti interessati” da un lato fa sì che si possa estendere l’efficacia dispositiva dell’articolo 245 ai soggetti in rapporto reale diretto con il bene (il proprietario, i gestori dell’area che abbiano il sito in possesso o disponibilità) e dall’altro consente l’operatività della disposizione sia nell’ipotesi di inquinamento pregresso (quindi non più in grado di rappresentare un rischio per la salute pubblica o per l’ambiente per la sua sostanziale stabilità) sia nelle ipotesi di eventi successivi che possono rappresentare un pericolo, situazione per la quale agli interessati è sempre richiesta la posa in opera di misure preventive. Sul punto occorre precisare che il sistema di responsabilità legato alla bonifica, contenuta all’art. 257, prevede una sanzione penale per il responsabile dell’inquinamento che non ha provveduto alla bonifica del sito: l’evento incriminato è l’inquinamento o il pericolo di inquinamento, purché cagionato da una condotta dolosa o anche solo colposa, la cui punizione è subordinata alla omessa bonifica. In presenza di una situazione di contaminazione pregressa o storica, dunque non è legittimo imporre all’attuale gestore o proprietario la bonifica dell’area, perché ciò implica che tali soggetti dovrebbero non solo doverosamente eliminare gli effetti diret-
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ti ed indiretti dello sversamento, ma accollarsi anche la rimozione dell’inquinamento precedentemente prodotto da terzi o comunque la cui provenienza non è stata accertata, e ciò costituisce violazione delle prescrizioni di cui agli artt. 240 e 242 del D.L.vo 152/06. È da notare inoltre – sul tema della responsabilità – che né le norme procedurali né il regime sanzionatorio, accennano alle cause, dolose o colpose o accidentali, del superamento della soglia di contaminazione; posto che nel nostro sistema giuridico, come noto, la responsabilità oggettiva rappresenta un’eccezione, dato che la norma di cui all’art. 2043 cod. civ. contiene la regola generale dell’imputazione della responsabilità per dolo o colpa (quindi le ipotesi speciali devono essere espressamente disciplinate), se ne conviene che nel vigente codice ambientale non esiste più una forma di responsabilità oggettiva per causazione accidentale dell’evento inquinamento, ma occorre, per attribuire la sanzione penale di cui all’art. 257, dimostrare almeno la colpa (trattandosi di contravvenzione) dell’inquinatore. Chi ha cagionato l’inquinamento resta dunque il responsabile diretto e principale della bonifica, nonché il destinatario dell’eventuale ordinanza comunale di diffida ad adottare gli interventi necessari. Quest’ultima deve essere notificata anche al proprietario del sito, ma ciò solo in forza dell’esistenza dell’onere reale sulle aree inquinate.
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CSS
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Che cosa si intende per Combustibile solido secondario?
In seguito alle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10, tra le definizioni di cui all’art. 183 del T.U. ambientale, si ritrova quella di “combustibile solido secondario (CSS)”, che sembra sostituire le definizioni abrogate di CDR e CDR-Q, esplicitata nei seguenti termini: “il combustibile solido prodotto da rifiuti che rispetta le caratteristiche di classificazione e di specificazione individuate dalle norme tecniche UNI CEN/TS 15359 e successive modifiche ed integrazioni; fatta salva l’applicazione dell’articolo 184 ter, il combustibile solido secondario, è classificato come rifiuto speciale”. La novità più importante è sicuramente la possibilità che il CSS, se si verificano alcune condizioni (quelle di cui all’art. 184-ter), possa essere considerato un prodotto; diversamente è da considerarsi un rifiuto speciale (CER 19.12.10).
A seguito delle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10 qual è il regime autorizzatorio per l’utilizzo dell’ormai abrogato CDR?
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Per quanto riguarda il regime autorizzatorio, si segnala che l’art. 39 del D.L.vo 205/10, contenente “Disposizioni transitorie e finali”, oltre ad occuparsi delle esclusioni ed abrogazioni, nonché ai commi 1, 2, 9, 10, e 15 delle norme relative al Sistri, contiene specifiche disposizioni che vanno ad integrare le norme del D.L.vo 152/06, riguardanti il tema del CDR, dei sottoprodotti, nonché singolari e nuove categorie di materiali e sostanze. Nello specifico, il comma 8, in riferimento agli impianti di trattamento rifiuti che prevedono la produzione o l’utilizzo di CDR e CDR-Q, stabilisce che tutte le relative autorizzazioni in essere all’esercizio dei medesimi impianti “rimangono in vigore fino alla loro scadenza naturale”, così come rimangono in vigore fino alla loro naturale scadenza “le comunicazioni per il recupero semplificato del CDR di cui alle procedure del DM 5 febbraio 1998, art. 3, Allegato 1, Suballegato 1, voce 14 e art. 4, Allegato 2, Suballegato 1, voce 1”, “salvo modifiche sostanziali che richiedono una revisione delle stesse”. Tale disposizione si raccorda con la previsione – di cui allo stesso art. 39, co. 3 – di abrogazione dell’art. 229 del D.L.vo 152/06, disciplinante il Combustibile da rifiuti e combustibile da rifiuti di qualità elevata – CDR e CDR-Q, così come definiti dal previgente art. 183, co. 1, lett. r) ed s).
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Centri di raccolta
Qual è l’attuale disciplina di riferimento per i centri di raccolta dei rifiuti urbani?
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Il 18 luglio 2009 è stato pubblicato in G.U. il D.M. 13 maggio 2009, recante la nuova disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti. Il D.M. ripropone – solo con alcune variazioni – i medesimi obblighi per i gestori dei centri previsti dal D.M. 8 aprile 2008 e descrive le caratteristiche tecnico-funzionali delle strutture. Le aree ecologiche esistenti e già corrispondenti ai requisiti del nuovo D.M. potranno continuare ad operare senza soluzione di continuità, per le altre, invece, gli adeguamenti dovranno esser condotti entro il 18 gennaio 2008. Si ricorda che il termine da ultimo richiamato è stato prorogato al 30 giugno 2010 solo dall’art. 8 co. 4 ter, D.L. 30 dicembre 2009 n. 194 convertito con modificazioni dalla L. 26 febbraio 2010 n. 25. Grazie anche alla (quasi) contestuale pubblicazione della Deliberazione 20 luglio 2009 dell’Albo Gestori Ambientali contenente i criteri e requisiti per l’iscrizione alla Categoria 1 in qualità di gestore dei centri di raccolta l’operatività del sistema è stata assicurata. Le vicissitudini del riconoscimento e classificazione dei centri di raccolta sono legate all’evoluzione del percorso giurisprudenziale e dottrinale che aveva portato, prima dell’entrata in vigore del D.L.vo 152/06, al convincimento che le piazzole ( o isole ecologiche o centri di raccolta che dir si voglia) dovessero essere considerate un vero e proprio centro di stoccaggio, ovvero qualificandosi quali attività direttamente preparatorie di una delle successive operazioni finali di smaltimento o di recupero. In realtà già la definizione di centro di raccolta contenuta all’art. 183 lett. cc) del D.L.vo 152/06, come modificato dal D.L.vo 4/08, che lo descriveva quale: “area presidiata ed allestita, senza ulteriori oneri a carico della finanza pubblica, per l’attività di raccolta mediante raggruppamento differenziato dei rifiuti per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento. …”, aveva messo in crisi la definizione dottrinale sopra riportata che poi è stata completamente rivista dal primo D.M. sui centri di raccolta, in attuazione dell’art. 183. Il D.L.vo 205/10 ha poi modificato l’art. 183, puntualizzando, tra l’altro e finalmente, che il raggruppamento riguarda i soli rifiuti urbani. Il D.M. 8 aprile 2008, pubblicato sulla G.U. n. 99 del 28 aprile 2008, descriveva infatti i centri di raccolta comunali o intercomunali quali “… aree presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di raccolta, mediante raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli impianti di recupero, trattamento e, per le frazioni non
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recuperabili, di smaltimento, dei rifiuti urbani e assimilati elencati in allegato I, paragrafo 4.2” (art. 1) nelle quali i rifiuti sono conferiti in maniera differenziata sia dalle utenze domestiche che non domestiche, “… nonché dagli altri soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al ritiro di specifiche tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche” (leggi “distributori di RAEE”). Tra le tipologie di rifiuti conferibili, pericolosi e non, si ritrovavano infatti, oltre agli imballaggi, la frazione organica umida, i farmaci e le batterie al piombo esauste, i rifiuti delle potature, le cartucce ed i toner esausti, i tubi al neon ed i RAEE, nonché i rifiuti assimilati ai rifiuti urbani sulla base dei vigenti regolamenti comunali. La novità assoluta era rappresentata dal fatto che il centro non doveva disporre di alcun tipo di autorizzazione alla gestione rifiuti, ma la sua realizzazione doveva essere semplicemente “… approvata dal Comune territorialmente competente”, si suppone sotto un profilo strettamente urbanistico, poiché i comuni non hanno alcuna competenza di carattere autorizzatorio in materia di gestione rifiuti, tutt’al più solo se espressamente delegati dalle Regioni. Tra le variazioni apportate al D.M. 8 aprile 2008 anzitutto all’art. 1 – campo di applicazione – il nuovo D.M. prevede che i rifiuti urbani e assimilati siano conferiti ai centri in maniera differenziata dalle utenze domestiche e non domestiche, anche attraverso il gestore del servizio pubblico. Quanto alle formalità amministrativo-burocratiche l’art. 2 sostituisce il termine “autorizzazione” con quello più appropriato di “approvazione”, che non ingenera più alcun dubbio in riferimento alla non necessità di autorizzazione alla gestione rifiuti per i centri di raccolta. Anche la Corte di Cassazione Penale (Sez. III) ha confermato, nella sentenza n. 17864 del 9 maggio 2011 tale orientamento, affermando che “l’attività dei centri di raccolta non è assoggettabile ad autorizzazione regionale in quanto la realizzazione di essi è soggetta unicamente all’approvazione del Comune territorialmente competente. Il centro di raccolta come tale non richiede, quindi, alcuna autorizzazione regionale non potendo essere di per sé classificato alla stregua degli impianti di smaltimento e/o recupero dei rifiuti per i quali è necessaria, invece, l’autorizzazione regionale. Ed a riprova di ciò si deve rilevare che nei centri di raccolta viene fatto espresso divieto in linea di principio di effettuare trattamenti di qualsiasi tipo, fatte salve alcune eccezioni come accade per le riduzioni volumetriche delle frazioni solide per agevolarne il successivo trasporto. Solo nel caso in cui si verifichi la non rispondenza alle previsioni indicate o si accerti l’effettuazione presso il centro di raccolta di attività che esulano dalla funzione propria di essi, si potrà valutare la necessità dell’autorizzazione regionale traendo le necessarie conseguenze sul piano penale dalla sua mancanza”. Ancora una volta però mancano le informazioni di base circa i riferimenti urbanistici essenziali ai quali il progetto deve essere conforme. Anche agli Allegati sono state apportate alcune variazioni. Anzitutto in riferimento tipologie di rifiuti ammesse nei centri: oltre alle 32 tipologie di rifiuti conferibili ne sono state aggiunte 13, tra cui, per le sole utenze domestiche, toner esauriti, mattoni e mattonelle provenienti da piccole ristrutturazioni ad opera del conduttore della civile abitazione e pneumatici fuori uso; potranno invece essere conferiti da utenze anche non domestiche le terre e rocce, i tubi fluorescenti ed altri rifiuti contenenti mercurio (codice CER 20 01 21) nonché i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (codice CER 20 01 23*, 20 01 35* e 20 01 36).
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Risultano poi introdotte alcune novità sul sistema di contabilizzazione dei rifiuti in ingesso e in uscita al fine della formazione di bilanci di gestione che si fondino anche su stime in assenza di pesatura, attraverso la compilazione del già previsto schedario. È previsto poi l’obbligo di comunicazione al centro di raccolta da parte del gestore dell’impianto di destinazione dei rifiuti circa l’effettiva e ultima destinazione degli stessi rifiuti o delle MPS, infine il termine di durata del deposito di ciascuna frazione merceologica presso il centro di raccolta è modificato in 3 mesi (rispetto al precedente “2 mesi”). La nuova disciplina ha dunque accolto le istanze di proroga dei termini per l’adeguamento delle piazzole ecologiche in Italia, tenuto conto che ogni regione sul tema aveva predisposto una disciplina autonoma e quindi differenziata e che in ogni caso non era certo possibile sospendere il servizio di conferimento dei rifiuti, per lo meno da parte dei cittadini; si deve leggere in senso positivo anche la semplificazione amministrativa (assenza di qualsivoglia provvedimento autorizzatorio) che faciliterà il compito dei nuovi (o vecchi) gestori.
Quali sono i compiti e le responsabilità del personale addetto ad un centro di raccolta?
44.
L’Allegato I del D.M. 8 aprile 2008 prevede che “a seguito dell’esame visivo dell’addetto” i rifiuti debbano essere collocati in aree distinte del centro, per flussi omogenei, attraverso l’individuazione delle loro caratteristiche e delle diverse tipologie e frazioni merceologiche, separando i rifiuti potenzialmente pericolosi dagli altri e quelli da avviare a recupero da quelli da avviare a smaltimento. Probabilmente per questo il punto 4.3 del medesimo allegato precisa, alla lettera a) che il “centro deve garantire la presenza di personale qualificato ed adeguatamente addestrato nel gestire le diverse tipologie di rifiuti conferibili, nonché sulla sicurezza e sulle procedure di emergenza in caso di incidenti”, oltre a (lettera b) “la sorveglianza durante le ore di apertura del centro”. Sui requisiti del personale di gestione del centro è intervenuta in modo dettagliato la Deliberazione dell’Albo del 20 luglio 2009. Anzitutto i soggetti che intendono gestire un centro di raccolta devono iscriversi alla categoria 1 dell’Albo, dimostrare la dotazione minima di personale addetto e nominare almeno un responsabile tecnico munito dei requisiti stabiliti per la categoria 1. L’Allegato 2 della Deliberazione dell’Albo precisa inoltre che la “formazione e l’addestramento del personale addetto sono garantiti e attestati dal responsabile tecnico”; tali requisiti devono sussistere già al momento della presentazione della domanda. Alla luce dei riferimenti normativi sopra riportati è possibile affermare che il compito del personale “addetto” al centro di raccolta è (anche) quello di “presidiare” il centro stesso, al quale si affianca però l’importante e più complesso compito della gestione vera e propria, che non si estrinseca mai in una attività di “trattamento” dei rifiuti in ingresso ma piuttosto di corretta identificazione (anche per mezzo della lettura del FIR, là ove previsto) e collocazione all’interno della struttura. Sono contemplate poi a carico dei gestori del centro una serie di verifiche e controlli sui rifiuti in uscita e l’avvio di un nuovo sistema di “contabilizzazione” dei rifiuti gestiti.
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Tutti questi compiti non possono che essere affidati a personale qualificato (al di là del responsabile tecnico) e quindi ben difficilmente essere ad esclusivo appannaggio del personale delle associazioni di volontariato o delle cooperative (salvo che non si tratti di “personale abilitato” secondo la normativa vigente, come più oltre si dirà) alle quali, tutt’al più, potranno essere assegnati compiti di solo presidio del centro (ad es.: apertura e chiusura e reception ai cancelli) in affiancamento al personale competente.
Quali documenti vanno compilati per il trasferimento verso i luoghi di destino? 45.
Il rifiuto urbano che potrebbe anche essere entrato senza FIR per trasporto diretto del Gestore o del suo sub-appaltatore o del semplice cittadino, potrebbe uscire con FIR nel momento in cui a trasportarlo sia un terzo (trasportatore autorizzato) e non il gestore o il suo sub-appaltatore. In tale ipotesi il FIR, pur essendo riferito ad un CER urbano dovrebbe essere compilato con riferimento alla “detenzione” presso il centro di raccolta “del comune di …”, il cui addetto deve poter apporre validamente una firma al documento. Lo stesso accade per i rifiuti assimilati conferiti da terzi o per i domestici conferiti dai cittadini e ritirati da terzi: il FIR in uscita presupporrà il riferimento al centro di raccolta quale detentore, con conseguente firma del documento da parte dell’addetto abilitato. Sostanzialmente quindi, l’uscita dalle aree deve sempre esser accompagnata da FIR, indipendentemente dall’impianto di destino che dovrà raggiungere, poiché l’unica eccezione è rappresentata dal trasporto dell’urbano (o assimilato) da parte del soggetto gestore o del suo sub-appaltatore. La compilazione più congrua alla realtà e comunque più corretta è quella che consente di individuare la provenienza del rifiuti dal centro (indicato in qualità non di produttore del rifiuto, bensì di detentore) in modo da agevolare anche l’apposizione della firma al documento.
Cosa s’intende per bilanci volumetrici e quali sono i documenti da compilare? 46.
La disciplina sui centri di raccolta prevede un sistema di controllo dei rifiuti conferiti per mezzo della compilazione di un apposito modello di “scheda di conferimento” per le sole utenze non domestiche, che identifica la tipologia di rifiuto ed i dati del conferitore, ed una scheda in uscita (che però parrebbe riferita a tutte le tipologie di rifiuti, poiché non vi alcuna specificazione in merito nel decreto). Sulla base di questi dati deve essere realizzato un “bilancio di massa” o “volumetrico”, per mezzo della tenuta di uno schedario, anche informatico. Lo scopo della contabilizzazione appare del tutto simile alle registrazioni sui tradizionali registri di c/s, di cui al D.L.vo 152/06, art. 190; ed in effetti è quello di mantenere monitorati i flussi dei rifiuti; seppur i bilanci di massa che prevedono una contabilizzazione in ingresso delle sole utenze non domestiche ed in uscita di tutti di rifiuti
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non possono certo essere considerati rappresentativi in modo completo della realtà di “transito dei rifiuti”. Questo schedario, secondo alcuni commentatori è assolutamente sostitutivo del registro di carico e scarico dei rifiuti per il centro; secondo altri invece lo schedario non va confuso con il registro ex art. 190, che “… resta un obbligo per chiunque, come il centro di raccolta, effettua raccolta rifiuti a titolo professionale”, pur non essendo un impianto di trattamento rifiuti. A parte le difficoltà oggettive di compilare un modello adeguato di registro, non si può non sottolineare che la ratio del legislatore creando questi centri di raccolta voleva essere quella della semplificazione e dell’agevolazione del conferimento dei RU, quindi prevedere una doppia compilazione di documenti (che attestano il medesimo flusso) non può che essere contrario alla ratio del decreto, oltreché ripetitivo. La questione resta comunque ancora aperta.
È possibile il conferimento dell’indifferenziato urbano nel centro di raccolta a seguito di apposita delibera del Comune? 47.
Se è vero che il RU indifferenziato non può e non deve essere conferito al centro di raccolta perché il codice CER 20.03.01 non è previsto nel D.M. 8 aprile 2008 ed inoltre i conferimenti ai centri hanno la caratteristica (dichiarata espressamente all’art. 1 del D.M. stesso in tutte le sue versioni) di riguardare i rifiuti differenziati; è altresì vero che se i comuni per effetto di delibera di assimilazione identificano con il codice 20.03.01 anche ciò che usualmente non è rifiuto urbano indifferenziato, permane il medesimo divieto di conferimento, poiché prevale comunque la natura di “indifferenziato” di tale rifiuto, e quindi il divieto di collocarlo presso i centri di raccolta; ciò peraltro indipendentemente da colui che lo conferisce. Medesima conseguenza operativa, ovverosia divieto di conferimento, è anche per quanto riguarda i rifiuti dello spazzamento. In questo caso non vi è contraddizione in termini poiché i rifiuti dello spazzamento sono ab origine urbani e quindi non esiste il problema di essere considerati “assimilati”: resta però la “dimenticanza” del legislatore relativamente al codice CER adeguato per poterli conferire ai centri di raccolta.
È previsto un regime di esenzione del formulario per la gestione del servizio pubblico di raccolta – trasporto dei RU dalle piazzole ecologiche?
48.
L’art. 193 comma 4 del decreto n. 152/06 (nella versione precedente alle modifiche introdotte dal D.L.vo 205/10), così come in precedenza l’art. 15 comma 4 del decreto Ronchi, prevede il regime di esenzione dalla compilazione del formulario per il trasporto dei rifiuti urbani effettuato “… dal soggetto che gestisce il servizio pubblico di raccolta”. La lettera dell’articolo parla genericamente del soggetto che gestisce il servizio pubblico, e non del “soggetto gestore” ed è per questo che si è aperto in dottrina un dibattito sull’interpretazione di questo riferimento. Alcuni commentatori hanno ritenuto che, nel caso in cui il soggetto che gestisce il servizio pubblico non operi direttamente sul territorio ma si avvalga di terzi appaltatori, l’esenzione per l’utilizzo del formulario si estenda anche a questi ultimi.
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Vero è che l’art. 15 comma 4, e oggi anche l’art. 193 comma 4, trova chiarimento del suo contenuto nella Circolare esplicativa del Ministero dell’Ambiente del 4/8/1998 (n. GAB/DEC/812/98, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 11 settembre 1998, n. 212) lettera n), atto non certo avente forza di legge, ma che comunque non risulta abrogato per effetto dell’entrata in vigore del nuovo decreto. La circolare ministeriale precisa che: “in via di principio il trasporto di rifiuti urbani che non deve essere accompagnato dal formulario di identificazione ai sensi dell’art. 15, comma 4, del decreto legislativo n. 22/1997, è quello effettuato dal gestore del servizio pubblico nel territorio del comune o dei comuni per i quali il servizio medesimo è gestito. L’esonero dall’obbligo del formulario di identificazione si ritiene, tuttavia, applicabile anche nel caso in cui il trasporto dei rifiuti urbani venga effettuato al di fuori del territorio del comune o dei comuni per i quali è effettuato il predetto servizio qualora ricorrano entrambe le seguenti condizioni: 1) i rifiuti siano conferiti ad impianti di recupero o di smaltimento indicati nell’atto di affidamento del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani (ed a tal fine si ritiene che il concessionario del servizio di raccolta di rifiuti urbani e/o di frazioni differenziate di rifiuti urbani debba dotare ogni veicolo adibito al trasporto di una copia dell’atto di affidamento della gestione dal quale risulti. appunto, l’impianto cui sono destinati i rifiuti); 2) il conferimento di tali rifiuti ai predetti impianti sia effettuato direttamente dallo stesso mezzo che ha effettuato la raccolta …”. Dalla formulazione letterale della Circolare si evince che l’esonero dalla tenuta del FIR trova la propria motivazione nella particolare qualificazione del “soggetto gestore” oltreché nella tipologia dei rifiuti affidatigli (RU, pericolosi o non); di conseguenza, solo in capo a colui che viene identificato come tale è ammissibile l’applicazione della deroga. Tale esenzione dunque è applicabile anche al di fuori del territorio del comune o dei comuni per i quali è effettuato il servizio a condizione che i rifiuti urbani siano conferiti ad impianti di recupero o smaltimento indicati nell’atto di affidamento e che il trasporto avvenga con il medesimo mezzo che ha effettuato la raccolta, poiché resta fermo il principio che il trasporto di rifiuti urbani effettuato da un centro di stoccaggio a un centro di smaltimento o recupero deve sempre essere accompagnato dal formulario. L’esonero dall’emissione del FIR per il momento della raccolta e del trasporto al centro di smaltimento o recupero dei RU è presumibilmente legata ad una semplificazione gestionale dovuta al fatto che è molto difficile – se non impossibile – identificare, a partire dal cassonetto, il cittadino produttore del rifiuto. La CIRC. GAB/DEC/812/98 però prevede l’esonero esclusivamente se trattasi di conferimento a centri di trattamento previsti nel contratto di affidamento.
Se il trasporto dei rifiuti urbani dal territorio (raccolta domiciliare) al centro di raccolta viene effettuato da ditte in subappalto per conto del gestore del servizio pubblico necessita di formulario?
49.
Per quanto concerne il regime di esenzione del formulario per la gestione del servizio pubblico di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani, si dà brevemente conto del dibattito dottrinale inerente la prescrizione di cui all’art. 193, c. 4, D.L.vo 152/06 06 (nella
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versione precedente alle modifiche introdotte dal D.L.vo 205/10), secondo cui “le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano al trasporto di rifiuti urbani effettuato dal soggetto che gestisce il servizio pubblico né ai trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri”. Peraltro, la Circolare esplicativa del Ministero dell’Ambiente 4 agosto 1998, n. GAB/DEC/812/98 (tutt’ora in vigore) precisa che “in via di principio il trasporto di rifiuti urbani che non deve essere accompagnato dal formulario di identificazione ai sensi dell’art. 15, comma 4, del decreto legislativo n. 22/1997, è quello effettuato dal gestore del servizio pubblico nel territorio del comune o dei comuni per i quali il servizio medesimo è gestito”. Questa esenzione acquista decisiva importanza laddove risulti applicabile o meno anche ai terzi appaltatori del servizio pubblico, qualora il soggetto gestore non operi direttamente sul territorio. La dottrina è andata sempre più abbandonando le rigide posizioni iniziali allineandosi così alle previsioni normative orientate ad una semplificazione ed informatizzazione degli adempimenti documentali. A parere di chi scrive si ritiene sostanzialmente legittima l’interpretazione dell’art. 193, c. 4 che vede applicarsi l’esenzione dalla compilazione del formulario anche alle ditte subappaltatrici che svolgono il servizio di raccolta e trasporto di rifiuti in nome e per conto della società affidataria, a condizione, però, che le istruzioni operative redatte dal soggetto gestore vengano integrate con la precisazione che le ditte incaricate di cui si avvale usufruiscono della suddetta esenzione solo relativamente alle specifiche modalità (percorsi, orari, tempi, etc …) disciplinate dal contratto di appalto in essere tra le parti, perché è solo in tali ambiti che le ditte terze agiscono in vece del gestore del servizio pubblico. A tal fine, si conferma la necessità che a bordo dei mezzi dei trasportatori terzi siano conservati ed esibiti in caso di controllo la copia dell’atto di affidamento del servizio dall’Ato al gestore e la copia dell’atto di subappalto del medesimo servizio dal gestore alla ditta terza.
Se il trasporto dei rifiuti urbani viene effettuato da enti e imprese aventi sede legale nel comune oggetto di raccolta e tali rifiuti vengono conferiti nel centro di raccolta, deve essere accompagnato dal formulario e dall’allegato 1a o può avvenire senza formulario? Se la ditta dovesse presentare il formulario, cosa si deve indicare nel campo del formulario destinato a “rifiuto destinato a”? 50.
La disciplina sui centri di raccolta prevede un sistema di controllo dei rifiuti conferiti per mezzo della compilazione di un apposito modello di “scheda di conferimento” (allegati Ia e Ib) per le sole utenze non domestiche, che identifica la tipologia di rifiuto ed i dati del conferitore, ed una scheda in uscita (che però parrebbe riferita a tutte le tipologie di rifiuti, poiché non vi alcuna specificazione in merito nel decreto). Sulla base di questi dati deve essere realizzato un bilancio di massa o volumetrico, per mezzo della tenuta di uno schedario, anche informatico. Lo scopo della contabilizzazione appare del tutto simile alle registrazioni sui tradizionali registri di c/s, di cui all’art. 190 del D.L.vo 152/06; ed in effetti è quello di mantenere monitorati i flussi dei rifiuti, nonostante i bilanci di massa, che prevedono una
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contabilizzazione in ingresso delle sole utenze non domestiche ed in uscita di tutti di rifiuti, non possono certo essere considerati rappresentativi in modo completo della realtà di transito dei rifiuti. Quanto sopra non ha nulla a che vedere con la compilazione del formulario di trasporto, che rimane un obbligo anche per il centro di raccolta. La correttezza del conferimento e dei relativi adempimenti documentali dipende, quindi, dal soggetto stesso che vi provvede. Se a conferire sono il gestore o il terzo sub-appaltatore che svolge il servizio in suo nome e per suo conto nello svolgimento della ordinaria attività di raccolta RU (o assimilati) accederà al centro privo di documentazione di trasporto; del pari le utenze domestiche potranno (naturalmente) accedere al centro senza alcun formulario di trasporto. Quanto ai documenti per il trasferimento verso i luoghi di destino possono formularsi alcune ipotesi. Il rifiuto urbano, ad esempio, che potrebbe anche essere entrato senza formulario per trasporto diretto del gestore o del suo sub-appaltatore o del semplice cittadino, potrebbe uscire con formulario nel momento in cui a trasportarlo sia un terzo (trasportatore autorizzato) e non il gestore o il suo sub-appaltatore. In tale ipotesi il formulario, pur essendo riferito ad un CER urbano, dovrebbe essere compilato con riferimento alla “detenzione” presso il centro di raccolta “del comune di …”, il cui addetto deve poter apporre validamente una firma al documento (si rammenta, peraltro, che non esiste, ad oggi, possibilità legittima di firma di FIR per delega). Lo stesso accade per i rifiuti assimilati conferiti da terzi o per quelli domestici conferiti dai cittadini e ritirati da terzi: il formulario in uscita presupporrà il riferimento al centro di raccolta quale detentore, con conseguente firma del documento da parte dell’addetto abilitato. Sostanzialmente quindi, a parere di chi scrive, l’uscita dalle aree deve sempre esser accompagnata da formulario, indipendentemente dall’impianto di destino che dovrà raggiungere, poiché l’unica eccezione è rappresentata dal trasporto dell’urbano (o assimilato) da parte del soggetto gestore o del suo sub-appaltatore. La compilazione più congrua alla realtà e comunque più corretta è quella che consente di individuare la provenienza dei rifiuti dal centro (indicato in qualità non di produttore del rifiuto, bensì di detentore) in modo da agevolare anche l’apposizione della firma al documento. Infine, si ritiene che la dicitura corretta da riportare sul formulario sia “rifiuto destinato al centro di raccolta del Comune di …”.
L’ente gestore del centro di raccolta ha l’obbligo di compilare il registro di carico e scarico? E il registro degli intermediari (Mod. B)?
51.
Lo schedario previsto dal DM 8 aprile 2008 e successivi, secondo alcuni commentatori, è assolutamente sostitutivo del registro di carico e scarico dei rifiuti per il centro; secondo altri, invece, lo schedario non va confuso con il registro ex art. 190 che “… resta un obbligo per chiunque, come il centro di raccolta, effettua raccolta rifiuti a titolo professionale”, pur non essendo un impianto di trattamento rifiuti. A parere di chi scrive, a parte le difficoltà oggettive di compilare un modello ade-
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guato di registro, non si può non sottolineare che la ratio del legislatore, nel creare questi centri di raccolta, voleva essere quella della semplificazione e dell’agevolazione del conferimento dei rifiuti urbani, quindi prevedere una doppia compilazione di documenti (che attestano il medesimo flusso) non può che essere contrario alla ratio del decreto, oltreché ripetitivo. La questione resta comunque ancora aperta. A parere di scrive, poiché il centro di raccolta comunale non si configura come un intermediario nel senso di “qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di altri, compresi gli intermediari che non prendono materialmente possesso dei rifiuti” (art. 183, c. 1, lett. l, D.L.vo 152/06), esso non deve compilare il frontespizio del registro B riguardante gli intermediari e i commercianti non detentori di rifiuti.
Nel registro (compilato dall’ente gestore) occorre registrare in uscita tutti i formulari (allegato 1 B). Per integrare il registro è necessario indicare, oltre al n. del formulario, anche il n. dell’allegato?
52.
La risposta a questo quesito discende dall’opzione dell’utilizzo dello schedario in sostituzione del registro di carico e scarico. Fermo restando l’obbligo di compilazione del formulario in uscita, il modello di schedario di cui all’Allegato Ib del decreto non prevede la necessità di riportare il numero del fir. Infatti, i dati che devono essere riportati sullo schedario sono esclusivamente i seguenti: – numero e data (dello schedario); – centro di raccolta; – via, numero civico, c.a.p. e località del centro di raccolta; – telefono e fax del centro di raccolta; – descrizione della tipologia del rifiuto; – c.e.r.; – quantitativo avviato a recupero / smaltimento; – unità di misura.
I rifiuti in entrata provenienti dalle utenze non domestiche (allegato 1 a) devono essere registrati sul registro di carico e scarico? Per integrare il registro all’operazione di carico deve essere indicato anche il numero dell’allegato?
53.
È sufficiente che i rifiuti in entrata conferiti dalle utenze non domestiche siano annotati sul modello Ia recante “scheda rifiuti conferiti al centro di raccolta”, senza effettuate una doppia registrazione sul registro e sullo schedario. I dati che devono essere riportati sullo schedario sono i seguenti: – numero e data (dello schedario); – centro di raccolta; – via, numero civico, c.a.p. e località del centro di raccolta; – telefono e fax del centro di raccolta;
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– – – – – –
descrizione della tipologia del rifiuto; c.e.r.; ragione sociale partiva iva dell’azienda conferente; targa del mezzo che ha effettuato il trasporto: quantitativo conferito al centro di raccolta; unità di misura. In calce deve essere apposta la firma dell’addetto al centro di raccolta. Con riguardo a questo soggetto, si precisa che l’allegato I del decreto prevede che “a seguito dell’esame visivo dell’addetto” i rifiuti debbano essere collocati in aree distinte del centro, per flussi omogenei, attraverso l’individuazione delle loro caratteristiche e delle diverse tipologie e frazioni merceologiche, separando i rifiuti potenzialmente pericolosi dagli altri e quelli da avviare a recupero da quelli da avviare a smaltimento. Probabilmente per questo il punto 4.3 precisa, alla lettera a) che il “centro deve garantire la presenza di personale qualificato ed adeguatamente addestrato nel gestire le diverse tipologie di rifiuti conferibili, nonché sulla sicurezza e sulle procedure di emergenza in caso di incidenti”, oltre a (lettera b) “la sorveglianza durante le ore di apertura del centro”. A parere di chi scrive, è possibile affermare che il compito del personale “addetto” al centro di raccolta è (anche) quello di “presidiare” il centro stesso, al quale si affianca però l’importante e più complesso compito della gestione vera e propria, che non si estrinseca mai in una attività di trattamento dei rifiuti in ingresso, ma piuttosto di corretta identificazione (anche per mezzo della lettura del formulario, là ove previsto) e collocazione all’interno della struttura.
È possibile conferire presso un CdR i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade? 54.
Nell’ambito della classificazione dei rifiuti, tra quelli urbani l’art. 184 comma 2 lett. c) TUA ricomprende i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade. Lo spazzamento delle strade è una modalità di raccolta dei rifiuti su strada e costituisce uno degli elementi e delle attività della “gestione integrata dei rifiuti urbani” ex art. 183, lett. ll). Esso è definito come: “modalità di raccolta dei rifiuti mediante operazione di pulizia delle strade, aree pubbliche e aree private ad uso pubblico escluse le operazioni di sgombero della neve dalla sede stradale e sue pertinenze, effettuate al solo scopo di garantire la loro fruibilità e la sicurezza del transito” (art. 183, lett. oo). Il codice CER di riferimento per i rifiuti derivanti da questa attività risulta essere il 20.03.03 “residui della pulizia stradale”. A tale specifica attività di raccolta è riconosciuta autonomia rispetto all’attività di trasporto ed è soggetta ad autonoma procedura di iscrizione all’Albo gestori. Quanto al conferimento dei rifiuti dello spazzamento ai CdR, è possibile affermare che, seppur in linea generale i rifiuti urbani possono essere conferiti ai CdR, l’art. 1 del D.M. 8 aprile 2008 specifica: “I centri di raccolta comunali o intercomunali disciplinati dal presente decreto sono costituiti da aree presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di raccolta, mediante raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli impianti di recupero, trattamento e, per le frazioni non recuperabili, di smaltimento, dei rifiuti urbani e assimilati elencati in allegato I, paragrafo 4.2,
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conferiti in maniera differenziata rispettivamente dalle utenze domestiche e non domestiche anche attraverso il gestore del servizio pubblico, nonchÊ dagli altri soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al ritiro di specifiche tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche�. Dunque non tutti i rifiuti urbani sono conferibili ai CdR, ma solo quelli espressamente indicati nell’Allegato I, nel quale, dalla descrizione dei rifiuti ivi riportata, non sembrano ricompresi i rifiuti dello spazzamento.
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CER (Catalogo Europeo Rifiuti)
55.
Cos’è il Catalogo Europeo dei Rifiuti e quale la sua funzione?
Il Catalogo Europeo dei Rifiuti è un elenco standardizzato di tipologie di rifiuti, organizzato prevalentemente sulla base del loro processo di formazione. Ogni tipologia è identifica mediante un codice a sei cifre accompagnato dalla descrizione della tipologia del rifiuto. Lo scopo è quello di identificare nella maniera più univoca possibile i rifiuti in ambito comunitario al fine di consentire statistiche attendibili a supporto delle politiche ambientali in materia di rifiuti, per il monitoraggio della loro corretta attuazione negli Stati Membri e la valutazione dell’efficacia delle azioni previste ed attuate nel perseguimento degli obiettivi di riduzione della produzione e pericolosità dei rifiuti, del loro riciclo e recupero e del loro corretto smaltimento definitivo. È per questo che si ritiene che non solo la codificazione a cifre ma anche la descrizione del rifiuto siano vincolanti all’interno della comunità europea. Si segnala in argomento quanto dispone l’art. 7 della Direttiva 2008/98/CE.
56.
Come si procede alla scelta del codice CER?
La scelta del codice CER deve essere effettuata tenendo conto delle norme vigenti (in particolare quanto premesso all’Allegato D della Parte IV del D.L.vo 152/06) e della finalità propria dell’utilizzo di un codice numerico per l’individuazione del rifiuto. Premesso questo si può affermare che, in via di principio, la competenza e la professionalità del detentore del rifiuto possono essere sufficienti per l’identificazione del rifiuto senza passare necessariamente per l’analisi chimica ogni volta che si riceve un rifiuto prodotto da terzi, con i quali presumibilmente esiste un accordo commerciale. Di certo però il procedimento analitico diviene essenziale solo quando vi è una incertezza tale sulla tipologia (e quindi sui contenuti) del rifiuto per la quale non è possibile dare certa classificazione. L’attribuzione del codice CER è poi legata necessariamente alle analisi solo nel caso in cui si tratti di rifiuti classificabili per mezzo di “codice a specchio”, quando cioè la scelta del CER ricade tra un codice o un altro a seconda delle percentuali di concentrazione e caratteristiche di pericolosità. Un discorso a parte merita, infatti, l’attribuzione delle caratteristiche di pericolosità. La stessa Decisione 3 maggio 2000 n. 532 della Commissione Europea, come successivamente modificata, riporta al punto 6 chiaramente che: “Se un rifiuto é identifi-
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cato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, e come non pericoloso in quanto diverso da quello pericolo (voce a specchio), esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio, percentuale in peso), tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà di cui all’allegato III della direttiva 91/689/CEE del Consiglio. Per le caratteristiche da H3 a H8, H10 e H11 si applicano i valori limite di cui al punto 4, mentre le caratteristiche H1, H2, H9, H12, H13 e H14 non devono essere prese in considerazione, in quanto mancano i criteri di riferimento sia a livello comunitario che a livello nazionale, e si ritiene che la classificazione di pericolosità possa comunque essere correttamente effettuata applicando i criteri di cui al suddetto punto 4. La classificazione di un rifiuto identificato da una voce a specchio e la conseguente attribuzione del codice sono effettuate dal produttore/detentore del rifiuto”. L’identificazione delle caratteristiche di pericolosità deve essere supportata dall’analisi chimica che rivela le concentrazioni delle sostanze pericolose; è fatta salva anche in questa ipotesi la competenza del produttore/detentore dei rifiuti che, una volta identificato per mezzo del CER il rifiuto, per l’esperienza nel campo specifico della gestione, potrebbe essere in grado di dirne le caratteristiche di pericolosità. In ogni caso è da ritenersi buona prassi, nel caso in cui il produttore si trovi sempre ad avere la medesima tipologia di rifiuto, effettuare comunque, una tantum, le analisi per verificarne la natura e le caratteristiche di pericolosità, che dunque non è un obbligo, quale quello previsto per l’avvio dei rifiuti in discarica, ma una modalità di corretta gestione. Resta inteso che permane in capo al produttore/detentore la responsabilità per l’erronea attribuzione del CER. Tale responsabilità può essere più o meno grave a seconda della contestazione effettuata dagli organi di controllo.
57.
Cosa accade in caso di erronea attribuzione per assenza di analisi?
Qualora si attribuisca una codifica erronea per assenza di analisi che in realtà, una volta effettuate dimostrino la pericolosità del rifiuto, si potrebbe configurare una gestione illecita (con eventuale concorso del trasportatore e dell’impianto di destino) di rifiuti pericolosi, nonché le collegate sanzioni (anche penali, art. 258) per la non corretta compilazione di registri e formulari di trasporto o della relativa Scheda SISTRI. A tale ipotesi si aggiunge anche l’eventuale erronea compilazione della documentazione per il trasporto dei rifiuti rivelatisi pericolosi. Nel caso di analisi eseguite in precedenza all’accettazione del rifiuto e successivamente verificatesi erronee, occorre, a parere di chi scrive, valutare l’opportunità di autodenunciarsi agli organi di controllo e alla P.A. che ha rilasciato l’autorizzazione, mediante nota scritta, nella quale sottolineare la buona fede del gestore nella valutazione del certificato di analisi, e procedere, una volta avuto il riscontro delle autorità, alle relative correzione nei registri di carico e scarico (utilizzando la parte delle annotazioni), cercando così di evitare la contestazione dell’illecito di non corretta gestione.
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Qual è la procedura corretta per verificare se un rifiuto deve essere classificato come pericoloso? 58.
In caso di assegnazione di un “codice a specchio” il codice di un rifiuto seguito dall’asterisco non significa che lo stesso debba essere necessariamente classificato come pericoloso. La procedura corretta – oggi – per verificare se un rifiuto deve essere classificato come pericoloso, da un punto di vista concettuale è la seguente: a) identificare, ricorrendo al processo descritto all’Allegato D della Parte IV del D.L.vo 152/06, il codice identificativo che nell’ambito del CER meglio descrive sia la provenienza, sia le caratteristiche chimico-fisiche del rifiuto; b) verificare se a fianco al codice identificativo del rifiuto nel CER è stato apposto un asterisco; c) verificare se nella descrizione associata al codice del rifiuto prescelto e contrassegnato da un asterisco compare un riferimento specifico o generico a sostanze pericolose. Il rifiuto è classificato come pericoloso solo se il codice che meglio lo identifica è contrassegnato da un asterisco e, nel caso in cui nella descrizione del rifiuto vi siano riferimenti specifici o generici a sostanze pericolose, se e solo se queste ultime sono presenti in concentrazioni superiori ai limiti specificati nella Direttiva 88/379/CEE del Consiglio del 7 giugno 1988. Il criterio scelto dal legislatore per l’attribuzione del codice identificativo, anche se non espressamente indicato è quello della specificità, nel senso di ricercare il codice più adatto, secondo il percorso sopra esposto, ad identificare il rifiuto; solo in riferimento alle concentrazioni di sostanze pericolose contenute, si può dire che ci si riferisce ad un criterio di prevalenza, nel senso di verificare il superamento dei limiti indicati dal legislatore. Da ultimo si segnala che l’art. 3, c. 6, del D.L. 25 gennaio 2012, n. 2, conv. con modif., nella L. 24 marzo 2012, n. 28, “Misure straordinarie e urgenti in materia di ambiente” ha sostituito il punto 5 dell’All. D alla Parte IV del D.L. vo n. 152/06 in tema di rifiuti pericolosi, specificando che, nelle more dell’adozione di uno specifico decreto che stabilisca la procedura tecnica per l’attribuzione della caratteristica H14, tale caratteristica sarà attribuita ai rifiuti secondo le modalità dell’accordo ADR per la classe 9 - M6 e M7.
59.
L’elencazione dei CER è esaustiva di tutte le tipologie di rifiuti?
La Corte di Cassazione Civile, Sez. II, che nella sentenza n. 22667 del 31 ottobe 2011 ha affermato che “l’elencazione nelle tabelle allegate al D.L.vo 22/97 (v. ora D.L.vo 152/06) non è esaustiva di tutte le categorie di rifiuti, dovendosi tali considerare, in ogni caso, tutte quelle sostanze, non espressamente escluse o disciplinate da diverse normative, di cui il detentore si disfi, abbia deciso di disfarsi o abbia il dovere di farlo”.
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60.
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È possibile attribuire un codice CER adattandolo all’attività economica?
Al quesito occorre dare risposta negativa. Sul punto, infatti, la giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione Penale, Sez. III, n. 47870 del 22 dicembre 2011) ha affermato che “costituiscono attività illecite l’esistenza di una irregolare tenuta dei registri obbligatori di carico e scarico, di sistematiche attività di miscelazione di rifiuti pericolosi tra loro e di rifiuti pericolosi con altri non pericolosi, l’effettuazione di miscelazioni in assenza di accertamenti tecnici preliminari e in assenza dei necessari trattamenti preliminari, il mancato rispetto delle cautele necessarie rispetto alla gestione di rifiuti pericolosi, l’apposizione del codice CER privilegiando la compatibilità con le autorizzazioni dei destinatari e la compatibilità con le esigenze commerciali rispetto alla effettiva composizione dei materiali inviati, la conseguente destinazione di rifiuti in prevalenza pericolosi a impianti che non avrebbero potuto riceverli, la modifica di codice CER, e non solo il mero “giro bolla”, rispetto a rifiuti non sottoposti ad alcun trattamento”.
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Compost
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Qual è la nozione di compost?
La definizione di “compost da rifiuti” è scomparsa dall’abito dal TUA a seguito dell’entrata in vigore del D.L.vo 205/10. Per comprendere appieno gli effetti di tale mutamento e prima ancora la portata della nuova compagine definitoria, occorre guardare con particolare attenzione alla Direttiva 2008/98/Ce, che ha istituito un nuovo scenario nella disciplina sulla produzione e gestione dei rifiuti, non solo a livello europeo, ma anche, attraverso il suo recepimento avvenuto con il D.L.vo 205/10, a livello nazionale. La succitata Direttiva non contiene tra le definizioni quella di “compost”, né quella di “rifiuto biostabilizzato”, ma traccia quella di “rifiuto organico” (art. 3, par. 4) quasi testualmente riprodotta nell’art. 183, co, 1, lett. d): “rifiuti biodegradabili di giardini e parchi, alimentari e di cucina prodotti da nuclei domestici, ristoranti, servizi di ristorazione e punti vendita al dettaglio e rifiuti simili prodotti dagli impianti dell’industria alimentare (raccolti in modo differenziato)”. La summenzionata definizione assume un ruolo cardine ai fini della nozione e degli obiettivi di raccolta differenziata e riciclaggio, con evidenti ripercussioni sullo stesso concetto di compost, ancor prima che sulla stessa relativa definizione. Come evidenziato dalla stessa Commissione europea nel “Libro verde” sui rifiuti organici biodegradabili, la raccolta differenziata evita la messa in discarica dei rifiuti biodegradabili, potenzia il potere calorifico dei restanti rifiuti solidi urbani e genera una frazione di rifiuti organici biodegradabili più pulita che consente di produrre compost di elevata qualità e facilita la produzione di biogas (p. 3.1). Quanto al trattamento a cui sottoporre i rifiuti organici, il Libro Verde – pur nella consapevolezza che il bilancio ambientale delle diverse opzioni disponibili (compostaggio, trattamento meccanico-biologico, incenerimento) dipende da numerosi fattori locali, per cui dal punto di vista ambientale non esiste un’opzione migliore in assoluto – individua quali variabili in grado di incidere sull’efficienza di un sistema di gestione i seguenti fattori: la quantità di energia recuperabile, la fonte di energia sostituita dall’energia recuperata, il profilo di emissioni degli impianti per il trattamento biologico, nonché la quantità, la qualità e l’uso del compost riciclato e dei prodotti sostituiti col compost. Sotto quest’ultimo profilo, il Libro verde evidenzia come la produzione di compost di alta qualità, da utilizzare per sostituire i fertilizzanti industriali, determini vantaggi significativi per l’ambiente. Con l’art. 22 della Direttiva 2008/98/Ce, la UE ha inteso introdurre un nuovo quadro giuridico di riferimento sui rifiuti organici biodegradabili, che ricomprende prece-
Compost
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denti interventi specifici (per es. sui fanghi di depurazione in agricoltura etc): “Gli Stati membri adottano, se del caso e a norma degli articoli 4 e 13, misure volte a incoraggiare: a) la raccolta separata dei rifiuti organici ai fini del compostaggio e dello smaltimento dei rifiuti organici; b) il trattamento dei rifiuti organici in modo da realizzare un livello elevato di protezione ambientale; c) l’utilizzo di materiali sicuri per l’ambiente ottenuti dai rifiuti organici”. È comprensibile quindi la scelta di inserire il riferimento alla raccolta differenziata in sede di recepimento della definizione di “rifiuto organico” (art. 183, co. 1, lett. d). Tale previsione si inserisce all’interno del più generale quadro della gerarchia dei rifiuti di cui all’art. 4 della Direttiva, e recepito nell’art. 179 del D.L.vo 152/06: “1. La gestione dei rifiuti avviene nel rispetto della seguente gerarchia: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento … In relazione alla lettera c) “riciclaggio”, viene in rilievo proprio la produzione di fertilizzante destinato all’agricoltura a seguito della trasformazione biologica (compostaggio) di rifiuti organici raccolti in modo differenziato, tecnica mediante la quale si mette in atto il riciclaggio del rifiuto organico. Sul tema della raccolta e riciclaggio dei rifiuti organici, inoltre, è stata inserita la specifica disposizione di cui all’art. 182-ter, nonché individuati gli obiettivi e le misure per incrementare la stessa raccolta differenziata, anche del rifiuto organico, dall’art. 205 del D.L.vo 152/06. Le considerazioni suesposte portano pertanto a ritenere che l’attuale definizione di rifiuto biostabilizzato che sembra sostituire quella del “vecchio” compost da rifiuti si inserisce nel più ampio disegno tracciato dalla nuova disciplina sui rifiuti in cui assumono un ruolo fondamentale tutte quelle opzioni di prevenzione e gestione dei rifiuti tese a dare “il miglior risultato ambientale complessivo”. Tra queste, in riferimento alla categoria dei rifiuti organici, quelle opzioni implicano la piena applicazione delle regole relative alla raccolta differenziata, il cui funzionamento determina i possibili successivi percorsi e destinazioni del rifiuto differenziato. È sulla base di questa ratio che si giustificherebbe la rimozione dal TUA della nozione di “compost da rifiuti”, nozione, che, in base ai nuovi principi della materia sui rifiuti, avrebbe comunque visto ridurre il suo campo di applicazione, con contestuale aumento della frazione organica differenziata e suo possibile utilizzo nella produzione di compost di qualità. Così ridotto il suo campo di applicazione, nella prospettiva di un incremento sempre più esteso e consistente della raccolta differenziata anche della matrice organica dei rifiuti, quello che una volta era, e poteva, essere, a determinate condizioni, considerato un prodotto (in questi termini si esprimeva la previgente definizione dell’art. 183, co. 1, lett. t), oggi è diventato a tutti gli effetti un rifiuto, tra l’altro ottenuto, secondo la definizione che ne da la nuova lettera dd) dell’art. 183 da “rifiuti indifferenziati”, senza alcun riferimento al carattere organico degli stessi.
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In un impianto di compostaggio, come deve essere gestito il sovvallo, inteso quale residuo della vagliatura del compostaggio, se reimpiegato tal quale nell’impianto stesso e senza modifica alcuna del processo di produzione?
62.
Dalla formulazione del quesito si evince che il sovvallo è il residuo dell’operazione di vagliatura meccanica, operazione che fa parte del ciclo di produzione del ammendante finito per il mercato. Il sovvallo per definizione è una “parte in eccesso”, in questo caso un residuo proprio del ciclo produttivo, e non “un altro prodotto” quindi non un sottoprodotto del compostaggio o della digestione anaerobica; per questo non può che essere classificato come residuo di produzione oggetto di riutilizzo. Si suppone che il riutilizzo sia parziale, ovvero che vi sia una parte di questo sovvallo che non può più essere oggetto di ri-processamento: questa parte dovrà dunque essere trattato come un rifiuto a tutti gli effetti, ed essere correttamente classificato con lo specifico codice CER (presumibilmente 19.12.12 – come peraltro il sovvallo della selezione da rifiuti urbani) e gestito in deposito temporaneo (o deposito preliminare se non vengono rispettati parametri di cui all’art. 183 lett. bb) prima dell’avvio a smaltimento. Il riutilizzo del sovvallo invece non rappresenta un’operazione di gestione rifiuti e di conseguenza la conservazione dello stesso in silos non si configura come stoccaggio di rifiuti, in quanto trattasi di un’operazione che il legislatore privilegia ancor più del recupero: l’art. 179 del D.L.vo 152/06, infatti, prevede tra le priorità della gestione rifiuti – dopo la riduzione della produzione a monte – il riutilizzo e solo dopo il riciclo e le altre forme di recupero.
Può un imprenditore agricolo, che ha un vivaio in area agricola e che vuole, sempre nello stesso sito, recuperare il verde che deriva dalla sua attività, realizzare un impianto di compostaggio?
63.
L’art. 2135 Cod. Civ., come modificato dal D.L.vo 18 maggio 2001, n. 228, così dispone: “è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”. Rispetto alla formulazione originaria dell’art. 2135 Cod. Civ., il D.L.vo 228/01 ne ha esteso la portata e ha dato dignità giuridica anche alle imprese agricole cd. per connessione.
Compost
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Infatti, facendo espresso riferimento al ciclo biologico, quale oggetto dell’attività dell’imprenditore agricolo, relativo a specie vegetali o animali, si è chiaramente voluto ritenere imprenditore agricolo non solo chi si cura dell’allevamento del bestiame o della tradizionale coltivazione del fondo, ma anche chi si occupa della coltivazione di piante e fiori, pur se svolta in serre o vivai, come nel caso di specie. Inoltre, approfondendo il concetto di attività connessa, emerge che la connessione deve essere di tipo soggettivo (ciò significa che le attività connesse devono essere svolte da chi è già imprenditore agricolo) e di tipo oggettivo (vale a dire che vi deve essere un legame tra l’attività connessa e quella agricola; e non deve trattarsi di un legame qualsiasi, ma di un collegamento ove l’attività agricola è prevalente rispetto a quella connessa). Ritornando sul concetto di attività connessa sopra esaminato, si ritiene che nella fattispecie siano soddisfatti i requisiti soggettivi ed oggettivi della connessione: infatti l’attività di compostaggio, intesa quale attività connessa, viene svolta da chi è già imprenditore agricolo e esiste un legame tra l’attività connessa (compostaggio) e quella agricola (coltivazione di vegetali in vivaio), in cui, peraltro, l’attività agricola è prevalente rispetto a quella connessa. In conclusione, fermo restando il rispetto della normativa speciale in tema di compost e in ossequio al favor legislativo concesso alle attività agricole, si ritiene che legittimamente l’imprenditore agricolo che esercita l’attività di coltivazione di piante e fiori in vivaio possa produrre in situ compost derivante dai suoi stessi scarti vegetali e utilizzarlo per il suo terreno.
64.
Quali sono le norme tecniche applicabili per ottenere un compost?
Nelle more dell’adozione di tali norme tecniche, deve ritenersi applicabile e per quanto compatibile con il nuovo status giuridico di rifiuto, la disciplina tuttora in vigore, ovvero la Delibera 27 luglio 1984. Ciò in ossequio al principio espresso dall’art. 265 del D.L.vo 152/06: “1. Le vigenti norme regolamentari e tecniche che disciplinano la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti restano in vigore sino all’adozione delle corrispondenti specifiche norme adottate in attuazione della parte quarta del presente decreto. Al fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto, le pubbliche amministrazioni, nell’esercizio delle rispettive competenze, adeguano la previgente normativa di attuazione alla disciplina contenuta nella parte quarta del presente decreto, nel rispetto di quanto stabilito dall’articolo 264, comma 1, lett. i)”.
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Deposito temporaneo
65.
Come si configura il deposito temporaneo?
Il deposito temporaneo consiste nel raggruppamento di rifiuti effettuato prima della raccolta nel luogo in cui gli stessi sono prodotti e costituisce un’ipotesi derogatoria ed eccezionale rispetto alle forme di stoccaggio rifiuti (deposito preliminare e messa in riserva). Si tratta di una forma eccezionale di deposito di rifiuti che avviene nel luogo in cui i rifiuti sono prodotti, prima della raccolta e come tale escluso dagli obblighi autorizzatori. Questo istituto, che nell’ambito della normativa comunitaria occupa una posizione secondaria, nel nostro ordinamento ha acquistato già con il decreto Ronchi una valenza ed un riconoscimento particolari. La nozione in sé non viene sostanzialmente modificata, così come le condizioni temporali, qualitative e quantitative prescritte dalla normativa previgente. Ciò che viene richiamata e particolarmente enfatizzata è la facoltà rimessa al produttore di scegliere tra l’invio dei rifiuti a recupero o smaltimento con cadenza almeno trimestrale (rispettivamente per i rifiuti pericolosi e quelli non pericolosi), ovvero l’invio connesso al raggiungimento dei 30 metri cubi dei rifiuti in deposito, di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. Pertanto, il produttore può scegliere se avviare i rifiuti allo smaltimento o al recupero seguendo il criterio temporale ovvero seguendo il criterio del quantitativo in deposito raggiunto. Sul punto, la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione ha in precedenza sempre sostenuto che nel momento in cui i limiti quantitativi richiamati sono superati, affinché possa legittimamente ritenersi applicabile la disciplina del deposito temporaneo, i rifiuti devono essere avviati alle procedure di recupero o smaltimento immediatamente, anche se il limite temporale non fosse stato ancora raggiunto. Di conseguenza, per la Cassazione non è possibile usufruire del regime di favore previsto per il deposito temporaneo che dispensa dalle autorizzazioni richieste per lo stoccaggio, qualora si superino i quantitativi stabiliti dalle prescrizioni normative. L’osservanza delle condizioni previste dalla legge per il deposito temporaneo solleva il produttore da alcuni obblighi: il D.L.vo 152/06, infatti, prevede sì che le norme in materia di autorizzazione non si applicano al deposito temporaneo (art. 208, c. 17), ma in ogni caso rimane l’obbligo di registrazione ed il diveto di miscelazione. Rispetto alla formulazione precedente, il D.L.vo 205/10 ha introdotto alcune novità: 1. in luogo del precedente divieto di porre in deposito temporaneo rifiuti contenenti determinate sostanze pericolose (PCB, PCT, policlorodibenzodiossine, ecc.) in concentrazioni superiori a specifici limiti, la nuova nozione richiama l’esigenza
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di garantire il rispetto delle norme tecniche per lo stoccaggio e l’imballaggio dei rifiuti ciontenenti inquinanti organici persistenti di cui al Regolamento (CE) n. 850/2004; 2. viene innalzato il limite quantitativo dei rifiuti in deposito – ora posto a 30 mc di cui al massimo 10 mc di rifiuti pericolosi – congiunto con l’asportazione almeno annuale dei rifiuti oppure, in alternativa, l’impegno ad assicurare l’asportazione almeno trimestrale dei rifiuti indipendentemente dalle quantità in deposito; 3. l’eliminazione dall’art. 183 della nozione di “luogo di produzione dei rifiuti”; 4. posta la permanenza del divieto di miscelazione, si segnala che è mutata, però, la relativa disposizione. Infine, si rammenta di fare particolare attenzione, in quanto il mancato rispetto delle condizioni normative comporta come minimo il verificarsi della fattispecie di abbandono di rifiuti ex art. 255 D.L.vo 152/06, che se commesso da una persona giuridica costituisce un reato (art. 256, co. 2).
Esistono delle norme tecniche preordinate alla disciplina del deposito temporaneo? 66.
Le uniche norme tecniche relative al deposito temporaneo dei rifiuti, possono ricavarsi attualmente dalla Deliberazione Comitato interministeriale 27 luglio 1984 che peraltro, al capitolo 4.1, tratta esclusivamente dello stoccaggio provvisorio dei rifiuti, corrispondente all’attuale D15 (deposito preliminare) o R13 (messa in riserva). Si tratta chiaramente di fattispecie distinte dal deposito temporaneo ma si ritiene comunque che tali disposizioni, siano semplici, di carattere generico e riguardino misure di contenimento, separazione di materiali incompatibili, etichettatura, idoneità degli imballi, idonee come tali a rappresentare un valido e pratico riferimento operativo anche per il deposito di cui trattasi.
Come ci si deve comportare in merito al deposito di eventuali sostanze pericolose contenute nei rifiuti? 67.
Per quanto concerne le norme che “disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute”, si tratta semplicemente di tutte le possibili norme applicabili al caso, in funzione delle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti e/o di eventuali norme specifiche per sostanze particolari. Ad esempio, se il rifiuto è infiammabile sarà soggetto anche alle disposizioni che disciplinano il deposito delle sostanze infiammabili e sarà da considerare nella valutazione delle quantità totali di sostanze infiammabili detenute ai fini del D.L.vo 334/99 (cd. “Seveso” o “incidenti rilevanti”). D’altra parte, se una sostanza presenta determinati rischi (es. tossicità e infiammabilità) o rientra in ambiti normativi specifici (es. gas tossici) non è pensabile che una volta diventata rifiuto sfugga alle norme cui è soggetta; naturalmente, potranno esserci delle concentrazioni limite, delle soglie quantitative, oppure delle deroghe o esenzioni particolari, ma tutto ciò andrà valutato caso per caso. In altre parole, chi detiene sostanze pericolose deve conoscere le norme cui sono soggette e adempiere agli obblighi conseguenti, quando le sostanze pericolose diventano rifiuti tali norme integrano la disciplina
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inerente i rifiuti. Tali accorgimenti vanno ribaditi con maggior convinzione a seguito delle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10 al TUA. Il IV correttivo ha infatti modificato la nozione di rifiuto pericoloso, individuandolo in base alle “caratteristiche di pericolosità” e rendendo, di conseguenza, ancor più problematico il deposito del temporaneo dei rifiuti pericolosi, anche in relazione alla nuova norma sulla miscelazione che fa divieto di miscelare rifiuti pericolosi con diverse caratteristiche di persicolosità. Infatti, nulla toglie che due rifiuti pericolosi, aventi le stesse caritteristiche di pericolosità, ma diverse caratteristiche chimiche (ad esempio, uno è un acido, l’altro è una base), possano avere effetti negativi sull’ambiente e sulla salute qualora venissero a contatto tra loro. In sintesi, si ritiene utile ribadire l’importanza di effettuare una completa e approfondita caratterizzazione di ogni rifiuto, cosa peraltro ormai richiesta da numerosi operatori dello smaltimento; andando cioè ben oltre la semplice attribuzione di un codice CER e di eventuali caratteristiche di pericolo generiche o di comodo, realizzando così una completa carta di identità del rifiuto, ove sono valutati tutti gli ulteriori ambiti normativi cui è soggetto.
Come deve avvenire la corretta gestione del deposito temporaneo dei rifiuti a bordo delle navi?
68.
Le navi non sono qualificabili né come mezzi di trasporto dei rifiuti, poiché il vero e proprio trasporto avviene nel momento del trasbordo quando infatti viene compilato il FIR e/o Scheda SISTRI, né impianti per lo svolgimento di attività di bonifica in mare, che non può dirsi espletata solo per effetto dell’intervento di raccolta dei rifiuti sparsi (accidentalmente o meno), ma sono di fatto qualificabili come il luogo in cui si produce il rifiuto. Dal presupposto secondo cui le navi sono luogo di produzione del rifiuto per mezzo dell’attività di recupero dal mare dei rifiuti, è possibile far discendere l’applicazione della disciplina del decreto n. 152/06, art. 183, lettera bb), ovvero la norma in materia di deposito temporaneo a bordo della nave. Il deposito temporaneo è già di per sé una forma eccezionale di deposito di rifiuti, che ha come condizione imprescindibile il fatto di esser effettuato nel luogo in cui i rifiuti sono prodotti, prima della raccolta: per il fatto di realizzarsi prima della vera e propria gestione tale deposito di rifiuti è escluso da tutti gli obblighi autorizzatori inerenti la gestione dei rifiuti.
Il deposito temporaneo deve essere effettuato dal produttore dei rifiuti o può anche avvenire ad opera di un’impresa di pulizia industriale?
69.
Nell’analisi della fattispecie occorre riportare la nozione di deposito temporaneo. Invero, l’art. 183, c. 1, lett. bb), ha cura di definire il deposito temporaneo come quel raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, a una serie di condizioni: la norma, dunque, non impone che detto raggruppamento debba essere effettuato proprio dal produttore dei rifiuti, anche se nella maggioranza dei casi si verifica così, soprattutto per motivi di utilità pratica e di
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tempistica. In altri casi, invece, come potrebbe essere il presente, i tempi e la realtà oggettiva richiedono che la gestione dei rifiuti avvenga diversamente, ad esempio come in questo caso tramite un’azienda di pulizie industriali che, in forza di un appalto, si occupa della raccolta dei rifiuti prodotti, di fatto, da un terzo. A ciò si aggiunga che se l’azienda di pulizie industriali opera interamente all’interno del perimetro aziendale della committente, effettuando una mera movimentazione di rifiuti che, ex art. 193 D.L.vo 152/06, non è da considerarsi trasporto. In secondo luogo, la lettura dell’art. 183 presuppone che, per effettuare un raggruppamento di rifiuti in categorie omogenee, come espressamente richiesto dalla norma, prima debba essere effettuata una, seppur minima, attività di cernita/selezione manuale: si tratta di un aspetto importante, in quanto volto ad integrare proprio uno dei requisiti del deposito temporaneo (al riguardo, si segnala la pronuncia di Cass. III Pen. 27073 del 4 luglio 2008, secondo la quale l’accertamento del mancato deposito per categorie omogenee non consente la configurabilità del deposito temporaneo). Nella fattispecie, detta attività viene svolta dall’azienda di pulizie industriali che individua e separa i rifiuti recuperabili dai rifiuti misti da avviare correttamente a smaltimento o a recupero. Si ritiene, dunque, per i motivi sopra descritti e documentati da abbondante dottrina e giurisprudenza, che tale attività sia da ritenersi lecita e non bisognosa di autorizzazione alla gestione rifiuti (si rammenta, naturalmente, che devono sempre essere rispettate le prescrizioni imposte dalle norme sopraccitate), in quanto: – il rapporto tra il produttore dei rifiuti e l’azienda di manutenzione è regolato da un apposito contratto commerciale tra le parti (al riguardo, si consiglia di precisare in maniera chiara e inequivoca le rispettive attività aventi ad oggetto i rifiuti); – i rifiuti prodotti non escono mai dal perimetro aziendale, se non quando giunge il trasportatore autorizzato incaricato di conferirli a destinazione; – il deposito temporaneo si svolge nel luogo in cui i rifiuti vengono prodotti (pertanto l’area non deve essere autorizzata); – l’azienda di pulizie industriali, nel svolgere la sua attività professionale, svolge un’attività precedente la vera e propria gestione dei rifiuti della Sua committente (raccoglie ed effettua una cernita), sicché si ritiene che non debba essere autorizzata; – correttamente, gli adempimenti documentali (Mud, registro di carico e scarico, formulario di trasporto) sono compilati e firmati dal produttore dei rifiuti (e non dall’azienda di pulizie industriali).
Ai sensi del D.L.vo 152/06 oggi vigente, è possibile affidare la gestione del deposito temporaneo di rifiuti ad un soggetto terzo?
70.
Il deposito temporaneo è una fase precedente la gestione dei rifiuti e che, come tale, non necessita di autorizzazione. Detto istituto giuridico ha subìto significative modifiche normative a far data dall’entrata in vigore del D.L.vo 3 aprile 2006, n. 152: infatti, in una prima fase (dal 29 aprile 2006 al 13 febbraio 2008 – data di entrata in vigore del D.L.vo 16 gennaio 2008, n. 4), era normativamente prevista la possibilità di un deposito temporaneo cd. “conto terzi”. In altre parole, il produttore dei rifiuti poteva affidare la gestione del suo deposito temporaneo ad un altro soggetto, sempre che fosse già autorizzato alla gestione dei rifiuti.
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Infatti, l’art. 208, c. 17 disponeva che “la medesima esclusione [assenza di autorizzazione per il deposito temporaneo] opera anche quando l’attività di deposito temporaneo nel luogo di produzione sia affidata dal produttore ad altro soggetto autorizzato alla gestione di rifiuti. Il conferimento di rifiuti da parte del produttore all’affidatario del deposito temporaneo costituisce adempimento agli obblighi di cui all’articolo 188, comma 3”. Nello stesso senso, l’art. 210, c. 5 prevedeva che “la medesima esclusione [assenza di autorizzazione per il deposito temporaneo] opera anche quando l’attività di deposito temporaneo nel luogo di produzione sia affidata dal produttore ad altro soggetto autorizzato alla gestione di rifiuti. Il conferimento di rifiuti da parte del produttore all’affidatario del deposito temporaneo costituisce adempimento agli obblighi di cui all’articolo 188, comma 3”. Tali disposizioni, però, generavano due ordine di problemi: – poiché le sopraccitate norme non specificavano di quale autorizzazione si trattasse, a parere di chi scrive si riteneva che non fosse sufficiente una mera autorizzazione interna tra produttore dei rifiuti e soggetto preposto al deposito temporaneo conto terzi, ma che tale soggetto dovesse essere autorizzato secondo le modalità canoniche della gestione dei rifiuti; – in secondo luogo, gli artt. 208 e 210 prevedevano che il conferimento di rifiuti dal produttore al soggetto affidatario del deposito temporaneo costituisse adempimento agli obblighi di cui all’art. 188, c. 3, che elencava le ipotesi in cui era esclusa la responsabilità produttore. Ciò significava, quindi, che qualora il produttore dei rifiuti avesse affidato ad un soggetto autorizzato alla gestione dei rifiuti tout court il deposito temporaneo da lui prodotti, era su quest’ultimo soggetto che ricadeva la responsabilità per eventuali irregolarità nella gestione dei rifiuti in deposito temporaneo, salva la corresponsabilità del produttore ai sensi dell’art. 178, c. 3. Successivamente, però, l’art. 2, c. 29-ter e 29-quater, D.L.vo 4/08 ha modificato i sopraccitati artt. 208 e 210 espungendo proprio le parti di cui sopra, sicché è venuta meno la possibilità dell’affidamento del deposito temporaneo ad un terzo autorizzato. Ad opera dell’art. 10 del D.L.vo 3 dicembre 2010, n. 205, è stato nuovamente modificato l’istituto del deposito temporaneo, introducendo alcune novità (POPs e limite quantitativo). Ad oggi, quindi, l’art. 183, c. 1, lett. bb), ha cura di definire il deposito temporaneo come quel raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, a una serie di condizioni: la norma, dunque, non impone che detto raggruppamento debba essere effettuato proprio dal produttore dei rifiuti, anche se nella maggioranza dei casi si verifica così, soprattutto per motivi di utilità pratica e di tempistica. In altri casi, invece i tempi e la realtà oggettiva richiedono che la gestione dei rifiuti avvenga diversamente, ad esempio tramite un’azienda di global service che agisce in forza di un contratto. A ciò si aggiunga che se l’azienda opera interamente all’interno del perimetro aziendale della committente, effettuando una mera movimentazione di rifiuti che, ex art. 193, c.9, D.L.vo 152/06, non è da considerarsi trasporto. Resta inteso che la responsabilità per la corretta gestione dei rifiuti, pur se collocati in deposito temporaneo, permane in capo al produttore degli stessi.
Deposito temporaneo
71.
65
Cosa si intende per luogo di produzione dei rifiuti?
Prima dell’entrata in vigore del D.L.vo 205/10 (cd. IV correttivo), l’art. 183, c. 1, lett. i), del D.L.vo 152/06 definiva il luogo di produzione dei rifiuti come “uno o più edifici o stabilimenti o siti infrastrutturali collegati tra loro all’interno di un’area delimitata in cui si svolgono le attività di produzione dalle quali sono originate i rifiuti”. Il IV correttivo, modificando il citato art. 183, ha espunto la definizione in parola dal corpus della norma, generando non pochi problemi. Dato l’evidente vuoto normativo è opportuno mutuare e rendere attuali i principi dottrinali e giurisprudenziali maturati nel vigore della predetta definizione. A tal fine si segnala che da ultimo la giurisprudenza di legittimità ha statuito che “Il luogo rilevante ai fini della nozione di deposito temporaneo non è circoscritto al solo luogo di produzione, potendosi eventualmente estendere ad altro sito nella disponibilità dell’impresa, a tal fine è però necessario che vi sia un collegamento funzionale con quello ove la produzione avviene” (Cass. Pen., sez. III, 18 luglio 2011, n. 28204) Una specifica disciplina è invece prevista in caso di rifiuti provenienti da attività di manutenzione. L’art. 230 del TUA (disciplinante la cd. manutenzione specifica, perché relativa a reti ed infrastrutture) prevede una fictio iuris in base alla quale i rifiuti derivanti da tale attività si considerano prodotti presso: a) la sede del cantiere che gestisce l’attività manutentiva; b) la sede locale del gestore della infrastruttura nelle cui competenze rientra il tratto di infrastruttura interessato ai lavori di manutenzione; c) il luogo di concentramento dove il materiale tolto d’opera viene trasportato per la successiva valutazione tecnica; e pertanto in questi luoghi sarà possibile realizzare il deposito temporaneo dei rifiuti stessi. L’art. 266, c. 4, relativo alla cd. manutenzione generica, dispone invece che i rifiuti derivanti da quest’ultima attività si considerano prodotti presso: a) la sede del soggetto che svolge tali attività; b) il domicilio del medesimo soggetto. Pertanto in questi luoghi sarà possibile raggruppare temporaneamente questa particolare tipologia di rifiuti. Oltre questi particolari casi eccezionali, Cass. Pen. 11 maggio 2012, n. 17819 ha ribadito che quando i rifiuti non vengono raggruppati nel luogo della loro produzione, ma in un luogo diverso si ha vero e proprio stoccaggio, ai sensi dell’art. 183, lett. aa, del D.L.vo 152/06.
72.
Com’è realizzabile il deposito temporaneo dei rifiuti agricoli?
I rifiuti agricoli possono essere raggruppati temporaneamente nel luogo in cui gli stessi sono prodotti. Inoltre, l’art. 28 del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, nella legge 4 aprile 2012, n. 35 “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo” (in G.U. n. 82 del 6 aprile 2012 - Suppl. Ordinario n. 69), modificando l’art. 183, c. 1, lett. bb) TUA, prevede che i rifiuti prodotti da imprenditori agricoli di cui all’art. 2135 c.c. possono essere conferiti in deposito temporaneo anche “presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola di cui gli stessi sono soci”.
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Dove è realizzabile il deposito temporaneo dei rifiuti derivanti da attività da manutenzione? 73.
Sul punto si rinvia ai quesiti nn. 71 e 110.
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Discariche
74.
Qual è la corretta gestione dei rifiuti in ingresso in discarica?
Le norme in materia di gestione delle discariche sono state recepite in Italia attraverso il D.L.vo 36/03. Il decreto n. 36/03 ha delineato gli adempimenti sia per le imprese produttrici di rifiuti sia per i gestori delle discariche. Le procedure di ammissione dei rifiuti in discarica trovano poi attuazione tecnica nel D.M. 27 settembre 2010, che ha sostituito il precedente D.M. 3 agosto 2005. I nuovi criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica hanno, tra l’altro, introdotto, per la valutazione dell’idoneità di un rifiuto ad essere collocato in discarica, la determinazione di alcuni parametri specifici, in conformità con quanto stabilito dalla Decisione 2003/33/CE (Allegato 1), e soprattutto, hanno previsto per la prima volta espressamente la responsabilità del produttore nella caratterizzazione del proprio rifiuto.
Come si configura una discarica abusiva e che differenze ci sono con il divieto di abbandono?
75.
Il co. 3 dell’art. 256 sanziona l’illecito della realizzazione o gestione della cd. “discarica abusiva”, ovvero della discarica effettuata e gestita in assenza dell’autorizzazione prescritta dalla legge: è preliminarmente necessario capire quali sono gli aspetti che caratterizzano la fattispecie di “discarica abusiva” ed in che modo la stessa si differenzia dall’abbandono/deposito incontrollato di rifiuti. Peraltro, si precisa che, come ha statuito Cass. III Pen. 19221 del 13 maggio 2008, l’art. 256, co. 3, del D.L.vo 152/06 deve necessariamente essere letto in correlazione con il D.L.vo 36/03, sicché si ha discarica abusiva tutte le volte in cui per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti vengono scaricati in una determinata area trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti con tendenziale carattere di definitività. In realtà, in una prima fase, la giurisprudenza richiedeva anche la presenza del requisito della trasformazione, sia pur tendenziale, del sito degradato dalla presenza dei rifiuti: ad oggi, però, si tratta di una condizione ormai superata, sicché i caratteri che permettono di identificare la discarica rispetto al mero abbandono di rifiuti sono i seguenti: – accumulo ripetuto di rifiuti; – tendenziale carattere di definitività. Del resto, Cass. III Pen. 6766 del 22 febbraio 2006 ha precisato che tra la discarica abusiva, che presuppone un’attività sistematica e organizzata, e il deposito di rifiuti vi
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è rapporto di continenza, con la conseguenza che la contestazione della prima lascia ampio margine per la qualificazione giuridica del fatto. La giurisprudenza successiva ha contribuito a meglio precisare i caratteri di queste condotte, evidenziando che la realizzazione di una discarica può effettuarsi attraverso il ripetitivo accumulo nello stesso luogo di sostanze oggettivamente destinate all’abbandono o anche mediante un unico conferimento di ingenti quantità di rifiuti che faccia assumere alla zona interessata l’inequivoca destinazione di ricettacolo di rifiuti; viceversa, la gestione di una discarica si identifica in un’attività autonoma, successiva alla realizzazione, che può essere compiuta dallo stesso autore di quest’ultima o da altri soggetti, e si tratta di un termine che va inteso in senso ampio, attribuendogli il significato estensivo di condurre, portare avanti un’iniziativa, un’attività e simili, attribuendo così rilevanza giuridica all’attività di mantenimento di discarica fin dopo la sua chiusura (“post-gestione” – Trib. Pen. Bari del 16 giugno 2004). Il regime sanzionatorio previsto in relazione alla realizzazione di una discarica non autorizzata è particolarmente gravoso (arresto da 6 mesi a 2 anni e ammenda da 2.600 e a 26.000 e; peraltro, si assiste ad un aggravio degli importi sanzionatori – arresto da 1 a 3 anni e ammenda da 5.200 e a 52.000 e – laddove la discarica sia destinata, seppur in parte, ad accogliere rifiuti pericolosi) ed esercita una indubbia efficacia deterrente, in quanto la norma prevede la confisca obbligatoria dell’area sulla quale è realizzata la discarica, sia in caso di condanna ordinaria, sia in caso di patteggiamento, qualora l’area sia di proprietà dell’autore o del compartecipe del reato: costoro, quindi, vengono spogliati della materiale disponibilità del terreno, con conseguenti gravi danni per le loro attività economiche.
Come deve essere richiesta l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione di una discarica per inerti?
76.
Il D.L.vo 36 del 13 gennaio 2003 recante Attuazione della direttiva 1999/31/Ce relativa alle discariche (in GU n. 40 del 12 marzo 2003, in vigore dal 27 marzo 2003), effettua agli artt. 4 e 7, commi 2-4, la nuova classificazione delle discariche: – Per rifiuti inerti (in cui possono essere smaltiti i rifiuti precedentemente avviati a discariche di II Categoria Tipo A); – Per rifiuti non pericolosi (in cui possono essere smaltiti i rifiuti precedentemente avviati a discariche di I Categoria e II Categoria Tipo B); – Per rifiuti pericolosi (in cui possono essere smaltiti rifiuti precedentemente avviati a discariche di II Categoria Tipo C e III Categoria). L’art. 2, co. 1, lett. e), definisce “«Rifiuti inerti»: i rifiuti solidi che non subiscono alcuna trasformazione fisica, chimica o biologica significativa; i rifiuti inerti non si dissolvono, non bruciano né sono soggetti ad altre reazioni fisiche o chimiche, non sono biodegradabili e, in caso di contatto con altre materie, non comportano effetti nocivi tali da provocare inquinamento ambientale o danno alla salute umana. La tendenza a dar luogo a percolati e la percentuale inquinante globale dei rifiuti, nonché l’ecotossicità dei percolati devono essere trascurabili e, in particolare, non danneggiare la qualità delle acque, superficiali e sotterranee”. La costruzione e l’esercizio di una discarica per rifiuti inerti, come delle altre due categorie di discariche, è soggetta ad una procedura di autorizzazione contenuta nell’art. 8, il quale articolo rinvia genericamente agli artt. 27 (Approvazione del pro-
Discariche
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getto e autorizzazione alla realizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti) e 28 del previgente D.L.vo 22/97 (Autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento e recupero): oggi, con l’entrata in vigore del D.L.vo 152/06, si interpreta tale rinvio come un rimando all’art. 208 (Autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti). Prima dell’inizio delle operazioni di smaltimento di una nuova discarica, l’autorità territorialmente competente verifica che la discarica soddisfi le condizioni e le prescrizioni alle quali è subordinato il rilascio dell’autorizzazione medesima. L’esito dell’ispezione non comporta in alcun modo una minore responsabilità per il gestore relativamente alle condizioni stabilite dall’autorizzazione, ma l’esito positivo dell’ispezione costituisce condizione di efficacia dell’autorizzazione all’esercizio. Si segnala infine la puntualizzazione TAR Marche 24 febbraio 2012, n. 150, per cui “una discarica per rifiuti pericolosi può ospitare anche inerti e rifiuti non pericolosi, ma ciò non incide né sulla classificazione dell’impianto, né sull’individuazione delle regole tecniche che disciplinano la progettazione e la realizzazione dell’impianto stesso”.
77.
Qual è la definizione di rifiuto inerte?
Il comma 1 dell’artico 3 del D.L.vo 30 maggio 2008, n. 117, come modificato dalla legge n. 96/2010, definisce “inerti” i rifiuti che non subiscono alcuna trasformazione fisica, chimica o biologica significativa. I rifiuti inerti non si dissolvono, non bruciano né sono soggetti ad altre reazioni fisiche o chimiche, non sono biodegradabili e, in caso di contatto con altre materie, non comportano effetti nocivi tali da provocare inquinamento ambientale o danno alla salute umana. La tendenza a dar luogo a percolati e la percentuale inquinante globale dei rifiuti, nonché l’ecotossicità dei percolati devono essere trascurabili e, in particolare, non danneggiare la qualità delle acque superficiali e sotterranee.
Quali sono le norme che descrivono i criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica? 78.
L’ammissibilità in discarica di un rifiuto dipende oggi da tre riferimenti normativi: – l’art. 7 del D.L.vo 36/03 che, in modo generico, definisce l’obbligo di “trattamento” prima della collocazione in discarica; – l’art. 11 del D.L.vo 36/03 che descrive sommariamente le procedure di ammissibilità dei rifiuti; – il D.M. 27 settembre 2010, che ha sostituito il precedente D.M. 3 agosto 2005, che individua, da un punto di vista più operativo, i criteri di ammissibilità. 79. Quali sono gli obblighi del detentore del rifiuto e del gestore della discarica?
L’art. 11 del Decreto n. 36/03 pone a carico del detentore del rifiuto (ovvero del produttore iniziale o di colui che ha il possesso dei rifiuti) l’obbligo di fornire pre-
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cise indicazioni sulla composizione, sulla capacità di produrre percolato, sul comportamento a lungo termine e sulle caratteristiche generali dei rifiuti da collocare in discarica. In previsione, o in occasione del conferimento dei rifiuti, ed ai fini dell’ammissione degli stessi in discarica, il detentore dovrà presentare la documentazione attestante che il rifiuto è conforme ai criteri di ammissibilità previsti dalle disposizioni tecniche del D.M. 27 settembre 2010, che ha sostituito il precedente D.M. 3 agosto 2005. Quest’ultimo decreto, infatti, ha specificato che la caratterizzazione di base di ciascuna tipologia di rifiuti conferiti in discarica è onere del produttore dei rifiuti stessi. La caratterizzazione, secondo l’Allegato 1 del D.M., è costituita non solo da una parte di raccolta dei dati documentali, ma anche da verifiche analitiche. Detta caratterizzazione deve essere effettuata prima del conferimento in discarica, ovvero dopo l’ultimo trattamento effettuato sui rifiuti (art. 2); quindi deve avvenire in corrispondenza del primo conferimento e ripetuta ad ogni variazione significativa del processo che origina i rifiuti, e comunque almeno una volta l’anno. Il c. 5 dell’art. 2 del D.M. 1° dicembre 2010 precisa poi, in modo inequivocabile, che al produttore dei rifiuti o, in caso di non determinabilità del produttore, al gestore della discarica, spetta la responsabilità di garantire che le informazioni fornite per la caratterizzazione siano corrette. Per quanto riguarda invece il gestore della discarica, l’art. 11 comma 3 del decreto n. 36/03 assegna in sintesi i principali seguenti compiti: – controllare la documentazione relativa ai rifiuti, compreso il formulario ed eventualmente i documenti relativi ai trasporti transfrontalieri di rifiuti; – verificare la conformità delle caratteristiche dei rifiuti indicate nel formulario di identificazione ai criteri di ammissibilità previsti dal presente decreto; – effettuare l’ispezione visiva di ogni carico di rifiuti conferiti in discarica prima e dopo lo scarico e – verificare la conformità del rifiuto alle caratteristiche indicate nel formulario. Anche in questo caso, il D.M. 1° dicembre 2010 dettaglia tali adempimenti del gestore, prescrivendo innanzitutto a suo carico la verifica di conformità dei rifiuti (art. 3) sulla base dei dati forniti dal produttore in fase di caratterizzazione e con la medesima frequenza temporale della caratterizzazione di base. Inoltre gli affida il compito di sottoporre ogni carico di rifiuti ad ispezione visiva, prima e dopo lo scarico, controllando la documentazione attestante che il rifiuto è conforme ai criteri di ammissibilità per la specifica categoria di discarica.
Qual è il criterio distintivo tra produttore dei rifiuti e gestore della discarica? 80.
Sia il decreto legislativo che il decreto ministeriale definiscono in modo distinto le figure coinvolte nella gestione della discarica: da un lato il produttore dei rifiuti con i suoi adempimenti e dall’altro il gestore della discarica. Solo il D.L.vo 36/03 utilizza il termine “detentore” esponendone gli adempimenti a suo carico, che, invece, il decreto ministeriale riferisce al “produttore” del rifiuto. Il D.L.vo 36/03 in particolare definisce “detentore: il produttore dei rifiuti o il soggetto che ne è in possesso”, mentre definisce “gestore: il soggetto responsabile di una
Discariche
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qualsiasi delle fasi di gestione di una discarica che vanno dalla realizzazione e gestione fino al termine della gestione post operativa compresa, tale soggetto può variare dalla fase di preparazione a quella di gestione successiva alla chiusura”. Tuttavia la nozione di produttore dei rifiuti però non può prescindere da quella, contenuta nella Parte IV del D.L.vo 152/06. Secondo l’art. 183, comma 1, lettera b), produttore è: “la persona la cui attività ha prodotto rifiuti cioè il produttore iniziale e la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti”. Tale nozione, del resto sostanzialmente analoga a quella precedente contenuta nel decreto Ronchi (art. 6, lett. b, D.L.vo 22/97), ribadisce che produttore è la persona, fisica o giuridica, la cui attività ha prodotto i rifiuti (produttore iniziale), ma anche la persona che sugli stessi ha operato interventi e manipolazioni tali da modificarne la natura o la composizione. 81. È legittima una prassi che scinde in due fasi – documentale e analitica – la caratterizzazione del rifiuto?
Per il conferimento in discarica dei rifiuti, si pone il dubbio della corretta individuazione del “produttore” – ai fini della corretta individuazione dei suoi adempimenti. A parere di chi scrive, il riferimento alla generale nozione di produttore contenuta nella disciplina dei rifiuti (tenuto altresì conto che la normativa discariche indica genericamente una corrispondenza tra produttore e detentore), presuppone che tutti coloro che conferiscono rifiuti non pericolosi alla discarica devono, in qualità di produttori – detentori iniziali, adempiere agli obblighi previsti dall’art. 11 D.L.vo 36/03 nonché, di conseguenza, provvedere alla caratterizzazione di base secondo la disciplina tecnica dell’art. 2 del D.M. 1° dicembre 2010. I produttori iniziali dei rifiuti, infatti, inviandoli in discarica (D1 sarà il riferimento sul formulario di trasporto), scelgono per destino finale degli stessi il conferimento a definitivo smaltimento, per il quale devono assumersi l’onere del “trattamento”, ovvero della caratterizzazione completa in tutte le sue parti. In tale ipotesi il gestore della discarica, dal momento in cui i rifiuti entrano nell’impianto dovrà svolgere i compiti assegnatigli dall’art. 11 comma 3 del D.L.vo 36/03, ovvero la verifica della documentazione e l’ispezione visiva del carico, oltre alla verifica della conformità delle caratteristiche dei rifiuti con i criteri ammissibilità in discarica. Nel caso in cui invece i rifiuti non siano stati trattati dal produttore iniziale, e quindi giungano all’impianto di smaltimento privi della caratterizzazione di base, non potranno essere inviati direttamente a smaltimento definitivo, cioè a D1, ma ad un fase intermedia di trattamento affinché il collocamento in discarica sia corrispondente alle norme di legge. Tale fase, a seconda della tipologia di trattamento effettuata, fa sì che a colui che la pone in essere possa essere attribuita la qualità di produttore del rifiuto ai sensi e per gli effetti della definizione di produttore prevista dall’art. 183 comma 1, lett. b) del D.L.vo 152/06; ciò si verifica solo se il soggetto che riceve i rifiuti svolge effettivamente “… operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti”.
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Il D.L.vo 36/03 non sembra tenere espressamente conto della possibile duplicità della nozione di produttore (ovvero di chi ha consentito che i rifiuti venissero ad esistenza e di chi, agendo sui rifiuti, ha consentito che gli stessi fossero reinseriti nel ciclo di gestione non più tal quali ma diversi, meno impattanti sull’ambiente), assegnando così il compito dell’intera caratterizzazione genericamente al “produttore dei rifiuti”. Non parrebbe dunque vietato dalle disposizioni vigenti scindere in due fasi (documentale e analitica) la caratterizzazione perché al momento dell’emanazione delle norme sulle discariche non se ne è probabilmente ravvisata l’opportunità, essendo del resto indispensabile soltanto che il rifiuto sia conferito in discarica “caratterizzato”; pertanto la richiesta del gestore al produttore iniziale del rifiuto di provvedere alla “caratterizzazione documentale” dello stesso al momento dell’avvio al trattamento presso la discarica è ammissibile. In tal caso, il gestore della discarica procederà sia a caratterizzazione sia a verifica di conformità; possibilità del resto contemplata espressamente dall’art. 4 comma 2 del D.M. 1° dicembre 2010, per i rifiuti smaltiti dal produttore in una discarica da lui gestita.
Esiste qualche legame, tra la Direttiva Seveso e la normativa sulle discariche?
82.
Per quanto concerne i rischi di incidente rilevanti, non risulta un legame tra la Direttiva Seveso e la dichiarazione che il produttore dei rifiuti (in questo caso prodotti sulle navi) deve rendere al gestore della discarica: peraltro, l’art. 4 del D.L.vo 17 agosto 1999, n. 334, come modificato dal D.L.vo 21 settembre 2005, n. 238, stabilisce all’art. 1 che “sono esclusi dall’applicazione del presente decreto: f) le discariche di rifiuti, ad eccezione degli impianti operativi di smaltimento degli sterili, compresi i bacini e le dighe di raccolta degli sterili, contenenti le sostanze pericolose di cui all’allegato I, in particolare quando utilizzati in relazione alla lavorazione chimica e termica dei minerali”.
83.
Chi è soggetto al pagamento dell’Ecotassa?
L’“ecotassa” intesa come tributo speciale per lo smaltimento in discarica dei rifiuti solidi, è stata introdotta dalla Legge n. 549 del 28 dicembre 1995 (Legge Finanziaria per il 1996), in particolare dall’art. 3, dai commi 24 a 41. Il legislatore ha inteso tassare quella che si ritiene essere la forma di gestione dei rifiuti a maggior impatto ambientale ovvero la discarica con il preciso obiettivo di attivare un sistema in cui si creino le condizioni per privilegiare forme di gestione ambientalmente più compatibili, quali la raccolta differenziata, il recupero di materia ed energetico. È soggetto al pagamento di tale imposta il gestore dell’impianto di discarica con diritto di rivalsa su chi conferisce i rifiuti. La legge istitutiva definisce i principi di base dell’ecotassa, delegando poi alle regioni, in quanto soggetti competenti in materia, le definizioni e l’articolazione di parametri specifici in relazione alle caratteristiche locali. La base imponibile è costituita dalla quantità, espressa in chilogrammi, dei rifiuti smaltiti nell’impianto.
Discariche
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La legge identifica tre macrocategorie di rifiuti: – rifiuti speciali dei settori minerario, estrattivo, edilizio, lapideo e metallurgico; – altre tipologie di rifiuti speciali; – tutte le altre tipologie di rifiuti (in sostanza i rifiuti urbani). Questa classificazione sembra tener conto, sia del peso specifico del rifiuto che del dover contenere l’eventuale impatto economico sulle differenti categorie produttive, soprattutto per quanto riguarda i rifiuti speciali. Relativamente alle tre macrocategorie, descritte sopra, la Legge stabilisce l’entità del tributo definendo un minimo ed un massimo applicabile, secondo il seguente criterio: – non inferiore a 1,03 €/t e non superiore a 10,33 €/t per i rifiuti del settore minerario, estrattivo, edilizio, lapideo e metallurgico; – non inferiore a 5,16 €/t e non superiore a 10,33 €/t per tutti gli altri rifiuti speciali; – non inferiore 10,33 €/t e non superiore a 25,82 €/t per gli altri rifiuti.
84.
Come si calcola l’Ecotassa?
Il pagamento del tributo per il conferimento in discarica, che prevede che il gestore dell’impianto sia sostituto di imposta, si determina moltiplicando l’ammontare dell’imposta, prevista per ogni tipo di rifiuto, per il quantitativo, espresso in tonnellate, dei rifiuti conferiti per un coefficiente di correzione. Ai fini del calcolo del tributo si tiene conto anche delle frazioni di tonnellata fino a tre decimali. L’ammontare dell’imposta è fissato con legge regionale per l’anno successivo, salvo proroga automatica delle aliquote in vigore; il coefficiente di correzione, invece, deve essere determinato con decreto del Ministero dell’Ambiente ed attualmente, in assenza di tale decreto, è assunto pari ad 1.
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Dragaggi
Qual è la disciplina per il trattamento dei materiali di dragaggio di aree portuali e marino-costiere nei siti di bonifica di interesse nazionale?
85.
L’art. 48 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” (in GU n. 71 del 24 marzo 2012 - Suppl. Ordinario n. 53). La norma, inserendo nel novero dell’art. 5 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, il c. 5 bis prevede che nei siti oggetto di interventi di bonifica di interesse nazionale (art. 252 TUA) le operazioni di dragaggio possono essere svolte anche contestualmente alla predisposizione del progetto relativo alle attività di bonifica e dispone precise e nuove condizioni per: a) l’immissione in corpi idrici; b) l’impiego a terra; c) il refluimento all’interno della vasca di colmata, della vasca di raccolta o delle strutture di contenimento. Più in particolare, la norma prevede che il progetto di dragaggio, basato su tecniche idonee ad evitare dispersione del materiale, ivi compreso l’eventuale progetto relativo alle casse di colmata, vasche di raccolta o strutture di contenimento, è presentato dall’autorità portuale o, laddove non istituita, dall’ente competente ovvero dal concessionario dell’area demaniale al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con proprio decreto, approva il progetto entro trenta giorni sotto il profilo tecnico-economico e trasmette il relativo provvedimento al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare per l’approvazione definitiva. Come accennato, la norma chiarisce le condizioni, a seconda del livello di inquinamento dei materiali dragati, in base alle quali possono essere utilizzati i materiali stessi. In particolare, salve le ipotesi di refluimento dentro casse di colmata, ovvero di riutilizzo “come prima”: A) i materiali che all’origine o dopo trattamento hanno caratteristiche analoghe al fondo naturale del sito di prelievo, sono idonei al sito di destinazione, e non sono positivi ai test eco-tossicologici, previa autorizzazione della competente autorità possono essere riutilizzati: – nei corpi idrici da cui provengono – nei terreni costieri
Dragaggi
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– per ripascimento degli arenili – per migliorare i fondali attraverso il cd. capping (copertura), e nel rispetto delle modalità previste da un futuro decreto ministeriale. B) I materiali che all’origine o dopo trattamento di desalinizzazione e/o rimozione degli inquinanti abbiano livelli di contaminazione non superiori a quelli stabiliti dalla tabella 1, col A e B, allegato 5, parte IV, D.L.vo 152/06 e qualora risultino conformi al test di cessione da compiere con il metodo e in base ai parametri di cui al D.M. 5 febbraio 1998, nel caso in cui la destinazione sia specificata già nel progetto di dragaggio, possono essere riutilizzati a terra, nel rispetto delle modalità previste da un futuro decreto ministeriale.
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End of waste
86.
Quando un rifiuto cessa di essere tale?
Secondo il comma 1 dell’art. 184 ter TUA un rifiuto cessa di essere tale (end of waste - EoW) quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici; b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana. Secondo il successivo comma 2 l’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conforme mente alle predette condizioni. Si segnala, infine che ai sensi del c. 5 della norma in commento la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino alla cessazione della qualifica di rifiuto. 87. Quali sono i trattamenti in base ai quali un rifiuto cessa di essere tale?
L’art. 184 ter, c. 1, TUA dispone che: “un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero (…), e soddisfi i criteri specifici”; al comma successivo chiarisce che “i criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare”, al riguardo si segnala che, ad oggi, l’unico provvedimento in tal senso adottato è il Regolamento (UE) n. 333/2011 (in vigore dal 9 ottobre 2011) che stabilisce i criteri in base ai quali i rottami metallici cessano di essere rifiuti. Infine, dalla lettura del comma 3 si evince che “nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 (…)”.
End of waste
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Quest’ultima previsione produce una notevole confusione: richiamando soltanto i decreti che descrivono i principi e le condizioni per l’ottenimento di autorizzazioni di recupero in forma semplificata, da una superficiale lettura si potrebbe erroneamente ritenere che, ad oggi, le uniche disposizioni che possono identificare i criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto sono quelle di cui ai decreti relativi a queste specifiche procedure, escludendo di fatto la possibilità che da un’operazione di recupero ordinaria possa derivare la cessazione della qualifica di rifiuto. A che risulti, a tale conclusione – non conforme, né alla ratio, né al contenuto della corrispondente norma europea – sono giunte alcune Amministrazioni, rendendo di fatto inutilizzabili tutte le attuali autorizzazioni rilasciate in “ordinaria”. In primo luogo, infatti, occorre evidenziare il ruolo sussidiario che la norma in commento assegna al Ministero dell’Ambiente nell’emanazione dei criteri in parola: questi infatti potrà intervenire solo in assenza di criteri di matrice comunitaria e per particolari tipologie di rifiuti. Non va sottaciuto nemmeno il fatto che si sta nuovamente verificando quanto già accaduto per le materie prime secondarie, ed è appena il caso di sottolineare che le MPS sono state definite “un sistema ante litteram di end of waste”. Tale risultato, già allora aspramente criticato, è oggi tanto più inaccettabile ove si consideri che la nuova definizione di recupero, come detto, implica un rapporto più libero e collaborativo tra aziende e Pubbliche amministrazioni, con maggiori margini di libertà durante la fase delle trattative e della concessione delle autorizzazioni per le attività di recupero. Pertanto, per evitare tale inammissibile conclusione la norma in esame dovrebbe leggersi come segue “nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi [anche] le disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’art. 9 bis, lett. a) e b), del D.L. 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2008, n. 210”.
88.
Qual è il rapporto tra MPS ed EoW?
Come già sottolinato da autorevoli autori, il concetto di EoW era già stato in parte elaborato nel diritto italiano tramite la nozione di Materia prima secondaria. Pertanto il sistema della MPS (DM 5.2.1998 e altri decreti di individuazione) derivante da attività di recupero sarà progressivamente sostituito dall’“end of waste”. A questo proposito l’art 184-ter, comma 2 prevede che “I criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente. Un primo “banco di prova” sarà il Regolamento UE n. 333/2011 che stabilisce i criteri “End of Waste” per i rottami metallici il quale è entrato il vigore il 9 ottobre 2011. Per quanto concerne le MPS che sono già tali senza necessità di trattamento (cd. MPS all’origine) essendo abrogata dal 25 giugno 2011 la circolare 28 giugno 1999 n. 3402/V/MIN, che ne prevedeva specifica regolamentazione, esse, in alcuni casi, potrebbero essere considerate sottoprodotti.
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Estetiste
89.
Come sono gestiti i rifiuti derivanti dall’attività di estetista?
L’art. 40, c. 8, del D.L. n. 201/2011, convertito, con modific., dalla L. n. 214/2011 (in G.U. n. 284 del 6 dicembre 2011 - Suppl. Ordinario n. 251) prevede che, al fine di semplificare lo smaltimento dei rifiuti speciali per talune attività, i soggetti che svolgono le attività di estetista, acconciatore, trucco permanente e semipermanente, tatuaggio, piercing, agopuntura, podologo, callista, manicure, pedicure e che producono rifiuti pericolosi e a rischio infettivo (CER 180103: aghi, siringhe e oggetti taglienti usati) possono trasportarli, in conto proprio, per una quantità massima fino a 30 chilogrammi al giorno, sino all’impianto di smaltimento tramite termodistruzione o in altro punto di raccolta. Per tali soggetti, l’obbligo di registrazione sul registro di carico e scarico dei rifiuti e l’obbligo di comunicazione al Catasto dei rifiuti tramite il Modello Unico di Dichiarazione ambientale si intendono assolti, anche ai fini del trasporto in conto proprio, attraverso la compilazione e conservazione, in ordine cronologico, dei FIR, che sono gestiti e conservati con modalità idonee all’effettuazione del relativi controlli così come previsti dall’art. 193 del D.L.vo 152/06, e sono conservati la sede dei soggetti esercenti le attività.
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Fanghi
90.
Qual è in genere la disciplina da applicare ai fanghi?
La normativa statale di settore per l’utilizzo dei fanghi da depurazione è rappresentata dal D.L.vo 27 gennaio 1992, n. 99 recante “Attuazione della direttiva 86/278/ CEE concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura”. Tale disposizione di derivazione comunitaria disciplina esclusiavamente la fase di applicazione al suolo dei fanghi di depurazione: per quanto concerne le attività di raccolta, trasporto, stoccaggio e condizionamento, poiché i fanghi sono a tutti gli effetti classificati rifiuti speciali ai sensi dell’art. 127, c.1, del D.L.vo 152/06, essi sono soggetti alla normativa sui rifiuti. Tuttavia occorre tener presente la pratica della cd. fertirrigazione: essa consiste nella sistematica diffusione dei liquami sul terreno allo scopo di renderlo fertile e produttivo. Invero, i fanghi utilizzati secondo i parametri (per lo più regionali) indicati nella prassi della fertirrigazione, non sono considerati rifiuti. Sul punto si segnala Cass. Pen., III, n. 5039 del 09 febbraio 2012: “la pratica della fertirrigazione, la cui disciplina si pone in deroga alla normativa sui rifiuti, implica che essa sia di una qualche utilità per l’attività agronomica e lo stato, le condizioni e le modalità di utilizzazione delle sostanze compatibili con tale pratica, con la conseguenza che, in difetto, essa resta sottoposta alla disciplina generale sui rifiuti”.
Quale codice CER deve essere utilizzato durante le fasi di miscelazione di fanghi biologici? 91.
L’attività di miscelazione va intesa come miscelatura e unione di rifiuti non appartenenti alla stessa categoria, senza distinzioni tra essi, con la conseguenza di rendere ardua o impossibile la diversificazione dei differenti rifiuti mescolati. È da ritenere che sia proprio la caratteristica dell’inscindibilità del composto ottenuto a distinguere inconfutabilmente la miscelazione dalle altre operazioni di smaltimento e che per effetto della miscelazione, oltre all’unità inscindibile della natura fisico-chimica dei rifiuti miscelati, si possa dar vita, con riferimento ai codici di identificazione dei rifiuti (codici CER), ad una modificazione tra il codice in entrata e quello in uscita. Può pertanto ragionevolmente accadere che nel registro di carico “entrino” rifiuti con un CER che poi vengano miscelati – in maniera omogenea o, anche in deroga al generale divieto dell’art. 187 D.L.vo 152/06, per espressa menzione in autorizzazione, in maniera da mescolare le categorie – con altri rifiuti e quindi “escano” con
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un CER di livello superiore o addirittura diverso comprensivo tra gli altri di quello in entrata. È pertanto consigliabile in ogni caso, di sottoporre ad analisi il risultato della miscelazione effettuata sui fanghi in entrata. Sulla base ai risultati del laboratorio di analisi, e tenendo altresì conto di quanto prescritto in sede di autorizzazione allo spandimento sul suolo dei fanghi (D.L.vo 99/92), si potrà procedere all’individuazione del Cer corretto da attribuire alla miscela di fanghi. In particolare, posta la difficoltà pratica di “uscire con n formulari quanti sono i CER in ingresso che sono stati miscelati”, come prospettato da alcune Pubbliche Amministrazioni, in quanto la miscela ottenuta dai vari fanghi ha un’identità autonoma e distinta dagli stessi, le altre ipotesi che possono essere prese in considerazione sono relative ai codici: – Cer 19.03.05, “rifiuti stabilizzati diversi da quelli di cui alla voce 19.03.04”: si tratta di un codice a specchio, per cui, posto che venga effettuata un’operazione di stabilizzazione (come pare venga effettuata), non si pone alcun problema in ordine alla pericolosità dei rifiuti; – Cer. 19.08.99, “rifiuti non specificati altrimenti”: pur facendo parte del capitolo 19.08 “rifiuti prodotti dagli impianti per il trattamento delle acque reflue, non specificati altrimenti”, è uno dei Cer contemplati dall’All. 2 alla Delib. 2773/04 cit. tra quelli idonei all’utilizzo in agricoltura. Naturalmente, a fianco di questa generica dicitura dovrà anche essere riportata l’espressione ritenuta più opportuna per identificare l’origine agroalimentare della miscela.
È possibile effettuare con impianti mobili mod. TRI 1611 FP una miscelazione meccanica di fanghi ed inerti in modo da poter produrre una variazione di concentrazione di inquinanti presenti nei fanghi tali da renderli meno pericolosi, e quindi smaltibili come inerti in discariche o per il riutilizzo per rifiuti non pericolosi?
92.
L’impianto mobile per la frantumazione ed il riciclaggio degli inerti (mod. TRI 1611 FP), è per sua natura destinato a svolgere la funzione di riduzione volumetrica di inerti che in particolare, andrebbero miscelati con dei fanghi al fine di ridurne la concentrazione di inquinanti e poterli poi destinare al riutilizzo o avviarli allo smaltimento. Si tenga tuttavia presente che gli impianti mobili hanno uno specifico regime autorizzatorio delineato dall’art. 208, comma 15, D.L.vo 3 aprile 2006, n. 152. Come si evince dalla lettura della norma, l’impianto mobile è sottoposto ad un duplice regime autorizzatorio: innanzitutto, deve essere autorizzato in via definitiva dalla Regione ove l’interessato ha la sede legale e, in secondo luogo, almeno 60 giorni prima dell’installazione dell’impianto per le campagne di attività, egli deve comunicare alla Regione (o alla Provincia, se delegata), nel cui territorio si trova il sito prescelto, le specifiche dettagliate relative alla campagna di attività, allegando l’autorizzazione di cui sopra e l’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali, nonché l’ulteriore documentazione richiesta. Sono esclusi dal regime autorizzatorio appena descritto, gli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano. Tale concetto è stato interpretato dalla dottrina come permanenza stabile dell’impianto mobile pres-
Fanghi
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so gli impianti di depurazione, affinché, appunto, possa dirsi realizzata l’immissione dell’acqua in testa al processo depurativo in modo continuato. Viceversa, se l’impianto de quo vuole essere utilizzato anche per altre campagne presso altri siti, è evidente che non si rientra nella prospettata esclusione.
Qual è la disciplina da applicare ad un impianto di macellazione che produce fanghi di depurazione poi stoccati direttamente all’interno dell’area di proprietà? 93.
Premesso che la materia dello stoccaggio e utilizzo fanghi di depurazione in agricoltura è oggetto di completa regolamentazione regionale, le norme si basano sul concetto di massima responsabilizzazione del produttore del fango che intende procedere in proprio, o attraverso terzi, all’utilizzo in agricoltura degli stessi, obbligandolo alla caratterizzazione preventiva dei fanghi in conformità ad un protocollo analitico predefinito. A carico del soggetto utilizzatore, vi è anche il dovere di disporre di sistemi di stoccaggio – da autorizzarsi ai sensi della normativa sui rifiuti – ubicati, in alternativa, o presso l’impianto di produzione o presso la propria unità locale o presso terzi, e comunque di capacità adeguata a contenere almeno un terzo del quantitativo di fango che intende utilizzare nel corso dell’anno. Sono quindi due i titoli autorizzatori che rendono legittima l’operazione di spandimento dei fanghi in agricoltura: l’autorizzazione allo stoccaggio degli stessi ex decreto Ronchi oggi D.L.vo 152/06 e l’autorizzazione all’utilizzo ai sensi del D.L.vo 99/92.
È possibile effettuare operazioni di attivazione impianti di depurazione tramite l’inoculo di fango biologico prelevato da un altro impianto senza che si configuri un’attività di smaltimento rifiuti? 94.
I fanghi attivi, una sospensione in acqua di biomassa attiva solitamente sotto forma di fiocchi, sono alla base degli impianti di depurazione a fanghi attivi, i più diffusi fra gli impianti di trattamento delle acque reflue. Nel trattamento biologico a fanghi attivi si realizza nelle vasche un sistema dinamico aerobico controllato, che riproduce in ambiente artificiale gli stessi meccanismi biologici che avvengono in natura per la depurazione delle acque inquinate da sostanze organiche biodegradabili: in altre parole, si ha lo stesso processo di autodepurazione che avviene in natura, ma con una velocità delle reazioni accelerata e uno spazio occupato minore. Il vantaggio del trattamento a fanghi attivi rispetto alla depurazione naturale è che la flora microbica utilizzata per trattare le acque di scarico, anziché rimanere dispersa nell’effluente trattato tende ad agglomerarsi formando dei fiocchi che, se posti in condizioni di quiete, tendono a sedimentare e possono essere separati con facilità dai liquami chiarificati che rimangono in superficie. Quindi, il risultato che si ottiene con un impianto a fanghi attivi è l’eliminazione della sostanza organica biodegradabile mediante trasformazione in materiale inerte e in una soluzione fangosa concentrata di sostanza organica che deve essere sottoposta ad ulteriori trattamenti prima dello smaltimento finale.
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In particolare, la fase di ossidazione è quella fondamentale del processo di depurazione: all’interno di grandi vasche opportunamente aerate si formano i fanghi attivi, che contengono grandi quantità di batteri in grado di aggredire e decomporre le sostanze organiche presenti nell’acqua. Il fango attivo agisce sia tramite l’attività dei microrganismi, che si nutrono delle sostanze organiche inquinanti presenti nell’acqua, sia tramite l’assorbimento fisico di queste sostanze da parte dei fiocchi stessi. Durante questa fase si ha anche produzione di fango, cioè la quantità di biomassa presente in vasca aumenta proprio perché i microrganismi si riproducono utilizzando i nutrienti presenti. Una volta depurata, l’acqua viene separata dal fango e per realizzare questo viene inviata nuovamente in vasche di grandi dimensioni in cui, per effetto della quiete, il fango si deposita sul fondo, da dove viene estratto con apposite pompe ed avviato alla linea di trattamento fanghi. Questi contengono ancora preziosi batteri vivi, riutilizzabili (fanghi attivi) che possono essere rimessi in circolo in testa alle vasche di denitrificazione, oppure, quelli eccedenti possono essere inviati alle vasche di sedimentazione primaria, dove i batteri muoiono per assenza di ossigeno, o ancora trasportati presso altri impianti di depurazione (inoculo). Pur nel silenzio della legge si può ritenere che non si tratta di rifiuti (non si ritiene, infatti, che ne siano integrate le condizioni richieste dall’art. 183, c. 1, lett. a del D.L.vo 152/06) e pertanto è sufficiente che il trasporto dei fanghi attivi sia accompagnato da un semplice D.D.T., però, pur trattandosi di fanghi dei quali non si ha l’intenzione, né l’obbligo di disfarsi, si consiglia di accompagnare comunque il trasporto di detti materiali con il formulario di trasporto rifiuti di cui all’art. 193 del D.L.vo 152/06 (nella versione precedente al D.L.vo 205/10) ed indicare (per comodità) il codice Cer 19.08.05 (fanghi prodotti dal trattamento delle acque reflue urbane), aggiungendo eventualmente nelle Annotazioni la dicitura “trasporto fanghi per inoculo impianto”: si tratta di una soluzione che, seppur non rispondente alla realtà (i fanghi attivi non sono rifiuti, ma, anzi, vengono trasportati per consentire l’avvio di un nuovo processo di depurazione), consente di porsi al riparo da eventuali contestazioni da parte degli organi di controllo i quali, se riterranno utile effettuare un campionamento, avranno solo una conferma della correttezza dell’operazione di trasporto. A ciò si aggiunga che l’art. 101, c. 1 del D.L.vo 152/06 non a caso prevede espressamente che “l’autorizzazione può in ogni caso stabilire specifiche deroghe ai suddetti limiti e idonee prescrizioni per i periodi di avviamento e di arresto e per l’eventualità di guasti nonché per gli ulteriori periodi transitori necessari per il ritorno alle condizioni di regime”. Infatti, il periodo di avviamento, ovvero l’arco temporale che trascorre tra la messa in marcia dell’impianto ed il suo collaudo, nei depuratori a fanghi attivi è piuttosto prolungato e variabile a seconda che si utilizzi o meno un inoculo. Da ultimo si ricorda di non confondere, a livello concettuale, i fanghi attivi, utilizzati essenzialmente per avviare i processi di depurazione, con i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue che potranno subire altri trattamenti (es: essiccazione) e poi essere smaltiti secondo le regole generali in materia di rifiuti.
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Imballaggi
95.
Cosa si intende per imballaggio?
L’art. 218, c. 1, lett. a), del D.L.vo 152/06 definisce “imballaggio”: “il prodotto, composto di materiali di qualsiasi natura, adibito a contenere determinate merci, dalle materie prime ai prodotti finiti, a proteggerle, a consentire la loro manipolazione e la loro consegna dal produttore al consumatore o all’utilizzatore, ad assicurare la loro presentazione, nonché gli articoli a perdere usati allo stesso scopo”. Per una più agevole comprensione di tale nozione è puntualizzato nell’Allegato E alla Parte IV del D.L.vo 152/06 che: I) sono considerati imballaggi gli articoli che rientrano nella definizione normativa, fatte salve altre possibili funzioni dell’imballaggio, a meno che tali articoli non siano parti integranti di un prodotto e siano necessari per contenere, sostenere o preservare tale prodotto per tutto il suo ciclo di vita e tutti gli elementi siano destinati ad essere utilizzati, consumati o eliminati insieme; II) sono considerati imballaggi gli articoli progettati e destinati ad essere riempiti nel punto vendita e gli elementi usa e getta venduti, riempiti o progettati e destinati ad essere riempiti nel punto vendita, a condizione che svolgano una funzione di imballaggio; III) i componenti dell’imballaggio e gli elementi accessori integrati nell’imballaggio sono considerati parti integranti dello stesso. Gli elementi accessori direttamente fissati o attaccati al prodotto e che svolgono funzioni di imballaggio sono considerati imballaggio a meno che non siano parte integrante del prodotto e tutti gli elementi siano destinati ad essere consumati o eliminati insieme. Ad ulteriore chiarimento di quanto esposto, nel medesimo Allegato vengono poi riportati esempi illustrativi previsti dalla normativa comunitaria, a tal fine è previsto: “Esempi illustrativi per il criterio I) Articoli considerati imballaggio: Scatole per dolci Involucro che ricopre la custodia di un CD Articoli non considerati imballaggio: Vasi da fiori destinati a restare con la pianta per tutta la durata di vita di questa Cassette di attrezzi Bustine da tè Rivestimenti di cera dei formaggi Budelli per salumi. Esempi illustrativi per il criterio II) Articoli da imballaggio progettati e destinati ad essere riempiti nel punto vendita:
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Sacchetti o borse di carta o di plastica Piatti e tazze usa e getta Pellicole di plastica trasparente Sacchetti per panini Fogli di alluminio Articoli non considerati imballaggio: Cucchiaini di plastica Posate usa e getta. Esempi illustrativi per il criterio III) Articoli considerati imballaggio: Etichette fissate direttamente o attaccate al prodotto Articoli considerati parti di imballaggio: Spazzolino del mascara che fa parte del tappo della confezione Etichette adesive incollate su un altro articolo di imballaggio Graffette Fascette di plastica Dispositivo di dosaggio che fa parte del tappo della confezione per i detersivi”.
Quali sono i soggetti tenuti ad iscriversi al CONAI? Quali obblighi impone tale adesione? 96.
Occorre innanzitutto premettere che il D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. con modif., nella L. 24 marzo 2012, n. 27 ha aperto il mercato della gestione degli imballaggi a sistemi alternativi al Conai, determinandone di fatto la fine del monopolio. L’art. 26 del citato decreto legge, nel modificare gli artt. 221, cc. 3 e 5, 265 e 261, del D.L.vo 152/06 consente ai produttori di imballaggi di organizzare la gestione dei suddetti materiali e dei relativi rifiuti in alternativa al sistema Conai. In particolare, l’abrogazione del c. 5 dell’art. 265 del TUA ha eliminato, ai fini della creazione di sistemi alternativi al Consorzio in parola, la necessità dell’emanazione di un apposito decreto ministeriale di definizione dello schema di “statuto-tipo” cui i suddetti sistemi alternativi si sarebbero dovuti uniformare. Pertanto, alcuni commentatori hanno rilevato che dopo le modifiche al Codice dell’ambiente apportate dal D.L. n. 1/2012 convertito con modificazioni dalla legge n. 27/2012, per adempiere i propri obblighi di riciclaggio e recupero nonché agli obblighi della ripresa degli imballaggi usati e della raccolta dei rifiuti di imballaggio secondari e terziari su superfici private, i produttori possono, alternativamente: – organizzare autonomamente, anche in forma collettiva (quindi tramite consorzi), la gestione dei propri rifiuti di imballaggio sull’intero territorio nazionale; – aderire al Consorzio nazionale imballaggi (Conai), istituito per legge, nel cui sistema orbitano i consorzi di filiera, relativi allo specifico materiale di imballaggio: consorzio nazionale acciaio, Comieco, Corepla, Coreve, Rilegno, Cial); – attestare sotto la propria responsabilità che è stato messo in atto un sistema di restituzione dei propri imballaggi, mediante idonea documentazione che dimostri l’autosufficienza del sistema.
Imballaggi
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Ciò premesso, si rileva che dall’intero impianto normativo del Titolo II, Parte IV del D.L.vo 152/06, dedicata alla gestione degli imballaggi, si ricava la previsione della necessaria cooperazione di filiera dei produttori e degli utilizzatori degli stessi, al fine di garantire il funzionamento del sistema di gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio.
97.
Chi è il produttore di imballaggi?
Secondo l’art. 218, c. 1, lett. r) del D.L.vo 152/06, sono produttori: “i fornitori di materiali di imballaggio, i fabbricanti, i trasformatori e gli importatori di imballaggi vuoti e di materiali di imballaggio”. Lo stesso Conai definisce più puntualmente i soggetti in esame come: “i produttori e importatori di materie prime destinate a imballaggi; i produttori e importatori di semilavorati destinati a imballaggi; i produttori di imballaggi vuoti; gli importatori rivenditori di imballaggi vuoti” (Guida Conai 2012).
98.
Chi è l’utilizzatore di imballaggi?
Ai sensi dell’art. 218, c. 1, lett. s) del TUA gli utilizzatori sono “i commercianti, i distributori, gli addetti al riempimento, gli utenti di imballaggi e gli importatori di imballaggi pieni”. La Guida Conai 2012 definisce più puntualmente i soggetti in esame individuandoli come: “gli acquirenti/riempitori di imballaggi vuoti; gli importatori di “imballaggi pieni” (cioè di merci imballate); gli autoproduttori (che producono imballaggi per confezionare le proprie merci); i commercianti di imballaggi pieni (acquirenti/rivenditori di merci imballate); i commercianti di imballaggi vuoti (che acquistano in Italia e rivendono questi imballaggi senza effettuarne alcuna trasformazione)”. Dalla figura dell’utilizzatore di imballaggio va tenuto distinto il cd. utente finale (che invece non va annoverato tra gli utilizzatori) il quale viene così definito dall’art. 218, c. 1, lett. u): “il soggetto che nell’esercizio della sua attività professionale acquista, come beni strumentali, articoli o merci imballate”. Ai fini dell’esclusione dal novero dei soggetti obbligati all’iscrizione al Conai è tuttavia necessario che detto soggetto non effettui alcuna attività di commercializzazione e distribuzione della merce imballata. Anche in questo caso il Conai, nella Guida 2012, offre un illuminante chiarimento sul punto, riportando il seguente esempio: “Il parrucchiere che acquista prodotti di bellezza imballati utilizzandoli unicamente nello svolgimento della propria attività non è tenuto ad iscriversi al CONAI. Lo stesso vale per le imprese di servizi, gli studi professionali, etc. Tuttavia, qualora il parrucchiere, oltre a utilizzare direttamente per la propria attività i prodotti di bellezza acquistati, ne rivende una parte alla propria clientela è tenuto all’iscrizione al Consorzio. Lo stesso vale per il parrucchiere che acquista all’estero i prodotti di bellezza per la propria attività, anche se non li rivende”.
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A quali oneri deve adempiere il produttore di imballaggi che non intenda aderire al CONAI
99.
Per effetto delle modifiche apportate dal D.L. n. 1/2012, conv. con modificazini nella L. n. 27/2012, è venuto meno il monopolio CONAI. Ne deriva che i produttori che non intendono aderire al sistema Conai possono presentare all’Osservatorio nazionale sui rifiuti un progetto di sistema alternativo richiedendone il riconoscimento. Per ottenere il riconoscimento i produttori devono dimostrare di avere organizzato il sistema secondo criteri di efficienza, efficacia ed economicità, garantire che il sistema sia effettivamente e autonomamente e che sarà in grado di conseguire gli obiettivi minimi di recupero e riciclaggio. L’Osservatorio, acquisiti gli dell’ambiente su istanza dell’interessato, esercita entro 60 giorni i relativi poteri sostitutivi. Ai sensi delle novità apportate dal D.L. n. 1/2012, l’attività può essere intrapresa decorsi 90 giorni dallo scadere del termini concesso al Ministero per esercitare i poteri sostitutivi. A patto ovviamente che il produttore abbia rispettato tutte le condizioni, norme tecniche, e le prescrizioni specifiche per esercitare il sistema alternativo. Il mancato riconoscimento del sistema alternativo o la revoca disposta dall’Autorità, comporta l’adesione obbligatoria ai consorzi ex art. 223, D.L.vo 152/06 (quelli ruotanti nella galassia Conai) e avrà effetto retroattivo ai fini della corresponsione del contributo ambientale in proporzione agli obiettivi di riciclo, quota che non potrà essere inferiore ai 3 punti percentuali rispetto agli stessi obiettivi di recupero e riciclo indicati all’art. 220 del TUA.
È consentito il riutilizzo degli imballaggi ed in particolare di fusti vuoti che contenevano sostanze pericolose? 100.
Il riutilizzo degli imballaggi consiste in “qualsiasi operazione nella quale l’imballaggio concepito e progettato per poter compiere, durante il suo ciclo di vita, un numero minimo di spostamenti o rotazioni è riempito di nuovo o reimpiegato per un uso identico a quello per il quale è stato concepito, con o senza il supporto di prodotti ausiliari presenti sul mercato che consentano il riempimento dell’imballaggio stesso; tale imballaggio riutilizzato diventa rifiuto di imballaggio quando cessa di essere reimpiegato” (art. 218, lett. i). Peraltro, si consideri che il D.L.vo 152/06 è animato da una forte spinta a non considerare rifiuti quei materiali suscettibili di essere oggettivamente riutilizzati per assolvere la loro funzione originaria: e questo è proprio il caso ad esempio di fusti, lungi dall’essere considerati rifiuti, difettando il requisito e presupposto fondamentale, vengono sottoposti ad attività che consentono nuovamente il loro utilizzo conforme a quello originario. Quindi si può affermare che l’imballo (fusto o tank), dopo essere stato vuotato, non è un rifiuto ed una volta lavato in modo adeguato (eliminando quindi i residui di rifiuto potenzialmente presenti) può essere impiegato nuovamente come imballo.
Imballaggi
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Se un’azienda che rifornisce i negozi di ortofrutta volesse aggiungere anche il servizio di raccolta degli imballaggi restituiti dai commercianti per riutilizzarli la volta successiva, gli imballaggi da ritirare sarebbero da considerarsi rifiuti?
101.
Occorre evidenziare, innanzitutto, che per considerare un imballaggio come rifiuto ed assoggettarlo, pertanto, alla normativa sulla gestione dei rifiuti occorrono due presupposti specifici: – che il detentore si disfi, o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi dell’imballaggio e – che lo stesso non sia riutilizzabile. Nella fattispecie in epigrafe prospettata, non vengono integrati i presupposti appena richiamati, e, pertanto, gli imballaggi restituiti agli automezzi dell’azienda in questione dai commercianti di ortofrutta non possono essere considerati rifiuti. Occorre rilevare, inoltre, che non è necessario commercializzare gli imballaggi per soddisfare il requisito del “non disfarsi”, poiché gli stessi potranno essere conferiti alla medesima azienda anche a titolo non oneroso, purché destinati al riutilizzo. Infatti, gli imballaggi restituiti dai commercianti non saranno considerati come rifiuti qualora – per esempio – si attesti, attraverso un idoneo documento, la presenza di un contratto tra l’azienda de qua ed i commercianti di ortofrutta che potrà essere esibito in caso di controllo. Tale contratto, come premesso, potrà essere anche a titolo gratuito e dovrà certificare l’accordo delle parti in relazione al servizio offerto dall’azienda, avente ad oggetto la raccolta degli imballaggi e il loro riutilizzo per il successivo trasporto delle derrate alimentari. Ne consegue che gli automezzi dell’azienda in oggetto non necessiteranno di alcuna specifica autorizzazione per il trasporto rifiuti, ben potendo legittimamente trasportare presso la propria sede gli imballaggi conferiti dai negozi di ortofrutta. Questa operazione potrà certamente essere effettuata con gli stessi mezzi con i quali l’azienda medesima trasporta gli imballaggi riempiti di derrate alimentari poiché in entrambi le operazioni (trasporto di frutta e verdura – raccolta imballaggi) gli automezzi prenderanno in carico sempre e solo “prodotti”.
102.
Quali sono gli aspetti sanzionatori?
Sotto il profilo sanzionatorio i produttori e gli utilizzatori che non adempiano all’obbligo di raccolta o non adottino, in alternativa, sistemi gestionali sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 60.000 €, fatto comunque salvo l’obbligo di corrispondere i contributi pregressi. A ciò si aggiungono le infrazione individuate quali gravi violazioni dall’art. 13 del Regolamento CONAI (ad esempio, omessa applicazione del contributo, infedele dichiarazione del contributo, utilizzo fraudolento delle procedure di esenzione, etc..).
88
Intermediari e commercianti
103.
Chi è l’intermediario nella gestione dei rifiuti?
Ai sensi del novellato art. 183, comma 1, lett. l), del D.L.vo 152/06, è intermediario “qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di terzi, compresi gli intermediari che non acquisiscono la materiale disponibilità dei rifiuti”. L’individuazione dell’ambito operativo di tale soggetto è molto importante perché il medesimo art. 183 prevede che rientrano nel novero della gestione dei rifiuti: “la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni e gli interventi successivi alla chiusura dei siti di smaltimento, nonché le operazioni effettuate in qualità di commerciante o intermediario”. La nozione di intermediario di cui all’art. 183 si riferisce dunque a coloro che dispongono – per conto terzi – in merito al recupero e allo smaltimento, escludendo, da un punto di vista letterale, tutti coloro che svolgevano (e svolgono) l’intermediazione esclusivamente ai fini di individuare i mezzi di trasporto per la spedizione dei rifiuti. Il secondo capoverso puntualizza che si ritengono compresi (perfino) “gli intermediari che non acquisiscono la materiale disponibilità dei rifiuti”, in tal caso l’attività è limitata a porre in contatto, per via telefonica, personale o con altri mezzi, il detentore, il trasportatore e il gestore del sito finale, con la funzione di supplire alle mancate conoscenze reciproche.
104.
Gli intermediari devono iscriversi all’Albo Gestori?
Ai sensi dell’art. 183, lett. l), TUA l’intermediario è colui che dispone per conto terzi dello smaltimento e del recupero dei rifiuti sia che ne abbia la detenzione sia in caso contrario. Tale previsione sembra non coordinata con quanto definito dall’Albo gestori ambientali circa i requisiti per l’iscrizione alla categoria 8. Tale categoria, da quando introdotta, è sempre stata nominata “attività di intermediazione e commercio di rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi”, e non è mai stata operativa l’iscrizione per gli operatori, fino al 2011, per la mancata definizione dei requisiti soggettivi ed oggettivo-finanziari per l’accesso alla pratica. Oggi tali requisiti sono stati introdotti solo per gli intermediari senza detenzione (infatti è rimasta invariata la denominazione della categoria), nonostante quanto definito dalla norma del D.L.vo 152/06 che riguarda anche coloro che ne hanno la detenzione (cfr. deliberazione dell’Albo gestori ambientali n. 2 del 15 dicembre 2010, recante Criteri per l’iscrizione all’Albo nella categoria 8; deliberazione n. 1 del 19
Intermediari e commercianti
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gennaio 2011, relativa all’entrata in vigore della citata delibera n. 2/2010; circolare n. 442 del 16 marzo 2011 sulle garanzie finanziarie da prestare per l’iscrizione; circolare n. 472 del 25 marzo 2011, sui requisiti del responsabile tecnico). L’apparente contraddizione può essere spiegata richiamando il principio fondamentale che anima tutte le altre iscrizioni all’Albo, ovvero il riconoscimento, ai fini del possibile successivo controllo, degli operatori della gestione rifiuti, in particolare di quelli che in altro modo non sarebbero noti sul territorio per la loro attività di gestione. Nella maggior parte dei casi, infatti, un intermediario che ha la detenzione dei rifiuti ha già un altro ruolo riconosciuto per legge all’interno della gestione stessa e quindi è nota e controllabile la sua attività sul territorio: se è un trasportatore è iscritto all’Albo e se è un gestore di centri di stoccaggio è autorizzato dalle Province o registrato all’Albo dei recuperatori; perciò l’intermediario che ha la detenzione dei rifiuti non ha bisogno di essere riconosciuto come tale tramite l’iscrizione alla specifica categoria 8.
105.
Quali responsabilità sono a carico dell’intermediario/commerciante?
Per espressa previsione legislativa (art. 183, comma 1, lett. l), del D.L.vo 152/06) tali attività rientrano nell’ambito della gestione dei rifiuti e pertanto intermediari e commercianti si inseriscono nel sistema di co-responsabilità previsto in materia, con conseguente applicazione delle sanzioni di cui all’art. 256 del D.L.vo 152/06, sia per coloro che esercitano tale attività senza le prodromiche iscrizioni, sia per coloro che hanno negligentemente usufruito dei servizi da questi offerti.
106.
Gli intermediari tengono i registri di carico e scarico?
Poiché i registri di carico e scarico costituiscono spesso l’unico elemento certo e formale per la ricostruzione ed il controllo di tutto il sistema di gestione, è chiaro che il produttore del rifiuto e l’intermediario non solo devono tenere il registro, ma compilarlo correttamente in ogni sua parte. Diversamente troverebbero applicazione le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall’articolo 258, co. 2.
Un’impresa iscritta all’Albo alle categorie dalla 1 alla 5 che svolga l’attività di raccolta e trasporto di rifiuti e che affidi, tramite subappalto, questi servizi a terzi deve iscriversi in categoria 8?
107.
La risposta al quesito è data dalla circolare prot. n. 841 del 6 luglio 2011 dell’Albo Nazionale Gestori Ambientali, con la quale è stato chiarito che non svolge il ruolo di intermediario l’impresa (iscritta nelle categorie dalla 1 alla 5) che svolga l’attività di raccolta e trasporto di rifiuti e che affidi, tramite subappalto, alcuni di questi servizi a terzi. L’intermediario è infatti l’impresa che “dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto terzi”, e non le operazioni di raccolta e trasporto dei rifiuti stessi. Conseguentemente detta impresa non deve procedere all’iscrizione in categoria 8.
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
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108.
Esiste la figura giuridica del cessionario dei rifiuti?
Per quanto riguarda la figura del cessionario, è necessario premettere che sotto un profilo grammaticale tale soggetto è colui che “è beneficiario di una cessione”, e per cessione nel linguaggio quotidiano s’intende “il cedere e il suo risultato”, mentre in ambito giuridico è “l’atto con cui si cede un bene o un diritto”. Poiché né nel Decreto Ronchi prima, né nel D.L.vo 152/06 poi si rinviene una definizione del cessionario, si ritiene che nel campo dei rifiuti tale figura sia impropriamente richiamata: in altre parole, essa viene utilizzata (peraltro frequentemente) come sinonimo di generico detentore ma, come noto, quest’ultimo soggetto può detenere i rifiuti in forza di un titolo giuridico che lo qualifica più correttamente come produttore o trasportatore o intermediario o destinatario finale. È dunque opportuno, a fini di controllo, che i formulari vengano compilati correttamente, identificando con precisione i soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti e indicando nelle Annotazioni gli eventuali intermediari (e non cessionari).
109.
Chi è il commerciante di rifiuti?
Ex art. 183, c. 1, lett. i), del D.L.vo 152/06 è “commerciante” qualsiasi impresa che agisce in qualità di committente al fine di acquistare e successivamente vendere rifiuti, compresi i commercianti che non prendono materialmente possesso dei rifiuti.
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Manutenzione
110.
Qual è la disciplina dei rifiuti dell’attività di manutenzione?
Il D.L.vo 152/06 fa espresso riferimento ai rifiuti derivanti dall’attività di manutenzione in due distinte norme: l’art. 230 e l’art. 266, comma 4; la prima delle due disposizioni si riferisce solo alla manutenzione di reti ed infrastrutture (cd. manutenzione specifica); la seconda si riferisce invece a tutte le altre attività di manutenzione (cd. manutenzione generica). L’art. 230 sottolinea bene qual è il luogo di produzione di tali rifiuti e aggiunge che, di conseguenza, il luogo di tenuta dei registri di carico e scarico coincide con quello di produzione dei rifiuti. In base al c. 1, tale luogo, però, non è univoco, perché la sua individuazione sembra essere rimessa alla scelta del soggetto che esegue l’attività: infatti, il luogo di produzione dei rifiuti derivanti da attività di manutenzione alle infrastrutture “può coincidere” con: a) la sede del cantiere che gestisce l’attività manutentiva oppure b) la sede locale del gestore della infrastruttura nelle cui competenze rientra il tratto di infrastruttura interessata dai lavori di manutenzione oppure c) il luogo di concentramento dove il materiale tolto d’opera viene trasportato per la successiva valutazione tecnica. Come è evidente, tale individuazione costituisce una deroga al disposto dell’articolo 183, c. 1, lett. bb), il quale stabilisce che il deposito temporaneo avvenga nel luogo di produzione dei rifiuti. L’ipotesi a), ossia quella in cui il luogo di produzione del rifiuto coincide nella realtà materiale delle cose con la vera e propria produzione del rifiuto, complica la situazione pratica laddove esistano numerosi cantieri, perché l’art. 190, c. 3, D.L.vo 152/06 (nella versione anteriore alle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10) dispone che “i registri sono tenuti presso ogni impianto di produzione, di stoccaggio, di recupero e di smaltimento di rifiuti, nonché presso la sede delle imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto, nonché presso la sede dei commercianti e degli intermediari”. In altre parole, nulla disponendo l’art. 230 con riguardo alle ipotesi di molteplici cantieri, risulta indispensabile fare riferimento a quanto prescrive la disciplina base in materia di registri di cui all’art. 190, pur a fronte di una indubbia difficoltà pratica. Ciò significa che essendoci tanti cantieri, altrettanti sono i luoghi di produzione dei rifiuti e altrettanti sono i luoghi di conservazione dei registri; del resto, ciò appare sì di gravosa attuazione per il produttore (anche se può essere discutibile la comodità
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di avere un solo registro, ma dover prodigarsi ogni volta in molteplici annotazioni per segnalare il cantiere da cui provengono i rifiuti), ma se si guarda il flusso documentale dalla prospettiva degli organi di controllo si comprende come tale tecnica sia estremamente lineare, pratica e dia luogo con estrema facilità alla ricostruzione del percorso dei rifiuti, mettendo così il produttore al riparo da spiacevoli equivoci di errata compilazione. In definitiva, qualora l’azienda svolga manutenzione su infrastrutture a rete la sua attività sarà disciplinata dall’art. 230 citato qualificabile come produttrice dei rifiuti, in quanto generati dalla sua attività (di manutenzione), ex art. 183, lett. f), D.L.vo 152/06 (produttore: la persona la cui attività ha prodotti rifiuti). Per quanto concerne l’attività di manutenzione generica, invece, è previsto un regime parzialmente diverso, l’art. 266, c. 4, invero, “i rifiuti provenienti da attività di manutenzione o assistenza sanitaria si considerano prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che svolge tali attività” e pertanto in tali luoghi potranno essere temporaneamente raggruppati. Da ultimo si segnala una sentenza della Cass. Pen. (10 maggio 2012, n. 17460) per cui “i rifiuti prodotti da un’attività di manutenzione di reti di distribuzione idrica ricadono, non nell’ipotesi “generica” di cui all’art. 266, c. 4, TUA, bensì in quella “specifica” di cui all’art. 230; tuttavia, in tal caso, l’attività svolta deve risultare essere di esclusiva manutenzione e non – come nel caso di specie – relativa altresì a nuovi allacciamenti. Pertanto in tal caso l’attività di “movimentazione” dei rifiuti presso la sede del manutentore ricade in quella di “trasporto” e, come tale, necessita di specifica autorizzazione”.
Chi è considerato “produttore” dei rifiuti da manutenzione nel caso in cui un’impresa titolare del servizio incarichi un’impresa specializzata?
111.
In osservanza alla disciplina generale relativa alla nozione di produttore di cui all’art. 183, c. 1, lett. f), D.L.vo 152/06, emerge che tendenzialmente il manutentore, la cui attività di manutenzione ha prodotto rifiuti, è il produttore degli stessi. Pertanto, tale azienda è qualificabile come produttrice dei rifiuti, in quanto generati dalla sua attività (di manutenzione), ex art. 183, lett. f), D.L.vo 152/06 (produttore: la persona la cui attività ha prodotti rifiuti). Ciò fa sì che nel momento in cui gli operatori raccolgono e trasportano tali rifiuti, svolgono un’attività di raccolta e trasporto di rifiuti propri che, ex art. 212, c. 8, D.L.vo 152/06, se effettuata in modo integrante ed accessorio, richiede l’iscrizione all’Albo con procedura semplificata (sul punto, si veda anche la Delib. Prot. 01/CN/ALBO del 26 aprile 2006). Secondo quanto prescritto dall’All. C, art. 3, della sopraccitata Circolare, “durante il trasporto, i rifiuti devono essere accompagnati da copia del presente provvedimento d’iscrizione corredata dalla dichiarazione di conformità all’originale”, sicché il tecnico che trasporta i rifiuti prodotti dalla sua attività di manutenzione dovrà essere munito di copia del provvedimento d’iscrizione all’Albo, nonché da apposita dichiarazione di conformità all’originale.
Manutenzione
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Qual è la disciplina dell’attività di pulizia manutentiva delle reti fognarie? Che differenza c’è con la manutenzione delle fosse Imhoff?
112.
Per effetto delle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10, l’art. 230, c. 5, del TUA, dispone ora che “i rifiuti provenienti dalle attività di pulizia manutentiva delle reti fognarie (…) si considerano prodotti dal soggetto che svolge l’attività di pulizia manutentiva”. In primo luogo si sottolinea che tale norma conferma la teoria secondo la quale nell’attività manutentiva il produttore del rifiuto proveniente da tale attività deve considerarsi, in generale, il manutentore. Ciò detto, occorre rilevare che detta attività deve ritenersi ontologicamente diversa dalla manutenzione delle reti di cui all’art. 230, c. 1, del medesimo decreto: la prima è infatti l’attività ordinaria di svuotamento della fognatura; la seconda è l’attività svolta in caso di guasto, rottura o, tutt’al più, il lavoro eseguito sulle parti fisiche della rete al fine di prevenire i guasti. Dalla lettera della norma in esame si evince che la pulizia delle reti fognarie è equiparata, nelle conseguenze operative della gestione del rifiuto, all’attività di manutenzione in senso stretto. Ne deriva che, anche in tal caso, il rifiuto deve ritenersi prodotto da parte dell’impresa di pulizia manutentiva (ovvero l’autospurgo): il rifiuto è infatti generato nel momento in cui è prelevato, pertanto esso origina dall’attività di svuotamento della rete fognaria ed è perciò prodotto dal manutentore. Anche in tali ipotesi è possibile raggruppare temporaneamente, presso la sede del manutentore, i rifiuti prodotti, qualora non fossero direttamente avviati a smaltimento. Quanto all’oggetto della pulizia manutentiva, il comma 5 dell’art. 230 si riferisce alle “reti fognarie di qualsiasi tipologia, sia pubbliche che asservite ad edifici privati”. La definizione di rete fognaria è contenuta all’art. 74, comma 1, lett. dd), del D.L.vo 152/06, secondo cui deve intendersi per tale: “il sistema di condotte per la raccolta e il convogliamento delle acque reflue urbane”. Il riferimento è dunque alle cd. fognature dinamiche (ovvero costituite da condutture a pelo libero e solo a tratti in pressione), ma tali tipologie di fognature, in alcuni casi, sono state sostituite dalle cd. fosse biologiche o fosse settiche convenzionali. Queste non sono altro che fognature di tipo statico (poiché non costituite da condotte, ma da vasche di raccolta) nelle quali convogliano le acque nere (toilette) e grigie (lavabi, ecc.) di origine civile, o prima del recapito in pubblica fognatura ovvero a monte di un idoneo impianto di depurazione. Anche le fosse settiche di tipo tradizionale necessitano di pulizia periodica (svuotamento) e, laddove queste siano a complemento del sistema ordinario della rete fognaria, il servizio di manutenzione può – a parere di chi scrive – essere equiparato a quello della rete fognaria dinamica e, come tale, regolato dall’art. 230, comma 5, del D.L.vo 152/06. La situazione assume aspetti diversi nel caso delle fosse Imhoff. Queste possono definirsi come quelle fosse utilizzate per il trattamento di tutte le acque reflue domestiche recapitanti in acque superficiali, sul suolo ed in rete fognaria, collegata e non collegata all’impianto di depurazione. La funzione delle fosse Imhoff è quindi quella di sostituire l’impianto di depurazione, ovvero quel sistema di trattamento delle acque reflue al termine del quale si originano fanghi derivanti da trattamenti di tipo fisico, chimico-fisico e biologico.
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Anche in questo caso occorre distinguere tra (i) la manutenzione, (ii) lo svuotamento, ovvero (iii) la pulizia manutentiva della fossa Imhoff; è inoltre necessario distinguere il caso in cui detta fossa sia collegata alla rete fognaria e al depuratore da quello in cui essa sia isolata: nel primo caso, infatti l’attività di manutenzione è regolamentata dalla disciplina sulla manutenzione di reti e infrastrutture di cui all’art. 230, comma 1, del D.L.vo 152/06; nel secondo caso, invece, la medesima attività sarà regolata dall’art. 266, comma 4. Pur cambiando i riferimenti normativi a regolamentazione della questione, le conseguenze operative sono le medesime: il produttore dei rifiuti è sempre il manutentore, il quale gode delle agevolazioni sul deposito temporaneo ed adempie ai relativi oneri documentali a seconda del fatto che sia o meno iscritto al Sistri. L’estrazione del fango dalla fossa Imhoff – ovvero la pulizia manutentiva della stessa – è invece equiparabile al disposto di cui all’art. 230, comma 5, solo se la fossa Imhoff fa parte di un sistema di reti a sostituzione della rete fognaria urbana, con la conseguenza che il rifiuto trasportato può anche classificarsi con il CER 20.03.04 (rifiuto urbano delle fosse settiche). Nel caso in cui, invece, la fossa Imhoff sia isolata, lo svuotamento costituisce una forma di raccolta/trasporto di rifiuti speciali, poiché ai sensi dell’art. 184, comma 3, lett. g), del D.L.vo 152/06, tra i rifiuti speciali non pericolosi vi sono “i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi”, classificati con il codice CER 19.08.05, ovvero quelli generati dalla fossa (non collegata ad un depuratore) che assolve ad un trattamento di tipo meccanico-biologico per i residui fangosi.
Quale disciplina si applica alla gestione/trasporto dei rifiuti da manutenzione eseguita da un soggetto non iscritto al SISTRI?
113.
Il D.L.vo 152/06 si occupa espressamente dei rifiuti derivanti da manutenzione in due sole sedi: – l’art. 230 concerne la sola attività di manutenzione delle reti ed infrastrutture, e trattandosi di un aspetto assai particolare, non sarà oggetto di trattazione in questa sede; – l’art. 266, co. 4 precisa che “i rifiuti provenienti da attività di manutenzione o assistenza sanitaria si considerano prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che svolge tali attività”. Esclusa la specifica attività della manutenzione delle infrastrutture, il caso delle “manutenzioni ordinarie”, solitamente di carattere edilizio – impiantistico o legate alla gestione del verde, può ritenersi disciplinato, sotto il profilo del luogo di produzione dei rifiuti, ai sensi dell’art. 266 co. 4. Innanzitutto, occorre precisare che a parere di chi scrive la norma deve essere correttamente riferita a due casi distinti: la manutenzione e l’assistenza sanitaria (ovvero la norma non contempla solamente una “manutenzione sanitaria”). Nello specifico della manutenzione, emerge che tendenzialmente il manutentore, la cui attività di manutenzione ha prodotto rifiuti, deve essere classificato a tutti gli effetti di legge quale produttore di rifiuti, ai sensi dell’art. 183, co. 1 lett. f), D.L.vo 152/06. Il manutentore, una volta prodotti i rifiuti, classificati e imballati, prosegue con la loro gestione e poiché secondo l’art. 266, co. 4, i rifiuti “si considerano prodotti pres-
Manutenzione
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so la sede o il domicilio del soggetto che svolge tali attività” (quindi quella del manutentore stesso). Non avendo effettuato ancora alcun deposito temporaneo, potrà trasportare i rifiuti come prodotti in proprio presso la sua sede (o il suo domicilio) e lì dare vita ad un deposito temporaneo, con annesso obbligo di registrazione. Secondo le regole generali sul trasporto di rifiuti di cui all’art. 193 del D.L.vo 152/06, ogni trasporto di rifiuti derivanti dall’attività di manutenzione dovrà essere accompagnato dal formulario di identificazione (sfuggono a questa regola solo le ipotesi di cui al co. 4 del citato articolo, ovvero il trasporto di rifiuti urbani effettuato dal soggetto che gestisce il servizio pubblico ed il trasporto di rifiuti non pericolosi effettuato dal produttore stesso, in modo occasionale e saltuario, che non ecceda la quantità di 30 Kg o 30 l, nonché la movimentazione dei rifiuti in aree private). Per una più comprensibile compilazione del FIR agli occhi degli eventuali controllori si suggerisce di indicare nello spazio riservato alle “Annotazione del formulario” che il rifiuto è stato prodotto fuori sede: infatti, in caso di verifica, gli organi di controllo potrebbero effettuare una contestazione (se il rifiuto è stato prodotto dal manutentore presso la propria sede, come mai si è realizzato un trasporto?), e tale precisazione giustificherebbe la “finzione normativa” autorizzata dall’art. 266, co. 4. Tale adempimento documentale (compilazione del FIR) varrebbe allo stesso modo anche nel caso in cui si potesse ricondurre l’attività di manutenzione a quanto dispone l’art. 212, co. 8, D.L.vo 152/06. La norma si riferisce “ai produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti, né ai produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto di trenta chilogrammi o trenta litri al giorno dei propri rifiuti pericolosi, a condizione che tali operazioni costituiscano parte integrante ed accessoria dell’organizzazione dell’impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti”, per i quali prescrive una forma semplificata di iscrizione all’albo Gestori. Se il manutentore si riconosce – nel solo suo ruolo di “manutentore” – tra i soggetti di cui all’art. 212 comma 8, potrà trasportare in proprio tali rifiuti con adempimenti agevolati dal punto di vista dell’iscrizione all’Albo.
Quale disciplina si applica alla gestione/trasporto dei rifiuti da manutenzione eseguita da un soggetto iscritto al SISTRI?
114.
Le modalità operative da eseguire per il trasporto dei rifiuti dal luogo reale di produzione alla sede o domicilio dell’impresa sono state fonte di non pochi problemi, ai quali è stata data soluzione con le indicazioni pubblicate sul Manuale operativo, nel cui par. 5.4.2 “Rifiuti prodotti in corso di attività” si legge: “Qualora dall’attività di manutenzione derivino rifiuti speciali pericolosi, la movimentazione dei rifiuti dal luogo di effettiva produzione alla sede legale o all’unita locale dell’impresa di manutenzione e accompagnata da una copia della Scheda SISTRI Area Movimentazione, da scaricarsi dal sistema, debitamente compilata e sottoscritta dal soggetto che ha effettuato la manutenzione. In tal caso, i mezzi di trasporto adibiti unicamente alla movimentazione dei rifiuti di manutenzione dai siti di produzione alla sede legale o all’unita locale dell’impresa di manutenzione non hanno l’obbligo di installare le Black Box (Su questo aspetto la dottrina non è unanime, si riscontrano
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infatti teorie che sostengono, per contro, che le black box vadano installate anche in questi casi – N.d.R). La procedura prevista in questo caso e la seguente: – Una volta programmato il giro di manutenzione, il delegato dell’impresa che effettua la manutenzione provvede a stampare, presso la sede legale o la sede locale di riferimento, un numero sufficiente di Schede SISTRI Area Movimentazione in relazione alle tipologie di rifiuti pericolosi generati dalle attività di manutenzione; – I rifiuti vengono movimentati verso la sede legale o l’unita locale dell’impresa di manutenzione; – Entro 10 giorni dalla produzione, i rifiuti devono essere registrati nel Registro Cronologico; – La movimentazione del rifiuto dalla sede legale o dall’unita locale dell’impresa di manutenzione all’impianto di gestione non presenta differenze rispetto alle normali procedure di movimentazione”. Qualora il manutentore, anziché trasportare i rifiuti presso la sede dell’impresa, decidesse di movimentarli direttamente verso l’impianto di gestione, gli obblighi da adempiere e la procedura da seguire saranno sensibilmente diversi rispetto a quelli poc’anzi illustrati. In tal caso, infatti, il mezzo dovrà sicuramente essere dotato di Black Box e si applicherà la seguente procedura. Il delegato della sede legale o dell’unità locale di riferimento dell’impresa di manutenzione, provvede a “registrare i rifiuti prodotti nel Registro Cronologico riportando l’indirizzo del sito di manutenzione come luogo di effettiva collocazione del rifiuto; – il delegato della sede legale o dell’unita locale di riferimento compila la Scheda SISTRI Area Movimentazione, che riporta l’indirizzo del sito di manutenzione come luogo di partenza del rifiuto. – Il delegato dell’azienda di trasporto compila la Scheda SISTRI Area Movimentazione nella sezione relativa al trasporto, inserendo il percorso e le altre informazioni necessarie. Il percorso da indicare e quello che va dal sito di manutenzione all’impianto di gestione. Stampa poi due copie della Scheda SISTRI Area Movimentazione e le consegna al conducente. – Il conducente si reca presso il sito di manutenzione e ritira i rifiuti. – Dopo aver effettuato il carico, il conducente attiva la Black Box inserendovi il dispositivo USB. – Successivamente il trasportatore provvede ad inserire nel sistema la data e l’ora della presa in carico dei rifiuti. La consegna all’impianto di gestione avviene come nel caso generale”.
115.
Chi è il produttore dei rifiuti derivanti da attività di manutenzione?
La tematica dei rifiuti da manutenzione coinvolge un numero sempre maggiore di operatori, sia manutentori che clienti di questi, al fine di attuare insieme una corretta ed efficace gestione dei rifiuti prodotti. In osservanza alla disciplina generale relativa alla nozione di produttore emerge che tendenzialmente il manutentore, la cui attività di manutenzione ha prodotto rifiuti, è il produttore. In quanto tale, su costui grava l’onere di classificare correttamente i rifiuti prodotti.
Manutenzione
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Seguendo l’interpretazione qui proposta, il manutentore, una volta prodotti i rifiuti, classificati e imballati, prosegue con la loro gestione: poiché secondo l’art. 266, c. 4 i rifiuti “si considerano prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che svolge tali attività”, ovvero quella del manutentore, quest’ultimo li trasporterà dalla sede del cliente, luogo effettivo di produzione, alla sua. Secondo le regole generali sul trasporto di rifiuti di cui all’art. 193 del D.L.vo 152/06 (nella versione anteriore alle modifiche apportate dal D.L.vo 152/06), ogni trasporto di rifiuti derivanti dall’attività di manutenzione dovrà essere accompagnato dal formulario di identificazione (sfuggono a questa regola solo le ipotesi di cui al c. 4 del citato articolo, ovvero il trasporto di rifiuti urbani effettuato dal soggetto che gestisce il servizio pubblico ed il trasporto di rifiuti non pericolosi effettuato dal produttore stesso, in modo occasionale e saltuario, che non ecceda la quantità di 30 Kg o 30 l, nonché la movimentazione dei rifiuti in aree private). Chi scrive suggerisce di indicare nello spazio riservato alle Annotazioni del formulario che il rifiuto è stato prodotto fuori sede: infatti, in caso di verifica, gli organi di controllo potrebbero effettuare una contestazione (se il rifiuto è stato prodotto dal manutentore presso la propria sede, come mai si è realizzato un trasporto?), e tale precisazione giustificherebbe la “finzione normativa” autorizzata dall’art. 266, c. 4.
Le deroghe alla disciplina sul deposito temporaneo dei rifiuti provenienti dall’attività di manutenzione ex art. 230, c. 1, del D.L.vo 152/06, sono applicabili anche nel caso in cui essi non siano oggettivamente riutilizzabili?
116.
Per espressa previsione normativa il luogo di produzione dei rifiuti provenienti da attività di manutenzione di reti ed infrastrutture può coincidere con: a) la sede del cantiere che gestisce l’attività manutentiva; b) la sede locale del gestore della infrastruttura nelle cui competenze rientra il tratto di infrastruttura interessato ai lavori di manutenzione; c) il luogo di concentramento dove il materiale tolto d’opera viene trasportato per la successiva valutazione tecnica finalizzata all’individuazione del materiale effettivamente, direttamente ed oggettivamente riutilizzabile, senza essere sottoposto ad alcun trattamento; ne deriva che il manutentore può legittimamente realizzare il deposito temporaneo dei rifiuti in esame in uno dei luoghi sopra descritti alle lettere a), b) e c). Come si evince dal testo della norma in esame, il requisito della “riutilizzabilità” è richiesto solo allorquando si vogliano depositare temporaneamente i materiali presso il luogo in cui verrà effettuata la valutazione tecnica (lett. c) e non anche nei casi in cui i medesimi materiali siano destinati presso la sede del cantiere che gestisce l’attività manutentiva (lett. a), ovvero presso la sede locale del gestore della infrastruttura nelle cui competenze rientra il tratto di infrastruttura interessato ai lavori di manutenzione (lett. b). Tale interpretazione risulta del resto coerente con quanto affermato dalla stessa Suprema Corte di Cassazione, sia in tema di deposito temporaneo in generale, sia relativamente al particolare regime di deposito temporaneo di cui all’art. 230, c. 1, TUA. Il Supremo Collegio, invero, con specifico riferimento a quest’ultima disciplina, ha statuito che “l’eccezione alla regola generale secondo cui il deposito temporaneo di
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rifiuti deve essere effettuato presso il luogo di produzione dei rifiuti stessi, è contenuta nell’art. 230 del D.L.vo 152/06 e riguarda i rifiuti derivanti da attività di manutenzione alle infrastrutture effettuata direttamente dal gestore delle stesse, rispetto ai quali il luogo di deposito temporaneo può coincidere con quello di concentramento dei rifiuti, ove gli stessi vengono trasportati per la successiva valutazione tecnica, finalizzata ad individuare il materiale effettivamente, direttamente ed oggettivamente riutilizzabile, senza essere sottoposto ad alcun trattamento. Ne consegue, quindi, che detta eccezione non trova applicazione nel caso di rifiuti oggettivamente non riutilizzabili” (Cass. Pen., sez. III, 4 marzo 2009, n. 9856). In sintesi, ne deriva che il deposito temporaneo dei rifiuti derivanti dall’attività di manutenzione ex art. 230 può essere sempre realizzato presso: a) la sede del cantiere che gestisce l’attività manutentiva; b) la sede locale del gestore della infrastruttura nelle cui competenze rientra il tratto di infrastruttura interessato ai lavori di manutenzione. Qualora sia invece previsto lo svolgimento di una valutazione tecnica “finalizzata all’individuazione del materiale effettivamente, direttamente ed oggettivamente riutilizzabile, senza essere sottoposto ad alcun trattamento”, il materiale in esame potrà essere temporaneamente raggruppato anche presso: c) il luogo in cui si svolge la suddetta attività di valutazione tecnica.
Per derogare alla regole sul deposito temporaneo è necessario che l’attività di manutenzione sia esclusiva?
117.
Al quesito esposto occorre dare risposta affermativa soprattutto alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione Penale, Sez. III, 10 maggio 2012, n. 17460, secondo la quale “i rifiuti prodotti da un’attività di manutenzione di reti di distribuzione idrica ricadono non nell’ipotesi “generica” di cui all’art. 266, c. 4, TUA, bensì in quella “specifica” di cui all’art. 230; tuttavia, in tal caso, l’attività svolta deve risultare essere di esclusiva manutenzione e non – come nel caso di specie – relativa altresì a nuovi allacciamenti. Pertanto in tal caso l’attività di “movimentazione” dei rifiuti presso la sede del manutentore ricade in quella di “trasporto” e, come tale, necessita di specifica autorizzazione”.
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Merci pericolose/ADR
118.
Qual è il confine giuridico tra merci pericolose/ADR e rifiuti?
Il D.L.vo 4 febbraio 2000, n. 40 (Attuazione della direttiva 96/35/CE relativa alla designazione e alla qualificazione professionale dei consulenti per la sicurezza dei trasporti su strada, per ferrovia o per via navigabile di merci pericolose) definisce all’articolo 1, comma 1, lettera d), “merci pericolose” quelle “merci definite come tali nell’allegato A al decreto del Ministro dei trasporti e della navigazione 4 settembre 1996 e successivi aggiornamenti, per i trasporti su strada, e nell’allegato al decreto legislativo 13 gennaio 1999, n. 41, e successivi aggiornamenti, per i trasporti per ferrovia”. L’art. 265, c. 3, del TUA, prevede invece che “In attesa delle specifiche norme regolamentari e tecniche in materia di trasporto dei rifiuti, di cui all’articolo 195, comma 2, lettera 1), e fermo restando quanto previsto dall’articolo 188-ter e dal decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 182 in materia di rifiuti prodotti dalle navi e residui di carico, i rifiuti sono assimilati alle merci per quanto concerne il regime normativo in materia di trasporti via mare e la disciplina delle operazioni di carico, scarico, trasbordo, deposito e maneggio in aree portuali. In particolare i rifiuti pericolosi sono assimilati alle merci pericolose”. Non è dunque facile conciliare l’interpretazione delle norme ADR e l’applicazione delle stesse ai rifiuti pericolosi, così come disposto dal D.L.vo 152/06 all’art. 193, co. 3, secondo il quale “durante la raccolta ed il trasporto i rifiuti pericolosi devono essere imballati ed etichettati in conformità alle norme vigenti in materia”. In linea di principio, i rifiuti possono essere classificati come pericolosi per il trasporto se contengono quantità congrue di materie pericolose tali da determinare uno o più rischi riconducibili a una qualunque delle tredici classi ADR. Con la circolare del 23 maggio 1995, n. 89 il Ministero dei Trasporti ha espresso la prima definizione di rifiuto pericoloso ai fini del trasporto (materie, soluzioni, miscele od oggetti che non possono essere usati direttamente così come sono, ma che sono trasportati per essere trattati, smaltiti, o eliminati per incenerimento o con altro mezzo; tali rifiuti vengono classificati in relazione alla pericolosità posseduta ed assimilati alle materie pericolose corrispondenti) e ciò è stato poi confermato negli allegati delle norme ADR nei marginali degli anni successivi. Le modalità di trasporto, quindi, sono le stesse delle materie pericolose a cui i rifiuti vengono assimilati; anche se una buona parte dei rifiuti pericolosi, presentandosi sotto forma di miscele, rientra genericamente nella Classe 9 (materie ed oggetti pericolosi diversi). Una volta che il rifiuto è stato identificato e classificato secondo la normativa ADR, è doveroso ricordarsi sempre che, qualora vengono trasportati una quantità
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limitata di rifiuti pericolosi, si ha l’esenzione totale o parziale dalla applicazione della normativa ADR al trasporto di tali rifiuti pericolosi.
119.
Chi è il consulente per il trasporto delle merci pericolose?
Il D.L.vo 40/00, dando attuazione alla Dir. 96/35/CE, ha istituito anche nel ns. Paese la figura del consulente per il trasporto delle merci pericolose, vale a dire il soggetto incaricato dal capo dell’impresa a svolgere i compiti ed esercitare le funzioni connesse al predetto trasporto, come individuate dall’art. 4 del medesimo decreto. Sulla base di quanto stabilito dall’art. 5, il consulente deve avere una conoscenza sufficiente dei rischi inerenti il trasporto e le operazioni di carico e scarico di merci pericolose e delle disposizioni normative vigenti in materia, nonché dei compiti definiti nell’allegato I, e deve possedere un certificato di formazione professionale rilasciato dal Ministero dei trasporti e della navigazione - Dipartimento dei trasporti terrestri, a seguito del superamento di un apposito esame.
120.
La nomina del consulente ADR è prevista per tutte le realtà aziendali?
Non tutte le aziende coinvolte nel trasporto di merci pericolose sono tenute alla nomina del consulente. L’art. 3, comma 6, lett. a), decr. cit., prevede alcune possibilità di esenzione dall’obbligo di nomina del consulente ADR, tra cui le imprese che effettuano carico, o trasporto, o scarico di merci (rifiuti) pericolose, riguardanti trasporti su strada di quantitativi limitati, per ogni unità di trasporto, entro i limiti definiti dai marginali 10010 (ora Capitolo 3.4) e 10011 (ora sottosezione 1.1.3.6) dell’Allegato B al D.M. Trasporti e Navigazione 4 settembre 1996 e successive modifiche. Altri criteri di esenzione sono stati precisati dal D.M. 4 luglio 2000 del Min. Trasporti e Navigazione: – imprese che effettuano trasporti in colli o alla rinfusa, in ambito nazionale, di materie o oggetti individuate alla colonna 2, categoria trasporto 3 della tabella di cui al marginale 10011 (ora sottosezione 1.1.3.6) dell’Allegato B al D.M. Trasporti e Navigazione 4 settembre 1996 e successive modifiche, ai quali è associato il riconoscimento di rischio più basso; – imprese che effettuano operazioni di carico delle merci di cui al punto precedente in colli, od alla rinfusa, ovvero anche in cisterna qualora le materie caricate siano residui di lavorazione o rifiuti prodotti dall’impresa stessa. Ex articolo 2, queste esenzioni (previste all’art. 1 del D.M. 4 luglio 2000), sono applicabili ad un numero massimo di operazioni annue pari a 24, con un limite massimo di 3 operazioni nello stesso mese, per un totale complessivo massimo non superiore a 180 tonnellate. L’esenzione comporta l’applicazione di una precisa procedura amministrativa, descritta ai commi da 2 a 4 dell’art. 2 del decreto citato. Non è superfluo ricordare che l’esenzione dall’obbligo di nomina del consulente ADR non significa esenzione dalla normativa ADR: le prescrizioni relative alla documentazione, alla scelta degli imballaggi, all’idoneità del veicolo, etc… devono comunque essere sempre rispettate se si effettua un trasporto di merci pericolose.
Merci pericolose/ADR
121.
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Cosa si intende con il concetto di “operazioni”?
L’art. 2 del D.L.vo 40/00, nel disporre alcune prescrizioni concernenti le esenzioni, parla genericamente di “un numero massimo di operazioni annue pari a 24, con un limite massimo di 3 operazioni nello stesso mese, un totale complessivo massimo non superiore a 180 tonnellate”, senza specificare se si tratti di operazioni di trasporto ovvero di operazioni di carico/scarico. Questo aspetto definitorio non è di secondaria importanza, soprattutto in quei casi dove le imprese, nel rispetto della normativa ADR cui sono soggette, effettuano più carichi di rifiuti su un unico automezzo, sicché si hanno più formulari (e quindi registri di C/S) a fronte di un singolo trasporto: in queste ipotesi ci si interroga se “operazione” assuma il significato di operazione di carico/scarico o di operazione di trasporto. La soluzione a questo interrogativo è fondamentale per conteggiare se il numero di tali operazioni rientra oppure no tra i numeri massimi stabiliti dall’articolo 2 del D.M. 4 luglio 2000. Ritornando al testo di quest’ultimo articolo e tentando un approccio letterale, va evidenziato che esso fa riferimento ai punti a) e b) del precedente articolo 1: è dunque opportuno rileggere tale norma al fine di cercare una soluzione al nostro interrogativo. Nell’articolo 1, lettera a) si legge “le imprese che effettuano trasporti in colli od alla rinfusa …”, mentre nella lettera b) “le imprese che effettuano operazioni di carico delle merci …”. Non è però possibile limitarsi a considerare solo quanto espresso (in maniera poco precisa, del resto) da un Decreto Ministeriale, ma è necessario tener presente anche quanto prescrive il citato D.L.vo 40/00 che ha introdotto nel diritto interno la direttiva 96/35/CE, e con cui è stata istituita la figura professionale del “consulente” per la sicurezza dei trasporti di merci pericolose su strada, per ferrovia e per via navigabile. L’articolo 2 (campo di applicazione) di quest’ultimo, esordisce così: “salvo quanto previsto al comma 2, le disposizioni del presente decreto si applicano alle imprese che effettuano operazioni di trasporto di merci pericolose su strada, per ferrovia o per via navigabile interna, oppure operazioni di carico e scarico connesse a tali trasporti”. Se quanto emerso dal D.M. 4 luglio 2000 era poco preciso, quanto si legge nel D.L.vo 40/00 è addirittura dubbio: l’espressione “operazioni” si riferisce sia al trasporto che al carico/scarico di rifiuti, ed inoltre la congiunzione disgiuntiva “oppure” rende maggiormente difficile la comprensione della norma stessa. È, pertanto, opportuno abbandonare il criterio di ricerca letterale e conviene affidarsi a quello interpretativo – sostanziale. A questo punto non si può prescindere da quanto contenuto nell’ADR 2005: al punto 1.8.3 Consulente per la sicurezza, in più di un’occasione si riporta correttamente “trasporti di merci pericolose od operazioni di carico o scarico”, sottolineando in maniera lineare l’alternatività di questi due momenti (ancora prima di comprendere se l’espressione “operazioni” si riferisca al trasporto o al carico/scarico, si coglie già che non è ammissibile una duplicazione numerica tra i due: errore non improbabile, vista la scarsa precisione delle norme sopra riportate). Una risposta esaustiva può essere ricercata nella Circolare del Ministero dei Trasporti e della Navigazione 14 novembre 2000, n. A 26 (Consulenti alla sicurezza per trasporto di merci pericolose – pubblicata sulla GU n. 295 del 19 dicembre 2000) che sostituisce la precedente Circolare del Ministero dei Trasporti e della Navigazione 7 luglio 2000, n. A 21 e fornisce le disposizioni esecutive in merito alle procedure d’esa-
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me, al campo di applicazione, alle esenzioni ed agli incidenti. In particolare, al punto 6 Esenzioni si legge che “i trasporti effettuati in regime di esenzione … non concorrono alla formazione del numero massimo di viaggi annuali e mensili ed alla quantità massima annuale consentita per rientrare nei limiti di esenzione previsti dal decreto ministeriale 4 luglio 2000”. Al di là del caso specifico della disposizione in oggetto, ciò che rileva è che la norma, richiamando il medesimo atto normativo (D.M. 4 luglio 2000), spiega di fatto l’espressione “operazioni” contenuta nel D.M. nel senso che si tratterebbe di “viaggi”, ossia di trasporti: ancora oltre, il medesimo punto 6 cita ancora “limiti quantitativi per ogni unità di trasporto”. In altre parole, laddove nel D.L.vo 40/00 e nel D.M. 4 luglio 2000 si parla genericamente di “operazioni”, si ritiene debba intendersi operazioni di trasporto: sicché a fronte di un unico trasporto di più rifiuti soggetti a normativa ADR, si conteggia un’unica operazione. Si consideri infine che sulla base di quanto esplicitato dalla citata Circolare del Ministero dei Trasporti e della Navigazione 14 novembre 2000, n. A 26 (punto 6 Esenzioni): “per potersi avvalere delle esenzioni, le imprese … devono darne comunicazione all’ufficio provinciale del Dipartimento dei trasporti terrestri …”. In altre parole, i requisiti per poter beneficiare del regime delle esclusioni dalla nomina del consulente sono due: averne teoricamente titolo secondo quanto disposto dalla normativa applicabile (non rilevano, dunque, la categoria, la classe d’iscrizione all’Albo o la portata del furgone, ma l’azienda dovrà considerare se la Sua attività professionale ricade o meno tra le ipotesi di esenzione sopra segnalate) e darne comunicazione all’ufficio provinciale del Dipartimento dei trasporti terrestri competente.
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Microraccolta
122.
In quale norma è disciplinata la microraccolta dei rifiuti?
L’art. 193, c.11 del D.L.vo 152/06 così recita: “La microraccolta dei rifiuti, intesa come la raccolta di rifiuti da parte di un unico raccoglitore o trasportatore presso più produttori o detentori svolta con lo stesso automezzo, dev’essere effettuata nel più breve tempo tecnicamente possibile. Nei formulari di identificazione dei rifiuti devono essere indicate, nello spazio relativo al percorso, tutte le tappe intermedie previste. Nel caso in cui il percorso dovesse subire delle variazioni, nello spazio relativo alle annotazioni dev’essere indicato a cura del trasportatore il percorso realmente effettuato”.
È da ritenersi legittimo il diniego di accesso dei rifiuti provenienti da microraccolta di rifiuti liquidi prodotti dall’uso di bagni mobili da parte dell’impianto di destino finale? 123.
A tutt’oggi – anche dopo l’entrata in vigore del D.L.vo 152/06 – è senz’altro corretto affermare, sulla base delle circolari dell’Albo gestori rifiuti in materia che i rifiuti liquidi provenienti dallo spurgo dei wc mobili dati in locazione sono classificabili come rifiuti speciali non pericolosi (CER 20.03.04) e devono essere trasportati da soggetti muniti di iscrizione all’Albo alla categoria 4 “raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi prodotti da terzi”. Se ne conviene che il produttore del rifiuto è il detentore locatario della struttura mobile, mentre la ditta che effettua lo spurgo è il trasportatore del rifiuto. Si ritiene non giustificato il diniego di accesso dei rifiuti provenienti da microraccolta da parte dell’impianto di destino finale, fatto salvo il rispetto di quanto disposto dall’art. 110 commi 2 e 3 in merito allo smaltimento di rifiuti presso impianti di trattamento delle acque reflue urbane. La responsabilità per la corretta gestione di questo rifiuto ricade, come in tutti i casi di gestione, su entrambi i soggetti citati (produttore e trasportatore), per il noto principio della responsabilità condivisa nella gestione dei rifiuti, contenuto all’art. 2 comma 3 del D.L.vo 22/97, oggi art. 178 comma 1 del D.L.vo 152/06. Per effetto dell’entrata in vigore del “testo unico ambientale” è stata formalmente riconosciuta la cosiddetta “microraccolta di rifiuti” ai sensi del disposto dell’art. 193 comma 11. Si ritiene che sia corretta la prassi di utilizzare diversi formulari di carico ad ogni presa, su ognuno dei quali vengono riportate tutte le tappe intermedie del carico.
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Senz’altro i rifiuti non possono sostare sul mezzo per oltre 48 ore esclusi i giorni festivi (secondo il disposto del comma 12 dell’art. 193) e comunque solo, come precisa la norma, per “esigenze di trasporto”, dato che la microraccolta deve avvenire “nel più breve tempo possibile”. È poi evidente che la sosta del rifiuto in autobotte, oltre ad essere illegittima se ed in quanto effettuata nel mancato rispetto delle condizioni appena sopra esposte, non consente certo al trasportatore di riconoscersi quale produttore del rifiuto, in assenza di alcun trattamento sullo stesso. Si aggiunge che qualora il trattamento fosse effettuato – ipotesi che comunque non risulta per il caso de quo – l’operazione dovrebbe essere autorizzata; addirittura, in astratto, se si trattasse di un trattamento effettuato a bordo del mezzo di trasporto questo dovrebbe essere configurato quale impianto mobile di smaltimento, munito di apposita autorizzazione (art. 208, comma 15). La difficoltà che il legislatore non ha preso in considerazione nella formalizzazione dell’art. 193 comma 11 è relativa alla eventuale necessità di individuare tutti i produttori di rifiuti; nella microraccolta non appare di fatto possibile (peraltro indipendentemente dall’uso di uno o più FIR) il controllo, presso il centro di smaltimento/ recupero finale, della provenienza specifica del rifiuto, ovvero il riferimento materiale di ciascun carico di rifiuti al suo produttore. Su questo specifico punto, non disciplinato dal legislatore (e non risolto nemmeno nella vigenza della passata disciplina) si ritiene corretta la posizione che afferma che il legislatore, consentendo la microraccolta, di fatto ritiene accettabile il rischio di mescolare tra loro i rifiuti oggetto di singoli prelievi, sapendo che, quanto all’individuazione delle responsabilità, è possibile utilizzare i FIR compilati per risalire ai diversi produttori, i quali non potranno che essere responsabili in solido per gli eventuali casi di insussistenza dei requisiti previsti per gli stessi per l’avvio a smaltimento/recupero.
In caso di microraccolta effettuata solo nell’ambito della propria provincia, per ottimizzare il trasporto all’impianto finale, è possibile effettuare la raccolta su più giorni avvalendosi dell’istituto della sosta? 124.
La questione si presenta laddove si prescrive che “la microraccolta dei rifiuti … dev’essere effettuata nel più breve tempo tecnicamente possibile”, in quanto trattasi di un’indicazione di principio non ulteriormente specificata in termini temporali più precisi, anche se, correttamente, la dottrina ha precisato che ciò “non deve essere confuso con il riempimento del mezzo”. Peraltro, comprendendo l’intento del trasportatore di ottimizzare il trasporto all’impianto finale, bisogna mettere in relazione il sopraccitato co. 11 con il successivo co. 12, il quale recita: “La sosta durante il trasporto dei rifiuti caricati per la spedizione all’interno dei porti e degli scali ferroviari, delle stazioni di partenza, di smistamento e di arrivo, gli stazionamenti dei veicoli in configurazione di trasporto, nonché le soste tecniche per le operazioni di trasbordo non rientrano nelle attività di stoccaggio di cui all’articolo 183, comma 1, lettera l), purché le stesse siano dettate da esigenze di trasporto e non superino le quarantotto ore, escludendo dal computo i giorni interdetti alla circolazione”. Dalla lettura della norma emerge che le fattispecie disciplinate sono due:
Microraccolta
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– la sosta durante il trasporto dei rifiuti caricati per la spedizione all’interno dei porti e degli scali ferroviari, delle stazioni di partenza, di smistamento e di arrivo, gli stazionamenti dei veicoli in configurazione di trasporto; – le soste tecniche per le operazioni di trasbordo. È evidente che nessuna di queste due ipotesi attiene al caso di specie (infatti non ci si trova né presso porti, né scali ferroviari, e non si versa nell’ipotesi di trasbordo di rifiuti), sicché “non si ravvisano le comprovabili esigenze di trasporto ma solo l’attesa che il mezzo si riempia”. In realtà, il tema del trasporto dei rifiuti e delle soste intermedie del trasportatore ha da sempre dato origine in dottrina ad un vivace dibattito tra gli studiosi, proprio per scongiurare i casi in cui la sosta dell’autista, che travalica gli orari ordinari e le esigenze tecniche del viaggio, laddove non prevista e motivata, è illegittima. Quello che si è sempre voluto evitare era che il conducente effettuasse stoccaggi illegali lungo il percorso di trasporto, dei quali poi non si sarebbe più conservata traccia. Se questa è la ratio della norma sopraccitata, è peraltro innegabile che la deroga consentita dall’art. 193, co. 12 non ha portata generale: però, a parere di chi scrive, si ritiene che l’espressione “gli stazionamenti dei veicoli in configurazione di trasporto”, proprio per il fatto di non essere cristallina, può prestarsi ad essere interpretata secundum lege quale generica sosta (stazionamento del veicolo) lungo il tragitto (in configurazione di trasporto), ma non si ritiene che possa spingersi fino a comprendere il ritorno dell’automezzo, parzialmente carico di rifiuti, al sito di rimessaggio. Purtroppo la giurisprudenza – a che risulti – non ha ancora avuto occasione di pronunciarsi su questo particolare aspetto del trasporto di rifiuti dopo l’entrata in vigore del D.L.vo 152/06 e s.m.e.i.: le sentenze pregresse, infatti, riguardano quasi esclusivamente i casi non autorizzati di microraccolta e di trasbordo di rifiuti. Quindi, a parere di chi scrive si ritiene che la sosta effettuata dal trasportatore possa rientrare in via interpretativa tra “gli stazionamenti dei veicoli in configurazione di trasporto” fintanto che detta sosta sia provata e giustificata, per esempio, da motivi di stanchezza fisica dell’autista o da fatti imprevisti (come un incidente in autostrada; una manifestazione con blocco stradale; un malore dell’autista etc…) che cagionano un ritardo nel viaggio tale per cui si renda impossibile consegnare i rifiuti entro l’orario di chiusura dell’impianto finale e si renda necessaria la sosta. A fini cautelativi, infatti, la sosta dovrebbe presentare la caratteristica dell’eccezionalità. Il fatto che essa sia sostanzialmente programma per arrivare ad un carico completo dell’automezzo non permette che la stessa si qualifichi come una vera e propria “sosta tecnica” (secondo l’art. 193, co. 12 la sosta tecnica è solo quella per le operazioni di trasbordo), bensì come una generica sosta che in forza della soprariportata interpretazione dell’inciso “gli stazionamenti dei veicoli in configurazione di trasporto” potrebbe essere consentita sempre che sia dettata da comprovate necessità e non superi le 48 ore.
Chi è il detentore nel caso di microraccolta di rifiuti pericolosi effettuata da un terzo appaltatore incaricato dal soggetto gestore pubblico?
125.
In caso di microraccolta di rifiuti urbani pericolosi la soluzione che si prospetta per la corretta compilazione del FIR è quella di indicare in qualità di “detentore” lo stesso trasportatore.
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È da ricordare in merito però che per effetto dell’entrata in vigore del “testo unico ambientale” tale forma di raccolta è stata formalmente riconosciuta ai sensi del disposto dell’art. 193 comma 11: “La microraccolta dei rifiuti, intesa come la raccolta di rifiuti da parte di un unico raccoglitore o trasportatore presso più produttori o detentori svolta con lo stesso automezzo, dev’essere effettuata nel più breve tempo tecnicamente possibile. Nei formulari di identificazione dei rifiuti devono essere indicate, nello spazio relativo al percorso, tutte le tappe intermedie previste. Nel caso in cui il percorso dovesse subire delle variazioni, nello spazio relativo alle annotazioni deve essere indicato a cura del trasportatore il percorso realmente effettuato”. Resta invariato il fatto che il detentore dei rifiuti urbani provenienti dalla microraccolta è il trasportatore stesso fino al momento in cui non li deposita all’impianto di smaltimento o recupero, anche consortile, o al centro di raccolta comunale.
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Miscelazione
126.
È vietato miscelare i rifiuti?
In linea di massima no. L’art. 15 del D.L.vo 205/10 ha sostituito interamente l’art. 187, sicché oggi esso dispone che “1. È vietato miscelare rifiuti pericolosi aventi differenti caratteristiche di pericolosità ovvero rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi. La miscelazione comprende la diluizione di sostanze pericolose. 2. In deroga al comma 1, la miscelazione dei rifiuti pericolosi che non presentino la stessa caratteristica di pericolosità, tra loro o con altri rifiuti, sostanze o materiali, può essere autorizzata ai sensi degli articoli 208, 209 e 211 a condizione che: a) siano rispettate le condizioni di cui all’articolo 177, comma 4, e l’impatto negativo della gestione dei rifiuti sulla salute umana e sull’ambiente non risulti accresciuto; b) l’operazione di miscelazione sia effettuata da un ente o da un’impresa che ha ottenuto un’autorizzazione ai sensi degli articoli 208, 209 e 211; c) l’operazione di miscelazione sia conforme alle migliori tecniche disponibili di cui all’articolo 183, comma 1, lettera nn)”.
127.
Il divieto di miscelazione è applicato ai rifiuti in deposito temporaneo?
Per quanto concerne il “divieto di miscelazione”, i rifiuti in deposito temporaneo vanno gestiti per categorie omogenee anche e soprattutto per prevenire il rischio della miscelazione. Questa operazione è investita da un divieto ex lege in riferimento ai rifiuti pericolosi: “È vietato miscelare rifiuti pericolosi aventi differenti caratteristiche di pericolosità ovvero rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi” (art. 187, comma 1), al quale si può derogare per mezzo di apposita autorizzazione, sempreché si rientri nel campo della gestione dei rifiuti. Con particolare riferimento al deposito temporaneo si segnala che sussiste anche in questo caso il divieto di miscelazione, ex art. 208, co. 17. 128. Quale sanzione è applicabile in caso di violazione del divieto di miscelazione?
Ai sensi dell’art. 187, c. 3, TUA, la violazione del divieto di miscelazione è sanzionata con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento
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euro a ventiseimila euro. Il trasgressore, sarà inoltre tenuto a procedere a proprie spese alla separazione dei rifiuti miscelati, qualora sia tecnicamente ed economicamente possibile, e qualora ciò non comporti pericoli per l’uomo o l’ambiente.
La de-miscelazione di sostanze oleose deve necessariamente considerarsi attività di trattamento?
129.
Il tema centrale è quello relativo alla differenza ed al rapporto esistente tra un “rifiuto liquido” ed uno “scarico di acque reflue”. Sul punto la giurisprudenza (Cass. III Pen. 2246 del 16 gennaio 2008) è pacifica nel ritenere che “il parametro di riferimento per individuare – in materia di liquidi o semiliquidi di cui il detentore si disfa o intenda o sia obbligato a disfarsi – l’ambito di operatività della disciplina speciale relativa agli scarichi delle acque reflue nei corpi recettori rispetto alla disciplina generale sui rifiuti è rappresentato dalla esistenza o meno di un sistema di convogliamento delle acque nel corpo recettore, indipendentemente dalla loro natura inquinante. Il sistema non ha subito rilevanti modificazioni con l’emanazione del D.L.vo 152/06: la legge prevedeva e prevede anche l’esistenza di acque reflue costituenti rifiuti liquidi, ed è a questi che si riferisce l’art. 185 del D.L.vo 152/06 nell’affermare la applicabilità agli stessi della disciplina di cui alla Parte IV del medesimo decreto, quella appunto sui rifiuti, salva l’eventuale possibilità di scarico nella rete fognaria consentita alle condizioni di cui all’art. 110”. Può dunque affermarsi che le acque reflue rientrano nel concetto di rifiuto (liquido) nei casi in cui non siano oggetto di scarico, così come definito dall’attuale art. 74, comma 1, lett. ff), del D.L.vo 152/06. Pertanto, se i reflui fossero collegati tramite condotta e senza soluzione di continuità dal luogo di produzione al corpo recettore, essi, attraverso questo sistema di deflusso, integrerebbero uno “scarico”, la cui disciplina, ai sensi dell’art. 185, co. 2, del D.L.vo 152/06, è estranea a quella prevista per la gestione dei rifiuti, con conseguente possibilità di non annoverare l’operazione in parola tra quelle di trattamento di rifiuti. In tal caso, infatti, il refluo non può definirsi rifiuto e l’operazione di decantazione deve considerarsi attività rientrate nel normale procedimento della produzione industriale, e solo da tale attività vengono generati rifiuti solidi destinati allo smaltimento.
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MUD
130. Sulla base della disciplina oggi vigente, quali sono i soggetti obbligati ed esentati alla presentazione del MUD?
Il Mud (Modello Unico di Dichiarazione ambientale), istituito dalla L. 70/1994 e poi riconfermato nel D.L.vo 22/97, rappresenta il meccanismo deputato alla raccolta dei dati concernenti i rifiuti. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2011, pubblicato sul supplemento ordinario n. 23 della Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 2011, è stato approvato il Modello Unico di Dichiarazione ambientale (MUD) per il 2012. La nuova modulistica dovrà essere utilizzata per le dichiarazioni da presentare, entro il 30 aprile 2012, con riferimento all’anno 2011 da una parte dei soggetti obbligati ad effettuare la comunicazione annuale al catasto dei rifiuti individuati dall’art. 189 del decreto legislativo 152/06. I soggetti tenuti a presentare il nuovo MUD sono così specificati: – i Comuni o loro Unioni o Consorzi e Comunità Montane; – i produttori di AEE e i sistemi collettivi di finanziamento della raccolta e del recupero dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche; – il CONAI o gli altri soggetti di cui all’articolo 221, comma 3, lettere a) e c); – i soggetti che effettuano le attività di trattamento dei veicoli fuori uso e dei relativi componenti e materiali. I produttori iniziali di rifiuti e le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e di smaltimento dei rifiuti che in passato erano tenuti alla presentazione del modello unico di dichiarazione ambientale, dovranno invece presentare la “comunicazione SISTRI”, ai sensi dell’art. 28 del D.M. 18 febbraio 2011 n. 52, con le modalità già utilizzate nel 2011, quindi o con il servizio telematico disponibile nel portale SISTRI oppure mediante l’uso della “vecchia” modulistica MUD definita dal DPCM 27 aprile 2010 e delle relative modalità di trasmissione alle Camere di commercio. Meno definita, invece, la situazione dei trasportatori, dei commercianti e intermediari di rifiuti senza detenzione degli stessi e degli altri soggetti che, nella versione dell’art. 189 del D.L.vo 152/06 che resterà in vigore fino alla piena operatività del SISTRI, sono individuati come tenuti ad effettuare la comunicazione annuale al catasto dei rifiuti. Per questi soggetti l’obbligo di comunicazione sussiste ma, in assenza di una disciplina regolamentare specifica, non è possibile adempiere a tale obbligo. La scadenza per tutte le due tipologie di comunicazioni al catasto dei rifiuti, comunicazione SISTRI e MUD, è il 30 aprile 2012. Rispetto agli obblighi in precedenza previsti, vi sono sia conferme sia novità:
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– le modalità di compilazione e trasmissione della comunicazione SISTRI da parte di produttori e gestori di rifiuti e della dichiarazione MUD da parte dei gestori di veicoli fuori uso rimangono immutate, ci si è limitati a prevedere l’uso del codice ISTAT delle attività economiche aggiornato all’edizione del 2007; – le modalità di compilazione e trasmissione del MUD per i produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche e i sistemi collettivi di finanziamento rimangono immutate e, malgrado le numerose segnalazioni, non si è provveduto a modificare la modulistica per renderla conforme alle prescrizioni del D.L.vo 151/05. Il decreto legislativo citato, infatti, impone ai produttori di apparecchi elettrici ed elettronici destinati all’impiego domestico l’adesione ad un sistema collettivo di finanziamento della raccolta e del recupero dei RAEE, rendendo impossibile per il singolo produttore la specifica indicazione delle tipologie e dei quantitativo di rifiuti conferiti ai diversi impianti; – sono state modificate le schede MUD che devono essere compilate dal CONAI, o dai consorzi alternativi al CONAI, per la raccolta e il recupero dei rifiuti di imballaggio; – diverse anche le schede MUD che devono essere compilate dai Comuni, o loro Consorzi e Comunità Montane: mentre da un lato viene previsto l’obbligo di invio telematico della dichiarazione, dall’altro, in assenza di un dispositivo di firma digitale, viene ammessa la stampa delle schede generate dalla procedura telematica e la trasmissione su supporto cartaceo alla Camera di commercio.
131.
Quali soggetti sono tenuti all’invio della dichiarazione MUD al Cobat?
Per quanto riguarda coloro che sono tenuti a trasmettere al Cobat copia del Mud per la sola parte inerente i rifiuti di batterie al piombo esauste e rifiuti piombosi, esiste una nota di UnionCamere del 4 aprile 2008 che fornisce molti chiarimenti in merito. Il punto 5, infatti, individua gli obbligati in “tutti i soggetti che effettuano attività di gestione (raccolta, trasporto, recupero e smaltimento)”. In virtù di quanto dispone l’art. 183 (Definizioni), lett. n), del D.L.vo 152/06, per “gestione” si intende la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni e gli interventi successivi alla chiusura dei siti di smaltimento, nonché le operazioni effettuate in qualità di commerciante o intermediario. Con queste espressioni si intende: – raccolta: il prelievo dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito, ivi compresa la gestione dei centri di raccolta di cui alla lettera mmm, ai fini del loro trasporto in un impianto di trattamento; – trasporto: movimentazione dei rifiuti dal luogo di produzione al sito di destinazione; – recupero: qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale (l’allegato C della parte IV del presente decreto riporta un elenco non esaustivo di operazioni di recupero; – smaltimento: qualsiasi operazione diversa dal recupero anche quando l’operazione ha come conseguenza secondaria il recupero di sostanze o di energia (l’Allegato B alla parte IV del presente decreto riporta un elenco non esaustivo delle operazioni di smaltimento);
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– controllo: l’insieme delle attività di verifica, poste in essere dagli organi competenti e a ciò deputati, del corretto svolgimento delle precedenti fasi di gestione. Si fa presente, peraltro, che solo le fasi della raccolta, trasporto, recupero e smaltimento sono oggetto di apposita autorizzazione alla gestione; ciò non toglie, tuttavia, che esistano altre attività, come ad esempio il deposito temporaneo, che non appartengono alla gestione vera e propria, e quindi non devono essere autorizzate, ma che devono comunque rispettare delle proprie regole. Pertanto, sulla base della predetta nota di UnionCamere, p.to 5, si desume che i soggetti obbligati alla presentazione al Cobat della copia del Mud, sono solo quelli che effettuano attività di gestione dei rifiuti (raccolta, trasporto, recupero e smaltimento), e non anche i produttori di rifiuti di batterie e di accumulatori al piombo.
Cosa s’intende per “soggetti istituzionali” responsabili del servizio di gestione integrata e tenuti alla compilazione del MUD in base al disposto dell’art. 189 c. 5 D.L.vo 152/06?
132.
L’art. 189, c. 5, D.L.vo 152/06 (nella versione ante D.L.vo 205/10) dispone che “i soggetti istituzionali responsabili del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani e assimilati comunicano annualmente, secondo le modalità previste dalla legge 25 gennaio 1994 n. 70, le seguenti informazioni relative all’anno precedente: a) la quantità dei rifiuti urbani raccolti nel proprio territorio; b) la quantità dei rifiuti speciali raccolti nel proprio territorio a seguito di apposita convenzione con soggetti pubblici o privati; c) i soggetti che hanno provveduto alla gestione dei rifiuti, specificando le operazioni svolte, le tipologie e la quantità dei rifiuti gestiti da ciascuno; d) i costi di gestione e di ammortamento tecnico e finanziario degli investimenti per le attività di gestione dei rifiuti, nonché i proventi della tariffa di cui all’articolo 238 ed i proventi provenienti dai consorzi finalizzati al recupero dei rifiuti; e) i dati relativi alla raccolta differenziata; f) le quantità raccolte, suddivise per materiali, in attuazione degli accordi con i consorzi finalizzati al recupero dei rifiuti”. Con l’espressione “soggetto istituzionale” il Legislatore intende riferirsi alle Autorità d’Ambito di cui all’art. 201 (disciplina del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani), ovvero quelle strutture costituite tra Enti locali ricadenti nel medesimo ambito territoriale ottimale (Ato), alle quali è demandata l’organizzazione, l’affidamento ed il controllo del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani. Qualora tali Autorità non fossero costituite, l’obbligo di presentazione del Mud ricade sul singolo Comune. Si precisa, tra l’altro, che l’art. 201 avrà efficacia sino al 28 marzo 2011, data a partire dalla quale saranno soppresse le Autorità d’ambito territoriale per espressa previsione della norma di cui all’art. 1, c. 1-quinquies del D.L. 25 gennaio 2010, n. 2, convertito, con modificazioni, nella L. 26 marzo 2010, n. 42: “all’articolo 2, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, dopo il comma 186, è inserito il seguente: «186-bis. Decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono soppresse le Autorità d’ambito territoriale di cui agli articoli 148 e 201 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni. Decorso lo stesso termine, ogni atto compiuto dalle Autorità d’ambito territoriale è da considerarsi nul-
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lo. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Le disposizioni di cui agli articoli 148 e 201 del citato decreto legislativo n.152 del 2006 sono efficaci in ciascuna regione fino alla data di entrata in vigore della legge regionale di cui al periodo precedente. I medesimi articoli sono comunque abrogati decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge»”.
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Nozione di rifiuto
133.
Cosa si intende per rifiuto?
Il D.L.vo 205/10 ha riscritto interamente l’art. 183 e ha cambiato diverse definizioni, tra cui si segnala innanzitutto quella di rifiuto che, a far data dal 25 dicembre 2010, è la seguente: “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”. Emerge con evidenza che nella nuova formulazione non compare più il periodo “che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A alla parte quarta del presente decreto”, sicché la nuova definizione di rifiuto prescinde dal riferimento all’elenco positivo costituito dal catalogo europeo dei rifiuti (C.E.R.). Quest’ultimo, infatti, è solo lo strumento per giungere ad una “normalizzazione” delle statistiche sui rifiuti a livello comunitario e mantiene integralmente la sua efficacia in questo ambito.
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Oli usati
Cosa si intende per olio usato e qual è la disciplina ad esso applicabile?
134.
Il D.L.vo 27 gennaio 1992, n. 95 “Attuazione delle direttive 75/439/CEE e 87/101/ CEE relative alla eliminazione degli oli usati” costituisce norma speciale rispetto alla disciplina dei rifiuti e quindi prevalente, ed ancora oggi vigente. Gli oli minerali usati oggetto di regolamentazione da parte di tale decreto sono quelli definiti dall’art. 1 ovvero “qualsiasi olio industriale o lubrificante, a base minerale o sintetica, divenuto improprio all’uso cui era inizialmente destinato, in particolare gli oli usati dei motori a combustione e dei sistemi di trasmissione, nonché gli oli minerali per macchinari, turbine o comandi idraulici e quelli contenuti nei filtri usati” Sono comunque soggette alla disciplina prevista per gli olii usati le miscele oleose, intendendosi per tali i composti usati fluidi o liquidi solo parzialmente formati di olio minerale o sintetico, compresi i residui oleosi di cisterna, i miscugli di acque ed olio e le emulsioni. Si segnala inoltre che ex art. 3 Dir. 98/08/CE per “olio usato” si intende “qualsiasi olio industriale o lubrificante, minerale o sintetico, divenuto improprio all’uso cui era inizialmente destinato, quali gli oli usati dei motori a combustione e dei sistemi di trasmissione, nonché gli oli lubrificanti e gli oli per turbine e comandi idraulici.
135.
Chi sono i soggetti coinvolti nel ciclo di gestione dell’olio usato?
Il decreto distingue diversi soggetti all’interno della gestione degli oli esausti descrivendone le fasi: – la raccolta: l’attività di raccolta riguarda il prelievo presso i produttori/detentori dell’olio e il primo stoccaggio nei depositi dei concessionari; – lo stoccaggio: l’olio lubrificante usato, dopo il primo stoccaggio, viene conferito ai cinque depositi del Consorzio stesso (Reol a Milano, Viscolube a Lodi, Monticelli a Pavia, Viscolube a Frosinone e Ramoil Service a Napoli); – l’analisi e classificazione: una volta conferito al Consorzio presso uno dei cinque depositi di stoccaggio, l’olio lubrificante usato viene analizzato per determinare le caratteristiche qualitative e quindi il corretto canale di eliminazione; – i processi di eliminazione: In base alle caratteristiche qualitative dell’olio usato, il prodotto raccolto può essere sottoposto a rigenerazione, combustione, trattamento, termodistruzione.
Oli usati
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Quali sono gli adempimenti previsti per la corretta gestione dell’olio esausto? 136.
Qualunque soggetto che operi in qualità di detentore dell’olio esausto è tenuto rispettare quanto disposto dall’art. 6 del D.L.vo 95/92, secondo cui coloro che nel corso dell’anno detengono a qualsiasi titolo una quantità superiore a 300 litri annui di oli usati sono obbligati a: a) stivare gli oli usati in modo idoneo ad evitare qualsiasi commistione tra emulsioni ed oli propriamente detti ovvero qualsiasi dispersione o contaminazione degli stessi con altre sostanze; b) non miscelare gli oli usati con le sostanze tossiche o nocive di cui all’allegato al decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915, sue modificazioni ed integrazioni; c) cedere e trasferire tutti gli oli usati detenuti al Consorzio obbligatorio degli oli usati direttamente ovvero ad imprese autorizzate alla raccolta e/o alla eliminazione, comunicando al cessionario tutti i dati relativi all’origine ed ai pregressi utilizzi degli oli usati; d) rimborsare al cessionario gli oneri inerenti e connessi alla eliminazione delle singole miscele oleose, degli oli usati non suscettibili di essere trattati e degli oli contaminati. È data facoltà ai detentori di oli usati di provvedere alla loro eliminazione tramite cessione diretta ad imprese autorizzate, dandone comunicazione al Consorzio obbligatorio degli oli usati. Sul punto, infine, si segnala la recente sentenza della Corte di Cassazione Civile, Sez. II, n. 23864 del 15 novembre 2011, in cui è affermato che “Ai sensi dell’art. 6, co. 3, del D.L.vo 95/92, anche i rivenditori di olii che non effettuano il cambio degli stessi sono obbligati a installare un impianto per lo stoccaggio degli olii usati”.
137.
Esiste un obbligo di iscrizione al Coou?
Non esiste per i detentori obbligo di iscrizione al COOU, che è previsto invece (art. 4 dello Statuto COOU) per tutte le imprese che, anche in veste di importatori, immettono al consumo oli lubrificanti, sempre fatta salva la verifica dell’obbligo di stipulare apposita convenzione con il Consorzio in quanto “concessionari”.
Come è disciplinato l’olio esausto di origine alimentare, con particolare riguardo a quello prodotto sulle navi?
138.
La gestione dell’olio esausto di cucina, prevalentemente derivante dall’attività di frittura di generi alimentari, si rivela assai problematica, in special modo laddove il produttore sia una nave che effettua tragitti internazionali. In precedenza, quando non era stata ancora riservata l’attenzione che merita un simile problema, l’olio esausto da cucina veniva gestito senza distinzione con l’olio esausto lubrificante, minerale o sintetico, per motori o circuiti idraulici. Dopo di che è stata dettata una specifica disciplina con l’entrata in vigore del D.L.vo 5 febbraio 1997,
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n. 22, il cd. Decreto Ronchi, che si è occupato del problema di gestione degli oli vegetali usati, prevedendo all’art. 47 l’istituzione del Consorzio obbligatorio nazionale di raccolta e trattamento degli oli e dei grassi vegetali e animali esausti. Tale previsione è stata poi riconfermata dal D.L.vo 3 aprile 2006, n. 152 (GU n. 88 del 14 aprile 2006 – SO n. 96 – in vigore dal 29 aprile 2006), il cd. Testo Unico ambientale, che all’art. 233, oltre a precisare i compiti del consorzio, al co. 12 stabilisce che “chiunque, in ragione della propria attività professionale, detiene oli e grassi vegetali e animali esausti è obbligato a conferirli ai consorzi direttamente o mediante consegna a soggetti incaricati dai consorzi”. Vediamo ora l’intersecarsi di questa normativo con quella speciale in tema di rifiuti prodotti sulle navi. Qualora il soggetto produttore del rifiuto (olio esausto da cucina) sia una nave, si rende necessario, dopo aver considerato quanto disposto a livello di disciplina generale, considerare anche quanto prescrive la normativa in materia di rifiuti prodotti dalle navi. Nella specie, le disposizioni di riferimento sono quelle contenute nel D.L.vo 24 giugno 2003, n. 182 (GU n. 68 del 22 luglio 2003 – in vigore dal 6 agosto 2003) ed in particolare l’art. 7, co. 4 dispone che “ai rifiuti alimentari prodotti a bordo di mezzi di trasporto che effettuano tragitti internazionali si applicano le disposizioni vigenti in materia”. La dottrina interpreta tale previsione nel senso che “ai rifiuti alimentari prodotti a bordo di mezzi di trasporto che effettuano tragitti internazionali si applica il decreto sanità – ambiente del 22 maggio 2001 «misure relative alla gestione e alla distruzione dei rifiuti alimentari prodotti a bordo di mezzi di trasporto che effettuano tragitti internazionali»”. Se, dunque, si concorda nel ritenere che il richiamo alla “normativa vigente” fatto dal D.L.vo 182/03, art. 7, co. 4, debba intendersi rivolto al DM 22 maggio 2001 (GU n. 202 del 31 agosto 2001 – in vigore dal 31 agosto 2001), si consideri che “i rifiuti costituiti da prodotti alimentari per l’approvvigionamento dell’equipaggio e dei passeggeri ed i loro residui sbarcati da mezzi di trasporto commerciali, nazionali ed esteri, provenienti da Paesi extra – U.E. devono essere smaltiti in impianti di incenerimento o, qualora non sia possibile la termodistruzione degli stessi …, possono essere smaltiti in discarica, previa sterilizzazione” (art. 1, co. 1, DM 22 maggio 2001). La norma, sufficientemente chiara da non dar adito a dubbi sulle modalità di gestione dei rifiuti alimentari (e si ritiene che in questa categoria rientri anche l’olio esausto da cucina), va letta, a parere di chi scrive, in combinato disposto con il I considerato della premessa al DM in questione: in esso si legge, infatti, che è “necessario adottare misure relative alla gestione e alla distruzione dei rifiuti alimentari prodotti a bordo di mezzi di trasporto che effettuano tragitti internazionali, quali scarti inutilizzabili per il consumo o la trasformazione”. Si ritiene quindi che l’olio esausto di cucina, laddove sia idoneo alla trasformazione, possa essere conferito direttamente ai consorzi o, indirettamente, a soggetti incaricati dai consorzi per il recupero, in un’ottica pienamente rispondente alla normativa vigente in materia e all’incentivo al recupero che da anni, ormai, anima la legislazione europea in tema di rifiuti; qualora, invece, l’olio sia inutilizzabile per la trasformazione, si ritiene che debba essere smaltito in impianti di incenerimento o, qualora ciò non sia possibile, in discarica, previa sterilizzazione (in ottemperanza al DM 22 maggio 2001).
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Il trasporto dell’olio esausto è sottoposto alla normativa ADR?
La normativa tecnica che disciplina l’ADR (Accord Dangereuses Route) risulta applicabile quando la merce trasportata, rifiuto o meno, rientra nella classificazione di “merce pericolosa” data dall’ADR stesso. In particolare, per quanto attiene la classificazione dell’olio esausto ai fini del trasporto stradale, è necessario: a) valutare le sostanze contenute in tali oli; b) prendere in considerazione tutte le possibili classi di pericolo (si rileva qui che alcune di queste, pur pertinenti dal punto di vista della normativa sui rifiuti, non lo sono ai fini del trasporto). 140. Quali sono le norme tecniche applicabili nell’ambito della gestione degli olii usati?
L’art. 216 bis, c. 7, come modificato dal D.L.vo 205/10 prevedeva che con uno o più regolamenti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare da emanarsi, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione (quindi entro il 25 giugno 2011), fossero definite le norme tecniche per la gestione di oli usati in conformità a quanto disposto dall’articolo 216-bis. Dopo quasi un anno dalla scadenza previsata non è ancora stato emanato alcun regolamento, pertanto il D.L. 9 febbraio, n. 5, conv. con modif., nella L. 4 aprile 2012, n. 35, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo” (in Gazzetta Ufficiale n. 82 del 6 aprile 2012 - Suppl. Ordinario n. 69), modificando il comma 7 dell’art. 216-bis, ha stabilito che, nelle more della sua emanazione “le autorità competenti possono autorizzare, nel rispetto della normativa dell’Unione europea, le operazioni di rigenerazione degli oli usati anche in deroga all’allegato A, tabella 3, del decreto ministeriale 16 maggio 1996, n. 392, fermi restando i limiti stabiliti dalla predetta tabella in relazione al parametro PCB/PCT”.
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Ordinanze contingibili e urgenti
141.
Qual è la disciplina delle ordinanze contingibili ed urgenti?
In materia ambientale, qualora si verifichino situazioni di carattere straordinario e caratterizzate dal requisito dell’indifferibilità e quantunque non si possa provvedere altrimenti con mezzi consueti previsti dal nostro ordinamento, l’art. 191 del D.L.vo 152/06 disciplina il potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti in deroga alle disposizioni vigenti e al fine di garantire un elevato livello di tutela dell’ambiente e della salute umana. Le ordinanze previste dall’art. 191, quindi, costituiscono un quid pluris, nonché un diverso modello istituzionale di governo rispetto alla tradizionale categoria delle ordinanze previste in via generale dall’art. 54 del T.U.E.L. Comunque sia, la caratteristica generica che accomuna i vari tipi di ordinanze è il potere straordinario attribuito alla Pubblica Amministrazione esercitabile, per l’appunto, ove non esistano già nell’ordinamento strumenti idonei allo scopo o misure differenti nel rispetto della legge. L’esercizio di tale potere extra ordinem, permette di affrontare esigenze ambientali e il pericolo di danni gravi alla salute umana e all’ambiente circostante provvedendo alla rimozione di situazioni di crisi come quella determinata dai rifiuti, non altrimenti gestibili da norme generali o speciali o da provvedimenti tipizzati dal nostro legislatore. Difatti tale potere è di carattere residuale, cui può ricorrersi solo laddove, come previsto dall’art. 191 in commento, “non si possa altrimenti provvedere”. I presupposti legali per emanare le ordinanze ai sensi dell’art. 191 in oggetto si rinvengono nei soli estremi della eccezionalità ed urgenza concretatisi nel pericolo attuale per la salute e nell’impossibilità di fronteggiare adeguatamente e tempestivamente la situazione di emergenza avvalendosi dei normali strumenti predisposti dall’ordinamento. Il requisito dell’urgenza, viene connotato come l’impellente esigenza di provvedere tempestivamente e senza indugi alla situazione di pericolo, a prescindere dalla prevedibilità della situazione medesima. Il requisito della eccezionalità rappresenta, invece, la soluzione estrema, e cioè l’adozione dell’ordinanza solo quando la situazione critica non possa essere amministrata con i normali mezzi previsti dalla legge. Appare utile sottolineare che la dottrina prevalente è concorde nel ritenere valida l’adozione dell’ordinanza anche qualora la situazione emergenziale sia sorta in epoca antecedente, essendo rilevante la sola proiezione finalistica della norma volta alla tutela della salute pubblica e dell’ambiente. Per essere legittimamente emanate, però, le ordinanze in oggetto devono rispondere a determinati ulteriori requisiti di natura procedimentale.
Ordinanze contingibili e urgenti
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Innanzitutto le predette ordinanze devono essere motivate in maniera esaustiva onde permette il controllo di legittimità del provvedimento e devono riguardare solo le materie per cui sono previste. Devono, inoltre, operare nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e della Costituzione ed essere congruenti e proporzionate alla situazione di pericolo da arginare e, pertanto, devono essere necessariamente temporanee. Per quel che attiene al contenuto dell’ordinanza in questione si rammenta che a pena di illegittimità le stessa deve espressamente contenere le norme di legge cui s’intende derogare che possono riguardare sia le stesse disposizioni di legge del D.L.vo 152/ 2006 sia disposizioni di carattere tecnico attuativo. Il comma 3 dell’art. 191, per di più, condiziona l’adozione dell’ordinanza all’esame di organi tecnici o tecnico sanitari locali che devono esprimere un parere con riferimento esplicito alle conseguenze delle scelte effettuate con il provvedimento di urgenza. Occorre evidenziare che il parere de quo, è obbligatorio, ma non vincolante. Per quel che attiene all’oggetto dell’ordinanza, esso deve riguardare la gestione dei rifiuti in una o più fasi della sua evoluzione, raccolta, recupero o, come nel nostro caso, smaltimento. Si ricorda, infine, che le predette ordinanze in deroga alle legge ordinaria andranno necessariamente pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
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Pile e accumulatori
142.
Pile e accumulatori, qual è la disciplina applicabile?
La normativa di riferimento è rappresentata dal D.M. 24 gennaio 2011, n. 20 e dal D.L.vo 11 febbraio 2011, n. 21 I provvedimenti sono in vigore da marzo 2011 ed hanno apportato alcune importanti novità concernenti le regole sulla raccolta e gestione di pile, accumulatori e relativi rifiuti. Il D.M. 24 gennaio 2011, n. 20, ovvero il Regolamento recante l’individuazione della misura delle sostanze assorbenti e neutralizzanti di cui devono dotarsi gli impianti destinati allo stoccaggio, ricarica, manutenzione, deposito e sostituzione degli accumulatori è costituito da un unico articolo (art. 1), attuativo dell’art. 195, comma 2, lett. q), del D.L.vo 152/06, che delimita l’ambito di applicazione del provvedimento e prescrive che la determinazione della misura delle sostanze assorbenti e neutralizzanti da utilizzare nei casi di fuoriuscita di soluzione acida contenuta negli accumulatori al piombo presso gli impianti destinati allo stoccaggio, ricarica, manutenzione, deposito e sostituzione degli accumulatori medesimi ai sensi del citato art. 195, è effettuata con le modalità riportate nell’All. 1 al decreto. Il D.L.vo 11 febbraio 2011, n. 21, recante l’attuazione della direttiva 2006/66/CE concernente pile, accumulatori e relativi rifiuti e che abroga la direttiva 91/157/CEE, nonché l’attuazione della direttiva 2008/103/CE, modifica una numerosa serie di disposizioni del D.L.vo 188/08, dal quale: – vengono eliminati alcuni errori materiali presenti nel testo vigente; – viene migliorato il coordinamento delle norme in esso previste; – viene adeguato il contenuto a disposizioni comunitarie intervenute successivamente alla sua entrata in vigore (Dir. 2008/103/CE del 19 novembre 2008, relativa all’immissione sul mercato delle pile e degli accumulatori, e Dec. 2009/603/CE del 5 agosto 2009, concernente gli obblighi di registrazione dei produttori).
L’applicazione del D.M. 24 gennaio 2011, n. 20 dipende dal quantitativo di batterie utilizzato/stoccato?
143.
Il D.M. 24 gennaio 2011, n. 20, ovvero il “Regolamento recante l’individuazione della misura delle sostanze assorbenti e neutralizzanti di cui devono dotarsi gli impianti destinati allo stoccaggio, ricarica, manutenzione, deposito e sostituzione degli accumulatori”, è costituito da un unico articolo (art. 1) – attuativo dell’art. 195, comma 2, lett.
Pile e accumulatori
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q) del D.L.vo 3 aprile 2006, n. 152 – e stabilisce che “la determinazione della misura delle sostanze assorbenti e neutralizzanti da utilizzare nei casi di fuoriuscita di soluzione acida contenuta negli accumulatori al piombo presso gli impianti destinati allo stoccaggio, ricarica, manutenzione, deposito e sostituzione degli accumulatori medesimi (…) è effettuata con le modalità riportate nell’Allegato 1 al presente decreto (…) È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare”. A tal fine, il suddetto Allegato 1 prevede che le sostanze assorbenti e neutralizzanti debbano essere preventivamente testate dalle Università e dagli istituti specializzati. Il prodotto testato deve essere utilizzato secondo le istruzioni fornite dal fabbricante e tassativamente sostituito alla scadenza del termine di validità della sua piena efficacia, termine che deve essere indicato in modo evidente su ciascun contenitore. Inoltre, nella certificazione di rispondenza funzionale deve essere precisato il quantitativo di prodotto occorrente per il completo assorbimento e la perfetta neutralizzazione di un litro di soluzione acida. L’Allegato 1 prosegue, poi, disciplinando la tipologia di utilizzo (batterie stazionarie, batterie a trazione e batterie di avviamento), le fabbriche di accumulatori, i consorzi nazionali per la raccolta e il trattamento delle batterie al piombo esauste e per i rifiuti piombosi, nonché il trasporto di batterie. Data questa breve premessa, occorre rilevare che dall’esame della nomenclatura del provvedimento (articolo unico e Allegato), nonché dell’art. 195, comma 2, lett. q), del TUA (di cui, si ribadisce, il D.M. 20/2011 è di attuazione), esso sembra applicabile, con modalità differenti a seconda delle dimensioni degli impianti e del numero degli accumulatori, in tutti i luoghi in cui i medesimi accumulatori vengono conservati e/o stoccati. Nell’art. 1, infatti, si legge che l’obbligo di osservanza è diretto a “chiunque”; inoltre, il D.M. n. 20/2011 si premura di “delimitare”, non le dimensioni degli impianti che sono obbligati a conservare le “sostanze assorbenti e neutralizzanti da utilizzare nei casi di fuoriuscita di soluzione acida contenuta negli accumulatori al piombo”, ma le quantità di dette sostanze di cui ogni impianto deve essere in possesso, a seconda delle proprie dimensioni e del numero di accumulatori. Oltre a ciò, si segnala che anche nell’Allegato si usano espressioni che lasciano propendere per un’applicazione generale ed estesa delle regole ivi contenute: infatti, nel par. 1.1.1. Elementi fissi si legge: “in tutti gli ambienti destinati a contenere stabilmente concentrazioni di accumulatori al Piombo acido (Sala batterie) deve essere tenuta a disposizione una quantità di sostanza assorbente e neutralizzante (...) sufficiente ad estinguere completamente tutto l’elettrolito contenuto in almeno due degli elementi componenti la batteria, per ciascuna batteria installata”. Inoltre, nel par. 1.1.2. Batterie portatili è prescritto che “in tutti i locali destinati allo stoccaggio, alla ricarica, alla manutenzione e più in generale alla movimentazione di contenitori portatili di elementi al piombo acido deve essere obbligatoriamente tenuta a disposizione una quantità di sostanza assorbente e neutralizzante certificata, necessaria ad estinguere tutta la soluzione acida contenuta nella “batteria portatile” ogni trenta batterie in dotazione all’impianto”. Quest’ultima regola è derogata per gli accumulatori installati a bordo delle carrozze ferroviarie: in questo caso le sostanze devono essere reperibili presso “le stazioni ferroviarie dove si effettuano movimentazioni di elementi portatili dal deposito alle banchine di transito dei treni”. In applicazione dell’adagio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, tale particolare regime di reperibilità, essendo previsto esclusivamente per le carrozze ferroviarie, non può ritenersi applicabile anche ad altri mezzi di trasporto.
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
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La raccolta delle batterie al piombo deve essere oggetto di autorizzazione alla gestione rifiuti?
144.
Il D.L.vo 20 novembre 2008, n. 188, al fine di incrementare le percentuali di raccolta e di riciclaggio dei rifiuti di pile e accumulatori, prevede che i produttori organizzino e gestiscano sistemi di raccolta separata di pile ed accumulatori portatili (art. 6) nonché di quelli industriali e per veicoli (art. 7). In particolare l’art. 6 pone a carico dei produttori (o dei terzi che agiscono in loro nome) l’obbligo di organizzare e gestire – su base individuale o collettiva e sostenendone i relativi costi – sistemi di raccolta separata di pile ed accumulatori portatili idonei a coprire in modo omogeneo tutto il territorio nazionale. Tali sistemi devono consentire agli utilizzatori finali di disfarsi gratuitamente dei rifiuti in punti di raccolta, senza oneri per gli utilizzatori finali nel momento in cui si disfano dei rifiuti né obbligo di acquistare nuove pile o nuovi accumulatori. Se organizzati tramite convenzione con strutture di raccolta differenziata pubbliche, obbligano comunque i produttori al ritiro gestione dei rifiuti di pile o accumulatori portatili raccolti tramite tali strutture. In questo caso anche i distributori che forniscono nuove pile e accumulatori portatili, nell’ambito dell’organizzazione della raccolta differenziata, pongono a disposizione del pubblico appositi contenitori per il conferimento dei rifiuti di pile e accumulatori nel proprio punto vendita. L’art. 6 riporta, letteralmente, al comma 2, il riferimento all’esclusione per i punti di raccolta così organizzati, di ogni registrazione o autorizzazione ai sensi della vigente normativa sui rifiuti. In riferimento alle pile-accumulatori industriali o per i veicoli l’art. 7 vigente – come novellato dal D.L.vo 21/11 – impone ai produttori l’organizzazione della raccolta separata attraverso due canali: – l’adesione a sistemi già esistenti di raccolta o – l’organizzazione autonoma di un nuovo sistema di raccolta. Deve comunque esserne garantito il ritiro gratuito presso gli utilizzatori finali (non vi è alcun riferimento ai “punti di raccolta” come nel precedente articolo né di conseguenza ai permessi tipici della gestione rifiuti). I commi 4 e 5 dell’art. D.L.vo 188/08 prevedono rispettivamente: “Chiunque detiene rifiuti di pile e accumulatori per veicoli è obbligato al loro conferimento ai soggetti che raccolgono detti rifiuti ai sensi comma 1, a meno che non venga effettuata la raccolta in conformità alle disposizioni di cui al decreto Legislativo 24 giugno 2003, n. 209” e “In caso di batterie e di accumulatori per veicoli ad uso privato non commerciale l’utilizzatore finale di disfa presso i centri di raccolta allestiti dai soggetti di cui al comma 1, senza l’obbligo di acquistare nuove batterie o accumulatori”. Infine, il comma 6, ha introdotto il riferimento alla possibilità, anche per questa tipologia di produttori di: “…avvalersi delle strutture di raccolta ove istituite dal servizio pubblico, previa stipula di convenzione definita sulla base di un accordo di programma quadro stipulato su base nazionale tra i produttori di accumulatori per veicoli e l’Anci in rappresentanza dei soggetti responsabili del servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani, volto altresì a stabilire le modalità di ristoro degli oneri per la raccolta degli accumulatori per veicoli sostenuti dal servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani e le modalità di ritiro da parte dei produttori presso i centri di raccolta di cui alla lettera mm), comma 1, dell’articolo 183 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, e le strutture autorizzate ai sensi degli articoli
Pile e accumulatori
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208 e 210 dello stesso decreto n. 152 del 2006. I soggetti di cui al comma 1 sono in ogni caso tenuti a provvedere al ritiro gratuito e alla gestione dei rifiuti di pile o accumulatori industriali e per veicoli raccolti nell’ambito del servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani”. Come si evince dal testo normativo del D.L.vo 188/08, che è disciplina speciale e quindi prevalente rispetto al regime ordinario di gestione rifiuti di cui alla Parte IV dai cui principi generali però non può prescindere in caso di omessa specificazione nel testo normativo del D.L.vo 188/08 – il sistema della raccolta separata delle pileaccumulatori (sia portatili che industriali) dipende da un circuito organizzato di raccolta, ovvero trattasi di tipologia di rifiuto oggetto di gestione da parte di un Consorzio obbligatorio. La raccolta in questo caso è generalmente organizzata sulla base di un accordo di programma a livello istituzionale o di una convenzione-quadro a livello delle associazioni imprenditoriali interessate (produttori di batterie) e dei responsabili della piattaforma di conferimento (associati Cobat), cui segue uno specifico contratto di servizio tra il singolo produttore ed il gestore della piattaforma. Considerato che il testo dell’art. 6 del D.L.vo 188/08 espressamente esclude la necessita di una autorizzazione alla gestione rifiuti solo per i “punti di raccolta” di pile ed accumulatori portatili esausti, mentre l’art. 7 del medesimo decreto (norma speciale e quindi prevalente rispetto alla disciplina generale della gestione rifiuti) nulla dice in proposito, a parere di chi scrive è necessario che il deposito di pile ed accumulatori industriali o di veicoli sia soggetto alle apposite autorizzazioni/iscrizioni per la gestione rifiuti, fatta salva la verifica di eventuali appositi accordi di programma sul punto.
124
Pneumatici fuori uso
145.
Qual è la disciplina applicabile agli pneumatici fuori uso?
Gli pneumatici fuori uso (PFU) sono una particolare categoria di rifiuti non pericolosi (CER 16.01.03), la cui gestione ha da sempre presentato difficoltà interpretative. In primo luogo occorre comprendere cosa si intende per PFU e in cosa si distinguono dagli pneumatici usati. La disciplina sul tema è data dal D.M. 11 aprile 2011, n. 82, secondo cui per PFU si intendono “gli pneumatici, rimossi dal loro impiego a qualunque punto della loro vita, dei quali il detentore si disfi, abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi e che non sono fatti oggetto di ricostruzione o di successivo riutilizzo”. Lo pneumatico usato, invece, è uno pneumatico che – seppur usurato – è ancora idoneo al suo utilizzo e pertanto, salvo il caso di abbandono, non è un rifiuto. Il citato D.M. n. 82/2011 definisce anche la figura del “generatore di PFU” come “la persona fisica o giuridica che, nell’esercizio della sua attività imprenditoriale, genera PFU” (art. 2). In concreto tale figura è riconducibile al gommista, il quale dopo aver valutato che gli pneumatici non sono ricostruibili/reimpiegabili, li avvia a recupero/ smaltimento affidandoli al Servizio nazionale di riferimento. È stato infatti sostenuto che “il giudice del destino dello pneumatico usato è il gommista, cui spetta di decidere se esso possa essere destinato alla ricostruzione, senza assumere la qualifica di rifiuto, ovvero debba essere considerato PFU, e in tal senso destinato al recupero, o in sottordine, allo smaltimento”. Ne deriva che, sia la valutazione sulla possibile ricostruzione, sia l’affidamento al Servizio nazionale per il recupero/smaltimento sono preclusi al privato cittadino, in quanto tali attività devono essere esercitate nell’ambito di un’attività imprenditoriale.
Quali adempimenti deve svolgere il privato cittadino che desiderasse liberarsi degli pneumatici fuori uso in proprio possesso/detenzione?
146.
Data la particolarità della disciplina della gestione degli pneumatici fuori uso, deve ritenersi che il privato cittadino (che – ai sensi del medesimo art. 2 del D.M. n. 82/2011 – deve considerarsi mero detentore di PFU) che desiderasse liberarsi degli pneumatici fuori uso in proprio possesso/detenzione, deve contattare l’isola ecologica o il centro di raccolta di riferimento per la sua zona e conferirvi il rifiuto (in senso conforme cfr. il portale web http://www.ecopneus.it/ di Ecopneus scpa, società per il rintracciamento, la raccolta, il trattamento e la destinazione finale di Pneumatici Fuori Uso (PFU),
Pneumatici fuori uso
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creata dai principali produttori di pneumatici operanti in Italia in base all’art. 228 del D.L.vo 152/06). Tale conclusione trova conferma nell’articolato del D.M. 8 aprile 2008 il quale, all’Allegato 1, punto 32, prevede che possono essere conferiti presso i centri di raccolta gli “pneumatici fuori uso (solo se conferiti da utenze domestiche) – (codice CER 16.01.03)”.
È possibile conferire in discarica, ad uso ingegneristico, pneumatici fuori uso? Se ciò fosse praticabile, come devono essere considerati detti pneumatici?
147.
L’art. 6, c. 1, lett. o), del D.L.vo 36/03 vieta il conferimento degli pneumatici in discarica (e ciò già a far data dal 16 luglio 2003) ad eccezione di quelli usati per scopi ingegneristici, quindi, di fatto conferiti all’impianto non per lo smaltimento (che sarebbe vietato) ma per uso diverso. Per quanto sopra detto si ritiene – non trovando peraltro alcun elemento contrario – che tali materiali non debbano essere trattati alla stregua di rifiuti, ma come strutture a servizio della discarica.
126
Produttore/Detentore
148.
Qual è la nozione di produttore dei rifiuti?
L’art. 183, co. 1, D.L.vo 152/06 ripropone una definizione di produttore molto simile al precedente art. 6 del D.L.vo 22/97, individuando costui nella persona (fisica o giuridica) “la cui attività ha prodotto rifiuti cioè il produttore iniziale o il soggetto che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti”. Si fa notare peraltro che in una versione non definitiva di tale norma il legislatore aveva aggiunto l’avverbio “materialmente” tra “prodotto” e “rifiuti”, ma tale termine non si ritrova più nella versione definitiva. È pertanto da ritenere che anche oggi sia dunque identificabile come produttore “non soltanto il soggetto dalla cui attività materiale sia derivata la produzione dei rifiuti” (ad es.: sub-appaltatore), ma anche “il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione” (ad es.: appaltatore), rimanendo comunque escluso “direttamente” dall’applicazione della norma sulle responsabilità colui che ha deciso di effettuare quei lavori; tale soggetto, infatti, incarica un altro soggetto di svolgere un’operazione dalla quale – eventualmente ed in quantità e qualità in origine ignote – viene generato un rifiuto di cui questo secondo soggetto dovrà “disfarsi” correttamente.
Qual è l’orientamento giurisprudenziale in merito alla individuazione del produttore?
149.
La giurisprudenza si è più volte espressa sulla nozione di produttore: esemplare, al riguardo, è la sentenza Cass. Pen., Sez. III, n. 137 del 9 gennaio 2007, Mancini, secondo la quale “tale posizione [attivarsi per impedire l’evento naturalistico di lesione dell’interesse tutelato] è configurabile nei confronti del produttore dei rifiuti il quale è tenuto a vigilare che propri dipendenti o altri sottoposti o delegati osservino le norme ambientalistiche, dovendosi intendere produttore di rifiuti … non soltanto il soggetto dalla cui attività materiale sia derivata la produzione dei rifiuti, ma anche il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione ed a carico del quale sia quindi configurabile, quale titolare di una posizione definibile come di garanzia, l’obbligo … di provvedere allo smaltimento dei detti rifiuti nei modi prescritti”. Qualcuno, interpretando erroneamente la citata pronuncia, potrebbe ritenere che ciò portasse ad una reviviscenza della precedente sentenza Cass. Pen., Sez. III, n. 4957 del 21 aprile 2000, Rigotti ed altri, in cui leggeva che “il riferimento all’«attività» pro-
Produttore/Detentore
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duttrice di rifiuti non può essere limitato solo a quella materiale ma deve essere estesa pure a quella «giuridica» ed a qualsiasi intervento, che determina, poi, in concreto la produzione di rifiuti, sicché anche il proprietario dell’immobile committente o l’intestatario della concessione edilizia con la quale si consente l’edificazione di un nuovo edificio previa demolizione di altro preesistente devono essere considerati produttori dei rifiuti derivanti dall’abbattimento del precedente fabbricato”. In realtà si tratta di una posizione isolata, perché Cass. Pen. 137/07 legge finalmente il concetto di “attività di produzione di rifiuti” in accordo con la posizione di garanzia e di vigilanza sui propri dipendenti, sottoposti o delegati: il produttore, in altre parole, si assume l’impegno di svolgere un’attività che (presumibilmente) produrrà rifiuti. Anche se si volesse dar ragione a Cass. Pen. 4597/00, è innegabile che dal punto di vista pratico la situazione sarebbe ingestibile: in altre parole, se produttore è l’impresa ma anche il committente, l’impresa come trasporta questi rifiuti? Con quali documenti? Con quale autorizzazione? Se tale concetto non fosse insito nelle norme qui richiamate, perché mai l’art. 212, co. 8, D.L.vo 152/06 prevede l’iscrizione, seppur semplificata all’Albo, delle “imprese che esercitano la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare”? Implicitamente tale norma riconosce queste categorie di soggetti, tra cui imprese di demolizione e di manutenzione, come produttrici di rifiuti al punto che si devono far carico della gestione dei loro rifiuti. Il fatto che spetti al manutentore/demolitore occuparsi dello smaltimento dei rifiuti è una previsione garantista, in quanto si tratta di soggetti che, senza dubbio meglio di un privato, hanno mezzi e competenze per poterlo fare correttamente. Sul punto si segnala altresì la posizione di Cass. Pen., Sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1340 secondo la quale “non può essere considerato produttore di rifiuti propri il soggetto che provvede allo smantellamento di impianti industriali altrui, trasportati in un area in sua dotazione, ove procede alla separazione dei vari metalli, al recupero dei residui riutilizzabili e all’accumulo degli scarti; i rifiuti, infatti, assumono tale carattere fin dal momento in cui vengono dimessi dal titolare dell’impianto che li conferisce per lo smaltimento”. Per evitare facili equivoci e confusioni è importante sottolineare che tale principio è stato pronunciato relativamente ad un particolare caso riguardante un grande cantiere e, pertanto, deve essere letto contestualizzando la realtà fattuale che lo riguarda.
Quale ruolo e responsabilità sono proprie del produttore di rifiuti per una corretta gestione dei rifiuti? 150.
Il produttore prende parte attiva al meccanismo della corretta gestione dei rifiuti, con l’obbligo di rispettare quanto prevede l’art. 178 del D.L.vo 152/06, cioè che: “La gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti…”. Compito del produttore è senz’altro quello di affidare il rifiuto ad un trasportatore abilitato che porti il carico verso l’impianto di recupero o smaltimento preventivamente individuato.
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Il produttore deve prestare molta attenzione nella scelta dei propri partners commerciali (smaltitore, trasportatore, intermediario) non solo per il principio della corresponsabilità appena sopra citato ma anche in ossequio a quanto disposto dall’art. 188 (oneri dei produttori e dei detentori), per cui egli non può pensare di essere “a posto” per effetto del mero ricevimento della quarta copia del formulario; infatti la giurisprudenza è conforme nel ritenerlo altresì gravato di un ulteriore onere (o comportamento virtuoso) consistente nella verifica delle autorizzazioni degli altri soggetti professionali che gestiscono i suoi rifiuti.
Come possono essere compiuti i controlli sulle autorizzazioni e iscrizioni all’Albo dei soggetti che vengono in contatto con il produttore nel ciclo di gestione dei rifiuti?
151.
Partendo dal contenuto dell’atto autorizzatorio è possibile delineare gli aspetti principali dell’autorizzazione allo svolgimento delle operazioni di gestione rifiuti sui quali deve essere effettuato un controllo preliminare all’avvio dell’accordo commerciale da parte del produttore di rifiuti. Nel caso in cui il produttore intenda conferire i rifiuti ad un impianto di smaltimento o recupero, nell’atto autorizzatorio dell’impianto medesimo devono essere indicati: i tipi ed i quantitativi di rifiuti da smaltire o da recuperare; i requisiti tecnici con particolare riferimento alla compatibilità del sito, alle attrezzature utilizzate, ai tipi ed ai quantitativi massimi di rifiuti ed alla conformità dell’impianto al progetto approvato; le precauzioni da prendere in materia di sicurezza ed igiene ambientale; la localizzazione dell’impianto da autorizzare; il metodo di trattamento e di recupero; le prescrizioni per le operazioni di messa in sicurezza, chiusura dell’impianto e ripristino del sito; le garanzie finanziarie richieste, che devono essere prestate solo al momento dell’avvio effettivo dell’esercizio dell’impianto e la data di scadenza dell’autorizzazione, portata a 10 anni dal momento del rilascio, salva richiesta di rinnovo 180 giorni prima della scadenza. Sono pertanto proprio questi i dati che il produttore deve verificare prima di affidare all’impianto di destino i propri rifiuti. In particolare si ricorda che il produttore deve sempre essere in possesso di copia dell’autorizzazione dell’impianto di destino. Il medesimo ragionamento vale per il caso in cui l’impianto di destino sia un impianto di recupero che svolge attività secondo le procedure cosiddette semplificate, ovvero, ai sensi dell’art. 214 e seguenti. Tale impianto opera sul mercato del recupero dei rifiuti per mezzo di apposita iscrizione all’Albo dei recuperatori, oggi tenuto dalle sezioni regionale dell’Albo nazionale gestori ambientali, quindi non possiede una vera e propria autorizzazione, ma una certificazione di iscrizione, in corso di validità (durata 5 anni), all’Albo. Qualora il produttore conferisca i rifiuti ad un trasportatore, dovrà verificare che il trasportatore stesso sia iscritto ad idonea categoria dell’Albo gestori (quindi non ha una autorizzazione ma una certificazione dell’iscrizione all’Albo), e sia in possesso di copia della sua iscrizione, dalla quale si evince quali tipologie di rifiuti può trasportare e con quali mezzi.
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Preparazione per il riutilizzo e riutilizzo
152.
Che differenza c’è tra “riutilizzo” e “preparazione al riutilizzo”?
Il “riutilizzo” e la “preparazione al riutilizzo” sono due novità introdotte dalla Direttiva 98/2008/CE e recepite in Italia con il D.L.vo 205/10. A norma dell’art. 3 (punti da 13 a 17) della Direttiva si deve intendere per: – “riutilizzo”, qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti; – “preparazione per il riutilizzo”, le operazioni di controllo, pulizia e riparazione attraverso cui prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento. L’art. 10 del citato D.L.vo 205 ha recepito le predette definizioni introducendole nell’art. 183 del D.L.vo 152/06 senza introdurre alcuna differenza, fatta una piccola eccezione di cui si scriverà subito di seguito. La “preparazione per il riutilizzo” viene definita come le operazioni di controllo, pulizia, smontaggio (che non è contenuta nella definizione comunitaria ma sono in quella italiana) e riparazione attraverso cui prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento. Appare evidente che essa riguarda prodotti o componenti diventati rifiuti. Detta definizione non può leggersi che insieme a quella successiva della lettera r), sempre del nuovo art. 183, che riguarda il “riutilizzo”. Quest’ultimo viene inteso come qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti. Se la “preparazione per il riutilizzo” riguarda un prodotto o un componente diventato un rifiuto, il riutilizzo concerne un prodotto o un componente che non è (più) un rifiuto.
La preparazione per il riutilizzo è attività che necessita di autorizzazione? 153.
La dottrina afferma in maniera concorde che la preparazione per il riutilizzo deve essere considerata una delle forme di recupero e come tale deve essere autorizzata; essa infatti si riferisce ad alcune operazioni materiali “… controllo, pulizia, smontaggio e riparazione” che vengono svolte su “…prodotti o componenti di prodotti” che sono
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“…diventati rifiuti”, allo scopo di prepararli ad essere nuovamente reimpiegabili in nuovi cicli di consumo. Come ulteriore operazione di recupero, la preparazione per il riutilizzo deve essere oggetto di autorizzazione, non certo nei termini di una delle dodici operazioni di recupero di cui all’Allegato C del D.L.vo 152/06 bensì come R13, poiché chi effettua le operazioni sui prodotti o componenti di prodotti divenuti rifiuti avrà, per lo meno, la preliminare necessità di gestirli in “messa in riserva”, per poi svolgervi le operazioni descritte dalla norma (ma senza alcun altro pretrattamento). A tal punto si sottolinea che non si è nemmeno d’accordo con chi vorrebbe inquadrare tale operazione in quella di cui all’R12, ipotizzando almeno la “separazione” quale operazione rientrante in tale tipologia. In realtà l’R12 rimanderebbe comunque necessariamente ad una delle operazioni tra quelle da R1 a R11 e pertanto non si capirebbe proprio né l’utilità né il favor. La realtà è che si tratti di un’operazione di trattamento generico, non rientrante tra quelle specifiche degli allegati B e C (v. quesito n. 343), che deve essere esplicitata con chiarezza in fase di autorizzazione, e con riferimento alla quale le pubbliche amministrazioni devono agire con la massima disponibilità. La necessità dell’autorizzazione viene confermata del resto anche dall’art. 180 bis secondo il quale “le pubbliche amministrazioni promuovono iniziative atte a favorire il riutilizzo dei prodotti e la preparazione per il riutilizzo dei rifiuti: tale iniziative possono consistere anche in misure logistiche, come la costituzione ed il sostegno di centri e reti accreditati di riparazione/riutilizzo…”. D’altro canto il successivo comma 2, sempre dell’art. 180 bis, prevede che con uno o più decreti siano previste le modalità operative per la costituzione e il sostegno di reti e centri accreditati “(…) compresa la definizione di procedure autorizzative semplificate e di un catalogo esemplificativo di prodotti e di rifiuti prodotti che possono essere sottoposti, rispettivamente, a riutilizzo o a preparazione per il riutilizzo”. Ma v’è di più, l’art. 184 ter (riguarda la cessazione della qualifica di rifiuto) prevede che “Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto ad un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo”. Non possono, quindi, esserci dubbi sul fatto che la preparazione per il riutilizzo è un’operazione di recupero. Magari, come stabilisce lo stesso art. 184 ter “L’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni”. Infine si segnala che si è in attesa di un Decreto ministeriale che avrebbe dovuto essere emanato nel giugno 2011.
Il trasporto di un prodotto da riutilizzare può considerarsi trasporto di rifiuti?
154.
Se la “preparazione per il riutilizzo” riguarda un prodotto o un componente diventato un rifiuto, il riutilizzo concerne un prodotto o un componente che non è (più) un rifiuto. Ne deriva che il trasporto del prodotto da “riutilizzare” tal quale non sarà assoggettato alle regole del trasporto di rifiuti.
Preparazione per il riutilizzo e riutilizzo
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Quali vantaggi potrebbero comportare il riutilizzo e la preparazione per il riutilizzo? 155.
Posta la necessità di ottenere una autorizzazione in termini ordinari e almeno collegata alla messa in riserva dei rifiuti in ingresso, il vantaggio è quello economico e di mercato di riuscire, con modalità che non sono inquadrabili nelle ordinarie procedure di recupero, ad effettuare un percorso di operazioni materiali sui rifiuti tale per cui si ottiene, pur non corrispondendo a specifiche UNI, un “prodotto” vendibile e richiesto.
156.
Ci sono esempi di “riutilizzo” e “preparazione al riutilizzo”?
In argomento non si può non segnalare il contenuto dell’All. L alla parte IV del TUA (introdotto dal D.L.vo 205/10), che contiene, in ottemperanza a quanto dispone anche la Dir. 98/2008/CE, utili esempi. Esso prevede: “Misure che possono incidere sulle condizioni generali relative alla produzione di rifiuti: 1. Ricorso a misure di pianificazione o ad altri strumenti economici che promuovono l’uso efficiente delle risorse. 2. Promozione di attività di ricerca e sviluppo finalizzate a realizzare prodotti e tecnologie più puliti e capaci di generare meno rifiuti; diffusione e utilizzo dei risultati di tali attività. 3. Elaborazione di indicatori efficaci e significativi delle pressioni ambientali associate alla produzione di rifiuti volti a contribuire alla prevenzione della produzione di rifiuti a tutti i livelli, dalla comparazione di prodotti a livello comunitario attraverso interventi delle autorità locali fino a misure nazionali. Misure che possono incidere sulla fase di progettazione e produzione e di distribuzione: 4. Promozione della progettazione ecologica (cioè l’integrazione sistematica degli aspetti ambientali nella progettazione del prodotto al fine di migliorarne le prestazioni ambientali nel corso dell’intero ciclo di vita). 5. Diffusione di informazioni sulle tecniche di prevenzione dei rifiuti al fine di agevolare l’applicazione delle migliori tecniche disponibili da parte dell’industria. 6. Organizzazione di attività di formazione delle autorità competenti per quanto riguarda l’integrazione delle prescrizioni in materia di prevenzione dei rifiuti nelle autorizzazioni rilasciate a norma della presente direttiva e della direttiva 96/61/CE. 7. Introduzione di misure per prevenire la produzione di rifiuti negli impianti non soggetti alla direttiva 96/61/CE. Tali misure potrebbero eventualmente comprendere valutazioni o piani di prevenzione dei rifiuti. 8. Campagne di sensibilizzazione o interventi per sostenere le imprese a livello finanziario, decisionale o in altro modo. Tali misure possono essere particolarmente efficaci se sono destinate specificamente (e adattate) alle piccole e medie imprese e se operano attraverso reti di imprese già costituite. 9. Ricorso ad accordi volontari, a panel di consumatori e produttori o a negoziati settoriali per incoraggiare le imprese o i settori industriali interessati a predisporre i
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La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
propri piani o obiettivi di prevenzione dei rifiuti o a modificare prodotti o imballaggi che generano troppi rifiuti. 10.Promozione di sistemi di gestione ambientale affidabili, come l’EMAS e la norma ISO 14001. Misure che possono incidere sulla fase del consumo e dell’utilizzo: 11.Ricorso a strumenti economici, ad esempio incentivi per l’acquisto di beni e servizi meno inquinanti o imposizione ai consumatori di un pagamento obbligatorio per un determinato articolo o elemento dell’imballaggio che altrimenti sarebbe fornito gratuitamente. 12.Campagne di sensibilizzazione e diffusione di informazioni destinate al pubblico in generale o a specifiche categorie di consumatori. 13.Promozione di marchi di qualità ecologica affidabili. 14.Accordi con l’industria, ricorrendo ad esempio a gruppi di studio sui prodotti come quelli costituiti nell’ambito delle politiche integrate di prodotto, o accordi con i rivenditori per garantire la disponibilità di informazioni sulla prevenzione dei rifiuti e di prodotti a minor impatto ambientale. 15.Nell’ambito degli appalti pubblici e privati, integrazione dei criteri ambientali e di prevenzione dei rifiuti nei bandi di gara e nei contratti, coerentemente con quanto indicato nel manuale sugli appalti pubblici ecocompatibili pubblicato dalla Commissione il 29 ottobre 2004. 16.Promozione del riutilizzo e/o della riparazione di determinati prodotti scartati, o loro componenti in particolare attraverso misure educative, economiche, logistiche o altro, ad esempio il sostegno o la creazione di centri e reti accreditati di riparazione/riutilizzo, specialmente in regioni densamente popolate.
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Raccolta differenziata
157. Quali sono le novità introdotte dal D.L.vo 205/10 in materia di raccolta differenziata?
Prima dell’entrata in vigore del D.L.vo 205/10 la raccolta differenziata era definita “la raccolta idonea a raggruppare i rifiuti urbani in frazioni merceologiche omogenee compresa la frazione organica umida, destinate al riutilizzo, al riciclo ed al recupero di materia. La frazione organica umida è raccolta separatamente o con contenitori a svuotamento riutilizzabili o con sacchetti biodegradabili certificati”. Per effetto delle modifiche apportate all’art. 183 TUA dal citato decreto, la raccolta differenziata è “la raccolta in cui un flusso di rifiuti è tenuto separato in base al tipo ed alla natura dei rifiuti al fine di facilitarne il trattamento specifico”. Il venir meno, rispetto alla precedente dicitura, del riferimento ai rifiuti urbani rende la definizione attuale molto più vicina al concetto espresso dalle direttive comunitarie in materia, ed implica la necessità di rivedere anche tutte le disposizioni, segnatamente le deliberazioni dell’Albo nazionale gestori ambientali, che avevano ritenuto che tale concetto trovasse applicazione solo nell’ambito della gestione di rifiuti urbani, con la conseguenza di ritenere che anche in sede di attribuzione del Codice identificativo del rifiuto, desunto dal Catalogo Europeo dei Rifiuti, i codici dal capitolo 20 fossero utilizzabili solo per identificare i rifiuti urbani raccolti dal Comune dal concessionario del servizio pubblico.
Attraverso quali modalità può essere strutturata la raccolta differenziata all’interno di un condominio? 158.
La raccolta differenziata posta in essere dai condomini all’interno di un locale a ciò deputato, accessibile solo ed esclusivamente dagli stessi, è un’attività più che lecita, in quanto il locale destinato alla raccolta rifiuti va considerato parte comune: infatti, già la Corte di Cassazione con sentenza n. 428 dell’11 febbraio 1966 aveva ritenuto che alle parti comuni, quali la lavanderia, la portineria, etc … “va assimilato un locale destinato alla raccolta di rifiuti, ossia ad un servizio di comune interesse per i condomini”. Peraltro, si ritiene che la decisione di collocare i contenitori in un’area chiusa e delimitata assolva, oltre all’esigenza estetica di non posizionare in bella vista i rifiuti, anche alla funzione di evitare atti vandalici o sconsiderati conferimenti estranei che pregiudicano la responsabile gestione dei rifiuti condotta dai condomini. Non risulta, pertanto, corretto che individui terzi, peraltro non soggetti al pagamento della tassa
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rifiuti in funzione delle ripartizioni immobiliari del condominio (Cass. civ., n. 15131 del 28 novembre 2001), possano accedere a tale area e ivi depositare i loro rifiuti. Discorso diverso, invece, deve essere svolto per le tradizionali campane per la raccolta differenziata dei rifiuti collocate (non da privati, ma da enti preposti a tale servizio) ai margini delle strade, presso le quali qualsiasi soggetto, anche un condomino, può conferire vetro, lattine, carta, etc ‌ per meglio effettuare la raccolta differenziata. Queste, correttamente, sono e devono essere accessibili da parte di tutta la collettività , nell’ottica del servizio di pubblico interesse svolto dal Comune per i suoi cittadini.
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RAEE
Quale disciplina si applica alla gestione dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche?
159.
Per la corretta gestione dei RAEE, le due direttive comunitarie del gennaio 2003 (Direttive 2002/96/CE e 2002/95/CE), oltre alla successiva 2003/108/CE intervenuta a modifica ed integrazione della Direttiva 2002/96/CE, sono state recepite in Italia attraverso il D.L.vo 25 luglio 2005, n. 151, in vigore dal 13 agosto 2005 ma di fatto reso operativo solo dopo l’emanazione del DM 8 marzo 2010 n. 65: il decreto semplificazione RAEE. 160. A seguito dell’entrata in vigore della disciplina sulla corretta gestione dei RAEE del 2005, è obbligatoria la domanda di adeguamento per i titolari di impianti di stoccaggio, trattamento e recupero di RAEE?
Il D.L.vo 25 luglio 2005, n. 151 (GU n. 176 del 30 luglio 2005), in vigore dal 14 agosto 2005, dispone all’art. 20, cc. 1 e 2, che “i titolari degli impianti di stoccaggio, di trattamento e di recupero di RAEE autorizzati ai sensi degli articoli 27 e 28 del decreto legislativo n. 22 del 1997, in esercizio alla data di entrata in vigore del presente decreto, presentano, se necessario, domanda di adeguamento alle prescrizioni di cui agli allegati 2 e 3, entro tre mesi dall’entrata in vigore del presente decreto, ed adeguano gli impianti entro 12 mesi dalla presentazione della domande. Nelle more dell’adeguamento è consentita la prosecuzione dell’attività. Al fine di verificare il rispetto delle prescrizioni previste dal presente decreto, la provincia competente per territorio procede, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, all’ispezione degli impianti in esercizio alla stessa data che effettuano l’attività di trattamento e di recupero di RAEE ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo n. 22 del 1997. La provincia, se necessario, stabilisce le modalità ed i tempi per conformarsi a dette prescrizioni, che comunque non possono essere superiori a 12 mesi, consentendo nelle more dell’adeguamento la prosecuzione dell’attività. In caso di mancato adeguamento nei modi e nei termini stabiliti l’attività è interrotta”. Da quanto riportato emerge innanzitutto che la domanda di adeguamento, da presentarsi entro il 14 novembre 2005, non era obbligatoria, ma eventuale: la norma recita, infatti, che “i titolari degli impianti di stoccaggio … presentano, se necessario, domanda di adeguamento”.
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Si tenga inoltre presente che è solo con la pubblicazione di due D.M., ovvero il D.M. 6 ottobre 2007, n. 233 che ha istituito il comitato di vigilanza e controllo, nonché il D.M. 25 settembre 2007, n. 185 relativo al registro dei produttori di AEE, che è stato dato l’avvio (senza completarla) alla realizzazione del sistema di recupero e smaltimento delle apparecchiature fuori vita, molto spesso contenenti componenti pericolose.
Qualora vengano prodotti RAEE professionali, è possibile richiedere raccolta, trasporto, smaltimento e recupero ai produttori di AEE?
161.
L’art. 12 del D.L.vo 151/05 individua la corretta gestione dei Raee professionali, prevedendo che: – il finanziamento delle operazioni di raccolta, trasporto, trattamento, recupero e smaltimento di Raee professionali originati da Aee immesse sul mercato prima del 13 agosto 2005 è a carico del produttore solo nel caso di fornitura di una nuova Aee, mentre negli altri casi è a carico del detentore; – il finanziamento delle operazioni di raccolta, trasporto, trattamento, recupero e smaltimento di Raee professionali originati da Aee immesse sul mercato dopo il 13 agosto 2005 è a carico del produttore. Diversamente dalle direttive europee 2002/95/CE, 2002/96/CE e 2003/108/CE concernenti i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, il D.L.vo 151/05 prevede pertanto che il commerciante ritiri solamente un’Aee usata, anziché un Raee: tale diventerà solo a seguito di esito negativo della verifica operata dal distributore riguardante il suo possibile reimpiego. Questa situazione porta con sé alcune conseguenze: – la responsabilità di decidere che cosa debba essere considerato rifiuto viene attribuita ai distributori; – il rifiuto viene considerato prodotto dall’attività commerciale e non come ritirato da terzi; – viene meno la necessità di ottenere autorizzazioni e di fare gli adempimenti documentali, quali registro, formulari, Mud. 162.
Quali sono i tratti salienti del DM “uno contro uno”?
Il D.M. 8 marzo 2010, n. 65, Regolamento recante modalità semplificate di gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) da parte dei distributori e degli installatori di apparecchiature elettriche e elettroniche (AEE), nonché dei gestori dei centri di assistenza tecnica di tali apparecchiature, (pubblicato sulla G.U. n. 102 del 4 maggio 2010) adempie al disposto di cui all’art. 6, c. 1, lett. b), del D.L.vo 151/05, che prevede l’obbligo, per i distributori di AEE, di assicurare il ritiro gratuito, in ragione di uno contro uno, dell’apparecchiatura usata al momento della fornitura di una nuova apparecchiatura ad un nucleo domestico, provvedendo al trasporto dei RAEE presso i centri di raccolta comunali organizzati dai produttori, e alla previsione di cui al c. 1-bis, secondo il quale con decreto del Ministro dell’ambiente sono individuate, nel rispetto delle norme comunitarie e anche in deroga alle disposizioni della parte IV del D.L.vo 152/06, specifiche modalità semplificate per la raccolta e il trasporto dei RAEE ritirati da parte dei distributori.
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Il D.M. 65/2010 è suddiviso in 3 capi (capo I – modalità semplificate per la gestione dei RAEE domestici; capo II – modalità semplificate per la gestione dei RAEE professionali; capo III – disposizioni finali), consta di 11 articoli e di 3 allegati (all. I – schedario di carico e scarico dei RAEE conferiti ai distributori, installatori, gestori dei centri di assistenza tecnica; all. II – documento semplificato di trasporto dei RAEE; all. III – documento attestante la provenienza domestica dei RAEE consegnati dagli installatori e dai gestori dei centri di assistenza tecnica ai centri di raccolta). Il Regolamento introduce nuove modalità di gestione e nuovi obblighi. I destinatari di tali oneri sono i distributori, compresi coloro che effettuano televendite o vendite elettroniche, gli installatori e i gestori di assistenza tecnica mentre oggetto del D.M. in esame soni i RAEE domestici, cioè provenienti da nuclei domestici e anche di altra origine ma analoghi per natura e quantità e i RAEE professionali, o meglio quei rifiuti di AAE prodotti dalle attività amministrative ed economiche e non rientranti nella tipologia dei domestici. Per poter ritirare i RAEE consegnati dai clienti, in primo luogo i negozianti devono inviare una comunicazione per posta alla sezione regionale dell’Albo Gestori Ambientali, tenuta dalla camera di commercio del capoluogo regionale. Si precisa che non esiste un modulo ad hoc per la predetta comunicazione, ma il commerciante dovrà indicare il sito scelto per lo stoccaggio dei RAEE e confermarne l’adeguatezza allo scopo. Una volta entrato in vigore tale D.M. sarà predisposto un software per la comunicazione on line. Per quel che riguarda i clienti (gli acquirenti), invece, il Regolamento stabilisce che all’atto di acquisto di un nuovo apparecchio elettrico o elettronico, gli stessi potranno consegnare al distributore il rifiuto di natura equivalente. Per RAEE di natura equivalente deve intendersi un apparecchio tecnologico obsoleto posto sul mercato per svolgere una funzione analoga a quella del nuovo apparecchio acquistato (sarà pertanto possibile acquistare un nuovo lettore mp3 e restituire un vecchio walkman). Inoltre, occorre evidenziare che non è affatto necessario che il RAEE conferito sia della stessa marca del nuovo apparecchio che si vuole acquistare né, tantomeno, si dovrà dimostrare di aver comperato il vecchio apparecchio obsoleto proprio nell’esercizio commerciale in cui si vuole conferirlo. In merito a quest’ultima osservazione, va evidenziato che questa ulteriore semplificazione per il cliente trova la sua ratio nel fatto che i successivi meccanismi di raccolta e conferimento dei rifiuti al centro di raccolta comunale sono organizzati e finanziati dai sistemi collettivi creati dai produttori ed importatori di apparecchiature elettriche, strutturati al fine di assicurare il raggiungimento degli obiettivi di raccolta e recupero dei rifiuti stabiliti a livello comunitario. Le principali novità di procedura attengono alle operazioni di ritiro dei RAEE che vengono definite come raggruppamento (art.1 co. 2) ed equiparate alle attività di raccolta, così come definita dall’art. 183 co. 3 lett. o) del D.L.vo 152/06, stabilendo che la possibilità di effettuare il raggruppamento sia condizionata alla preventiva iscrizione ad una nuova sezione dell’Albo gestori Ambientali. Tuttavia, in sede di prima applicazione del decreto, tale obbligo di iscrizione si intende assolto con una comunicazione alla sezione regionale dell’Albo Gestori Ambientali (art.11). Sempre riguardo al concetto di “raggruppamento” – che potrà essere effettuato anche da installatori e dai gestori dei centri di assistenza – si stabilisce che lo stesso potrà aver luogo sia nei locali propri del distributore, cioè nel negozio stesso, sia pres-
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so locali di titolarità di terzi purché ciò risulti dalla relativa comunicazione all’Albo Gestori Ambientali (art. 3). I presupposti dello stoccaggio dei RAEE sono disciplinati nel decreto in oggetto che prevede requisiti particolari per i locali adibiti al magazzinaggio che dovranno essere idonei, non accessibili a terzi e pavimentati. Inoltre si precisa che i RAEE in questione dovranno comunque essere protetti dalla acque meteoriche di dilavamento e dall’azione del vento e, ai sensi dell’art. 187, co. 1 D.L.vo 152/06 si dovranno tenere separati i rifiuti pericolosi da quelli non pericolosi. L’asportazione dei rifiuti così raggruppati e il successivo conferimento presso i centri di raccolta autorizzati di cui all’art. 6 co. 1 lett. a) e c) del D.L.vo 151/05, dovrà avere cadenza mensile e dovrà, comunque, essere effettuata quando il quantitativo di RAEE raggruppato raggiunga complessivamente i 3500kg da autocarri con una massa non superiore a 60 quintali (anche se i mezzi attualmente utilizzati dagli operatori del settore hanno tutti portata di 75 quintali!). Le notevoli semplificazioni burocratiche si rinvengono soprattutto nelle disposizioni relative alla tenuta dei registri e formulari. Infatti per il commerciante, il raggruppamento dei RAEE dismessi dagli utilizzatori non comporta la tenuta del registro di carico e scarico poiché questo adempimento verrà sostituito da uno schedario apposito (conforme al modello contenuto nell’allegato I del presente decreto), numerato progressivamente, contenente i dati anagrafici del cliente che conferisce il rifiuto e la tipologia dello stesso. Tale schedario, integrato con il documento di trasporto di cui si tratterà in seguito, dovrà essere conservato per tre anni. Inoltre coloro che effettuano attività di trasporto e raccolta di RAEE sono altresì esonerati dalla tenuta del MUD (art.9). Per quel che attiene al trasporto dei rifiuti medesimi, dall’abitazione dell’utilizzatore al centro di raggruppamento e da quest’ultimo al centro di raccolta dei rifiuti urbani, il D.M. citato prevede un nuovo documento di trasporto (conforme al modello di cui all’allegato II del medesimo decreto) che sostituirà in tutto e per tutto il formulario di identificazione di cui all’art. 193, D.L.vo 152/06. Quest’ultimo documento di trasporto non richiederà una preventiva vidimazione e sarà predisposto in tre copie e dovrà essere conservato per tre anni. Questo stesso documento, inoltre, consentirà anche al trasportatore terzo di adempiere agli obblighi di tenuta del registro di carico e scarico. Va evidenziato, ancora, che il trasporto di RAEE effettuato da soggetti diversi rispetto ai distributori, ma da questi autorizzati ed incaricati, potrà avvenire a seguito di iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali secondo una nuova procedura semplificata e che tali trasportatori di RAEE conto terzi, possano adempiere alle formalità previste dal registro di carico e scarico con la conservazione del summenzionato documento di trasporto per un periodo di cinque anni. Sebbene non previsto dal decreto 151/2005, il recente D.M. statuisce, altresì, che i distributori di AAE “vengono formalmente incaricati dai produttori di provvedere al ritiro” (art. 5 co. 1) dei RAEE professionali. In merito al regime sanzionatorio introdotto dal decreto, all’art. 10 del medesimo provvedimento si precisa che i soggetti che effettuano attività di raccolta e trasporto dei RAEE sono assoggettati, in caso di infrazioni, alle sanzioni di cui all’art. 256 e 258 del D.L.vo 152/06. Un ultimo accenno merita l’eventuale interazione del ciclo dei RAEE con l’entrata in vigore della disciplina sulla tracciabilità digitale dei rifiuti (Sistri).
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Orbene, poiché le nuove disposizioni sui RAEE si configurano come norme speciali disciplinanti le gestione di una particolare categoria di rifiuti, ad esse non si applicheranno le disposizioni del decreto Sistri, essendo garantita la tracciabilità dei rifiuti elettrici ed elettronici attraverso i semplici adempimenti sopra descritti.
Chi conferisce RAEE provenienti da utenze domestiche ad un centro di raccolta è tenuto alla compilazione del FIR?
163.
Innanzitutto occorre evidenziare che l’esclusione del formulario opera solo se i rifiuti (urbani) sono trasportati dal gestore del servizio pubblico e pertanto, quando i rifiuti sono trasportati al centro da parte di enti o imprese diversi dal gestore del servizio pubblico, il viaggio deve sempre essere accompagnato dal formulario per il trasporto (escluso peraltro il conferimento diretto da parte dei cittadini). L’esclusione per i rifiuti non pericolosi da sé stessi prodotti (di cui all’art. 193, comma 4, D.L.vo 152/06) è subordinata alla non prevedibilità del trasporto (occasionale e saltuario). In questi casi, quindi, il produttore deve dimostrare la non prevedibilità al gestore del centro. Diversamente, è opportuno che il gestore non accetti il conferimento. Tale esclusione, d’altronde, non è applicabile comunque nel caso di conferimento di Raee, allorquando ci si trovi di fronte a rifiuti pericolosi.
I cittadini che portano un frigorifero in ecostazione possono pretendere un certificato di corretto smaltimento per ottenere l’ecoincentivo?
164.
Per i frigoriferi che vengono consegnati presso le ecostazioni, affinché gli stessi vengano smaltiti, il riferimento di tipo fiscale è alla detrazione d’imposta prevista inizialmente dalla Legge finanziaria 2007, all’art. 1, comma 353, per le spese documentate inerenti la sostituzione di frigoriferi, congelatori e loro combinazioni con altri apparecchi di classe energetica non inferiore ad A+. La circolare n. 24 del 27 aprile 2007 dell’Agenzia delle entrate ha dettato le relative modalità applicative stabilendo che “Ai fini del riconoscimento della detrazione in esame si rende necessaria, oltre alla documentazione attestante l’acquisto dell’apparecchio – che deve essere costituita da fattura o da scontrino (c.d. parlante) recante i dati identificativi dell’acquirente, la classe energetica non inferiore ad A+ dell’elettrodomestico acquistato e la data di acquisto – una ulteriore documentazione da cui si possa evincere l’avvenuta sostituzione dell’elettrodomestico. A tal fine, il contribuente è tenuto a redigere apposita autodichiarazione, da conservare ed esibire agli uffici dell’Agenzia delle entrate in caso di eventuali richieste, dalla quale risulti la tipologia dell’apparecchio sostituito (frigorifero, congelatore, ecc…) e le modalità utilizzate per la dismissione dello stesso”. La Circolare, quindi, parla di autocertificazione, aggiungendo, inoltre che “La certificazione dovrà recare l’indicazione dell’impresa o dell’ente cui è stato conferito l’apparecchio o che abbia provveduto al ritiro o allo smaltimento dello stesso”, chiarendo, quindi, che sull’indicazione da fornire sull’autocertificazione non deve essere necessariamente indicato il soggetto che provvederà allo smaltimento del frigorifero, ma anche solo e semplicemente il centro di raccolta presso cui lo stesso è stato conferito.
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La Circolare che ha provveduto a fornire le modalità applicative relativamente alla detrazione, prevista dalla Legge finanziaria 2007 per il solo anno di riferimento, pare possa essere applicata, non riscontrandosi nuove o contrarie modalità applicative, anche ai periodi di imposta successivi. Infatti, la Legge Finanziaria 2008 ha prorogato la detrazione fiscale in esame, stabilendo – all’art. 1, comma 20 – che: “Le disposizioni di cui all’articolo 1, commi da 344 a 347, 353, 358 e 359, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si applicano, nella misura e alle condizioni ivi previste, anche alle spese sostenute entro il 31 dicembre 2010”. 165. Cosa prevede la disciplina sulle garanzie finanziarie di cui all’art. 11, c. 2 del D.L.vo 151/05?
La garanzia finanziaria prevista dalla norma in epigrafe, prevista al fine di assicurare che per ogni AEE dismessa e divenuta rifiuto, ci sia una somma di denaro vincolata per provvedere al loro trasporto dai centri di raccolta e al trattamento con relativo recupero o smaltimento, può, secondo la lettera della norma avere le forma di: – reale e valida cauzione – fideiussione bancaria – polizza assicurativa in virtù del richiamo a “quanto previsto dall’art. 1 della Legge 10 giugno 1982, n. 348” o, in alternativa la garanzia finanziaria può essere fatta secondo “modalità equivalenti… definite con decreto del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio….”. La mancata emanazione del decreto di attuazione sulle modalità della garanzia rende, a tutt’oggi, operante il solo riferimento alla Legge 348/1982, la quale non detta criteri specifici, per cui in attesa del Decreto attuativo, il ricorrere ad una forma di garanzia finanziaria, a copertura di un sistema di gestione non ancora operativo (il cui termine è stato prorogato al 31 dicembre 2009), ma di cui se n’è anticipata, a livello di singolo produttore la realizzazione, potrebbe rappresentare una forma cautelativa e coerente con la scelta di anticipata realizzazione del sistema, ma sguarnita della regolamentazione dei criteri relativi. Oltretutto, l’art. 20, co. 4 del D.L.vo 151/05, nel prevedere che nelle more della definizione di un sistema europeo di identificazione dei produttori, il finanziamento delle operazioni indicate all’art. 11 venga assolto dai produttori, entro e non oltre il 31 dicembre 2009 secondo il sistema previsto per i RAEE storici (di cui all’art. 10, c. 1), oltre ad evidenziare una condizione necessaria per l’entrata a regime del nuovo sistema, non fornisce alcun elemento che regolamenti una eventuale fase di attuazione anticipata (rispetto al termine de 31 dicembre 2009) del nuovo sistema. Altro elemento contenuto nella disposizione dell’art. 11 è quello che concerne il termine iniziale di costituzione della garanzia in esame, indicato nel momento in cui un’apparecchiatura elettrica od elettronica è immessa sul mercato, da intendersi come il momento in cui l’AEE passa dal produttore al distributore; in relazione alla medesima garanzia, occorrerebbe l’apprestamento di indicazioni specifiche in relazione ad ogni “apparecchiatura che viene immessa sul mercato”, considerato che la garanzia (a differenza del sistema forfettario “a quote” previsto per i Raee storici) si basa sul principio che il produttore, secondo le norme vigenti nell’ordinamento nazionale di riferimento, dovrebbe pagare solo per i prodotti che immette effettivamente sul mercato, indicazioni che si presume saranno incluse nel D.M. attuativo di cui all’art. 11, c. 2 del D.L.vo 151/05.
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Nel caso in cui i clienti portino i loro RAEE presso i punti vendita è obbligatorio il loro ritiro da parte dei distributori?
166.
È anzitutto da osservare che l’obbligo per i distributori di ritiro gratuito dei RAEE usati di cui all’art. 6 c. 1 lett. b) D.L.vo 151/05 per i RAEE domestici è previsto solo a fronte dell’acquisto di un nuovo elettrodomestico in sostituzione.
Posta come necessità quella di separare nel trasporto AEE e RAEE può essere realizzato tale adempimento per mezzo dell’apposizione di un apposito adesivo o di un calamitato sui RAEE ritirati? 167.
Innanzitutto occorre precisare che non esiste una norma che vieta il trasporto congiunto di beni e rifiuti, ma solamente norme che prevedono l’equivalenza tra l’uso di un FIR ed un CER, dalle quali, fino all’introduzione della nozione di microraccolta, si riteneva discendesse la necessità di far corrispondere anche un unico trasporto, allo scopo di agevolare i controlli sulla gestione. Ad oggi è riconosciuta e disciplinata dall’art. 193, c. 11 l’ipotesi della microraccolta, che da un punto di vista normativo non è preclusa per il carico di CER diversi, quindi è prevista la possibilità di trasportare unitamente diversi CER con l’obbligo di uso di diversi FIR. Posto che non esiste disciplina in tema di trasporto misto rifiuti/beni, nemmeno il “D.M. semplificazione” regolamenta questo aspetto specifico e tanto meno lo precisa il Consiglio di Stato, che nel suo parere favorevole con osservazioni al D.M., reso il 13 agosto 2008, accenna solamente, in termini molto generali, all’esigenza di “snellire” le pratiche per il trasporto, si ritiene particolarmente opportuna, ai fini di un miglior controllo da parte degli organi competenti, la proposta di segnalare chiaramente nel carico del vettore i RAEE (che avranno corrispondenti FIR di trasporto) rispetto AEE, che peraltro supponiamo siano anche imballati diversamente. Non essendovi regole precise le soluzioni proposte ci sembrano entrambe positive, privilegiando quella che consente di individuare in modo inequivoco il rifiuto sul mezzo di trasporto, per tutto il viaggio.
Quali sono le procedure da seguire a fronte di una richiesta di ritiro RAEE fatta da un’altra azienda, posto che non trattasi di RAEE professionali ma assimilabili ai domestici?
168.
Occorre premettere che la disciplina in materia di RAEE, di carattere speciale, trova applicazione (nella sua interezza, comprese le definizioni) con prevalenza per tutti quegli aspetti in essa normati rispetto a quella relativa alla generica gestione rifiuti; precisa infatti l’art. 2, co. 2 D.L.vo 151/05: “Sono fatte salve le disposizioni vigenti in materia di sicurezza dei prodotti, di tutela della salute dei lavoratori e di gestione dei rifiuti”. Quindi riprendendo le definizioni di RAEE date all’art. 3, co. 1 lett. o) e p) si può affermare che qualora un’azienda richieda l’acquisto di un AEE per natura e quantità analogo ad uno classificato quale “domestico” può, per analogia appunto, essere
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applicata dal distributore la medesima procedura prevista per il servizio di ritiro a domicilio dei clienti privati. Come già in precedenza analizzato il sistema ideato e messo in pratica dal distributore per il ritiro dei RAEE al domicilio dei privati, anticipando gli obblighi di legge, prevede che il punto vendita – previo accordo scritto con il cliente all’atto dell’acquisto – si assuma l’onere di ritiro dell’usato presso il domicilio del cliente al momento di consegna dell’elettrodomestico nuovo. Ciò avviene attraverso la compilazione di un “Modulo di affidamento RAEE”, ove il cliente, solo a fronte dell’acquisto di un nuovo AEE, si impegna già presso il punto vendita a consegnare quello che, al momento del ritiro presso il suo domicilio, diverrà un RAEE. Il punto vendita organizza il ritiro del rifiuto, in tal modo decidendo il momento in cui “disfarsi” dello stesso, ovvero assumendo la qualifica di produttore iniziale poiché è a quest’ultimo giuridicamente riferibile l’attività (e la volontà) generatrice del rifiuto. La stessa situazione si può verificare anche nell’ipotesi dell’azienda, posto che il RAEE sia di tipo analoga a quelli dei nuclei domestici. Infatti il soggetto che, inviato dall’azienda presso il p.v. del distributore, acquista l’elettrodomestico, dovrà anche impegnarsi seppur a nome della società, alla sottoscrizione e compilazione del “Modulo di affidamento”, nel quale andrà descritto l’elettrodomestico e precisata la sua classificazione, ad esempio citando espressamente la definizione di cui all’art. 3, co. 1 lett. o).
Qual è il ruolo del produttore circa l’applicazione dell’eco-contributo e quale quello del distributore?
169.
In base all’art. 10 del D.L.vo 151/05, si può affermare che tutti i produttori RAEE, indistintamente, devono “partecipare finanziariamente” (il riferimento è ai costi di raccolta recupero e smaltimento) alla gestione dei rifiuti elettronici: si può sostenere che i costi di gestione del RAEE sono completamente a carico del produttore sulla base del principio di derivazione europea “chi inquina paga”. La Direttiva Europea 2002/96/Ce prevede, infatti, che i costi che i produttori sono tenuti a sostenere per garantire il recupero dei prodotti giunti a fine vita vengano “internalizzati” ovvero computati dalle aziende al pari dei costi per le materie prime, l’energia, il lavoro, la distribuzione delle merci. Solo per un periodo transitorio, come precisato dallo stesso art. 10, fino al 2011 per la maggior parte degli apparecchi e fino al 2013 per i c.d. elettrodomestici bianchi, è consentita, limitatamente a quelli per uso domestico, l’applicazione di una visible fee (in Italia eco – contributo RAEE o ECR). L’eco contributo dovrebbe essere determinato dal singolo produttore, considerando unicamente i costi previsti per il trasporto RAEE dai centri di raccolta a quelli di trattamento e recupero o smaltimento, in realtà dato che il sistema deve farsi carico anche dei rifiuti di aziende ormai scomparse, ogni impresa ha l’obbligo di aderire a “un sistema collettivo” e la decisione in merito all’ammontare della visible fee spesso viene demandata a questi organismi, creati proprio per rendere più economico il conseguimento degli obiettivi previsti dalla legge.
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Molti sistemi collettivi hanno deciso di applicare l’eco-contributo (a partire dal 12 novembre 2007) accordandosi per definire congiuntamente l’importo, altri hanno invece preferito “l’internalizzazione pura” ovvero la definizione autonoma dei singoli consorziati del contributo altri, infine, consentono ai propri soci di mettere in atto entrambe le scelte. Non è quindi obbligatorio per il produttore maggiorare il costo finale, né esporre un eco-contributo che dovrà pagare il consumatore finale: egli ha l’obbligo di iscriversi ad un sistema collettivo di diritto privato, scegliendo liberamente quale in un mercato di concorrenza votato al contenimento dei costi, e poi dovrà comportarsi come il consorzio propone. Nel caso però in cui scelga di applicare il contributo lo dovrà esporre in fattura, e il contributo verrà, di fatto, corrisposto dal commerciante (distributore) che a sua volta lo dovrà comunicare, mediante le indicazioni del caso, nel punto vendita. Nella legislazione vigente non è specificato se vi è l’obbligo – verso i clienti – di indicare l’esatto ammontare dell’eco-contributo oppure è sufficiente la dicitura generica che attesta che il prezzo è comprensivo dell’eco contributo, in realtà essendo il consumatore chiamato a pagarlo si ritiene opportuno, a fronte della scelta di indicazione, l’esposizione dettagliata del costo. 170. Qual è il ruolo istituzionale del c.d. “sistemi collettivi” per la gestione dei RAEE?
Il D.L.vo 151/05 prevede, tra gli obblighi dei produttori di AEE quello di istituire o fare parte di un sistema collettivo (art. 6 lett c) D.L.vo 151/05) per dare corso alla corretta gestione degli AEE a fine vita. Per produttore di AEE l’art. 3 c. 1 lett. m) D.L.vo 151/05 intende: “chiunque… 1) fabbrica e vende apparecchiature elettriche ed elettroniche recanti il suo marchio; 2) rivende con il proprio marchio apparecchiature prodotte da altri fornitori; il rivenditore non è considerato “produttore” se l’apparecchiatura reca il marchio del produttore a norma del punto 1; 3) importa o immette per primo, nel territorio nazionale, apparecchiature elettriche ed elettroniche nell’ambito di un’attività professionale e ne opera la commercializzazione, anche mediante vendita a distanza; 4) per le sole apparecchiature elettriche ed elettroniche destinate esclusivamente all’esportazione, il produttore è considerato tale ai fini degli articoli 4, 13 e 14...”. L’iscrizione al Registro dei Produttori AEE è vincolata alla previa individuazione, a scelta libera del produttore, di un sistema collettivo per la gestione, in particolare qualora si tratti di RAEE domestici. I sistemi collettivi sono in genere consorzi senza fini di lucro che hanno il compito primario di gestire il trasporto, il trattamento ed il recupero dei RAEE, ovvero ai quali vengono affidate tutte le fasi della gestione dell’AEE a fine vita, nel rispetto delle disposizioni del D.L.vo 151/05 nonché delle regole stabilite dal Centro di Coordinamento RAEE.
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171.
Quali sanzioni si applicano in caso di mancato ritiro di RAEE usato?
Ai sensi dell’art. 1, co. 1 del D.M. 8 marzo 2010 n. 65, nell’ambito della gestione dei RAEE domestici, i distributori di cui all’articolo 3, comma 1, lettera n), del decreto legislativo 25 luglio 2005, n.151, al momento della fornitura di una nuova apparecchiatura elettrica od elettronica “… assicurano il ritiro gratuito della apparecchiatura che viene sostituita” e sono obbligati ad informare i consumatori sulla gratuità del ritiro. In realtà la voce verbale “assicurare” è da intendersi quale sinonimo di “obbligo” di legge, tant’è che l’art. 16 co. 1 del D.L.vo 151/05 prevede una sanzione a carico dei distributori inadempienti all’obbligo di ritiro. La norma così recita: “Il distributore che, nell’ipotesi di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), indebitamente non ritira, a titolo gratuito, una apparecchiatura elettrica od elettronica, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 150 ad euro 400, per ciascuna apparecchiatura non ritirata o ritirata a titolo oneroso”. Le sanzioni amministrative pecuniarie vengono irrogate da una autorità amministrativa cui è conferito dalla norma il compito di controllo. Ai sensi dell’art. 20 co. 2 del D.L.vo 151/05 sono le Province ad avere compiti di vigilanza e controllo. È fatta salva l’applicazione – in concorso – delle sanzioni indicate all’art. 10 del D.M. 8 marzo 2010, secondo cui: “I soggetti che effettuano attività di raccolta e di trasporto dei RAEE ai sensi del presente regolamento sono assoggettati alle sanzioni relative alle attività di raccolta e trasporto di cui all’articolo 256 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e alle sanzioni relative alla violazione degli obblighi di tenuta dei registri obbligatori e dei formulari di cui all’articolo 258 del medesimo decreto”. Resta inteso che se la fattispecie ricadesse nell’ambito penale (come, ad esempio, previsto dall’art. 256) la Provincia si limiterebbe esclusivamente alla segnalazione alla competente procura. 172. Qualora per cause di forza maggiore venisse persa/distrutta la documentazione relativa ai RAEE, quali adempimenti si devono svolgere?
Occorre far riferimento alle norme civilistiche (e alla giurisprudenza formatasi sul punto) che regolamentano la tenuta delle scritture contabili, poiché la normativa speciale Raee nulla prevede al riguardo, se non l’obbligo per il distributore di conservare la copia del documento di trasporto insieme allo schedario (art. 2, co. 2, D.M. 8 marzo 2010, n. 165). In base al contenuto dei vari articoli che il Codice civile dedica ai libri e alle scritture contabili, le scritture contabili vanno distinte in: a) obbligatorie per tutti gli imprenditori; b) obbligatorie solo per alcuni tipi di imprenditori, in relazione alla natura e alla dimensione dell’impresa; c) facoltative. La documentazione relativa ai Raee può farsi rientrare tra quei documenti contabili obbligatori previsti dalla normativa speciale. Nell’ipotesi di distruzione di documenti dovuta a causa di forza maggiore (e quindi indipendenti dalla volontà del soggetto), è consigliabile procedere con una denun-
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cia alle competenti autorità di pubblica sicurezza, nonché con una comunicazione all’Agenzia delle entrate in cui evidenziare l’accaduto, questo anche nel caso in cui possa procedersi alla ristampa dei documenti. Ciò anche sulla scorta delle pronunce giurisprudenziali secondo cui incombe al contribuente l’onere di provare l’affermata distruzione dei documenti contabili, e ciò in quanto, in base alle basilari regole processuali, la enunciazione di un fatto positivo deve essere provata da chi lo adduce. 173. Anche gli uffici sono tenuti a smaltire i RAEE come rifiuti pericolosi e pertanto a iscriversi al SISTRI?
Pur trattandosi di “RAEE professionali” per le provenienze indicate, in realtà secondo la stessa definizione di “RAEE provenienti dai nuclei domestici” contenuta all’art. 3, comma 1, lettera o del D.L.vo 151/05, risulta una equiparazione ex lege tra RAEE professionali e domestici a determinate condizioni, ovvero sono RAEE provenienti dai nuclei domestici anche: “… i RAEE di origine commerciale, industriale, istituzionale e d’altro tipo analoghi, per natura e quantità, a quelli originati dai nuclei domestici”. Pertanto, i RAEE speciali pericolosi analoghi per natura e quantità a quelli (urbani) originati dai nuclei domestici possono essere avviati al recupero con le modalità previste per questi ultimi. Ne deriva che gli adempimenti e gli obblighi varieranno a seconda del quantitativo di RAEE prodotti: in caso di produzione di un unico RAEE, sarà infatti applicabile quanto disposto in materia di “uno contro uno”; se invece i RAEE prodotti sono analoghi, per natura e quantità, a quelli originati dai nuclei domestici, essi dovranno essere conferiti presso un centro di raccolta. Fuori da tali ipotesi, invece, dovranno essere gestiti e smaltiti come rifiuti pericolosi. 174. L’installatore di apparecchiature elettriche ed elettroniche (AEE) può iscriversi all’Albo nazionale Gestori Ambientali per il trasporto di rifiuti (RAEE)?
Quando un installatore si reca – per conto del rivenditore – presso il domicilio di un cliente per consegnare ed installare un nuovo Aee, accade sovente che gli venga altresì chiesto di ritirare il Raee. Nonostante la richiesta appaia giustificabile da esigenze pratiche, essa non può legittimamente essere soddisfatta dall’installatore, in quanto trattasi di un soggetto non autorizzato alla gestione dei rifiuti. Né potrebbe essere altrimenti: infatti, l’installatore non può iscriversi alla sezione Raee dell’Albo come trasportatore, perché questa categoria – ovvero quella dei trasportatori di rifiuti – deve svolgere attività di trasporto conto terzi e disporre di mezzi conto terzi.
146
REACH
175.
Esiste una specifica disciplina applicabile ai rifiuti chimici?
Il 13 dicembre 2006 il Parlamento UE ha approvato definitivamente il Regolamento n. 1907/2006 (REACH – acronimo inglese di registrazione, valutazione, autorizzazione delle sostanze chimiche) del 18 dicembre 2006, pubblicato sulla GUUE L 136 del 29 maggio 2006, in vigore dal 1 giugno 2008 in tutti gli Stati membri dell’UE. Il Reg. 1907/2006 ridisegna la disciplina comunitaria sulla fabbricazione ed immissione sul mercato delle sostanze chimiche e impone precisi obblighi a fabbricanti, importatori ed utilizzatori, segnatamente quelli di registrazione, autorizzazione e di veicolazione delle informazioni sui rischi nell’ambito dell’intero sistema. A seguito di tale regolamento, l’UE ha proceduto all’elaborazione della Dir. 2006/121/ CE, la quale introduce alcune modifiche a quanto disposto dalla precedente Dir. 67/548/CE sulla notificazione, classificazione e imballaggio delle sostanze pericolose. In particolare, il sistema REACH, un sistema integrato unico di registrazione, di valutazione e di autorizzazione dei prodotti chimici, impegna le imprese che fabbricano e importano sostanze chimiche a valutare i rischi derivanti dal loro uso ed a prendere le misure necessarie per gestire qualsiasi rischio venga individuato. A livello nazionale, il ns. Legislatore ha proceduto all’emanazione del D.L. 15 febbraio 2007, n. 10 (GU 15 febbraio 2007, n. 38) convertito in L. 6 aprile 2007, n. 46 recante “Disposizioni volte a dare attuazione ad obblighi comunitari ed internazionali”, il cui art. 5 bis dà attuazione al Reg. (CE) 1907/2006. A seguito di ciò, sono giunte al Ministero della Salute, quale autorità competente in tema di REACH, alcune richieste di chiarimento relative alle schede di sicurezza, alle quali il Dicastero ha risposto con il parere prot. D.G.PREV.IV/7167/P/I.5h.e. del 13 marzo 2007. A ciò si aggiunga il D.M. 22 novembre 2007 “Piano di attività e l’utilizzo delle risorse finanziarie di cui all’art. 5 bis del D.L. 15 febbraio 2007, n. 10 convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 6 aprile 2007, n. 46 riguardante gli adempimenti previsti dal regolamento CE n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, concernente la registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche (REACH) ed il D.M. 13 marzo 2009, relativo ad “Interventi per la sostituzione delle sostanze chimiche definite dalla UE estremamente preoccupanti per la salute e l’ambiente rispondenti ai criteri di cui all’art. 57 del regolamento CE 1907/2006 (REACH)”, recentemente modificato dal D.M. 26 aprile 2012 (in GU n. 111 del 14 maggio 2012).
REACH
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È applicabile il Regolamento REACH alle attività di recupero (R2) di rifiuti a base solvente?
176.
L’art. 1, co. 2 del Reg. 1907/2006/CE dispone che “il presente regolamento stabilisce disposizioni riguardanti le sostanze e i preparati definiti nell’articolo 3” e l’art. 3 definisce “sostanza: un elemento chimico e i suoi composti, allo stato naturale o ottenuti per mezzo di un procedimento di fabbricazione, compresi gli additivi necessari a mantenere la stabilità e le impurità derivanti dal procedimento utilizzato, ma esclusi i solventi che possono essere separati senza compromettere la stabilità della sostanza o modificarne la composizione”. Non meno importante è quanto disposto dall’art. 2, co. 2 (ambito di applicazione): “i rifiuti quali definiti nella direttiva 2006/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio non sono considerati né sostanze, né preparati, né articoli a norma dell’articolo 3 del presente regolamento”. Da ciò consegue che se la normativa sul REACH si applica alle sostanze e ai preparati definiti dall’art. 3, ma i rifiuti non sono considerati tali, il REACH non si applica ai rifiuti: ciò trova la sua giustificazione nel XI° considerando del Reg. 1907/2006, secondo il quale “per garantire la praticabilità e preservare gli incentivi al riciclaggio e al recupero dei rifiuti, i rifiuti non dovrebbero essere considerati sostanze, preparati o articoli a norma del presente regolamento”. Ciò detto per quanto riguarda i rifiuti, bisogna ora affrontare la questione della commercializzazione del prodotto, in quanto il Reg. 1907/2006 si applica “alla fabbricazione, all’immissione sul mercato o all’uso di tali sostanze, in quanto tali o in quanto componenti di preparati o articoli, e all’immissione sul mercato di preparati” (art. 2, co. 2). A questo punto è necessario richiamare le seguenti nozioni (art. 3): “Sostanza: un elemento chimico e i suoi composti, allo stato naturale o ottenuti per mezzo di un procedimento di fabbricazione, compresi gli additivi necessari a mantenere la stabilità e le impurità derivanti dal procedimento utilizzato, ma esclusi i solventi che possono essere separati senza compromettere la stabilità della sostanza o modificarne la composizione”. “Preparato: una miscela o una soluzione composta di due o più sostanze”. “Articolo: un oggetto a cui sono dati durante la produzione una forma, una superficie o un disegno particolari che ne determinano la funzione in misura maggiore della sua composizione chimica”. Occorre a questo punto verificare se il prodotto in questione rientri tra le “sostanze”, se si tratta forse di un solvente che può essere separato senza compromettere la stabilità della sostanze o modificarne la composizione, o ancora se è prodotto dallo stesso soggetto gestore…È di tutta evidenza che si tratta di una serie di domande di carattere tecnico e non giuridico alle quali cui bisogna necessariamente rispondere per comprendere se il REACH possa essere applicato nella fase di commercializzazione del prodotto – solvente. Si possono infatti verificare le seguenti combinazioni: – rientri nella definizione di “sostanze”, ma non nell’apposita esclusione, il REACH è applicabile; – rientri nella definizione di “sostanze” ed altresì nell’apposita esclusione, il REACH non è applicabile; – rientri nella definizione di “preparato”, è necessario ritornare alla nozione di “sostanze” e ripercorrere il percorso logico-giuridico appena compiuto;
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– sia soggetto alla normativa REACH, se il soggetto esercita una delle tre attività previste dalla norma (fabbricazione, immissione sul mercato o utilizzo) il REACH è applicabile, viceversa, no.
Quali sono le modifiche introdotte dal Regolamento (CE) n. 790/2009? 177.
In primo luogo, il Regolamento (Ce) n. 790/2009 della Commissione del 10 agosto 2009, recante modifica, ai fini dell’adeguamento al progresso tecnico e scientifico, del regolamento n. 1272/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle miscele (cd. Regolamento CLP, classification, labeling and packaging), trova la sua ratio nella necessità di tener conto delle modifiche dell’allegato I alla direttiva 67/548/CEE, introdotte dalle Direttive 2008/58/CE (recante trentesimo adeguamento alla direttiva n. 67/548) e 2009/2/CE (recante trentunesimo adeguamento alla direttiva n. 67/548) (considerando n. 2). Il Regolamento CLP prevede che le sostanze siano riclassificate e rietichettate entro il 1° dicembre 2010 (e le miscele entro il 1° giugno 2015). Il termine di cui sopra viene ribadito dal Regolamento 790/2009 (art. 2, par. 2), il cui considerando n. 5, in riferimento alla classificazione delle sostanze contenute nello stesso provvedimento, prevede che quando le medesime vengano aggiornate o aggiunte all’allegato VI, parte 3 del Regolamento n. 1272/2008, è opportuno che l’obbligo di classificarle secondo le classificazioni armonizzate definite nell’allegato sopra richiamato del Regolamento CLP, quale modificato dal regolamento 790/2009, preveda la data di scadenza del 1° dicembre 2010. Come noto, l’Allegato VI, parte 3 del Regolamento CLP è suddiviso in due elenchi, di cui uno (tabella 3.2) elenca la classificazione e l’etichettatura armonizzate di sostanze pericolose basate sui criteri fissati nell’allegato VI della direttiva 67/548/CEE, il cui Allegato I (contenente l’elenco delle sostanze classificate ufficialmente) è stato soppresso e conseguentemente trasposto, con modifiche, nell’allegato VI al Regolamento CLP, al fine di avere in un unico provvedimento dotato di efficacia immediata (quale è il regolamento che si applica direttamente in ciascun Stato membro, non necessitando di atti di recepimento nazionale) le classificazioni ufficiali delle sostanze, secondo il vecchio sistema di classificazione dettato dalla Direttiva 67/548/CEE (Tabella 3.2), nonché quelle relative alle stesse sostanze, ma decifrate secondo il nuovo sistema Globally Harmonized System – GHS – (Tabella 3.1). L’articolazione in due elenchi dell’Allegato VI del Regolamento CLP risponde all’esigenza, esplicitata nel considerando n. 53 dello stesso Regolamento, e richiamato nel Regolamento di modifica, n. 790/2009, nei seguenti termini: “poiché l’applicazione del presente regolamento è differita e le classificazioni armonizzate secondo i criteri della direttiva 67/548/CEE restano valide per la classificazione delle sostanze e delle miscele durante il successivo periodo transitorio, tutte le classificazioni armonizzate esistenti dovrebbero anche essere riportate, senza modifiche, in un allegato del presente regolamento. Sottoponendo tutte le armonizzazioni future delle classificazioni al presente regolamento, si dovrebbero evitare le incoerenze nelle classificazioni armonizzate della stessa sostanza secondo i vecchi e i nuovi criteri”.
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Ciò vuol dire, come peraltro chiarisce il Ministero della Salute – che costituisce l’autorità nazionale competente in materia di REACH –, che poiché entrambe le liste o elenchi, in quanto liste “aperte”, ovvero suscettibili di adeguamenti al progresso tecnico, dovranno coesistere per un tempo ragionevolmente lungo, è essenziale che tutti gli adeguamenti al progresso tecnico vengano effettuati contestualmente su entrambe le liste. Le due liste, quindi, dovranno coesistere per tutto il periodo transitorio, durante il quale il Reg. CLP prevede la classificazione obbligatoria delle sostanze secondo il sistema vigente (Direttiva 67/548/CE) fino al 1° dicembre 2010 e opzionale secondo le norme CLP. Dal 1° dicembre 2010 le sostanze dovranno essere obbligatoriamente classificate e etichettate secondo CLP, mentre per le miscele sarà obbligatoria la classificazione secondo il sistema vigente e volontaria quella secondo CLP fino al 1° giugno 2015. A partire da questa data il sistema CLP diventerà completamente obbligatorio e saranno abrogate le direttive 67/548/CEE e 1999/45/CE. In riferimento, poi, al secondo aspetto, ovvero all’ambito di applicazione del Regolamento REACH, è importante soffermarsi sull’art. 2 del regolamento Ce n. 1907/2006, il quale stabilisce espressamente al suo comma 2 che “i rifiuti quali definiti nella direttiva 2006/12/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio non sono considerati né sostanze, né preparati, né articoli (…)”. Pertanto se il regolamento Ce n. 1907/2006 obbliga fabbricanti ed importatori di sostanze chimiche (nonché preparati e articoli derivati) ad effettuare una registrazione delle medesime presso la competente Agenzia europea, a munirsi di una autorizzazione per la gestione di quelle ad alta pericolosità, ad effettuare valutazioni dei rischi legati alle varie sostanze ed a comunicarle lungo l’intera filiera, da ciò deriva che la normativa REACH si applica unicamente ai “beni” (sostanze chimiche), non interessando i rifiuti soltanto indirettamente. Infatti, l’obbligo di valutazione della sicurezza chimica imposto dal regolamento REACH interessa l’intero ciclo di vita della sostanza, incluso il suo (futuro) stadio di rifiuto (art. 18); le informazioni sulle misure di gestione dei rifiuti devono poi essere veicolate lungo la catena di approvvigionamento. La normativa “Reach” si applica invece integralmente alle materie che fuoriescono da una operazione di recupero, laddove la medesima riabiliti a “beni” (e dunque a sostanze o preparati chimici) cose che in precedenza erano rifiuti; la suddetta normativa, ed in particolare le disposizioni relative alla classificazione delle sostanze pericolose, dunque, si applicherà non ai rifiuti, ma esclusivamente alle materie ottenute da operazioni di recupero, costituenti beni così come lo sarebbero per qualsiasi altra sostanza fabbricata, prodotta o importata nella UE, con il conseguente obbligo di registrazione della sostanza ottenuta, salvo esenzione dall’obbligo di registrazione, a determinate condizioni. Come si concilia, quindi, rispetto a queste limitazioni, la previsione di cui al nuovo Cer (entrato in vigore il 1° gennaio 2002) di un sistema di classificazione dei rifiuti che si basa non più soltanto sull’origine del rifiuto, ma anche sul contenuto delle sostanze pericolose eventualmente presenti nello stesso? La domanda nasce dalla constatazione secondo cui la Decisione 2000/532/Ce e s.m.i. della Commissione, nel definire la presenza nel rifiuto di sostanze pericolose, fa riferimento sia ai limiti di concentrazione previsti dalla Direttiva 88/379/CEE (modificata dalla Direttiva 1999/45/CE), sia alla Direttiva 67/548/CEE, relativa alla classifi-
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cazione, all’etichettatura e all’imballaggio dei preparati pericolosi, in particolare per alcuni rifiuti individuati come “voci speculari”. Si ritiene che tale riferimento all’Allegato 1 della Direttiva 67/548/CEE, ora trasposto nel Regolamento CLP, sia da intendersi, coerentemente con quanto previsto dallo stesso regolamento, valevole per il cd. periodo transitorio, nel quale potranno essere applicati, nell’adempimento degli obblighi della normativa REACH, i criteri previsti dalla suddetta Direttiva, risultando, diversamente incompatibile tale previsione con il disposto dell’art. 2 del Regolamento REACH sopra riportato. La diretta applicabilità del regolamento pone, in tutti i casi, all’interno del nostro ordinamento tale fonte del diritto comunitario al di sopra di qualsiasi atto di recepimento di direttive comunitarie, per espressa previsione dell’art. 117 Cost. Circa il futuro scenario, al termine del periodo transitorio, della classificazione dei rifiuti pericolosi, potrebbe esserci una rivisitazione della relativa regolamentazione, per coordinarla con quanto previsto dalla normativa REACH. Le suesposte considerazioni portano a ritenere che: – in relazione alla previsione di cui all’art. 2, par. 3 del Regolamento (Ce) n. 790/2009, la possibilità di applicare le classificazioni armonizzate contenute nell’allegato VI, parte 3, del Regolamento CLP, come da ultimo modificato, sembrerebbe essere contemplata proprio in relazione al periodo transitorio, e quindi, in particolare ai criteri della Direttiva 67/548/Cee, attualmente vigenti, come trasposti nel Regolamento in parola ed oggetto di armonizzazione. L’uso del verbo “potere”, testualmente riportato nelle versione italiana del Regolamento n. 790/2009, lascia intendere che non di obbligo si tratta, bensì di una facoltà, in linea probabilmente con esigenze di carattere operativo, destinata a trovare applicazione sino al termine del 1° dicembre 2010, data a partire dalla quale, scaduto il periodo transitorio, dovrà farsi riferimento esclusivamente al metodo CLP. – in relazione alla previsione di cui alla Circolare Min. Salute 4 aprile 2009: “Resta inteso, comunque che le nuove classificazioni introdotte con il primo ATP (adeguamento al progresso tecnico) al Regolamento CLP dovranno essere prese in considerazione sia per quanto riguarda gli adempimenti e le scadenze previste dal regolamento REACH, sia per quanto riguarda l’adeguamento delle schede di sicurezza da inviare agli utilizzatori a valle, sia come riferimento per altre normative correlate”, si ritiene che tale disposizione, conseguente a quella che prevede che “nel caso in cui la classificazione di una sostanza viene modificata con il 30-esimo o 31-esimo ATP (alla direttiva 67/548/CEE), i produttori o importatori non saranno obbligati a modificare le etichette delle sostanze fino al 1.12.2010, ma dopo tale data dovranno quanto meno adeguare le classificazioni/etichettature delle miscele contenenti tali sostanze”, confermi il carattere opzionale della classificazione secondo il sistema vigente, fermo restando la piena operatività del Regolamento CLP quanto agli adempimenti e alle scadenze, ovvero il rispetto dei termini da esso dettati circa l’entrata a pieno regime dello stesso, con i successivi obblighi per i fornitori e tutti gli interessati di applicazione delle relative classificazioni ed adeguamento dell’etichettatura ed imballaggio, nonché l’adeguamento delle schede di sicurezza, come adempimento preliminare, ai sensi del Titolo IV del Regolamento CLP, tenendo conto dell’obbligo di pre-registrazione, entrato in funzione il 1° giugno del 2008.
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Recupero
L’elenco delle operazioni di recupero di cui all’Allegato C della Parte IV del D.L.vo 152/06 deve ritenersi esaustivo?
178.
Ai sensi dell’art. 183, c. 1, lett. t), D.L.vo 152/06 (come modificato dal D.L.vo 205/10) per recupero di intende “qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale”. La medesima norma continua prevedendo espressamente che “l’allegato C della parte IV del presente decreto riporta un elenco non esaustivo di operazioni di recupero”. Ne deriva che un’operazione di recupero, per potersi definire tale, non deve necessariamente essere compresa nell’Allegato C, purché svolga il ruolo indicato dalla norma e, cioè, di permettere ai rifiuti di svolgere un “ruolo utile”.
179.
Qual è la corretta interpretazione della voce di recupero R12?
L’Allegato C alla parte IV del TUA indica alla voce R12 “lo scambio di rifiuti per sottoporli ad una delle operazioni indicate da R1 a R11”. Tale nozione non è mai stata modificata dall’entrata in vigore del TUA nel 2006; solo nel 2010, per effetto del recepimento della Direttiva Europea sui rifiuti alla voce R12 è stata aggiunta una nota secondo cui: “in mancanza di un altro codice R appropriato, può comprendere le operazioni preliminari precedenti al recupero, incluso il pretrattamento come, tra l’altro, la cernita, la frammentazione, la compattazione, la pellettizzazione, l’essicazione, la triturazione, il condizionamento, il ricondizionamento, la separazione, il raggruppamento prima di una delle operazioni indicate da R1 a R11”. Già all’origine l’uso del termine “scambio” apparve fuorviante rispetto alle fasi della gestione rifiuti: lo scambio, ovvero il passaggio di un rifiuto per un altro rifiuto non ha ragione di esistere nel sistema della gestione, nella quale, semmai è correttamente normato da tempo “il trasporto di rifiuti”, con tutti gli adempimenti connessi. La stessa nota aggiunta a questa voce non ha quindi apparentemente alcuna connessione logica; tutt’al più le indicazioni della nota si potrebbero ritenere riferite ad un “cambio” di rifiuti, inteso nel senso di “cambio della loro natura e/o stato fisico”, ma purtroppo non si registrano posizioni ufficiali di chiarimento. A parere di chi scrive, a fronte di una non tassatività delle operazioni di recupero elencate nell’Allegato
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C – come precisa l’art. 183, lett. t) – è auspicabile una interpretazione motivata delle P.A. all’atto del rilascio delle autorizzazioni al recupero.
La riformulazione della voce R12, contenuta nell’Allegato C della Parte IV del D.L.vo 152/06, come si rapporta con le operazioni di messa in riserva di cui al D.M. 5 febbraio 1998 per il recupero agevolato?
180.
L’art. 183 lettera aa) del TUA definisce la messa in riserva come una tipologia di stoccaggio di rifiuti espressamente finalizzata al recupero. Nell’Allegato C alla Parte IV la voce R13 riporta: “Messa in riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12 (escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)”. La precedente voce R12 è invece riferita a: “scambio di rifiuti per sottoporli ad una delle operazioni indicate da R1 a R11”. Per effetto delle modifiche di cui al D.L.vo 205/10 è stata inserita una nota a questa voce la quale prevede: “in mancanza di un altro codice R appropriato, può comprendere le operazioni preliminari precedenti al recupero, incluso il pretrattamento come, tra l’altro, la cernita, la frammentazione, la compattazione, la pellettizzazione, l’essicazione, la triturazione, il condizionamento, il ricondizionamento, la separazione, il raggruppamento prima di una delle operazioni indicate da R1 a R11”. L’aggiunta di questa nota indica alcune – peraltro non tassative – operazioni di trattamento rifiuti che in certi casi si “sovrappongono” a ciò che nel D.M. 5 febbraio 1998 viene indicato come “messa in riserva”. Tale sovrapposizione potrebbe essere interpretata nel senso che la voce R12 debba considerarsi alternativa alla voce R13. Invero così non è, poiché in tal modo si renderebbe di fatto inapplicabile la disciplina tecnica sul recupero agevolato che invece è tutt’ora vigente, seppur in attesa di riformulazioni.
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Registri di carico/scarico
181.
Quale normativa si applica ai registri di carico e scarico?
La norma di riferimento del TUA in tema di registri c/s è rappresentata dell’art. 190. Tale articolo è stato completamente riscritto dal D.L.vo 205/10. Tuttavia, la nuova versione della norma, per effetto di quanto disposto dall’art. 16, c. 2, del citato decreto 205, entrerà in vigore solo all’indomani della piena operabilità del SISTRI. Prima di tale data continuerà ad applicarsi la versione anteriore all’entrata in vigore del D.L.vo 205/10.
182.
Quali sono i soggetti tenuti alla compilazione dei registri?
Quanto agli adempimenti amministrativi ed in particolare alla tenuta del registro di carico e scarico, occorre fare riferimento all’art. 190. Tale norma, nella versione anteriore alle modifiche del D.L.vo 205/10 specifica che sono tenuti alla compilazione dei registri C/S: – i soggetti di cui all’art. 189, co. 3 (quelli che devono compilare il Mud, ovvero chiunque effettua a titolo professionale attività di raccolta e di trasporto di rifiuti, compresi i commercianti e gli intermediari di rifiuti senza detenzione, ovvero svolge le operazioni di recupero e di smaltimento dei rifiuti, nonché le imprese e gli Enti che producono rifiuti pericolosi ed i consorzi); oltre ai – i soggetti che producono rifiuti non pericolosi di cui all’art. 184, comma 3, lettere: c) rifiuti da lavorazioni industriali (tranne coke da petrolio); d) rifiuti da lavorazioni artigianali; g) rifiuti derivanti dall’attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque a dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi. Nella “nuova” versione, invece l’art. 190, c. 1, prevede più semplicemente che il registro in parola deve essere conservato e compilato dai soggetti non obbligati ad iscriversi al SISTRI. Il successivo c. 1-bis (introdotto dal D.L.vo 121/11) specifica che “sono esclusi dall’obbligo di tenuta di un registro di carico e scarico gli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile che raccolgono e trasportano i propri rifiuti speciali non pericolosi di cui all’art. 212, comma 8, nonché le imprese e gli enti che, ai sensi dell’art. 212, comma 8, raccolgono e trasportano i propri rifiuti speciali non pericolosi di cui all’articolo 184, comma 3, lettera b (rifiuti derivanti da attività di demolizione, costruzione etc. – N.d.R.)”.
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Qual è la corretta tenuta dei registri di carico e scarico per i rifiuti da attività di servizio? 183.
Occorre anzitutto premettere che l’art. 184 D.L.vo 152/06 è rimasto sostanzialmente invariato quanto alla classificazione dei rifiuti anche dopo il IV correttivo: si mantiene, infatti, il riferimento ai rifiuti da attività di servizio (art. 184, comma 3 lett. f) tra quelli speciali, ed è inoltre immutato il riferimento – per l’individuazione delle diverse tipologie di rifiuti speciali – alla usuale ripartizione tra attività industriali, artigianali, agricole, commerciali e di servizio, così come intesa per le iscrizioni al registro delle imprese di cui all’art. 2188 cod. civ. Si conferma quindi che con la specificazione “di servizio” è da intendersi il riferimento all’attività economica generale svolta dal soggetto produttore di rifiuti e non la qualificazione di una fase della stessa attività o dei rifiuti da essa prodotti. Dalla lettura dell’art. 190 di cui alla precedente lettera a) emerge che, come sotto la vigenza del decreto Ronchi, i produttori dei rifiuti da attività di servizio non pericolosi non sono obbligati a tenere un registro né ad effettuare la dichiarazione annuale. Resta comunque libera la facoltà di tenere comunque un registro di carico e scarico pur non trattandosi di rifiuti pericolosi. Ciò costituisce una scelta operativa non vietata dalla legge ma non obbligatoria. Non è però possibile presentare la dichiarazione annuale (Mud), per mancata accettazione dei sistemi delle Camere di Commercio per i rifiuti non pericolosi, ai sensi dell’art. 189 comma 3. Qualora si decidesse di tenere il registro è certamente necessario adempiere puntualmente a tutti gli obblighi previsti per legge.
È possibile l’utilizzo di un registro carico e scarico, già vidimato nell’anno 2008 con le nuove procedure presso la CCIAA, per le annotazioni relative alla gestione rifiuti 2009 o c’è la necessità di annullare le rimanenti pagine o registri completi e provvedere alla vidimazione di un nuovo registro di carico e scarico?
184.
Il registro di carico e scarico viene vidimato per evitarne la manomissione, quindi ciò che importa è che sia stato vidimato prima dell’uso, ma la vidimazione non deve essere ripetuta ogni anno. La “vidimazione annuale” era riferita a taluni libri sociali, e non ai registri di carico e scarico dei rifiuti speciali, ma è stata abolita. I libri vidimati si possono utilizzare fino ad esaurimento e, di conseguenza, non si pone né il problema delle pagine da annullare, né quello dell’anno di vidimazione rispetto all’anno d’effettivo impiego del registro: è sufficiente che il primo sia precedente al secondo. In altri termini, a dicembre 2008 è possibile far vidimare un registro (e necessariamente, proprio per evitare manomissioni, la data apposta sul registro è quella del giorno di vidimazione) e utilizzarlo, senza alcun problema, nel 2009. 185.
Con quale periodicità devono avvenire le registrazioni?
Il c. 1 dell’art. 190 (versione ante D.L.vo 205/10) disciplina la periodicità delle registrazioni in modo così sintetizzabile:
Registri di carico/scarico
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a) produttori: entro 10 giorni lavorativi dalla produzione del rifiuto e dallo scarico del medesimo; b) trasportatori: entro 10 giorni lavorativi dall’effettuazione del trasporto; c) commercianti, intermediari e consorzi: entro 10 giorni lavorativi dall’effettuazione della relativa transazione; d) gestori di impianti: entro 2 giorni lavorativi dalla presa in carico del rifiuto. Il comma 4 del medesimo articolo ha raddoppiato i limiti quantitativi al di sotto dei quali è ammessa la delega ad associazioni o loro società di servizi: 10 tonnellate per i rifiuti non pericolosi e 2 tonnellate per i rifiuti pericolosi; mentre il comma 9, ha risolto nel senso dell’alternatività la lunga diatriba di cui al DM 148/98, All. 6.C1, sez. III, lett. c), in quanto precisa che dopo le parole “in litri” la congiunzione “e” viene sostituita dalla congiunzione “o” (sicché oggi si avrà “litri o Kg”). L’art. 190, c. 1, della versione modificata dal D.L.vo 205/10 prevede invece che “le annotazioni devono essere effettuate almeno entro dieci giorni lavorativi dalla produzione del rifiuto e dallo scarico del medesimo”, mentre il c. 3 dispone che i soggetti, la cui produzione annua di rifiuti non eccede le dieci tonnellate di rifiuti non pericolosi, “possono adempiere all’obbligo della tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti anche tramite le associazioni imprenditoriali interessate o società di servizi di diretta emanazione delle stesse, che provvedono ad annotare i dati previsti con cadenza mensile, mantenendo presso la sede dell’impresa copia dei dati trasmessi”. 186. È possibile tenere i registri seguendo le procedure di registrazione previste per i registri IVA?
Il comma 6 dell’art. 190 ammette la possibilità che i registri vengano numerati, vidimati e gestiti con le procedure e le modalità previste per i libri IVA, così che potrà essere utilizzato il formato A4 e non ci sarà più necessità del modulo continuo. A partire dal 13 febbraio 2008 i registri sono numerati e vidimati dalla Camera di Commercio territorialmente competente.
È ancora possibile la tenuta dei registri presso la sede dell’azienda, relativamente agli impianti di depurazione? 187.
La disciplina concernente il luogo di tenuta dei registri C/S è rimasta inalterata e, finché non verrà emanato un nuovo decreto ministeriale, si continueranno ad applicare le disposizioni di cui al D.M. n. 148 del 1 aprile 1998. Si tenga però presente che in materia gli impianti di depurazione rientravano tra quei settori oggetto deroga di cui all’art. 12, co. 3 bis, D.L.vo 22/97 (attività di manutenzione delle reti e delle utenze diffuse): tale norma, non più ripresa nell’art. 190, gode oggi di autonoma disciplina nell’art. 230 del nuovo D.L.vo 152/06. È evidente che la situazione è mutata rispetto a prima ed in particolare si tenga presente che a norma del richiamato art. 230, il luogo di tenuta dei registri di carico e scarico rifiuti coincide con il luogo di produzione dei rifiuti derivanti da attività di manutenzione di reti e infrastrutture, e quest’ultimo può coincidere con la sede del
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cantiere che gestisce l’attività manutentiva o con la sede locale del gestore della infrastruttura nelle cui competenze rientra il tratto di infrastruttura interessata dai lavori di manutenzione ovvero con il luogo di concentramento dove il materiale tolto viene trasportato per la successiva valutazione tecnica.
Sono possibili deroghe per impianti quali le fosse Imhoff che risultano strutture non adeguatamente presidiate, non dotate di infrastrutture che consentano l’adeguata e sicura tenuta dei registri e non sono normalmente presidiate da personale aziendale?
188.
Per quanto concerne le fosse Imhoff, il D.L.vo 152/06 non prevede deroghe ad hoc, ma si ritiene che i rifiuti prodotti da tali fosse, destinate a sostituire i depuratori laddove questi non siano presenti e aventi, quindi, finalità d’interesse pubblico, possano rientrare tra quelli provenienti da attività di manutenzione di reti e utenze diffuse e possano, pertanto, seguire la disciplina sopra ricordata (art. 230). Infatti, sarebbe difficile ed oneroso dover conservare presso ogni fossa Imhoff il relativo registro di C/S, in quanto si tratta di strutture non adeguatamente presidiate e non dotate di infrastrutture che consentano l’adeguata e sicura tenuta dei registri.
È necessario tenere un registro di carico e scarico anche nelle filiali oltre che nella sede principale dell’attività, per i rifiuti prodotti esclusivamente in loco?
189.
Per quanto concerne la disciplina nazionale inerente ai registri di carico e scarico rifiuti, l’art. 190, co. 3 del D.L.vo 152/06 dispone che “i registri sono tenuti presso ogni impianto di produzione, di stoccaggio, di recupero e di smaltimento di rifiuti, nonché presso la sede delle imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto, nonché presso la sede dei commercianti e degli intermediari”. Come già sotto la vigenza del D.L.vo 5 febbraio 1997, n. 22, anche il nuovo D.L.vo 152/06 conferma che presso ogni impianto di produzione, senza distinzione tra sede centrale dell’impresa e filiali, va tenuto l’apposito registro C/S per i rifiuti che produce. Per quanto concerne il trasporto di rifiuti dalla filiale alla sede centrale, si applica la norma generale di cui all’art. 193 del D.L.vo, secondo la quale “durante il trasporto effettuato da enti o imprese i rifiuti sono accompagnati da un formulario di identificazione”. Il successivo comma 4 individua due eccezioni che consistono nel: – trasporto di rifiuti urbani effettuato dal soggetto che gestisce il servizio pubblico; – trasporto di rifiuti non pericolosi effettuato dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non ecceda la quantità di 30 Kg o di 30 l. Qualora non siano rispettate tali condizioni, il trasporto dei rifiuti dovrà avvenire in presenza del Fir, salva l’ipotesi della movimentazione dei rifiuti che avvenga esclusivamente all’interno di arre privata, in quanto tale operazione non è considerata ex lege come trasporto (co. 9).
Registri di carico/scarico
190.
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Chi è obbligato alla tenuta del registro in caso di impianti consortili?
Per quanto riguarda la produzione (nel caso in cui sussista l’obbligo), lo stoccaggio, l’intermediazione e commercio con detenzione dei rifiuti, il recupero o lo smaltimento, il registro si riferisce non all’impresa, bensì alla singola unità locale della stessa. Il registro relativo all’attività di raccolta e trasporto (di rifiuti prodotti da terzi o di rifiuti pericolosi derivanti dalla propria attività) si riferisce invece all’impresa, che lo movimenterà e lo conserverà presso la propria sede. Queste norme consentono di sostenere che il Consorzio non ha obblighi di tenuta di registri se non per tramite del proprio appaltatore o del gestore del centro di raccolta o stazione di conferimento, che nel luogo dove gestisce i rifiuti (anche solo deposita in stoccaggio) terrà il registro a lui stesso intestato.
È possibile tenere il registro di carico e scarico in formato informatico, stampandolo poi su fogli a modulo continuo?
191.
L’art. 190, c. 6, D.L.vo 152/06 stabilisce che “i registri sono numerati, vidimati e gestiti con le procedure e le modalità fissate dalla normativa sui registri Iva. Gli obblighi connessi alla tenuta dei registri di carico e scarico si intendono correttamente adempiuti anche qualora sia utilizzata carta formato A4, regolarmente numerata”. Quindi, non si parla più di tenuta su fogli a modulo continuo, ma soprattutto né in questa disposizione, né in altre relative al registro, si prevede l’obbligo di stampa in continuo. Tuttavia, in ordine alla stampa si ritiene che l’equiparazione delle modalità di gestione dei registri di carico e scarico a quelle fissate dalla normativa sui registri Iva abbiano conseguenze di rilievo sulle regole di conservazione e stampa dei registri di carico e scarico tenuti con modalità informatiche. Le regole dettate in materia di conservazione sostitutiva delle scritture contabili (D.P.R. 445/2000 e Deliberazione Cnipa del 19 febbraio 2004, n. 11) consentono di eliminare il supporto cartaceo trasponendo i dati dalla carta ad altro supporto (Dvd, Cd, dischi ottici, ecc.) e di memorizzare direttamente il documento informatico contenente le scritture contabili, purché: – si rispetti l’art. 2215 cod. civ. in materia di numerazione delle pagine e ordine cronologico e l’art. 2219 cod. civ. in materia di ordinata tenuta della contabilità; – sia predisposto in modo da garantire la sua inalterabilità, l’identificabilità dell’autore e l’integrità del documento. Sarà, pertanto, necessaria la “firma elettronica qualificata” o la “firma digitale”; – il documento informatico contenente le scritture contabili, prima di essere sottoscritto, sia integrato con un “riferimento temporale” (data e ora di formazione del documento); – l’adempimento della sottoscrizione elettronica sia assolto almeno una volta l’anno, al momento della redazione del bilancio d’esercizio, prima della comunicazione del bilancio al collegio sindacale (art. 2429 cod. civ.); – sia garantita la leggibilità del documento e la possibilità di stamparli, se richiesto in sede di ispezioni o verifiche. In riferimento ai registri di carico e scarico dei rifiuti quindi si deve ritenere che se il registro di carico e scarico informatico è tenuto nel rispetto di modalità informa-
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tiche che consentono la prova dell’inalterabilità e l’integrità del documento ed una perfetta identificazione temporale, la sua conservazione potrà essere anche solo informatica, con le relative conseguenze riguardo alla tempistica della stampa che potrà quindi essere effettuata anche una volta l’anno e, sempre, in sede di verifica da parte degli organi di controllo; se invece il registro di carico e scarico informatico non è tenuto nel rispetto delle nuove modalità informatiche si ritiene che esso debba essere obbligatoriamente stampato secondo le tempistiche di cui all’articolo 190, c. 1, D.L.vo 152/06 e, sempre, in sede di verifica da parte degli organi di controllo.
192.
Come devono essere numerate le pagine di un registro c/s?
Il comma 6 dell’art. 190 ammette la possibilità che i registri vengano numerati, vidimati e gestiti con le procedure e le modalità previste per i libri IVA. Un registro può avere al massimo n. 1000 pagine, quindi la numerazione deve essere progressiva da 1 a 1000 (o ad un numero inferiore di pagine, a seconda delle esigenze). Il registro successivo (ad esempio, il secondo registro dell’anno in corso) riparte da pag. 1, mentre le operazioni di carico e di scarico proseguono con modalità progressiva. Poiché le pagine devono essere numerate prima della vidimazione è possibile presentare da subito due registri con una numerazione di pagine conseguenziale (primo registro da pag. 1 a pag. 1000 e secondo registro da pag. 1001 a pag. 2000): la scelta di presentare un registro alla volta (con numerazione che riparte da 1) oppure due o più registri insieme (con numerazione progressiva) dipende dal volume dell’attività professionale (solitamente si procede secondo una stima annuale in base alla media delle operazioni effettuate nell’anno precedente). Per quanto concerne, infine, le pagine del registro non utilizzate (ma già numerate e vidimate), queste devono essere annullate (ovvero, la pagina viene barrata e si riporta la dicitura “annullata”) prima di iniziare il nuovo registro (dell’anno successivo).
I soggetti tenuti alla compilazione e alla tenuta del registro c/s hanno l’obbligo di mostrarlo agli enti di controllo, anche se i registri sono tenuti in modo cartaceo?
193.
L’art. 190, c. 5 dispone espressamente che “le informazioni contenute nel registro sono rese disponibili in qualunque momento all’autorità di controllo che ne faccia richiesta”. Pertanto, posto che la gestione dei registri C/S con le modalità dei registri Iva (se correttamente tenuti) implica la stampa una sola volta l’anno, ciò non toglie che in caso di richiesta degli organi di controllo è necessario mostrare quanto richiesto.
Qual è la corretta compilazione del/dei registro/i di carico e scarico rifiuti in un caso di sito ove sono ubicati diversi impianti di trattamento e una discarica?
194.
Il registro c/s, come si evince dalla descrizione dello stesso riportata al D.M. 1 aprile 1998, n. 148, è esclusivamente riferito al singolo soggetto (produttore/recuperatore/ smaltitore/trasportatore) operativo nella gestione rifiuti.
Registri di carico/scarico
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Esso è indicativo sia della attività svolta dal titolare del documento in termini complessivi “descrizione generale del tipo di trattamento compiuto sui rifiuti…” (Allegato C, punto C1, articolo 1 lett. c) del D.M. 148/1998), sia della specifica codificazione dell’attività (in riferimento agli Allegati B e C della Parte IV del TUA). Non esiste quindi un registro di c/s riferito ad un “sito produttivo” ove operano diversi soggetti, e non è consigliabile (in quanto potrebbe iin alcuni casi essere irregolare) un unico registro per le diverse attività svolte dal medesimo soggetto, poiché il registro oltre ad essere “soggettivo” è strettamente connesso all’attività di produzione/gestione rifiuti posta in essere (cfr. Circolare 4 agosto 1998, n. 812 esplicativa della compilazione di registri e formulari, al punto 2, lett. k). Quindi se un’azienda possiede diversi impianti di trattamento rifiuti ubicati in aree geografiche diverse, ognuna di queste attività dovrà essere oggetto di congrua registrazione in carico e scarico del rifiuto prodotto/trattato, su un registro specifico; ma anche la collocazione nel medesimo stabilimento potrebbe necessitare della predisposizione di diversi registri di carico e scarico, se gli impianti sono fisicamente distinti.
Se si dovesse smarrire un registro cartaceo di c/s di un Comune, senza supporto informatico, che cosa bisogna fare?
195.
La tenuta del registro di carico e scarico per conto dell’ente pubblico comunale, in relazione alla gestione dei RU, è usualmente affidata al soggetto gestore, che deve sottostare alle regole di registrazione. Non era e non è previsto l’obbligo di tenuta del registro solo su supporto informatico, anche se nella maggior parte dei casi (non solo dai gestori ma anche dalle aziende private) si è optato per questa modalità. Lo smarrimento del registro cartaceo, senza alcun supporto informatico che possa sopperire a tale perdita, rappresenta, a carico del soggetto obbligato alla scrittura, l’impossibilità di dimostrare la corretta gestione dei rifiuti; e tale comportamento è sanzionato ai sensi dell’art. 258 del TUA di fatto come “mancata tenuta del registro”, e punito con sanzione amministrativa pecuniaria dal 2.600 € a 15.500 €. Fatta salva la necessità di dimostrare gli ultimi cinque anni di scritture, nonché l’applicazione della disciplina dei documenti sostitutivi, così come prevista dal D.M. n. 148/98, sarà da ultimo necessario denunciare tale smarrimento alla competente camera di commercio, che senz’altro potrà dare le indicazioni in merito alla procedura da seguire per la tenuta del nuovo registro, anche in riferimento al pregresso delle registrazioni. Si consiglia di indirizzare tale denuncia anche alla Provincia, allo scopo di (provare ad) evitare che (anche ad un futuro controllo) venga irrogata la sanzione amministrativa. 196. Un’impresa che esercita attività di trasporto rifiuti dove deve conservare il registro c/s?
La norma di riferimento per i registri di carico e scarico, continua ad essere l’art. 190 del D.L.vo 152/06, vecchia formulazione (ante riforma, operata con il D.L.vo 205/10),
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e con specifico riguardo alle modalità di conservazione degli stessi, il comma 3 dello stesso articolo, il quale prevede che: “ I registri sono tenuti presso ogni impianto di produzione, di stoccaggio, di recupero e di smaltimento di rifiuti, nonché presso la sede delle imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto…. A tale scarna previsione si accompagna tuttavia quella contenuta nella Circolare 4 agosto 1998, n. GAB/ DEC/812/98, Circolare esplicativa sulla compilazione dei registri di carico scarico dei rifiuti e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti, documento tuttora vigente: i) al fine di garantire un efficace controllo sulla gestione e movimentazione dei rifiuti il legislatore ha stabilito un rapporto di reciproca integrazione dei dati riportati sul registro con quelli riportati sul formulario. Tale rapporto è previsto in modo espresso dall’art. 12, comma 3, del decreto legislativo n. 22/1997, e dall’art. 4, comma 3, del decreto ministeriale n. 145/1998, e presuppone che il formulario sia conservato nel medesimo luogo dove deve essere conservato il registro di carico e scarico. Di conseguenza, per «Ubicazione dell’esercizio» si deve intendere la sede dell’impianto di produzione, di stoccaggio, di recupero e di smaltimento di rifiuti o la sede operativa delle imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto, intermediazione e commercio di rifiuti: Da tale ultima disposizione, deve intendersi, dunque, che il registro di carico e scarico dell’impresa che effettua attività di trasporto, debba essere conservato presso ciascuna sede operativa.
Quali adempimenti deve rispettare un’impresa che cambia la sua unità locale?
197.
Posto che la disposizione di cui al comma 6 dell’art. 190, D.L.vo 152/06 (ante riforma, operata con il D.L.vo 205/10),prevede che i registri di carico e scarico dei rifiuti sono numerati e vidimati dalle Camere di Commercio territorialmente competenti” e che nulla sul punto è previsto dalle disposizioni vigenti di cui al D.M. 1 aprile 1998, n. 148, alla Circolare 4 agosto 1998, n. GAB/DEC/812/98,e al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, si ritiene che qualora l’impresa abbia già nella sua visura camerale la nuova unità locale, i registri possano essere già vidimati, prima dell’effettivo trasferimento. Diversamente, sarebbe opportuno attendere il trasferimento effettivo per poi procedere alla vidimazione e compilazione entro 10 giorni dalla produzione del rifiuto.
198.
In che unità di misura devono essere trascritti i rifiuti?
Le modalità di compilazione del registro c/s sono disciplinate dal D.M. 1° aprile 1998, n. 148 “Regolamento recante approvazione del modello dei registri di carico e scarico dei rifiuti”, il cui all’All. C1, Sez. III, lett. c) prevede che “nella terza colonna devono essere trascritti i dati relativi alla quantità di rifiuti prodotti all’interno dell’unità locale o presi in carico (in Kg o in litri o in metri cubi)”.
161
Responsabilità
199.
Quale disciplina si applica in tema di responsabilità?
Il tema della responsabilità dei soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti è ampio e coinvolge numerose disposizioni e provvedimenti di legge, che variano a seconda dei soggetti interessati. In primo luogo si segnala l’art. 178 TUA, il quale, nel dettare i principi che ispirano la gestione dei rifiuti, dispone che essa è effettuata conformemente ai principi di: – precauzione, – prevenzione, – sostenibilità, – proporzionalità – responsabilizzazione e – cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi inquina paga. Posti tali principi non si può non segnalare il disposto di cui all’art. 188 TUA. Tale articolo è stato completamente riscritto dal D.L.vo 205/10. Tuttavia, la nuova versione della norma, per effetto di quanto disposto dall’art. 16, c. 2, del citato decreto 205, entrerà in vigore solo all’indomani della piena operabilità del SISTRI. Prima di tale data continuerà ad applicarsi la versione anteriore all’entrata in vigore del D.L.vo 205/10. Nella versione ante D.L.vo 205/10 è previsto che il produttore del rifiuto è responsabile per tutte le fasi della gestione, ma la medesima responsabilità è esclusa dal momento in cui i rifiuti vengono presi in carico dal primo impianto autorizzati a recuperarli o smaltirli e il gestore sottoscrive la quarta copia del formulario. Discorso diverso va fatto per la versione dell’art. 188 del TUA, come modificato dal D.L.vo 205/10. Esso regola in maniera differenziata la responsabilità del produttore iniziale, prevedendo un regime esteso all’“intera catena di trattamento”, nel caso in cui il produttore non sia iscritto al SISTRI; ed un regime limitato alla “rispettiva sfera di competenza”, se invece il produttore ha aderito al Sistema ed ha rispettato gli obblighi da esso derivanti. Strettamente connessa ai principi dell’art. 178 è la responsabilità del produttore del prodotto, inteso come “qualsiasi persona fisica o giuridica che professionalmente sviluppi, fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti”. L’art. 178-bis del TUA, introdotto ex novo dal D.L.vo 205/10, ritiene anche quest’ultimo soggetto responsabile della gestione dei rifiuti derivanti dal bene che ha prodotto.
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Per quanto concerne la responsabilità della persone giuridiche, invece, deve necessariamente segnalarsi il D.L.vo 7 luglio 2011, n. 121 (in vigore del 16 agosto 2011), la cui novità più rilevante è stata sicuramente quella di inserire alcuni reati ambientali nei cataloghi dei reati presupposto della responsabilità degli enti previsti dal D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231.
200.
Esiste un principio di “co-responsabilità” nella gestione dei rifiuti?
Per gestione si intende “la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni e gli interventi successivi alla chiusura dei siti di smaltimento, nonché le operazioni effettuate in qualità di commerciante o intermediario” (art. 183, c. 1, lett. n, D.L.vo 152/06). Ai sensi dell’art. 178 “La gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione …”. Si ribadisce, dunque, il principio, vigente anche nel Decreto Ronchi, della responsabilizzazione e cooperazione di tutti i soggetti coinvolti, a qualsiasi titolo, non solo nel ciclo della gestione dei rifiuti, ma anche dei “beni da cui originano rifiuti”. Dunque, tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti rispondono solidalmente del corretto smaltimento; in particolare, il produttore-detentore di rifiuti speciali non pericolosi, qualora non provveda all’autosmaltimento o al conferimento dei rifiuti a soggetti che gestiscono il pubblico servizio, può ex art. 188 D.L.vo 152/06 (nella versione ante D.L.vo 205/10) consegnarli ad altri soggetti, ma, in tal caso, ha l’obbligo di controllare che si tratti di soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento; ove, per contro, tale doverosa verifica sia omessa, il produttore-detentore risponde a titolo di concorso con il soggetto qualificato (nella specie, smaltitore) nella commissione del reato di cui all’art. 256, co. 1 D.L.vo 152/06. Peraltro, il produttore di rifiuti risponde della contravvenzione di cui all’art. 256, co. 1, del D.L.vo 152/06, a titolo di concorso col soggetto ricevente, nel caso in cui quest’ultimo risulti privo della prescritta autorizzazione al recupero. Si tratta di un principio spesso ignorato, in quanto per lo più gli operatori ritengono che il rispetto degli adempimenti e degli oneri posti in capo a ciascuno dei soggetti indicati nell’art. 188 (“Oneri e finalità dei produttori e dei detentori”) sia sufficiente ad esonerarli dalla responsabilità. In realtà, ciò non è vero e al riguardo si segnala la sentenza Cass. Pen, sez. III, n. 7746 del 24 febbraio 2004, secondo cui la responsabilità di un soggetto coinvolto nella gestione dei rifiuti sussiste, nonostante il pieno rispetto da parte sua di tutte le condizioni prescritte dalla normativa, qualora con il proprio comportamento materiale o anche solo psicologico abbia comunque agevolato, incentivato o rafforzato la condotta illecita di altri. Sulla base di questi principi la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che, in forza del principio generale desunto dalla normativa comunitaria in base al quale tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti rispondono solidalmente del corretto smaltimento, il produttore del rifiuto non può consegnarlo a chicchessia, ma deve conferirlo o al servizio pubblico o ad un soggetto privato che sia però autorizzato a smaltire quel particolare tipo di rifiuto, a nulla rilevando che il consegnatario possa essere autorizzato a smaltire altri rifiuti giacché l’assenza di autorizzazione per il rifiuto specifico conferito equivale a mancanza di autorizzazione (Cass. Pen. 7461 del 19 febbraio 2008).
Responsabilità
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Da ciò discende che il produttore-detentore di rifiuti speciali non pericolosi, qualora non provveda all’autosmaltimento o al conferimento dei rifiuti a soggetti che gestiscono il pubblico servizio, può ex art. 188 D.L.vo 152/06 consegnarli ad altri soggetti, ma, in tal caso, ha l’obbligo di controllare che si tratti di soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento; ove, per contro, tale doverosa verifica sia omessa, il produttore-detentore risponde a titolo di concorso con il soggetto qualificato (nella specie, smaltitore) nella commissione del reato di cui all’art. 256, co. 1 D.L.vo 152/06 (Cass. III Pen. 8367 del 25 febbraio 2008; conf. Cass. III Pen. 44291 del 28 novembre 2007). Peraltro, il produttore di rifiuti risponde della contravvenzione di cui all’art. 256, co. 1, del D.L.vo 152/06, a titolo di concorso col soggetto ricevente, nel caso in cui quest’ultimo risulti privo della prescritta autorizzazione al recupero (Cass. III Pen. 18030 del 11 maggio 2007; conf. Cass. Pen. 18038 del 11 maggio 2007). Ancor più esplicitamente si è espressa Cass. Pen. 10 aprile 2012, n. 13363: “Emerge dall’esame degli att. 188, 193 e ss. del D.L.vo 152 del 2006 che tutti i soggetti che intervengono nel circuito della gestione dei rifiuti sono responsabili non solo della regolarità delle operazioni da essi stessi posti in essere, ma anche di quelle dei soggetti che precedono o seguono il loro intervento mediante l’accertamento della conformità dei rifiuti a quanto dichiarato dal produttore o dal trasportatore, sia pure tramite la verifica della regolarità degli appositi formulari, nonché la verifica del possesso delle prescritte autorizzazioni da parte del soggetto al quale i rifiuti sono conferiti per il successivo smaltimento. È, perciò, evidente che l’inosservanza degli obblighi imposti dalla legge, oltre ad integrare le fattispecie contravvenzionali previste dal testo unico sull’ambiente, può essere valutata quale elemento indiziario dell’elemento psicologico che integra le ipotesi delittuose previste in detta materia”.
201.
Può un ente essere responsabile di un reato ambientale?
Con il D.L.vo 231/01 è stata introdotta nel nostro ordinamento una forma di responsabilità amministrativa a carico delle imprese per illeciti posti in essere da propri dipendenti di posizione apicale. Secondo il decreto n. 231/2001 (art. 5), in caso di commissione di uno o più illeciti espressamente previsti dalla legge stessa (i cd. reati presupposto, ovvero quelli che danno luogo alla chiamata in causa dell’ente) ad opera di un soggetto appartenente al vertice aziendale operante in posizione apicale ovvero di un sottoposto all’altrui direzione e vigilanza, alla responsabilità penale dell’autore materiale del reato, si aggiunge la responsabilità amministrativa della società se, dalla commissione del reato, la società ha tratto un vantaggio o un interesse. Ciò significa che la responsabilità dell’ente coesiste con quella del soggetto attivo del reato in una sorta di corresponsabilità, a meno che l’ente non provi di aver adottato tutte quelle misure organizzative (modelli di organizzazione e di gestione, che in campo ambientale potrebbero essere identificati nei sistemi volontari di gestione ambientale, ispirati al principio di prevenzione, del rischio e del danno ambientale) idonee a prevenire la commissione del reato (artt. 6 e 7): infatti, quando un reato viene commesso dai vertici dell’impresa, poiché la loro attività esprime la politica d’impresa, la responsabilità dell’ente è presunta, a meno che venga fornita la prova liberatoria di cui all’art. 6 del decreto stesso.
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Ai sensi degli articoli 9 e 10 le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, graduate secondo la gravità della condotta criminosa e con un termine di prescrizione quinquennale, sono: • la sanzione pecuniaria: sempre applicata (per quote) per l’illecito amministrativo dipendente da reato; • le sanzioni interdittive: tra cui l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi, il divieto di pubblicizzare beni o servizi; • la confisca; • la pubblicazione della sentenza. Negli anni, la lista originaria dei “reati presupposto” è stata sempre più estesa dal Legislatore, comprendendo reati societari e finanziari, delitti contro la personalità individuale, violazioni in materia di diritto d’autore e poi (di nuovo) violazioni di alcune delle più gravi disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro e, infine, per effetto delle modifiche apportate dal D.L.vo 121/11 anche numerose fattispecie ambientali.
In che termini il produttore di un prodotto è responsabile nell’ambito della gestione dei rifiuti?
202.
L’art. 178-bis del TUA, introdotto ex novo dal D.L.vo 205/10, estende a chiare lettere la responsabilità, nell’ambito della gestione dei rifiuti, al produttore del prodotto, “inteso come qualsiasi persona fisica o giuridica che professionalmente sviluppi, fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti”. In realtà, all’affermazione di tale principio non corrisponde un vero e proprio assunto operativo della norma, che sembra dedicata solo a porre meri obiettivi generalisti: “possono essere adottati … con uno o più decreti … le modalità e i criteri di introduzione della responsabilità estesa del produttore del prodotto”, seppure in riferimento a scopi assolutamente prioritari: rafforzare la prevenzione e facilitare l’utilizzo efficiente delle risorse durante l’intero ciclo di vita, comprese le fasi di riutilizzo, riciclaggio e recupero dei rifiuti, evitando di compromettere la libera circolazione delle merci sul mercato, ridurre la produzione di rifiuti, progettare al meglio i prodotti, affinché durino più a lungo o siano più facilmente biodegradabili.
Quali responsabilità hanno produttori e detentori di rifiuti nell’adempimento dei loro oneri?
203.
Strettamente collegato al tema della responsabilità è quello degli oneri dei produttori e detentori dei rifiuti, come titolava, ante riforma, l’art. 188 D.L.vo 152/06. Oggi è nuova anche la stesura dell’art. 188 (sulla diversità tra la “vecchia” e la “nuova formulazione” della norma v. il quesito n. 199). La norma ora è rubricata “responsabilità della gestione dei rifiuti”; al di là di un’apparente modifica solo terminologica, dedicare un articolo alla responsabilità tout court
Responsabilità
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della gestione dei rifiuti testimonia una scelta di grande impatto del legislatore, che si orienta espressamente alla risoluzione della questione rifiuti attribuendo oneri chiari ai soggetti coinvolti. Questa la formulazione dell’articolo 188: “1. Il produttore iniziale o altro detentore di rifiuti provvedono direttamente al loro trattamento, oppure li consegnano ad un intermediario, ad un commerciante, ad un ente o impresa che effettua le operazioni di trattamento dei rifiuti, o ad un soggetto pubblico o privato addetto alla raccolta dei rifiuti, in conformità agli articoli 177 e 179. Fatto salvo quanto previsto ai successivi commi del presente articolo, il produttore iniziale o altro detentore conserva la responsabilità per l’intera catena di trattamento, restando inteso che qualora il produttore iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari di cui al presente comma, tale responsabilità, di regola, comunque sussiste. 2. Al di fuori dei casi di concorso di persone nel fatto illecito e di quanto previsto dal Regolamento (CE) n. 1013/2006, qualora il produttore iniziale, il produttore e il detentore siano iscritti ed abbiano adempiuto agli obblighi del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui all’art. 188-bis, comma 2 lett. a), la responsabilità di ciascuno di tali soggetti è limitata alla rispettiva sfera di competenza stabilita dal predetto sistema. 3. Al di fuori dei casi di concorso di persone nel fatto illecito e di quanto previsto dal Regolamento (CE) n. 1013/2006, la responsabilità dei soggetti non iscritti al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui all’articolo 188-bis, comma 2, lett. a), che, ai sensi dell’art. 212, comma 8, raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi è esclusa: a) a seguito del conferimento di rifiuti al servizio pubblico di raccolta previa convenzione; b) a seguito del conferimento dei rifiuti a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento, a condizione che il produttore sia in possesso del formulario di cui all’articolo 193 controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore, ovvero alla scadenza del predetto termine abbia provveduto a dare comunicazione alla provincia della mancata ricezione del formulario. Per le spedizioni transfrontaliere di rifiuti tale termine è elevato a sei mesi e la comunicazione è effettuata alla regione. 4. Gli enti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto dei rifiuti a titolo professionale, conferiscono i rifiuti raccolti e trasportati agli impianti autorizzati alla gestione dei rifiuti ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 213, 214 e 216 e nel rispetto delle disposizioni di cui all’articolo 177, comma 4. 5. I costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale dei rifiuti, dai detentori del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti”. Qualche osservazione: viene rimossa la previsione del “certificato di avvenuto smaltimento”, peraltro mai attuato negli anni addietro, inoltre, si fa notare che è espressamente previsto che “il produttore iniziale o altro detentore conserva la responsabilità per l’intera catena di trattamento, restando inteso che qualora il produttore iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari di cui al presente comma, tale responsabilità, di regola, comunque sussiste” ed in ciò non si può non evidenziare la mala formulazione della norma laddove recita “… di regola, comunque sussiste”: una legge che scrive “di regola” è una contraddizione in termini, perché chi, a questo punto, è in grado
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di stabilire quando è di regola e quando non lo è? Ma soprattutto da un punto di vista sostanziale ci si domanda: se il produttore conserva la responsabilità per l’intera catena di trattamento, si rischia di delegittimare il valore dell’autorizzazione pubblica, rilasciata in esito ad una valutazione della P.A., agli impianti di gestione, e quale potere di indagine può mai avere il produttore rifiuti specialmente se trattasi di piccola-media impresa (ovvero il 95% dell’attività economica italiana) che deve controllare il flusso dei rifiuti successivo al primo conferimento ad un impianto fisso di trattamento? Altra particolarità della norma è rappresentata dall’“esimente” data dall’iscrizione al SISTRI: il c. 2 infatti prevede che qualora il produttore iniziale, il produttore e il detentore siano iscritti ed abbiano adempiuto agli obblighi del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, la responsabilità di ciascuno di tali soggetti è limitata alla rispettiva sfera di competenza stabilita dal predetto sistema. In sintesi, possiamo affermare che siamo di fronte ad un doppio regime di responsabilità: “estesa” a tutte le fasi della gestione, per tutti i soggetti “non SISTRI”; “limitata” alla propria sfera di competenza, per i soggetti che aderiscono al Sistema.
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Rifiuti agricoli
204.
Da un punto di vista normativo quali sono i rifiuti agricoli?
In ambito agricolo possiamo distinguere due tipologie di rifiuti: – i rifiuti provenienti da abitazioni rurali, normalmente classificati come urbani e quindi gestiti a tutti gli effetti come tali; – i rifiuti provenienti da esercizio delle attività agricole e agro-industriali ai sensi e per gli effetti dell’art. 2135 c.c., classificati, ai sensi dell’art. 184 comma 3 lettera a) D.L.vo 152/06 come rifiuti speciali da conferire, a spese del produttore, a terzi autorizzati o al gestore del servizio pubblico in regime di convenzione.
205.
Quali rifiuti agricoli sono esclusi dalla normativa generale sui rifiuti?
Ai sensi dell’art. 185 c. 1 lett. e) non sono soggetti alla disciplina dei rifiuti contenuta nella Parte IV del D.L.vo 152/06: – le materie fecali, paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente nè mettono in pericolo la salute umana; ovvero, ai sensi dell’art. 185 c. 1 lett. b) e c): – i sottoprodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformati, contemplati dal regolamento (CE) n. 1774/2002, eccetto quelli destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio; – le carcasse di animali morti per cause diverse dalla macellazione, compresi gli animali abbattuti per eradicare epizoozie, e smaltite in conformità del regolamento (CE) n. 1774/2002; in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento.
Per gli altri rifiuti agricoli non rientranti nell’elenco di cui sopra, a quali oneri è assoggettato il produttore?
206.
Gli obblighi gravanti sul produttore dei rifiuti agricoli, secondo la disciplina del D.L.vo 152/06, sono i seguenti:
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La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
– richiedere l’autorizzazione allo stoccaggio (se non è possibile rispettare le condizioni previste per il deposito temporaneo – sulle particolari modalità di realizzazione del deposito preliminare da parte degli agricoltori v. quesito n. 72) nelle sue forme di deposito preliminare, se i rifiuti sono destinati a smaltimento, o messa in riserva se, invece, come probabile, possono essere oggetto di attività di recupero; – nel caso di recupero dei rifiuti è da verificare la possibilità di accedere alle cosiddette procedure semplificate, ovvero di non procedere alla richiesta di autorizzazione ma di inviare semplicemente una comunicazione di inizio attività alle sezioni regionali dell’albo gestori rifiuti. Per quanto riguarda la raccolta ed il trasporto di detti rifiuti non pericolosi se avviene in proprio e può essere individuata come attività ordinaria e regolare ai sensi dell’art. 212 comma 8, sarà soggetta ad una forma di iscrizione semplificata all’Albo nazionale dei gestori Ambientali; nel caso in cui invece ci si avvalga di terzi trasportatori, questi dovranno essere in possesso di idonea iscrizione all’Albo. Ai sensi dell’art. 189 comma 3, infine, chi “…svolge le operazioni di recupero…” deve presentare annualmente il MUD ovvero adempiere agli oneri SISTRI. Sono esonerati da tale obbligo gli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile con un volume di affari annuo non superiore a euro ottomila. Per quanto riguarda le operazioni di raccolta e trasporto è poi naturalmente previsto l’obbligo di tenuta di registri e formulari. Sul punto, l’art. 28 del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, nella legge 4 aprile 2012, n. 35 “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo” (in G.U. n. 82 del 6 aprile 2012 - Suppl. Ordinario n. 69) ha specificato, modificando l’art. 193 TUA, che “la movimentazione dei rifiuti tra fondi appartenenti alla medesima azienda agricola, ancorché effettuata percorrendo la pubblica via, non è considerata trasporto ai fini del presente decreto qualora risulti comprovato da elementi oggettivi ed univoci che sia finalizzata unicamente al raggiungimento del luogo di messa a dimora dei rifiuti in deposito temporaneo e la distanza fra i fondi non sia superiore a dieci chilometri. Non è altresì considerata trasporto la movimentazione dei rifiuti effettuata dall’imprenditore agricolo di cui all’articolo 2135 del codice civile dai propri fondi al sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola di cui è socio, qualora sia finalizzata al raggiungimento del deposito temporaneo”.
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Rifiuti alimentari
207.
Cosa si intende con il termine “scarti alimentari”?
Allo stato attuale non disponiamo, né nella normativa nazionale né in quella comunitaria, di una compiuta definizione della nozione di “rifiuto alimentare”. È possibile rinvenire solo qualche sporadico riferimento a questo concetto in una serie di norme finalizzate essenzialmente a disciplinarne la gestione sotto il profilo igienico sanitario, e più precisamente: – dal Regolamento 1774/2002/CE (dal 4 marzo 2011 ogni riferimento a tale regolamento si intende al successivo Reg. 1069/2009/ce del 21 ottobre 2009) del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 ottobre 2002, recante “Norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano”, annovera tra i Materiali di categoria 1 i “rifiuti alimentari provenienti da mezzi di trasporto che effettuano tragitti internazionali” [articolo 8, lettera f)]. La gestione e lo smaltimento di questi ultimi sono disciplinati dal decreto ministeriale del 22 maggio 2001 che all’articolo 1 specifica come le successive prescrizioni si applichino ai: “I rifiuti costituiti da prodotti alimentari per l’approvvigionamento dell’equipaggio e dei passeggeri ed i loro residui sbarcati da mezzi di trasporto commerciali, nazionali ed esteri, provenienti da Paesi extra-U.E. […]”, al quale rimanda il D.L.vo 24 giugno 2003, n. 182 (“Attuazione della direttiva 2000/59/CE relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi ed i residui del carico”) – precisando all’art. 7, comma 4, che “ai rifiuti sanitari ed ai rifiuti alimentari prodotti a bordo di mezzi di trasporto che effettuano tragitti internazionali si applicano le disposizioni vigenti in materia”. I rifiuti alimentari vengono inoltre citati, in un’ottica di prevenzione della formazione dei medesimi, dal: – decreto Presidente Repubblica 15 luglio 2003, n. 254 (“Regolamento recante disciplina della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell’articolo 24 della legge 31 luglio 2002, n. 179”) all’articolo 1, comma 3, lettera d) “l’ottimizzazione dell’approvvigionamento delle derrate alimentari al fine di ridurre la produzione di rifiuti alimentari”. Pur in assenza di una definizione del concetto di rifiuto alimentare, è necessario considerare che in quest’ambito sono comprese una serie di tipologie di rifiuti più specifiche, quali ad esempio gli oli e grassi vegetali ed animali esausti piuttosto che i rifiuti di origine animale. Di contro, la categoria dei rifiuti alimentari si pone come un sottoinsieme del più vasto gruppo dei rifiuti organici e, quando si tratta di rifiuti post-consumo, in parte anche con la tipologia dei rifiuti biodegradabili di cucine e mense.
170
Rifiuti assimilabili e assimilati
208.
Che differenza c’è tra i rifiuti assimilabili e assimilati?
Una parte dei rifiuti speciali, quindi generati da imprese o enti, non pericolosi si definisce come “assimilabile agli urbani” perché queste tipologie di rifiuti hanno caratteristiche e composizione merceologica tali da consentirne il recupero o lo smaltimento in impianti originariamente progettati per il trattamento di rifiuti urbani. Allo stato attuale, e fino all’emanazione del decreto ministeriale previsto dall’art. 195, comma 2, lettera e) del D.L.vo 152/06, sono speciali assimilabili agli urbani solo i rifiuti individuati secondo i criteri di cui al punto 1.1 della Deliberazione del Comitato interministeriale sui rifiuti (istituito ai sensi dell’articolo 5 del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915) del 27 luglio 1984, aventi una composizione merceologica analoga a quella dei rifiuti urbani, costituiti da manufatti o materiali simili a quelli elencati, a titolo esemplificativo, al punto 1.1.1., lettera a) della Deliberazione citata. I rifiuti speciali assimilabili, precisa la Deliberazione del 27 luglio 1984, devono avere caratteristiche tali da far sì che il loro smaltimento negli impianti per rifiuti urbani: “non dia luogo ad emissioni, ad effluenti o comunque ad effetti che comportino maggior pericolo per la salute dell’uomo e/o per l’ambiente rispetto a quelli derivanti dallo smaltimento, nel medesimo impianto o nel medesimo tipo di impianto, di rifiuti urbani”. Deve essere, infine, considerato che – a seguito del recepimento della Direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti attuato con il D.L.vo 13 gennaio 2003, n. 36 – dal 1 gennaio 2009 saranno abrogati i valori limite e le condizioni di ammissibilità dei rifiuti in questa tipologia di impianti di smaltimento previsti dalla deliberazione del Comitato interministeriale sui rifiuti del 27 luglio 1984, anche alla luce del D.M. 3 agosto 2005. Si definiscono come “speciali assimilati agli urbani” quei “rifiuti speciali assimilabili agli urbani” che ogni singolo Comune, esercitando il potere di assimilazione che è stato espressamente conferito a questi enti locali territoriali dall’articolo 198, comma 2, lettera g), del D.L.vo 152/06, ha accettato di prendere in carico nell’ambito del servizio pubblico di raccolta e gestione dei rifiuti urbani. Se in passato, infatti, con i commi 1 e 2 dell’articolo 39 della Legge 146/1994, si era provveduto ad un’assimilazione ex lege dei rifiuti di cui al punto 1.1.1., lettera a) della Delibera del Comitato interministeriale sui rifiuti del 27 luglio 1984, a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 17, comma 3, della Legge 24 aprile 1998, n. 128, (Legge comunitaria 1995-1997), si è avuta un’abrogazione esplicita della norma.
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Ogni Comune, quindi, ha la facoltà di scegliere – avendo come imprescindibile riferimento i criteri qualitativi e quantitativi determinati dallo Stato – quali rifiuti speciali assimilabili assimilare ai rifiuti urbani. Tale potestà dei Comuni trova un limite invalicabile, quindi, in quanto è statuito dall’art. 195, comma 2, lettera e), del D.L.vo 152/06: «Non sono assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti che si formano nelle aree produttive, compresi i magazzini di materie prime e di prodotti finiti, salvo i rifiuti prodotti negli uffici, nelle mense, nei bar e nei locali al servizio dei lavoratori o comunque aperti al pubblico; allo stesso modo, non sono assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti che si formano nelle strutture di vendita con superficie due volte superiore ai limiti di cui all’art. 4, comma 1, lettera d) del D.L.vo 114 del 1998».
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Rifiuti da demolizione
209. Cosa si intende per rifiuti da demolizione e chi è da considerare quale produttore dei medesimi?
I rifiuti derivanti da attività di demolizione sono rifiuti speciali, ex art. 184, co. 3, lett. b), T.U.A.. Posto che quando si parla di “rifiuti da demolizione” è immediato pensare a quei rifiuti che risultano dalle attività di costruzione, demolizione e scavo, la cui componente principale è costituita, in termini quantitativi, dalla frazione inerte (intonaci, laterizi, cemento, calcestruzzo, piastrelle, ceramiche, etc.), il settore dei rifiuti da demolizioni edilizie, in special modo quelli che derivano dalla demolizione dei manufatti, pone un problema fondamentale a cui ancora oggi si stenta a rispondere, ed è quello che concerne quale sia il produttore dei rifiuti da demolizione: il titolare della ditta che esegue i lavori di demolizione o il proprietario dello stabile demolito? Si tratta di un quesito tutt’altro che irrilevante, in quanto si versa in un tema pratico assai diffuso e la cui diversa interpretazione comporta prassi applicative antitetiche, oltre che incombenze giuridiche differenti a seconda del soggetto coinvolto. Infatti, se si accede alla teoria che il produttore dei rifiuti è il titolare della ditta appaltatrice dei lavori edili, ne consegue che i rifiuti vengono poi trasportati in proprio dalla stessa con mezzi aziendali; viceversa, se si abbraccia la tesi secondo la quale il produttore dei rifiuti che derivano dalla demolizione è il proprietario dell’immobile, nel momento in cui gli stessi vengono caricati sui mezzi della ditta esecutrice dei lavori di demolizione si realizza un rapporto di trasporto in conto terzi, pertanto soggetto a tutti gli adempimenti stabiliti dal D.L.vo 152/06. Per rispondere a questa domanda è necessario partire dall’articolo 183, comma 1, lettera f) del D.L.vo 3 aprile 2006, n. 152, secondo il quale è produttore “il soggetto la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti”. In base a quando enunciato dalla norma, il produttore di rifiuti viene individuato in colui che produce fisicamente il materiale costituente il rifiuto ed in colui che effettua operazioni di pretrattamento o di miscuglio o altre operazioni tali da modificare la natura o la composizione dei rifiuti primari: è evidente che questa operazione non sempre è agevole, anzi spesso si verificano casi pratici che rendono particolarmente complessa l’individuazione del soggetto produttore. Infatti, se si parte dalla nozione di rifiuto di cui all’articolo 183, comma 1, lett. a) del D.L.vo 152/06, si intende per rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”: ma questa nozione, se è
Rifiuti da demolizione
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vero che identifica il rifiuto, non identifica anche il soggetto che ne è il produttore in senso tecnico-giuridico. Se, viceversa, si abbraccia la tesi (scorretta) secondo la quale il produttore dei rifiuti che derivano dalla demolizione è il proprietario dell’immobile, nel momento in cui gli stessi vengono caricati sui mezzi della ditta esecutrice dei lavori di demolizione si realizza un rapporto di trasporto in conto terzi, pertanto soggetto a tutti gli adempimenti stabiliti dal D.L.vo 152/06, mentre, se si accede alla teoria (corretta e rispettosa del dettato normativo) che il produttore dei rifiuti è il titolare della ditta appaltatrice dei lavori edili, ne consegue che i rifiuti vengono poi trasportati in proprio dalla stessa con mezzi aziendali.
L’impresa edile è tenuta alla iscrizione all’Albo Gestori Ambientali in caso di trasporto di rifiuti?
210.
Qualora l’impresa edile trasporti, come parte integrante ed accessoria alla propria attività, i rifiuti speciali (non pericolosi) prodotti dalla sua attività, essa è tenuta all’iscrizione all’Albo Gestori Ambientali in via semplificata secondo quanto disposto dall’art. 212, co. 8, D.L.vo 152/06: “i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti, nonché i produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedenti trenta chilogrammi o trenta litri al giorno, non sono soggetti alle disposizioni di cui ai commi 5, 6, e 7 a condizione che tali operazioni costituiscano parte integrante ed accessoria dell’organizzazione dell’impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti”. Nel momento in cui viene in rilievo poi l’attività professionale di trasporto di rifiuti prodotti da terzi si ricade nella previsione di cui all’art. 212, co. 5.
Qual è la differenza tra rifiuti da demolizione e le terre e rocce da scavo?
211.
La Cass. Pen. n. 11127 del 22 marzo 2005 ha stabilito con chiarezza che anche laddove i materiali derivanti da attività di demolizione, ma composti da altro materiale eterogeneo non avente le caratteristiche oggettive tali da indurre a ritenerlo immediatamente riutilizzabile senza preventivo trattamento, integrano comunque la nozione giuridica di rifiuto. Dello stesso avviso è anche Cass. Pen. 39568 del 28 ottobre 2005, secondo cui i materiali che provengono dallo smantellamento delle strade e sono composti da materiali disomogenei (conglomerato bituminoso, cordoli di travertino, materiale plastico e ferroso misto a terreno) sono rifiuti: infatti, non sono costituiti solo da terriccio e ghiaia, ma anche da pezzi di asfalto e calcestruzzo che sono inequivocabilmente rifiuti. Comunque entrambi ricadono trai rifiuti speciali ex art. 184, c. 3, lett. b), D.L.vo 152/06.
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
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I rifiuti da demolizione possono spostarsi legittimamente dal cantiere verso un magazzino a qualche chilometro di distanza da esso?
212.
Qualora l’impresa edile trasporti i rifiuti speciali (non pericolosi) prodotti dalla sua attività, essa è soggetta alla disciplina dettata dall’art. 212, c. 8, D.L.vo 152/06, secondo il quale “i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti, nonché i produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedenti trenta chilogrammi o trenta litri al giorno, non sono soggetti alle disposizioni di cui ai commi 5, 6, e 7 a condizione che tali operazioni costituiscano parte integrante ed accessoria dell’organizzazione dell’impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti”. Ciò non toglie la sussistenza delle disposizioni inerenti il trasporto di rifiuti, ai sensi delle quali il formulario (o scheda SISTRI) deve accompagnare ogni trasporto dei medesimi. Poiché ex art. 183, c. 1, lett. bb) del D.L.vo 152/06 il deposito temporaneo di rifiuti è “il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti”, previo rispetto di determinate condizioni di seguito elencate nella norma, è di tutta evidenza che, se tale deposito temporaneo non può essere effettuato dove i rifiuti sono prodotti, esso non può, in ogni caso, essere fatto altrove (ovvero nel magazzino situato a qualche chilometro dal cantiere), pena l’incorrere nel reato di cui all’art. 256 D.L.vo 152/06. Pertanto si ritiene possibile, nel rispetto delle disposizioni oggi vigenti, optare per una diversa alternativa: l’impresa che effettua i lavori di ristrutturazione (produttore dei rifiuti), non potendo effettuare correttamente il deposito temporaneo né trasportare i rifiuti presso il magazzino per i motivi anzidetti, può accumularli sul proprio mezzo di trasporto fino al suo riempimento e poi, con apposita documentazione (formulario o scheda SISTRI), portarli direttamente all’impianto di destinazione finale, a meno che si tratti di attività di manutenzione (v. quesito n. 110). Restano fermi gli altri adempimenti documentali incombenti sul produttore dei rifiuti.
È possibile riutilizzare, all’interno della stessa area di cantiere di realizzazione di una strada, i materiali di risulta dalla scarifica del vecchio manto stradale (materiale bituminoso), come materiale per sottofondo per la realizzazione del nuovo rilevato? 213.
Al fine di considerare necessaria l’autorizzazione per il riutilizzo del materiale risultante dalla scarifica del manto stradale, occorre procedere ad una preliminare e corretta qualificazione del materiale stesso. L’inquadramento del materiale bituminoso nell’ambito della disciplina dei rifiuti o al di fuori di essa, infatti, influisce sul regime delle autorizzazioni in relazione alle connesse attività di recupero o di riutilizzo. Partendo dal dato normativo, quindi, occorre fare riferimento alla disciplina dettata dal D.L.vo 152/06, il quale definendo (all’art. 184, co. 3) come rifiuti speciali “i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di scavo”, fa salvo “quanto disposto dall’art. 184 bis”. L’art. 186, a sua volta disciplina l’utilizzo delle “terre e rocce da scavo”, “ottenute quali sottoprodotti” aventi, quindi, già le caratteristiche di sottoprodotti di cui all’art. 184 bis
Rifiuti da demolizione
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D.L.vo 152/06, le quali “possono essere utilizzate per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati” a determinate condizioni elencate nello stesso articolo, il cui mancato rispetto sottopone le terre e rocce da scavo in questione alle disposizioni in materia di rifiuti di cui alla Parte IV del Codice ambientale e conseguentemente, in caso di violazione delle disposizioni della Parte IV, anche al Titolo VI (sistema sanzionatorio). La disciplina delle terre e rocce da scavo è altresì stata modificata con il D.L.vo 205/10, il quale ha inserito tra le esclusioni (di cui all’art. 185, D.L.vo 152/06) al campo di applicazione della Parte IV succitata del medesimo decreto anche “il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso dell’attività di costruzione”, a condizione che “sia certo che il materiale sarà utilizzato a fini di costruzione allo stato naturale nello stesso sito in cui è stato escavato” (art. 185, co 1. lett. c). Tale nuova disposizione prevede che i materiali qui indicati non rientrino più nella Parte IV del D.L.vo 152/06, non trovando conseguentemente per essi applicazione né la disciplina sui rifiuti, né quella dei sottoprodotti, né quelle delle terre e rocce da scavo di cui all’art. 186 e quindi non si applicheranno le prescrizioni di quest’ultimo articolo, tra le quali il previo accertamento della contaminazione delle terre e rocce, per cui soltanto se, all’esito delle analisi, le stesse non risultino contaminate, si apre la possibilità dell’utilizzo delle stesse quali sottoprodotti e non rifiuti, sempre che ovviamente le stesse vengano gestite secondo i requisiti indicati dall’art. 186. Riprendendo, dunque, tale ultima distinzione tra rifiuti e sottoprodotti, in relazione al materiale risultante dalla scarifica del manto stradale, si segnala che la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass. III Pen., sentenza n. 39369 del 29 novembre 2006) ha evidenziato che laddove si tratti di “terra mista ad asfalto, betonelle di marciapiede e paletti precompressi misti a ferro, il riferimento all’interpretazione autentica di cui alla L. 443/01, art. 1, c. 17, come modificato dalla L. 306/03, art. 23, attualmente riprodotta nel D.L.vo 152/06, art. 186, è inconferente, in quanto essa esclude dal novero dei rifiuti le terre e rocce da scavo, ma non i materiali sopraccitati, i quali costituiscono rifiuti speciali derivanti dalle attività di demolizione ai sensi dell’art. 184, c. 3. lett. b), D.L.vo 152/06”. E successivamente (Cass. III Pen., sentenze n. 23787 del 19 giugno 2007 e 23788 del 18 giugno 2007) ha ribadito che “il materiale proveniente da scavo di strade non è assimilabile alle terre e rocce da scavo in quanto non è costituito esclusivamente da terriccio e ghiaia, ma anche da pezzi di asfalto e calcestruzzo qualificabili pacificamente come rifiuti” e che “il materiale proveniente dal disfacimento del manto stradale (residui di asfalto) costituisce rifiuto speciale e che l’inclusione tra i rifiuti del materiale proveniente da attività di demolizioni e costruzioni, ancorché non pericoloso, è stata confermata con l’art. 184 c. 3 lettera b) del D.L.vo 152/06”. In relazione a tale materiale, espressamente qualificato come rifiuto dalla legge, “il detentore ha l’obbligo di disfarsi avviandolo al recupero o allo smaltimento (Cass. III Pen. n. 7466 del 19 febbraio 2008). A tale riguardo il D.M. 5 febbraio 1998 relativo alle procedure semplificate di recupero di rifiuti non pericolosi, al punto 7.6 dell’Allegato 1, Sub Allegato 1 prevede la possibilità a partire da rifiuti quali conglomerato bituminoso proveniente da attività di scarifica del manto stradale e costituito da bitume ed inerti, di effettuare il loro recupero anche attraverso la realizzazione di rilevati e sottofondi stradali da effettuarsi però soltanto a seguito all’esecuzione del test di cessione sul rifiuto tal quale. Pertanto, laddove siano rispettati i requisiti richiesti dal Decreto ministeriale, le stesse attività di recupero potranno essere svolte in procedura semplificata. L’utilizzo dello stesso ma-
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La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
teriale all’interno dello stesso cantiere non vale ad esentarlo dalla richiesta di autorizzazione ovvero comunicazione alla provincia territorialmente competente, in quanto ciò non va a modificare la natura di rifiuto del materiale stesso e le necessarie prescrizioni, eccezion fatta per un eventuale deposito temporaneo dello stesso, da effettuarsi secondo il disposto dell’art. 183, lett. bb). Tra l’altro, la natura di rifiuto del materiale bituminoso più volte affermata dalla giurisprudenza non potrebbe far ritenere, almeno secondo l’attuale orientamento, di ricondurlo tra le esclusioni dalla disciplina sui rifiuti contemplate dall’art. 185, D.L.vo 152/06, precisamente alla nuova lettera c e di tal modo considerarlo come “suolo non contaminato” o “altro materiale allo stato naturale escavato nel corso dell’attività di costruzione” e quindi non sottoposto ad alcuna autorizzazione. Tale, a parere di chi scrive, è la conclusione cui deve giungersi seguendo quelle che sono le attuali direttive sul punto, non escludendosi però che in futuro, a seguito dell’integrazione dell’art. 185 e dell’allargamento del novero delle esclusioni, non possano formarsi diversi orientamenti.
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Rifiuti liquidi
214.
Qual è la differenza tra un rifiuto liquido ed uno scarico?
Sotto la vigenza delle normative precedenti (D.L.vo 152/99 e D.L.vo 22/97), la chiave di lettura per capire quando applicare l’una o l’altra risiedeva nella distinzione tra “rifiuto liquido” (soggetto al D.L.vo 22/97 ai sensi dell’art. 8) e “acque reflue” (cioè acque di processo o di scarico) che restavano escluse dal D.L.vo 22/97 ai sensi del medesimo art. 8. Tali acque reflue erano considerate “rifiuti liquidi” nel caso in cui si interrompeva il nesso funzionale e diretto dell’acqua reflua con il corpo idrico ricettore e la conseguente riferibilità dello scarico (“immissione diretta tramite condotta”) al medesimo soggetto. La successiva entrata in vigore del D.L.vo 152/06 ha apportato sostanziali modifiche, in quanto l’originaria nozione di scarico di cui all’art. 74, co. 1, lett. ff) del D.L.vo 152/06 intendeva per “scarico: qualsiasi immissione di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti dall’articolo 114”. Da quanto sopra emerge l’omissione dell’espressione “diretta tramite condotta” rispetto alla definizione di cui al D.L.vo 152/99, anche se secondo la sentenza Cass. III Pen. 35888 del 26 ottobre 2006, anche dopo l’entrata in vigore del D.L.vo 152/06, integra “scarico” in senso giuridico qualsiasi sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza (senza soluzione di continuità, artificiale o meno) i reflui dal luogo di produzione al corpo recettore. Ancora, per Cass. III Pen. 2246 del 16 gennaio 2008 il parametro di riferimento per individuare – in materia di rifiuti liquidi o semiliquidi di cui il detentore si disfa o intenda o sia obbligato a disfarsi – l’ambito di operatività della disciplina speciale relativa agli scarichi delle acque reflue nei corpi recettori rispetto alla disciplina generale sui rifiuti è rappresentato dalla esistenza o meno di un sistema di convogliamento delle acque nel corpo recettore, indipendentemente dalla loro natura inquinante. Resta, peraltro, inteso, come precisa Cass. III Pen. 6417 del 11 febbraio 2008, che le violazioni in materia di scarico trovano applicazione soltanto se il recapito dei reflui nel corpo ricettore sia “diretto”; se presenta, invece, momenti di soluzione di continuità (ad esempio, lo scarico dei reflui in vasche e il successivo trasporto in altro luogo tramite autobotte), si è in presenza di un rifiuto-liquido, il cui smaltimento deve essere come tale autorizzato. Pertanto, deve continuare a ritenersi che i cd. “scarichi indiretti”, cioè quelli che non raggiungono immediatamente un corpo ricettore o un impianto di depurazione, continuano ad essere disciplinati dalla normativa sui rifiuti ed invero, qualora il collegamento tra fonte
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di riversamento e corpo recettore è interrotto, viene meno lo scarico per fare posto allo smaltimento del rifiuto liquido. Successivamente, con la modifica introdotta dal D.L.vo 4/08 vi è un esplicito rimando alla definizione dell’art. 74 ormai finalmente ritornata di fatto sostanzialmente identica a quella di cui al D.L.vo 152/99 (per cui risultano ancora indispensabili le condizioni della convogliabilità diretta in un corpo recettore tramite conduzione), per cui, oggi la nuova nozione di scarico è così definita dall’art. 74 come “qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all’articolo 114”.
In base al D.L.vo 152/06 e alla definizione di scarico, un chiosco in legno, fronte mare, con bagni, necessita di autorizzazione allo scarico per le 2 fosse settiche a tenuta stagna da 10000 litri in C.A.V. che vengono svuotate periodicamente?
215.
Le fosse settiche vengono impiegate per trattare liquami grezzi provenienti direttamente dagli scarichi di servizi igienici-w.c. di abitazioni singole, comunità abitative, etc... Esse rappresentano uno dei sistemi più antichi di trattamento biologico delle acque, e sono costituite da una o due vasche, da installare entro terra, e di norma ispezionabili dall’alto attraverso i punti di ispezione situati nella copertura delle vasche stesse. La manutenzione ordinaria deve essere eseguita periodicamente e consiste nello svuotamento ed allontanamento mediante autobotte. La funzione delle fosse settiche è dunque quella di sostituire il depuratore, la cui attività consiste nella depurazione delle acque reflue, al cui termine si originano dei fanghi (CER 20.03.04 - fanghi delle fosse settiche) che sono attualmente classificati come rifiuti urbani (All. D, Parte IV, D.L.vo 152/06). Sulla base della normativa richiamata ai punti precedenti, si ritiene che nella fattispecie delle fosse settiche non si realizza uno “scarico” in senso giuridico, bensì uno smaltimento di rifiuti liquidi, sicché non si rende necessario richiedere un’autorizzazione allo scarico, ma gestire detti rifiuti nel rispetto dei principi di cui alla Parte IV del D.L.vo 152/06.
Quali oneri incombono sul soggetto manutentore riguardo alla gestione dei rifiuti derivanti dalla sanificazione degli impianti?
216.
La sanificazione si realizza attraverso l’utilizzo del vapore acqueo, il quale, unitamente agli inquinanti presenti, viene automaticamente aspirato e fatto confluire in un fusto prontamente sigillato. In altre parole, tale fusto contiene rifiuti liquidi (il vapore, infatti, è presente allo stato liquidi – acqua), ne discende che: – nel caso della classica gestione dei rifiuti da manutenzione, il manutentore è il produttore del rifiuto e su di lui grava l’obbligo di corretta classificazione del rifiuti (si consiglia di trovare un accordo in tal senso con il cliente, il quale conosce i prodot-
Rifiuti liquidi
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ti nocivi utilizzati in laboratorio ed i connessi rischi). Il manutentore trasporterà, previa iscrizione all’Albo gestori ambientali secondo le modalità anzidette, i fusti con apposito formulario presso la sua sede, compilerà il registro di C/S e ivi potrà realizzare un deposito temporaneo nel rispetto delle condizioni stabilite dalla legge (nel caso di soggetto SISTRI adempirà invece ai relativi oneri). Successivamente darà avvio alla seconda fase di gestione dei rifiuti, destinandoli a recupero/smaltimento, con nuova emissione del formulario e compilazione del registro (in linea di massima, egli affiderà il trasporto ad un apposito professionista regolarmente iscritto all’Albo, senza compiere in prima persona un nuovo trasporto, in quanto la sua attività professionale non è la gestione dei rifiuti, ma l’attività di manutenzione); – nel caso di manutenzione effettuata presso grandi aziende, il manutentore, svolta la sua attività di sanificazione, lascia la gestione dei fusti all’azienda stessa, la quale, proprio grazie alla presenza di un’area ecologica adeguatamente attrezzata e gestita, nonché – spesso – alla presenza costante di un soggetto a ciò deputato, si fa carico di adempiere, in quanto produttore, alla corretta classificazione del rifiuto, al suo deposito temporaneo, al successivo trasporto e, infine, recupero/smaltimento. Qualora il manutentore desideri essere sicuro della corretta gestione operata dall’azienda cliente, può chiedere a questa di poter avere fax/fotocopia della quarta copia del formulario relativo ai fusti di rifiuti liquidi: le parti hanno, infatti, facoltà di accordarsi in tal senso, anche se, rammentiamo, il manutentore non compare a nessun titolo sul Fir (infatti il produttore è l’azienda) e, verosimilmente, durante il deposito temporaneo i fusti preparati dal manutentore saranno gestiti insieme ad altri fusti provenienti da altre imprese.
È necessario il rinnovo dell’autorizzazione allo scarico in caso di nuova titolarità dell’attività dalla quale origina il refluo? 217.
L’art. 124 D.L.vo 152/06 dispone che tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati. L’autorizzazione è valida per quattro anni dal momento del rilascio ed un anno prima della scadenza deve essere chiesto il rinnovo. Lo scarico può essere provvisoriamente mantenuto in funzione, nel rispetto delle prescrizioni contenute nella precedente autorizzazione, fino all’adozione di un nuovo provvedimento ma solo nell’ipotesi in cui la domanda di rinnovo sia stata presentata tempestivamente. Nel caso in cui gli scarichi contengano sostanze pericolose, però, il rinnovo deve essere espresso e pertanto non vale il meccanismo della prosecuzione provvisoria. L’autorizzazione è un atto amministrativo di consenso necessario – laddove previsto dalla legge – per l’esercizio di un diritto soggettivo in conseguenza dell’esistenza di un interesse pubblico da salvaguardare (tutela della risorsa idrica, nel caso di specie). Tale atto ha alcuni elementi caratterizzanti quali la preesistenza rispetto all’esercizio del diritto e lo scopo di rispondere all’esigenza di controllo da parte dell’amministrazione. Per questi motivi l’autorizzazione deve essere richiesta dall’interessato – per tramite di una domanda completa di tutti gli elementi richiesti dalla legge – prima dell’inizio dell’attività il cui svolgimento resterà legittimo solo fino alla validità dell’atto rilasciato.
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La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
In tal senso già si esprimeva la giurisprudenza di Cassazione con sentenza Cass. pen., sez. III, 25 agosto 2000, n. 2715 (c.c. 7 luglio 2000): “(...) il mantenimento di uno scarico dopo la scadenza dell’autorizzazione integra l’ipotesi di reato prevista dall’art. 59, comma 1, del D.L.vo 152 del 1999, così come in precedenza dall’art. 21, commi 1 e 2, della legge n. 319 del 1976, atteso che, in tale caso, lo scarico è privo di autorizzazione al momento dello sversamento”. Il legislatore per questo ha disciplinato anche la fase della richiesta di rinnovo, concedendo, solo nel rispetto dei limiti di legge, il proseguimento dello scarico fino all’ottenimento del nuovo atto di assenso unicamente se la domanda è presentata per tempo (ovvero come detto sopra un anno prima della scadenza). L’apposizione del termine (la scadenza) all’atto amministrativo determina il venir meno dell’efficacia dell’atto (ovvero della sua capacità di produrre effetti): il che significa, per il caso di specie, che alla scadenza l’autorizzazione allo scarico (non rinnovata) non produce più l’effetto di “rimuovere un ostacolo all’esercizio di un diritto”, tant’è che il mantenimento in vita dello scarico è considerato illegittimo e conseguentemente sanzionato. Tale cessazione di effetti – con conseguente illegittimità dell’attività – è stata riconosciuta non solo a carico del titolare dell’atto ma anche nei confronti del gestore dell’impianto: in tal senso dispongono sia Cass. pen., sez. III, 25 gennaio 2007, n. 2877 quando afferma che: “(...) in caso di nuova titolarità dell’attività dalla quale origina il refluo si rende necessaria una nuova autorizzazione, configurandosi in difetto il reato di scarico senza autorizzazione, atteso che l’autorizzazione viene rilasciata al titolare dell’attività, previo controllo delle qualità soggettive di affidabilità a garanzia, già nella fase preliminare, dell’effettiva osservanza delle prescrizioni imposte dalla legge e di quelle aggiuntive imposte dall’autorità che provvede al rilascio dell’autorizzazione”, sia la successiva pronuncia Cass. pen., sez. III, 3 marzo 2009, n. 9497 secondo cui: “Il reato di cui all’art. 59 del D.L.vo 152/99 (effettuazione di scarichi senza autorizzazione) si configura non solo a carico del titolare dell’insediamento, ma altresì nei confronti del gestore dell’impianto, atteso che su quest’ultimo grava l’onere di controllo che l’impianto da lui gestito sia dotato di autorizzazione, configurando tale autorizzazione il presupposto della legittimità della gestione”. 218. È necessaria l’autorizzazione per il trattamento di rifiuti liquidi presso impianti di trattamento acque reflue urbane?
Al comma 1, l’art. 110 prevede come prima regola che: “Salvo quanto previsto ai commi 2 e 3 è vietato l’utilizzo degli impianti di trattamento di acque reflue urbane per lo smaltimento di rifiuti”. Il primo comma dell’art. 110 esprime quindi il principio generale in base al quale i rifiuti (liquidi) non possono essere conferiti agli impianti di trattamento di acque reflue urbane, la cui destinazione deve essere dedicata e mantenuta, in via prioritaria alla depurazione delle acque. Tendenzialmente la commistione delle due attività (trattamento dei reflui urbani e trattamento dei rifiuti liquidi) è perciò scoraggiata dal legislatore e vista con sfavore. Il comma 2 dell’art. 110 prevede tuttavia la prima, importante eccezione alla regola generale sopra menzionata: “In deroga al comma 1, l’autorità competente, d’intesa
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con l’Autorità d’ambito, in relazione a particolari esigenze e nei limiti della capacità residua di trattamento, autorizza il gestore del servizio idrico integrato a smaltire nell’impianto di trattamento di acque reflue urbane rifiuti liquidi, limitatamente alle tipologie compatibili con il processo di depurazione”. Nella previgente versione dell’art. 36 del D.L.vo 152/99, anteriore alla novella del D.L.vo 258/00, l’autorizzazione poteva essere concessa, in via più generale, a qualunque “gestore di impianti di trattamento di acque reflue”; venivano perciò ammessi all’autorizzazione in deroga sia soggetti privati che pubblici, purché esercissero impianti di trattamento di acque reflue. Nel regime attuale viene invece esclusa una tale possibilità, e il destinatario dell’autorizzazione in deroga può essere soltanto il gestore del servizio idrico integrato. L’autorizzazione deve essere rilasciata in base alla normativa sui rifiuti, d’intesa con l’Autorità d’Ambito. Il trattamento dei rifiuti liquidi, anche se effettuato tramite un impianto già autorizzato a scaricare ai sensi del D.L.vo 152/06 in base alle norme sugli scarichi idrici, deve essere espressamente assentito anche ai sensi delle norme sui rifiuti. Diversamente accade relativamente alla previsione di cui al successivo comma 3 dell’art. 110, il quale dispone: “Il gestore del servizio idrico integrato, previa comunicazione all’autorità competente ai sensi dell’articolo 124, è comunque autorizzato ad accettare in impianti con caratteristiche e capacità depurative adeguate, che rispettino i valori limite di cui all’articolo 101, commi 1 e 2, i seguenti rifiuti e materiali, purché provenienti dal proprio Ambito territoriale ottimale oppure da altro Ambito territoriale ottimale sprovvisto di impianti adeguati: a) rifiuti costituiti da acque reflue che rispettino i valori limite stabiliti per lo scarico in fognatura; b) rifiuti costituiti dal materiale proveniente dalla manutenzione ordinaria di sistemi di trattamento di acque reflue domestiche previsti ai sensi dell’articolo 100, comma 3; c) materiali derivanti dalla manutenzione ordinaria della rete fognaria nonché quelli derivanti da altri impianti di trattamento delle acque reflue urbane, nei quali l’ulteriore trattamento dei medesimi non risulti realizzabile tecnicamente e/o economicamente.” Infatti, il gestore del servizio idrico integrato, ove riceva i materiali ivi descritti, gode di un’autorizzazione ex lege, che viene però subordinata ad una preventiva comunicazione diretta all’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione allo scarico, affinché questa possa esercitare un controllo a posteriori sull’attività del gestore. Ad ogni modo, viene specificato che i rifiuti devono comunque prevenire dal medesimo ambito territoriale ottimale, o da altri ambiti territoriali solo nel caso in cui essi siano sprovvisti di impianti adeguati. Il successivo comma 5 prevede, inoltre, che nella comunicazione di cui al comma 3 il gestore del servizio idrico integrato debba indicare “la capacità residua dell’impianto e le caratteristiche e quantità dei rifiuti che intende trattare”. L’autorità competente può indicare quantità diverse o vietare il trattamento di specifiche categorie di rifiuti. L’autorità competente provvede altresì all’iscrizione in appositi elenchi dei gestori di impianti di trattamento che hanno effettuato la comunicazione di cui al comma 3. Viene pertanto, per tale via previsto un regime di preventiva comunicazione e successiva iscrizione, sostitutiva dell’autorizzazione espressa.
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Pertanto, ai fini dell’applicabilità dell’art. 110, comma 3, D.L.vo 152/06 e quindi dell’esclusione dall’obbligo di autorizzazione, non è necessario che i materiali sottoposti a trattamento nell’impianto di depurazione non siano riconducibili al novero dei rifiuti e pertanto alla relativa disciplina. Non v’è chi non veda come tale affermazione risulti dalla stessa lettura della norma in oggetto, la quale espressamente rimanda alla normativa sui rifiuti di cui alla parte IV del T.U. ambientale. Diversa appare la questione se alla luce dell’asserita qualificazione di tali materiali in termini di rifiuti, ricorrano le condizioni per avvalersi della deroga di cui al comma 3 al generale divieto contenuto al comma 1 dell’art. 110. Qualora tali condizioni ricorrano, ben può risultare applicabile la predetta eccezione, in qualsivoglia modo i rifiuti siano conferiti nell’impianto di depurazione, essendo chiaro che si è, nel caso di specie, al di fuori della nozione di scarico di acque reflue. Occorre, ad ogni modo, che l’impianto di cui si parla sia effettivamente un impianto prevalentemente dedito ad attività di trattamento reflui e a questo debitamente autorizzato, rappresentando il conferimento dei rifiuti con conseguente attività di smaltimento una attività eccezionale rispetto a quella principale di depurazione.
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Rifiuti pericolosi
219.
Qual è la vigente nozione di rifiuto pericoloso?
Il D.L.vo 152/06 all’art. 184 prevede che i rifiuti siano classificati – secondo l’origine – in rifiuti urbani e speciali, e – secondo le caratteristiche di pericolosità – in rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi. Ex articolo 184 comma 4 TUA “sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di cui all’Allegato I”; più precisamente, l’art. 183, dedicato alle definizioni, riporta la nozione rifiuto pericoloso, vigente dal 25 dicembre 2010: è rifiuto pericoloso “ il rifiuto che presenta una o più caratteristiche di cui all’allegato I della parte quarta del presente decreto”, ovvero l’allegato che enuncia le seguenti caratteristiche di pericolo: – H1 Esplosivo; – H2 Comburente; – H3 Infiammabile; – H4 Irritante; – H5 Nocivo; – H6 Tossico; – H7 Cancerogeno; – H8 Corrosivo; – H9 Infettivo; – H10 Tossico per la riproduzione; – H11 Mutageno; – H12 Rifiuti che, a contatto con l’acqua, l’aria o un acido, sprigionano un gas tossico o molto tossico; – H13 Sensibilizzanti; – H14 Ecotossico; – H15 Rifiuti suscettibili, dopo l’eliminazione, di dare origine in qualche modo ad un’altra sostanza, ad esempio a un prodotto di lisciviazione avente una delle caratteristiche sopra elencate. Le modifiche introdotte al TUA, per effetto del quarto correttivo, ovvero del D.L.vo 205/10 hanno quindi variato, in linea con quanto disposto dalla nuova Direttiva comunitaria in materia di rifiuti (Direttiva 2008/98/Ce), sia la nozione di rifiuto pericoloso sia i riferimenti normativi tecnici fino ad allora utilizzati per l’attribuzione delle caratteristiche di pericolo, ovvero per la classificazione di un rifiuto come pericoloso. L’attribuzione delle caratteristiche di pericolo è direttamente collegata a quanto disposto nella Decisione 2000/532/Ce e ssm, istitutiva dell’Elenco europeo dei rifiuti, e recepita nell’Allegato D alla Parte IV del TUA.
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Sia l’Allegato I, appena citato, sia l’Allegato D hanno subito modifiche per effetto del D.L.vo 205/10, proprio in relazione all’attribuzione delle caratteristiche di pericolo, dalle quali discende anzitutto che un rifiuto è pericoloso anche per l’attribuzione di una sola delle caratteristiche di pericolo indicate in Allegato, tutte attribuibili secondo i metodi di campionamento e analisi mutuati dal ISS. 220.
È vero che l’elenco dei rifiuti è vincolante solo per i rifiuti pericolosi?
L’art. 184 c. 5, del D.L.vo 152/06, come modificato dal D.L.vo 205/10 precisa: “L’elenco dei rifiuti di cui all’allegato D alla parte quarta … include i rifiuti pericolosi e tiene conto dell’origine e della composizione dei rifiuti e, ove necessario, dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose. Esso è vincolante per quanto concerne la determinazione dei rifiuti da considerare pericolosi. L’inclusione di una sostanza o di un oggetto nell’elenco non significa che esso sia un rifiuto in tutti i casi, ferma restando la definizione di cui all’articolo 183…”. Tale previsione, ripresa dalla Direttiva comunitaria in materia di rifiuti è mal trasposta perché relativa ad un onere per i governi (peraltro ad oggi non vi è stata alcuna presa di posizione del nostro Legislatore sul punto). Essa pertanto ancora oggi suscita forti perplessità perché se l’intento era quello di evitare che venisse esteso o ristretto l’insieme dei rifiuti da classificare come pericolosi senza il benestare dell’Europa, il risultato è quello di avere, di fatto, un articolo del TUA vigente che conferma che la codificazione del rifiuto per tramite del catalogo CER è vincolante solo ed esclusivamente per quei rifiuti già indicati come pericolosi in elenco. 221.
Quando scatta l’obbligo di analisi per la classificazione dei rifiuti?
Ai sensi degli artt. 184 comma 4 e 183 TUA sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di pericolo di cui all’Allegato I. Il catalogo europeo dei rifiuti indica espressamente come tali quelli contrassegnati da asterisco, se quindi un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, oppure come non pericoloso in quanto “diverso” da quello pericoloso (voce a specchio), esso è da classificarsi come pericoloso solo se le sostanze in esso contenute raggiungono determinate concentrazioni. A questo punto il produttore è tenuto – per attribuire una corretta codificazione – all’esecuzione di analisi da parte di un laboratorio certificato. Restano invariati gli obblighi di caratterizzazione, così come definiti dal D.M. 27 settembre 2010, per il conferimento in discarica.
Che differenza c’è tra un certificato di analisi falso ed uno semplicemente sbagliato?
222.
Ai sensi dell’art. 258 comma 4 TUA “Chi, nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti, fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti e chi fa uso di un certificato falso durante il trasporto...” sono parimenti puniti per l’attestazione di dati falsi con la reclusione fino a due anni, secondo il richiamo dell’art. 483 del codice penale.
Rifiuti pericolosi
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Le condotte sanzionate penalmente sono due, ovvero quella di predisposizione di un certificato di analisi con false indicazioni (e questo è un reato che prescinde dall’attività di trasporto e riguarda la redazione del certificato effettuata fornendo false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti) e quella di utilizzo di un certificato falso durante il trasporto. L’infedele attestazione della natura dei rifiuti dovrà essere dimostrata nell’eventuale giudizio penale in relazione alla volontà di recare pregiudizio ad uno o più soggetti e ledere l’interesse tutelato dal documento e/o la fede pubblica.
A quali condizioni i rifiuti urbani possono essere classificati come pericolosi? Quali sono le conseguenze di questa classificazione per il gestore dei RU? 223.
L’art. 184 del TUA nella versione precedente le modifiche introdotte dal D.L.vo 205/10, al comma 5 indicava: “Sono pericolosi i rifiuti non domestici indicati espressamente come tali, con apposito asterisco, nell’Elenco di cui all’Allegato D sulla base degli Allegati G, H ed I”, in tal modo escludendo, indirettamente, l’esistenza di rifiuti pericolosi di origine domestica. La nuova formulazione dell’art. 184 comma 4 sul punto è invece più generica ed infatti afferma: “Sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di cui all’Allegato I della parte quarta…” e ciò consente di affermare che anche i rifiuti urbani potrebbero rientrare tra i rifiuti pericolosi. Il che, è tecnicamente e materialmente corretto, poiché rispondente, in molti casi, alla realtà, ma comporta in teoria, diverse complicazioni nel momento in cui ad occuparsi di questi rifiuti (pericolosi) deve essere il gestore dei RU nell’ambito dell’ordinaria raccolta. Invero, già oggi i gestori si assumono indirettamente tutte le responsabilità di trasportare rifiuti urbani, anche pericolosi, alla stregua di rifiuti non pericolosi, ed è prassi ormai consolidata che a fronte del trasporto di rifiuti pericolosi non vi sia alcun adeguamento degli adempimenti documentali connessi, quindi nessun FIR od obbligo di iscrizione al SISTRI e nessun registro.
Come influenza l’uso del parametro del ph la classificazione di un rifiuto pericoloso? 224.
Per effetto delle modifiche introdotte dal D.L.vo 205/10 sia l’Allegato I, della Parte Quarta del TUA, sia l’Allegato D hanno subito modifiche sostanziali in relazione all’attribuzione delle caratteristiche di pericolo, dalle quali discende che un rifiuto è pericoloso anche per l’attribuzione di una sola delle caratteristiche di pericolo indicate in Allegato, secondo i metodi di campionamento e analisi mutuati dall’ISS. Tra questi metodi rientra la questione del riferimento ai valori di pH c.d. “estremi”, avuto riguardo in particolare all’attribuzione delle caratteristiche di corrosivo (H8) ed irritante (H4). Il riferimento a tale parametro nasce in relazione a quanto previsto nella Decisione 2000/532/Ce, in particolare nella nota esplicativa all’art. 2, secondo cui: “La classificazione e i numeri R si basano sulla direttiva 67/548/CEE del Consiglio, del 27 giu-
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La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
gno 1967 (concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura delle sostanze pericolose e successive modifiche). I limiti di concentrazione si riferiscono a quelli specificati nella direttiva 88/379/CEE del Consiglio, del 7 giugno 1988, oggi sostituita dalla Direttiva 1999/45/ce (per il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri relative alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura dei preparati pericolosi e successive modifiche)”. Tale annotazione trova concordanza (non letterale ma di significato) con quanto indicato all’Allegato I al TUA nella formulazione introdotta dal D.L.vo 205/10, alla nota 1, ove è specificato che per “L’attribuzione delle caratteristiche di pericolo “tossico” (e “molto tossico”), “corrosivo”, “ irritante”, “cancerogeno”, “tossico per la riproduzione”, “mutageno” ed “ecotossico” [ndr: corrispondenti a H6 H5 H8 H4 H7 H10 H11 e H14] deve essere effettuata secondo i criteri stabiliti nell’allegato VI parte IA e parte II B della Direttiva 67/548/Cee e ssmi concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura delle sostanze pericolose e successive modifiche”. Nella nota 2 si legge poi: “Ove pertinente si applicano i valori limite di cui agli Allegati II e III della Direttiva 1999/45/CE (che ha sostituito la Direttiva 88/379/Ce) relativa alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura dei preparati pericolosi e successive modifiche”. È bene precisare che l’Allegato VI della Direttiva 67/548/Ce sulle sostanze pericolose, citato nella nota 1, contiene i “Requisiti generali per la classificazione e l’etichettatura di sostanze e preparati pericolosi”, mentre i citati Allegati II e III della Direttiva 1999/45/ce recano rispettivamente “Metodi di valutazione dei pericoli per la salute di un preparato a norma dell’art. 6” e “Metodi di valutazione di pericolo per l’ambiente di un preparato ai sensi dell’art. 7”. Il riferimento ai “pH estremi” deriva proprio dall’applicazione dei metodi di valutazione introdotti dalla Direttiva 1999/45/Ce, avuto riguardo alla valutazione delle caratteristiche di pericolo “irritante”[H4] e “corrosivo” [H8]. Nella valutazione dei limiti di concentrazione da utilizzare per la valutazione dei “pericoli per la salute” come descritti all’Allegato II parte B, infatti, per il caso specifico degli “effetti corrosivi ed irritanti” (ivi comprese le lesioni oculari gravi), per i preparati non gassosi la tabella IV ivi riportata, conferma: “Per le sostanze che producono effetti corrosivi (R34-R35) o effetti irritanti (R36, R37, R38, R41), i limiti di concentrazione singola specificati nella Tabella IV, espressi in percentuale peso/peso determinano, ove necessario, la classificazione del preparato”, e inoltre è precisato (in nota) che: “la semplice applicazione del metodo convenzionale ai preparati contenenti sostanze classificate come corrosive o irritanti può portare ad errori per eccesso o per difetto della classificazione del rischio, se non tiene conto di altri fattori pertinenti (ad esempio pH del preparato) …”. Il valore di riferimento del pH è dato dalla richiamata Direttiva 67/548/Ce, All. VI; punto 3.2.5: “una sostanza o un preparato sono corrosivi anche nel caso in cui si possa prevedere il risultato, ad esempio in base a reazioni fortemente acide o alcaline rivelate, rispettivamente, da un pH< 2 oppure > 11,5…”. Ne consegue che per la classificazione dei rifiuti (per i quali non sia già stata evidenziata la pericolosità per effetto corrosivo o irritante in base a quanto previsto dall’Allegato D cioè per effetto della attribuzione di un codice CER con * dovuto proprio a queste caratteristiche di pericolo) se la ricerca delle caratteristiche di pericolosità di-
Rifiuti pericolosi
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mostra un valore di pH estremo (con più di una componente acida o basica), si deve effettuare una valutazione ulteriore relativa alla sola attribuzione della caratteristica di “corrosività” (H8) secondo i test in vitro basati sulla regolamentazione del pH.
225.
Cosa si intende per rifiuto ecotossico?
La definizione di rifiuto ecotossico (H14) ha sempre dato problemi agli operatori del settore. Una prima soluzione è stata di recente offerta dal D.L. 25 gennaio 2012, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 28 (in GU n. 71 del 24 marzo 2012), “Misure straordinarie e urgenti in materia di ambiente”. L’art. 3 del citato decreto, infatti, ha modificato il punto 5 dell’allegato D alla parte IV del TUA, il quale ora dispone che: “nelle more dell’adozione, da parte del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di uno specifico decreto che stabilisca la procedura tecnica per l’attribuzione della caratteristica H14, sentito il parere dell’ISPRA, tale caratteristica viene attribuita ai rifiuti secondo le modalità dell’accordo ADR per la classe 9 - M6 e M7”.
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Rifiuti portuali
226.
Esiste una specifica disciplina per i rifiuti portuali?
L’art. 232 del D.L.vo 152/06 (rifiuti prodotti dalle navi e residui di carico) dispone che “la disciplina di carattere nazionale relativa ai rifiuti prodotti dalle navi ed ai residui di carico è contenuta nel decreto legislativo 24 giugno 2003 n. 182”. Il D.L.vo 24 giugno 2003, n. 182 (GU n. 168 del 22 luglio 2003), in vigore dal 6 agosto 2003, dà attuazione alla Dir. 2000/59/CE relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi ed i residui del carico; dalla lettura del D.L.vo 182/03 discendono due considerazioni: – la disciplina degli impianti portuali di raccolta, del piano di raccolta, del piano di gestione rifiuti, della notifica, del regime tariffario, delle esenzioni e delle ispezioni è contenuta e regolata dal D.L.vo 182/03; – tutto quanto non espressamente disciplinato in tale sede, come la concreta gestione dei rifiuti prodotti dalle navi e gli adempimenti documentali ad essa connessi, è prescritto dal D.L.vo 152/06, norma generale che ritorna operativa laddove si conclude l’ambito di operatività della norma speciale (D.L.vo 182/03). Ciò è del resto avvalorato dal fatto che l’art. 2, co. 2, D.L.vo 182/03 precisa che i rifiuti prodotti dalla nave ed i residui del carico sono giuridicamente considerati rifiuti ai sensi del D.L.vo 22/97 (ora abrogato e sostituito dal D.L.vo 152/06 – art. 264, co. 1, lett. i del D.L.vo 152/06).
227.
Come è individuabile il produttore dei rifiuti sulle navi?
L’espresso richiamo contenuto nel D.L.vo 182/03 al D.L.vo 22/97, ora D.L.vo 152/06, ed i principi generali di interpretazione del diritto sono estremamente rilevanti: infatti, posto che nel D.L.vo 182/03 non si individua il “produttore dei rifiuti da nave”, ma si ripete diffusamente l’espressione “rifiuti prodotti dalle navi” e tra le definizioni di cui all’art. 183, co. 1, lett. f) del D.L.vo 152/06 si legge che il produttore è “il soggetto la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti”, è evidente che il produttore dei rifiuti de quibus è la nave e, nella specie, produce rifiuti speciali (art. 184, co. 3, D.L.vo 152/06).
Rifiuti portuali
228.
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Come si concretizza la gestione dei rifiuti nelle aree portuali?
Già il D.L.vo 22/97 prevedeva che nelle aree portuali la gestione dei rifiuti prodotti dalle navi fosse organizzata dalle Autorità portuali, ove istituite, o dalle Autorità marittime, che provvedevano anche agli adempimenti di cui ai precedenti artt. 11 e 12 (Mud e registri di carico e scarico). Il D.L.vo 182/03 ha spostato tale obbligo dalle Autorità portuali ai concessionari del servizio raccolta rifiuti, nella più ampia riorganizzazione del servizio portuale di raccolta e redazione del piano di gestione rifiuti, tanto che il porto deve essere dotato non solo di impianti di raccolta, ma anche di servizi di raccolta ed i relativi oneri devono essere a carico del gestore del servizio medesimo (art. 4, co. 1, D.L.vo 182/03), come anche gli adempimenti in tema di Mud e registri C/S (art. 4, co. 6, D.L.vo 182/03). In verità, tale obbligo è stato recepito dai vari porti con sostanziale differenza, tanto che la Commissione Europea ha inviato il 12 ottobre 2005 al Governo Italiano un parere motivato per il mancato rispetto delle regole imposte in materia dalla Dir. 2000/59/ Ce ed ha chiamato la Corte di Giustizia a pronunciarsi contro l’Italia perché non si è conformata all’obbligo di elaborare, approvare e applicare piani di raccolta e di gestione dei rifiuti in tutti i porti nazionali. In ogni caso, non potendosi prendere in considerazione la completa casistica dei porti italiani, si tenga presente che laddove sia istituito un servizio portuale, la situazione è nettamente differente rispetto a quanto illustrato nei paragrafi precedenti: in tal caso, infatti, è il gestore dell’impianto portuale di raccolta e/o del servizio di raccolta a provvedere agli adempimenti documentali (Mud, registri o SISTRI), sollevando la nave (produttore) da questi adempimenti. In tale ipotesi, posto che la responsabilità del produttore per il corretto recupero o smaltimento dei rifiuti è esclusa in caso di conferimento degli stessi al servizio di raccolta, la nave (in assenza di un suo qualsivoglia coinvolgimento in un atto illecito) non deve verificare ogni volta tutte le autorizzazioni dei partner commerciali a cui si rivolge il gestore di detto servizio; né è necessaria la presenza sui formulari di un quarto spazio per il soggetto gestore del servizio di raccolta. In particolare, per quanto concerne i rifiuti prodotti dalla nave la quale, come sopra precisato, è giuridicamente qualificabile come il produttore dei rifiuti, il gestore del servizio di raccolta nel porto si limita ad effettuare le attività oggetto del suo incarico e “provvede agli adempimenti relativi alla comunicazione annuale ed alla tenuta dei registri”, ma non diventa per ciò solo “produttore” dei medesimi rifiuti. Si segnala, infine, che il D.M. 2 marzo 2012, “Disposizioni generali per limitare o vietare il transito delle navi mercantili per la protezione di aree sensibili nel mare territoriale” (in GU n. 56 del 7 marzo 2012), ha stabilito (art. 2, c. 2),in deroga a quanto disposto dal D.L.vo 182/03, “prima della partenza dal porto di Venezia, è onere del Comandante della nave conferire i rifiuti ed i residui del carico prodotti dalla nave stessa”.
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Rifiuti radioattivi
229. Qual è l’attuale disciplina per i rifiuti radioattivi? In particolare, quali sono gli adempimenti connessi al trasporto?
I rifiuti radioattivi sono espressamente esclusi dal quadro normativo generale in tema di gestione di rifiuti, infatti l’art. 185, D.L.vo 152/06, dopo le modifiche apportate dal D.L.vo 4/08 e dal D.L.vo 205/10, circoscrive l’ambito di applicabilità dello stesso, escludendo dal suo campo di applicazione, tra l’altro, i rifiuti radioattivi, per rientrare, invece, nella normativa speciale. Infatti, la disciplina dei rifiuti radioattivi è dettata dal D.L.vo 17 marzo 1995, n. 230 (che al Capo II, art. 4, comma l, lettera r), fornisce la definizione di rifiuti radioattivi (“qualsiasi materia radioattiva, ancorché contenuta in apparecchiature o dispositivi in genere, di cui non è previsto il riutilizzo”), successivamente modificato e integrato dal D.L.vo 26 maggio 2000, n. 241, oltre che dal D.L.vo 9 maggio 2001, n. 257 (disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 maggio 2000, n. 241, recante attuazione della direttiva 96/29/Euratom in materia di protezione sanitaria della popolazione e dei lavoratori contro i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti). Vi è, dunque, una sorta di parallelismo tra la disciplina sui rifiuti contenuta nel D.L.vo 152/06, parte IV, che rappresenta la normativa base in materia, e tutte le altre normative settoriali che si rivolgono a ciascuna delle sostanze escluse dal novero dei rifiuti “tipici”. L’esistenza di tale ultime specifiche disposizioni di legge è posta quale condizione di operatività dell’esclusione dalla normativa generale. La gestione dei rifiuti radioattivi comprende tutte le attività, operative ed amministrative, che riguardano la “…raccolta, cernita, trattamento, condizionamento, deposito, trasporto, allontanamento e smaltimento nell’ambiente” dei rifiuti radioattivi stessi, come espressamente riportato nell’art. 4 del citato D.L.vo 230/95, al comma 1, lett. f), attuativo della normativa comunitaria 92/3/Euratom. Il trasporto costituisce, dunque, una fase del ciclo di gestione dei rifiuti radioattivi. Il trasporto delle materie radioattive è disciplinato dal D.L.vo 230/95, all’art. 21, che rinvia al regime autorizzatorio di cui alla L. 31 dicembre 1962, n. 1860, e successive modifiche e integrazioni, la quale precisa che il trasporto di materie radioattive debba essere effettuato, salvo particolari esenzioni, da parte di vettori autorizzati (art. 5 Legge 31.12.1962, n. 1860 come modificato dal D.P.R. 30.12.1965, n. 1704). L’art. 21 comma 3 del D.L.vo 230/95 stabilisce l’obbligo, per ogni vettore autorizzato al trasporto di materie radioattive, di inviare all’APAT un riepilogo dei trasporti effettuati con l’indicazione delle materie trasportate; e all’art. 32, che disciplina le spedizioni, le importazioni e le esportazioni di rifiuti radioattivi.
Rifiuti radioattivi
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Tutto il sistema è fondato sulla autorizzazione preventiva per le spedizioni di rifiuti provenienti da Stati membri della Unione europea o ad essi destinate, così come le esportazione e le importazioni da o verso altri Stati. Inoltre, l’autorizzazione preventiva, è altresì soggetta ad approvazione da parte delle autorità competenti degli Stati destinatari della spedizione ovvero interessati dal transito sul rispettivo territorio. I successivi commi 2, 3 e 4 descrivono tutto l’iter da seguire per il rilascio dell’autorizzazione preventiva. Dalle disposizioni contenute nell’art. 32, sono esclusi i trasporti di rifiuti radioattivi nei quali la concentrazione di radionuclidi è inferiore a 100 Bq/g ovvero a 500 Bq/g qualora si tratti di sostanze radioattive naturali solide. Questa esenzione è stabilita dal punto 1, Allegato II, D.L.vo 230/95; allegato nell’ambito del quale sono peraltro indicate le differenti ipotesi di spedizioni di rifiuti tra i vari Stati. Il punto 2 del predetto Allegato II, stabilisce anche in dettaglio l’iter procedurale da seguire nel caso di spedizione di rifiuti radioattivi verso uno Stato membro. Infine si ricorda che l’autorizzazione è valida per un periodo non superiore a tre anni. Gran parte di queste disposizioni non sono inficiate dalla direttiva 2006/117/Euratom, del Consiglio del 20 novembre 2006, relativa alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti radioattivi e di combustibile nucleare esaurito. Questa direttiva infatti abroga la precedente direttiva 92/3 Euratom fin qui esaminata, con effetto dal 25 dicembre 2008, fatti salvi gli obblighi degli Stati membri per quanto riguarda i termini per il recepimento nell’ordinamento nazionale e l’applicazione della direttiva stessa. Pertanto ogni riferimento alla direttiva abrogata “…si intendono fatti alla presente direttiva e vanno letti secondo la tavola di concordanza che figura in allegato”, questo è quanto precisa l’art. 23, comma 2 della direttiva 2006/117. Attualmente (ancora pienamente vigente la direttiva 92/3), dunque, la procedura autorizzatoria si applica unicamente al combustibile esaurito per il quale non è previsto alcun utilizzo ulteriore, escludendo quindi tutto il combustibile esaurito destinato invece al ritrattamento. La nuova direttiva definisce il proprio ambito di applicazione riferendosi alle spedizioni transfrontaliere di rifiuti radioattivi o di combustibile esaurito individuate sulla base due criteri, rispettivamente territoriale l’uno e quantitativo l’altro: il paese di origine o il paese di destinazione ovvero un paese di transito è uno Stato membro della Comunità; le quantità e la concentrazione dei materiali spediti superano i livelli previsti dall’art. 3, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva 96/29/Euratom (concernente le norme fondamentali di sicurezza relative alla protezione sanitaria della popolazione e dei lavoratori contro i pericoli derivanti dalle radiazioni ionizzanti). Infine si sottolinea il particolare regime transitorio fissato dalla direttiva 117/2006. Nel caso in cui la domanda di autorizzazione sia stata debitamente approvata da o trasmessa alle autorità competenti del paese di origine prima del 25 dicembre 2008, la direttiva 92/3 si applicherà a tutte le spedizioni oggetto della autorizzazione stessa. Con riguardo alle domande di autorizzazione presentate prima del 25 dicembre 2008 per una pluralità di spedizioni verso un paese terzo, lo Stato membro di origine dovrà tenere conto del calendario previsto per l’effettuazione di tutte le spedizioni oggetto della medesima domanda, della giustificazione addotta in merito al fatto di includere tutte le spedizioni in un’unica domanda ed infine all’opportunità di autorizzare un numero di spedizioni inferiori.
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Rifiuti sanitari
230.
Qual è l’attuale disciplina per i rifiuti sanitari?
I rifiuti sanitari sono disciplinati dal decreto del Presidente della Repubblica del 15 luglio 2003, n. 254 (“Regolamento recante disciplina della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell’art. 24 della legge 31 luglio 2002, n. 79”), richiamato espressamente dall’art. 227 co. 1, lett. b) del D.L.vo 152/06, che li distingue a seconda del rischio connesso alla loro infettività ed in base a tale distinzione specifica le differenti modalità di smaltimento. Tale DPR, tra l’altro, dispone l’abrogazione delle “norme, anche di legge, regolatrici delle materie indicate nel regolamento stesso”. Con il D.L.vo 205/10, poi, alcuna modifica è stata apportata, l’art. 227 (rimasto invariato dopo l’entrata in vigore del D.L.vo) dispone che “ restano ferme le disposizioni speciali, nazionali e comunitarie relative alle altre tipologie di rifiuti ed in particolare quelle riguardanti:… b) rifiuti sanitari… “. Il DPR in esame individua in termini generali, all’art. 2, i rifiuti sanitari come i rifiuti, elencati a titolo esemplificativo negli Allegati I e II, che derivano da strutture pubbliche e private, individuate ai sensi del D.L.vo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni, che svolgono attività medica e veterinaria di prevenzione, di diagnosi, di cura, di riabilitazione e di ricerca ed erogano le prestazioni di cui alla legge 23 dicembre 1978, n. 833 e suddivide gli stessi in diverse tipologie. Tra i rifiuti sanitari devono essere annoverati anche i rifiuti da esumazioni ed estumulazioni, i rifiuti derivanti da altre attività cimiteriali (esclusi i rifiuti vegetali provenienti da aree cimiteriali) nonché i piccoli animali da esperimento ed i relativi tessuti e parti anatomiche, provenienti da strutture pubbliche e private allo scopo di garantire elevati livelli di tutela dell’ambiente e della salute pubblica e controlli efficaci (art. 1). Inoltre, il DPR 15 luglio 2003, n. 254 definisce la categoria dei rifiuti sanitari assimilati ai rifiuti urbani e i rifiuti speciali, prodotti al di fuori delle strutture sanitarie, che come rischio risultano analoghi ai rifiuti pericolosi a rischio infettivo. Sono esclusi dall’ambito di applicazione della disciplina, i microrganismi geneticamente modificati di cui al D.L.vo 12 aprile 2001, n. 206, recante attuazione della direttiva 98/81/CE e i materiali normati dal regolamento CE n. 1774/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 ottobre 2002, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano. La normativa relativa ai rifiuti sanitari deve, comunque, coordinarsi con le norme regolamentari e tecniche attuative del D.L.vo 152/06 che disciplinano la gestione dei rifiuti. Resta infatti vigente, per espresso richiamo dell’art. 4 del DPR, la suddivisione dei rifiuti secondo l’origine in rifiuti urbani e speciali, e secondo la pericolosità in pericolosi e non pericolosi.
Rifiuti sanitari
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In particolare, la categoria dei rifiuti in esame, è caratterizzata dai requisiti della “pericolosità” e della “infettività”; importante è individuare i criteri sulla base dei quali verificare l’esistenza di tali caratteristiche. Il requisito della “pericolosità” si desume dall’art. 184 co. 5 del D.L.vo 152/06, invece, per quanto riguarda il requisito della “infettività”, si rimanda alla definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale “i rifiuti infetti vengono definiti come quei rifiuti che contengono agenti patogeni in quantità o concentrazioni sufficiente tale che l’esposizione ad essi potrebbe provocare una malattia”. Dunque, vi è un rapporto di specialità tra la disciplina del DPR 15 luglio 2004, n. 254 e quella generale sui rifiuti che sarà applicabile in tutti i casi non disciplinati dal DPR 254/2003.
Esistono prescrizioni particolari per il trasporto di rifiuti sanitari a rischio infettivo?
231.
Questi rifiuti sono disciplinati dal D.P.R. 254/2003 ed in particolare all’art. 8. Il trasporto di tali rifiuti deve avvenire per mezzo di appositi contenitori (imballaggi anche flessibili a perdere, recanti la scritta “rifiuti sanitari a rischio infettivo” oltre al simbolo del rischio biologico, ovvero se trattasi di rifiuti anche taglienti o pungenti la scritta dovrà riportare le parole “rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo taglienti e pungenti” e gli imballaggi dovranno essere rigorosamente rigidi) ed inoltre la lettera c) del medesimo articolo precisa che “l’intera fase del trasporto deve essere effettuata nel più breve tempo tecnicamente possibile”. Da segnalare infine che è una fase di rilievo per la “corretta” gestione del rifiuto sanitario proprio il momento della “chiusura del contenitore” prima di eventuale trasporto, che corrisponde alla vera e propria formazione del rifiuto e quindi inizio della gestione. Si tratta di una prescrizione molto importante in quanto a partire da questo momento, trovano applicazione le disposizioni in materia di deposito temporaneo, iniziando a decorrere il tempo di durata massimo dello stesso.
Come va effettuata la corretta gestione dei medicinali scaduti delle cassette di pronto soccorso? 232.
Il D.P.R. 254/03, all’art. 2 definisce “rifiuti sanitari: i rifiuti elencati a titolo esemplificativo, negli allegati I e II del presente regolamento, che derivano da strutture pubbliche e private, individuate ai sensi del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, che svolgono attività medica e veterinaria di prevenzione, di diagnosi, di cura, di riabilitazione e di ricerca ed erogano le prestazioni di cui alla legge 23 dicembre 1978, n. 833”. Ad una prima lettura parrebbe che i rifiuti sanitari si individuino in base alla loro provenienza, però l’art. 1, c. 5, del D.P.R. 254/03 precisa che “i rifiuti disciplinati dal presente regolamento e definiti all’articolo 2, comma 1, sono: a) i rifiuti sanitari non pericolosi; b) i rifiuti sanitari assimilati ai rifiuti urbani;
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La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
c) i rifiuti sanitari pericolosi non a rischio infettivo; d) i rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo; e) i rifiuti sanitari che richiedono particolari modalità di smaltimento; f) i rifiuti da esumazioni e da estumulazioni, nonché i rifiuti derivanti da altre attività cimiteriali, esclusi i rifiuti vegetali provenienti da aree cimiteriali; g) i rifiuti speciali, prodotti al di fuori delle strutture sanitarie, che come rischio risultano analoghi ai rifiuti pericolosi a rischio infettivo, con l’esclusione degli assorbenti igienici”. Da ciò discende che, più che la provenienza, la differenza viene fatta dal particolare grado di rischio insito nel rifiuto stesso: in altre parole, anche i rifiuti provenienti da un settore differente da quello sanitario possono essere assoggettati alla medesima disciplina qualora si tratti di rifiuti speciali e sempre che presentino un rischio analogo ai rifiuti pericolosi a rischio infettivo. Il D.M. 15 luglio 2003, n. 388 (Pronto soccorso aziendale) e s.m.e.i. elenca nell’All. 1 il contenuto minimo della cassetta di pronto soccorso: “guanti sterili monouso; visiera paraschizzi; flacone di soluzione cutanea di iodopovidone al 10% di iodio da 1 litro; flaconi di soluzione fisiologica (sodio cloruro – 0, 9%) da 500 ml; compresse di garza sterile 10 x 10 in buste singole; compresse di garza sterile 18 x 40 in buste singole; teli sterili monouso; pinzette da medicazione sterili monouso; confezione di rete elastica di misura media; confezione di cotone idrofilo; confezioni di cerotti di varie misure pronti all’uso; rotoli di cerotto alto cm. 2,5; un paio di forbici; lacci emostatici; ghiaccio pronto uso; sacchetti monouso per la raccolta di rifiuti sanitari; termometro; apparecchio per la misurazione della pressione arteriosa”. Posto che l’art. 2, c. 1 del suddetto D.M. prevede che della cassetta di pronto soccorso “sia costantemente assicurata, la completezza ed il corretto stato d’uso dei presidi ivi contenuti”, discende l’obbligo di verificare eventuali prodotti scaduti, deteriorati o danneggiati così che siano sostituiti onde garantire l’efficiente mantenimento del pronto soccorso aziendale. Pertanto, gravitando al di fuori del settore sanitario, le caratteristiche che i rifiuti devono possedere in ordine al loro assoggettamento alla normativa sui rifiuti sanitari sono: 1. essere rifiuti speciali; 2. presentare un particolare grado di rischio (parallelo a quello dei rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo), e non è questo il caso dei materiali della cassetta di pronto soccorso venuti a scadenza e mai utilizzati (così che non si presenta l’eventualità di un rischio infettivo). Poiché un farmaco è un prodotto chimico di sintesi, in un medicinale scaduto le componenti subiscono delle trasformazioni chimiche e chimico-fisiche; inoltre, la quantità di principio attivo può essere diminuita, sicché non è più garantito l’effetto terapeutico. Posto che nel panorama commerciale esistono aziende specializzate nella verifica e manutenzione delle cassette di pronto soccorso per le ditte clienti, lo smaltimento dei farmaci scaduti deve comunque avvenire in maniera corretta, perché detti medicinali possono avere ancora effetti farmacologici e la loro degradazione può sviluppare sostanze tossiche. Tale necessità era già stata avvertita in passato: il D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, la Delibera del Comitato Interministeriale 27 luglio 1984 e la L. 29 ottobre 1987, n. 441 (di conversione del D.L. 31 agosto 1987, n. 361) richiedevano l’istituzione del servizio di raccolta differenziata e smaltimento dei rifiuti urbani, ivi compresi i prodotti
Rifiuti sanitari
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farmaceutici scaduti. Trattandosi di attività di raccolta differenziata, le concrete modalità di gestione sono definite nei diversi regolamenti comunali che si accomunano per la previsione di appositi raccoglitori presso le farmacie. Poiché, come si è detto, i farmaci scaduti sono rifiuti che richiedono particolari sistemi di gestione, il loro ritiro e smaltimento possono essere svolti esclusivamente da soggetti autorizzati. In conclusione si ritiene che i medicinali delle cassette di pronto soccorso venuti a scadenza possano essere conferiti senza particolari formalità negli appositi contenitori distribuiti sul territorio, di norma presso le farmacie, al fine della loro raccolta e successivo avvio a smaltimento a cura dei soggetti a ciò professionalmente deputati. Tale situazione non risulta essere contraddetta da altre norme, quali quelle in materia di sicurezza, in quanto si limitano a disporre solo l’obbligo di tenuta della cassetta di pronto soccorso, senza aggiungere altri riferimenti in ordine alla gestione dei medicinali diventati ormai rifiuti.
196
Rottami ferrosi
233.
Come sono considerati i rottami ferrosi: EoW o rifiuti?
Per rispondere al quesito occorre innanzi tutto segnalare che dal 9 ottobre 2011 è in vigore il Reg. (CE) 333/2011 del Consiglio del 31 marzo 2011, pubblicato sulla GUUE L 94 dell’8 aprile 2011, recante i criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti. L’obiettivo principale del provvedimento è quello di stimolare i mercati del riciclaggio nell’Unione europea, attraverso disposizioni che permetteranno di creare certezza giuridica e parità di condizioni per l’industria del riciclaggio. I rottami di metallo, non dovranno così essere classificati come rifiuti, a condizione che: – si tratti di rottami puliti e sicuri; – i produttori applichino un sistema di gestione della qualità; – i produttori prevedano una dichiarazione di conformità, nel rispetto dei criteri indicati, per ciascuna partita di rottami. Inoltre, affinché i rottami possano perdere la qualifica di rifiuti, occorre terminare qualsiasi trattamento (come taglio, frantumazione, lavaggio e disinquinamento) necessario per preparare i rottami all’utilizzazione finale in impianti di lavorazione dell’acciaio o dell’alluminio oppure nelle fonderie. Il provvedimento rappresenta il primo regolamento di attuazione dell’articolo 6 della direttiva 2008/98/Ce sull’“end of waste”, dato che la Commissione sta attualmente elaborando criteri applicabili ad altri flussi di materiali di particolare importanza per i mercati del riciclaggio dell’UE come il rame, la carta, il vetro e il compost. Date queste premesse, si ritiene dover attribuire ai rottami ferrosi e non la qualifica di rifiuto, sulla base della considerazione, da un lato, dell’esclusione della categoria del sottoprodotto e, dall’altra, della possibilità di applicazione della categoria dell’EoW, ex Regolamento 333/2011, la quale comunque presuppone la sussistenza di un rifiuto. Si rileva, tuttavia, che il Regolamento 333/2011 richiede che vengano rispettati determinati obblighi, anche in riferimento alle caratteristiche che i rifiuti potenziali EoW devono possedere, in caso contrario anche la qualificazione di End of Waste non sarà corretta e dovranno essere considerati veri e propri rifiuti.
Rottami ferrosi
234.
197
Quali sono i limiti di applicabilità del Reg. (UE) 333/2011?
Il Reg. (CE) 2011/333 del Consiglio del 31 marzo 2011, pubblicato sulla GUUE L 94 dell’8 aprile 2011, reca i criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Dir. 2008/98/CE. La normativa comunitaria prevede inoltre che i rottami metallici vengano trattati secondo precisi standard tecnici da parte di imprese dotate di sistema qualità ed in grado, al termine del procedimento di recupero, di dichiarare che i rottami metallici trattati non sono rifiuti. Poiché gli aspetti operativi legati all’interpretazione del suddetto Regolamento hanno creato alcune difformità di vedute ed in attesa che il Ministero dell’Ambiente attivi un apposito tavolo tecnico, la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome ha elaborato un documento (prot. 12/43/CR07a/C5 del 15 marzo 2012) dal titolo “criticità in materia di gestione dei rifiuti”. In particolare, il punto 1 del suddetto documento chiarisce che “il Reg. (UE) n. 333/2011 si applica ai soli impianti che effettuano operazioni di recupero di rifiuti costituiti da rottami metallici in acciaio, ferro, alluminio e leghe di alluminio e non ai produttori primari di tali rifiuti”. In conclusione, quindi, il Reg. (UE) 2011/333 non si applica ai produttori di rifiuti, né agli impianti di smaltimento, ma solo agli impianti di recupero (autorizzati in procedura ordinaria o in procedura semplificata). 235. Quale documentazione è necessario predisporre per il trasporto transfrontaliero in lista verde di rifiuti costituiti da rottami ferrosi verso paesi europei ed extraeuropei?
Prima di tutto è necessario capire se effettivamente i rottami ferrosi di cui si prospetta il trasporto debbano considerarsi rifiuti o EOW-MPS. Nel caso in cui fossero considerati EoW, avendo cessato la qualifica di rifiuti, essi devono considerarsi delle vere e proprie merci, con ogni conseguenza relativa al trasporto ed ai relativi documenti di accompagnamento. Nel caso in cui i rottami dovessero essere considerati rifiuti, invece si dovrà fare riferimento al Regolamento (CE) n. 1013/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2006 e ssm, il quale all’art. 3, paragrafo 2 assoggetta ad una specifica procedura di sorveglianza e controllo: – le spedizioni superiori a 20 kg dei seguenti rifiuti destinati al recupero: – rifiuti elencati nella lista verde (allegato III) o nell’allegato III B del regolamento; – miscele di rifiuti, non classificati sotto una voce specifica della lista verde, composte da due o più rifiuti elencati nella stessa a condizione che la composizione delle miscele non ne impedisca il recupero secondo metodi ecologicamente corretti e tali miscele siano elencate nell’allegato III A dello stesso; nonché, ai sensi del successivo paragrafo 4, le spedizioni dei rifiuti esplicitamente destinati ad esami di laboratorio il cui quantitativo non deve superare la quantità minima ragionevolmente necessaria per effettuare correttamente le analisi e, in ogni caso, non deve superare 25 kg.
La gestione dei rifiuti dalla A alla Z - Terza edizione
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Come si coniuga la normativa di cui al D.M. 5 febbraio 1998 con il Reg. 333/2011?
236.
Da subito è stato fatto notare che il Reg. UE 333/2011 difetta di una norma transitoria che regoli il coordinamento con le normative nazionali previgenti alla sua entrata in vigore (avvenuta il 9 ottobre 2011). Da un’analisi della normativa europea e nazionale, sembra doversi ammettere che un rottame ferroso indicato nel Reg. 333/2011 cessa di essere un rifiuto solo allorquando siano rispettate le condizioni di cui al citato Regolamento. Questo orientamento è stato recentemente espresso anche dall’Assessorato al Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia, in data 7 ottobre 2011, che, tramite una Circolare (“Rottami metallici: applicazione Regolamento UE 333/2011 “End of Waste”), ha dato alcuni chiarimenti alle Province sull’applicazione del Regolamento UE 333/2011. Ai fini che qui interessano, si segnala che la Regione Lombardia ha chiarito che: – le disposizioni del Reg. n. 333/2011 si applicano ai soli impianti che effettuano operazioni di recupero rifiuti costituiti da rottami metallici in acciaio, ferro, alluminio e leghe di alluminio e non ai produttori primari di tali rifiuti; – per poter generare prodotti (ex MPS) e non rifiuti, a partire dal 9 ottobre 2011, tutti gli impianti, operanti sia con autorizzazione ordinaria che in procedura semplificata, devono essere adeguati alle prescrizioni previste dal Regolamento; – gli impianti che operano esclusivamente in procedura semplificata e che non si adeguano al Regolamento, possono continuare a svolgere il complesso delle operazioni che per il D.M. 5 febbraio 1998 sono riconducibili all’operazione R4, ma da tali operazioni decadono solo rifiuti e non prodotti (ex MPS). Analogamente, i medesimi impianti possono continuare a svolgere l’operazione di messa in riserva R13 che, di per sé, non può dare origine a prodotti (ex MPS) ma solo a rifiuti; – se vengono rispettate tutte le prescrizioni del Regolamento, i prodotti generati possono essere conferiti nelle aree che sono attualmente individuate come “deposito MPS”, a condizione che per tali partite di materiale sia già stata predisposta la dichiarazione di cui all’allegato 3 del Regolamento e che pertanto siano escluse dalla qualifica di rifiuto; – gli operatori che si adeguano ai disposti del Regolamento, ai sensi dell’art. 6, comma 7 devono darne comunicazione alle Province territorialmente competenti, trasmettendo copia della documentazione inerente l’accertamento di idoneità del sistema di qualità da parte dell’organismo/verificatore incaricato, comunque rientrante tra quelli previsti dall’art. 6, comma 5 del Regolamento. Ne deriva che dal 9 ottobre 2011 gli impianti che operano sulle tipologie di rifiuti indicate nel Reg. 333/2011 e che non soddisfano le prescrizioni ivi contenute non possono generare MPS.
199
Sfalci e potature
237.
Come si devono considerare gli sfalci e le potature?
Ai sensi dell’art. 184, c. 2, lett. e), del D.L.vo 152/06, sono rifiuti urbani i “rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali”. Il successivo art. 185, c. 1, lett. f), prevede invece che sono esclusi dalla normativa sui rifiuti “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa”. Ci si può dunque legittimamente chiedere se gli sfalci e le potature siano da considerare o meno rifiuti. Sul punto è intervenuto il Ministero dell’ambiente con la nota prot. n. 11338 del 1° marzo 2011, nella quale è affermato che l’art. 185 del TUA “fa riferimento soltanto a sfalci, potature ed altri materiali che provengono da attività agricola o forestale e che sono destinati agli utilizzi descritti nell’articolo stesso. I rifiuti vegetali provenienti da aree verdi quali giardini, parchi e aree cimiteriali, invece, non rientrano tra le esclusioni previste dal suddetto articolo, restano, pertanto, soggetti alle disposizioni della Parte IV del D.L.vo 152/06 e sono classificati come rifiuti urbani ai sensi dell’articolo 184, comma 2, lettera e), del medesimo decreto”. Ne deriva che per poter escludere gli sfalci e le potature dal novero dei rifiuti, essi devono avere una specifica provenienza ed una specifica destinazione. Infatti, i materiali in esame sono esclusi dall’ambito della parte IV del TUA se: a) non sono pericolosi; b) provengono da attività agricola o forestale; c) sono utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa. Fuori da tali ipotesi devono invece considerarsi: a) rifiuti urbani, se derivano da aree verdi quali giardini, parchi e aree cimiteriali; b) rifiuti speciali se, invece, derivano da un’attività economica, quale, ad esempio, l’attività di giardinaggio professionale. Si segnala, infine che il 9 maggio 2012 il Senato ha approvato il Ddl n. 3162, recante “Modifiche al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in materia di sfalci e potature, di miscelazione di rifiuti speciali e di oli usati nonché di misure per incrementare la raccolta differenziata”, modificando sensibilmente il testo licenziato dalla Camera il 16 febbraio u.s. L’attuale testo del ddl prevede, tra l’altro, all’art. 1, la modifica dell’art. 185 affinché gli sfalci e le potature siano escluse dal novero della disciplina sui rifiuti.
200
Sistri (*)
238.
Che cos’è il SISTRI?
Il SISTRI è il Sistema di controllo della Tracciabilità dei rifiuti introdotto con il D.M. 17 dicembre 2009 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 9 del 2010). L’innovazione, esclusivamente italiana, è costituita dall’impiego di dispositivi elettronici e di un particolare software realizzato dal Ministero dell’ambiente per la registrazione e gestione di dati – relativi alla produzione, movimentazione, recupero e smaltimento dei rifiuti – che andranno ad alimentare direttamente una banca dati informatizzata, unica a livello nazionale, dei rifiuti prodotti e smaltiti (e che sostituiranno i tradizionali documenti cartacei per la corretta gestione dei rifiuti, quali registri di c/s, Fir e Mud). Per accedere al software vengono forniti dalla Pubblica amministrazione i supporti informatici previsti, che consistono in dispositivi USB e in “black box”, queste ultime da installare sui veicoli che trasportano rifiuti. Il carattere innovativo del Sistri non risiede tanto nell’uso di strumenti informatici e telematici – in realtà le imprese di media e grande dimensione già disponevano di specifici software – per adempiere agli obblighi di documentazione della produzione, del trasporto, della gestione dei rifiuti, quanto piuttosto nella peculiare scelta di utilizzare queste tecnologie per assicurare la corretta esecuzione del trasporto dei rifiuti verso gli impianti di recupero e smaltimento. Il D.M. introduttivo del nuovo sistema informatico, trova la sua legittimazione giuridica nel previgente art. 189, co. 3-bis del D.L.vo 152/06, nel quale il legislatore ambientale rimandava ad un futuro decreto di attuazione l’istituzione di un sistema informatico di controllo della tracciabilità dei rifiuti. Il nuovo sistema pone come obiettivi quelli di: – semplificare le attuali procedure attraverso l’informatizzazione dei processi e l’eliminazione di alcuni adempimenti documentali (ai quali si sostituisce), quali il formulario, il registro di carico e scarico e il MUD; – conoscere in tempo reale i dati relativi all’intera filiera dei rifiuti; – garantire una maggior efficacia all’azione di contrasto dei fenomeni di illegalità. Dal giorno della sua piena operabilità i soggetti obbligati al Sistri non potranno più servirsi né dei registri, né dei formulari.
(*) Il D.L. n. 83/2012 ha sospeso l’entrata in operatività del Sistema fino al 30 giugno 2013.
Sistri
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239.
Qual è il punto sulla normativa SISTRI?
La messa a regime del nuovo Sistema ha incontrato notevoli difficoltà di tipo operativo tanto che la sua entrata in vigore (che presuppone l’iscrizione al sistema dei soggetti obbligati) prevista inizialmente per il 13 luglio 2010 è stata più volte prorogata ad opera di successivi decreti, i quali hanno inoltre apportato modifiche ed integrazioni al D.M. 17 dicembre 2009. Si tratta in particolare dei: – D.M. 15 febbraio 2010 (cd. Sistri-bis); – D.M. 9 luglio 2010 (cd. Sistri-ter); – D.M. 28 settembre 2010 (cd. Sistri quater); – D.M. 22 dicembre 2010 (cd. Sistri quinquies); – D.M. 18 febbraio 2011, n. 52 (cd. Testo Unico Sistri). Il Testo unico – che ha sostituito i precedenti decreti e, ad oggi, rappresenta il provvedimento principale in tema di SISTRI – è stato a sua volta sensibilmente modificato dal D.M. 10 novembre 2011, n. 219. Quest’ultimo decreto ha infatti apportato importanti novità all’articolato del D.M. n. 52/2011, tra le quali si segnalano quelle relative alla figura del delegato (v. quesito n. 240) e alla interoperabilità. Per effetto dell’introduzione dell’art. 21 bis è data la possibilità agli operatori che utilizzano software gestionali in grado di tracciare le operazioni poste in essere da tutti i delegati di richiedere il rilascio di apposito dispositivo USB abilitato alla firma delle schede SISTRI compilate.
Quali sono i compiti e le responsabilità associate alla figura del delegato SISTRI? 240.
Prima dell’entrata in vigore del D.M. n. 219/2011, ai sensi dell’art. 2, c. 1, lett. b), del TU SISTRI, il delegato era “il soggetto che, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, è delegato dall’impresa all’utilizzo e alla custodia del dispositivo USB, al quale sono associate le credenziali di accesso al Sistema ed è attribuito il certificato per la firma elettronica”. Già tale definizione era diversa rispetto a quella originariamente prevista dal D.M. 17 dicembre 2009, secondo il quale il delegato era “il soggetto al quale, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, sono stati delegati i compiti e le responsabilità relative alla gestione dei rifiuti per ciascuna UNITÀ LOCALE”. Come si evince agevolmente da una interpretazione comparativa delle due disposizioni, essendo venuto meno il riferimento ai compiti ed alle responsabilità, il delegato SISTRI doveva considerarsi un mero custode del dispositivo. Per effetto delle modifiche apportate dal citato D.M. n. 219/2011 è venuto meno l’obbligo di custodia che, invece, è stato assegnato al “titolare del dispositivo” (v. art. 9, c. 1, Testo Unico, come modificato dal D.M. n. 219/2011). Tale previsione ha reso coerente la lettera normativa con la prassi operativa contenuta nel Manuale operativo SISTRI in tema di delocalizzazione dei dispositivi. Pertanto, per le modifiche intervenute, il custode è ora il legale rappresentante dell’azienda iscritta, mentre il delegato è colui che utilizza il dispositivo USB. Un’altra importante novità introdotta dal D.M. n. 219/2011 riguarda l’ambito della responsabilità. Prima infatti, ai sensi dell’art. 11, c. 2, Testo Unico, il delegato era “responsabile della veridicità dei dati inseriti”, ora invece esso “risponde solo del corretto inserimento nelle Schede SISTRI dei dati ricevuti”.
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È legittima la costituzione di una o più unità locali (pari al numero degli impianti di depurazione che strutturalmente sono definiti unità organizzative) e definendo i restanti impianti, privi di linea telefonica, a volte non raggiungibili nemmeno da una rete via cellulare, come unità operative presenti sul territorio provinciale gestito dal soggetto gestore del servizio idrico integrato?
241.
La soluzione proposta è condivisibile alla luce delle novità introdotte dal D.M. n. 219/2011. Tra queste si segnala, da un lato, la nuova nozione di “unità locale”, la quale, ai sensi dell’art. 1, lett. l) è definita “qualsiasi sede, impianto o insieme delle unità operative, nelle quali l’operatore esercita stabilmente una o più attività di cui agli articoli 3, comma 1, e 4, comma 1”; dall’altro, il medesimo provvedimento ha introdotto la definizione di “unità operativa” che, ai sensi dell’art. 1, lett. l bis, risulta essere “reparto, impianto o stabilimento, all’interno di una unità locale, dalla quale sono autonomamente originati rifiuti”. 242. È necessario procedere all’iscrizione al SISTRI di tutti i mezzi inseriti in autorizzazione o è possibile valutare quali sono i mezzi effettivamente utilizzati e procedere alla sola iscrizione di questi?
L’art. 3, c. 6, lett. a) del D.M. 17 dicembre 2009 dispone espressamente che “per le attività di raccolta e trasporto di rifiuti, è necessario dotarsi … di un dispositivo per ciascun veicolo adibito al trasporto di rifiuti” e la successiva lett. c) riporta che “è necessario dotarsi di una black box per ciascun veicolo in dotazione all’impresa”. Inoltre, l’art. 4, c. 2 prescrive che il contributo di iscrizione al Sistri va versato “per ciascun veicolo adibito al trasporto di rifiuti”. Le medesime previsioni sono state riportate nel D.M. 18 febbraio 2011, n. 52. Allo stato attuale, emerge dal testo del decreto che è necessario considerare tutti i mezzi in dotazione all’Azienda ed inseriti in autorizzazione, senza fare distinzioni motivate da ragioni presumibilmente economiche. In questo senso, se venissero conteggiati e dotati dei dispositivi solo alcuni mezzi, in caso di guasto improvviso non sarebbe possibile effettuare il trasporto con un altro mezzo non conteggiato e privo del dispositivo, né spostare materialmente la black box dal mezzo guasto all’altro: altrimenti verrebbe vanificata la ratio di tracciabilità informatica ed in tempo reale perseguita dal D.M.
In merito alle modalità di calcolo dei contributi, occorre indicare all’atto dell’iscrizione (nella Sezione 3) sia il trasporto di rifiuti pericolosi che non pericolosi?
243.
Ex art. 7 del D.M. n. 52/2011, la copertura degli oneri derivanti dalla costituzione e dal funzionamento del Sistri è assicurata mediante il pagamento di un contributo ed esso è versato per ciascuna attività di gestione dei rifiuti svolta all’interno dell’unità locale. Le imprese che raccolgono e trasportano i rifiuti versano il contributo per la sola sede legale e per ciascun veicolo adibito al trasporto rifiuti.
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Dalle linee guida ministeriali si evince espressamente che “per le imprese che trasportano sia i rifiuti pericolosi che non pericolosi, il contributo relativo alla sede legale è dato dalla sommatoria del contributo dovuto per il quantitativo autorizzato di rifiuti non pericolosi e del contributo dovuto per il quantitativo autorizzato di rifiuti pericolosi”. Inoltre, la nota esplicativa sui costi precisa che “se l‘impresa svolge oltre all’attività di trasporto anche altre attività contemporanee (ad es. messa in riserva, deposito preliminare) sarà tenuta al pagamento del contributo anche per le ulteriori attività di gestione)”. Nella sez. 3 del modulo di iscrizione va, dunque, indicata la tipologia di rifiuti trasportati (rifiuti speciali pericolosi – rifiuti speciali non pericolosi). L’allegato II, recante la ripartizione dei contributi per categoria dei soggetti obbligati, ha cura di precisare che “le quantità e la popolazione complessivamente servita indicate nelle tabelle relative ai contributi dei trasportatori si riferiscono alle quantità e alla popolazione complessivamente servita autorizzate si sensi del D.M. n. 406 del 28 aprile 1998”, ovvero il regolamento recante norme di attuazione di direttive dell’Unione Europea, avente ad oggetto la disciplina dell’Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti. Pertanto, al momento, non rinvenendo indicazioni contrarie che facciano supporre l’esistenza di differenti criteri di calcolo, risulta che, ai fini del contributo, è necessario prendere in considerazione le categorie di iscrizione per il trasporto dei rifiuti speciali, non pericolosi e pericolosi, e sommare i rispettivi quantitativi autorizzati.
Come ci si deve comportare in ordine all’iscrizione al SISTRI nel caso di due società che devono attuare una fusione? 244.
L’art. 3, c. 7 del D.M. 17 dicembre 2009 individuava questa problematica, precisando che “in tutti i casi in cui si verifichi un’ipotesi di sospensione o cessazione dell’attività per il cui esercizio è obbligatorio l’utilizzo dei dispositivi di cui al comma 6, ovvero di estinzione dei soggetti giuridici ai quali tali dispositivi sono stati consegnati, a qualsiasi causa tale estinzione sia imputabile, ivi incluse le ipotesi di cancellazione e fusione, ovvero in caso di chiusura di un’unità locale, i soggetti di cui agli articoli 1 e 2 devono comunicare via telefax al sistema Sistri il verificarsi di uno dei predetti eventi, non oltre le 72 ore dalla data di comunicazione al Registro delle imprese dell’evento, e provvedere, nei successivi 10 giorni lavorativi, alla restituzione del dispositivo Usb ai medesimi uffici presso i quali è stato effettuato il ritiro e alla restituzione del dispositivo black box ad una delle officine autorizzate all’installazione”. Il citato comma prevede l’ipotesi in cui la fusione societaria, con conseguente cancellazione dal registro imprese, avvenga successivamente all’iscrizione al Sistri ed alla consegna dei dispositivi: in altre parole, non fa il caso in cui l’Azienda, consapevole che la sua cancellazione avverrà prima dell’operatività del Sistri, non si iscriva a priori al sistema. Al riguardo soccorre una risposta alle F.A.Q. riportata sul sito http://www.sistri.it ed in cui si legge sostanzialmente che le società che si cancellano dal registro delle imprese o che comunque cessano la loro attività, per la quale sarebbe obbligatoria l’iscrizione al Sistri, prima della scadenza del termine di iscrizione o, comunque, prima dell’inizio dell’operatività del Sistri, non sono tenute ad effettuare la procedura
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di iscrizione al Sistri, fermo restando che, una volta che il Sistri sarà operativo, non potranno più esercitare l’attività per la quale sarebbe stata obbligatoria l’iscrizione al Sistri. A ns. avviso, poiché nel caso di specie non si tratta di una mera cessazione di attività senza alcuni sviluppi futuri, ma di una cancellazione dal registro delle imprese motivata da una fusione che darà origine ad una nuova persona giuridica (soggetta al Sistri), si consiglia (cautelativamente) di procedere comunque all’iscrizione al Sistri nei tempi previsti: ciò metterà al riparo l’Azienda da eventuali sanzioni (che, stando alla bozza attualmente in circolazione, sono di carattere penale, ma che comunque non potranno essere applicata retroattivamente) riguardanti l’omessa iscrizione al sistema. Le permetterà inoltre di inserire correttamente i dati per poter comunicare nell’anno 2011 il cd. “mini-mud” e le consentirà di usufruire della possibilità concessa dall’art. 3, c. 9, secondo il quale “in caso di variazione dei dati identificativi dell’impresa comunicati in sede di iscrizione, i soggetti delegati all’utilizzo del dispositivo Usb provvedono, successivamente all’iscrizione della variazione presso il Registro delle imprese, ad effettuare le necessarie variazioni della sezione anagrafica accedendo all’apposita area del portale del sistema Sistri”. Pertanto, una volta che le società originarie si saranno iscritte, dopo la fusione e la costituzione della nuova società procederanno alla variazione dei dati identificativi dell’impresa ed, eventualmente, dei dati delle persone fisiche individuate quali delegati (art. 3, c. 10: “eventuali variazioni delle persone fisiche individuate quali delegati per le procedure di cui al presente decreto devono essere comunicate dall’impresa al Sistri, che emette un nuovo certificato elettronico. Il dispositivo contenente il nuovo certificato elettronico è ritirato secondo la procedura indicata nell’allegato IA”). L’art. 21, c. 1, del D.M. 52/2011 ha sostituito l’art. 3, c. 7 del D.M. 17 dicembre 2009. In un primo momento la formulazione della nuova norma era analoga alla precedente, ma oggi, per effetto delle modifiche apportate dal D.M. n. 219/2011, non è più espressamente prevista l’ipotesi della fusione. Le conclusioni raggiunte devono comunque ritenersi ancora valide in quanto la fusione produce la cessazione di almeno una società che hanno preso parte all’operazione.
In merito all’iscrizione SISTRI riguardante una società mista pubblicoprivata che si occupa di raccolta e trasporto di rifiuti urbani per il Comune, chi deve obbligatoriamente iscriversi, il Comune o la società mista?
245.
L’art. 3, c. 1 del D.M. 52/2011, come poi modificato dal D.M. 219/2011, individua i seguenti soggetti obbligati ad iscriversi al Sistri: a) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali pericolosi, ivi compresi quelli di cui all’articolo 212, c. 8, TUA; b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi di cui all’art. 184, c. 3, lett. c), d) e g) del D.L.vo 152/06, che hanno più di dieci dipendenti; le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero o di smaltimento di rifiuti e che risultino produttori di rifiuti di cui all’art. 184, c. 3, lett. g), del medesimo decreto, sono tenuti ad iscriversi al SISTRI anche come produttori indipendentemente dal numero dei dipendenti;
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c) le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero o smaltimento di rifiuti; d) i commercianti e gli intermediari di rifiuti; e) i consorzi istituiti per il recupero o il riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti che organizzano la gestione di tali rifiuti per conto dei consorziati; f) le imprese e gli enti che raccolgono o trasportano rifiuti speciali a titolo professionale; nel caso di trasporto navale, l’armatore o il noleggiatore che effettuano il trasporto o il raccomandatario marittimo, delegato per gli adempimenti relativi al SISTRI dall’armatore o noleggiatore medesimo; g) nel caso di trasporto intermodale marittimo di rifiuti, il terminalista concessionario dell’area portuale di cui all’art. 18 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, e l’impresa portuale di cui all’art. 16 della citata legge n. 84 del 1994, ai quali sono affidati i rifiuti in attesa dell’imbarco o allo sbarco, in attesa del successivo trasporto; h) nel caso di trasporto intermodale ferroviario di rifiuti, i responsabili degli uffici di gestione merci e gli operatori logistici presso le stazioni ferroviarie, gli interporti, gli impianti di terminalizzazione e gli scali merci ai quali sono affidati i rifiuti in attesa della presa in carico degli stessi da parte dell’impresa ferroviaria o dell’impresa che effettua il successivo trasporto; i) i Comuni della regione Campania; i-bis) i soggetti individuati con uno o più decreti ai sensi dell’articolo 188-ter, c. 5, del TUA. A questi vanno aggiunti i soggetti che possono aderire al Sistri su base volontaria (v. art. 4 TU SISTRI): a) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi di cui all’articolo 184, c. 3, lett. c) e d), del D.L.vo 152/06, che non hanno più di dieci dipendenti; b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi di cui all’art. 184, c. 3, lett. g) del medesimo decreto; c) le imprese e gli enti che raccolgono e trasportano i propri rifiuti speciali non pericolosi di cui all’articolo 212, comma 8, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni; d) gli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile che producono rifiuti speciali non pericolosi; e) le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti speciali non pericolosi derivanti da attività diverse da quelle di cui all’articolo 184, comma 3, lettere c), d) e g) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni Discende dalla lettura di quest’elenco che le imprese che effettuano la gestione dei rifiuti urbani nel territorio comunale non sono tenute ad iscriversi al Sistri (l’unica eccezione, al riguardo, è costituita dalle imprese della Regione Campania). Per quanto riguarda il Comune, in qualità di produttore di rifiuti urbani o di gestore del servizio pubblico di raccolta e trasporto di rifiuti urbani, non è tenuto ad iscriversi al Sistri (salvo i comuni della Regione Campania). Resta inteso che tutti gli Enti Locali, qualora producano rifiuti speciali pericolosi (ad esempio, Raee, lampade al neon, etc…), sono tenuti ad iscriversi al Sistri, come produttori di rifiuti pericolosi.
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Le black-box presenti sui mezzi sono sempre attive o lo sono solo quando si dà avvio al trasporto rifiuti e quindi si inseriscono i dati sul portale del SISTRI? Questo perché in alcune situazioni i mezzi si muovono pur non trasportando rifiuti (es.: quando si recano presso le officine per effettuare le manutenzioni).
246.
Il TU SISTRI non esplicita se, una volta installate le black box sui mezzi queste siano sempre attive o no. Poiché, però, le black box sono dotate di batteria tampone e il sistema Sistri (per così dire) “vede” l’apertura delle schede, la tracciabilità decorre dalla presa in carico della scheda sulla chiavetta del trasportatore a partire dall’inserimento della stessa nella black box. Del resto, tale conclusione è coerente con la finalità del sistema, in considerazione del fatto che si tratta di un dispositivo avente la funzione di monitorare il percorso effettuato dal veicolo durante il trasporto di rifiuti. Ciò non è di ostacolo, ovviamente, alla periodica manutenzione dei mezzi presso le officine: in questi casi, infatti, quell’automezzo, pur compiendo un percorso motivato da esigenze tecniche, non sarà stato indicato dagli operatori al sistema Sistri come deputato ad effettuare un trasporto di rifiuti e lo stesso, in quella data, non figurerà come mezzo operativo. Tale conclusione è del resto confermata da quanto previsto dall’all. 1, punto 7, in cui è previsto che “gli “operatori” dovranno utilizzare i “dispositivi” solo per le finalità previste nel regolamento”.
In che categoria devono essere iscritte le piazzole ecologiche autorizzate ex D.L.vo 152/06 (e non D.M. 8 aprile 2008)?
247.
Per quanto concerne gli impianti non disciplinati dal Decreto 8 aprile 2008, bensì autorizzati ex D.L.vo 152/06, ai quali vengono conferiti rifiuti urbani e che effettuano unicamente operazioni di messa in riserva (R13) e deposito preliminare (D15), soccorre il D.M. 52/2011 che, all’art. 6 c. 4, dispone espressamente che “gli impianti comunali o intercomunali ai quali vengono conferiti rifiuti urbani e che effettuano, in regime di autorizzazione, unicamente operazioni di messa in riserva R13 e deposito preliminare D15, si iscrivono al SISTRI nella categoria centro raccolta/piattaforma e versano il contributo annuo di previsto indipendentemente dalla quantità di rifiuti urbani gestiti”. Inoltre, per quanto concerne la produzione di rifiuti speciali (ad esempio, acque di raccolta dei pozzetti delle aree di stoccaggio), le piazzole ecologiche devono essere altresì iscritte nella categoria produttori/detentori rifiuti speciali, indicando la tipologia di rifiuti prodotti (rifiuti speciali pericolosi/rifiuti speciali non pericolosi).
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248.
Quanti dispositivi USB devono essere richiesti per ogni unità locale?
In merito al numero dei dispositivi USB richiesti per unità locale, l’art. 8, c. 1, lett. a) TU SISTRI prevede che, una volta perfezionata la prima fase della procedura di iscrizione, agli operatori iscritti, entro i successivi trenta giorni, viene consegnato un dispositivo USB, idoneo a consentire la trasmissione dei dati, a firmare elettronicamente le informazioni fornite ed a memorizzarle sul dispositivo stesso. La norma prevede poi che “è necessario dotarsi di un dispositivo USB per ciascuna unità locale dell’ente o impresa e per ciascuna attività di gestione dei rifiuti svolta all’interno dell’unità locale. In caso di unità locali nelle quali sono presenti unità operative da cui originano in maniera autonoma rifiuti, è facoltà richiedere un dispositivo USB per ciascuna unità operativa”. Per quanto concrene le attività di raccolta e trasporto dei rifiuti, la stessa norma dispone che “è necessario dotarsi di un dispositivo USB relativo alla sede legale dell’ente o impresa, e di un dispositivo USB per ciascun veicolo a motore adibito al trasporto di rifiuti. Ciascun dispositivo USB può contenere fino ad un massimo di tre certificati elettronici associati alle persone fisiche individuate, durante la procedura di iscrizione, dagli operatori come delegati per le procedure di cui al presente regolamento”. 249. Il peso dichiarato sul carico, sullo scarico e sulla scheda movimentazione devono coincidere? Il peso registrato sul carico e sullo scarico (peso effettivo rilevato da pesa o verificato a destino) può essere diverso da quello indicato sulla scheda movimentazione (stima iniziale)?
Il peso dei rifiuti indicato nell’area registro cronologico e nell’area movimentazione possono non coincidere: ciò avviene quando si riscontrano delle differenze fra il peso dichiarato (in partenza) ed il peso verificato a destino. Si tratta di una situazione tutt’altro che remota, tanto è vero che il manuale operativo SISTRI (Versione 2.4 del 26 aprile 2011) dedica appositamente il parag. 5.4.15 alla “gestione delle differenze fra peso dichiarato e peso verificato a destino”. Il suddetto Manuale fornisce utili indicazioni agli operatori, precisando che nel momento in cui il rifiuto è accettato dal destinatario, il SISTRI invia un’e-mail certificata contenente i dati del produttore, trasportatore, destinatario, codice CER, quantità indicata dal produttore (Kg), quantità accettata a destino (Kg), codice operazione. Il peso verificato a destino viene, poi, automaticamente inserito dal sistema nel registro cronologico del produttore nel campo “peso verificato a destino”. Quindi, una volta completata l’operazione di scarico presso l’impianto di destinazione del rifiuto, sul registro cronologico del produttore si troverà sia il peso del rifiuto dichiarato dal produttore medesimo al momento della movimentazione del rifiuto, sia (in un campo separato) il peso verificato dal destinatario. In ogni caso, anche in presenza di differenze fra il peso dichiarato e quello verificato a destino, il peso dichiarato non va successivamente modificato, né vanno in alcun modo effettuate operazioni di carico o scarico virtuali finalizzate al “pareggiamento” della differenza fra peso dichiarato e peso verificato. È evidente che le differenze fra peso verificato a destino e peso dichiarato devono essere tecnicamente giustificabili, anche in previsione di attività di controllo da parte degli enti di competenza. Ad esempio, le differenze possono essere dovute fra l’altro al fatto che:
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– il peso dichiarato è in realtà un peso stimato, dovuto all’assenza di pesatura da parte del produttore, mentre il destinatario pesa sempre il rifiuto all’atto dell’accettazione; – i sistemi di pesatura del produttore e del destinatario sono tarati in modo differente; – la tara (ovvero il veicolo che effettua il trasporto) può avere variazioni di peso dovuti a pioggia, parziale riempimento / svuotamento dei serbatoi di gasolio; – il rifiuto può andare soggetto a perdite di peso dovuto ad evaporazione, o ad aumenti di peso dovuto ad aumento dell’umidità. In ordine al divieto di rettifica del peso dichiarato alla luce del peso poi verificato a destino, le successive guide rapide (si veda, ad esempio, la guida rapida produttori Versione del 21 dicembre 2011, pag. 2) prevedono la “possibilità, per il produttore, di scegliere se mantenere il peso verificato a destino dall’impianto o modificarlo in fase di associazione della scheda SISTRI al registro cronologico”. In realtà, non si tratta di scegliere: il MATTM deve confermare se la modifica non è richiesta oppure se è necessaria. Se non si può procedere alla modifica dei dati dichiarati inizialmente, le quantità indicate nell’area registro cronologico non quadreranno mai con quelle avviare a recupero/smaltimento ed riportate nell’area movimentazione. Alla fine dell’anno, le differenze quantitative potrebbero essere vistose e i dati non rispecchiare la realtà: quindi, che valore potrebbe avere un registro che non corrisponde alla movimentazione effettiva? Il problema resta, purtroppo per gli operatori, aperto.
Si può lasciare il carico in bozza e firmarlo entro 10 giorni dalla data della presa in carico del trasportatore come previsto per lo scarico (semplificazione contenuta nella guida rapida produttori) o è necessario firmarlo prima della partenza del mezzo e quindi dell’effettiva presa in carico del rifiuto da parte del trasportatore? 250.
Dall’esame del D.M. 52/2011, del Manuale Operativo e delle Guida rapida Produttori non si rinvengono indicazioni in ordine alla prospettata ipotesi di lasciare in stato di bozza l’operazione di carico per poi firmarla entro 10 giorni dalla presa in carico del rifiuto da parte del trasportatore. Attualmente si riscontra solo la seguente semplificazione: “possibilità, per il produttore, di effettuare la registrazione cronologica di scarico entro 10 giorni dalla data di presa in carico del trasportatore”. A tal riguardo sarebbe meglio prevedere l’annotazione automatica sul registro cronologico all’atto della concreta presa in carico del trasportatore (e analogo automatismo per la compilazione del campo del peso verificato a destino).
È corretto spuntare sempre la casella del peso da verificare a destino indipendentemente dalla presenza o meno della pesa nello stabilimento da cui viene movimentato il rifiuto?
251.
La questione in ordine all’opportunità (o in alcuni casi all’obbligo) di spuntare la casella “verifica il peso a destino?” non si presenta per la prima volta in relazione al SISTRI, ma già in passato ha coinvolto dottrina ed operatori del settore. Già la Circolare ministeriale del 1998, al punto 1), lett. t), recita: “alla voce «quantità», casella 6, terza sezione,
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dell’allegato B, al decreto ministeriale n. 145/1998, deve essere sempre indicata la quantità di rifiuti trasportati”. Inoltre, precisa il documento, “…dovrà essere contrassegnata la casella «(–)» relativa alla voce “Peso da verificarsi a destino” nel caso in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di un sistema di pesatura si possano, rispettivamente, verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non precisa corrispondenza tra la quantità di rifiuti in partenza e quella a destinazione”. La presenza, quindi, di una di queste due condizioni, giustifica la possibilità di procedere alla verifica del peso effettivo presso il luogo di destinazione dei rifiuti, pur senza esimere il produttore dall’obbligo di indicare in partenza il peso presunto (si veda ex multis Cass. Civ. Sez. II, 11 ottobre 2006, n. 21781). È dunque consigliabile avvalersi di questa possibilità in tutti quei casi in cui il produttore debba indicare una stima di peso, e ciò in considerazione del fatto che di norma fa fede la quantificazione del rifiuto operata dal gestore dell’impianto di destinazione, il quale, in caso si riscontri una differenza di peso (soprattutto se in aumento) potrebbe respingere il carico, proprio perché alla pesatura non vi è possibilità di verificare che i rifiuti in esubero siano effettivamente tutti quelli indicati nel formulario. 252. Con quale delle due procedure (ordinaria o semplificata) è consigliabile operare dopo la piena operatività del SISTRI?
Il D.L. 13 agosto 2011, n. 138 – ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo – convertito con modificazioni nella L. 14 settembre 2011, n. 148, all’art. 6, c. 2 prevede che “al fine di garantire … l’efficacia del funzionamento delle tecnologie connesse al SISTRI, il Ministero … assicura … la verifica tecnica delle componenti software e hardware, anche ai fini dell’eventuale implementazione di tecnologie di utilizzo più semplice rispetto a quelle attualmente previste”. La citata norma (di carattere programmatico) ha avuto come effetto la previsione della seguente semplificazione: “possibilità, per il trasportatore, di prendere in carico e/o consegnare il rifiuto senza la necessità di inserire il dispositivo USB veicolo nel computer del produttore e/o dell’impianto (utilizzando l’Area Conducente ad Accesso Pubblico ad inizio e fine giornata)”. Questa semplificazione ha sollevato dei dubbi. Infatti, se l’uso del dispositivo USB del mezzo era stato pensato per “garantire che il mezzo partisse da, o arrivasse in, un determinato luogo attribuendo all’evento data e ora certe”, perché semplificare la presa in carico del rifiuto e/o la consegna senza l’inserimento del suddetto dispositivo? Peraltro, non sono state rinvenute notizie in ordine alle presunte indicazioni da parte di Confindustria sull’utilizzo preferenziale per la procedura che esime il trasportatore dal ricorrere al dispositivo USB: pertanto, ad avviso di chi scrive, è più prudente operare secondo la procedura standard.
253.
Quale linea operativa è consigliabile seguire?
Nel momento in cui l’attività professionale del produttore genera rifiuti, lo stesso – entro 10 giorni dalla loro produzione – deve creare una nuova registrazione cronologica (carico) mediante i seguenti passaggi:
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– – – – –
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seleziona il collegamento “nuova registrazione cronologica”; preme il tasto “nuovo carico”; indica la “causale registrazione”; procede alla ricerca del codice CER (per codice o per denominazione); compila i campi obbligatori relativi a “quantità” (peso di partenza: effettivamente pesato in caso di presenza di pesa, o solo stimato in sua assenza), “stato fisico” e “caratteristiche pericolo”; – (indica la posizione geografica del rifiuto solo se quest’ultima non corrisponde all’indirizzo dell’U.L. registrata nel SISTRI); – inserisce eventuali annotazioni; – salva la registrazione cronologica di carico tramite il tasto “salva”; – firma la registrazione cronologica (oppure può rimandare il momento della firma se ci sono modifiche da apportare, perché una volta firmata la registrazione non può più essere ritoccata); – verifica i dati riportati e valida il processo di firma mediante il tasto “sì”; – digita il PIN, preme il tasto “firma” e attende il messaggio “la registrazione è stata firmata correttamente”. Successivamente, il produttore compila la scheda SISTRI dall’area movimentazione mediante i seguenti passaggi: – seleziona il collegamento “compila scheda produttore”; – preme il tasto “nuova scheda” in corrispondenza del profilo interessato per avviare il processo di compilazione guidata della scheda SISTRI; – (il campo relativo alla “persona da contattare” viene alimentato automaticamente dal sistema con i dati del delegato); – seleziona il rifiuto da movimentare tra quelli in giacenza; – indicare il peso del rifiuto da movimentare in Kg, se necessario anche il volume dello stesso espresso in mc – in mancanza di strumenti di pesatura deve essere indicato un peso stimato (su questo aspetto si fa notare che nella guida rapida produttori, pag. 2, si riporta letteralmente la seguente semplificazione: “possibilità di indicare nella scheda SISTRI il volume di un rifiuto in alternativa al peso”); – digita il numero dei colli, seleziona il tipo di imballaggio e l’operazione dell’impianto a cui sarà sottoposto il rifiuto; – (se necessario, compila le sezioni relative a “intermediario/commerciante senza detenzione”, “consorzio per il riciclaggio ed il recupero” e “annotazioni”); – indica l’azienda di trasporto; – indica l’impianto a cui destinare il rifiuto; – salva la scheda SISTRI; – avvia il processo di firma mediante il tasto “firma”, se non ci sono modifiche da apportare; – valida il processo di firma mediante il tasto “sì”; – digita il PIN, preme il tasto “firma” e attende il messaggio “la registrazione è stata firmata correttamente”. Il trasportatore giunge presso l’impianto del produttore e carica il rifiuto – a prescindere dalla presenza/assenza di pesa, il carico e la scheda di movimentazione (di solito compilati il giorno prima, a quanto risulta delle Vs. indicazioni), già firmati, riportano il peso stimato in partenza. Al riguardo, si rammenta che solo la scheda SISTRI, seppur già firmata, può essere modificata per quanto concerne il campo “quantità”, mentre la registrazione di carico no.
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Il trasportatore giunge all’impianto di destinazione e il mezzo viene pesato. Come sopra anticipato, il peso verificato a destino viene automaticamente inserito dal sistema nel registro cronologico del produttore nel campo “peso verificato a destino”. Quindi, una volta completata l’operazione di scarico presso l’impianto di destinazione del rifiuto, sul registro cronologico del produttore si troverà sia il peso del rifiuto dichiarato dal produttore medesimo al momento della movimentazione del rifiuto, sia (in un campo separato) il peso verificato dal destinatario.
A seguito delle recenti proroghe di operatività del SISTRI, ad oggi esiste la possibilità o addirittura l’obbligo, di poter utilizzare la piattaforma SISTRI come registro di carico e scarico, oppure l’obbligo è quello di continuare la gestione dei rifiuti con l’ordinario registro di carico e scarico e relativa dichiarazione MUD?
254.
L’art. 52 del D.L. n. 83/2012 “Disposizioni in materia di tracciabilità dei rifiuti” dispone che “ Allo scopo di procedere (…) alle ulteriori verifiche amministrative e funzionali del Sistema di controllo della Tracciabilità dei Rifiuti (SISTRI) (…) resesi necessarie anche a seguito delle attività poste in essere ai sensi dell’articolo 6, comma 2, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni in legge 14 settembre, n. 148 e successive modifiche ed integrazioni, il termine di entrata in operatività del Sistema SISTRI (…) è sospeso fino al compimento delle anzidette verifiche e comunque non oltre il 30 giugno 2013, unitamente ad ogni adempimento informatico relativo al SISTRI da parte dei soggetti di cui all’articolo 188-ter del decreto legislativo n. 152/2006, fermo restando, in ogni caso, che essi rimangono comunque tenuti agli adempimenti di cui agli articoli 190 e 193 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 ed all’osservanza della relativa disciplina, anche sanzionatoria, vigente antecedentemente all’entrata in vigore del decreto legislativo del 3 dicembre 2010, n. 205”. Pertanto, sino alla data del 30 giugno 2013 gli operatori saranno tenuti ad adempiere agli obblighi connessi alla tenuta/presentazione del MUD, del registro c/s e del FIR.
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Sottoprodotti
255.
Qual è la nozione di sottoprodotto?
A seguito delle modifiche introdotte dal D.L.vo 205/10 (IV correttivo al TUA) alla Parte IV del D.L.vo 152/06, in attuazione della Direttiva sui rifiuti 2008/98/Ce (art. 5), l’art. 183, lett. qq) del D.L.vo 152 cit. definisce sottoprodotto “qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all’articolo 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all’articolo 184-bis, comma 2”. A sua volta, il nuovo art. 184 – bis, co. 1, prevede che: È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana. Il comma 2 dello stesso articolo, invece, preannuncia l’adozione, con appositi decreti ministeriali, di criteri quali-quantitativi per specifiche sostanze od oggetti da considerarsi sottoprodotti.
Come va interpretata la condizione sub lett. a dell’art. 184 bis c. 1 in cui si afferma che i sottoprodotti devono essere originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto? 256.
Alla lettera a) dell’articolo 184-bis si richiede, innanzi tutto, che il sottoprodotto provenga da un processo di produzione (e non di consumo), il quale assume rilievo sia sotto il profilo genetico (il sottoprodotto costituisce parte integrante del processo), sia sotto quello teleologico (il sottoprodotto non costituisce lo scopo primario della produzione). Il secondo profilo che emerge attiene al rapporto in cui si pone il residuo rispetto al processo produttivo. In particolare, esso riguarda:
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– il rapporto con la modalità della produzione, ovvero la natura integrata della creazione del residuo rispetto al processo produttivo, laddove la norma prescrive che la creazione del residuo debba essere “parte integrante” del processo produttivo, nonché – il rapporto con la finalità del processo produttivo, laddove si richiede che “lo scopo primario” di quest’ultimo non sia la produzione del medesimo residuo (sostanza od oggetto). Il concetto di “scopo primario”, locuzione del tutto nuova rispetto al previgente art. 183, lett. p), potrebbe, come del resto è già avvenuto, suscitare dubbi interpretativi sull’esatta individuazione del suo significato, dubbi che potrebbero al momento, ed in attesa di future delucidazioni da parte della giurisprudenza, essere ridimensionati laddove si intendesse per “scopo primario” lo scopo che lo stesso soggetto produttore si propone. Ovvero, dovrebbe guardarsi alla volontà o meno dello stesso produttore di ottenere la sostanza/oggetto come effetto del processo produttivo. 257. Cosa si intende quando si chiede che l’utilizzo di tali sostanze sia certo e avvenga nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione?
Nel previgente art. 183, co. 1, lett. p), questa seconda condizione richiedeva l’impiego certo fin dalla fase della produzione, per cui solo le quantità per le quali poteva essere dimostrata la certezza dell’impiego sin da quella fase, potevano essere qualificate come sottoprodotti (Cass. III Pen., n. 21512 del 21 giugno 2006). A sua volta, la giurisprudenza della Corte comunitaria, espressasi più volte sul contenuto dei requisiti del sottoprodotto, ha ritenuto comprovato il requisito della certezza, in una valutazione del grado di probabilità del successivo utilizzo dello stesso materiale, da elementi quali il vantaggio economico da esso derivante e la durata delle operazioni di deposito. In particolare, relativamente al deposito, nella sentenza 18 dicembre 2007, causa C-194/05, si afferma che se per riutilizzo “occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificatamente a limitare, esso non può essere definito certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata in linea di principio un rifiuto”. Quindi, pur in presenza dei succitati indizi, ciò che rileva ai fini della certezza del riutilizzo, è che tale requisito possa essere verificato nel caso di specie e che la prova della certezza di un suo riutilizzo possa essere fornita dal produttore del materiale, come ha avuto occasione di affermare la Corte di Cassazione Penale nella sentenza n. 41836 del 7 novembre 2008, sentenziando che non è prescritta una necessaria contestualità tra produzione e riutilizzo del sottoprodotto, ma viene imposto all’interessato l’onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza, e non con mera eventualità, ad un utilizzo ulteriore. Non è quindi richiesto che il riutilizzo avvenga, senza soluzione di continuità, subito dopo la produzione della sostanza. La dimostrazione della certezza, secondo la Comunicazione n. 59/2007, punto 3.3.1 può essere apportata tramite l’esistenza di contratti tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi, i quali indichino che il materiale oggetto del contratto sarà riutilizzato e come.
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Resta inteso che qualora manchi la prova certa che i materiali commercializzati possono legittimamente sottrarsi al regime autorizzatorio proprio della gestione rifiuti, è configurabile la contravvenzione di cui all’art. 256 del D.L.vo 152/06 (Cass. III Pen., n. 14323 del 7 aprile 2008). Infine, a differenza della previgente definizione, non si richiede che l’impiego dei materiali (sottoprodotti) nello stesso o successivo processo di produzione o di utilizzazione sia “integrale”. Ulteriore sub-condizione all’interno della condizione di cui al punto 2 è quella per cui l’impiego avvenga “nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi”, confermando in tal modo l’oramai consolidato orientamento giurisprudenziale comunitario ed europeo, secondo cui non “non è necessario che l’utilizzazione del materiale, da qualificarsi sottoprodotto, avvenga nello stesso processo produttivo da cui ha avuto origine” (ex multis Cass. III Pen., n. 31462 del 29 luglio 2008). Non rileva, inoltre, in questo ambito l’identità soggettiva tra chi produce il residuo e chi lo riutilizza. 258. Cosa si intende quando si chiede che la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale?
Il 10 maggio 2012 è stata depositata la sentenza n. 17453 della Corte di Cassazione Penale, Sez. III, nella quale è stato affrontato un tema molto discusso legato alla nozione di sottoprodotto, ovvero la caratteristica dei trattamenti sui beni “diversi dalla normale pratica industriale” di cui all’art. 182 bis del D.L.vo 152/06. I Giudici nella sentenza citata aderiscono ad una interpretazione non condivisibile di tale concetto, richiamando espressamente una nozione di trattamento – ripresa dal D.L.vo 36/03 (cd decreto discariche) che non solo oggi è superata –, poiché tale nozione ora è contenuta all’art. 183 lettera s) del TUA2, ma è anche inadeguata, poiché espressamente riferita ad una disciplina che riguarda la gestione del fine vita (smaltimento in discarica) dei rifiuti, quindi un aspetto totalmente opposto al concetto del “sottoprodotto”. In realtà “Trattamento rifiuti” è una cosa, “Pratica industriale su un bene” è chiaramente un’altra! Nei passaggi argomentativi della sentenza si legge in particolare che: “sebbene la delimitazione del concetto di normale pratica industriale non sia agevolata dalla genericità della disposizione, certamente esclude le attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura”. Tale dicitura, eccessivamente generica, rischia di fornire una interpretazione estremamente fuorviante: si pensi al caso emblematico delle vinacce, che la Cassazione ha già avuto modo di classificare indiscutibilmente come sottoprodotti se inviate, per esempio, ad una distilleria, per le quali se è vero che da parte del soggetto da cui esse derivano subiscono trattamenti “minimali”, è altresì vero che invece subiscono trattamenti radicali da parte del soggetto che le utilizza per “trasformarle” in grappa, il quale, paradossalmente, se si seguisse alla lettera tale interpretazione della SC, dovrebbe ottenere una autorizzazione al recupero di rifiuti!
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Tale considerazione consente di affermare un principio molto importante ovvero che nell’analisi del sottoprodotto occorre aver riguardo alle caratteristiche di due processi produttivi: quello di “origine” (a monte) del materiale che potrebbe essere classificato come tale, e quello “a valle”, cioè il successivo (eventuale) processo produttivo che lo trasforma in un bene per il mercato; considerare che nessuno dei due può determinare “una trasformazione radicale del materiale” ha lo stesso effetto di render inutilizzabile la nozione di sottoprodotto3, poiché solo in rari casi un materiale che decade da un ciclo produttivo non come bene primario è direttamente impiegabile tal quale anche in altro ciclo produttivo, quindi l’abbinamento della Cassazione tra “la normale pratica industriale” e “la mancata trasformazione radicale della natura del materiale” può eventualmente essere valido solo per il ciclo produttivo a monte, ma non certo per quello a valle. L’ipotizzare poi che “sottoprodotto” si ha solamente se il produttore dello scarto decide autonomamente che quello è un sottoprodotto perché non ha compiuto sul medesimo alcuna “trasformazione radicale” a prescindere dal necessario collegamento su cosa ne sarà di tale scarto è inoltre assai “rischioso” in termini di dimostrazione della certezza di tale operazione! Del resto, il richiamo alla “normale pratica industriale” si è sempre giustificato quale utile criterio di identificazione dei “trattamenti ammessi” che sono sempre stati individuati in quelli “sostanzialmente assimilabili” a quelli a cui l’impresa sottopone anche il “prodotto industriale”, prima di immetterlo sul mercato, a prescindere quindi dalle modificazioni della sua natura. I trattamenti della “normale pratica industriale” possono dunque definirsi come il complesso di “ordinarie” operazioni o fasi produttive che - secondo una prassi consolidata nel settore specifico di riferimento – caratterizza un dato ciclo di produzione di beni, e che possono mutare da sottoprodotto a sottoprodotto a prescindere dalle variazioni sulla originaria natura. Peraltro anche la stessa Cassazione formula questa considerazione nella medesima sentenza, ove letteralmente così si esprime: “Deve propendersi, ad avviso del Collegio, per un’interpretazione meno estensiva dell’ambito di operatività della disposizione in esame e tale da escludere dal novero della normale pratica industriale tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato”. E dove è scritto che gli interventi “ordinariamente” necessari nella “normale” pratica industriale per trasformare uno scarto di cui nessuno si disfi in un altro prodotto (sotto-prodotto) non possano consistere in “trasformazioni radicali…che ne stravolgano l’originaria natura”? Anche l’avverbio “direttamente” deve essere inteso nell’ottica che bisogna assicurare in tutti i modi la certezza e la tracciabilità dell’operazione, ma non inficia il concetto che la “normale pratica industriale” può cambiare da un processo produttivo ad un altro. In conclusione: come si fa in una medesima pronuncia (peraltro estesa da uno dei maggiori esperti di normativa ambientale a livello nazionale, col quale sono legato da profonda ed antica amicizia e stima) affermare in un punto che la “normale” pratica industriale non può comportare “trasformazioni radicali…che ne stravolgano l’originaria natura” e poche righe sotto affermare che si devono escludere da tale concetto solo “gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati”? Pertanto, anche alla luce della ratio della vigente Dir. 98/2008/CE che giustamente ribadisce con forza e decisione (ormai dal 1975, Dir. n. 445/CE) la priorità di pro-
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durre meno rifiuti sin dall’origine incentivando il più possibile ogni operazione che vada in questa direzione, auspichiamo un prossimo intervento maggiormente coerente della Suprema Corte. 259. Cosa si intende quando si chiede che l’ulteriore utilizzo sia legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfi, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porti a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana?
Questo requisito va a sostituire quello di cui alla precedente versione, che richiedeva che i materiali riuscissero a soddisfare requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non desse luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l’impianto dove erano destinati ad essere utilizzati. Si ritiene significativo che questa condizione richieda che l’ulteriore utilizzo sia “legale”, espressione con la quale si allude al rispetto (puntuale) dei requisiti riguardanti i prodotti, nonché di quelli concernenti la protezione della salute (anche se non specificato come accade, invece, nella riga successiva, si può presumere che si tratti comunque della salute umana) e dell’ambiente. Inoltre, l’impatto ambientale che l’impiego di tali materiali (come sottoprodotti) provoca, non deve essere peggiore né qualitativamente, né quantitativamente rispetto a quello provocato dall’attuale utilizzazione autorizzata degli stessi materiali (come rifiuti) o dei materiali “naturali” sostituiti nel processo industriale autorizzato di destinazione. Attuando quando disposto dalla Direttiva, la nuova formulazione della nozione di sottoprodotto estende la tutela ambientale nel suo complesso obiettivo (anche) della politica sui sottoprodotti, superando tra l’altro la necessità di operare un raffronto tra sottoprodotto e “materiale alternativo” come fa la Comunicazione interpretativa della Commissione europea in materia di rifiuti e sottoprodotti (datata 21 febbraio 2007 COM 2007/59), laddove la stessa evidenzia che “il fatto che un sottoprodotto abbia un impatto ambientale maggiore di quello del materiale alternativo o di un altro prodotto di cui funge da sostituto può influire, in situazioni in cui il raffronto è possibile e pertinente, sulla classificazione del materiale come rifiuto o meno”. Per completezza, si segnala da ultimo che il requisito del valore economico di mercato non è stato più riproposto nella nuova nozione di sottoprodotto.
260.
Cosa si intende per certezza del riutilizzo?
Per Cass. Pen., sez. III, 11 maggio 2012, n. 17823, l’utilizzo del materiale in un nuovo ciclo produttivo deve essere certo sin dal momento della sua produzione e pertanto deve escludersi tale qualifica nel caso in cui non sia dimostrata una preventiva organizzazione alla riutilizzazione.
Sottoprodotti
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È possibile sottoporre a trattamento un sottoprodotto prima di reimmetterlo in un ciclo produttivo?
261.
La nozione di “trattamento”, utile al fine di comprendere i limiti della nozione di rifiuto, ha da sempre comportato delle problematiche circa la delimitazione in termini certi dei suoi confini, fin dalla definizione di rifiuto di cui all’art. 14 della L. 178/02, la quale parlava di trattamento senza specificarne il contenuto. Per cui l’unica definizione rinvenibile era quella contenuta nel D.L.vo 36/03, relativo alle discariche, all’art. 2, lettera h), che definisce trattamento: “i processi fisici, termici, chimici o biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza”. A livello europeo, è solo con la nuova Direttiva sui rifiuti del 2008 che viene introdotta all’art. 3, par. 14, la definizione di trattamento in termini di “operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento”. L’attuale definizione contenuta nell’art. 183, c. 1, lett. s), D.L.vo 152/06 ripropone fedelmente quella contenuta nella direttiva rifiuti. Sul punto, tuttavia, vi è da segnalare che la giurisprudenza europea e nazionale ha inteso sempre più tale nozione nel senso di non precludere qualsiasi attività sul materiale. Sulla questione la citata Comunicazione interpretativa (punto 3.3.2.), pur evidenziando come in alcuni casi sia difficile da valutare, è però chiara nel porre all’attenzione dell’interprete gli aspetti imprescindibili da considerare: “la catena del valore di un sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile. Dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità ecc.”. E prosegue: “Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre presso l’utilizzatore successivo, altre ancora sono effettuate da intermediari. Nella parte in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione … non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto”. D’altro canto, la stessa Comunicazione, facendo proprio riferimento ad una pronuncia della CGCE (Causa C-457/02, Niselli, ordinanza dell’11 novembre 2004), aggiunge che “l’operazione cui viene sottoposto un materiale, che si tratti o meno di un’operazione di trattamento dei rifiuti di cui agli allegati II A e II B della direttiva quadro sui rifiuti, non consente di pronunciarsi sulla natura di un materiale. Conclusione del tutto logica, in quanto molti dei metodi di trattamento o smaltimento indicati nei suddetti allegati possono applicarsi perfettamente anche ad un prodotto”. In particolare ora nella definizione di sottoprodotto che si ritrova nella Dir. 2008/98/ CE e nel D.L.vo 152/06 si legge che “la sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”. Per quanto il provvedimento europeo non chiarisce cosa debba intendersi per “normale pratica industriale”, non ritrovandosi la relativa definizione tra quelle contenute all’art. 3, dal disposto della norma di cui all’art. 5 e dagli obiettivi che informano l’intera Direttiva può desumersi che si intende come tale ogni trattamento utile applicabile ai residui, affinché gli stessi possano essere oggetto, quali sottoprodotti, di un utilizzo legale soddisfacendo i requisiti imposti dall’ordinamento ai fini della pro-
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tezione della salute e dell’ambiente e non portando impatti complessivi negativi. Sul significato di “trasformazioni preliminari”, la Cassazione Penale, nella sentenza n. 9483 del 3 marzo 2008, dichiara che la definizione di “sottoprodotto” contenuta nell’art. 183, lett. n) del D.L.vo 152/06 (il riferimento era alla previgente formulazione, ma quasi corrispondente a quella attuale) ricomprende anche il residuo produttivo commercializzato a favore di terzi per essere utilizzato in un ciclo produttivo diverso da quello di origine senza trasformazioni preliminari e cioè senza trattamenti che mutino l’identità merceologica del materiale, facendo perdere al sottoprodotto la sua identità.
È possibile ritenere l’olio esausto proveniente dal processo produttivo della cottura dei prodotti a base di carne, ed utilizzarlo nel processo produttivo di trasformazione degli scarti e sottoprodotti di origine animale, un sottoprodotto ai sensi dell’art. 184 bis del D.L.vo 152/06? 262.
L’olio vegetale esausto, utilizzato in un processo industriale per la preparazione di prodotti alimentari, è considerato come un rifiuto speciale non pericoloso (ai sensi dell’art. 184, co. 3 del D.L.vo 152/06) che deve essere recuperato tramite la raccolta differenziata e conferito ad aziende raccoglitrici autorizzate iscritte al C.O.N.O.E. (Consorzio Obbligatorio Nazionale di raccolta e trattamento di Oli vegetali e grassi animali esausti). Le alte temperature a cui viene sottoposto l’olio vegetale causano una modifica della sua struttura polimerica, comportano la sua ossidazione, nonché l’assorbimento delle sostanze inquinanti derivanti dalla carbonizzazione dei residui alimentari. Le aziende autorizzate dal Consorzio conferiscono l’olio ad imprese rigeneratrici che trattano il prodotto rendendolo materia prima, in tal modo l’olio vegetale esausto da agente inquinante viene riciclato e trasformato in risorsa energetica o in prodotti ad uso industriale. In relazione ai sottoprodotti la disciplina a livello nazionale è rappresentata dall’art. 184 bis del D.L.vo 152/06; mentre a livello comunitario è con la nuova Direttiva sui rifiuti n. 2008/98/Ce che la nozione di “sottoprodotto” (art. 5) è apparsa ufficialmente per la prima volta in un testo normativo europeo, nonostante l’ampia elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia sin dal 2002. Si segnala, inoltre, la Comunicazione 21 febbraio 2007 COM 2007/59, della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo, relativa alla Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti, la quale ha inteso, da una parte, fornire alle autorità competenti alcuni orientamenti che permettano loro di stabilire, caso per caso, se determinati materiali costituiscono o meno rifiuti. In relazione alla prima macro-condizione prevista dall’art. 184 bis D.L.vo 152/06 ovvero alla mancanza di volontà di disfarsi è evidente che essa deve ritenersi esistente laddove non sussista la volontà di disfarsi del materiale di risulta (oli vegetali utilizzati per la cottura) della lavorazione dei prodotti alimentari all’interno di uno stabilimento produttivo, condizione questa che evidentemente corrisponde alla volontà di voler riutilizzare in altro processo produttivo gli stessi materiali. Tuttavia, accanto alla “volontà”, la disposizione che fissa le condizioni ai fini della definizione di “rifiuto”, di cui all’art. 183, co. 1, lett. a), pone anche l’“obbligo” di disfarsi, obbligo che nel caso degli oli esausti, pare desumersi, a livello nazionale, dalla
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previsione (sin dal previgente Decreto Ronchi) del Consorzio nazionale di raccolta e trattamento degli oli e dei grassi vegetali ed animali esausti, attualmente contenuta nell’art. 233 del D.L.vo 152/06. La violazione degli obblighi succitati comporta l’applicazione di sanzioni amministrative, ai sensi dell’art. 256, co. 7: “chiunque viola gli obblighi di cui agli articoli (…) 233 commi 12 e 13 (…) è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da duecentosessanta euro a millecinquecentocinquanta euro”. Tale obbligo si correla visibilmente al potenziale inquinante insito negli stessi oli, la cui utilizzazione ad alte temperature comporta evidentemente un deterioramento e alterazione delle loro componenti strutturali, tale che se ne prevede uno smaltimento effettuato con determinate precauzioni o, quando possibile, un recupero attraverso attività di rigenerazione che trasformano l’olio esausto in una materia prima a scopi meramente industriali. Peraltro, si osserva che il Codice ambientale, pur orientandosi in modo netto verso la qualificazione dei materiali in esame come rifiuti, prevede, allo stesso tempo nel medesimo art. 233, co. 14 che: “Restano ferme le disposizioni comunitarie e nazionali vigenti in materia di prodotti, sottoprodotti e rifiuti di origine animale”. Non è tra l’altro ben chiaro se i sottoprodotti di cui parla la disposizione siano da intendersi in generale o invece come sottoprodotti di origine animale. (Le rispettive considerazioni saranno comunque trattate in seguito). Il presupposto in base al quale: “l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana” è quello che richiede un’analisi più approfondita, laddove si consideri che gli impatti ambientali (che non devono essere peggiorativi) coinvolgono nel caso di specie, necessariamente, la normativa a tutela della sicurezza alimentare. È importante capire, cioè, se l’utilizzo di oli esausti vegetali in un processo di trasformazione degli scarti e sottoprodotti di origine animale per la produzione di farine animali, non alteri la stessa produzione finale, conferendo alle farine animali caratteristiche che ne compromettano la qualità in termini di sicurezza per la salute pubblica e degli animali, nonché avere conseguenti ripercussioni per l’ambiente. L’indagine di tale tipo di impatto, che ha, secondo la norma, come termine di paragone quello provocato dall’attuale utilizzazione autorizzata degli stessi materiali (come rifiuti) o dei materiali “naturali” sostituiti nel processo industriale autorizzato di destinazione, dovrebbe avere ad oggetto, nel caso in esame, il nuovo impatto dovuto all’inserimento degli oli vegetali esausti nel processo di trasformazione in essere presso il sito di riferimento, laddove tale tipo di materiale non vi fosse stato sinora utilizzato. Il regolamento (Ce) n. 1069/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 ottobre 2009, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti, prevede all’art. 2, “Ambito di applicazione” che il regolamento si applichi ai “rifiuti di cucina e ristorazione destinati all’utilizzo nei mangimi” (par. 2, lett. g, ii), ed al successivo art. 11, tra le restrizioni all’uso dei soa, individua quello della “alimentazione di animali di allevamento diversi da quelli da pelliccia con rifiuti di cucina e ristorazione o materie prime per mangimi contenenti tali rifiuti o derivate dagli stessi”. Per “rifiuti di cucina e ristorazione” il precedente Regolamento europeo sui soa, n. 1774/2002, all’Allegato I, intende: “tutti i rifiuti di cibi, incluso l’olio da cucina usato,
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provenienti da ristoranti, imprese di catering e cucine, compresi quelli delle cucine centralizzate e delle cucine domestiche”. La definizione normativa, dunque, non contempla, ai fini delle restrizioni del loro utilizzo, oli alimentari provenienti da processi industriali. Sul punto, la commissione Europea, nella “Guida all’applicazione del nuovo regolamento (CE) n. 1774/2002 relativo ai sottoprodotti di origine animale” dell’aprile 2004, chiarisce i motivi del divieto di utilizzo di oli da cucina usati nell’alimentazione degli animali, rinvenendoli nella necessità di un controllo completo sulla tracciabilità degli ingredienti dei mangimi. “Il divieto relativo all’utilizzo di oli da cucina usati nei mangimi è una risposta a una richiesta formulata da tempo dagli Stati membri a seguito regolamento vieta l’utilizzo nei mangimi di grassi animali e oli vegetali rigenerati provenienti da ristoranti, imprese di catering e cucine (“yellow grease”) poiché non è possibile garantirne la tracciabilità e la qualità. La crisi della diossina del 1999 ha chiaramente illustrato le ragioni per cui non è opportuno continuare queste pratiche di alimentazione degli animali. Tra i rischi per la salute legati agli oli da cucina usati rientra la presenza di livelli indesiderati di contaminanti (idrocarburi policiclici aromatici (IPA), PCB, diossine, ecc.). Alcuni prodotti derivanti dalla degenerazione dell’olio durante la frittura e la cottura, quali dimeri, trimeri e altri polimeri di triacilglicerolo, monomeri ciclici e composti derivanti dall’ossidazione del colesterolo, presentano una certa tossicità. L’utilizzo degli oli da cucina usati nei mangimi presenta rischi per la salute degli animali e, per effetto del bioaccumulo, per quella dei consumatori”. La commissione aggiunge, tuttavia, sul punto che qui interessa che “Il regolamento consente tuttavia l’utilizzo di tali oli se provenienti dall’industria alimentare (ad eccezione delle imprese di catering), che può garantire un sistema credibile di tracciabilità e di controllo della qualità. Esso consente inoltre il riciclaggio degli oli da cucina usati in prodotti tecnici per scopi unicamente industriali, quali la produzione di saponi, lubrificanti biodegradabili o la combustione come biocarburante, ecc. A livello comunitario, dunque, si riscontra, una posizione di “apertura” nei confronti degli oli usati provenienti dall’industria alimentare, pur se l’esclusione degli stessi dalla definizione di “rifiuti di cucina e ristorazione” seppur ancora intuibile, non compare più letteralmente nel testo del nuovo regolamento. A livello nazionale, la posizione assunta dagli organi politici rispetto ai sottoprodotti delle imprese del settore alimentare destinati alla produzione di mangimi (ipotizzando, dunque, che gli oli vegetali esausti possano qualificarsi come sottoprodotti) si rinviene nel Comunicato 31 marzo 2009 del Ministero del Lavoro e della salute, il quale specifica che nella catena alimentare animale possono essere utilizzati sottoprodotti ottenuti esclusivamente nell’ambito di un processo di lavorazione presso un’impresa del settore alimentare, che soddisfino tutti i requisiti igienico-sanitari specificati nella normativa di settore, nazionale e comunitaria. In particolare, tali sottoprodotti devono rispettare la disciplina igienico sanitaria sui mangimi per la fase di produzione e commercializzazione (regolamento 183/2005/ Ce), la normativa sulla salute umana ed animale (regolamento 178/2002/Ce, D.L.vo 360/99 e, ancora, regolamento 183/2005/Ce) nonché la procedura Haccp (autocontrollo igienico nella produzione degli alimenti). Per quanto riguarda il fatto che per essere considerati sottoprodotti tali sostanze “Non debbono essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione”, è chiaro che, laddove si
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riesca a dimostrare (sul punto ci soffermeremo meglio in seguito) che l’utilizzo degli oli esausti possa non ritenersi nocivo ai fini della sicurezza alimentare e quindi meno “impattante” rispetto al suo non utilizzo, occorrerà che a tal fine il materiale non venga sottoposto a delle trasformazioni o trattamenti che mutino l’identità merceologica del materiale, alla luce di quanto esposto in precedenza sulla relativa posizione interpretativa della giurisprudenza. La nuova direttiva europea, sul punto, parla della necessità che sul materiale non vengano operati ulteriori trattamenti diversi dalla normale pratica industriale, intendendo per tali quelle operazioni utili applicabile ai residui, che siano parte integrante del normale ciclo produttivo. Sussisterà sicuramente il requisito del “valore economico di mercato” sembra non incontrare difficoltà applicative, considerato che già attualmente al materiale di scarto, qualificato come rifiuto con codice 20.01.25, viene riconosciuto un valore economico. Oltretutto, come già segnalato, tale condizione non è più contemplata dalla disposizione di cui all’art. 5 della Direttiva europea sui rifiuti. Tutto ciò premesso, la risoluzione del quesito sulla possibile qualificazione del materiale rappresentato dall’olio vegetale esausto come sottoprodotto non sembra essere univoca, sottendendo argomentazioni, basate su dati normativi, che paiono condurre a conclusioni differenti. Da una parte, infatti, il Legislatore nazionale ha inteso ricondurre tale tipo di scarti ad un sistema di raccolta obbligatorio per favorirne il recupero ad usi industriali, come si evince non solo dalle disposizioni del Codice ambientale succitate, ma anche dalla previsione, all’interno del D.M. 5 febbraio 1998 (Allegato 1, Sub-Allegato 1), relativo all’individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti a procedure semplificate di recupero, della tipologia di rifiuti “oli esausti vegetali ed animali” cer 20.01.25, provenienti da “attività di ristorazione, rosticcerie, pasticcerie, industrie alimentari e dalla raccolta differenziata di RU”, sottoposte ad attività di recupero (R9), per l’ottenimento di materie prime e/o prodotti ottenuti tra i quali: lubrificanti nelle forme usualmente commercializzate e prodotti dell’industria saponiera e dei tensioattivi (punto 11.11). Dall’altra, a livello comunitario, si incontra una posizione meno restrittiva sulla possibilità di utilizzare gli oli alimentari esausti quando essi provengano da industrie alimentari, purché sia garantito un alto grado di trasparenza nella rintracciabilità e controllo della qualità degli stessi scarti. Così come una posizione meno restrittiva si riscontra nel disposto dell’art. 233 del Codice ambientale, co. 14, sia nel caso si rimandi alla disciplina generale dei sottoprodotti che in quello in cui il rinvio è da intendersi esclusivamente ai soa, nel qual caso varrebbe quanto esposto circa le previsioni comunitarie al riguardo. Tutto ciò significa, a parere di chi scrive, che se è vero che il Legislatore ha operato una scelta chiara, non prevedendo, come è avvenuto per altri tipi di materiali e sostanze, esenzioni dalla normativa sui rifiuti, è altrettanto vero che la previsione sui sottoprodotti può comunque trovare la sua applicazione laddove risultino dimostrate tutte le condizioni ivi previste. La dimostrazione della sussistenza di tali condizioni, che va fatta sempre caso per caso, nella fattispecie in esame, soprattutto per quanto riguarda alcuni di tali requisiti (per le motivazioni sopra illustrate), richiede, in modo imprescindibile, una valutazione e analisi sul materiale di risulta che sia in grado di dimostrare la qualità del materiale e la sua idoneità ad essere utilizzato in un processo di produzione di farine animali, senza risultare nocivo. L’esito di tale analisi, se positivo, non porterà automaticamente ad escludere che tali scarti siano dei rifiuti, occorrendo, a tal fine che la
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certificazione e la dimostrazione dei requisiti previsti dalla legge siano comunicati alle competenti autorità di controllo. Tale pratica risulta a maggior ragione consigliabile, se si considera quello che è l’attuale panorama normativo e consuetudinario dell’utilizzo (in forma di recupero) degli oli vegetali esausti.
263.
Gli scarti della lavorazione dei metalli preziosi sono sottoprodotti?
Dal punto di vista normativo il valore di questi “scarti” fu preso in considerazione per la prima volta dalla legge 9 dicembre 1998, n. 426 “Nuovi interventi in campo ambientale”, il cui art. 4, al comma 21 dispone: “Gli scarti derivanti dalla lavorazione di metalli preziosi avviati in conto lavorazione per l’affinazione presso banchi di metalli preziosi non rientrano nella definizione di rifiuto di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e pertanto, limitatamente a tale destinazione, non sono soggetti alle disposizioni del decreto stesso. Nel termine “affinazione” di cui al presente comma si intendono ricomprese tutte le operazioni effettuate sugli scarti dei metalli preziosi, che permettono di liberare i metalli preziosi dalle sostanze che ne alterano la purezza o ne precludono l’uso”. In tal modo si era assicurato il riutilizzo degli scarti senza “scomodare” la disciplina della gestione rifiuti. Ad oggi però si pone il problema della vigenza di tale disposizione riferendosi essa al decreto Ronchi, ormai abrogato, in modo esplicito, dal D.L.vo 152/06, e non essendo intervenuto alcuna ulteriore disposizione in merito. Date le attuali nozioni di rifiuto, sottoprodotto ed EoW, a parere di chi scrive, il riutilizzo degli scarti derivanti dalla lavorazione dei metalli preziosi non può più ritenersi disciplinato dal comma 21 dell’art. 4 della Legge n. 426/1998, poiché, pur in mancanza di una abrogazione esplicita del provvedimento, sussiste, proprio per il quadro normativo illustrato, una profonda differenza nella disciplina oggi vigente rispetto al decreto Ronchi, tale per cui il riferimento normativo del 1998 a “scarti (di metalli preziosi) non riconducibili alla nozione di rifiuto” risulta troppo generico ed impreciso a fronte dei nuovi concetti di MPS ed EoW, ma soprattutto della nozione di sottoprodotto. È infatti proprio quest’ultima a poter essere applicata al caso di specie (anche tenendo conto del riferimento che già il comma 21 dell’art. 4 della legge n. 426/1998 faceva alla “destinazione” in conto lavorazione dei metalli, di fatto corrispondente a quella che sarebbe divenuta oggi la condizione di cui alla lettera b) dell’art. 184-bis). È ragionevole, infatti, ritenere che gli scarti della lavorazione dell’oro siano parte integrante di processi di produzione dei beni preziosi e non certo scopo primario di tale ultima produzione; ugualmente ragionevole appare il concetto secondo cui la volontà degli operatori del settore è quella di riutilizzarli in un successivo processo di produzione, senza la necessità di trattamenti ulteriori o diversi dalla normale pratica industriale, e tutto ciò è senz’altro legale. Se ne conclude che pur non ritenendo più vigente il disposto della Legge n. 426/1998 per intervenuta abrogazione tacita, sussiste pur sempre un trattamento di favore per le lavorazioni di questi scarti, accedendo al nuovo concetto di sottoprodotto.
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Una volta abrogata la circolare prot. n. 3402/V/MIN del 1999, le MPS all’origine possono considerarsi, almeno in linea teorica, sottoprodotti?
264.
Ai sensi dell’art. 184 ter, comma 3, del D.L.vo 152/06, dal 24 giugno u.s. è cessata la vigenza della circolare prot. n. 3402/V/MIN del 1999, riguardante le cd. materie secondarie sin dall’origine, cioè quelle materie che, senza essere state trattate in un impianto di recupero, hanno già tutte le caratteristiche indicate nel D.M. 5 febbraio 1998. Come devono essere considerate queste materie oggi che la circolare non è più in vigore? Una prima risposta è contenuta nella circolare di Assocarta n. 242/11R del 22 giugno 2011. In tale documento l’Associazione di categoria – dopo aver evidenziato le condizioni che, ai sensi dell’art. 184 bis del D.L.vo 152/06, devono essere soddisfatte perché una sostanza o un oggetto possa considerarsi un sottoprodotto e non un rifiuto – dichiara che “dal 25 giugno refili, sfridi e scarti vengono ricondotti alla disciplina del sottoprodotto in quanto sono originati da un processo di produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto”. L’Associazione si preoccupa inoltre di ricordare che è indispensabile la preparazione di un dossier che comprovi l’effettivo status di sottoprodotto, sottolineando altresì l’importanza della dimostrazione del valore economico di mercato, condizione che, pur essendo venuta meno dal punto di vista normativo, conserva piena efficacia ai fini probatori. Tale soluzione potrebbe essere applicata anche in ambiti diversi ed ulteriori da quelli suoi propri, colmando così (almeno in parte) il vuoto venutosi a creare in seguito alla cessazione di efficacia della circolare prot. n. 3402/V/MIN del 1999.
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Sottoprodotti di origine animale (S.O.A.)
265.
Qual è la disciplina applicabile ai sottoprodotti di origine animale?
Sulla base di quanto disposto dall’art. 185, co. 2, D.L.vo 152/06 “resta ferma la disciplina di cui al regolamento (Ce) n. 1774/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 3 ottobre 2002, recante norme sanitarie relative a sottoprodotti di origine animale non destinate al consumo umano, che costituisce disciplina esaustiva ed autonoma nell’ambito del campo di applicazione ivi indicato”. Si precisa che la lettera della norma non tiene conto che dal 4 marzo 2011 il regolamento n. 1774/2002 è stato sostituito dal regolamento (CE) n. 1069/2009/CE del 21 ottobre 2009, pertanto, ogni richiamo al Reg. n. 1774/2002 deve intendersi riferito al successivo Reg. n. 1069/2009. Ciò detto, sul punto si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione Penale, Sez. III, con la sentenza, n. 2710 del 23 gennaio 2012, con la quale ha affermato che “gli scarti di origine animali sono sottratti all’applicazione della normativa in materia di rifiuti, ed esclusivamente soggetti al Regolamento CE n. 1774/2002, solo se sono effettivamente qualificabili come sottoprodotti, ai sensi dell’art. 184 bis del D.L.vo 152/06, mentre in ogni altro caso in cui il produttore se ne sia disfatto per destinarli allo smaltimento restano soggetti alla disciplina del Testo Unico in materia ambientale”. 266. Anche i “prodotti animali trasformati” devono sottostare al Reg. CE 1774/02?
Il quesito proposto richiede la corretta interpretazione del Regolamento 3 febbraio 2006, n. 197/2006/Ce, recante misure transitorie a norma del regolamento (CE) n. 1774/2002 relative alla raccolta, al trasporto, al trattamento, all’utilizzo e all’eliminazione di prodotti alimentari non più destinati al consumo umano, come interpretato nella Circolare del Ministero della Salute prot. n. 12964/P del 29 marzo 2006. Il 1 gennaio 2006 è entrato in vigore il Reg. 197/2006 che proroga la deroga già concessa agli Stati membri con il Reg. 813/2003 scaduto il 31 dicembre 2005, relativamente alle misure transitorie relative alla raccolta, al trasporto, al trattamento, all’utilizzo e all’eliminazione di prodotti alimentari non più destinati al consumo umano. La Circolare del Min. Salute sopraccitata precisa che per tali prodotti s’intendono “ex generi alimentari di origine animale diversi dai rifiuti di ristorazione, che non sono più destinati al consumo umano per ragioni commerciali o per problemi di fabbricazione o per difetti di confezionamento o per altri difetti che non comportino rischi
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per la salute umana o animale”. La deroga ammette che tali prodotti possano essere smaltiti in discarica senza la trasformazione prevista dal Reg. 1774/2002, sempre che gli stessi non siano venuti in contatto con materie prime di origine animale. Tra questi, i prodotti di panetteria e pasticceria che possono contenere ingredienti quali caglio o grasso fuso, latte, prodotti a base di latte, uova, miele o gelatina che siano stati incorporati in tali prodotti, ma che non costituiscono il principale ingrediente e che non contengono materie prime di origine animale, non rientrano nel campo di applicazione del Reg. 1774/2002. Sono, però, escluse dal campo di applicazione del Reg. 197/2006 le materie prime di origine animale come la carne cruda, il latte crudo, le uova crude e i prodotti della pesca crudi, in quanto trattasi di materie prime di origine animale e non di prodotti trasformati (ovvero sottoposti a trattamento e, per trattamento, si intendono, ad esempio, l’affumicatura, la salagione, la stagionatura, l’essiccazione, la marinatura e l’estrazione) e a questi prodotti si applicano, quindi, le disposizioni stabilite dal Reg. 1774/2002 citato. In conclusione, a parere di chi scrive, i prodotti trasformati, in quanto hanno subito un trattamento, non sono sottoposti a quanto previsto dal Reg. 1774/2002, ma sono ammessi a beneficiare della deroga concessa dal Reg. 197/2006 in forza della quale possono essere smaltiti in discarica senza la trasformazione prevista dal Reg. 1774/2002 cit.
Come devono essere classificati il liquame suino ed i S.O.A. in ingresso al digestore di un impianto di produzione di energia?
267.
Nell’art. 185, c. 1, del D.L.vo 152/06 sono elencate le cd. esclusioni tout court; nel comma 2, invece, vi si ritrovano le esclusioni che potremmo definire “condizionate”, nel senso che risultano escluse dal regime rifiuti in quanto regolate da altre disposizioni normative comunitarie o nazionali di recepimento. Ai sensi dell’art. 185, comma 1 (esclusioni tout court), non rientrano nel campo di applicazione della Parte IV: “… f) le materie fecali, se non contemplate dal comma 2, lettera b), paglia e altro materiale agricolo paglia, sfalci e potature nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”. La giurisprudenza è costante nel ritenere che anche alle materie fecali provenienti da allevamenti di animali si applica la disciplina attinente ai rifiuti quando le stesse non sono riutilizzabili nelle attività agricole (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 7 novembre 2008, n. 41831, secondo cui: “Ai sensi della normativa vigente, di cui all’art. 185, comma 1 lett. c), del D.L.vo 152/06 (vigente ratione temporis – N.d.R.) si applica la disciplina attinente ai rifiuti anche nei confronti di materie fecali provenienti da allevamenti di animali, quando le stesse non sono riutilizzabili nelle attività agricole). Il medesimo principio è da ritenersi estensibile ai liquami utilizzati per la produzione di energia da biomassa, per effetto della modifica introdotta alla lettera f). Per quanto concerne i SOA, invece, si segnala che solo per effetto dell’art. 13 del D.L.vo 205/10 l’art. 185, c.2, modificato per la seconda volta, assume il contenuto ad oggi vigente, ovvero l’esclusione “condizionata” poiché sottoposta al limite dell’esi-
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stenza di “…altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento” per: “b) i sottoprodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformati, contemplati dal regolamento (CE) n. 1774/2002, eccetto quelli destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio; c) le carcasse di animali morti per cause diverse dalla macellazione, compresi gli animali abbattuti per eradicare epizoozie, e smaltite in conformità del regolamento (CE) n. 1774/2002”. Innanzi tutto è da notare che la disposizione è attualmente applicabile, tenendo conto che il richiamato regolamento n. 1774/2002 è stato abrogato dall’art. 54 del Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1069 del 21 ottobre 2009 con effetto dal 4 marzo 2011, perciò i riferimenti al regolamento (CE) n. 1774/2002 si intendono fatti al presente regolamento e si leggono secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato. Secondariamente il regolamento vigente, ed il collegato Regolamento di attuazione, n. 142/2011 del 25 febbraio 2011 non trattano esclusivamente profili di carattere sanitario per la gestione dei S.O.A., tant’è che si riferiscono anche ai sistemi di smaltimento/recupero degli stessi, anche se nell’attuale versione dell’art. 185 non vi è più il riferimento alle normative specifiche “.. che assicurano tutela ambientale…”. Dal punto di vista normativo, quindi, i S.O.A. non rientrano nel campo di applicazione della Parte IV se ed in quanto disciplinati da altre disposizioni normative anche comunitarie quali esempio i Regolamenti CE. Tuttavia, qualora gli stessi S.O.A. fossero destinati allo smaltimento per incenerimento o in discarica, o anche “all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o compostaggio”, essi tornano ad essere assoggettati alla Parte IV del TUA, nonostante la classificazione degli stessi contenuta nel Regolamento n. 1069/2009. Ciò non toglie, tuttavia, che sia il liquame, sia i S.O.A., possano essere considerati, ove ne sussistano le condizioni di cui all’art. 184-bis TUA, come sottoprodotti. 268. Un impianto di trasformazione di sottoprodotti di origine animale necessita della verifica di assoggettabilità a VIA?
La valutazione d’impatto ambientale, riguarda i progetti che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale. Ai sensi dell’art. 6 comma 5 D.L.vo 152/06, per l’intero territorio nazionale, è obbligatorio l’espletamento della VIA per: a) i progetti di cui agli allegati II e III al decreto rispettivamente di competenza dello Stato e delle regioni; b) i progetti di cui all’allegato IV al presente decreto (post verifica di assoggettabilità) se relativi ad opere o interventi di nuova realizzazione, ricadenti, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette. La valutazione è inoltre necessaria per: a) i progetti elencati nell’allegato II che servono esclusivamente o essenzialmente per lo sviluppo ed il collaudo di nuovi metodi o prodotti e non sono utilizzati per più di due anni; b) le modifiche o estensioni dei progetti elencati nell’allegato II; c) i progetti elencati nell’allegato IV;
Sottoprodotti di origine animale (S.O.A.)
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nel caso in cui, in base alle disposizioni di cui all’articolo 20, si ritenga che possano avere impatti significativi sull’ambiente. Il comma 9 del medesimo articolo prevede inoltre che a livello regionale si possano definire, per determinate tipologie progettuali o aree predeterminate – e comunque sulla base degli elementi di valutazione di cui all’allegato V – un incremento nella misura massima del 30% o decremento delle soglie di cui all’allegato IV; queste ultime sono quelle definite per i singoli progetti e ne definiscono l’assoggettabilità a screening, a meno che le regioni non le aumentino, per mezzo di legge regionale (rendendo così più remoto il passaggio a VIA). Sempre in riferimento agli stessi progetti indicati in Allegato IV (solo se non ricadenti neppure parzialmente in aree naturali protette) sempre le regioni possono determinare, per specifiche categorie progettuali o in particolari situazioni ambientali e territoriali, sempre sulla base degli elementi di cui all’allegato V – criteri o condizioni di esclusione dalla verifica di assoggettabilità. Passando in rassegna gli Allegati alla Parte II del D.L.vo 152/06, in riferimento a un impianto è anzitutto da escludere l’assoggettabilità a VIA di competenza statale (Allegato II) e anche l’appartenenza all’elenco degli impianti assoggettati a VIA Regionale (Allegato III): in tale ultimo caso resta salva comunque la necessità di verificare la disciplina regionale, poiché le regioni legittimamente possono (a tutela dell’ambiente) legiferare in modo più restrittivo rispetto allo Stato, ovvero includere nell’elenco progetti diversi, o con limiti di potenzialità inferiori. Quanto all’Allegato IV della disciplina nazionale, relativo alla cosiddetta “verifica di assoggettabilità” o screening, il tipo di impianto non risulta compreso né al punto 4 né al punto 8 sembra ricompreso l’impianto, sempre salva la verifica della disciplina regionale. Si precisa che, ai fini della definizione dell’esclusione, si considera l’impianto di trattamento di sottoprodotti di origine animale del tutto escluso dal campo di applicazione della disciplina rifiuti, e ciò a seguito dei numerosi chiarimenti giurisprudenziali intervenuti sul tema, di cui l’ultima pronuncia di una serie di sentenze sul tema è quella del Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 8 febbraio 2005, n. 339, nella quale si precisa che solo il caso di mancato riconoscimento ministeriale dello stabilimento che tratta degli scarti animali rende tale attività rientrante nella gestione rifiuti, poiché il riconoscimento costituisce garanzia del rispetto delle norme di cui al Regolamento comunitario n. 1772/2002 e sue ssm. Del resto le stesse linee guida nazionali sull’applicazione del Regolamento CE/1774/2002, adottate il 1 luglio 2004, all’art. 11 precisano: “Il Regolamento CE/1774/2002 si interfaccia, fatto salvo quanto previsto dal comma 4 dell’art. 7 del Regolamento stesso, con la disciplina dei rifiuti di cui al decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, al momento dell’accesso dei sottoprodotti di origine animale agli impianti di incenerimento, di coincenerimento o alle discariche, ai sensi di quanto previsto dagli articoli 4, 5 e 6 dello stesso Regolamento CE/1774/2002”.
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Spedizioni transfrontaliere
269.
Come è regolamentato il trasporto transfrontaliero dei rifiuti?
Le spedizioni transfrontaliere dei rifiuti sono disciplinate dal Regolamento 1013/2006/ CE (pubblicato in G.U.U.E. il 12 luglio 2006, n. L.190), in vigore dal 12 luglio 2006, ma applicato a far data dal 12 luglio 2007. La disciplina transfrontaliera dei rifiuti si propone di favorire una più uniforme applicazione della disciplina delle spedizioni transfrontaliere in tutta la Comunità attraverso la semplificazione del regime legale delle spedizioni, in entrata ed in uscita dall’Unione europea, e in particolare armonizzando gli elenchi dei rifiuti più pericolosi (definiti ambra e rossi) in un’unica lista soggetta ad una procedura unitaria di notifica. A seconda delle caratteristiche dei rifiuti e delle finalità delle spedizioni transfrontaliere sono previste procedure di notifica e obblighi di informazione. In genere, il produttore del rifiuto, o il detentore o colui che intende effettuare una spedizione (notificatore), di regola (fanno eccezione solo i rifiuti non pericolosi contenuti in lista verde) deve compilare e trasmettere una preventiva notifica scritta all’autorità competente di spedizione, corredata da documento di accompagnamento standard, informazioni aggiuntive e contratto di garanzia finanziaria; tale autorità provvede all’inoltro alle autorità di destinazione e di transito. Il notificatore deve attendere il consenso scritto da pare di queste autorità prima di dare inizio alla spedizione. Il Regolamento ha limitato i casi di consenso tacito alle spedizioni all’interno dei paese OCSE ed ai casi in cui all’autorità competente di transito non fa pervenire la sua risposta entro 30 giorni. I limiti di tempo per il consenso tacito e per il completamento delle operazioni di smaltimento e di recupero sono stati armonizzati rispettivamente in 30 giorni ed un anno (art. 9, commi 4 e 6). Il che significa che la spedizione può essere effettuata nell’arco di un anno civile dalla data del rilascio dell’autorizzazione al trasporto, ma comunque sempre dopo aver ottemperato agli obblighi di cui all’art. 16 lettere a) e b) ovvero: la compilazione del documento di movimento da parte del notificatore e l’informazione preventiva circa la data effettiva di inizio della spedizione: il notificatore invia copia firmata del documento di movimento compilato alle autorità competenti interessate ed al destinatario almeno tre giorni lavorativi prima che la spedizione abbia inizio. I soggetti responsabili del corretto adempimento degli obblighi e delle procedure stabiliti dalle norme del Regolamento 1013/2006/CE per l’effettuazione di spedizione
Spedizioni transfrontaliere
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transfrontaliera dei rifiuti, sono il notificatore, il destinatario e le competenti autorità di spedizione, destinazione e transito. Il principale responsabile del buon esito della spedizione è il produttore, su di lui ricade l’obbligo della notifica e della ripresa rifiuti qualora la spedizione non vada a buon fine, nonché la responsabilità della corretta gestione dei rifiuti.
Come sono disciplinate, dal Regolamento CE 1013/2006, le spedizioni di rifiuti e le miscele a scopo smaltimento? 270.
La normativa comunitaria distingue per le spedizioni all’interno della Comunità quelle di rifiuti destinati a recupero – per i quali occorre aver riguardo alle Liste Verde e Ambra, che valgono anche per le miscele fuori lista se destinati a recupero e quelle per i rifiuti destinati a smaltimento (unitamente ai rifiuti 20.03.01, ovvero agli urbani indifferenziati) per le quali occorre aver riguardo a quanto disposto dagli articoli da 4 a 17. I codice OCSE di cui all’Allegato IV sono esclusivo riferimento per le esportazioni o importazioni dalla UE, e non intracomunitarie. Le spedizioni di miscele fuori specifica per lo smaltimento in un paese comunitario sono dunque da ritenersi disciplinate dagli articoli da 4 a 17 del Regolamento 1013/2006, e sono oggetto di notifica preventiva. È bene precisare che la disciplina comunitaria disciplina tali spedizioni di miscele partendo dal presupposto che la miscela di rifiuti non subisca alcun cambiamento nell’arco di tempo valido per la spedizione (ovvero l’anno), dunque non è regolamentato a livello europeo il caso (peraltro più che mai reale) di miscugli di rifiuti che a causa delle diverse componenti della miscela, pur nominandosi sempre con il medesimo CER, sono di composizione diversa. Questo assunto è facilmente dimostrabile in riferimento a due prescrizioni del Regolamento: la definizione di miscela di rifiuti (art. 2, punto 3) e quanto predisposto all’art. 4 comma 6, secondo punto. Per miscela di rifiuti il Regolamento indica “i rifiuti che risultano dalla mescolanza intenzionale o involontaria di due o più tipi di rifiuti diversi quando per tale miscela non esiste una voce specifica negli allegati III, III B, IV e IV A. I rifiuti spediti in una singola spedizione, composta da due o più rifiuti nella quale ciascuno di essi è separato, non costituiscono miscela di rifiuti”. La descrizione è riferita in modo semplicistico a due o più tipi di rifiuti, fuori specifica, senza indicazioni tecniche sulle percentuali di composizione e con generico riferimento a “più tipi di rifiuti”. È da rammentare inoltre che la Comunità non ha ancora definito gli allegati IIIA e IIB, che dovrebbero appunto riguardare le miscele di rifiuti. Il considerando n. 39 del Regolamento stesso chiarisce quali elementi dovrebbero essere presi in considerazione dalla Commissione per predisporre le norme tecniche per il trasporto transfrontaliero delle miscele “39) Nell’esaminare le miscele di rifiuti da aggiungere nell’allegato III A occorrerebbe prendere in considerazione, tra l’altro, le seguenti informazioni: le proprietà dei rifiuti come le loro possibili caratteristiche di pericolosità, la loro possibilità di contaminazione e il loro stato fisico; gli aspetti riguardanti la gestione, quali la capacità tecnica di recuperare i rifiuti e i vantaggi ambientali derivanti dall’operazione di recupero, compreso il caso in cui la
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gestione ecologicamente corretta dei rifiuti possa essere compromessa. La Commissione dovrebbe adoperarsi per completare l’elaborazione di questo allegato se possibile entro la data di entrata in vigore del presente regolamento e portare a termine tale compito entro sei mesi da tale data”. Quanto al richiamato punto 6 dell’art. 4 si legge, sempre in modo generico che ciascuna notifica deve riguardare un solo codice di identificazione dei rifiuti (in riferimento al codice CER) fatta eccezione per le miscele di rifiuti fuori specifica, per le quali “…il codice di ciascuna parte di rifiuti dev’essere specificato in ordine di importanza”. Nell’attesa di disciplinare il trasporto transfrontaliero delle miscele di rifiuti, come dichiarato nel considerando n. 39, la Comunità, dunque, richiede genericamente l’indicazione delle “parti di rifiuti” che compongono la miscela, in ordine di importanza, ovvero di quei “tipi di rifiuti”, individuabili per mezzo dei codici CER, che compongono la stessa. L’assenza di regolamentazione specifica in ambito comunitario giustifica (ma non legittima) l’intervento normativo dello Stato membro, posto che la materia è chiaramente di rilevo comunitario. L’intervento normativo dello Stato a livello nazionale o regionale si dovrà comunque motivare in riferimento al rispetto degli obiettivi e finalità della disciplina comunitaria, che si riconducono alla “semplificazione amministrativa” degli adempimenti per le spedizioni. Resta inteso che altro obiettivo, di pari rango al primo, è la protezione dell’ambiente per mezzo del controllo dei movimenti transfrontalieri dei rifiuti, in modo da ridurre il cosiddetto “eco-dumping” di rifiuti nell’Unione, ed indirettamente, allo scopo di uniformare gli standard di sicurezza nel trattamento degli stessi nei diversi Paesi dell’Unione.
Come viene sanzionato il traffico illecito di rifiuti in ambito transfrontaliero?
271.
La disciplina transfrontaliera dei rifiuti si propone di favorire una più uniforme applicazione della disciplina delle spedizioni transfrontaliere in tutta la Comunità attraverso la semplificazione del regime legale delle spedizioni, in entrata ed in uscita dall’Unione europea, e in particolare armonizzando gli elenchi dei rifiuti più pericolosi (definiti ambra e rossi) in un’unica lista soggetta ad una procedura unitaria di notifica. L’effettuazione di una spedizione di rifiuti ai sensi della normativa europea che la regola non solleva gli operatori (italiani) del settore dall’obbligo di osservare la disciplina italiana attualmente vigente e, nella specie, costituita dagli artt. 194 e 259 del D.L.vo 152/06. L’art. 194 è la norma di carattere nazionale che rinvia al Reg. 1013/2006/CE che, avendo efficacia diretta in Italia, veniva semplicemente integrato dal nostro Legislatore italiano con la fissazione delle relative sanzioni di cui al successivo art. 259 del D.L.vo 152/06. Si tenga, però, presente che il Regolamento (CE) n. 1013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno 2006 (GUCE L 190 del 12 luglio 2006) ha abrogato il Reg. 259 con effetto dal 12 luglio 2007, per cui i riferimenti a tale regolamento abrogato s’intendono ora relativi a quello nuovo (art. 61). In particolare, nel nuovo rego-
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lamento non si rinviene alcuna norma concernente il traffico illecito di rifiuti per cui si segnala che l’art. 26 del Reg. 259 troverà il suo corrispondente nell’art. 2 (definizioni), punto 35 (spedizione illegale), del Reg. 1013. Sotto il profilo sanzionatorio, l’art. 259 D.L.vo 152/06 prevede che “chiunque effettua una spedizione di rifiuti costituente traffico illecito ai sensi dell’articolo 26 del regolamento (CEE) 1° febbraio 1993, n. 259, o effettua una spedizione di rifiuti elencati nell’Allegato II del citato regolamento in violazione dell’articolo 1, comma 3, lettere a), b), c) e d), del regolamento stesso è punito con la pena dell’ammenda da millecinquecentocinquanta euro a ventiseimila euro e con l’arresto fino a due anni. La pena è aumentata in caso di spedizione di rifiuti pericolosi. Alla sentenza di condanna, o a quella emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per i reati relativi al traffico illecito di cui al comma 1 o al trasporto illecito di cui agli articoli 256 e 258, comma 4, consegue obbligatoriamente la confisca del mezzo di trasporto”. Quanto al merito della fattispecie, l’art. 259 sanziona due condotte: – il traffico illecito; – la spedizione di rifiuti destinati al recupero in violazione di talune disposizioni. L’art. 259 D.L.vo 152/06 disciplina l’ipotesi di traffico illecito di rifiuti, assoggettandola a sanzione penale, attraverso un rinvio al Reg. 259 (oggi Reg. 1013) per la determinazione del contenuto della fattispecie sanzionata (il Regolamento, infatti, nonostante fosse direttamente applicabile nel nostro ordinamento, era sfornito della corrispondente sanzione). La fattispecie criminosa ricorre qualora si proceda a spedizioni senza che la notifica sia stata inviata a tutte le autorità competenti interessate in conformità alle disposizioni del Regolamento comunitario; ovvero quando la spedizione sia effettuata senza il consenso delle autorità competenti interessate o effettuata con il consenso di tali autorità ottenuto, però, soltanto grazie a falsificazioni, false dichiarazioni o frode; ovvero quando la spedizione sia carente nel documento di accompagnamento in modo da determinare uno smaltimento o recupero in violazione di norme comunitarie o internazionali; oppure, infine, quando la spedizione sia contraria alle norme sulle importazioni ed esportazioni di rifiuti all’interno degli Stati membri. Si tratta di una norma incriminatrice estremamente ampia che, per l’individuazione della condotta penalmente rilevante rimanda al Regolamento che, a sua volta, rinvia ad altri articoli del medesimo, nonché agli allegati che coincidono con le liste Il co. 2, dell’articolo in esame, prevede le ipotesi in cui il Legislatore ha reso obbligatoria, eliminando così la discrezionalità del giudice, la confisca dei mezzi di trasporto, ovvero di quelle “cose che servirono o furono destinate a commettere il reato” (si fa notare che l’art. 240 Cod. pen. prevede solo una facoltà di confisca e non un obbligo). L’art. 260 del D.L.vo 152/06 disciplina il delitto di traffico illecito di rifiuti che riguarda qualsiasi forma di gestione dei rifiuti, anche attraverso attività di intermediazione e commercio, che sia svolta in violazione delle disposizioni in materia, e non può ritenersi agganciato alla nozione di “gestione” di cui all’art. 183, lett. d), del D.L.vo 152/06, né limitato ai casi in cui l’attività venga svolta al di fuori delle prescritte autorizzazioni. art. 260: “1. Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni. Ai fini dell’inquadramento della fattispecie, è dirimente soffermarsi sull’interpretazione dell’avverbio “abusivamente”, in quanto la giurisprudenza ha ritenuto che ta-
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le termine, “contenuto nell’art. 53 bis, lungi dall’avere valore “residuale” e, quindi alternativo rispetto alla disposizione dell’art. 51, ne costituisce un esplicito richiamo in quanto si riferisce alla mancanza di autorizzazione, che determina l’illiceità della gestione organizzata e costituisce l’essenza del traffico illecito di rifiuti” (Cass. III Pen. 30373 del 13 luglio 2004). Non meno importante dei requisiti della fattispecie è quello concernente i quantitativi ingenti di rifiuti che devono essere oggetto dell’attività organizzata per il traffico illecito e un altro elemento di estremo rilievo: l’ingiusto profitto. Infine, si conclude con Cass. III Pen. 4746 del 30 gennaio 2008 facendo un breve cenno al fatto che anche se la confisca del mezzo di trasporto non viene espressamente prevista dall’art. 260 del D.L.vo 152/06 perché il delitto di cui alla norma non presuppone necessariamente l’uso di un mezzo di trasporto, in quanto può essere compiuto anche mediante attività diverse dal trasporto di rifiuti, come ad esempio per mezzo di un’attività d’intermediazione o commercio, tuttavia, allorché esso viene commesso anche mediante il trasporto, la confisca del mezzo di trasporto diventa obbligatoria, perché tale misura di sicurezza è espressamente prevista dall’art. 259, il quale contiene un riferimento esplicito a tutte le ipotesi di cui all’articolo 256, compresa quella del trasporto, senza operare alcuna distinzione in merito all’attività di gestione illecita per la quale i rifiuti sono trasportati. Da ciò discende che la confisca del mezzo va disposta, non solo nelle ipotesi di trasporto illecito di rifiuti di cui all’articolo 256, di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti o inesatti ovvero con uso di certificato falso durante il trasporto, ma anche per le attività organizzate per il traffico illecito dei rifiuti allorché tali attività siano compiute utilizzando mezzi di trasporto.
Quali sono gli adempimenti connessi alla spedizione all’estero di rifiuti in lista verde? 272.
Il regolamento (CE) n. 1013/2006 all’articolo 3, paragrafo 2 assoggetta ad una specifica procedura di sorveglianza e controllo – le spedizioni superiori a 20 kg dei seguenti rifiuti destinati al recupero: – rifiuti elencati nella lista verde (allegato III) o nell’allegato III B del regolamento; – miscele di rifiuti, non classificati sotto una voce specifica della lista verde, composte da due o più rifiuti elencati nella stessa a condizione che la composizione delle miscele non ne impedisca il recupero secondo metodi ecologicamente corretti e tali miscele siano elencate nell’allegato III A dello stesso, nonché, ai sensi del successivo paragrafo 4, – le spedizioni dei rifiuti esplicitamente destinati ad esami di laboratorio il cui quantitativo non deve superare la quantità minima ragionevolmente necessaria per effettuare correttamente le analisi e, in ogni caso, non deve superare 25 kg. Le menzionate spedizioni sono sottoposte, ai sensi dell’articolo 18 del reg. (CE) n. 1013/2006, ai seguenti obblighi: • il soggetto posto sotto la giurisdizione del Paese di spedizione che organizza la spedizione deve garantire che i rifiuti siano accompagnati dal documento contenuto all’allegato III al regolamento (CE) n. 1379/2007, che ha sostituito il precedente modello contenuto all’allegato VII del regolamento (CE) n. 1013/2006;
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• detto documento di accompagnamento deve essere firmato dal soggetto che organizza la spedizione prima che questa abbia luogo e dall’impianto di recupero o dal laboratorio e dal destinatario al momento del ricevimento dei rifiuti. Il disposto comunitario prevede pertanto l’obbligo del destinatario e dell’impianto di recupero di firmare il documento di accompagnamento dei rifiuti indipendentemente dal fatto che i rifiuti siano respinti al momento del ricevimento degli stessi; • deve essere stipulato un contratto, che acquista efficacia con l’inizio della spedizione, tra il soggetto che organizza la spedizione e il destinatario incaricato del recupero dei rifiuti. Se la spedizione (o il recupero) non può essere completata come previsto o si configura come spedizione illegale, il contratto deve prevedere per il soggetto che organizza la spedizione o per il destinatario, se il primo non è in grado di ottemperare, l’obbligo di: a riprendere i rifiuti o assicurarne il recupero in modo alternativo, e b se necessario, provvedere temporaneamente al loro deposito. Il soggetto che organizza la spedizione o il destinatario devono fornire all’autorità competente interessata che lo richieda le informazioni contenute nel documento di accompagnamento e copia del contratto. Risulta pertanto consigliabile accompagnare sistematicamente le informazioni di cui all’allegato III del reg. (CE) n. 1379/2007 con copia del contratto di recupero in una lingua accettabile per le autorità di controllo. Il regolamento comunitario non prevede l’obbligo di restituire al soggetto che organizza la spedizione né al generatore dei rifiuti il documento di accompagnamento (o una sua copia) controfirmata dall’impianto di destinazione. Detta richiesta rientra eventualmente nell’interesse dello stesso soggetto che organizza la spedizione per meglio provare, in caso di controllo o di richieste di ripresa dei rifiuti, l’avvenuto ricevimento della spedizione da parte del destinatario/impianto di recupero. Il documento di accompagnamento deve inoltre essere conservato all’interno della Comunità, ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2 del regolamento, per almeno tre anni dalla data di inizio della spedizione, a cura del soggetto che organizza la spedizione, del destinatario e dell’impianto che riceve i rifiuti. Se detto impianto non trasmette una copia controfirmata del documento di accompagnamento, è ragionevole ritenere che l’obbligo di conservazione possa essere assolto: – per il soggetto che organizza la spedizione, tramite trattenuta di copia del documento sottoscritto dallo stesso al momento dell’inizio della spedizione; – per il destinatario (nel caso in cui sia diverso dall’impianto/laboratorio), tramite trattenuta di copia del documento di accompagnamento sottoscritto dal soggetto che organizza la spedizione e dallo stesso destinatario al momento del ricevimento dei rifiuti; – per l’impianto di recupero/laboratorio tramite conservazione dell’originale del documento di accompagnamento sottoscritto dai soggetti coinvolti nella spedizione. Per quanto riguarda la compilazione del documento di accompagnamento, l’allegato III del regolamento (CE) n. 1379/2007, alla nota 1, richiama le istruzioni specifiche di cui allegato IC del regolamento (CE) n. 1013/2006. Le istruzioni emanate con il regolamento (CE) n. 669/2008 riguardano la compilazione del documento di notifica e di movimento previsti per le spedizioni soggette a autorizzazione preventiva scritta ma non il documento di accompagnamento dei rifiuti della lista verde. In questa sede ci si riferisce, per quanto compatibili, a dette istruzioni per la compilazione di alcuni specifici campi del documento di accompagnamento.
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Quali limiti sono previsti per la spedizione all’estero di rifiuti in lista verde?
273.
L’allegato III del reg. (CE) 1013/2006, che riporta la lista verde, prevede importanti limiti per l’accesso alla procedura di controllo contenuta all’articolo 18 del reg. (CE) n. 1013/2006 (obblighi generali di informazione). Indipendentemente dal fatto che figurino o meno nella lista dell’allegato III al regolamento comunitario, i rifiuti non possono essere assoggettati agli obblighi generali di informazione, qualora siano contaminati da altri materiali in misura tale da: a) aumentare i rischi associati a tali rifiuti in misura sufficiente a rendere questi ultimi assoggettabili alla procedura di notifica e autorizzazione preventive scritte, in considerazione delle caratteristiche di pericolosità di cui all’allegato III della direttiva 91/689/CEE; o b) impedirne il recupero in modo ecologicamente corretto. L’introduzione all’allegato III del regolamento in esame individua pertanto due condizioni di esclusione dal più snello regime di spedizione dei rifiuti previsto nel caso della lista verde: – la sussistenza di una o più caratteristiche di pericolo, di cui ai codici H dell’allegato I al D.L.vo 152/06 da ultimo modificato con il D.L.vo 205/10 o, in alternativa, – l’impossibilità di effettuare un recupero ecologicamente corretto del rifiuto. Il verificarsi di almeno una di dette condizioni determina l’assoggettamento della spedizione alla procedura di notifica e autorizzazione preventiva scritta, anche nel caso in cui il rifiuto sia riportato nella lista verde.
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Stoccaggio
274.
Cos’è lo stoccaggio di rifiuti?
Ai sensi dell’art. 183, comma 1, lettera aa) del D.L.vo 3 aprile 2006, n. 152 si definisce stoccaggio l’insieme delle “attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell’allegato B alla parte quarta del presente decreto, nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di materiali di cui al punto R13 dell’allegato C alla medesima parte quarta”. Lo stoccaggio può dunque essere un’operazione di smaltimento, e quindi prende il nome di deposito preliminare, o di recupero, e allora diversamente prende il nome di messa in riserva.
Come gestire correttamente i rifiuti che hanno come destinazione in ingresso ad esempio D… e che a seguito di controllo, risultano recuperabili presso il medesimo impianto quindi da trattare in R2?
275.
Nello svolgimento della corretta gestione dei rifiuti può darsi il caso che il produttore conferisca il suo rifiuto all’impianto di stoccaggio indicando nel formulario (o scheda SISTRI), alla voce “destinazione dei rifiuti”, lo smaltimento – tramite l’operazione di deposito preliminare D15 – oppure il recupero – tramite la messa in riserva R13 – ovviamente, a seconda della natura dei rifiuti stessi e dell’autorizzazione di cui dispone l’impianto stesso di stoccaggio. Nel momento in cui il rifiuto giunge ad un impianto di stoccaggio, il gestore del centro, che ha ricevuto i rifiuti, acquisisce la qualifica di detentore e da quel momento si assume le responsabilità della corretta gestione; tale responsabilità, peraltro, continua a rimanere anche in capo al produttore del rifiuto per effetto di quanto disposto dall’art 178 del D.L.vo 152/06. Il gestore del centro di stoccaggio necessariamente deve conferire i rifiuti, magari dopo un primo trattamento – che può anche consistere in una semplice cernita – ad un trasportatore autorizzato (nel caso non svolga egli stesso il trasporto) per destinarli allo smaltimento o al recupero. Il centro di stoccaggio per dare vita ad una “corretta gestione” dovrà dunque aver riguardo anzitutto alla tipologia dei rifiuti conferiti (normalmente oggetto di un suo trattamento preliminare operazione meccanica volta sostanzialmente alla cernita) e, secondariamente, seguire quanto disposto dagli Allegati B e C del D.L.vo 152/06 per le operazioni di deposito preliminare e messa in riserva.
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Sulla base di ciò si ritiene che la destinazione finale del rifiuto possa essere dal gestore centro di stoccaggio in qualche modo “liberamente scelta”, ovvero egli non è tassativamente vincolato alla destinazione indicata dal produttore nel formulario, poiché comincia proprio da lui una nuova fase della gestione del rifiuto. Certamente restano salvi gli eventuali ulteriori obblighi contrattuali (di tipo privatistico) che caratterizzano il rapporto tra il centro di stoccaggio ed il produttore e che, ovviamente nei limiti della legittimità, potrebbero prevedere, ad esempio, di privilegiare il recupero piuttosto che lo smaltimento di quanto conferito. Si rammenti inoltre che ogni variazione documentale, e ci si riferisce alle variazioni del formulario in ingresso dei rifiuti, deve necessariamente essere comunicata dal centro di stoccaggio al produttore, per ovvi motivi di riscontro documentale, oltre al fatto che l’art. 258 del D.L.vo 152/06 (nella versione ante D.L.vo 258/10) sanziona la compilazione “incompleta o inesatta del formulario”. Il centro di stoccaggio è autorizzato allo svolgimento di tutte quelle operazioni preliminari all’invio dei rifiuti “…ad una delle operazioni da D1 a D14” o “… ad una delle operazioni da R1 a R12”. Nello svolgimento di tali operazioni preliminari la quantità dei rifiuti in ingresso, normalmente, viene separata (si dà vita ad una cosiddetta gestione a “cumuli omogenei di rifiuti”) e si individuano rifiuti che, seppur originariamente dal produttore tutti ritenuti destinabili allo smaltimento, in parte invece, a discrezione del centro di stoccaggio stesso, potranno essere avviati a recupero, o viceversa. All’atto pratico significa che, nell’ipotesi in cui il produttore abbia conferito all’impianto i rifiuti indicando la destinazione a smaltimento, specificamente D15, il gestore che li riceve può decidere di avviarli a recupero naturalmente solo se autorizzato anche per la messa in riserva, oltreché per il deposito preliminare, e ciò sia che si tratti di rifiuti non pericolosi che di rifiuti pericolosi. Ed ugualmente nell’ipotesi inversa, ovvero quando il formulario in ingresso indichi la messa in riserva (R13), il destino finale scelto dal detentore potrà essere anche lo smaltimento, purché l’impianto di stoccaggio disponga di adeguata autorizzazione. Questa tipologia di gestione è da ritenersi corrispondente alle regole imposte dal D.L.vo 152/06, proprio perché il centro di stoccaggio, assumendosi l’onere di verificare la qualità dei rifiuti in ingresso, ne decide la destinazione più opportuna (recupero o smaltimento), senza affidarsi solamente a quanto indicato sul formulario. Si tenga inoltre presente che il centro di stoccaggio potrebbe anche decidere di effettuare analisi sui rifiuti per verificarne la corretta classificazione (il codice CER), a seguito delle quali potrebbe in effetti essere opportuna una destinazione finale differente. Peraltro, la valutazione della possibilità di un parziale recupero di rifiuti, originariamente destinabili secondo il produttore a smaltimento, conferma pienamente le finalità del D.L.vo 152/06 che privilegia senz’altro il recupero. Si ritiene peraltro percorribile (oltreché frequente nella pratica) anche il caso opposto, ovvero il caso di un impianto di stoccaggio (R13 e D15) che, ricevendo rifiuti destinati a recupero, dopo la preliminare vagliatura, decida di destinarne una parte a smaltimento, in quanto non tecnicamente recuperabili. Si rammenta infatti che le norme tecniche per il recupero indicate ai D.M. 5 febbraio 1998 e s.m.e.i. e 12 giugno 2002, n. 161, sono estremamente puntuali per quanto riguarda il rifiuto in ingresso, e il produttore non sempre è a conoscenza delle caratteristiche tecniche che consentono ad un rifiuto di essere recuperato. Per questo una parte di tali rifiuti in ingresso con formulario R13 dovrà necessariamente uscire dall’impianto di stoccaggio con destinazione “smaltimento”.
Stoccaggio
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Tutti questi casi di gestione si ritengono corretti proprio in base alla considerazione che il gestore dell’impianto di stoccaggio non è un detentore qualunque, ma da esso si fa iniziare un nuovo ciclo di gestione del rifiuto, e che ci si riferisce sempre a quantità parziali di rifiuti in ingresso. La gestione sopra prospettata è possibile naturalmente solo avuto riguardo ad impianti autorizzati ex art. 208 del D.L.vo 152/06 (prima ex art. 27 e 28 del D.L.vo 22/97); l’impianto che opera attraverso una autorizzazione semplificata alle procedure di recupero non potrà mai svolgere alcuna operazione di smaltimento né, tanto meno, destinare in tal modo il materiale che esce dal suo impianto. Ciò a riprova del rigore da cui è caratterizzato il ciclo di recupero di cui al D.M. 5 febbraio 1998 e s.m.e.i., e conseguentemente dei rigidi schemi autorizzatori, come sopra accennato. Molto meno rigida invece appare l’iscrizione in via ordinaria, per lo meno con riferimento ai presupposti e al destino finale dei rifiuti. L’autorizzazione ordinaria consente normalmente operazioni diverse, tra cui la cernita che, come sopra anticipato, per prassi è ritenuta appartenente sia alle operazioni ammesse nel deposito preliminare che nella messa in riserva. Del resto il D.M. 5 febbraio 1998 e s.m.e.i. fa riferimento alla messa in riserva per la produzione di materia prima secondaria, precisando che questa messa in riserva avviene mediante cernita, selezione, compattamento, cernita manuale, vagliatura, separazione, frantumazione, asportazione. Questi riferimenti sono molto importanti in quanto lasciano emergere una visione della messa in riserva quale deposito, durante il quale si interviene sui rifiuti al fine di renderli definitivamente recuperabili, affinando i rifiuti stessi e raggruppando i materiali omogenei al fine di agevolarne il recupero.
Come bisogna agire nell’assegnare il destino di trattamento (D o R) con i prodotti che arrivando da centro di stoccaggio hanno spesso solo il CER come punto fisso ma dei quali la tipologia e quindi il conseguente trattamento vengono accertati solo al momento del controllo interno in impianto, quindi a conferimento già effettuato?
276.
Posto che il gestore del centro di stoccaggio non è vincolato alla destinazione dei rifiuti indicata dal produttore nel formulario e, in base alle condizioni sopra precisate, deve avviare i rifiuti alla loro corretta destinazione, il centro di stoccaggio che suggerisca il destino al produttore, anche se su richiesta di quest’ultimo, non ha parametri prestabiliti di riferimento: il centro potrebbe richiedere delle analisi per capire la composizione del rifiuti (metodo sicuro, ma oneroso per il produttore), però se si tratta di una soluzione non direttamente finalizzata per stabilire il destino D/R del rifiuti stesso. Ammettendo che non si faccia ricorso alle analisi, si tenga comunque presente che è rimessa al produttore la corretta individuazione del destino finale dei rifiuti che conferisce al centro di stoccaggio: non solo nel rapporto commerciale che lega produttore e centro, ma anche nei rapporti tecnico-professionali che legano gli operatori coinvolti, questi coopereranno con esperienza e correttezza in una veritiera comunicazione per meglio gestire i rispettivi rifiuti.
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Un deposito preliminare prolungato, sebbene sia ben custodito ed autorizzato, può dar luogo a qualche sanzione?
277.
Preliminarmente si precisa che il D.L.vo 152/06 non impone a priori precise prescrizioni in termini di tempo e di quantità per lo stoccaggio di rifiuti. È in sede di autorizzazione che potrebbero essere definiti simili aspetti. Pertanto, si deve tener necessariamente presente che l’art. 2, c. 1, lett. g) del D.L.vo 13 gennaio 2003, n. 36 definisce discarica “area adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno. Sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore ad un anno”. Da ciò discende che: – il deposito preliminare di rifiuti di durata inferiore a 12 mesi è lecito; – il deposito preliminare di rifiuti di durata superiore a 12 mesi configura, in particolare, la fattispecie di discarica (la quale, per essere legittima, deve essere autorizzata. Qualora non lo sia, si realizza un’ipotesi di discarica abusiva, ovvero non autorizzata e come tale sanzionata dall’art. 256, c. 3, D.L.vo 152/06).
278.
È possibile un doppio stoccaggio?
La disciplina vigente vieta – in termini generali – il passaggio da uno stoccaggio all’altro, ovvero da R13 a R13 e da D15 a D15. L’unica eccezione è quella in cui la P.A. consenta espressamente in una autorizzazione tale possibilità(in particolare il passaggio da D15a R13).
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Tassa e tariffa
279. Chi è il soggetto competente alla fissazione della tariffa e come viene commisurata?
La tariffa costituisce il corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e ricomprende anche i costi indicati dall’articolo 15 del D.L.vo 13 gennaio 2003, n. 36 ovvero i costi di realizzazione e esercizio dell’impianto, i costi sostenuti per la prestazione della garanzia finanziaria ed i costi stimati di chiusura, nonché i costi di gestione successiva alla chiusura post-operativa. L’art. 238, D.L.vo 152/06, al comma 1 precisa che la tariffa di cui all’articolo 49 del D.L.vo 5 febbraio 1997, n. 22, è soppressa a decorrere dal 29 aprile 2006, ma salvo quanto previsto dal comma 11. Il comma 11 prevede che, sino alla emanazione del nuovo regolamento circa i criteri generali sulla base dei quali vengono definite le componenti dei costi e viene determinata la tariffa e fino al compimento degli adempimenti per l’applicazione della tariffa continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti. La tariffa è commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base di parametri. Alla tariffa è applicato un coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi (art. 238, comma 10). Quanto al soggetto competente alla fissazione della tariffa medesima, a riprova dell’importanza crescente delle Autorità d’ambito, il compito di determinare la tariffa è attribuito (art. 238, comma 3) a queste ultime, salvo poi, anche in questo caso, il necessario coordinamento con le modifiche introdotte dal D.L.vo 4/08 al sopraccitato art. 195, ove invece si legge: “La tariffazione per le quantità conferite … è determinata dall’amministrazione comunale tenendo conto anche della natura dei rifiuti, del tipo, delle dimensioni economiche e operative delle attività che li producono. A tale tariffazione si applica una riduzione, fissata dall’amministrazione comunale, in proporzione alle quantità dei rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero tramite soggetto diverso dal gestore dei rifiuti urbani”. Sul punto si segnala che il D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con modif. nella L. 22 dicembre 2011, n. 214 “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (pubblicato in GU n. 284 del 6 dicembre 2011 - Suppl. Ordinario n. 251) ha introdotto un nuovo tributo comunale sui rifiuti e sui servizi.
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L’art. 14 del citato decreto prevede l’istituzione in tutti i Comuni, a decorrere dal 1° gennaio 2013, di un tributo a copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di privativa dai comuni, e dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni. Il tributo in oggetto è a carico di chiunque possieda, occupi o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, adibiti a qualsiasi uso, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Il tributo è corrisposto in base a tariffa commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base dei criteri che saranno determinati con regolamento, da emanarsi entro il 31 ottobre 2012. Dal 1° gennaio 2013 saranno soppressi, di conseguenza, tutti i prelievi relativi alla gestione dei rifiuti urbani (sia di natura patrimoniale sia di natura tributaria).
280.
Come è possibile ottenere i rimborsi dell’IVA sulla TIA?
La giurisprudenza è ormai concorde nel ritenere che è possibile richiedere il rimborso dell’IVA versata sulle somme corrisposte a titolo di TIA1 – disciplinata dall’art. 49 del D.L.vo 22/97 –, ma non per quelle versate a titolo di TARSU o TIA2 – disciplinata dall’art. 238 TUA – (cfr. tra le tante Cass Civ., Sez. V, 9 marzo 2012, n. 3756). A prescindere dal fatto che il richiedente sia un privato o una società, la domanda consiste in un vero e proprio atto di messa in mora: esso, pertanto, dovrà contenere: a) le generalità del creditore; b) le generalità del debitore (soggetto che ha emesso la fattura); c) i riferimenti catastali dell’immobile per il quale la tariffa è stata corrisposta; d) l’importo IVA illegittimamente versato e di cui si chiede la ripetizione; e) l’allegazione delle relative fatture; f) la diffida ad adempiere entro e non oltre il termine di 15 giorni dal ricevimento della richiesta. L’istanza è “a forma libera”, ma alcune Associazioni di categoria hanno predisposto dei moduli per le richieste in parola. Trattandosi di indebito oggettivo, ai sensi dell’art. 2033 Cod. Civ., il termine per la presentazione della domanda è fissato in 10 anni dal pagamento illegittimo e di cui si chiede il rimborso. Ne deriva che non c’è un unico termine per la presentazione dell’istanza, in quanto la scadenza varia a secondo del momento in cui è stato effettuato il pagamento. La richiesta va spedita con raccomandata A/R al gestore del servizio pubblico che ha applicato la tariffa e addebitato l’IVA, ovvero, nel caso in cui la tariffa sia stata applicata da un Comune, all’ente locale in persona del Sindaco p.t.
Vi sono aspetti problematici per ottenere il rimborso dell’IVA pagata sulla TIA?
281.
Nonostante il delineato quadro normativo ed il consolidato indirizzo giurisprudenziale non è detto che il rimborso dell’IVA pagata sulla TIA si concluda con una semplice lettera di messa in mora.
Tassa e tariffa
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Vi sono infatti almeno due ordini di ragioni (una pratica, l’altra sostanziale) che fanno propendere per un esito difforme. In primo luogo, infatti, si segnala che già all’indomani della pubblicazione della sentenza n. 3756/2012 (che ha confermato l’illegittimità dell’IVA pagata sulla TIA) i gestori, raccolti in Federambiente, hanno fatto sapere che le imprese non possono restituire ai contribuenti soldi già versati nelle casse dello Stato e di cui, pertanto, non hanno la disponibilità. In questo e in tutti gli altri casi in cui la richiesta dovesse rimanere priva di riscontro positivo, sarà necessario adire le competenti Autorità Giudiziarie e sarà quindi necessario citare il soggetto destinatario della messa in mora dinanzi al Giudice ordinario. Infatti, in caso di richiesta di restituzione dell’IVA da parte di un consumatore finale si è in presenza di una controversia tra privati, che non origina dall’emissione di un atto impositivo; ne consegue l’incompetenza delle Commissioni Tributarie e la cognizione del Giudice ordinario (Cass. Civ., SS.UU., Ord. 28 gennaio 2011, n. 2064). Per quanto concerne, invece, le ragioni di ordine sostanziale, si segnala che non è mancato (R. RIZZARDI, Per le imprese detrazione IVA sulle fatture, in Il Sole 24 ore del 14 marzo 2012, p. 28) chi ha sottolineato che “bisogna risolvere il problema del passato, non limitandosi a ipotizzare la possibilità di istanze di rimborso, ma valutando il problema nella sua interezza, tenendo conto del fatto che l’IVA ha meccanismi applicativi molto rigidi”. In tale ottica si sono suggerite due soluzioni diverse a seconda che il soggetto istante abbia o meno esercitato la detrazione dell’IVA in parola. Nel primo caso, è stato ritenuto che non sarebbe incompatibile con la normativa nazionale e la giurisprudenza comunitaria (che fanno divieto allo Stato di arricchirsi per l’effetto combinato del recupero della detrazione e il diniego del rimborso. Sul punto cfr. Corte di Giustizia UE, 15 marzo 2007, causa C-35/05, Reemtsma; in senso conforme cfr. Id., 15 dicembre 2011, causa C-427/10, “Antonveneta”) “un meccanismo di questo genere: chi ha detratto l’IVA sulle fatture della TIA non faccia istanza di rimborso, perché viene convalidata la detrazione esercitata”. Per i soggetti che invece non hanno detratto l’IVA, essa rappresenta un costo, pertanto, “sarebbe opportuno provvedere in modo indiretto, partendo però da un calcolo complessivo sulla posizione di tutti i soggetti interessati: il Comune, l’ente gestore e l’utente. Facendo sempre riferimento alla norma che entrerà in vigore dal 1° gennaio 2013, la tassa rifiuti può essere solo riscossa dal Comune, mentre la società di gestione può occuparsi solo dei conferimenti specifici, oltre a fatturare al Comune i servizi indivisibili. Ne consegue che per i clienti che non hanno esercitato la detrazione dell’IVA, l’ente gestore dovrebbe stornare tutte le fatture ed emettere un unico addebito al Comune, al quale dovrebbe girare il corrispettivo riscosso, al netto dell’IVA. E il Comune dovrebbe includere questo onere differenziale nella prossima delibera di tariffa”.
242
Terre e rocce da scavo
282.
Qual è la disciplina delle terre e rocce da scavo?
La gestione delle terre e rocce da scavo è oggi disciplinata dall’art. 186 del D.L.vo 152/06, come modificato dai successivi D.L.vo 284/06 e D.L.vo 4/08, tuttavia la medesima norma, per espressa previsione dell’art. 39, c. 4, del D.L.vo 205/10, sarà abrogata a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui all’art. 184 bis, c. 2, del TUA. Fatto salvo quanto disposto dall’art. 185 comma 1 lett. c) bis del D.L.vo 152/06 che limita il campo di applicazione della normativa sui rifiuti al suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale estratto nel corso dell’attività di costruzione, ove sia certo che il materiale sarà utilizzato a fini di costruzione allo stato naturale nello stesso sito in cui è stato scavato. Resta innanzitutto inteso che “la distinzione tra materiale da demolizione e terre e rocce da scavo elaborata dalla giurisprudenza di questa sezione e da quella comunitaria è stata ribadita con il D.L.vo 152/06, il quale include tra i rifiuti speciali anche quelli derivanti da attività di demolizione e costruzione e quelli pericolosi derivanti da scavi (art. 184, co. 3, lett. b) e li contrappone alle terre e rocce da scavo che sono escluse dalla disciplina del decreto sui rifiuti alle condizioni di cui all’art. 186 decreto citato” (Cass. III. Pen. 10262 del 9 marzo 2007). È dunque opportuno mantenere sempre distinti i rifiuti da demolizione dalle terre e rocce da scavo, e non si tratta solo di un principio teorico espresso dal D.L.vo 152/06 o dalla giurisprudenza, ma di una situazione di importanza pratico – operativa estremamente significativa. Infatti, il D.L.vo 152/06, art. 184, co. 3, lett. b) qualifica in maniera espressa come rifiuti speciali quelli derivanti da attività di demolizione e costruzione, e, a seguito delle modifiche apportate dal D.L.vo 4/08, anche i rifiuti che derivano dalle attività di scavo (previsione confermata dal D.L.vo 205/10). Ciò premesso, si fa notare che bisogna prestare attenzione al rapporto intercorrente tra l’art. 184 bis – nozione di sottoprodotto e l’art. 186: ciò in quanto, il co. 1 dell’art. 186 recita quanto segue: “le terre e rocce da scavo … ottenute quali sottoprodotti”. Da ciò discende con evidenza che innanzitutto va verificata la rispondenza delle terre e rocce da scavo ai requisiti di cui all’art. 184 bis, ovvero alla nozione di sottoprodotto; successivamente si valuterà se le medesime terre – sottoprodotti rispettano altresì le condizioni poste dall’art. 186, co. 1 per poter essere utilizzate nei modi sopra descritti (al riguardo, si segnala Cass. III Pen. 9794 dell’8 marzo 2007, secondo cui poiché anche alla luce dell’art. 186 del D.L.vo 152/06 le terre e rocce da scavo sono escluse dalla disciplina sui rifiuti solo a particolari condizioni, tale esclusione si configura come deroga alla regola generale che includerebbe le terre e rocce da scavo nella categoria dei rifiuti). Pertanto, se viene meno una delle condizioni di cui all’art. 184
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bis, le terre non sono sottoprodotti e quindi l’analisi giuridica si ferma qui; se invece sussistono tutte le condizioni del cit. art. 184 bis, ma poi viene meno anche uno solo dei requisiti speciali dettati dall’art. 186, le terre non possono essere utilizzate per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati. In altre parole, quindi, poiché l’art. 186 D.L.vo 152/06 attribuisce alle terre e rocce da scavo la qualifica di sottoprodotti e aggiunge ulteriori condizioni a quelle previste dall’art. 184 bis, D.L.vo 152/06, solo qualora sussistano tutti questi requisiti è possibile considerare dette terre come una categoria di sottoprodotti individuata ex lege. Chiariti in via preliminare questi aspetti, di norma una scrupolosa gestione operativa prevede che il proprietario del sito in cui sono realizzati gli scavi commissioni le analisi del terreno oggetto di scavo, a seguito delle quali si può avere che le terre sono contaminate oppure no. Nella prima ipotesi (le terre sono contaminate), diversamente dal regime previgente, non è più prevista la cd. “contaminazione consentita”, ovvero la possibilità che le terre e le rocce siano contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione. Ciò significa che dal 13 febbraio 2008 la contaminazione delle terre impedisce qualsiasi attività condotta sulle stesse. Poiché uno dei requisiti (co. 1, lett. f) per l’utilizzo delle terre quali sottoprodotti è che sia “dimostrato che il materiale da utilizzare non è contaminato …”, da ciò discende a contrario che la contaminazione rende le terre non utilizzabili secondo quanto previsto dall’art. 186, sicché, venendo meno uno dei requisiti previsti dalla norma, ex co. 5 “le terre e rocce da scavo, qualora non utilizzate nel rispetto delle condizioni di cui al presente articolo, sono sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti di cui alla parte quarta del presente decreto”. Nel caso, invece, in cui dall’esito delle analisi risulti che le terre non sono contaminate, si apre la possibilità dell’utilizzo delle terre (quali sottoprodotti e non rifiuti) per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati secondo quanto previsto dal D.L.vo 152/06, sempre che le stesse vengano gestite nel rispetto dei requisiti di cui al co. 1, art. 186, ovvero: – siano impiegate direttamente nell’ambito di opere o interventi preventivamente individuati e definiti; – sin dalla fase della produzione vi sia certezza dell’integrale utilizzo; – l’utilizzo integrale della parte destinata a riutilizzo sia tecnicamente possibile senza necessità di preventivo trattamento o di trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e, più in generale, ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli ordinariamente consentiti ed autorizzati per il sito dove sono destinate ad essere utilizzate; – sia garantito un elevato livello di tutela ambientale; – sia accertato che non provengono da siti contaminati o sottoposti ad interventi di bonifica ai sensi del titolo V della parte IV del D.L.vo 152/06; – le loro caratteristiche chimiche e chimico-fisiche siano tali che il loro impiego nel sito prescelto non determini rischi per la salute e per la qualità delle matrici ambientali interessate ed avvenga nel rispetto delle norme di tutela delle acque superficiali e sotterranee, della flora, della fauna, degli habitat e delle aree naturali protette. In particolare deve essere dimostrato che il materiale da utilizzare non è contaminato con riferimento alla destinazione d’uso del medesimo, nonché la compatibilità di detto materiale con il sito di destinazione; – la certezza del loro integrale utilizzo sia dimostrata.
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Qualora sia confermata la non provenienza da siti contaminati o sottoposti a bonifica, rimangono da verificare gli altri requisiti sopraccitati: infatti, “poiché anche alla luce dell’art. 186 del D.L.vo 152/06 le terre e rocce da scavo sono escluse dalla disciplina sui rifiuti solo a particolari condizioni, tale esclusione si configura come deroga alla regola generale che includerebbe le terre e rocce da scavo nella categoria dei rifiuti” (Cass. III Pen. 9794 dell’8 marzo 2007). È dunque di fondamentale importanza che si proceda al riscontro effettivo delle soprariportate prescrizioni, salvo poi incorrere nel reato di cui all’art. 256 D.L.vo 152/06 (gestione di rifiuti non autorizzata): infatti, se le terre non sono gestite nel rispetto del co. 1 e dei suoi requisiti, il co. 5 rende applicabile la disciplina sui rifiuti e, in caso di violazione delle disposizioni della parte IV, anche il Titolo VI (sistema sanzionatorio).
283.
Qual è il codice CER delle terre e rocce da scavo?
Il Catalogo Europeo dei Rifiuti contempla due codici concernenti le terre e rocce da scavo: CER 17.05.03* – terra e rocce, contenti sostanze pericolose – e CER 17.05.04 – terra e rocce, diverse da quelle di cui alla voce 17.05.03 –. Si tratta dei cd. “codici a specchio”: il medesimo rifiuto è riportato nell’elenco sia come pericoloso sia come non pericoloso, ma mentre il rifiuto sicuramente pericoloso non è inserito nei codici a specchi per ovvi motivi, quello eventualmente pericoloso sì, e sarà tale in base al criterio delle “concentrazioni limite”. Questa seconda categoria di rifiuti contiene delle sostanze pericolose che devono necessariamente essere oggetto di adeguate analisi per verificare se le concentrazioni limite risultino superate o no: nel primo caso, il superamento dei limiti consentirà di attribuire al rifiuto una o più caratteristica di pericolo; nel secondo caso, al rifiuto verrà attribuito un CER senza asterisco. 284. Quali sono le condizioni per cui le terre e rocce non sono rifiuti, ma “sottoprodotti”?
Si può affermare che le terre e rocce di scavo, anche provenienti da gallerie, e i residui della lavorazione della pietra non sono considerati rifiuti, qualora rispettino, oltre alle condizioni di cui all’art. 184 bis TUA, le seguenti condizioni: a) siano destinati all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati; b) siano utilizzati secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale ovvero qualora quest’ultima non sia prevista, all’autorità amministrativa competente; c) non abbiano subito trasformazioni preliminari; d) sia raccolto il parere preventivo delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell’ambiente, e) la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3, dell’art. 186 del D.L.vo 152/06, da emanarsi entro 90 giorni dalla sua entrata in vigore. Nelle more della emanazione di quest’ultimo decreto trovano applicazione i valori di concentrazione limite di cui all’allegato 1, tabella 1, colonna B, D.M. 25 ottobre 1999, n. 471.
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Attenzione: “in mancanza anche di una di tali condizioni, possono legittimamente ritenersi applicabili le disposizioni generali sulla gestione dei rifiuti”.
Qual è la linea di confine tra rifiuti da demolizione e terre e rocce da scavo?
285.
Per Cass. Pen., Sez. III, 2 ottobre 2003, n. 37508 esiste una differenza tra i materiali di demolizione degli edifici e i cosiddetti inerti, ma tale differenza non comporta una ontologica diversità, posto che il riutilizzo di rocce e terre di scavo può avvenire anche se esista una “minima” contaminazione. Qualora i detriti di demolizione non contengono materiali disomogenei significativi, si può escludere la natura di rifiuto, in quanto manca la prova di un reale pericolo per l’ambiente. Per Cass. Pen., Sez. III, 1 ottobre 2008, n. 37280, poi, “ai fini dell’applicabilità del regime in deroga previsto da art. 186, D.L.vo 3 aprile 2006, n. 152, le terre e rocce da scavo devono essere distinte dai materiali di risulta da demolizione, in quanto mentre lo scavo ha per oggetto il terreno, la demolizione ha per oggetto un edificio o, comunque, un manufatto costruito dall’uomo”.
Cosa accade se il proprietario del sito in cui sono stati realizzati gli scavi ha commissionato le analisi del terreno, ma i risultati non sono al momento disponibili?
286.
Si possono verificare due ipotesi: • dall’esito delle analisi risulta che le terre sono contaminate. Al riguardo si fa notare che, diversamente dal regime previgente, non è più prevista la cd. “contaminazione consentita”, ovvero la possibilità che le terre e le rocce siano contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione. Ciò significa che dal 13 febbraio 2008 la contaminazione delle terre afferisce qualsiasi attività condotta sulle stesse. Poiché uno dei requisiti (co. 1, lett. f) per l’utilizzo delle terre quali sottoprodotti è che sia “dimostrato che il materiale da utilizzare non è contaminato …”, da ciò discende a contrario che la contaminazione rende le terre non utilizzabili secondo quando previsto dall’art. 186, sicché, venendo meno uno dei requisiti previsti dalla norma, ex co. 5 “le terre e rocce da scavo, qualora non utilizzate nel rispetto delle condizioni di cui al presente articolo, sono sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti di cui alla parte quarta del presente decreto”. • dall’esito delle analisi risulta che le terre non sono contaminate. In questa ipotesi si apre la possibilità dell’utilizzo delle terre (quali sottoprodotti e non rifiuti) per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati secondo quanto previsto dall’art. 186 del D.L.vo 152/06, sempre che le stesse vengano gestite nel rispetto dei requisiti di cui al co. 1. A ciò si aggiunga che si dovrà verificare se la produzione di terre e rocce da scavo avviene nell’ambito della realizzazione di opere o attività (scavi edili per la realizzazione di plinti, fognature, etc…) sottoposte a valutazione d’impatto ambientale (VIA), ad autorizzazione ambientale integrata (AIA), a permesso di costruire, a denuncia d’inizio
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attività (DIA) oppure a nessun titolo abilitativi: cambiano, infatti, i tempi di deposito in attesa di utilizzo, i progetti e le disposizioni che li governano (art. 186, co. 2, 3 o 4).
287.
Come ci si comporta con scavi di fondali e terreni litoranei emersi?
Per l’immersione in mare di materiale di escavo dei fondali e dei terreni litoranei emersi nonché del materiale residuato dalla movimentazione dei fondali marini derivante da attività di posa dei cavi e delle condotte, occorre una apposita autorizzazione rilasciata dalla pubblica amministrazione competente. Il limite all’utilizzo del fondale marino quale deposito definitivo dei rifiuti è dato dalla valutazione, svolta dall’autorità competente al rilascio del provvedimento amministrativo dell’impossibilità tecnica o economica del loro utilizzo ai fini del rinascimento o recupero o comunque dello smaltimento alternativo. Dal punto di visita tecnico, in effetti, i riferimenti normativi sono rappresentati dal “Manuale per la movimentazione dei sedimenti marini” di APAT e ICRAM, che fa una sintesi anche di tutte le disposizioni internazionali (di carattere tecnico-operativo) in materia, nonché dal D.M. 24 gennaio 1996 inerente le attività istruttorie per il rilascio delle autorizzazioni. Dalla lettura del D.M. risulta, ai sensi del comma 2 dell’art. 1, che le norme relative al percorso autorizzatorio si applicano anche: “… a tutte le movimentazioni di sedimenti in ambito marino, quali ad esempio, quelle connesse alla posa di cavi e condotte sottomarine”, inoltre l’art. 4 specifica che l’istanza di autorizzazione: “…dovrà essere avanzata: nel caso di dragaggi portuali, dagli aventi titolo al mantenimento/ripristino dell’operatività del porto e/o degli accosti; nel caso di posa di cavi e condotte sottomarine dal titolare dell’intervento per il quale si rende necessaria la posa medesima, nel caso di ripascimento di litorali, dal Sindaco del Comune del sito nel quale ha luogo il rinascimento”. A parte l’ultimo caso (ripascimento) che dall’art. 109, differentemente che dal D.M., risulterebbe essere espressamente escluso dall’autorizzazione, l’art. 4 del D.M. si riferisce anche ad una ipotesi di sola “movimentazione”. Resta inteso che condizione necessaria per l’applicazione dell’art. 109 (e del suo D.M. tecnico) dall’interpretazione del testo normativo risulta essere “l’immersione” o “scarico” in mare dei materiali indicati al comma 1, anche se solo movimentati; di conseguenza, a parere di chi scrive, non sarà necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 109 se i materiali stessi, movimentati, non vengono rimessi in mare. Se vengono smaltiti come rifiuti, ad esempio, sarà necessario altro provvedimento amministrativo, così come se vengono utilizzati per il ripascimento della costa, che è causa di esclusione esplicita (art. 109, comma 2) dell’autorizzazione all’immersione. Sul punto si segnala altresì l’art. 48 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” (in GU n. 71 del 24 marzo 2012 - Suppl. Ordinario n. 53). La norma, inserendo nel novero dell’art. 5 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, il c. 5 bis prevede che nei siti oggetto di interventi di bonifica di interesse nazionale (art. 252 TUA) le operazioni di dragaggio possono essere svolte anche contestualmente alla predisposizione del progetto relativo alle attività di bonifica e dispone precise e nuove condizioni per:
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a) l’immissione in corpi idrici; b) l’impiego a terra; c) il refluimento all’interno della vasca di colmata, della vasca di raccolta o delle strutture di contenimento.
Quali requisiti deve contenere un progetto di gestione delle terre e rocce da scavo?
288.
La gestione delle terre da scavo deve essere definita sia qualitativamente che quantitativamente nella fase autorizzativa del progetto che le genera, in relazione al sito di utilizzo. Quindi è necessario redigere un progetto da parte di un professionista abilitato che dovrà descrivere ed attestare l’idoneità del sito a ricevere le terre e rocce da scavo secondo le finalità riportate nell’art. 186 del decreto legislativo n. 152/06. Detto progetto dovrà contenere: 1) relazione geologica e geomorfologica, con eventuale verifiche di stabilità; 2) relazione tecnica comprendente: – descrizione generale dell’area destinata per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati, con estremi catastali, destinazione urbanistica e situazione vincolistica con eventuali pareri; – descrizione sommaria delle modalità e finalità di utilizzo del materiale di scavo, nonché, le volumetrie previste; 3) cartografia in scala adeguata del sito, comprensiva di sezioni che rappresentano lo stato attuale e la situazione prevista a fine lavori; 4) documentazione fotografica. Rimane facoltà del comune formulare richiesta di ulteriore documentazione ritenuta necessaria o chiarimenti in merito. Il progetto dovrà essere trasmesso in duplice copia al comune, sul cui territorio sarà depositato il materiale, che provvederà al rilascio, previo parere di eventuali enti competenti, del provvedimento finale di autorizzazione unitamente ad una copia di progetto timbrata e vistata. All’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente dovrà essere trasmessa copia del provvedimento di autorizzazione, nonché comunicazione di chiusura lavori. Gestione e modalità operative. Al fine di individuare la tracciabilità del materiale e consentire quindi una verifica sulle quantità utilizzate nel sito di destinazione, il trasporto dovrà essere disciplinato in conformità di un modello allegato (“Documentazione attestante la provenienza, la destinazione e la quantità di materiale di scavo esportato”). Nella fase di produzione del materiale, destinato all’utilizzo, il direttore dei lavori o il responsabile del cantiere dovrà compilare un apposito modulo da predisporre, firmare e timbrare, per ogni singolo viaggio, numerato progressivamente, in triplice copia (una per il sito di scavo, una per il trasportatore ed una per il sito di destinazione) contenente le diverse informazioni tra le quali: – sito di provenienza delle terre e rocce di scavo ed estremi dell’autorizzazione; – sito di utilizzo/destinazione delle terre e rocce di scavo ed estremi dell’autorizzazione; – quantità in mc. di materiale trasportato; – ditta che effettua il trasporto;
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– data e ora di partenza; – accettazione del materiale da parte del responsabile di cantiere o del titolare del progetto del sito di destinazione. Tutti i documenti di trasporto dovranno comprovare il corretto conferimento, presso il sito di destinazione, della volumetria di scavo prevista in sede progettuale e regolarmente autorizzata. A completamento di detta fase, il direttore dei lavori dovrà predisporre una dichiarazione in cui si attesta che il terreno derivante dallo scavo, effettuato in conformità al progetto approvato e quindi secondo la richiesta di utilizzo, è stato effettivamente utilizzato. Detta dichiarazione unitamente ad una copia dei documenti di trasporto di cui sopra dovranno essere allegati alla documentazione di collaudo e attestazione di fine lavori. Il deposito del materiale in attesa di utilizzo, ove sia stata preventivamente esperita la procedura prescritta, non è soggetto alla normativa dei rifiuti e quindi neppure alle norme sul deposito temporaneo di rifiuti, sul deposito preliminare o sulla messa in riserva. Per detti motivi il trasporto delle terre e rocce da scavo, potrà essere effettuato con autocarri senza l’emissione dei “formulari di identificazioni dei rifiuti”. Il comune nel cui territorio è previsto il sito di utilizzo delle terre e rocce da scavo è onerato, altresì, ad esercitare la propria vigilanza al fine di verificare il rispetto di quanto contenuto negli atti progettuali.
In caso di subappalto di un’attività di costruzione dalla quale possono generarsi rifiuti su chi incombe la responsabilità della corretta gestione delle terre e rocce? 289.
In virtù di quanto affermato da Cass. pen., 9 gennaio 2007, n. 137 in tema di corretta individuazione del produttore dei rifiuti: “… dovendosi intendere produttore dei rifiuti … non soltanto il soggetto dalla cui attività materiale sia derivata la produzione dei rifiuti, ma anche il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione ed a carico del quale sia quindi configurabile, quale titolare di una posizione definibile come di garanzia, l’obbligo di provvedere allo smaltimento dei detti rifiuti nei modi prescritti”, nel caso del sub-appalto la responsabilità giuridica derivante dalla posizione di garanzia è certamente riconducibile al primo appaltatore, che quindi risponde, in solido con il sub-appaltante, in caso di mala gestio. Naturalmente ciò non significa che l’appaltante vada esente da ogni forma di responsabilità, nel caso in cui, come attesta la giurisprudenza, ne sia verificato un coinvolgimento colposo. Più volte è stato ribadito non solo che “un principio generale desunto dalla normativa comunitaria è quello in base al quale tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti rispondono solidalmente del corretto smaltimento” (Cass. pen., 19 febbraio 2008, n. 7461), e molto più esplicitamente Cass. pen. 7 febbraio 2008, n. 6101, ha stabilito che un soggetto che affida i propri rifiuti ad altre persone per lo smaltimento è gravato dall’obbligo di accertarsi che le stesse siano affidabili, munite delle necessarie autorizzazioni e competenze per l’espletamento dell’incarico.
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Per quanto riguarda invece la gestione delle terre e rocce (non classificate come rifiuti) l’art. 186 non si esprime in termini di soggetto responsabile, ma a parere di chi scrive è corretto, oltreché cautelativo, far in modo che tutto il percorso che porta il subappaltato a classificarle come beni o come rifiuti venga condotto in contraddittorio con l’appaltante, fermo restando che a carico dell’appaltante risulteranno riconducibili le responsabilità solo così come individuate dal punto di vista civilistico nel contratto di appalto di opere.
290.
Cosa si intende per “suolo”?
Un aiuto ermeneutico per offrire la definizione di “suolo” è dato dall’art. 3 del D.L. 25 gennaio 2012, n. 2, conv. con modif., nella L. 24 marzo 2012, n. 28 “Misure straordinarie e urgenti in materia di ambiente” (in Gazzetta Ufficiale n. 71 del 24 marzo 2012). La norma, rubricata “Interpretazione autentica dell’articolo 185 del decreto legislativo n.152 del 2006, disposizioni in materia di matrici materiali di riporto e ulteriori disposizioni in materia di rifiuti”, prevede infatti che “ Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei suoli contaminati, i riferimenti al “suolo” contenuti all’articolo 185, commi 1, lettere b) e c), e 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui all’allegato 2 alla parte IV del medesimo decreto legislativo”. La norma precisa inoltre che, “per matrici materiali di riporto si intendono i materiali eterogenei, come disciplinati dal decreto di cui all’articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all’interno dei quali possono trovarsi materiali estranei”.
Nel caso di recupero di rifiuti avente ad oggetto le terre e rocce da scavo l’indicazione delle “attività di recupero” alla voce 7.31bis3 del D.M. 5 febbraio 1998 è tassativa?
291.
In altri termini si chiede se, nel rispetto di tutte le condizioni prescritte, il recupero di terre e rocce da scavo possa essere soggetto ad autorizzazione semplificata anche nel caso in cui l’attività di recupero sia diversa da: “a) industria della ceramica e dei laterizi [R5]; b) utilizzo per recuperi ambientali (il recupero è subordinato all’esecuzione del test di cessione sul rifiuto tal quale secondo il metodo in allegato 3 al presente decreto) [R10]; c) formazione di rilevati e sottofondi stradali (il recupero è subordinato all’esecuzione del test di cessione sul rifiuto tal quale secondo il metodo in allegato 3 al presente decreto) [R5]”. Più in particolare, si chiede se un impianto di gestione di rifiuti inerti che voglia recuperare i rifiuti in esame possa beneficiare del regime semplificato in parola, ovvero debba richiedere l’autorizzazione ordinaria ai sensi dell’art. 208 del TUA. Il dubbio evidentemente nasce dal fatto che l’attività di recupero è indicata, non con metodo oggettivo, attraverso una descrizione delle operazioni di recupero, ma con un metodo soggettivo, cioè mediante un’elencazione dei soggetti deputati a porre in essere l’attività in esame.
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Per rispondere al quesito in esame occorre analizzare la natura giuridica del D.M. 5 febbraio 1998, al fine di individuare correttamente il tipo di procedimento amministrativo che tale decreto vuole regolare e dedurre se vi sia o meno la possibilità per la P.A. di interpretare estensivamente le norme ivi contenute. Sul punto si concorda con chi ha affermato che “il Dm 5 febbraio 1998, al pari del Dm 161/2002, rappresenta uno “standard” dotato di una precisa natura giuridica: limiti alla discrezionalità del pubblico potere. Poiché questi decreti indicano i termini di accettabilità, vengono definiti norme tecniche di “second best”. Inoltre, tali decreti rispondono al principio di tassatività che non può essere né violato, né disatteso da nessuno neanche dalle P.a. locali per il motivo anzidetto. Il percorso amministrativo che ne deriva esita non in un atto di assenso preventivo bensì in un accertamento costitutivo ove alla P.a. locale non compete alcun apprezzamento discrezionale per la tutela dell’interesse pubblico, perché l’apprezzamento viene fatto, a monte, dallo Stato. Pertanto, in tal caso, non si è in presenza di un’autorizzazione, bensì di un atto vincolato e la P.a. competente non può assolutamente discostarsi da quanto previsto nei citati decreti ministeriali; in difetto, ogni atto conseguente sarebbe viziato da illegittimità per violazione di legge, con tutte le conseguenze del caso”. Data questa premessa è stato conseguentemente osservato che “il Dm 5 febbraio 1998 è una norma tecnica che vincola sia il privato sia la P.a., pertanto, laddove si voglia accedere alla procedura agevolata è necessario il rispetto integrale delle sue disposizioni da parte dei destinatari privati e da parte delle Amministrazioni pubbliche” (P. FICCO, Terre e rocce da scavo, la P.a. non può discostarsi dalla norma nazionale, in Rifiuti - Bollettino di informazione normativa n. 162 - 05/09). Proprio relativamente al paragrafo 7.31-bis, allegato 1, suballegato 1, è stato inoltre sostenuto che il “Dm 5 febbraio 1998 (come modificato) contempla tra i rifiuti che possono essere recuperati in modo agevolato le terre e le rocce di scavo (CER 17.05.04). Pertanto, a condizione che si rispetti integralmente quanto ivi previsto, è possibile accedere alle procedure semplificate di cui agli articoli 214 e 216, D.L.vo 152/06”. Ne deriva che, trattandosi di un accertamento costitutivo ed in ragione della natura giuridica degli standard tecnici di riferimento (che risiede nella limitazione del potere discrezionale della P.A.), l’Autorità competente non può esercitare il proprio potere discrezionale, ma limitarsi a verificare la rispondenza dell’attività a quanto previsto dalla norma. Dunque, le attività di recupero indicate nella voce 7.31bis3 del D.M. 5 febbraio 1998 devono considerarsi tassative ed i soggetti esclusi da tale indicazione non possono beneficiare dell’autorizzazione semplificata, ma debbano seguire l’iter ordinario ex art. 208 D.L.vo 152/06.
Quali sono i tratti salienti e le principali innovazioni del nuovo regolamento sulle terre e rocce da scavo quali sottoprodotti?
292.
Il testo provvisorio del nuovo regolamento sulle terre e rocce da scavo quali sottoprodotti, previsto dall’art. 184 bis, c. 2, D.L.vo 152/06, come modificato dall’art. 49 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, all’art. 1, lett. d) definisce “materiale inerte di origine antropica” – mediante un rinvio all’allegato 9 – i “materiali di origine antropica, ossia derivanti da attività quali attività di scavo, di demolizione edilizia, ecc, che si possono presentare variamente frammisti al suolo e al sottosuolo” e che “sono indicativamente identificabili con le seguenti tipologie di materiali: materiali litoidi, pietrisco tolto d’opera, calcestruzzi, laterizi, prodotti ceramici, intonaci”.
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La lett. d) del medesimo art. 1, invece, definisce la “normale pratica industriale” – anche in questo caso mediante un rinvio all’allegato 3 – come “quelle operazioni, anche condotte non singolarmente, alle quali può essere sottoposto il materiale da scavo, finalizzate al miglioramento delle sue caratteristiche merceologiche per renderne l’utilizzo maggiormente produttivo e tecnicamente efficace”. Ciò premesso, “le operazioni più comunemente effettuate, che rientrano tra le operazioni di normale pratica industriale: la selezione granulometrica del materiale da scavo; la riduzione volumetrica mediante macinazione; la stabilizzazione a calce o altra forma idoneamente sperimentata per conferire ai materiali da scavo le caratteristiche geotecniche necessarie per il loro utilizzo…; la stesa al suolo per consentire l’asciugatura e la maturazione del materiale da scavo al fine di conferire allo stesso migliori caratteristiche di movimentazione …; la riduzione della presenza nel materiale da scavo degli elementi/materiali antropici…, eseguita sia a mano che con mezzi meccanici, qualora questi siano riferibili alle necessarie operazioni per esecuzione dell’escavo”. L’art. 5 reca un’analisi dettagliata del piano di utilizzo, che deve essere presentato dal proponente all’Autorità competente almeno 90 giorni prima dell’inizio dei lavori per la realizzazione dell’opera. Il piano, oltre a comprovare la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 4, c. 1, indica altresì che i materiali da scavo derivanti dalle realizzazione di opere o attività manutentive saranno utilizzati nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi (purché esplicitamente indicato). In deroga a quanto dispone l’art. 5 sopraccitato, in situazioni di emergenza dovute a causa di forza maggiore, l’art. 6 prevede che la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 4, c. 1 sia attestata all’Autorità competente mediante un’autocertificazione (nelle forme di cui all’allegato 7). In ordine ad un tema di estremo rilievo come il deposito in attesa di utilizzo, l’art. 10 prevede che il deposito del materiale escavato in attesa di utilizzo “avviene all’interno del sito di produzione e dei siti di deposito intermedio e dei siti di destinazione”. Resta inteso che “il deposito di materiale escavato deve essere fisicamente separato e gestito in modo autonomo rispetto ai rifiuti eventualmente presenti nel sito in un deposito temporaneo”, come pure rispetto al “materiale escavato oggetto di differenti piani di utilizzo”. È utile soffermarsi sulla documentazione che deve accompagnare il trasporto dei materiali da scavo: l’art. 11, infatti, prevede che in tutte le fasi successive all’uscita del materiale dal sito di produzione, il trasporto del materiale escavato è accompagnato dal modulo di cui all’allegato 6 recante i seguenti dati: anagrafica del sito di origine, anagrafica del sito di destinazione/deposito provvisorio, anagrafica della ditta che effettua il trasporto, generalità dell’autista dell’automezzo ed, infine, informazioni inerenti il materiale trasportato. È previsto che il piano di utilizzo debba essere allegato al documento di trasporto, mentre la caratterizzazione analitica può – se del caso – essere allegata. Posto che il deposito o altre forme di stoccaggio di materiale escavati non costituiscono utilizzo, l’art. 12 precisa che l’avvenuto utilizzo del materiale escavato in conformità al piano di utilizzo è attestato dall’esecutore all’autorità competente - a conclusione dei lavori di escavazione ed a conclusione dei lavori di utilizzo - mediante un’autocertificazione resa nelle forme di cui all’allegato 7 (dichiarazione di avvenuto utilizzo – D.A.U.). In considerazione del ricorso alle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà di cui all’art. 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, l’art. 14 prevede che le autorità di controllo effettuino mediante ispezioni, controlli e prelievi, le verifiche necessarie ad accertare
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il rispetto degli obblighi assunti: l’allegato 8, parte B, infatti, prevede che “le attività di campionamento per i controlli e le ispezioni della corretta attuazione del Piano di utilizzo sono eseguiti dall’ARPA o APPA territorialmente competente e in contraddittorio direttamente sull’area di destinazione finale del materiale da scavo. Le verifiche possono essere eseguite sia a completamento che durante la posa in opera del materiale”. Da ultimo, l’art. 15 detta disposizioni finali e transitorie, inerenti in particolare “gli interventi realizzati e conclusi alla data di entrata in vigore del regolamento” affinché non vi sia soluzione di continuità nel passaggio dall’art. 186 D.L.vo 152/06 al regolamento in commento. Si rammenta, infine, che in caso di inottemperanza alla corretta gestione dei materiali di scavo secondo quanto disposto dal regolamento, il materiale escavato verrà considerato rifiuto ai sensi del D.L.vo 152/06 e s.m.e.i.
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Toner e cartucce
Toner e cartucce: per il trasporto dei relativi rifiuti, quando occorre compilare il formulario?
293.
Oltre alla più generica ipotesi di esenzione dall’utilizzo del formulario nel trasporto di rifiuti non pericolosi, contemplata dall’art. 193, comma 4, D.L.vo 152/06 (nella versione ante D.L.vo 205/10) e relativa al trasporto degli stessi effettuato dal produttore in modo occasionale e saltuario, entro la quantità di 30 chili o 30 litri, novità in tal senso sono state introdotte dalla specifica disciplina di cui al più recente Dm 22 ottobre 2008 – sulla semplificazione degli adempimenti amministrativi in materia di raccolta e trasporto di rifiuti di cartucce. Il D.M., infatti, prevede, ex art. 1, comma 2, nel trasporto della tipologia di rifiuti riconducibile alle cartucce che non contengono sostanze pericolose (a cui è attribuibile il codice CER 080318), la sostituzione del formulario di identificazione con il documento di trasporto (di cui al D.P.R. 472/1996). La norma si rivolge evidentemente, a soggetti che si configurano come categorie professionali e che, come tali, in sede di trasporto sono generalmente soggetti all’obbligo del formulario. La sostituzione, tuttavia, avviene alla duplice condizione che: – la consegna dei beni dai quali si originano i rifiuti sia fatta direttamente presso il luogo ove si effettuano le operazioni di recupero, in particolare negli impianti autorizzati alle operazioni di recupero appartenenti alle voci R2, R3, R4, R5, R6 e R9 dell’allegato C alla parte quarta del D.L.vo 152/06; e – non siano previsti depositi temporanei intermedi. Questo significa che se l’operatore vuole trasportare in proprio la cartuccia (toner) senza formulario, tale cartuccia (toner) non potrà essere tenuta in giacenza presso lo stesso operatore in deposito temporaneo, ma dovrà essere trasportata senza indugio e senza soste con il documento di trasporto presso l’impianto ove sarà effettuato il recupero e quindi non presso la rivendita che disponga al suo interno di appositi raccoglitori e nemmeno presso un impianto autorizzato alla messa in riserva (R 13), non essendo tale tipo di operazione inclusa tra quelle a cui l’impianto ricevente sia autorizzato e che consentono di avvalersi delle semplificazioni oggetto della presente disciplina. Tale semplificazione amministrativa, non sarà, invece, applicabile nell’ipotesi di trasporto di rifiuti di cartucce, contenenti sostanze pericolose (a cui è attribuibile il codice CER 080317*), in tal caso dunque, occorrerà emettere il formulario di trasporto.
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294.
Toner e cartucce esausti sono RAEE o imballaggi?
La gestione delle cartucce e dei toner è sempre stata oggetto di dissertazione dottrinale in riferimento alla corretta classificazione di questi materiali come rifiuti o imballaggi degli stessi, oppure ancora come componenti di apparecchiature fuori uso (RAEE), proprio in considerazione di quanto previsto dalle procedure per il recupero dei rifiuti non pericolosi contenute nel D.M. 5 febbraio 1998, al punto 13.20. Il legislatore non ha contribuito al chiarimento interpretativo, anzi, attraverso la pubblicazione del D.M. 22 ottobre 2008 di semplificazione degli adempimenti amministrativi in materia di raccolta e trasporto di questi rifiuti, ha probabilmente creato maggior confusione, denominando in modo diverso i rifiuti, ovvero indicando genericamente come “toner” il gruppo cartuccia, con il codice 08.03.18. Il catalogo europeo dei rifiuti riporta, in realtà, solo alcuni codici che possono ritenersi adeguati per la classificazione di fine vita per le cartucce, mentre è molto dubbiosa la classificazione per l’inchiostro. Per il toner, infatti, i codici sono espliciti: – CER 08 03 17* “toner per stampa esauriti, contenenti sostanze pericolose” e – CER 08 03 18 “toner per stampa esauriti, diversi da quelli di cui alla voce 08 03 17”; per le cartucce esauste invece non ci si può che riferire al – CER 16 02 15* “componenti pericolosi rimossi da apparecchiature fuori uso” e al – CER 16 02 16 “componenti rimossi da apparecchiature fuori uso, diversi da quelli di cui alla voce 16 02 15”; pur senza ricadere nell’equivoco di considerarli come RAEE; sul punto in effetti la Direttiva Ce del 27 gennaio 2003, n. 96 “Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)” recepita con il D.L.vo 151/05, definisce all’articolo 3, lettera b) “rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche o RAEE: le apparecchiature elettriche ed elettroniche che sono rifiuti ai sensi dell’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE, inclusi tutti i componenti, sottoinsiemi e materiali che sono parte integrante del prodotto al momento in cui si decide di eliminarlo”. In linea con questa definizione, nel documento della Commissione Europea intitolato “Frequently asked questions su Direttiva 2002/95/CE sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche e elettroniche (RoHS) e Direttiva 2002/96/CE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)” si legge espressamente che le cartucce per la stampa sono considerate rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche soltanto se vengono smaltite insieme alla stampante stessa, altrimenti devono essere considerate solo come materiali di consumo e quindi non ricadono nella definizione di RAEE sopraccitata.
Toner e cartucce esausti possono essere oggetto di preparazione per il riutilizzo?
295.
La preparazione per il riutilizzo deve essere considerata a tutti gli effetti una delle forme di recupero; essa infatti si riferisce ad alcune operazioni materiali “… controllo, pulizia, smontaggio e riparazione” che vengono svolte su “…prodotti o componenti di
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prodotti” che sono “…diventati rifiuti”, allo scopo di prepararli ad essere nuovamente reimpiegati in nuovi cicli di consumo. Come ulteriore operazione di recupero, la preparazione per il riutilizzo deve essere oggetto di autorizzazione, non certo nei termini di una delle dodici operazioni di recupero di cui all’Allegato C del D.L.vo 152/06 (R1 – R12), bensì in aggiunta alla voce R13, poiché chi effettua le operazioni sui prodotti o componenti di prodotti divenuti rifiuti avrà, per lo meno, la preliminare necessità di gestirli in “messa in riserva”, per poi svolgervi le operazioni descritte dalla norma (ma senza alcun altro pretrattamento). La realtà è che si tratta di un’operazione di trattamento generico (v. quesito n. 343), non rientrante tra quelle specifiche degli allegati B e C, che deve essere esplicitata con chiarezza in fase di autorizzazione, e con riferimento alla quale le pubbliche amministrazioni devono agire con la massima disponibilità, in quanto nella gerarchia dei rifiuti, il recupero è da privilegiare rispetto allo smaltimento. In tal modo le aziende potranno operare in un regime di libertà di trattamentorecupero, che consente loro di proporsi sul mercato in maniera ben più competitiva, poiché svincolate dalle operazioni tipizzate nell’Allegato, operando secondo trattamenti che le stesse indicano alle autorità di controllo.
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Trasporto (F.I.R.)
In cosa consiste il formulario di trasporto e quali sono le corrette modalità di tenuta dello stesso?
296.
Occorre innanzitutto premettere che l’art. 193 TUA in tema di trasporto di rifiuti è stato sensibilmente modificato dal D.L.vo 205/10. Tuttavia, la nuova versione della norma, per effetto di quanto disposto dall’art. 16, c. 2, del citato decreto 205, entrerà in vigore solo all’indomani della piena operabilità del SISTRI. Prima di tale data continuerà ad applicarsi la versione anteriore all’entrata in vigore del D.L.vo 205/10. L’art. 193, comma 1, D.L.vo 152/06, oggi vigente, mutuando dal decreto Ronchi, stabilisce che durante il trasporto effettuato da enti o imprese, i rifiuti sono accompagnati da un formulario di identificazione dal quale devono emergere una serie di informazioni atte ad individuare il rifiuto e ricostruire al contempo il percorso compiuto dal produttore o detentore fino al destinatario finale. La stessa norma dispone che “il formulario di identificazione … deve essere redatto in quattro esemplari, compilato, datato e firmato dal produttore o dal detentore dei rifiuti, e controfirmato dal trasportatore. Una copia del formulario deve rimanere presso il produttore o il detentore, e le altre tre, controfirmate e datate in arrivo dal destinatario, sono acquisite una dal destinatario e due dal trasportatore, che provvede a trasmetterne una al detentore. Le copie del formulario devono essere conservate per cinque anni”. Il Testo Unico lascia quindi invariata la disciplina già fissata dall’art. 15 del D.L.vo 5 febbraio 1997, n. 22 in materia di requisiti minimi del formulario; alcune innovazioni sono invece state introdotte con riferimento alle esclusioni soggettive dall’obbligo di compilazione del formulario. L’elaborazione di una disciplina di carattere nazionale relativa al formulario di trasporto è rimessa, dal comma 5 dell’art. 193, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio. Il comma successivo demanda sempre al medesimo ministero la emanazione di un ulteriore decreto diretto alla definizione del nuovo modello di formulario, nonché del suo contenuto; la definizione delle modalità di numerazione, vidimazione e gestione dello stesso; ed infine la definizione delle specifiche responsabilità dei soggetti coinvolti nel trasporto (produttore o detentore, trasportatore e destinatario finale). Estremamente significativo è il fatto che la nuova disciplina dovrà necessariamente adeguarsi alle specifiche modalità delle varie tipologie di trasporto possibili, con riguardo soprattutto ai trasporti intermodali, ai trasporti per ferrovia e alla microraccolta. Nelle more della emanazione dei predetti decreti, la disciplina applicabile è quella fissata dal D.M. 1° aprile 1998, n. 145, con riferimento alla definizione del modello e dei contenuti del formulario.
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È proprio questo decreto che reca la definizione del modello e dei contenuti del formulario di accompagnamento dei rifiuti ai sensi degli articoli 15, 18, comma 2, lettera e), e comma 4, del previgente D.L.vo 22/97. A questo è seguita la Circolare del 4 agosto 1998 n. GAB/DEC/812/98 sulla compilazione dei registri di carico scarico dei rifiuti e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati. Le uniche eccezioni a questo obbligo sono costituite: – dal “trasporto di rifiuti urbani effettuato dal soggetto che gestisce il servizio pubblico” di raccolta; – dai “trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri” (art. 193); – dalle “attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio” (art. 266); – dal trasporto dei rifiuti urbani effettuato al di fuori del territorio del comune o dei comuni per i quali è effettuato il servizio pubblico di raccolta, sempre che ricorrano le due sopraccitate condizioni.
È sanzionabile il trasporto di rifiuti pericolosi senza FIR o con formulario incompleto e/o inesatto?
297.
Per effetto delle continue proroghe SISTRI e a causa del fatto che l’attuale testo dell’art. 258 del TUA (vigente dal 25 dicembre 2010) non fa più riferimento né al MUD, né al FIR (tranne il caso di trasporto in proprio di rifiuti non pericolosi), erano di fatto divenuti non sanzionabili, sia i soggetti che omettevano la presentazione del MUD nei tempi e nei modi chiariti e ribaditi con la circolare del MATT del 2 marzo 2011, n. 6774, sia i soggetti esclusi dal novero dell’art. 212, co. 8 (non pericolosi), che trasportavano rifiuti senza formulario. La violazione dell’art. 258, nella versione modificata dal D.L.vo 205/10 era infatti sanzionata solo a partire dall’effettiva entrata in vigore del SISTRI, con la conseguenza che i trasportatori esclusi dal novero del 212, co. 8, potevano trasportare qualsiasi tipo di rifiuto (e quindi anche rifiuti pericolosi) senza adempiere ad alcun obbligo documentale e senza incorrere in alcuna sanzione. In tal senso si è anche espressa la Corte di cassazione che, nella sentenza 27 luglio 2011, n. 29973, ha affermato che “il trasporto di rifiuti pericolosi senza il formulario di identificazione dei rifiuti (FIR) o con formulario che riporti dati incompleti o inesatti, penalmente sanzionato dall’art. 258, co. 4, del D.L.vo 152/06 nella formulazione previgente alle modifiche introdotte dal D.L.vo 205/10, non è più previsto dalla legge come reato. Invero, da un lato, l’attuale art. 258, co. 4, del TUA – che sanziona appunto la fattispecie descritta – si riferisce alle imprese che trasportano i propri rifiuti e non prevede l’applicazione della sanzione penale, salvo il caso di predisposizione di certificati di analisi falsi sulla natura/composizione dei rifiuti; dall’altro lato, il trasporto di rifiuti pericolosi (di soggetti terzi) in assenza di documentazione è fattispecie regolata dall’art. 260-bis del D.L.vo 152/06: tale norma, tuttavia, si riferisce al trasporto non accompagnato dalla copia della scheda cartacea SISTRI, e non al trasporto non accompagnato dal FIR o con formulario con dati incompleti o inesatti”.
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L’orientamento è stato confermato nella sentenza n. 15732 del 24 aprile 2012, in cui è stato ribadito che “per effetto delle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10 al D.L.vo 152/06 è venuta meno la punibilità della condotta di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti o inesatti. Detta condotta infatti non è riconducibile né alle previsioni dell’art. 258 né alla fattispecie introdotta con l’art. 260-bis TUA, che opera un riferimento alla scheda Sistri e non ai precedenti formulari con la conseguenza che, in applicazione dei principi fissati dall’art. 2 c.p., le condotte poste in essere devono essere ritenute non più riconducibili all’ipotesi di reato contemplate dalla disciplina previgente”. Fortunamente, tale increscioso vuoto normativo-sanzionatorio è venuto meno all’indomani dell’entrata in vigore (16 agosto 2011) del D.L.vo 7 luglio 2011, n. 121 “Attuazione della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente, nonché della direttiva 2009/123/CE che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni” (in GU n. 177 del 1° agosto 2011). L’art. 4 del suddetto decreto, modificando l’art. 39 del D.L.vo 205/10 (che a sua volta ha modificato l’art. 258 TUA) ha stabilito che la novellata versione dell’art. 258 sarà applicabile solo durante la piena operabilità del SISTRI e sino a tale data continuerà ad applicarsi la “vecchia” versione della norma in esame e, quindi, continueranno ad essere sanzionati i trasporti di rifiuti pericolosi senza FIR o con formulario incompleto o inesatto.
Cosa accade in caso di errata indicazione della codifica CER nell’ambito del formulario? 298.
Il riferimento normativo per la compilazione del formulario resta, ancor oggi, il D.M. 1 aprile 1998, n. 145, che ha stabilito che oltre al codice CER del rifiuto trasportato va indicato il “nome codificato del rifiuto”. L’indicazione corretta in formulario è dunque quella che riporta il codice CER a sei cifre unitamente alla letterale descrizione dell’Allegato D. È poi vero che nell’ipotesi di codice a cifre corretto e descrizione difforme, ma tale comunque da far comprendere di quale rifiuto si tratta, ad esempio CER 16.01.04* “veicoli fuori uso” indicato come 16.01.04* “auto usate fuori uso” o “automobili fuori uso”, non ricorre la violazione di cui all’art. 258, comma 4, D.L.vo 152/06 di errata compilazione del formulario: resta piuttosto possibile nel caso di specie l’applicazione della sanzione amministrativa di cui all’art. 258, comma 5, secondo capoverso, ovvero la somma da € 260.00 a 1.550 €, perché le indicazioni nel FIR sono “formalmente” incomplete o inesatte, ma contengono tutti gli elementi per ricostruire le informazioni dovute per legge. Resta inteso che l’indicazione accanto al codice a cifre di una dicitura completamente fuorviante rispetto al CER riportato in formulario rende invece applicabile la sanzione amministrativa più grave di errata compilazione.
299.
Cosa deve essere indicato nello spazio riservato alle “annotazioni”?
Nella sezione “Annotazioni” del formulario vanno annotate tutte quelle vicende anomale che possono caratterizzare in concreto un trasporto di rifiuti, sia in termini di mutamento di destinazione, sia in termini di mezzo di trasporto ovvero di trasporta-
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tore. In questo modo infatti si consente una puntuale ricostruzione di tutto l’iter che ha coinvolto lo spostamento dei rifiuti. La più volte citata circolare 4 agosto 1998, n. GAB/DEC/812/98, alla lettera m), del punto 1), mette in evidenza una prima situazione nella quale si rende necessaria la compilazione dello spazio relativo alle annotazioni: “nel caso in cui il trasportatore sia costretto a cambiare destinatario, ad esempio perché quello previsto è impossibilitato a ricevere il rifiuto, il nuovo percorso e il nuovo destinatario, nonché i motivi della variazione, devono essere riportati nell’apposito spazio del formulario riservato alle annotazioni”. Alla successiva lettera v), I capoverso, viene stabilito che “nel caso in cui per concrete esigenze operative o imprevisti tecnici, un trasporto di rifiuti venga effettuato dallo stesso trasportatore con veicoli diversi o da trasportatori diversi, gli estremi identificativi dei diversi trasportatori (nominativo, c. fiscale, n. aut. Albo), dei diversi mezzi utilizzati (es. targa automezzo), il nominativo del conducente e la firma di assunzione di responsabilità potranno essere riportati sulle tre copie che accompagnano il trasporto medesimo nell’apposito spazio riservato alle annotazioni”. Il IV capoverso della medesima lettera v) prevede anche che “in caso di trasbordo parziale del carico su mezzo diverso effettuato per motivi eccezionali, il trasportatore dovrà emettere un nuovo formulario relativo al quantitativo di rifiuti conferito al secondo mezzo di trasporto. Nel nuovo formulario, il trasportatore dovrà indicare, nello spazio riservato al produttore/detentore la propria ragione sociale e, nello spazio per le annotazioni, il motivo del trasbordo, il codice alfanumerico del primo formulario e il nominativo del produttore di origine. Sul primo formulario di identificazione, nello spazio per le annotazioni, dovrà essere apposto il codice alfanumerico del nuovo formulario emesso e gli estremi identificativi del trasportatore che prende in carico i rifiuti…”.
Quale procedura si deve adottare nella fattispecie di un carico respinto dal destinatario?
300.
La fattispecie del carico respinto presenta risvolti tutt’altro che lineari. In particolare la quinta sezione del formulario, contiene le parti riservate al destinatario, il quale all’arrivo del carico di rifiuti appone la data e la propria firma ed indica se accetta, in tutto o in parte, o respinge i rifiuti. Anche se non è espressamente specificato, si può presumere che la copia del destinatario vada comunque trattenuta dallo stesso come prova dell’avvenuto diniego. Il particolare legame – oggi ancora più stretto – esistente tra formulario di trasporto e registrazioni sul libro di carico e scarico, incrementa ulteriormente la problematicità della situazione. Per quanto concerne la situazione del carico respinto, infatti, a parte quanto sopra riportato in tema di formulario, non vi sono altre norme precise che indichino al produttore una procedura da adottare per registrare correttamente le operazioni di carico e scarico dei rifiuti respinti: da qui l’estrema facilità con cui gli organi di controllo possono sindacare fattispecie di questo tipo. Per gestire nel migliore dei modi tale situazione, è preliminare avvertire il produttore del diniego e quindi dell’imminente ritorno dell’automezzo, così che questi possa verificare modi e tempi della riconsegna, oltre a farsi consegnare dal trasportatore la copia di propria spettanza con l’indicazione “respinto”. Il produttore, poi, conserverà la prima copia del formulario insieme all’ultima, all’interno del registro di carico e
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scarico, provvedendo ad eseguire una nuova registrazione di carico avente per oggetto i rifiuti che non sono stati accettati dal destinatario, indicando nelle annotazioni che trattasi di rifiuti precedentemente respinti dal destinatario. Nel frattempo, il produttore verificherà le cause della mancata accettazione e, qualora queste non possano essere rimosse, si attiverà per reperire un nuovo destinatario: a ciò seguirà una nuova registrazione di scarico con successivo trasporto allo smaltitore/recuperatore così individuato. Questa appare indubbiamente essere la soluzione migliore per garantire la tracciabilità dei rifiuti e per dimostrare agli organi di controllo la correttezza del proprio operato, pur se a fronte di una duplicazione delle operazioni di carico e scarico. Ma d’altra parte è proprio questo l’obiettivo ultimo del documento di trasporto dei rifiuti. 301. Quali sanzioni sono previste in caso di trasporto di rifiuti con FIR riportante dati incompleti o inesatti?
L’art. 258 del D.L.vo 152/06, che oggi ha sostituito l’art. 52 comma 3 del D.L.vo 22/97, ai commi 4 e 5 prescrive che chiunque effettua il trasporto di rifiuti senza il formulario di cui all’articolo 193 ovvero indica nel formulario stesso dati incompleti o inesatti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da milleseicento euro a novemilatrecento euro. Si applica la pena di cui all’articolo 483 del codice penale nel caso di trasporto di rifiuti pericolosi. Inoltre la stessa pena si applica se le indicazioni di cui al comma 4 sono formalmente incomplete o inesatte ma contengono tutti gli elementi per ricostruire le informazioni dovute per legge. Dopo questo breve richiamo al dato normativo, si rinvengono due distinte condotte sanzionate: il mancato utilizzo del formulario durante il trasporto ed il suo utilizzo con l’indicazione di dati incompleti o inesatti; entrambe le due condotte sono punite con sanzioni amministrative. Tenendo presente naturalmente che nel caso in cui si tratti di rifiuti pericolosi si applica, però, la sanzione penale di cui all’art. 483 Cod. pen. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico – fino a 2 anni di reclusione). Sulla singolare progressione da illecito amministrativo a delitto, a seconda della pericolosità o meno dei rifiuti trasportati, la dottrina si è interrogata da tempo, in particolare per chiarire se il rinvio operato dall’art. 258 D.L.vo 152/06 all’art 483 Cod. pen. riguardi solo la pena o l’intera fattispecie, perché in questo secondo caso, trattandosi di un delitto, si sarebbe posto il problema di dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo (il dolo) richiesto dalla fattispecie. A questa domanda, anche con l’ausilio della giurisprudenza, la dottrina ha risposto sostenendo la tesi del rinvio quoad poenam, in quanto più aderente al dettato letterale della norma e in grado di punire anche le condotte colpose, garantendo così un più ampio margine repressivo. Peraltro, proprio perché la ratio del formulario risiede nel permettere la tracciabilità dei rifiuti trasportati, il Legislatore estende la sopraccitata sanzione penale anche al diverso caso del certificato di analisi dei rifiuti: infatti, la pena di cui all’art. 483 Cod. pen. si applica anche a chi, nel predisporre un certificato di analisi di rifiuti, fornisce false indicazioni sugli stessi (natura, composizione, caratteristiche fisico-chimiche), nonché a chi utilizza un certificato falso durante il trasporto. In altre parole, non solo le condotte sanzionate penalmente sono due, ovvero quella di predisposizione di un
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certificato di analisi con false indicazioni (e questo è un reato che prescinde dall’attività di trasporto) e quella di uso di un certificato falso, ma le stesse sono riferibili (e quindi la pena è ugualmente applicabile) sia ai rifiuti non pericolosi, sia ai rifiuti pericolosi, in quanto l’art. 258, co. 4, cpv 3, non fa alcun cenno alle caratteristiche del rifiuto. Il cpv 2 del sopra richiamato comma 5, ripropone l’ipotesi del formulario contenente indicazioni formalmente incomplete o inesatte, però nel caso in cui il FIR sia “autoreferente”, ovvero tali elementi siano desumibili dal documento di trasporto (dovranno essere contenuti solo nel formulario, senza potersi avvalere del Mud e dei registri), pur ritenendo comunque applicabile la sanzione amministrativa. Trattasi di ipotesi dedicata a condotte colpose ma in assenza di attività fraudolenta tesa ad ingannare il sistema di controllo e vigilanza, che secondo la giurisprudenza sono riferibili unicamente al caso di trasporto di rifiuti non pericolosi.
L’utilizzo di formulari di trasporto rifiuti non vidimati, quale tipo di sanzione comporta? La sanzione è applicabile a ciascun formulario non vidimato o è cumulativa? Quali i rimedi?
302.
Con riguardo alle fonti normative ed all’obbligatorietà della vidimazione dei formulari, bisogna verificare se il difetto della vidimazione di un formulario, impiegato per successivi trasporti di rifiuti, debba considerarsi quale violazione singola, anche se reiterata, o se debbano ritenersi integrati diversi illeciti amministrativi tanti quanti sono i trasporti effettuati, tutti ugualmente sanzionabili. L’art. 8, L. 689/81 (la cd. “legge di depenalizzazione”) prevede che “salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con un’azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo”. Si tratta, quindi, di capire se è possibile identificare l’omessa vidimazione del formulario quale singola omissione, a prescindere dal numero complessivo di trasporti effettuati successivamente. Ciò che rileva in primo luogo è l’unicità della condotta, oltre all’unicità della norma violata: la disposizione contenuta nell’art. 8 della L. 689/81 si riferisce solo all’ipotesi di violazione di diverse disposizioni o della stessa disposizione compiute con una sola azione od omissione, e non anche alla diversa fattispecie di più violazioni attraverso una pluralità di azioni od omissioni, pur se esecutive di un unico disegno. Quindi, una volta ritenuta applicabile la norma denominata “della continuazione” e ritenuta altresì sussistente l’unicità della condotta, si provvederà ad applicare la sanzione prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo. La mancata vidimazione del formulario rientra nell’ipotesi di cui all’art. 258, comma 5, D.L.vo 152/06 ed il fatto di non aver sottoposto il formulario alla vidimazione, come richiesto dall’art. 193, comma 6, D.L.vo 152/06, è identificabile quale condotta omissiva singola, anche se poi ciò si ripercuote su tutti gli impieghi successivi del formulario stesso non vidimato. In altre parole, non dovrà, dunque, applicarsi la sanzione di cui al richiamato art. 258, comma 5, II cpv, tante volte quanti sono gli impieghi dei formulari appartenenti al blocco non vidimato, ma una sola sanzione, anche se aumentata sino al triplo. Con una sola omissione (la mancata vidimazione di un blocco) si è, infatti, verificata più volte la violazione della stessa disposizione, l’art. 193, comma 6, D.L.vo 152/06.
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Il problema dell’applicazione della sanzione amministrativa può sorgere solo nell’eventualità di un controllo e potrebbe accadere che in sede di accertamento gli organi di controllo effettuino verbali diversi a ciascuno dei differenti soggetti che si trovano in possesso di copia dei formulari e peraltro in tempi differenti. In questo caso sarebbe forse più opportuno effettuare direttamente alla Provincia una segnalazione – autodenuncia circa la violazione formale commessa, per evitare l’applicazione reiterata della stessa sanzione, e prospettando a contrario l’applicazione della sanzione ridotta sopra indicata.
Nel caso in cui il formulario venga compilato con l’indicazione di un peso di partenza presunto deve sempre essere barrata l’opzione di “peso da verificarsi a destino”?
303.
Il DM 1 aprile 1998, n. 145 consente alle aziende di trascrivere il peso “a destino”: infatti, nell’allegato B del predetto decreto, al punto 6) è prevista l’indicazione in “Kg o litri “e il “peso da verificarsi a destino”. Apparentemente queste indicazioni potrebbero sembrare alternative. Sennonché la Circolare 4 agosto 1998, n. GAB/ DEC/812/98, esplicativa sulla compilazione dei registri di carico/scarico dei rifiuti e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati, al punto 1), lett. t), così si esprime: “t) alla voce «quantità», casella 6, terza sezione, dell’allegato B, al decreto ministeriale n. 145/1998, deve sempre essere indicata la quantità di rifiuti trasportati. Inoltre, dovrà essere contrassegnata la casella «(–)» relativa alla voce «Peso da verificarsi a destino» nel caso in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di un sistema di pesatura si possano, rispettivamente, verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non precisa corrispondenza tra la quantità di rifiuti in partenza e quella a destinazione”. Da questa formulazione si comprende indubbiamente come queste indicazioni non siano alternative, ma che occorra sempre indicare il peso in Kg o litri ed eventualmente prescegliere anche l’opzione di verifica a destinazione, qualora ricorrano le condizioni prescritte dalla norma. Il fatto di avvalersi della possibilità di verificare il peso dei rifiuti trasportati presso il sito finale di destinazione non esime affatto dall’indicare comunque un peso indicativo all’atto della partenza dei rifiuti medesimi; peraltro verosimilmente il peso di partenza e quello di arrivo saranno differenti, o quantomeno le probabilità che lo siano sono estremamente elevate. Questo discorso ha un senso chiaramente qualora ricorrano le cause richiamate dalla norma e quindi in concreto: – non devono essere presenti sistemi di pesatura, rendendo quindi impossibile provvedervi; – la natura dei rifiuti deve essere tale da consentire possibili variazioni nel peso stesso (circostanza che può verificarsi proprio con riferimento ai rifiuti liquidi). Quindi, in conclusione, la presenza di una di queste due condizioni, giustifica la possibilità di procedere alla verifica del peso effettivo presso il luogo di destinazione dei rifiuti ed in quel momento potrà certamente riscontrarsi una difformità tra il peso dichiarato e quello successivamente accertato. Diversamente, verrebbe meno l’obiettivo stesso della normativa sopra richiamata in materia.
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Precisato, dunque, che l’opzione “peso da verificarsi a destino” non esclude l’indicazione dello stesso in Kg o litri, dalle norme sopra riportate non emerge in nessun caso che la copia del formulario di identificazione, da conservarsi presso la sede di destinazione, debba essere integrata da copia dello “scontrino” di pesatura del rifiuto: peraltro, qualora si voglia allegarla per esigenze di chiarezza e precisione, si tenga presente che ciò è comunque possibile, pur se non richiesto. Del resto, in sede di controllo degli organi di vigilanza, questi non possono pretendere la copia dello scontrino di pesatura, avvalendosi, magari, della minaccia di una sanzione. La normativa (art. 258) individua infatti quale soggetto autore dell’illecito, colui che effettua il trasporto in assenza del formulario ovvero colui che lo compila in modo inesatto ovvero incompleto, non richiamando quindi espressamente il soggetto che lo riceve. Tuttavia, occorre tenere presente un principio generale che anima l’impianto sanzionatorio del D.L.vo 152/06, rappresentato dal dovere di cooperazione fra tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di gestione dei rifiuti, al fine di una loro maggiore responsabilizzazione (art. 178). Questo principio generale, che impone oneri di controllo e di diligenza su ogni soggetto coinvolto nella gestione dei rifiuti, sovrintende ad ogni intervento interpretativo sulle norme del D.L.vo 152/06 – Parte IV in tema di responsabilità.
In un formulario, nell’ipotesi in cui venga barrata la casella che indica “recupero”, deve essere indicato un solo codice di recupero oppure tutti i codici di recupero che sono ammessi dall’autorizzazione di un determinato impianto di recupero per un determinato rifiuto? 304.
La compilazione del punto 5 del modello di formulario relativo alla voce “destinazione del rifiuto” deve specificare, anzitutto, la scelta della destinazione a recupero o smaltimento; queste sono infatti le voci indicate tra parentesi nel modello stesso di formulario. La prassi ha portato ad indicare anche le singole operazioni di recupero o smaltimento cui il rifiuto è destinato. Non vi è, infatti, a che risulti, una norma specifica che imponga o vieti di indicare nella stessa voce 5 una o più delle operazioni di recupero o smaltimento cui è inviato il rifiuto, ma è possibile sostenere che il complesso delle norme che regolano la cosiddetta “corretta gestione dei rifiuti” si basa sulle seguenti modalità di compilazione del formulario alla sua voce n. 5. Senz’altro l’indicazione dell’operazione specifica di recupero o smaltimento per quella tipologia di rifiuto è opportuna per la completezza del formulario e per facilitare il controllo degli addetti durante il trasporto. Nel caso in cui siano indicate più operazioni di recupero o smaltimento, non si ritiene però applicabile la sanzione di cui all’art. 258 comma 4 per indicazione nel formulario di dati incompleti o inesatti, neppure quella di cui al successivo comma 5, ovvero per quei casi in cui le indicazioni sono incomplete o inesatte ma sono comunque ricostruibili le informazioni dovute, e nemmeno, infine, quella di attività di gestione di rifiuti non autorizzata (art. 256) purché ricorrano le seguenti ipotesi:
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– tutte le operazioni indicate siano operazioni di recupero o smaltimento che l’impianto di destino è regolarmente autorizzato a svolgere; – l’indicazione delle operazioni non sia equivoca, ad esempio perché sono indicate sia operazioni di recupero sia di smaltimento; – non vi siano indicazioni “incompatibili tra loro” relative al concreto svolgimento delle operazioni, ad esempio, l’indicazione D1 “smaltimento in discarica” non può essere riportata validamente unitamente a D4 “lagunaggio”; è corretta invece l’indicazione D15 “deposito preliminare” e anche D14 e D13, rispettivamente “ricondizionamento preliminare” e “raggruppamento preliminare”, perché entrambe le ultime due operazioni sono normalmente seguenti al deposito preliminare per gli impianti di stoccaggio. L’individuazione di alcune operazioni di smaltimento o recupero in formulario, di solito, è poi concordata con l’impianto di destino, quindi scelta in accordo tra quest’ultimo e il produttore e/o il trasportatore o l’intermediario, tutti soggetti che hanno il compito non solo di classificare correttamente il rifiuto, per nominarlo all’interno del formulario secondo il suo CER specifico, ma che hanno anche il dovere di selezionare l’impianto di destino, accertandosi delle autorizzazioni di cui dispone, procedendo alla verifica con quest’ultimo della destinazione specifica della tipologia di rifiuto oggetto dell’invio. Si ritiene, da ultimo, importante rammentare che nell’ambito della corretta gestione dei rifiuti il produttore conferisce il suo rifiuto ad impianti di recupero o smaltimento per i quali, nel momento in cui il rifiuto giunge all’impianto, il gestore del centro acquisisce la qualifica di detentore del rifiuto, assumendosi da quel momento le responsabilità della corretta gestione. Naturalmente il gestore dell’impianto è condizionato unicamente dalla tipologia di autorizzazione di cui è in possesso, quindi sulla base della stessa accetterà o meno il carico. Una volta che il carico dei rifiuti è entrato in impianto egli, procedendo anche ad una semplice cernita, sarò libero di valutare e decidere che, ad esempio, una parte dei rifiuti conferiti, non è effettivamente destinabile a recupero ma deve essere definitivamente smaltita. In ciò, non è affatto vincolato dall’indicazione sul formulario, se non nel caso in cui tutto il carico, per completa mancata corrispondenza alla destinazione indicata, debba essere respinto, o si debba provvedere alla correzione del formulario perché trattasi di altra operazione di recupero, praticabile nell’impianto, ma diversa da quella indicata. Ciò, come sopra detto, si spiega in base alla considerazione che il gestore dell’impianto, specialmente se impianto autorizzato allo stoccaggio, non è un detentore qualunque, ma da esso si fa iniziare un nuovo ciclo di gestione del rifiuto.
Cosa accade qualora entro il termine di tre mesi non ritorni al produttore la quarta copia del formulario?
305.
L’art. 188, co. 3, lett. b), D.L.vo 152/06 stabilisce che se alla scadenza dei tre mesi (da conteggiarsi a partire dalla data del conferimento dei rifiuti al trasportatore), non è ritornata la 4 copia del formulario al produttore, questi deve darne comunicazione alla
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Provincia competente: un simile comportamento esclude sue eventuali responsabilità nell’ambito del procedimento di gestione dei rifiuti, sempre che non vi sia la prova di un eventuale coinvolgimento in attività illecite. Una volta decorso tale termine trimestrale, non vi è più possibilità di porre rimedio alla situazione nei modi consentiti dalla legge e quindi, gli organi di controllo potrebbero riscontrare la mancanza dei formulari in questione e, quindi, la mancata compilazione del registro C/S, solo seguendo il percorso di un determinato carico e verificando in parallelo i documenti del trasportatore e del destinatario (i quali sono in possesso delle rispettive copie).
A quale sanzione si espone il produttore che non comunica alla Provincia il mancato ritorno della copia del formulario?
306.
Si tenga presente che l’omessa segnalazione da parte del produttore non è sanzionata espressamente dal D.L.vo 152/06: ciò non significa che l’adempimento in questione sia irrilevante, ma significa che, qualora emerga un reato di trasporto/traffico/smaltimento illecito di rifiuti, le sanzioni sono di specifica rilevanza penale. Nella maggior parte dei casi non si tratta di un caso di smaltimento illegale di rifiuti, ma di mere irregolarità nella spedizione pratica e formale della quarta copia dal trasportatore al produttore. Questo soggetto d’altra parte è giuridicamente tenuto alla conservazione della 4° copia dei formulari (art. 188, co. 3, lett. b) e, pertanto, in caso di contestazione, risponderà dell’illecito di cui all’art. 258, co. 5, per la “mancata conservazione … del formulario di cui all’art. 193” con la sanzione amministrativa da € 260 a € 1.550.
Come è disciplinato il trasporto dei rifiuti all’interno di un’area privata?
307.
Il trasporto dei rifiuti all’interno di un’area privata, ai sensi dell’art. 193 comma 9 D.L.vo 152/06 (secondo cui: “La movimentazione dei rifiuti esclusivamente all’interno di aree private non è considerata trasporto ai fini della parte quarta del presente decreto”) può avvenire senza FIR, indipendentemente dalle diverse proprietà dell’area e degli impianti e, a maggior ragione, se trattasi di movimentazione per mezzo di muletti o pale meccaniche che non sarebbero certo mezzi idonei al trasporto rifiuti. Resta comunque necessaria la registrazione di carico e scarico, in particolare di scarico dal registro di quell’impianto che ha ricevuto in entrata i rifiuti e di carico per ogni impianto che li sottoporrà a trattamento.
Il trasferimento di rifiuti in una società diversa da quella di partenza, all’interno di un centro impianti situato in area privata, necessita di essere accompagnato dal formulario di trasporto?
308.
La Circolare n. GAB/DEC/812/98 molto chiaramente prevede che “si può verificare l’evenienza che all’interno di un’area privata delimitata siano localizzati più impianti produttivi gestiti da distinti soggetti giuridici, e tali singole unità produttive provvedano
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alla gestione dei propri rifiuti tramite un soggetto terzo dotato di centro di stoccaggio autorizzato che è localizzato all’interno dell’area medesima. In tal caso la movimentazione dei rifiuti effettuata all’interno di tale area privata delimitata dai singoli impianti di produzione al centro di stoccaggio, non dovrà essere accompagnata dal formulario. Dai registri di carico e scarico dovrà tuttavia risultare il conferimento dei rifiuti dai diversi impianti produttivi al centro di stoccaggio gestito da un soggetto terzo all’interno della medesima area privata delimitata. A tal fine dovrà essere utilizzato l’apposito spazio del registro riservato alle annotazioni”. La Circolare che basa il regime dell’esenzione dalla tenuta del formulario su due presupposti: 1. la proprietà privata dell’area, e quindi l’assenza di strade pubbliche 2. l’esistenza di registri di carico e scarico per verificare il conferimento dei rifiuti da un impianto all’altro; non risulta ad oggi espressamente abrogata dal nuovo decreto n. 152/06. La nuova disciplina ha però, in un certo senso, recepito quanto indicato dalla Circolare, proprio all’art. 193 comma 9, esplicitando ciò che il decreto Ronchi non aveva previsto nell’art. 15 e la Circolare aveva integrato. Tale norma infatti prevede, seppur molto sinteticamente, che: “La movimentazione dei rifiuti esclusivamente all’interno di aree private non è considerata trasporto ai fini della Parte IV del presente decreto”. A parere di chi scrive dunque, salve le eventuali indicazioni che potranno essere date in merito dal nuovo decreto ministeriale che disciplinerà il modello di formulario, continua ad essere corretto il trasporto di rifiuti effettuato, in assenza di formulario, nell’area privata tra i due impianti di proprietà differenti.
Nel caso di un mezzo con un carico di rifiuti superiore alla portata massima consentita, bisogna respingere il carico oppure consentire lo scarico solo del quantitativo corrispondente al carico consentito?
309.
Fermo restando che il trasporto dei rifiuti è operazione di trasporto su strada che deve essere effettuata secondo tutti i canoni di sicurezza (anche tecnica) non solo ambientale, il trasporto di un carico superiore alla portata del mezzo è anzitutto soggetto a sanzione del Codice della Strada articoli 167 e 168.
I Comuni, per i rifiuti prodotti nel proprio territorio, a quali vincoli normativi sono soggetti in merito a raccolta e trasporto?
310.
Si ricorda che nell’ambito della gestione dei rifiuti, le competenze dei Comuni ricevono una specifica regolamentazione con l’art. 198, D.L.vo 152/06. Possono delinearsi due differenti situazioni: A) Sino all’inizio delle attività del soggetto aggiudicatario della gara ad evidenza pubblica indetta dall’Autorità d’ambito ai sensi dell’articolo 202, i comuni continuano la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento in regime di privativa nelle forme di cui all’articolo 113, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
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B) successivamente all’affidamento dell’incarico al soggetto gestore, da parte della A.T.O. competente, i comuni concorrono a disciplinare la gestione dei rifiuti urbani con appositi regolamenti aventi ad oggetto: a) le misure per assicurare la tutela igienico-sanitaria in tutte le fasi della gestione dei rifiuti urbani; b) le modalità del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani; c) le modalità del conferimento, della raccolta differenziata e del trasporto dei rifiuti urbani ed assimilati al fine di garantire una distinta gestione delle diverse frazioni di rifiuti e promuovere il recupero degli stessi; d) le norme atte a garantire una distinta ed adeguata gestione dei rifiuti urbani pericolosi e dei rifiuti da esumazione ed estumulazione di cui all’articolo 184, comma 2, lettera f); e) le misure necessarie ad ottimizzare le forme di conferimento, raccolta e trasporto dei rifiuti primari di imballaggio in sinergia con altre frazioni merceologiche, fissando standard minimi da rispettare; f) le modalità di esecuzione della pesata dei rifiuti urbani prima di inviarli al recupero e allo smaltimento; g) l’assimilazione, per qualità e quantità, dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani, secondo i criteri di cui all’articolo 195, comma 2, lettera e), ferme restando le definizioni di cui all’articolo 184, comma 2, lettere c) e d). In merito alla necessità di iscrizione e formazione in capo alle Amministrazioni comunali, si segnala la recente emanazione (28 ottobre 2008) della nota del Comitato Nazionale dell’Albo Nazionale Gestori Ambientali, con la quale si chiarisce che i Comuni impegnati nella gestione diretta dei centri di raccolta non sono tenuti alla predetta iscrizione, ma è da segnalare l’ancor più recente comunicato (5 novembre 2008) del Min. Ambiente che ha ritirato questa e la precedente Delib. dell’Albo, in virtù dell’annullamento del DM 8 aprile 2008 per problemi riscontrati nel suo iter formativo. Pertanto anche per quanto concerne il personale addetto ai centri di raccolta, si tenga presente che il loro compito sarebbe proprio non solo quello di presidiare il centro stesso (punto 4.3 lett. b) del citato D.M. 8 aprile 2008), ma sarebbe inoltre previsto l’onere di effettuare un esame visivo dei rifiuti conferiti, di firmare le schede dei rifiuti conferiti e di quelli in uscita nonché più in generale di sapere gestire in sicurezza il conferimento dei rifiuti stessi nelle diverse zone del centro, unitamente ad eventuali procedure di emergenza in caso di incidenti. Va da sé che questi compiti è meglio che siano affidati a personale qualificato, oltre naturalmente alla figura del responsabile tecnico, riservando ad eventuali soggetti meno preparati ovvero a volontari, compiti di mero presidio. Ma tutto ciò, come scritto poco sopra, è previsto in un DM attualmente non valido. Pertanto, nel momento in cui si scrive, la situazione è sostanzialmente in una fase transitoria. 311. Un trasportatore che abbia in iscrizione un CER “sbagliato” rispetto alla categoria può essere comunque considerato legittimamente autorizzato a trasportare lo specifico rifiuto anche se ricadente nella categoria impropria?
La categoria di iscrizione all’Albo viene assegnata sulla base della attività di impresa svolta e sulla base della tipologia di rifiuti oggetto della stessa. Se il provvedimento autorizzatorio si riferisce a determinati codici CER (capitolo 20) e l’autorizzazione è espressamente rilasciata per lo svolgimento di un’attività di
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raccolta e trasporto di rifiuti urbani di cui alla categoria 1, una iscrizione alla categoria 5 rivelerebbe un indubbio errore che dovrebbe essere fatto rilevare. Sarebbe poi lo stesso Albo che in sede di autotutela potrebbe rettificare l’erroneo provvedimento, apportandovi le necessarie correzioni. Non è pertanto consigliabile l’affidamento ad un soggetto il cui provvedimento autorizzatorio o la cui iscrizione, presenti tali anomalie in quanto potrebbe esporsi a sanzioni. 312. È corretto accettare un formulario che riporta il peso in litri e indicare, poi, sulle copie del trasportatore, del destinatario e sulla copia del trasportatore da restituire al detentore il peso indicato dalla pesa certificata ed effettuare successivamente la registrazione sul registro di carico e scarico in Kg?
L’art. 190, comma 3, D.L.vo 152/06 prevede che “I registri integrati con i formulari di cui all’articolo 193 relativi al trasporto dei rifiuti sono conservati per cinque anni dalla data dell’ultima registrazione, ad eccezione dei registri relativi alle operazioni di smaltimento dei rifiuti in discarica, che devono essere conservati a tempo indeterminato ed al termine dell’attività devono essere consegnati all’autorità che ha rilasciato l’autorizzazione.”, e la CIRC. GAB/DEC/812/98 al punto 1 lett. k) al punto 1, lettera k), precisa che “il produttore/detentore, il trasportatore ed il destinatario dei rifiuti dovranno apporre il proprio «numero di registro» sulla copia del formulario che deve restare in loro possesso”, e che “poiché solo a seguito della predetta annotazione sarà possibile individuare il «numero di registro» (cioè il numero progressivo dell’annotazione dell’operazione di carico o scarico sul registro) è evidente che il “numero di registro” potrà e dovrà essere riportato sul formulario da parte del produttore/detentore, del trasportatore e del destinatario (smaltitore o recuperatore) nel rispetto dei termini entro i quali i citati soggetti devono effettuare l’annotazione delle operazioni di carico/scarico ai sensi del citato articolo 12, comma 1, lettere da a) a d)», concludendo, alla luce di quanto precisato, che «ovviamente, ciò comporta che durante il trasporto il formulario potrà essere sprovvisto del «numero di registro»”. Viene precisato, infine, che: “il «numero di registro» deve essere apposto sul formulario da parte dei soggetti obbligati alla tenuta dei registri di carico e scarico. È ovvio, infatti, che il «numero di registro» non può essere apposto sul formulario da parte dei soggetti che non sono obbligati a tenere i suddetti registri. In tale evenienza, tuttavia, l’esonero dall’obbligo del registro dovrà risultare da specifica indicazione riportata nell’apposito spazio del formulario riservato alle «annotazioni»”. Per quanto riguarda invece il raffronto con il MUD, seppur non letteralmente riportata, si desume dalla disciplina la necessità di correlazione con il FIR ed il Registro (si tenga presente che c’è un richiamo tra gli articoli 190 (Registri) e 189 (MUD) poiché il MUD oltre ad essere un rilevo statistico costituisce efficace strumento di controllo per gli organi deputati. Considerato che è obbligatorio il peso del carico di rifiuti in ingresso all’impianto di destino, sarebbe buona norma indicare il peso in partenza già in unità di misura di kg o tonnellate, per poi avere corretto riscontro anche sulla 4° copia del FIR di ritorno al produttore che potrà così dichiarare la medesima unità di misura nel MUD.
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Se invece il peso in partenza è indicato in litri o metri cubi all’impianto di destino non resta che accettare il carico convertendo l’unità di misura, così da avere tutto in misura di peso (kg o tonnellate) e riportare ad uniformità tutti e tre i documenti: il FIR, 4 copia, il proprio registro ed il proprio MUD. In molti casi sono le Province che rilasciano le autorizzazioni agli impianti a stabilire che al ricevimento rifiuti va pesato il carico indicando la massa. 313. Nel caso di un conferimento di rifiuti accompagnati da un formulario dove è correttamente indicato il peso in Kg, ma non è barrata l’opzione “peso da verificarsi a destino”, all’arrivo all’impianto si è autorizzati a pesare il carico?
La corretta compilazione del formulario richiede necessariamente l’indicazione della quantità di rifiuto trasportata e “… nel caso in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di un sistema di pesatura si possano, rispettivamente, verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non precisa corrispondenza tra la quantità di rifiuti in partenza e quella a destinazione” si dovrà aver cura di barrare la casella relativa alla voce “peso da verificarsi a destino”. In realtà è consigliabile avvalersi sempre di questa possibilità, in considerazione del fatto che, salvo casi molto particolari, di norma fa fede la quantificazione del rifiuto operata dal gestore dell’impianto di destinazione. Quindi nella ipotesi prospettata sussiste un errore di fondo. Volendo porvi rimedio, per non respingere il carico (unica operazione che peraltro la giurisprudenza riterrebbe corretta), a parere di chi scrive è possibile (ed è soluzione comprensibile anche agli organi deputati all’eventuale controllo) – dopo la pesatura in ingresso, che è sempre da effettuarsi – compilare il FIR secondo le due opzioni: – se vi sono differenze di peso tra dei rifiuti in ingresso e se il carico risulta inferiore rispetto a quanto indicato in FIR si può barrare la casella del “carico accettato per intero” specificando – nello spazio sottostante – che alla pesatura è risultato un quantitativo inferiore “per cause naturali di perdita di peso”, ovviamente ciò dipende dalla tipologia di rifiuti trasportati; – se vi sono differenze di peso in aumento è consigliabile respingere il carico, poiché alla pesatura non vi è possibilità di verificare che i rifiuti in esubero sono effettivamente tutti quelli indicati in FIR. Ogni difformità tra il peso indicato in FIR e quanto verificato in ingresso all’impianto deve essere segnalata nello spazio delle annotazioni o nell’apposito spazio della voce 11. Nel caso, poi, della totale omissione dell’indicazione del peso, senza nemmeno aver barrato la casella del peso da verificarsi a destino si ritiene inaccettabile il carico in ingresso poiché non è possibile effettuare alcun riscontro sull’invio dei rifiuti, perciò il carico è da respingere, indicando nelle annotazioni la motivazione.
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Nel caso in cui non fosse stata indicata l’unità di misura del peso riportato alla partenza come ci si deve comportare?
314.
La mancata indicazione dell’unità di misura, considerato che potrebbe legittimamente essere solo in kg, litri o numero di colli, può essere sempre oggetto di segnalazione nelle annotazioni, a seguito di “controprova” effettuata per mezzo della pesatura in ingresso all’impianto. Si ritiene che questa sia una “modesta deroga” alle norme di compilazione del FIR che potrebbe ragionevolmente consentire di accettare come conforme alla legge questa ipotesi. 315. Nel caso in cui un carico di rifiuti viene totalmente respinto in discarica, come bisogna comportarsi con il formulario?
La struttura del FIR è molto rigida a motivo di corrispondere alla necessità di controllare i movimenti dei rifiuti fino al loro destino, esso deve essere redatto in quattro esemplari (del pari di quattro originali, seppur copie a ricalco) compilato, datato e firmato dal detentore (“il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene”), controfirmato dal trasportatore e sottoscritto dal gestore dell’impianto di recupero o smaltimento. La prima copia del formulario deve rimanere al produttore del rifiuto fin dal momento della partenza del carico, mentre al trasportatore dovranno essere consegnate le rimanenti 3 copie. Il trasportatore, dopo aver ottenuto la sottoscrizione del formulario da parte del gestore dell’impianto di destinazione allo scopo di dimostrare l’avvenuta accettazione del carico, trattiene la seconda copia, mentre la terza è di competenza del gestore dell’impianto e la quarta deve essere restituita, per il tramite del trasportatore, al produttore o detentore del rifiuto. La quarta sezione del FIR (punto 11, allegato A del D.M. 145/1998) è espressamente riservata al destinatario del carico, che deve preoccuparsi della corretta compilazione: è in questa parte che egli esprime, se del caso, la propria accettazione. Il destinatario può infatti formulare tre scelte: – accettare il carico per intero: quindi tratterrà la terza copia del FIR e rimanderà la quarta al produttore (la seconda resta al trasportatore); – accettare il carico parzialmente, indicando per iscritto nell’apposito spazio la motivazione di tale accettazione parziale (allegato C, punto VII, D.M. 145/1998). Anche in questa ipotesi l’impianto di destino trattiene la terza copia e restituisce le altre al trasportatore; quest’ultimo potrebbe dover andare in altro sito per lo scarico dei rifiuti non accettati e ciò è legittimo solo per mezzo delle “copie originali” del FIR; – respingere il carico per intero. In quest’ultimo caso non è nemmeno necessario trasmettere la IV copia del FIR al produttore (ma ciò non significa trattenerla) poiché il destinatario, di fatto, non è tale nella realtà, tanto che non procede ad alcuna annotazione sul registro di c/s. È però necessario che il nuovo percorso ed il nuovo destinatario siano riportati dal trasportatore nell’apposito spazio relativo alle annotazioni (si veda CIRC. GAB/DEC/812/98
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n. 1 lett. m) inoltre sarà necessario avvisare le autorità di controllo del fatto che, a seguito di una mancata accettazione il trasporto sta cambiando destinatario e percorso. Il nuovo destinatario dovrà poi verificare che l’annotazione sia stata apposta nel FIR da parte del trasportatore. 316. I formulari di identificazione del rifiuto vanno conservati per 5 anni. Tale periodo vale per tutti i rifiuti, compresi i pericolosi e i sanitari?
L’art. 190, co. 3, D.L.vo 152/06 dispone che “i registri integrati con i formulari di cui all’articolo 193 relativi al trasporto dei rifiuti sono conservati per cinque anni dalla data dell’ultima registrazione, ad eccezione dei registri relativi alle operazioni di smaltimento dei rifiuti in discarica, che devono essere conservati a tempo indeterminato ed al termine dell’attività devono essere consegnati all’autorità che ha rilasciato l’autorizzazione”, il co. 2 e s.m.e.i. prescrive che “le copie del formulario devono essere conservate per cinque anni”. Tale ultima previsione, dunque, sembrerebbe riguardare, salvo l’eccezione espressamente prevista dal co. 2 dell’articolo in esame, tutti i rifiuti, per due ordini di motivi: innanzitutto, l’art. 193, co. 1 dispone genericamente che “durante il trasporto effettuato da enti o imprese i rifiuti [tout court] sono accompagnati da un formulario di identificazione …” e, secondariamente, l’art. 4, co. 1, del DPR 15 luglio 2003, n. 254 (Regolamento recante disciplina della gestione dei rifiuti della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell’articolo 24 della legge 31 luglio 2002, n. 179), recita quanto segue: “fatto salvo quanto previsto dai seguenti articoli, alle attività di deposito temporaneo, raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, intermediazione e commercio dei rifiuti sanitari, dei rifiuti da esumazioni ed estumulazioni e dei rifiuti provenienti da altre attività cimiteriali si applicano, in relazione alla classificazione di tali rifiuti come urbani, assimilati agli urbani, speciali, pericolosi e non pericolosi, le norme regolamentari e tecniche attuative del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 [oggi D.L.vo 152/06 e s.m.e.i.], che disciplinano la gestione dei rifiuti”. Si ritiene, dunque, che i registri integrati con i formulari, dopo cinque anni dall’ultima movimentazione, possono essere eliminati secondo quanto previsto dalla norma sopraccitata, nulla disponendo in contrario i DM 1 aprile 1998, n. 145 e DM 1 aprile 1998, n. 148. 317. Qual è la procedura che il destinatario deve eseguire per compilare correttamente un FIR in caso di accettazione parziale del rifiuto?
Il formulario di identificazione dei rifiuti (FIR) è il documento cardine previsto dalla legislazione vigente, finalizzato alla regolare articolazione controllata delle varie fasi del trasporto, dal produttore /detentore al sito finale. L’art. 193, co. 6 prevede che la disciplina nazionale in materia di formulari dovrà essere definita con apposito decreto del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio. Sino all’emanazione del predetto decreto continueranno ad applicarsi le disposizioni del D.M. 1° aprile 1998, n. 145 “Regolamento recante la definizione del modello e dei contenuti del formulario di accompagnamento dei rifiuti”, il quale comprende il modello ufficiale del formulario di identificazione dei rifiuti trasportati pre-
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visto dall’art. 193 del T.U. ambientale (e già dall’art. 15 del D.L.vo 22/97, cd. Decreto Ronchi). Il FIR, quindi, deve essere conforme al modello contenuto nel succitato D.M., e le regole da osservare per la sua corretta tenuta sono integrate dalla Circ. Ministero dell’Ambiente 4 agosto 1998, n. 812. Accanto alle note disposizioni di carattere generale, si rinvengono le disposizioni dettate dalla normativa di attuazione ed in particolare il D.M. 145/1998, il cui Allegato B contiene il modello di formulario. La quinta sezione è di pertinenza del destinatario. Costui ha solo tre possibilità: • accettare il carico per intero; • accettare il carico parzialmente; in questi due casi di accettazione, l’allegato C, punto VII del D.M. 145/1998 dispone che occorre indicare la quantità ricevuta, la data, l’ora e occorre apporre la firma; • respingerlo (occorre indicare la motivazione). Sul punto, la Circolare ministeriale n. 812 non aggiunge ulteriori elementi se non, in riferimento al “cambio di destinazione” di un carico di rifiuti, che qualora “il trasportatore sia costretto a cambiare destinatario, ad esempio perché quello previsto è impossibilitato a ricevere il rifiuto, il nuovo percorso e il nuovo destinatario, nonché i motivi della variazione devono essere riportati nell’apposito spazio del formulario riservato alle “annotazioni” (lett. m). Le suesposte considerazioni portano alla conclusione secondo la quale nel caso di specie, l’accettazione parziale del carico di rifiuti per non conformità rispetto al CER dichiarato nel formulario, documentata attraverso l’apposizione del segno di barramento nella casella “accettato per la seguente quantità” e indicazione del motivo dell’accettazione parziale risulta in linea con le disposizioni specifiche di legge. Non è, infatti, prescritto un obbligo per il destinatario che non accetti integralmente un carico, di barrare entrambe le caselle “accettato per la seguente quantità” e “respinto per la seguente quantità” con indicazione del peso del carico rimanente. La mancanza di una previsione espressa, tuttavia, non può automaticamente condurre all’esclusione di tale soluzione, la quale quando sia ostacolata dall’impossibilità di indicare il peso preciso della quantità di rifiuti non accettata (si presume nel caso in cui il peso indicato dal produttore nel formulario sia da verificarsi a destino e quindi non deducibile da una mera operazione di calcolo rispetto all’intero carico giunto a destinazione), ugualmente potrebbe trovare applicazione, segnalando nello spazio sottostante la casella “respinto per le seguenti motivazioni” – e non nello spazio delle “Annotazioni” – il peso approssimativo, così come risulta dall’indicazione fornita dal produttore. La seconda soluzione risponderebbe, in una visione complessiva, a quei principi di cooperazione e responsabilizzazione di cui all’art. 178 del T.U.A., offrendo, in tal modo, al trasportatore del rimanente carico, il quale dovrà ovviamente ottemperare a tutti gli obblighi del caso, il giusto contributo nella corretta gestione dello stesso. L’indicazione della quota di carico respinta, infatti, oltre a motivare in maniera inconfutabile la presenza della stessa sul mezzo di trasporto, agevolerà eventuali controlli sul trasporto della stessa quota. Diversamente, non può certo ravvisarsi alcuna forma di responsabilità in capo al destinatario per non corretta compilazione del formulario, dato che, come abbiamo già avuto modo di segnalare, non vi sono degli obblighi espressi in tal senso. In particolare il trasportatore, dovrà avvisare le autorità di controllo del fatto che, a seguito di non accettazione (o parziale accettazione), il trasporto sta cambiando destinatario e percorso.
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In conclusione, la scelta della seconda soluzione, con la segnalazione di entrambe le caselle e l’indicazione del peso della quota-parte di rifiuto respinto (nelle modalità suindicate), pur non trovando riscontro in obblighi normativamente imposti, risulta tuttavia maggiormente in sintonia con l’insieme dei principi che sottendono l’intera struttura e processo della gestione dei rifiuti, garantendo, ovvero contribuendo per la parte che compete al destinatario degli stessi, alla loro corretta tracciabilità.
È possibile ipotizzare nell’erronea compilazione del formulario anche la responsabilità solidale dell’impianto di destino?
318.
Il formulario deve essere redatto in quattro esemplari, compilato, datato e firmato dal detentore (“il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene”), controfirmato dal trasportatore e sottoscritto dal gestore dell’impianto di recupero o smaltimento. Più precisamente la prima copia del formulario deve rimanere al produttore del rifiuto fin dal momento della partenza del carico, mentre al trasportatore dovranno essere consegnate le rimanenti copie. Il trasportatore, dopo aver ottenuto la sottoscrizione del formulario da parte del gestore dell’impianto di destinazione allo scopo di dimostrare l’avvenuta accettazione del carico, trattiene la seconda copia, mentre la terza è di competenza del gestore dell’impianto e la quarta deve essere restituita, per il tramite del trasportatore, al produttore o detentore del rifiuto. Si ricorda, inoltre, che: “deve essere emesso un formulario per ciascun rifiuto quale risulta individuato dal codice (CER) e dalla descrizione. A tale ultimo fine, al punto 4 del formulario, voce “Descrizione” dovrà riportarsi l’aspetto esteriore dei rifiuti che consente di identificare il rifiuto con il massimo grado di accuratezza, tenuto conto che la descrizione del CER non è sempre esaustiva, soprattutto in riferimento ai codici che recano negli ultimi due campi numerici le cifre «99». Nella ratio del legislatore affinché si realizzi un corretto trasporto di rifiuti sussiste certamente anche il coinvolgimento dell’impianto di destino, che deve essere adeguatamente scelto ed indicato nel FIR dal produttore, ma che non ha alcuna responsabilità diretta nella compilazione del documento di trasporto, tutt’al più risulta suo onere verificarne la completezza. È di tutta evidenza che se l’impianto di destino dei rifiuti riceve un FIR già compilato, per questo non può essere in alcun modo sanzionato per violazione della citata norma, tutt’al più potrebbe essere individuato quale obbligato in solido ai sensi e per gli effetti dell’art. 6 della legge n. 689/81. Il responsabile solidale, infatti, non è il soggetto attivo dell’illecito amministrativo ma è semplicemente colui che è tenuto (così come in primis il trasgressore) al pagamento della somma di denaro che integra la sanzione. Si tratta di due concetti distinti: una cosa è infatti l’autore della violazione cioè la persona fisica cui è imputabile l’azione o l’omissione cosciente o volontaria (nel caso di specie l’omessa compilazione di una parte del FIR, imputabile solamente al produttore dei rifiuti o al trasportatore), altra cosa è il soggetto che, senza aver compiuto il fatto illecito, è eventualmente solidalmente obbligato al versamento di un importo con diritto di regresso nei confronti degli altri. In proposito la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito che l’ambito di applicazione della sanzione meramente amministrativa deve essere limitato alle sole ipotesi di difetto meramente formale della documentazione di trasporto, laddove,
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quando risulta una divergenza sostanziale tra ciò che viene indicato dal trasportatore e ciò che concretamente emerge dai controlli, si rientra nell’ambito di rilevanza penale. (v. per tutte Cass. pen. sez. III sent. 23 maggio 2001, n. 30903, così richiamata in Cass. pen. sez. III sent. 15482 del 14 aprile 2008). Infatti, l’art. 258, c. 4 del D.L.vo 152/06, prevede che si applica la sanzione penale di cui all’art. 483 del codice penale (reclusione fino a due anni)“a chi, nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti, fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico – fisiche dei rifiuti e a chi fa uso di un certificato falso durante il trasporto”. Tale pena si applica anche nel caso di trasporto di rifiuti pericolosi, accompagnati da un formulario contenente dati incompleti o inesatti, secondo le indicazioni dello stesso comma 4.
L’esenzione alla compilazione del FIR del gestore di rifiuti urbani può estendersi al terzo appaltatore di cui si avvale il soggetto pubblico? 319.
L’art. 193 comma 4 del decreto n. 152/06 (così come un tempo l’art. 15 comma 4 del decreto Ronchi) prevede il regime di esenzione dalla compilazione del formulario per il trasporto dei rifiuti urbani effettuato “… dal soggetto che gestisce il servizio pubblico di raccolta”. La lettera della norma si riferisce genericamente al soggetto che gestisce il servizio pubblico, e non specificamente al “soggetto gestore” ed è per questo che alcuni commentatori hanno ritenuto che, nel caso in cui il soggetto che gestisce il servizio pubblico non operi direttamente sul territorio ma si avvalga di terzi appaltatori, l’esenzione per l’utilizzo del formulario si estenda anche a questi ultimi. Vero è che l’art. 15 comma 4, e ancor oggi anche l’art. 193 comma 4, trova chiarimento del suo contenuto nella Circolare esplicativa del Ministero dell’Ambiente del 4 agosto 1998 (n. GAB/DEC/812/98, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 11 settembre 1998, n. 212) lettera n), che non risulta abrogata per effetto dell’entrata in vigore del testo unico ambientale. La Circolare ministeriale precisa che il riferimento dell’art. 15, oggi art. 193, è proprio da ritenersi relativo al “soggetto gestore”, infatti leggiamo: “in via di principio il trasporto di rifiuti urbani che non deve essere accompagnato dal formulario di identificazione ai sensi dell’art. 15, comma 4, del decreto legislativo n. 22/1997, è quello effettuato dal gestore del servizio pubblico nel territorio del comune o dei comuni per i quali il servizio medesimo è gestito”. Nel caso di rifiuti affidati al servizio pubblico l’esonero dalla tenuta del formulario trova la propria fonte nella particolare qualificazione del soggetto gestore oltreché nella tipologia dei rifiuti affidatigli; di conseguenza, a parere di chi scrive, non è possibile per il gestore del servizio pubblico trasferire la legittimazione all’esonero dal formulario che gli deriva direttamente da una specifica norma derogatoria. Trattasi, infatti, di una norma di carattere eccezionale rispetto alla disciplina generale in tema di formulario di trasporto, perciò non suscettibile di applicazione estensiva. Si consideri, del resto, che la disciplina previgente (art. 23 comma 3, decreto Ronchi) addirittura circoscriveva l’ambito territoriale di operatività del soggetto gestore, escludendo l’impiego del formulario di trasporto per quest’ultimo limitatamente al comune per il quale il servizio era gestito; è stata solo la circolare esplicativa del 1998 a re-
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golamentare l’eventuale ampliamento territoriale dello svolgimento del servizio, purché sempre nel medesimo ambito territoriale ed in presenza di determinate condizioni. Si concorda, quindi, con quanto affermato nel quesito circa la necessità, per qualsiasi soggetto terzo (non l’appaltatore del servizio pubblico di raccolta) di compilare il FIR qualora compia la raccolta dei RU e degli assimilati. In realtà la stessa Circolare ministeriale al punto 1 lett. n) precisa inoltre che: “Resta fermo che il trasporto di rifiuti urbani effettuato da un centro di stoccaggio a un centro di smaltimento o recupero deve sempre essere accompagnato dal formulario di identificazione”. È dunque solamente la “prima raccolta” dei RU ad essere esentata dalla compilazione del FIR e non la loro successiva gestione. In effetti, nel centro di stoccaggio potrebbero aver luogo operazioni di trattamento sui rifiuti che rendono il centro stesso “produttore”, seppur non iniziale, di rifiuti ex art. 183, lett. f.
Alla luce del DM 30 giugno 2009 il trasporto dei rifiuti per conto terzi può essere considerato un trasporto di merci su strada? E in caso affermativo, il FIR può essere considerato equipollente alla scheda di trasporto?
320.
La lettura degli articoli del D.M. 30 giugno 2009 (pubblicato in GU n. 153 del 4 luglio 2009, ed in vigore dal 19 luglio 2009), unitamente alle disposizioni della Circolare congiunta del Ministero dell’Interno e del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 17 luglio 2009 – Prot. 300/A/8980/09/108/44 – (contenente le disposizioni operative per la corretta compilazione della scheda di trasporto e per il suo controllo) induce ad una preliminare considerazione circa l’ambito di applicazione della normativa in esame, ed in particolare se il trasporto di rifiuti per conto terzi possa essere considerato un trasporto di merci su strada. Innanzi tutto, occorre far riferimento al D.L.vo 21 novembre 2005, n. 286, “Disposizioni per il riassetto normativo in materia di liberalizzazione regolata dell’esercizio dell’attività di autotrasportatore”, normativa che, in seguito alle modifiche apportate dal D.L.vo 214/08, prevede, all’articolo 7-bis, l’istituzione della “scheda di trasporto”, poi regolamentata con il D.M. 30 giugno 2009. A parere di chi scrive, il D.L.vo succitato, come si evince già dall’art. 1, si applica in generale alle merci e non ai rifiuti, a meno che gli stessi – nella fattispecie – non siano equiparati alle merci (es.: commercializzazione) e – in particolare – non si tratti di vettori che, ai sensi dell’art. 11 del D.L.vo 286/05, abbiano adottato “sistemi di certificazione di qualità” per il trasporto di specifiche categorie di trasporto, tra cui, oltre alle merci pericolose, vi sono anche i “rifiuti industriali”. Ciò premesso, qualora vi siano le condizioni per l’applicazione della normativa – relativa all’esercizio dell’attività di autotrasportatore – al trasporto di rifiuti per conto terzi, e quindi anche dell’obbligo della scheda di trasporto, occorre analizzare in che modo tale obbligo si rapporta a quello del formulario di identificazione dei rifiuti di cui all’art. 193 del D.L.vo 152/06, partendo dalla considerazione che ben possono esistere altri documenti in aggiunta al formulario, sulla base di regole diverse e che tali diversi atti, comunque, non interagiscono con la dinamica e la finalità del formulario né con la natura dei rifiuti trasportati e sulla loro qualità ed identificazione.
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A tale considerazione preliminare, che sottolinea l’autonomia e il ruolo del formulario come documento cardine finalizzato alla regolare articolazione delle varie fasi del trasporto pur se accompagnato da altri documenti specifici, si aggiunge quella che discende dalla lettura del combinato disposto dell’art. 3 del DM. 30 giugno 2009 e art. 2, punto 3 della Circolare interministeriale del 17 luglio 2009. In primis, l’art. 2 del D.M. 30 giugno 2009, nel prevedere che la scheda di trasporto possa essere sostituita: – dalla copia del contratto in forma scritta di cui all’art. 6 del D.L.vo 286/05, ovvero; – da altra documentazione equivalente, avente il medesimo contenuto del modello della scheda di trasporto allegata al decreto, rimanda al successivo art. 3 l’identificazione dei documenti equipollenti, i quali sono così individuati: – lettera di vettura internazionale CMR – documenti doganali – il documento di cabotaggio di cui al D.M. 3 aprile 2009 – i documenti di trasporto di cui al D.P.R. 472/1996 – altro documento che deve sempre accompagnare il trasporto stradale delle merci, ai sensi della normativa comunitaria, degli accordi o delle convenzioni internazionali o di altra norma nazionale vigente o successiva al presente decreto. Per cui se la scheda di trasporto può essere sostituita da uno dei documenti considerati ad essa equipollenti dall’art. 3 del Decreto, è pur vero che l’art. 4, Circolare interministeriale prevede che, nel caso in cui il documento equipollente non contenga alcune delle informazioni richieste dalla scheda, dovrà essere integrato prima dell’inizio del viaggio di trasporto e ove ciò non sia possibile, “perché il contenuto del documento non è modificabile in virtù di espresse previsioni normative o fiscali, il documento deve essere accompagnato dalla scheda di trasporto, che potrà contenere le sole informazioni mancanti”. La scheda di trasporto, ad esempio, deve contenere informazioni relative sia al vettore (l’impresa di autotrasporto iscritta all’albo nazionale delle persone fisiche e giuridiche che esercitano l’autotrasporto di cose per conto di terzi), sia al committente (l’impresa o la persona giuridica pubblica che stipula o nel nome della quale è stipulato il contratto di trasporto con il vettore) che al caricatore (l’impresa o la persona giuridica pubblica che consegna la merce al vettore), oltre che al proprietario della merce, soggetti che non corrispondono totalmente ai soggetti indicati nel formulario; o ancora la scheda di trasporto richiede l’indicazione della partita IVA, mancante nel formulario. ciò sempre che ricorrano le condizioni, esposte in precedenza, per poter ricondurre il trasporto di rifiuti in conto terzi nell’ambito del trasporto di merci. Quindi, e sempre che ricorrano tutte le condizioni (esposte in precedenza) per poter ricondurre il trasporto di rifiuti in conto terzi nell’ambito del trasporto di merci, appare più coerente con l’obiettivo (posto dal Decreto) di migliorare il controllo della filiera dell’autotrasporto conto terzi, la scelta di compilare in accompagnamento al formulario anche la scheda di trasporto piuttosto che inserire le informazioni mancanti nel formulario, nello spazio riservato alle “annotazioni”, con il possibile rischio di presentare formulari compilati in maniera errata o incompleta. La compilazione della scheda di trasporto che accompagna il FIR dovrà quindi avvenire per mano di colui che normalmente compila il FIR, ovvero il produttore del rifiuto o chi per esso provvede alla gestione amministrativa e organizzazione del trasporto.
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È possibile praticare il trasbordo totale di rifiuti da un mezzo più piccolo ad uno più grande?
321.
Il trasbordo totale di rifiuti da un mezzo più piccolo ad un mezzo più grande è praticabile, a condizione che si rispettino le disposizioni dettate dal D.L.vo 152/06 e dalla Circolare ministeriale del 1998. Infatti il trasbordo totale di un carico di rifiuti (il viaggio di tutto il carico prosegue con mezzi diversi da quelli che hanno effettuato il prelievo/raccolta ma sempre dello stesso trasportatore oppure con mezzi di trasportatori diversi) è previsto dalla Circolare Ministero dell’Ambiente 4 agosto 1998, n. GAB/DEC/812/98 (par. 1, lett. v) e consentito “per concrete esigenze operative” o “imprevisti tecnici”, laddove nelle “concrete esigenze operative” rientrano le esigenze di ottimizzazione dei carichi e diminuzione dei viaggi, con ricadute positive in termini di impatto ambientale. In tale ipotesi la Circolare prevede che gli estremi identificativi dei diversi trasportatori – nominativo, codice fiscale, n. aut. Albo –, dei diversi mezzi utilizzati – targa mezzo –, il nominativo del conducente, nonché la firma di assunzione di responsabilità, potranno essere riportati nello spazio riservato alle annotazioni delle tre copie del formulario. Gli originali del formulario dovranno restare, a conclusione del trasporto: due al produttore /detentore; uno al trasportatore che consegna i rifiuti al destinatario finale e uno al destinatario finale, ammettendo per gli altri soggetti l’uso di fotocopie del formulario. Altra ipotesi contemplata dalla Circolare è quella del trasbordo parziale, ammesso per motivi eccezionali, con la previsione dell’emissione di un nuovo formulario. La circolare, seppure nella sua qualità di atto amministrativo, aiuta a garantire la tracciabilità dei rifiuti, soprattutto in previsione di eventuali controlli, funzione quest’ultima svolta dal formulario, documento cardine finalizzato alla regolare articolazione delle varie fasi del trasporto. Onde evitare contestazioni e l’applicazione di sanzioni però è opportuno prevedere, da un punto di vista organizzativo e a livello di accordi con i trasportatori autorizzati, le modalità del trasporto, in modo chiaro e tale da garantire la corretta tracciabilità dei carichi di rifiuti. Modalità di trasporto, che nel caso prevedano il trasbordo, alle condizioni previste dalla legge, devono essere sempre supportate dalla corretta compilazione del formulario, il cui ruolo è proprio quello di disciplinare l’intero iter del trasporto, ovvero l’indicazione nello spazio riservato alle “annotazioni”: – degli estremi identificativi dei diversi trasportatori – nominativo, codice fiscale, n. aut. Albo; – dei diversi mezzi utilizzati – targa mezzo; – il nominativo del conducente; – la firma di assunzione di responsabilità. Gli originali del formulario dovranno restare, a conclusione del trasporto: due al produttore/detentore; uno al trasportatore che consegna i rifiuti al destinatario finale e uno al destinatario finale, ammettendo per gli altri soggetti l’uso di fotocopie del formulario.
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La sanzione amministrativa di cui all’art. 258 c. 4 del D.L.vo 152/06 è applicabile anche al destinatario del rifiuto che accetta in impianto il carico accompagnato da un FIR incompleto o inesatto?
322.
Occorre innanzitutto premettere che, per effetto dell’art. 4 del D.L.vo 121/11, sino alla data di piena operabilità del SISTRI è applicabile la versione dell’art. 258 TUA vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10 al D.L.vo 152/06 (v. anche quesito n. 297). Sotto il profilo della corretta gestione dei rifiuti, e conseguenti adempimenti documentali – ai sensi e per gli effetti dell’art. 188 D.L.vo 152/06, l’emissione del FIR, intesa come atto con il quale ci si assume la responsabilità in merito a quanto dichiarato nel documento di trasporto, è una prerogativa esclusiva a carico del produttore o del detentore del rifiuto. Nella ratio del legislatore affinché si realizzi un corretto trasporto di rifiuti sussiste certamente anche il coinvolgimento dell’impianto di destino, tant’è che deve essere adeguatamente scelto ed indicato a FIR dal produttore; il titolare dell’impianto però non ha alcuna responsabilità diretta nella compilazione del documento di trasporto, tutt’al più risulta suo onere verificarne la completezza. Non si deve infatti dimenticare che questi tre soggetti, ovvero il produttore, il trasportatore ed il recuperatore-smaltitore che danno vita alla gestione rifiuti sono legati da una responsabilità condivisa, meglio nota come co-responsabilità, discplinata dall’art. 178, c. 3 del D.L.vo 152/06. Tale norma prescrive chiaramente che “la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione …”. Si crea in tal modo una sorta di “responsabilità a catena” tra tutti questi soggetti per i quali gli oneri della corretta gestione non si esauriscono nel mero (sia pure necessario) rispetto degli adempimenti di cui all’art. 188 D.L.vo 152/06 (“oneri dei produttori e dei detentori”). Il produttore-detentore di rifiuti speciali, infatti, ha l’obbligo di controllare che il destinatario della sua spedizione sia soggetto autorizzato alle attività di recupero o di smaltimento; ove, per contro, tale doverosa verifica sia omessa, il produttore-detentore, il trasportatore ed il centro di destino rispondono a titolo di concorso per la commissione dei reati di attività non autorizzata alla gestione rifiuti, oppure di trasporto illegittimo perché privo di FIR, oppure ancora, ipotesi minore come quella di specie, di trasporto con FIR incompleto. Nel caso specifico dell’applicazione della sanzione amministrativa di cui all’art. 258 c. 4 quindi la posizione di responsabilità dell’impianto di destino va valutata correttamente. L’art. 258 punisce – letteralmente – “Chiunque effettua il trasporto di rifiuti … e indica nel formulario … dati incompleti o inesatti …” ma da questi è comunque possibile risalire a tutte le informazioni necessarie per identificare i rifiuti. È di tutta evidenza che l’impianto di destino dei rifiuti riceve un FIR già compilato, per questo il suo titolare non può essere in alcun modo sanzionato in qualità di trasgressore della citata norma, tutt’al più potrebbe essere individuato quale obbligato in solido ai sensi e per gli effetti dell’art. 6 della legge n. 689/81. Il responsabile solidale, infatti, non è il soggetto attivo dell’illecito amministrativo ma è semplicemente colui che è tenuto (così come in primis il trasgressore) al paga-
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mento della somma di denaro che integra la sanzione. Si tratta di due concetti distinti: una cosa è infatti l’autore della violazione cioè la persona fisica cui è imputabile l’azione o l’omissione cosciente o volontaria (nel caso di specie l’omessa compilazione di una parte del FIR, imputabile solamente al produttore dei rifiuti o al trasportatore), altra cosa è il soggetto che, senza aver compito il fatto illecito, è eventualmente solidalmente obbligato al versamento di un importo con diritto di regresso nei confronti degli altri. A parere di scrive quest’ultima è la posizione dell’impianto di destino, a meno di prove di co-responsabilità penale in un traffico illecito di rifiuti (art. 260, D.L.vo 152/06).
La fattura di acquisto dei formulari va registrata sul registro IVA acquisti?
323.
La Circolare 4 agosto 1998, n. GAB/DEC/812/98, esplicativa sulla compilazione dei registri di carico e scarico dei rifiuti e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati, al punto 1 “Modalità di tenuta e di compilazione del formulario”, lett. b) prevede che: “la fattura di acquisto dei formulari, dalla quale devono risultare gli estremi identificativi della tipografia autorizzata e gli estremi seriali e numerici dei formulari stessi, deve essere annotata sul registro IVA-acquisti prima dell’utilizzo dei formulari medesimi”. In difetto dell’osservanza di tale prescrizione, è possibile che possano sorgere contestazioni. Tuttavia, si osserva che la sanzione amministrativa e penale di cui all’art. 258, co. 4 del D.L.vo 152/06 discende dalla mancata tenuta del formulario o dal fatto che in esso siano presenti dati incompleti o inesatti. La sanzione, sia penale che amministrativa, è connotata dal requisito della tipicità, per cui essa non può essere estesa a figure di illecito diverse da quelle espressamente contemplate dal legislatore.
Alla voce quantità del FIR viene inserita una stima di peso del rifiuto. Nel caso ci si dimentichi di barrare la casella “Peso da verificarsi a destino” si corre qualche rischio?
324.
La Circolare 4 agosto 1998, n. GAB/DEC/812/98, al punto 1), lett. t), recita: “alla voce «quantità», casella 6, terza sezione, dell’allegato B, al decreto ministeriale n. 145/1998, deve essere sempre indicata la quantità di rifiuti trasportati. Inoltre, dovrà essere contrassegnata la casella «(–)» relativa alla voce “Peso da verificarsi a destino” nel caso in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di un sistema di pesatura si possano, rispettivamente, verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non precisa corrispondenza tra la quantità di rifiuti in partenza e quella a destinazione”. La presenza, quindi, di una di queste due condizioni, giustifica la possibilità di procedere alla verifica del peso effettivo presso il luogo di destinazione dei rifiuti. In realtà è consigliabile avvalersi sempre di questa possibilità, soprattutto quando si tratti di una stima di peso, in considerazione del fatto che, salvo casi molto particolari, di norma fa fede la quantificazione del rifiuti operata dal gestore dell’impianto di destinazione, il quale, in caso si riscontri una differenza di peso, soprattutto se in
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aumento, potrebbe respingere il carico, proprio perché alla pesatura non vi è possibilità di verificare che i rifiuti in esubero siano effettivamente tutti quelli indicati nel formulario. 325. In casi di gestione dei RAEE a casa del cliente capita, a volte, di annullare alcuni FIR (perché il ritiro non viene effettuato). Questi FIR annullati devono essere comunque annotati sul registro c/s?
Partendo dal presupposto che il formulario non può essere mai annullato, a meno che ciò non avvenga prima che il mezzo lasci il luogo di origine del rifiuto (presso il produttore/detentore) e lo stesso mezzo non si sia ancora immesso su strada, in quanto il formulario è il principale documento che garantisce la tracciabilità del rifiuto, si può affermare che, nel caso in cui il rifiuto non sia stato ancora immesso su strada, perché addirittura non ritirato, come avviene nel caso di specie, il formulario, già compilato, possa essere annullato e che debba essere comunque conservato per il consueto periodo previsto dall’art. 193 del Codice ambientale. La registrazione di ogni singola operazione, compresa il “mancato ritiro” consente, inoltre, di dare a tutta la gestione, anche documentale, dei rifiuti la massima trasparenza e tracciabilità.
Capita a volte che ci sia accorga, dopo che il FIR è già stato consegnato al trasportatore, di errori nella compilazione dello stesso. In questo caso come ci si deve comportare per la correzione degli errori?
326.
È opportuno tener conto che poiché attraverso lo strumento del formulario, si consente l’esatta tracciabilità del rifiuto, è necessario riportare nello stesso formulario tutti i dati e le informazioni che permettano di ricostruire in modo puntuale tutta la fase di gestione del rifiuto. In base all’art 193 del D.L.vo 152/06, il formulario deve contenere almeno i dati relativi a nome e indirizzo del produttore e del detentore (anche se coincidono); origine, tipologia e quantità del rifiuto; impianto di destinazione; data e percorso dell’istradamento; nome ed indirizzo del destinatario. Nel caso di “errori”, occorre distinguere a seconda della tipologia e della rilevanza dello stesso all’interno del Fir, potendosi configurare tre diverse ipotesi. La prima si configura laddove si sia in presenza di un formulario che riporti dati incompleti o inesatti, comportante una violazione espressamente prevista e sanzionata dal comma 4 dell’art. 258 del D.L.vo 152/06 e integrando finanche gli estremi di un illecito penale laddove si tratti di trasporto di rifiuti pericolosi. In tal caso si ritiene che non sia possibile alcuno scambio di lettere, rettifiche ecc. ma solo attivarsi presso l’autorità competente anche al fine di provare la propria buona fede, per non incorrere nelle sanzioni di cui sopra. Occorre, inoltre, ricordare che nel caso di formulario incompleto o inesatto, il destinatario finale dei rifiuti ben potrebbe non accettare il relativo carico, per non incorrere in responsabilità. Nella seconda ipotesi, invece, ove le indicazioni di cui sopra siano formalmente incomplete o inesatte, ma contengano tutti gli elementi per ricostruire le informazioni
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dovute per legge, troverà applicazione la più lieve sanzione amministrativa prevista dal comma 5 dello stesso art. 258. Infine, e come terza ipotesi, potrebbero verificarsi semplici inesattezze, non riconducibili nei primi due casi, le quali potrebbero essere corrette utilizzando lo spazio del Fir dedicato alle “annotazioni”. Tale ultima ipotesi, dunque, appare l’unica in cui la correzione del formulario è scevra da qualsiasi implicazione di tipo sanzionatorio.
Nel caso in cui ci si accorga di aver dimenticato la registrazione di alcuni FIR è possibile effettuare una registrazione tardiva nel registro c/s?
327.
La circolare 4 agosto 1998, più volte citata, relativamente alla registrazione delle operazioni di carico e scarico dei rifiuti prevede che essa “deve essere effettuata secondo precise scadenze temporali. E poiché solo a seguito della predetta annotazione sarà possibile individuare il “numero del registro” (cioè il numero progressivo dell’annotazione dell’operazione di carico e scarico sul registro) è evidente che il “numero di registro” potrà e dovrà essere riportato sul formulario da parte del produttore/detentore, del trasportatore e del destinatario…nel rispetto dei termini entro i quali i citati soggetti devono effettuare l’annotazione delle operazioni di carico/scarico ai sensi dell’art. 12 comma 1, lettere da a) a d).” (il riferimento è ora, ovviamente, da farsi all’art. 190, co. 1, lett. da a) a d) del D.L.vo 152/06). In base all’art. 190, i suddetti termini sono fissati in “almeno entro 10 giorni lavorativi dalla produzione del rifiuto e dallo scarico del medesimo”.
Nel caso di operazioni annullate si può procedere con la numerazione senza riprendere il numero dell’operazione annullata?
328.
Poiché, sul punto la normativa sui registri di c/s nulla prevede, si può fare riferimento, in quanto gli stessi registri devono essere gestiti, ai sensi dell’art. 190, co. 6 del Codice ambientale, con le procedure e modalità fissate dalla normativa sui registri IVA, al Decreto del Ministero Economia e Finanze del 23 gennaio 2004, che disciplina la conservazione sostitutiva delle scritture contabili con modalità informatiche. Nello specifico, l’art. 3 prevede che i documenti informatici rilevanti ai fini tributari “hanno la forma di documenti statici non modificabili”, impedendo, quindi correzioni postume. Ciò porta a ritenere che laddove venga registrata un’operazione di “mancato ritiro”, che si sostanzia, nell’annullamento di un’operazione di carico/scarico, questa deve risultare visibile e pertanto deve conservare il suo numero di registrazione. L’operazione successiva, quindi, dovrà essere registrata in progressione e successione rispetto all’operazione precedente, non dovendo la stessa riprendere il numero dell’operazione annullata.
I produttori del rifiuto devono sempre indicare nel FIR il proprio indirizzo nel campo in questione?
329.
Sul punto, sia il D.M. 1° aprile 1998, n. 148 (nell’Allegato C, relativo alla descrizione tecnica) che la Circolare del 1998 prevedono l’indicazione nel registro alla voce “DIT-
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TA” dei dati anagrafici relativi all’impresa (ditta, residenza, codice fiscale e ubicazione dell’esercizio), dove l’ubicazione dell’esercizio – intendendosi per tale la sede dell’impianto di produzione, di stoccaggio,…o la sede operativa delle imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto...– può essere indicata, a differenza degli altri dati suindicati, anche dopo la vidimazione, ma deve, comunque, precedere l’annotazione della prima operazione.
È corretto registrare il peso stimato del rifiuto facendo corrispondere in quantitativi del registro c/s con quelli del FIR indicati alla voce quantità?
330.
Sull’indicazione del peso, la normativa di riferimento sui registri di c/s prescrive che sia indicata la quantità dei rifiuti, non prevedendo allo stesso tempo di potersi avvalere dell’opzione “peso da verificarsi a destino” come avviene per il formulario. L’integrazione tra i due documenti, tuttavia, consente di poter ritenere tale indicazione come riferentesi ad un peso presunto e come tale perfezionabile nel momento in cui il peso possa essere effettivamente verificato nell’impianto finale. 331. È possibile registrare nel registro c/s un solo carico e un solo scarico raggruppando più FIR relativi allo stesso codice CER?
Il D.M. 1 aprile 1998, n. 145 (Regolamento recante la definizione del modello e dei contenuti del formulario di accompagnamento dei rifiuti) dispone che “i formulari di identificazione costituiscono parte integrante dei registri di carico e scarico dei rifiuti prodotti o gestiti. A tal fine gli estremi identificativi del formulario dovranno essere riportati sul registro di carico e scarico in corrispondenza dell’annotazione relativa ai rifiuti oggetto del trasporto, ed il numero progressivo del registro di carico e scarico relativo alla predetta annotazione deve essere riportato sul formulario che accompagna il trasporto dei rifiuti stessi”, da ciò si desume che un rapporto di integrazione così stretto tra registro e formulario non può che essere di “uno a uno”: un Fir – un carico sul registro. A supporto di ciò, la stessa Circolare GAB/DEC/812/98, al punto 2, lett. h), prevede che “l’annotazione in carico e scarico effettuata sul registro deve essere riferita ad ogni singolo formulario”, a prescindere dalla quantità di rifiuti a cui fa riferimento il singolo Fir, ed inoltre, al punto 1, lett. o) che “deve essere emesso un formulario per ciascun rifiuto quale risulta individuato dal codice (CER) e dalla descrizione. Le conclusioni di carattere operativo, a partire dal dato normativo succitato, non possono essere diverse da quelle già indicate nei predetti pareri, ovvero si consiglia di effettuare singole registrazioni di carico e scarico, ognuna corrispondente ad un solo formulario.
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In caso di trasporto rifiuti per conto terzi, qualora sia necessario compilare la scheda di trasporto, in che modo tale obbligo si rapporta a quello FIR?
332.
Il Decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 30 giugno 2009, in attuazione dell’art. 7-bis del D.L.vo 286/05, contiene la regolamentazione della scheda che deve accompagnare il trasporto di merce conto/terzi. L’art. 1, c. 2 del D.M., nel prevedere che la scheda di trasporto possa essere sostituita: – dalla copia del contratto in forma scritta di cui all’art. 6 del D.L.vo 286/05, ovvero; – da altra documentazione equivalente, avente il medesimo contenuto del modello della scheda di trasporto allegata al decreto, rimanda al successivo art. 3 l’identificazione dei documenti equipollenti, i quali sono così individuati: – lettera di vettura internazionale CMR – documenti doganali – il documento di cabotaggio di cui al D.M. 3 aprile 2009 – i documenti di trasporto di cui al D.P.R. 472/1996 – altro documento che deve sempre accompagnare il trasporto stradale delle merci, ai sensi della normativa comunitaria, degli accordi o delle convenzioni internazionali o di altra norma nazionale vigente o successiva al presente decreto. La lettura degli articoli del D.M. 30 giugno 2009 (pubblicato in GU n. 153 del 4 luglio 2009, ed in vigore dal 19 luglio 2009), unitamente alle disposizioni della Circolare congiunta del Ministero dell’Interno e del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 17 luglio 2009 – Prot. 300/A/8980/09/108/44 – (contenente le disposizioni operative per la corretta compilazione della scheda di trasporto e per il suo controllo) induce ad una preliminare considerazione circa l’ambito di applicazione della normativa in esame, ed in particolare se il trasporto di rifiuti per conto terzi possa essere considerato un trasporto di merci su strada. Solo in seconda battuta, quindi, e conseguentemente alla delimitazione del campo di applicazione della normativa, si andrà ad esaminare se il formulario di identificazione del rifiuto possa essere considerato equipollente alla scheda di trasporto, rientrando in quella categoria generica di cui all’art. 3, tra gli altri documenti “che devono sempre accompagnare il trasporto stradale delle merci”, dizione che, per l’appunto, fa riferimento alle merci. Sul primo punto, occorre far riferimento al D.L.vo 21 novembre 2005, n. 286, “Disposizioni per il riassetto normativo in materia di liberalizzazione regolata dell’esercizio dell’attività di autotrasportatore”, normativa che, in seguito alle modifiche apportate dal D.L.vo 214/08, prevede, all’articolo 7-bis, l’istituzione della “scheda di trasporto”, poi regolamentata con il D.M. 30 giugno 2009. A parere di chi scrive, il D.L.vo succitato, come si evince già dall’art. 1, si applica in generale alle merci e non ai rifiuti, a meno che gli stessi – nella fattispecie – non siano equiparati alle merci (es.: commercializzazione) e – in particolare – non si tratti di vettori che, ai sensi dell’art. 11 del D.L.vo 286/05, abbiano adottato “sistemi di certificazione di qualità” per il trasporto di specifiche categorie di trasporto, tra cui, oltre alle merci pericolose, vi sono anche i “rifiuti industriali”. Ciò premesso, qualora vi siano le condizioni per l’applicazione della normativa – relativa all’esercizio dell’attività di autotrasportatore – al trasporto di rifiuti per conto
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terzi, e quindi anche dell’obbligo della scheda di trasporto, occorre analizzare in che modo tale obbligo si rapporta a quello del formulario di identificazione dei rifiuti di cui all’art. 193 del D.L.vo 152/06, partendo dalla considerazione che ben possono esistere altri documenti in aggiunta al formulario, sulla base di regole diverse e che tali diversi atti, comunque, non interagiscono con la dinamica e la finalità del formulario né con la natura dei rifiuti trasportati e sulla loro qualità ed identificazione. A tale considerazione preliminare, che sottolinea l’autonomia e il ruolo del formulario come documento cardine finalizzato alla regolare articolazione delle varie fasi del trasporto pur se accompagnato da altri documenti specifici, si aggiunge quella che discende dalla lettura del combinato disposto dell’art. 3 del DM. 30 giugno 2009 e art. 2, punto 3 della Circolare interministeriale del 17 luglio 2009. Per cui se la scheda di trasporto può essere sostituita da uno dei documenti considerati ad essa equipollenti dall’art. 3 del Decreto, è pur vero che l’art. 4, Circolare interministeriale prevede che, nel caso in cui il documento equipollente non contenga alcune delle informazioni richieste dalla scheda, dovrà essere integrato prima dell’inizio del viaggio di trasporto e ove ciò non sia possibile, “perché il contenuto del documento non è modificabile in virtù di espresse previsioni normative o fiscali, il documento deve essere accompagnato dalla scheda di trasporto, che potrà contenere le sole informazioni mancanti”. La scheda di trasporto, ad esempio, deve contenere informazioni relative sia al vettore (l’impresa di autotrasporto iscritta all’albo nazionale delle persone fisiche e giuridiche che esercitano l’autotrasporto di cose per conto di terzi), sia al committente (l’impresa o la persona giuridica pubblica che stipula o nel nome della quale è stipulato il contratto di trasporto con il vettore) che al caricatore (l’impresa o la persona giuridica pubblica che consegna la merce al vettore), oltre che al proprietario della merce, soggetti che non corrispondono totalmente ai soggetti indicati nel formulario; o ancora la scheda di trasporto richiede l’indicazione della partita IVA, mancante nel formulario. Quindi, e sempre che ricorrano tutte le condizioni, esposte in precedenza, per poter ricondurre il trasporto di rifiuti in conto terzi nell’ambito del trasporto di merci, appare più coerente con l’obiettivo (posto dal Decreto) di migliorare il controllo della filiera dell’autotrasporto conto terzi, la scelta di compilare in accompagnamento al formulario anche la scheda di trasporto, piuttosto che inserire le informazioni mancanti nel formulario, nello spazio riservato alle “annotazioni”, con il possibile rischio di presentare formulari compilati in maniera errata o incompleta. Nel caso, poi, del trasporto di rifiuti urbani da parte dell’ente gestore, per il quale la normativa di riferimento non prevede l’obbligo del FIR, tale esenzione non comporterebbe di per sé la necessità che lo stesso trasporto sia accompagnato dalla scheda di trasporto, in quanto la scelta operata dal legislatore in tal senso è motivata da ragioni di semplificazioni che comunque postulano un sistema autorizzativo e di controllo. L’obbligo di compilazione della scheda di cui al D.M. 30 giugno 2009 si configurerebbe, in tale ipotesi, solo qualora ricorrano quelle condizioni, sopra esaminate, per cui i rifiuti trasportati possano essere equiparati alle merci.
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Esiste un regolamento standard per regolare le modalità di conferimento dei rifiuti da parte dei mezzi con cui le utenze domestiche conferiscono i propri rifiuti presso le piazzole ecologiche? 333.
Per quanto riguarda i mezzi con cui le utenze domestiche conferiscono i propri rifiuti presso le piazzole ecologiche, le disposizioni in materia di rifiuti nulla prescrivono al riguardo (non si ravvisano profili di illiceità nell’utilizzare l’automobile di proprietà, piuttosto che in leasing o ricorrere ad un mezzo più grosso in prestito per fare meno viaggi). Il D.M. 8 aprile 2008 e s.m.e.i., all’allegato I, punto 1 relativamente all’ubicazione del centro di raccolta precisa che il sito deve avere una viabilità adeguata per consentire l’accesso non solo ai mezzi pesanti per il conferimento agli impianti finali, ma anche “alle autovetture o piccoli mezzi degli utenti”. Resta inteso che per “utenti” devono intendersi sia l’utenza domestica, sia quella non domestica (art. 1 del D.M. 8 aprile 2008) e bisogna tener presente che tra le tipologie di rifiuti conferibili si rinvengono, al punto 4.32 del sopraccitato allegato, i “rifiuti assimilati ai rifiuti urbani sulla base dei regolamenti comunali”, fermo restando il disposto di cui all’art. 195, c. 2, lett. e), D.L.vo 152/06: bisogna, dunque, verificare se i rifiuti oggetto dei conferimenti da parte delle utenze non domestiche possano configurarsi o meno come assimilati agli urbani sulla base dei differenti regolamenti comunali. Al riguardo, si rammenta che il D.M. 13 maggio 2009 ha aggiunto ulteriori categorie di rifiuti conferibili presso i centri di raccolta, tra cui, per i fini di cui al quesito: – cer 17.01.07 – miscuglio o scorie di cemento, mattoni, mattonelle, ceramiche diverse da quelle di cui alla voce 17.01.06*; – cer 17.09.04 – rifiuti misti dell’attività di costruzione e demolizione, diversi da quelli di cui alla voci 17.09.01*, 17.09.02* e 17.09.03* ma in entrambi i casi deve trattarsi di rifiuti provenienti “solo da piccoli interventi di rimozione eseguiti direttamente dal conduttore della civile abitazione”. A parere di chi scrive, non pare sussista un regolamento standard per le modalità di conferimento presso la piazzola ecologica, ma da un’indagine informale è emerso che, in linea di massima, viene inserita l’opportuna precisazione sui soggetti autorizzati a conferire (utenze domestiche e non – rifiuti urbani e assimilati) e quelli non autorizzati (utenze non domestiche – rifiuti speciali). Inoltre, in alcune ipotesi si è riscontrato l’inciso secondo il quale il conferimento deve essere fatto “direttamente dagli utenti, in maniera autonoma e con proprio mezzo”. Resta inteso che questi rilievi hanno meramente valore indicativo, essendo il regolamento della piazzola ecologica di carattere operativo e rimesso al gestore della stessa. Ciò nonostante, se il regolamento viene steso in maniera dettagliata, stabilendo il divieto di conferimento di rifiuti speciali da parte delle utenze non domestiche e di tutti quei rifiuti non elencati nell’all. I al D.M. 8 aprile 2008, e viene approvato dal Consiglio Comunale, il gestore potrà poi esigerne l’integrale rispetto ed impedire eventuali conferimenti non conformi. Se in passato le regole sono state spesso eluse da imprese medio-piccole che si recavano presso le piazzole ecologiche, anziché contattare imprese del settore per risparmiare sui costi di trasporto e di recupero/smaltimento, è compito della collettività e del gestore dell’ecopiazzola operare affinché ciò non si ripeta (così da non incorrere nella sanzione di cui all’art. 256, c. 1 – attività di gestione non autorizzata di rifiuti) e non si facciano gravare sulla collettività in maniera indistinta oneri economici che dovrebbero, invece, ricadere, sulle singole imprese produttrici di rifiuti.
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È possibile, tramite delega diretta rilasciata dal produttore iniziale al trasportatore, far spedire dallo stesso la quarta copia del FIR ad un soggetto diverso dal produttore? 334.
L’art. 190, c. 4, del D.L.vo 152/06 dispone che “i soggetti la cui produzione annua di rifiuti non eccede le dieci tonnellate di rifiuti non pericolosi e le due tonnellate di rifiuti pericolosi possono adempiere all’obbligo della tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti anche tramite le organizzazioni di categoria interessate o loro società di servizi che provvedono ad annotare i dati previsti con cadenza mensile, mantenendo presso la sede dell’impresa copia dei dati trasmessi”. Con riguardo ai formulari (FIR) si sollevano alcune perplessità. Come possono i singoli produttori sapere con certezza che la loro IV copia è giunta a destinazione nei tempi e, in caso contrario, attivarsi tempestivamente per la dovuta segnalazione agli organi di controllo? Come può, ad esempio, una società di servizi essere certa di aver ricevuto tutte le IV copie e che il loro contenuto corrisponda a quello della I? In altre parole, è necessario disporre di un confronto immediato tra I e IV copia, così da verificare che il Fir non rechi correzioni, alterazioni, che il carico sia stato accettato per intero (oppure no e per quali motivi), che non ci siano annotazioni (oppure sì, ma quali e per quali motivi), etc … Da ultimo, quindi, si ritiene che la soluzione più corretta e più lineare sia quella di conservare dei registri e dei Fir in originale presso l’organizzazione di categoria, previa copia dei dati trasmessi presso il produttore: ciò garantisce tutte le parti e dà riscontro di una corretta (e rintracciabile) gestione dei rifiuti. 335. Nel caso di notevoli differenze tra peso presunto indicato nel FIR e peso a destino, come ci si comporta?
L’accertamento di notevoli differenze di peso tra quello presunto e quello a destino crea non pochi problemi interpretativi in ordine al controllo del carico e all’applicabilità delle prescritte sanzioni. Del resto, non risulta che la giurisprudenza (di merito, di legittimità ed amministrativa) si sia mai occupata di questa specifica questione; ed anche in dottrina esistono pochi riferimenti al riguardo. Se l’art. 193, c. 1, D.L.vo 152/06 prescrive solo che dal formulario risulti la “quantità del rifiuto”, il DM 1 aprile 1998, n. 145 consente alle aziende di trascrivere il peso “a destino”: infatti, nell’allegato B del predetto decreto, al punto 6) è prevista l’indicazione in “Kg o litri “e il “peso da verificarsi a destino”. Apparentemente queste indicazioni potrebbero sembrare alternative. Sennonché la Circolare 4 agosto 1998, n. GAB/ DEC/812/98, esplicativa sulla compilazione dei registri di carico/scarico dei rifiuti e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati, al punto 1), lett. t), così si esprime: “t) alla voce «quantità», casella 6, terza sezione, dell’allegato B, al decreto ministeriale n. 145/1998, deve sempre essere indicata la quantità di rifiuti trasportati. Inoltre, dovrà essere contrassegnata la casella «(–)» relativa alla voce «Peso da verificarsi a destino» nel caso in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di un sistema di pesatura si possano, rispettivamente, verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non precisa corrispondenza tra la quantità di rifiuti in partenza e quella a destinazione”.
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Da questa formulazione si comprende indubbiamente come queste indicazioni non siano alternative, ma che occorra sempre indicare il peso in Kg o litri ed eventualmente prescegliere anche l’opzione di verifica a destinazione, qualora ricorrano le condizioni prescritte dalla norma. Il fatto di avvalersi della possibilità di verificare il peso dei rifiuti trasportati presso il sito finale di destinazione non esime affatto dall’indicare comunque un peso indicativo all’atto della partenza dei rifiuti medesimi; peraltro verosimilmente il peso di partenza e quello di arrivo saranno differenti, o quantomeno le probabilità che lo siano sono estremamente elevate. Questo discorso ha un senso chiaramente qualora ricorrano le cause richiamate dalla norma e quindi in concreto: – non devono essere presenti sistemi di pesatura, rendendo quindi impossibile provvedervi; – la natura dei rifiuti deve essere tale da consentire possibili variazioni nel peso stesso (circostanza che può verificarsi, per esempio, proprio con riferimento ai rifiuti liquidi). Quindi, la presenza di una di queste due condizioni giustifica la possibilità di procedere alla verifica del peso effettivo presso il luogo di destinazione dei rifiuti ed in quel momento potrà certamente riscontrarsi una difformità tra il peso dichiarato e quello successivamente accertato. Diversamente, verrebbe meno l’obiettivo stesso della normativa sopra richiamata in materia. Viceversa, “nel caso in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di un sistema di pesatura si possano, rispettivamente, verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non precisa corrispondenza tra la quantità di rifiuti in partenza e quella a destinazione” si dovrà aver cura di barrare la casella relativa alla voce “peso da verificarsi a destino”. Tale peculiare modalità di compilazione del Fir rende chiaro in anticipo agli organi di controllo la possibilità di riscontrare un peso differente tra la prima e la quarta copia del formulario. Tendenzialmente è consigliabile avvalersi sempre di questa possibilità, in considerazione del fatto che, salvo casi molto particolari, di norma fa fede la quantificazione del rifiuto operata dal gestore dell’impianto di destinazione. Volendo porre rimedio ad una riscontrata differenza di peso in partenza e in arrivo, per non respingere il carico (unica operazione che peraltro la giurisprudenza riterrebbe corretta), a parere di chi scrive è possibile (ed è soluzione comprensibile anche agli organi deputati all’eventuale controllo) – dopo la pesatura in ingresso, che è sempre da effettuarsi – compilare il Fir secondo le due opzioni: – se il carico risulta inferiore rispetto a quanto indicato nel formulario, si può barrare la casella del “carico accettato per intero” specificando – nello spazio sottostante – che alla pesatura è risultato un quantitativo inferiore “per cause naturali di perdita di peso” (ciò, però, dipende dalla tipologia di rifiuti trasportati e, come si è detto, nel caso di specie una simile ipotesi è abbastanza remota); – se vi sono differenze di peso in aumento è consigliabile respingere il carico, poiché alla pesatura non vi è possibilità di verificare che i rifiuti in esubero sono effettivamente tutti quelli indicati nel formulario. Ogni difformità tra il peso indicato nel formulario e quanto verificato in ingresso all’impianto deve essere segnalata nello spazio delle annotazioni. Si segnala, però, che dottrina c’è chi sostiene che “solo nei casi in cui vi sia la concreta possibilità a misurare con una certa precisione il peso del carico che è possibile barrare anche la seconda opzione che, sostanzialmente, funge da liberatoria in caso di
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divergenze, anche notevoli, tra il peso dichiarato e quello reale, anche e specialmente per evitare possibili episodi di frode”. Per mettersi al riparo da qualsivoglia contestazione, si concorda con chi ritiene che, a parte il particolare caso del peso da verificarsi a destino, qualora la quarta copia del Fir riporti l’indicazione di una quantità di rifiuti diversa rispetto a quella risultante dalla prima copia, il produttore debba segnalare tale discrepanza alle autorità di controllo. Tra le possibile cause di una divergenza di peso, si ipotizza l’eventualità di una non corretta conversione di unità di misura, segnatamente da litri a Kg. Considerato che è obbligatorio il peso del carico di rifiuti in ingresso all’impianto di destino, sarebbe buona norma indicare il peso in partenza già in unità di misura di kg o tonnellate, per poi avere corretto riscontro anche sulla quarta copia del Fir di ritorno al produttore, che potrà così dichiarare la medesima unità di misura nel Mud. Se, invece, il peso in partenza è indicato in litri o m3, all’impianto di destino non resta che accettare il carico convertendo l’unità di misura, così da avere tutto in misura di peso (kg o tonnellate) e riportare ad uniformità tutti e tre i documenti: il Fir, 4 copia, il proprio registro ed il proprio Mud. In molti casi sono le Province che rilasciano le autorizzazioni agli impianti a stabilire che al ricevimento dei rifiuti va pesato il carico indicando la massa. In conclusione, bisogna prendere atto che nell’ambito della normativa vigente non esiste una norma che indichi i parametri sui quali sanzionare la condotta di indicazione nel Fir di un peso presunto notevolmente divergente da quello poi riscontrato a destinazione, né i criteri secondo i quali oltre un certo peso la differenza di peso diventa un’anomalia, né, tanto meno, l’obbligo di effettuare una segnalazione agli organi di controllo. Trattasi di una situazione di incertezza normativa in cui gli organi di controllo dovranno procedere caso per caso e con estrema cautela: del resto, una differenza significativa induce inevitabilmente al sospetto e a conseguente verifica delle circostanze di fatto, soprattutto per quanto riguarda la delicata fase di trasporto (come essere certi che il trasportatore, pur autorizzato, non abbia caricato o scaricato rifiuti lungo il tragitto?); anche se ciò non toglie, comunque, che la differenza possa ben essere dovuta ad altre circostanze di fatto tutt’altro che illegali.
In casi di trasporto rifiuti in conto terzi, ricorre l’obbligo della redazione della scheda di trasporto, ai sensi dell’art. 7 bis del D.L.vo 286/05, anche in presenza di formulario di identificazione del rifiuto?
336.
La lettura degli articoli del D.M. 30 giugno 2009 (pubblicato in GU n. 153 del 4 luglio 2009, ed in vigore dal 19 luglio 2009), unitamente alle disposizioni della Circolare congiunta del Ministero dell’Interno e del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 17 luglio 2009 – Prot. 300/A/8980/09/108/44 – (contenente le disposizioni operative per la corretta compilazione della scheda di trasporto e per il suo controllo) induce ad una preliminare considerazione circa l’ambito di applicazione della normativa in esame. In primo luogo occorre far riferimento al D.L.vo 21 novembre 2005, n. 286, “Disposizioni per il riassetto normativo in materia di liberalizzazione regolata dell’esercizio
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dell’attività di autotrasportatore”, normativa che, in seguito alle modifiche apportate dal D.L.vo 214/08, prevede, all’articolo 7-bis, l’istituzione della “scheda di trasporto”, poi regolamentata con il D.M. 30 giugno 2009. Il D.L.vo succitato, come si evince già dall’art. 1, si applica in generale alle merci e non ai rifiuti, a meno che gli stessi – nella fattispecie – non siano equiparati alle merci (es.: commercializzazione) e – in particolare – non si tratti di vettori che, ai sensi dell’art. 11 del D.L.vo 286/05, abbiano adottato “sistemi di certificazione di qualità” per il trasporto di specifiche categorie di trasporto, tra cui, oltre alle merci pericolose, vi sono anche i “rifiuti industriali”. Ciò premesso, qualora vi siano le condizioni per l’applicazione della normativa – relativa all’esercizio dell’attività di autotrasportatore – al trasporto di rifiuti per conto terzi, e quindi anche dell’obbligo della scheda di trasporto, occorre analizzare in che modo tale obbligo si rapporta a quello del formulario di identificazione dei rifiuti di cui all’art. 193 del D.L.vo 152/06, partendo dalla considerazione che ben possono esistere altri documenti in aggiunta al formulario, sulla base di regole diverse e che tali diversi atti, comunque, non interagiscono con la dinamica e la finalità del formulario né con la natura dei rifiuti trasportati e sulla loro qualità ed identificazione. A tale considerazione preliminare, che sottolinea l’autonomia e il ruolo del formulario come documento cardine finalizzato alla regolare articolazione delle varie fasi del trasporto pur se accompagnato da altri documenti specifici, si aggiunge quella che discende dalla lettura del combinato disposto dell’art. 3 del DM. 30 giugno 2009 e art. 2, punto 3 della Circolare interministeriale del 17 luglio 2009. Infatti l’art. 2 del D.M. 30 giugno 2009, nel prevedere che la scheda di trasporto possa essere sostituita: – dalla copia del contratto in forma scritta di cui all’art. 6 del D.L.vo 286/05, ovvero; – da altra documentazione equivalente, avente il medesimo contenuto del modello della scheda di trasporto allegata al decreto e poi rimanda al successivo art. 3 l’identificazione dei documenti equipollenti, i quali sono così individuati: - lettera di vettura internazionale CMR - documenti doganali - il documento di cabotaggio di cui al D.M. 3 aprile 2009 - i documenti di trasporto di cui al D.P.R. 472/1996 - altro documento che deve sempre accompagnare il trasporto stradale delle merci, ai sensi della normativa comunitaria, degli accordi o delle convenzioni internazionali o di altra norma nazionale vigente o successiva al presente decreto. Per sciogliere tutti i dubbi in merito è stata da ultimo emanata una Circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, Prot. 104497 del 3 dicembre 2009 la quale a scanso di ogni equivoco ritiene equipollente alla scheda di trasporto, tra i vari documenti, anche il formulario di identificazione rifiuti che, pertanto, non necessita alcuna integrazione di dati.
In caso di assenza di pesa, è possibile indicare sul formulario il volume (stimato) dei rifiuti? 337.
L’art. 193, c. 1, D.L.vo 152/06 prescrive che dal formulario di trasporto rifiuti “devono risultare almeno i seguenti dati: … b) origine, tipologia e quantità del rifiuto”.
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La Circ. GAB/DEC/812/98 del 4 agosto 1998, al p.to 1, lett. p) precisa che “le quantità vanno indicate in Kg oppure in litri. Nel caso in cui i rifiuti siano individuabili in termini di unità numeriche, l’indicazione delle “quantità” può essere espressa indicando anche il numero delle unità trasportate”. Ciò significa che l’unità di misura indicata sul formulario può legittimamente essere solo in kg, litri o numero di colli: il volume non è preso in considerazione dalla normativa sopraccitata, ed infatti non si rinviene il relativo campo nel modello di formulario. Qualora il Legislatore avesse voluto prendere in considerazione anche questa ulteriore opzione (indicazione del volume del rifiuto), l’avrebbe espressamente previsto (“ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” – dove la legge ha voluto ha detto, dove non ha voluto ha taciuto): in difetto di norma esplicita sul punto, non si deve pertanto procedere ad interpretazioni estensive. Resta comunque inteso che nel caso in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di un sistema di pesatura si possano verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non precisa corrispondenza tra la quantità di rifiuti in partenza e quella a destinazione, è necessario barrare la casella relativa alla voce “peso da verificarsi a destino”.
Qual è la corretta procedura per l’annotazione del peso verificato a destino?
338.
Nel caso di mancata conformità tra peso di partenza dei rifiuti e peso riscontrato a destino le procedure di registrazione devono essere più chiare possibile, per consentire agli organi di controllo una verifica puntuale. Tali procedure, in riferimento alle prassi di registrazione “manuale-cartacea” del percorso di gestione dei rifiuti (ovvero non in riferimento al Sistema informatico SISTRI) possono desumersi sia dai D.M. recanti disposizioni in merito al modello di FIR (D.M. 1 febbraio 1998, n. 145) e di registro di carico e scarico (D.M. 1 aprile 1998, n. 148) – ancora oggi vigenti – sia dalle indicazioni ministeriali contenute nella Circolare 4 agosto 1998, n. GAB/DEC/812/98. È da precisare che tutti i documenti citati non contemplano alcun riferimento ai sistemi di gestione rifiuti mediante software informatici, ma forniscono indicazioni e principi, che devono in qualche modo essere rispettati anche tramite il sistema di gestione informatico. A che risulti, inoltre, gli attuali software di gestione rifiuti non sono compatibili con il sistema SISTRI, quindi le problematiche del caso dovranno essere affrontate – secondo lo stesso modus operandi – anche in riferimento al SISTRI, qualora si operi attraverso tale sistema dal momento della sua entrata in vigore. La Circolare ministeriale del 1998, al punto 1), lett. t), recita: “alla voce «quantità», casella 6, terza sezione, dell’allegato B, al decreto ministeriale n. 145/1998, deve essere sempre indicata la quantità di rifiuti trasportati”. Inoltre, precisa il documento, “…dovrà essere contrassegnata la casella «(–)» relativa alla voce “Peso da verificarsi a destino” nel caso in cui per la natura del rifiuto o per l’indisponibilità di un sistema di pesatura si possano, rispettivamente, verificare variazioni di peso durante il trasporto o una non precisa corrispondenza tra la quantità di rifiuti in partenza e quella a destinazione”.
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La presenza, quindi, di una di queste due condizioni, giustifica la possibilità di procedere alla verifica del peso effettivo presso il luogo di destinazione dei rifiuti, pur senza esimere il produttore dall’obbligo di indicare in partenza il peso presunto. È consigliabile, dunque, avvalersi di questa possibilità in tutti quei casi in cui il produttore debba indicare una stima di peso, e ciò in considerazione del fatto che, salvo casi molto particolari, di norma fa fede la quantificazione del rifiuti operata dal gestore dell’impianto di destinazione, il quale, in caso si riscontri una differenza di peso (soprattutto se in aumento) potrebbe respingere il carico, proprio perché alla pesatura non vi è possibilità di verificare che i rifiuti in esubero siano effettivamente tutti quelli indicati nel formulario. Inoltre, sull’indicazione del peso, la normativa di riferimento per i registri di c/s prescrive che sia indicata la quantità dei rifiuti, non prevedendo però allo stesso tempo di potersi avvalere dell’opzione “peso da verificarsi a destino” come prevista per il formulario. Non sussiste quindi alcun obbligo normativo che impone agli operatori di modificare sul registro di C/S il peso di partenza o di aggiungere il peso verificato a destino, qualora tale modalità non sia stata espressamente opzionata, ma è senz’altro corretto sostenere che l’integrazione tra i due documenti (FIR e Registri), come prevista dalla normativa di gestione rifiuti, consente di poter ritenere tale indicazione come riferentesi ad un peso presunto, e come tale perfezionabile nel momento in cui il peso possa essere effettivamente verificato nell’impianto finale. A livello di registrazioni tutto ciò si traduce nella accortezza di indicare alla voce “Annotazioni” la spiegazione della differenza di peso, cosicché la differenza numerica tra la voce di “carico” e quella di “scarico” avrà modo di essere “giustificata”, senza ricorso a “carichi fittizi”. Del resto una volta che il produttore ha compilato correttamente il formulario (ovvero indicato il peso presunto e barrata la casella del “peso da verificarsi a destino”), qualora il destinatario riscontri una differenza di peso, egli è innanzitutto tenuto ad apporre sul formulario il peso riscontrato e a comunicarlo al produttore. Tale correzione sul formulario, che di fatto consiste in un mero aggiustamento oggettivo del quantitativo trasportato, è peraltro, l’unica consentita dalla legge. A questo punto, posto che il produttore attenderà la sua IV copia con la pesata ufficiale, potrebbe essere buona prassi che il destinatario lo informi subito (magari mediante fax) della differenza quantitativa, di modo che il produttore sia posto in condizione di compilare correttamente il registro di carico e scarico nei tempi prescritti dalla legge. 339. L’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani in quanto esonerata dall’obbligo di emissione del formulario di accompagnamento ed anche dalla gestione SISTRI, si può ritenere esclusa dalla compilazione della scheda di trasporto di cui al D.L.vo 286/05?
La “scheda di trasporto” garantisce il controllo di tutti i soggetti coinvolti nella filiera del trasporto merci conto terzi (esclusi dall’applicazione sono quindi i trasporti conto proprio), allo scopo di conseguire maggiori livelli di sicurezza stradale e favorirne le verifiche.
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Il D.M. infrastrutture e dei trasporti 30 giugno 2009 n. 554, in attuazione dell’art. 7-bis del D.L.vo 286/05, ha introdotto la regolamentazione della scheda che deve accompagnare il trasporto di merce conto terzi. L’art. 2, nel prevedere che la scheda di trasporto possa essere sostituita: – dalla copia del contratto in forma scritta di cui all’art. 6 del D.L.vo 286/05, ovvero; – da altra documentazione equivalente, avente il medesimo contenuto del modello della scheda di trasporto allegata al decreto, rimanda al successivo art. 3 per l’identificazione dei documenti equipollenti, i quali sono così individuati: – lettera di vettura internazionale CMR; – documenti doganali; – il documento di cabotaggio di cui al D.M. 3 aprile 2009; – i documenti di trasporto di cui al D.P.R. 472/1996; – altro documento che deve sempre accompagnare il trasporto stradale delle merci, ai sensi della normativa comunitaria, degli accordi o delle convenzioni internazionali o di altra norma nazionale vigente o successiva al presente decreto. Invero, le specificazioni inerenti gli altri documenti equipollenti alla scheda di trasporto sono intervenute per tramite di successiva Circolare Ministeriale, n. 104497 del 3 dicembre 2009 che esplicitamente vi ricomprende il formulario identificazione rifiuti. Si segnala che il valore sostitutivo del FIR rispetto alla scheda di trasporto è stato confermato anche per la scheda SISTRI – Area Movimentazione che accompagna i rifiuti durante il trasporto, ai sensi dell’art. 18 comma 4 del TU SISTRI. Chiariti i termini della disciplina di riferimento, occorre chiarire se il trasporto di rifiuti per conto terzi possa essere considerato un trasporto di merci su strada. A parere di chi scrive, il D.L.vo 286/05, come si evince già dall’art. 1, si applica in generale alle merci e non ai rifiuti, a meno che gli stessi – nella fattispecie – non siano equiparati alle merci (es.: commercializzazione) e – in particolare – non si tratti di vettori che, ai sensi dell’art. 11 del D.L.vo 286/05, abbiano adottato “sistemi di certificazione di qualità” per il trasporto di specifiche categorie di trasporto, tra cui, oltre alle merci pericolose, sono citati anche i “rifiuti industriali”. Ciò premesso, qualora vi siano le condizioni per l’applicazione della normativa ovvero: – trasporto di rifiuti per conto terzi, – si tratti di rifiuti industriali e – si tratti di rifiuti che vengono commercializzati il FIR utilizzato deve essere considerato equipollente alla scheda di trasporto, che quindi non va compilata. Non verificandosi le tre condizioni di cui sopra il trasporto esula dalla disciplina di cui al D.L.vo 286/05, perciò, a parere di chi scrive, non sussiste l’obbligo di compilare la scheda di trasporto ab origine.
293
Trattamento
340.
Cosa si intende con il concetto di “trattamento”?
Il trattamento (art. 183, c. I, lett. s, D.L.vo 152/06), per la sua indeterminatezza, è sempre stato tra i concetti più delicati. Fino a pochi anni fa, invero, l’unico ausilio normativo per la definizione in esame era rinvenibile nel D.L.vo 36/03, in tema di discariche. L’attuale definizione, introdotta a seguito delle modifiche apportate dal D.L.vo 205/10, ripropone fedelmente quella contenuta nella direttiva rifiuti, disponendo che per trattamento si intendono “operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento”. L’attuale definizione rimanda dunque direttamente alle operazioni di recupero o smaltimento, includendovi anche la preparazione precedente al recupero o allo smaltimento stesso. Da una lettura superficiale e rimanendo ancorati alla disciplina previgente pare dunque delinearsi una definizione limitata alle sole operazioni di cui agli Allegati C e B della parte IV del D.L.vo 152/06. In realtà, occorre prioritariamente guardare le nuove definizioni di recupero (lett. t) e smaltimento (lett. z), estremamente innovative rispetto alle precedenti. Infatti, dal 25 dicembre 2010 (data di entrata in vigore del D.L.vo 205/10), per recupero non si intendono più le operazioni di cui al citato Allegato C, bensì, in modo meno puntuale e tassativo, qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, prevedendo espressamente che l’elenco delle operazioni di cui all’Allegato C non è per nulla esaustivo. A contrariis, per smaltimento si intende tutto ciò che non è recupero, confermando tuttavia, anche in questo caso, che l’Allegato B deve intendersi come “un elenco non esaustivo di operazioni di smaltimento”. In buona sostanza, a parere di chi scrive, come già più volte sostenuto, esistono due tipologie di trattamento: a) un trattamento generico, consistente in tutte le operazioni di recupero e smaltimento; b) un trattamento specifico, consistente nelle 28 operazioni indicate negli Allegati B e C. Cosicché, chiunque svolga una delle operazioni di cui ai suddetti Allegati dovrà richiedere ed ottenere una specifica autorizzazione in merito, restando valida ed ammissibile la possibilità che si possano svolgere altre operazioni al di fuori di queste.
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Se un rifiuto viene sottoposto ad un trattamento in D09 (inertizzazione) e tale processo determina la produzione di un nuovo rifiuto codificato con un altro CER avente natura e composizione diversa da quello iniziale, è consentito porre tale nuovo rifiuto in carico presso l’impianto di trattamento in D15? 341.
Tutte le operazioni svolte presso un centro di stoccaggio dal detentore dei rifiuti, che modificano la natura del rifiuto in entrata al punto da doverne modificare il codice CER (come nel caso di specie) rendono il titolare del centro produttore di un nuovo rifiuto, che egli stesso potrà decidere se avviare a smaltimento o a recupero. Del resto, il trattamento dei rifiuti in ingresso ad un centro di stoccaggio, tipico sito intermedio nella gestione dei rifiuti, non può che essere finalizzato a verificare se, ed in che modo o quantità, gli stessi rifiuti possono essere avviati a recupero o smaltimento; ciò accade sia nel caso in cui si dia vita ad un trattamento autorizzato (esempio un D9), sia se il trattamento è invece costituito da una semplice cernita che, senza modificare la natura intrinseca del rifiuto dal punto di vista fisico-chimico, è a volte sufficiente per separare le frazioni recuperabili dei rifiuti, che comunque vengono classificati in modo diverso, di solito con il codice CER 19.12. … relativo ai rifiuti soggetti a trattamento meccanico. Una volta separate le frazioni recuperabili dei rifiuti da quelle soggette a smaltimento finale, il centro di stoccaggio potrebbe necessitare di un ulteriore “sosta dei rifiuti” in impianto prima del trasporto verso i siti di destinazione finale. Tal “sosta” qualora sia successiva ad un trattamento D9 non potrà che concretizzarsi nella forma di deposito preliminare (D15), che non sarà il destino finale dei rifiuti oggetto del trattamento, ma costituirà, appunto, un deposito intermedio, preliminare al definitivo smaltimento ovvero all’invio ad un’operazione da D1 a D14. Quindi, se il centro di stoccaggio è espressamente autorizzato (D15), è senz’altro possibile porre il nuovo rifiuto prodotto ad esito del trattamento “in carico al centro”, cioè registrarlo su registro di carico e scarico come rifiuto prodotto e trattenuto in deposito preliminare, per poi “scaricarlo” al momento dell’invio a destino finale. Resta inteso che in tutte le fasi della gestione, ovvero sia il ricevimento dei rifiuti sia il successivo trattamento di inertizzazione e deposito preliminare, il centro di stoccaggio dovrà essere espressamente abilitato a trattare i rifiuti così come individuati dai corrispondenti codici CER.
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Veicoli fuori uso
342.
Quando un veicolo diventa giuridicamente un rifiuto?
Il D.L.vo 24 giugno 2003, n. 209 in materia di veicoli fuori uso contempla la figura del “produttore” nel senso del soggetto che ha prodotto il veicolo (bene), ma nulla dice in merito al “produttore” del veicolo fuori uso nel senso del produttore del rifiuto. Poiché il D.L.vo 209/03 stabilisce che i veicoli rientranti nel proprio campo di applicazione (art. 1) sono da considerarsi veicoli fuori uso, e quindi rifiuti (art. 3, co. 2): “a) con la consegna ad un centro di raccolta, effettuata dal detentore direttamente o tramite soggetto autorizzato al trasporto di veicoli fuori uso o tramite il concessionario o il gestore dell’automercato o della succursale della casa costruttrice che ritira un veicolo destinato alla demolizione nel rispetto delle disposizioni del presente decreto. È, comunque, considerato rifiuto e sottoposto al relativo regime, anche prima della consegna al centro di raccolta, il veicolo che sia stato ufficialmente privato delle targhe di immatricolazione, salvo il caso di esclusivo utilizzo in aree private di un veicolo per il quale è stata effettuata la cancellazione dal PRA a cura del proprietario; b) nei casi previsti dalla vigente disciplina in materia di veicoli a motore rinvenuti da organi pubblici e non reclamati; c) a seguito di specifico provvedimento dell’autorità amministrativa o giudiziaria; d) in ogni altro caso in cui il veicolo, ancorché giacente in area privata, risulta in evidente stato di abbandono”. Dalla riportata norma si desume che, oltre allo stargamento, è la consegna del veicolo ad assumere un’importanza fondamentale nel sistema di gestione dei veicoli fuori uso: essa, infatti, contraddistingue il momento della formazione del rifiuto, in quanto un veicolo privo di targa non può più svolgere la sua funzione primaria. A questo punto, giova ricordare la nozione di produttore ex art. 183, c. 1, lett. f) del D.L.vo 152/06: “il soggetto la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti”. È evidente che finora si è cercato di capire il momento della formazione del “rifiuto”, ma da questa riflessione non si può far discendere l’individuazione del “produttore del rifiuto”, perché si tratta di una nozione che trova una sua autonoma posizione nel TUA. Il concessionario che riceve un veicolo è tenuto ex art. 5 del D.L.vo 209/03 a consegnarlo ad un centro di raccolta, il cui titolare rilascerà una dichiarazione di rottamazione: a questo punto, consegnato il veicolo, cancellato dal PRA e prossimo alla rottamazione, si può dire che è il titolare del centro di raccolta il produttore del rifiuto (del resto, qualora un soggetto consegni il proprio veicolo al concessionario e questi, lungi dal conferirlo al centro di raccolta, lo rivenda come auto d’occasione di secon-
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da mano, non può essere qualificato tout court come produttore del rifiuto, poiché di rifiuto non si tratta). Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale 12 aprile 2006, n. 86 del Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 149 recante “Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209, recante attuazione della direttiva 2003/53/ CE relativa ai veicoli fuori uso” si recepisce in maniera definitiva la Dir. 2003/53/ CE, oggetto della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione UE nei confronti dell’Italia. Le novità introdotte sono numerose ma esaminando la normativa riferita al quesito proposto si effettuano le osservazioni seguenti. La radiazione può essere effettuata sia dal concessionario, sia dal centro di raccolta (art. 5, co. 8 cit.: “la cancellazione dal Pra del veicolo fuori uso avviene esclusivamente a cura del titolare del centro di raccolta ovvero del concessionario …”), sia dal gestore della succursale della casa costruttrice. Per quanto concerne la tempistica, l’unico vincolo che deve tassativamente essere rispettato è quello dei “trenta giorni” previsto dall’art. 5, co. 8 sopra riportato, entro il quale il “concessionario o gestore o titolare restituisce il certificato di proprietà, la carta di circolazione e le targhe relativi al veicolo fuori uso”. Nulla vieta, quindi (e magari è anche più utile per i soggetti interessati), che il concessionario e l’autodemolitore stipulino tra loro una convenzione scritta concernente il ritiro del veicolo e la sua radiazione, fermo restando il rispetto dei trenta giorni prescritti dalla nuova normativa.
343.
Qual è il regime autorizzatorio in materia di veicoli fuori uso?
Ai sensi dell’art. 6, comma 1, D.L.vo 24 giugno 2003, n. 209, i “rottamatori” di veicoli, oggi centri di trattamento dei veicoli fuori uso, devono conformarsi alle prescrizioni tecniche del medesimo decreto (all’Allegato I sono infatti indicati tutti i requisiti relativi ai centri di raccolta e agli impianti di trattamento dei veicoli stessi, sia con riferimento all’ubicazione degli impianti, sia con riferimento ai requisiti strutturali e organizzativi degli stessi nonché ai criteri di stoccaggio e di gestione e alle singole operazioni ammissibili) oltre ad avere idonea autorizzazione provinciale rilasciata non solo ai sensi del decreto veicoli fuori uso, ma altresì della disciplina tout court dei rifiuti, oggi D.L.vo 152/06, Parte IV. In tal senso molto chiaramente si è peraltro recentemente espressa la Corte di Cassazione Sez. III, penale, 8 febbraio 2007 (Ud. 7/12/2006), sentenza n. 5319: “Per quanto attiene i veicoli fuori uso, vi è una disciplina specifica contenuta nel decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209 ( non modificato sul punto dall’art. 2 del successivo decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 149 “disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 24 giugno 2003, n 209”) che considera il veicolo fuori uso appartenente ad una delle categorie indicate nello stesso articolo un rifiuto, (v. Cass. sez. III, 4/03/2005, n. 21963, D’Agostino), sicché l’attività del soggetto che provvede allo smantellamento dei veicoli altrui non più funzionanti rientra sempre nell’ambito dello smaltimento e del recupero e non può essere esercitata senza autorizzazione. Lo stesso art. 6 del D.L.vo 209/03, al comma 8, prevede che l’autorizzazione sia rilasciata per un periodo di cinque anni, rinnovabile a scadenza. L’atto autorizzatorio, oltre alle prescrizioni obbligatorie indicate dall’art. 6 può contenere particolari prescrizioni motivate dal concetto della generica “corretta gestione” dei rifiuti e della tutela ambientale. Le prescrizioni autorizzatorie in tal caso, cioè se non previste dalla legge
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speciale – ovvero dalla disciplina dei veicoli fuori uso o dalla disciplina generica della gestione rifiuti – devono comunque essere adeguatamente motivate dalla P.A. e non palesemente in contrasto con la ratio ultima del sistema autorizzatorio.
Quali sono le annotazioni che vanno compiute sui registri di entrata e uscita veicoli? 344.
È molto importante il riferimento contenuto nell’art. 264, comma 4, del regolamento di attuazione ed esecuzione del Codice della Strada. Tale disposizione, infatti, impone l’obbligo ai soggetti titolari dei centri di raccolta nonché di vendita dei veicoli a motore, di effettuare le seguenti annotazioni sui registri di entrata e uscita veicoli: a) generalità, indirizzo ed estremi di identificazione dell’intestatario del veicolo, nonché della persona da questi incaricata ove ricorra; b) data di presa in carico del veicolo, data di consegna della o delle targhe e dei relativi documenti al P.R.A. ed estremi della ricevuta da questi rilasciata al riguardo. Qualora tale consegna sia avvenuta a cura dell’intestatario del veicolo, o dell’avente titolo, la relativa ricevuta dovrà essere esibita al titolare del centro di raccolta per la trascrizione dei suoi estremi; c) data di effettiva demolizione, smontaggio o vendita del veicolo. Qualora ricorra quest’ultimo caso, dovranno essere riportate anche le generalità e gli estremi del documento di identificazione dell’acquirente. Riteniamo che tutta questa normativa, susseguitasi nel tempo ed emanata per disciplinare differenti aspetti della medesima materia, presenti un minimo comun denominatore, costituito dalla necessità di garantire una continuità formale nell’ambito della complessa procedura di gestione dei veicoli a motore, sulla via della dismissione. Nel momento in cui il concessionario interviene in questo ciclo di gestione, infatti, non può prescindersi dal predetto adempimento documentale rappresentato appunto dall’annotazione sui registri. La sottoscrizione del certificato di rottamazione e addirittura anche del formulario, impone a nostro avviso anche l’annotazione in questione. D’altra parte non si rinviene, tra le tante richiamate, una espressa disposizione che possa giustificare un simile esonero giustificabile quindi dinanzi agli organi preposti al controllo. Lo stesso legislatore qualora ritenga di agevolare gli operatori, riducendo duplicazioni di atti e documenti, lo prevede espressamente. Questa circostanza inoltre è solitamente riconducibile non ad una mera volontà di esonero bensì all’esistenza di eventuali documenti surrogatori. Si ricorda a questo proposito che la circolare GAB/ DEC/812/98, al punto 2, lettera g), proprio al fine di evitare inutili appesantimenti burocratici, disciplina la coesistenza di registri di carico e scarico da un lato (sui quali annotare i rifiuti derivanti dall’attività di demolizione) e dei registi di entrata e uscita veicoli (sui quali annotare invece la presa in carico dei veicoli stessi). L’ultimo capoverso stabilisce espressamente che “Analogamente, i concessionari di veicoli potranno annotare la presa in carico e lo scarico dei veicoli da avviare alla rottamazione nel predetto registro di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285” (cd codice della strada). Si ribadisce pertanto l’importanza dell’annotazione anche da parte dei concessionari, nel momento in cui entrano formalmente in contatto con un veicolo avviato alla demolizione, inserendosi nell’iter procedurale.
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Qual è il corretto codice CER legato alla produzione di carcasse di veicoli?
345.
Preliminarmente si vuole segnalare che alcune autorità hanno prescritto a qualche centro di trattamento veicoli fuori uso, l’adozione di un codice CER 19.12… per l’identificazione, in uscita, dei veicoli pressati. Posto che la “pressatura”, assieme alla “…messa in sicurezza, tranciatura, la frantumazione…” sono operazioni tipiche del trattamento dei veicoli fuori uso, come definito dalla lettera f) dell’art. 3, e che non esiste una vera specificazione della nozione di “trattamento”, pur essendo l’operazione che caratterizza la maggior parte dei centri raccolta e recupero/smaltimento dei rifiuti, non vi è motivazione per non rendere specifico il trattamento svolto dal centro di rottamazione de quo, per mezzo della corretta definizione del CER in uscita dei rifiuti. Il codice 19.12, infatti, costituisce indicazione pressoché generica per tutti i rifiuti che residuano dal trattamento meccanico di un impianto. Tali operazioni di trattamento devono poi peraltro essere oggetto di specificazione in autorizzazione con riferimento alle operazioni di D e R da cui originano i rifiuti. È invece ormai noto che i CER di riferimento per i veicoli fuori uso appartengono alla voce 16.01: “veicoli fuori uso appartenenti a diversi modi di trasporto (comprese le macchine mobili non stradali) e rifiuti prodotti dallo smantellamento di veicoli fuori uso e dalla manutenzione di veicoli”, in particolare 16.01.04* veicoli fuori uso e 16.01.06 per quelli non contenenti componenti pericolose; la sola classificazione per mezzo del codice 16. 01 consente di ricondurre il trattamento del rifiuto al “veicolo fuori uso” e superare così il generico riferimento al “trattamento meccanico” per tutti i rifiuti. Al contempo si osserva che qualora non si impiegassero i predetti codici CER, in un momento successivo sussisterebbero problemi di compilazione della sezione veicoli fuori uso nel MUD, ove sono comunque riportati (anche prestampati) i codici 16.01.
Qual è la sanzione prevista in caso di superamento del termine di 30 giorni previsti per il deposito temporaneo presso il concessionario, ai sensi del D.L.vo 209/03, come modificato dal D.L.vo 149/06, art. 6, co. 8 bis? Si configura il caso di attività di gestione di rifiuti non autorizzata (art. 256 D.L.vo 152/06)?
346.
Il D.L.vo 23 febbraio 2006, n. 149 ha apportato significative modifiche al testo del D.L.vo 24 giugno 2003, n. 209 e tra queste ha introdotto all’art. 6, il comma 8 bis che così recita: “Il deposito temporaneo dei veicoli nel luogo di produzione del rifiuto – presso il concessionario, il gestore della succursale della casa costruttrice o l’automercato – destinati all’invio a impianti autorizzati per il trattamento, è consentito fino a un massimo di trenta giorni”. Nonostante le modifiche normative recentemente introdotte anche con il D.L.vo 152/06, si conferma – richiamando quanto espresso nel capitolo concernente il “Deposito temporaneo” – che il deposito temporaneo consiste nel raggruppamento di rifiuti effettuato prima della raccolta nel luogo in cui gli stessi sono prodotti e costituisce un’ipotesi derogatoria ed eccezionale rispetto alle forme di stoccaggio rifiuti (deposito preliminare e messa in riserva).
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L’articolo 13 del D.L.vo 209/03, detta le disposizioni sanzionatorie concernenti la violazione di specifiche prescrizioni, ma nulla che riguardi il superamento del limite temporale previsto per il deposito temporaneo di veicoli fuori uso. Ciò premesso, si tenga presente che il rispetto del requisito temporale è di fondamentale importanza ai fini di una corretta gestione dei rifiuti (nella specie, veicoli fuori uso) ed in sua assenza il deposito di rifiuti nel luogo in cui sono stati prodotti va considerato illecito e si tratta, quindi, di attività di gestione di rifiuti non autorizzata. Tale fattispecie, non trovando apposita disciplina nella normativa speciale di cui al D.L.vo 209/03, può comunque collocarsi nel corrispondente apparato sanzionatorio (pur se dettato per i rifiuti tout court, di cui i veicoli fuori uso costituiscono una species) di cui all’art. 256 del D.L.vo 152/06, commi 2 e 3, configurandosi senz’altro un deposito incontrollato ovvero una discarica non autorizzata.
Le barche possono essere conferite in un centro di raccolta per il loro smaltimento? 347.
Il “veicolo fuori uso” è, secondo la definizione fornita dalla Direttiva 2000/53/Ce (art. 2, punto 2), “un veicolo che costituisce un rifiuto ai sensi dell’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/Cee”. Prima di essere fuori uso, un “veicolo” ricomprende, ai sensi dell’art. 2, punto 1 della normativa in esame: “i veicoli appartenenti alle categorie M1 e N1 di cui all’allegato II, parte A della direttiva 70/156/Cee e i veicoli a motore a tre ruote definiti nella direttiva 92/61/Cee, ma con l’esclusione dei tricicli a motore”, definizioni che si ritrovano nel D.L.vo 209/03 e che pertanto non consentono di considerare – a monte – come veicolo qualcosa che non risponde alla definizione di cui sopra, ovvero non rientra nelle categorie M1 e N1 (rispettivamente: veicoli progettati e costruiti per il trasporto di persone, aventi al massimo otto posti a sedere oltre al sedile del conducente.; veicoli progettati e costruiti per il trasporto di merci,aventi massa massima non superiore a 3,5 t.) Il dato normativo, dunque, porta ad escludere che le barche o più genericamente i natanti fuori uso rientrino nel campo di applicazione del D.L.vo 209/03. Tantomeno, a che risulti, essi sono soggetti ad altra normativa speciale. Sul punto si segnala un’interessante sentenza della Corte di Cassazione Penale – sez. III – (sentenza n. 34768 del 13 settembre 2007), la quale si è pronunciata su una questione relativa alla demolizione del relitto di una nave, sentenziando che “non potrebbe assimilarsi il relitto della nave ai veicoli fuori uso, sia in considerazione del fatto che per questi esiste una specifica disciplina in materia (D.L.vo 24 giugno 2003, n. 209), la cui applicabilità non può essere estesa al caso di specie, sia del fatto che per essi è previsto l’inserimento nel Catalogo Europeo dei rifiuti, che non è invece previsto dalle navi”. Anche alla luce della pronuncia della Suprema Corte, dunque, l’esclusione della qualifica di un natante in termini di veicolo, porterebbe ad escludere tra l’altro l’attribuzione del codice Cer 16.01.04* al rifiuto della barca in oggetto, poiché tale codice identifica i veicoli fuori uso, né altro codice di cui alla voce 16.01, considerato il riferimento in esso contenuto ai soli veicoli fuori uso e rifiuti prodotti dallo smantellamento di veicoli fuori uso.
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Qual è la disciplina di riferimento per lo smaltimento dei veicoli aeroportuali?
348.
I veicoli aeroportuali presentano caratteristiche del tutto peculiari: superano quei limiti di sagoma e di massa stabiliti dagli articoli 61 e 62 del Codice della Strada (C.d.S.) e circolando su aree private non sono generalmente immatricolati. Per questi motivi si configurano, infatti, quali veicoli eccezionali e le loro particolari caratteristiche sono imposte da specifiche esigenze funzionali (art. 10 C.d.S.). Per queste stesse motivazioni, non paiono certo rientrare nel campo applicativo del D.L.vo 209/03 che si riferisce ai soli “veicoli a motore appartenenti alle categorie M1 ed N1 di cui all’allegato II, parte A, della direttiva 70/156/CEE…”. Ne deriva che tali veicoli eccezionali, sono assoggettati alla normativa sui rifiuti ed in particolare sono disciplinati dall’art. 231, D.L.vo 152/06 e per il loro smaltimento andrà pertanto seguito l’iter previsto dalle disposizioni in esso contenute. In primo luogo, a seconda che il veicolo sia o meno comprensivo delle componenti pericolose (batterie, oli idraulici…), i codici CER di riferimento saranno rispettivamente il 16.01.04* (veicoli fuori uso) e il 16.01.06 (veicoli fuori uso non contenenti liquidi né altre componenti pericolose). Fatta questa premessa, l’adempimento principale è costituito dalla consegna del veicolo a motore ad un centro di raccolta per la messa in sicurezza, la demolizione, il recupero dei materiali e la rottamazione finale. Si comprende tuttavia che da un lato, i predetti veicoli non possono circolare su strada e dall’altro, un trasporto “eccezionale” fino al centro di raccolta, in genere è oltremodo oneroso. Si tenga presente tuttavia che anche per i carri ferroviari sono previsti trasporti eccezionali ed alcune amministrazioni hanno individuato altresì delle strade provinciali e comunali idonee al transito di questi mezzi speciali. Dette strade sono esclusivamente quelle che collegano gli scali merci delle ferrovie alle principali zone produttive e quelle su cui possono insistere impianti di pubblica utilità quali ad esempio gli impianti di smaltimento. L’individuazione di una soluzione alternativa deve prendere le mosse dalla circostanza che tutti i veicoli dismessi sono raggruppati in un medesimo luogo circoscritto, entro l’area privata dell’aeroporto: circostanza che consente di configurare un deposito temporaneo di rifiuti. Come è noto il deposito temporaneo si delinea in un momento immediatamente antecedente la gestione dei rifiuti: “deposito temporaneo: il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, alle seguenti condizioni: 1) i rifiuti depositati non devono contenere policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani, policlorodibenzofenoli in quantità superiore a 2,5 parti per milione (ppm), né policlorobifenile e policlorotrifenili in quantità superiore a 25 parti per milione (ppm); 2) i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore, con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 10 metri cubi nel caso di rifiuti pericolosi o i 20 metri cubi nel caso di rifiuti non pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti pericolosi non superi i 10 metri cubi l’anno e il quantitativo di rifiuti non pericolosi non superi i 20 metri cubi l’anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno; 3) il deposito temporaneo deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative nonne tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute; 4) devono es-
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sere rispettate le norme che disciplinano l’imballaggio e l’etichettatura delle sostanze pericolose; 5) per alcune categorie di rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, sono fissate le modalità di gestione del deposito temporaneo” (art. 183, lettera bb, D.L.vo 152/06). Il rispetto di queste condizioni consente di stoccare i predetti rifiuti senza necessità di procurarsi l’autorizzazione. Ma cosa accade nel momento in cui occorre smaltire o recuperare tali rifiuti senza effettuare il trasporto degli stessi presso un centro autorizzato alla raccolta? A nostro avviso, gli interventi di riduzione volumetrica, taglio, e conseguente cernita, compiuti sui pullman, rientrano già nella fase di gestione del rifiuto e quindi necessitano di autorizzazione. Là dove si trattasse di rifiuti non pericolosi e le operazioni di smaltimento fossero compiute nel luogo di produzione, si potrebbe anche versare nell’ipotesi dell’autosmaltimento a norma dell’art. 215, D.L.vo 152/06 e sarebbe sufficiente una semplice comunicazione di inizio attività alla provincia territorialmente competente, oltre al totale rispetto delle norme tecniche e delle prescrizioni specifiche di cui all’art. 214 “Determinazione delle attività e delle caratteristiche dei rifiuti per l’ammissione alle procedure semplificate”. Ma per i rifiuti in questione, che in tutta evidenza sono pericolosi, è evidentemente necessaria una specifica autorizzazione ad hoc.
È possibile ritirare dei veicoli radiati provenienti da un Paese europeo? Occorrono particolari autorizzazioni per un centro di raccolta e per il trasportatore che effettua il servizio?
349.
Un centro di trattamento italiano che intenda “ricevere veicoli radiati” provenienti dal un Paese Europeo deve rispettare la disciplina italiana vigente, unitamente, se del caso, alle norme in materia di trasporto transfrontaliero dei rifiuti. Per il diritto italiano (D.L.vo 209/03) anzitutto i veicoli sono fuori uso, cioè classificati come rifiuti, (art. 3, co. 2) “a) con la consegna ad un centro di raccolta, effettuata dal detentore direttamente o tramite soggetto autorizzato al trasporto di veicoli fuori uso oppure con la consegna al concessionario o gestore dell’automercato o della succursale della casa costruttrice che, accettando di ritirare un veicolo destinato alla demolizione nel rispetto delle disposizioni del presente decreto rilascia il relativo certificato di rottamazione al detentore; b) nei casi previsti dalla vigente disciplina in materia di veicoli a motore rinvenuti da organi pubblici e non reclamati; c) a seguito di specifico provvedimento dell’autorità amministrativa o giudiziaria; d) in ogni altro caso in cui il veicolo, ancorché giacente in area privata, risulta in evidente stato di abbandono”. Il centro di raccolta italiano, che altro non è che un impianto di trattamento regolarmente autorizzato alla gestione rifiuti che effettua almeno le operazioni relative alla messa in sicurezza ed alla demolizione dei veicoli, normalmente procede alla cancellazione (causale demolizione) dal PRA, ma nel caso di specie non potrebbe effettuarla poiché trattasi di veicolo iscritto in un registro dei beni mobili (o equipollente strumento) di altro Paese.
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Dal quesito risulta, infatti, che la fase della cancellazione avverrebbe nel Paese d’origine, a seguito di procedura avviata dallo stesso intestatario del veicolo, che – si suppone – si rivolgerà ad un “centro di raccolta” in loco per depositare definitivamente veicolo. Sarà dunque tale centro a provvedere all’esportazione del rifiuto, con obbligo di applicare quanto previsto dal Regolamento 1013/2006/CE (pubblicato in G.U.U.E. il 12 luglio 2006, n. L.190), in vigore dal 12 luglio 2006, ma applicato a far data dal 12 luglio 2007, sulle spedizioni transfrontaliere dei rifiuti. Premesso che le politiche ambientali comunitarie in materia di rifiuti sono tese a scoraggiare ogni trasporto transfrontaliero che non sia assolutamente necessario e ad affermare il principio della ricerca dell’autosufficienza nella gestione dei rifiuti da parte di ogni Paese membro, in generale possiamo ricordare che a seconda delle caratteristiche dei rifiuti e delle finalità delle spedizioni transfrontaliere sono previste procedure di notifica e obblighi di informazione. In genere, il produttore del rifiuto, o il detentore o colui che intende effettuare una spedizione (notificatore), di regola (fanno eccezione solo i rifiuti non pericolosi contenuti in lista verde) deve compilare e trasmettere una preventiva notifica scritta all’autorità competente di spedizione, corredata da documento di accompagnamento standard, informazioni aggiuntive e contratto di garanzia finanziaria; tale autorità provvede all’inoltro alle autorità di destinazione e di transito. Il notificatore deve, di regola, attendere il consenso scritto da pare di queste autorità prima di dare inizio alla spedizione. È inoltre necessaria la compilazione del documento di movimento da parte del notificatore e l’informazione preventiva circa la data effettiva di inizio della spedizione: il notificatore invia copia firmata del documento di movimento compilato alle autorità competenti interessate ed al destinatario almeno tre giorni lavorativi prima che la spedizione abbia inizio. Si deve, infine, rammentare che ai sensi dell’art. 193 c. 7 del D.L.vo 152/06 7 il FIR è ritenuto validamente sostituito, per i rifiuti oggetto di spedizioni transfrontaliere, dai documenti previsti dalla normativa comunitaria anche con riguardo alla tratta percorsa su territorio nazionale.
Un’azienda che si occupa di servizio pubblico di raccolta rifiuti che si trovi nella necessità di smaltire i rifiuti derivanti dalla manutenzione dei propri mezzi, può considerarsi anche azienda che effettua attività di autoriparazione ai sensi del D.L.vo 209/03?
350.
Il D.L. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee), convertito nella L. 20 novembre 2009, n. 166 (S.O. alla G.U. n. 274 del 24 novembre 2009), all’art. 1 prevede delle modifiche al D.L.vo 24 giugno 2003, n. 209 (Attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori uso), per ovviare alla procedura d’infrazione 2204/2003 ex art. 228 TCE. In particolare, tale norma sostituisce il c. 15 dell’art. 5 del D.L.vo 209/03 che oggi così dispone: “Le imprese esercenti attività di autoriparazione, di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 122, consegnano, ove ciò sia tecnicamente fattibile, i pezzi usati allo stato di rifiuto derivanti dalle riparazioni dei veicoli, ad eccezione di quelli per cui è previsto dalla legge un consorzio obbligatorio di raccolta, ai seguenti soggetti:
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a) direttamente ad un centro di raccolta di cui al comma 3, qualora iscritti all’Albo nazionale dei gestori ambientali; b) ad un operatore autorizzato alla raccolta ed al trasporto dei rifiuti perché provveda al loro trasporto ad un centro di raccolta di cui al comma 3”. La L. 5 febbraio 1992, n. 122 (G.U. n. 41 del 19 febbraio 1992), all’art. 1, c. 2 precisa che “rientrano nell’attività di autoriparazione tutti gli interventi di sostituzione, modificazione e ripristino di qualsiasi componente, anche particolare, dei veicoli e dei complessi di veicoli a motore di cui al comma 1, nonché l’installazione, sugli stessi veicoli e complessi di veicoli a motore, di impianti e componenti fissi. Non rientrano nell’attività di autoriparazione le attività di lavaggio, di rifornimento di carburante, di sostituzione del filtro dell’aria, del filtro dell’olio, dell’olio lubrificante e di altri liquidi lubrificanti o di raffreddamento, che devono in ogni caso essere effettuate nel rispetto delle norme vigenti in materia di tutela dall’inquinamento atmosferico e di smaltimento dei rifiuti, nonché l’attività di commercio di veicoli”. Trattandosi di un’officina interna alla società di gestione che si occupa esclusivamente dei mezzi della stessa, si solleva da subito qualche perplessità in ordine all’applicazione dell’art. 5, c. 15, D.L.vo 209/03, in quanto tale norma è specificamente destinata “alle imprese esercenti attività di autoriparazione”, ovvero quelle a cui tendenzialmente si rivolgono i privati per effettuare la manutenzione sui propri autoveicoli. Se, dunque, risulta pacifico che l’officina interna all’azienda svolga attività di autoriparazione ex L. 122/92, ovvero effettui sui mezzi dell’azienda “interventi di sostituzione, modificazione e ripristino di qualsiasi componente, anche particolare, dei veicoli e dei complessi di veicoli a motore di cui al comma 1, nonché l’installazione, sugli stessi veicoli e complessi di veicoli a motore, di impianti e componenti fissi”, l’officina interna non è propriamente inquadrabile quale impresa autonoma esercente attività di autoriparazione; per cui ne discende la non applicabilità, alla medesima, della disposizione di cui all’art. 5, c. 15, del D.L.vo 209/03. I rifiuti così prodotti, pertanto, continuano ad essere qualificati e gestiti come rifiuti propri. Ciò nonostante, ci si sofferma brevemente sul merito della norma modificata, così da chiarire la sua nuova portata. L’art. 5, c. 15, D.L.vo 209/03, come recentemente modificato, fa obbligo “alle imprese esercenti attività di autoriparazione” di consegnare, qualora sia tecnicamente fattibile e salvi i casi in cui è prevista la consegna dei pezzi prodotti ad un consorzio obbligatorio di raccolta, ad un centro di raccolta di cui al c. 3 del medesimo articolo, i pezzi usati allo stato di rifiuto derivanti dalle riparazioni dei veicoli, ad eccezione di quelle per cui è previsto dalla legge un consorzio obbligatorio di raccolta. Ciò può avvenire alternativamente: – in maniera diretta, qualora le imprese esercenti attività di autoriparazione siano iscritte all’Albo Nazionale Gestori Ambientali; – in maniera indiretta, e cioè tramite un operatore autorizzato alla raccolta dei rifiuti, qualora le imprese esercenti attività di autoriparazione non siano iscritte all’Albo Nazionale Gestori Ambientali.