L'ultima estate al bagno delfino Claudio Panzavolta estratto

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CLAUDIO PANZAVOLTA

L’ultima estate al Bagno Delfino Romanzo

Isbn Edizioni



Alla mia famiglia, a quelli che ci sono ancora e a quelli che non ci sono pi첫



«La casa delle mie estati lontane t’era accanto, lo sai, là nel paese dove il sole cuoce e annuvolano l’aria le zanzare.» Eugenio Montale, Ossi di seppia



1 La cabina del telefono

Estate 1988 La mamma si faceva cambiare le monete ogni lunedì, al bar del Bagno Delfino. Quel sacchetto di gettoni, tutto opaco e consunto, ci sarebbe bastato fino alla settimana dopo. Come la maggior parte dei bambini che venivano in vacanza a Marina, io e mia sorella vedevamo il babbo solo nei fine settimana. Gli altri giorni, quando lavorava, lo sentivamo per telefono, e ci doveva bastare. Ogni sera, alle sei e mezza in punto. Avevo sei anni. Già da qualche estate, Monica e la sua famiglia venivano in villeggiatura nella casa di fianco alla nostra. A separarci c’era una rete ricoperta di edera. Sbirciando da una maglia libera dalle foglie, l’avevo vista per la prima volta. Il modo in cui saltava la corda, buttando avanti un piede prima dell’altro, mi è rimasto impresso nella memoria. E anche i colori del suo vestito, verde a pallini bianchi. Il caldo e la foga del gioco l’avevano fatta sudare, e sulla punta del naso le riluceva un velo di goccioline trasparenti. Quando si era accorta che la stavo fissando, aveva fatto una smorfia offesa, subito tradita, però, da un sorriso tutto incisivi; poi aveva lasciato cadere la corda sul selciato ed era corsa dentro casa. Giorno dopo giorno, quell’osservarla attraverso la rete divenne una specie di rituale, di cui eravamo consapevoli entrambi. Finché una sera, affacciando lo sguardo tra le foglie dell’edera, me 9


la ritrovai davanti. Prima il suo occhio, poi la sua bocca, che mi disse: «Facciamo che io ero una sirena e tu mi dovevi salvare?». Mi chiesi da cosa l’avrei dovuta salvare, ma risposi subito di sì. Uscii dal mio cancelletto e spalancai il suo. Così conobbi anche suo fratello Vincenzo, che era più piccolo di noi di appena un anno. Aveva una strana malattia della pelle che lo costringeva a stare sempre dentro casa, lontano dal sole, anche se ogni tanto sua madre gli permetteva di giocare in cortile, al riparo dell’ombra dei pini. Era pallido, e aveva i capelli così sottili e impalpabili che sembravano disegnati con una matita dalla punta durissima. I ragazzi più grandi che abitavano nei paraggi, quando sfrecciavano lungo la strada in groppa alle loro biciclette e lo scorgevano sotto il portico, urlavano: «Il vampiro si è svegliato!» o «Attenti, sta per arrivare Facciabianca!». Quando succedeva – sempre dopo il tramonto, al riparo dell’oscurità – sua madre correva verso il cancello e con la voce rotta gridava loro di farla finita; io l’ascoltavo stringendo i pugni arrabbiato, per poi intristirmi subito dopo. I genitori di Monica facevano i turni: uno dei due la portava in spiaggia al Bagno Marisa, mentre l’altro restava a casa con Vincenzo. L’estate in cui ci conoscemmo, però, suo padre era stato assunto da un’azienda di Brescia, e aveva cominciato a lavorare a tempo pieno: era sempre via, spesso anche nei fine settimana, e la madre era costretta a fare tutto da sola, incluso restare a casa con il bambino. Così avevano smesso di andare in spiaggia, e la villeggiatura di Monica si era ridotta a un semplice cambio di casa, con il solo vantaggio di poter respirare un’aria migliore di quella che c’era a Imola. La mamma allora si era proposta di occuparsi di lei durante la giornata, portandola al Bagno Delfino insieme a me e a mia sorella. Sua madre accettò senza tirarla per le lunghe, e da quel giorno Monica ricominciò a venire al mare, ma sotto il nostro ombrellone.

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Era un pomeriggio di metà settimana, e stavamo tornando a casa dalla spiaggia, con la busta dei gettoni che a sballonzolare faceva un gran­fracasso. Avanzavamo nella pineta, in fila indiana. Caterina, che non la smetteva un attimo di rigirarsi i capelli intorno a un dito, stava davanti, io e Monica procedevamo in mezzo, e la mamma dietro. Il sole pareva galleggiare intontito sui profili dei pini, e un calabrone tesseva il suo volo intorno ai nostri passi. Quando arrivammo al ponticello di fune, scorsi una biscia d’acqua strisciare sulla sponda del canale. Portavo ancora gli occhiali rotondi, quelli rossi e blu che mi stavano male. E la pettinatura «a tegamino», come la chiamava mio zio per prendermi in giro. Ma le mie nonne mi dicevano sempre che ero bello, e io ci credevo. Caterina aveva già attraversato il ponticello, e ci aspettava schiacciandosi un brufolo sul braccio. Invidiavo i tre anni che aveva in più rispetto a me, la libertà con cui era in grado di fare ogni cosa, senza preoccuparsi del giudizio degli altri. Mentre la mamma si fermava un momento per infilarsi meglio una ciabatta, io indicai la biscia. Si stava addentrando nell’acqua verdastra, forse a caccia di una preda. Per l’eccitazione Monica mi si fece vicina, e si affacciò sopra le mie spalle. Io, per gioco, cercai in tutti i modi di impedirle di guardare, ostacolandole la visuale con la testa. Lei allora mi mise le mani davanti agli occhiali. «Se non vuoi che guardo, non guardi neanche tu!» disse, e quando le afferrai le mani per liberarmi, lei senza volerlo agganciò la stanghetta dei miei occhiali con un dito e li catapultò di sotto, tra i ciuffi d’erba alta che crescevano lungo la riva. Sentii la biscia dileguarsi sotto di noi con un fruscio: il rumore doveva averla impaurita. Non vedevo altro che contorni confusi. Monica si sporse dal ponticello per guardare dov’erano caduti gli occhiali. Io però ero convinto che volesse approfittare della mia cecità per avvistare l’animale prima che sparisse del tutto, così le diedi uno spintone, e senza volerlo la feci cadere per terra. Lei piagnucolò un «Ahia!» e la mamma, in tutta risposta, mi afferrò per le spalle e mi diede una scrollata stizzita, dicendomi di tenere a posto 11


le mani. Io mi barricai dietro un broncio silenzioso, mentre lei aiutava Monica a rialzarsi. Il fatto era che senza gli occhiali non ci vedevo quasi niente. Con fare brusco, la mamma posò il borsone a terra, col telo e tutto, e cominciò a discendere faticosamente il pendio che portava al canale. Quando tornò su aveva il fiatone, ma fra due dita strette a uncino teneva i miei occhiali. Erano tutti impiastricciati di fango. Per poterli lavare per bene avrei dovuto aspettare di arrivare a casa, così ringraziai la mamma con il capo chino, e me li misi in tasca, preparandomi ad avanzare a tentoni. Uscimmo dalla pineta che erano già le sei e tre quarti. Dovetti stringere gli occhi per intravedere le lancette sull’orologio della mamma. Era stato il babbo a insegnarmi a leggere l’ora, durante una di quelle sere in cui stavamo insieme, da soli. Attraversammo la statale e andammo verso la piazza, diretti alla nostra cabina del telefono. Io e Caterina la chiamavamo così, e anche Monica aveva adottato il nostro nomignolo, nonostante non avesse mai preso tra le mani quella cornetta arancione. «La mia mamma non telefona così spesso al mio papà» mi aveva raccontato la prima volta che era stata coinvolta nel rituale della nostra chiamata quotidiana. «Lui dice che è da stupidi perdere tempo in quel modo, perché tanto si dicono sempre le stesse cose.» Ormai io e Monica avevamo fatto la pace, senza bisogno di dirci niente. La tenevo per mano. Era lei a farmi strada. La cabina mi appariva come un rettangolo rosso dai contorni sfumati. Caterina era già là, in piedi sulla soglia. Mi sembrava un filo di lana lungo e sfocato. La vista mi si annebbiava sempre di più, così decisi di tenere gli occhi socchiusi, per non sforzarli troppo. Ci accalcammo tutti e tre dentro quello spazio stretto ma accogliente. Monica ci aspettava fuori. La mamma stava in prima fila, con la cornetta in mano e il sacchetto di gettoni poggiato sopra il baracchino del telefono. Mia 12


sorella era al suo fianco, circondata dalle scritte e dagli scarabocchi pitturati sulle pareti trasparenti, e io me ne stavo seduto sul borsone da mare tra lei e la mamma, e giocavo con il legaccio, che in passato avevo già rotto non so quante volte. Tlic-Tlac. Tlic-Tlac. Tlic-Tlac. Il telefono aveva appena ingoiato i primi tre gettoni color rame. «Pronto?» La mamma aveva chiuso le porte della cabina, e nell’afa che c’era lì dentro la voce del babbo si sentiva benissimo: ronzava come le zanzare che intanto ci mangiavano le caviglie e i polpacci. «Ciao, sono io» rispose la mamma. «Pensavo che non mi telefonavi più. Ormai sono quasi le sette…» sorrise il babbo. «Ma sta’ buono va’ là, che a Corrado sono caduti gli occhiali nel rivalino del canale.» «Eh, quel Corrado… Come sta? Passamelo un po’, dai» scherzò il babbo. Nel sentire quelle parole, mi tirai in piedi per farmi spazio tra Caterina e la mamma, che mi prese in braccio, piazzandomi davanti all’apparecchio. Mi piaceva vedere i numeri dei soldini che calavano sul display. Senza occhiali, però, quella sera riuscivo a scorgere soltanto una confusa e indistinta chiazzetta verde. «Pronto?» dissi. «Ciao furfante. Allora? La mamma mi ha detto che hai combinato un guaio.» «Sì.» «Gli occhiali come stanno?» «Li devo lavare» risposi. «Senza non ci vedo niente.» Il babbo continuò a parlarmi, dicendomi le cose che mi diceva ogni sera, ogni sera sempre le stesse, proprio come aveva detto il padre di Monica: «Ti diverti?», «Sei buono con la mamma?»,­«… e con tua sorella?», «Hai rimasto tanti compiti da fare?», «Aiuta la mamma a sparecchiare la tavola, mi raccomando», «… Poi, quando vengo, facciamo due tiri a pallone». 13


Quella sera, però, senza poter mettere a fuoco nulla non avevo modo di distrarmi, così mi concentrai sulle sue parole, e mi ritrovai per la prima volta a pensare a lui. Lo vidi nel nostro tinello, in città, solo e con le tapparelle già abbassate. Le tirava giù non appena tornava a casa dal lavoro, alle cinque e tre quarti, sia d’estate che d’inverno. Che piovesse o che ci fosse il sole non faceva differenza: lui le sue tapparelle doveva tirarle giù. A quell’ora, doveva essere a tavola già da un po’. Forse, visto il lieve ritardo della nostra telefonata, il mangiare gli si stava raffreddando nel piatto; ma era disposto a quel sacrificio pur di parlare per qualche minuto con noi. Seduto sulla sedia di vimini sfilacciata da Taffi, la nostra gatta, morta pochi mesi prima sotto le ruote di un motorino, con la schiena rivolta alla vetrina, per stare girato verso il mobiletto del telefono. Sul tavolo, apparecchiato con una delle tovagliette dei Muppet che la mamma aveva comprato al mercato, dovevano esserci il suo mezzo litro di vino e quel poco che si era cucinato, forse una svizzera con sopra una sottiletta, o una pasta scotta condita con un po’ di passata di pomodoro. Il mio babbo non era bravo a far da mangiare. «Venerdì ti porto una sorpresa» disse tutto contento. Lavorava otto ore al giorno nei cantieri della cooperativa edile. A trafficare con le predelle e il calcestruzzo, per tirare su delle case che avrebbero comprato persone con più soldi di lui. Ma rideva sempre. Sembrava non sapesse cosa voleva dire essere tristi. D’inverno, le sere in cui la mamma andava a lavorare al ristorante della zia, dopo cena mi portava a fare un giro in automobile, sulla vecchia Uno bianca dal baule scassato che ormai non si chiudeva più. Ci fermavamo sempre a un piccolo tabacchi appena fuori Faenza, e ogni volta lui mi comprava un gioco diverso: un bamboccino di He-Men, un G.I. Joe, un puzzle di Topolino. Una volta a casa, aprivo la scatola del gioco, e lui mi chiedeva: «Allora, ti piace?». Io rispondevo di sì. Poi il babbo tirava fuori i soldatini. Li mettevamo in piedi sulla tavola, tutti in fila, e chi riusciva a farne cadere di più colpendoli con una biglia vinceva. A quel gioco 14


il babbo era più forte di me, ma a volte perdeva apposta per farmi contento. La mamma tornava a casa che io ero già andato a letto, e a volte lo sentivo raccontarle a bassa voce quello che avevamo fatto insieme. Si capiva che era felice. E ora, in quella cabina, mentre per colpa di Monica potevo vedere soltanto sfumature e contorni confusi, non riuscivo a ricordare quand’era stata l’ultima volta che gli avevo detto di volergli bene. Forse non era mai successo. Qualche volta lo abbracciavo, ma sempre a fatica. Non mi veniva. Con la mamma invece sì, con lei era facile, naturale. «Babbo…» lo interruppi, facendomi forza. «Sì?» «Che lavoro hai fatto oggi?» Lui ammutolì. Quella domanda l’aveva colto alla sprovvista, come del resto aveva sorpreso me mentre gliela facevo. Doveva essersi sentito inaspettatamente catapultato al centro della mia attenzione. «Che lavoro… oggi?» domandò titubante. Nel frattempo, spostando lo sguardo dal telefono alla piazza, intravidi la sagoma sfocata di Monica che si aggirava carponi nei pressi del furgone dei salumi e dei formaggi, con il sedere all’insù e il naso vicino all’asfalto. «Oggi abbiamo gettato… sì, abbiamo gettato. Lo sai cosa vuol dire gettare?» «No. Cosa vuol dire?» mi sforzai, e intanto stringevo gli occhi, cercando invano di mettere a fuoco i contorni della mia amica, per capire cosa stesse facendo. Un attimo dopo, le sagome di una donna e di un bambino si avvicinarono al furgone. La donna ordinò qualcosa al commerciante, e il bambino si accostò a Monica. Lei si tirò su per parlargli, togliendosi i capelli dalla fronte, e a me si fermò il fiato in gola, bloccato da una gelosia improvvisa. «Ecco, abbiamo gettato» continuò il babbo. «Cioè… abbiamo messo il calcestruzzo nella… nella forma, dentro la forma che… Insomma, abbiamo gettato: come te lo posso spiegare? Vediamo… 15


No, no, per telefono non ci riesco. Facciamo che venerdì, quando vengo, te lo faccio vedere con un disegno, va bene?» Ero irritato dall’audacia di quel bambino e da quella socievolezza che in realtà gli invidiavo. «Va bene» dissi poi nella cornetta. «È che così a voce non ci riesco proprio a spiegartelo…» Il babbo non era abituato a parlare. Era uno che lavorava con le mani. Un muratore, uno di quelli bravi e che gli piace il lavoro che fa. Era bastato poco per farlo contento, per farlo sentire importante. Ma non riuscivo ad andare oltre. Avrei voluto dirgli quelle parole che mi risultavano tanto difficili da mettere insieme, ma mi trattenne la vergogna; poi Caterina mi diede un colpetto sul braccio per farmi capire che era arrivato il suo turno. La mamma infilò altri due gettoni. Tlic-Tlac. Tlic-Tlac. Salutai il babbo, e sgusciai fuori dalla cabina, mentre mia sorella afferrava la cornetta e dava voce al suo saluto: «Ciao babbo, come stai? Non vedo l’ora di vederti…». Lei sì che ci sapeva fare con i sentimenti. Mi avvicinai a Monica e a quel bambino che avvertivo già come un nemico. Erano lì, a pochi metri dalla cabina, piegati a testa in giù, a osservare l’asfalto bernoccoluto della piazza. «Cosa fai?» le chiesi, e piegandomi accanto a lei per guardare più da vicino, capii: una fila di formiche dai contorni indistinti avanzava sbisciolando di qua e di là. «Guardiamo le facce delle formiche» disse il bambino prendendo la parola al posto di Monica, e quando sollevò la testa mi ricordai di averlo già visto al Bagno Delfino, sotto un ombrellone che si trovava dall’altra parte della passerella rispetto al nostro. Mi sorrise: «Mi chiamo Michael. E tu?». «Corrado» dissi dopo un attimo di esitazione. «Lei mi ha detto che abitate in via degli Olmi.» «Sì. Perché?» 16


Prima di rispondere, Michael mi fissò per alcuni istanti, in silenzio, come per studiarmi, facendo poi lo stesso con Monica. «Che c’è?» chiesi. «Siete del Bagno Delfino?» «Perché, ci vai anche tu?» dissi fingendo di esserne sorpreso. «Sì! Domani possiamo giocare insieme! Mia mamma mi ha comprato degli stampini nuovi. Ho anche due rastrelli e tre palette. Possiamo fare un castello.» «Sì!» esclamò Monica rapita, e io mi limitai ad assentire con un cenno del capo, mentre la mia insofferenza nei suoi confronti veniva scalfita da un impeto di simpatia. In quell’istante, la madre di Michael lo chiamò. «Devo andare. Ci vediamo in spiaggia» disse lui, e corse via. Tornai a guardare le formiche insieme a Monica. «Ce ne sono tante che sono ancora piccole, vedi?» mi disse. «No.» «Quelle più grandi invece sono le mamme e i papà. Stanno andando tutte a casa» continuò lei, indicando una crepa nell’asfalto a ridosso della cabina, dove via via si inerpicava la fila di insetti, per sparirvi dentro. «Magari invece sono formiche piccole e basta, e quando entrano in quel buco muoiono tutte» dissi io per indispettirla. Monica allora mi guardò disgustata. I suoi lineamenti si misero a danzare. «No» disse sicura. «Ci sono le mamme e i papà! In alcune famiglie invece c’è solo la mamma.» Poi si aggrappò al mio braccio per tenersi in equilibrio e tradì il cruccio con un sorriso, come al suo solito. Tornammo a osservare le formiche, e in effetti, anche ai miei occhi miopi, alcune di loro sembravano più grandi delle altre. Quando la mamma e Caterina uscirono dalla cabina, alla mamma cadde per terra il sacchetto dei gettoni. Si sparsero dappertutto, rotolando via uno più veloce dell’altro. Io e Monica ci piegammo sull’asfalto per raccoglierli uno a uno, mentre Caterina sbuffava e la mamma ci indicava quelli scappati più lontano. Fu un gioco che ci piacque molto, di quelli nati per caso. 17


Dopo avere recuperato l’ultimo gettone da una buca nell’asfalto, mentre la mamma non guardava me lo nascosi nella tasca dei boxer. Monica se ne accorse, ma non disse niente, e mi fece una smorfia di intesa. Volevo tenerlo segreto, e poi usarlo, magari il giorno dopo, per telefonare al babbo e dirgli che anch’io gli volevo bene, ma da solo, senza Caterina e la mamma che mi facevano vergognare. Quel gettone, però, rimase nei miei boxer il giorno seguente, e quelli dopo ancora. Mi ricordai di lui e del mio proposito solo quando la mamma me lo mostrò insieme ai bermuda appena usciti dalla lavatrice. «Porca l’oca, Corrado! Perché non controlli mai le tasche prima di mettere via i panni sporchi?» Era venerdì, e il babbo era appena arrivato. A mia sorella aveva portato un Mini pony e a me un sacchetto di soldatini della Russia. Aveva una camicia a scacchi, i pantaloni corti e un paio di occhiali da sole con la montatura di metallo. Indossava degli zoccoli dalla suola spessa. Sembrava uno di quei turisti tedeschi che frequentavano Marina. Una cosa che ricordo bene del babbo sono le dita dei suoi piedi. Bianche e grassocce, con un arsenale di unghie giallognole e appuntite. Mentre dava un bacio alla mamma, quelle sue dita paffute sfregarono avanti e indietro contro la suola, come in preda a un prurito ingovernabile. Il babbo faceva così ogni volta che era emozionato e non voleva darlo troppo a vedere. Dopo aver dato un bacio anche a Caterina, mi scompigliò i capelli e mi accarezzò una guancia, e io non riuscii a dirgli altro che: «Giochiamo a calcio?». Senza dire niente, uscì in cortile, afferrò il pallone e lo calciò delicatamente verso di me. «Tu chi vuoi essere?» mi domandò. E io allora, con tutto il fiato che avevo in corpo, gridai: «Altobelli!» e corsi verso il cancelletto, piazzandomi a qualche metro da lui, prima di passargli di nuovo il pallone e sentirmi gridare di rimando: «E io sono Baresi!». 18


Mentre giocavamo, ogni volta che mi ritrovavo ad aspettare un passaggio del babbo, gettavo uno sguardo fugace verso il cortile di Monica, da cui provenivano la sua voce e quella di Vincenzo; di tanto in tanto scorgevo l’ombra della mia amica sfrecciare al di là dell’edera, ma poi la vidi placarsi, e a poco a poco, un passaggio dopo l’altro, mi accorsi che si stava avvicinando al punto della rete da cui ero solito sbirciarla, finché scorsi il suo occhio verde guizzare tra le foglie, intento a osservare me e il babbo mentre giocavamo. «Il mio papà ormai non viene quasi più» mi aveva detto una volta mentre tornavamo a casa dalla cabina del telefono. «Però con mio fratello mi diverto lo stesso, sai? Quando la mamma lo lascia uscire ci inventiamo delle avventure!» La vista di quello sguardo muto, insieme alle risate di Vincenzo che intanto continuava a scorrazzare per il cortile intento in chissà quale gioco immaginario, mi tramutò l’entusiasmo in malinconia. Così, anziché ricalciare la palla al babbo, tornai verso il portico e gli dissi che ero stanco, senza trovare il coraggio di gettare a Monica un’ultima occhiata. Con lo stomaco stretto, mi avvinghiai a una gamba del babbo, e lui mi fece un’altra carezza sui capelli. «Allora, cosa mi racconti di bello?» mi disse. E io, senza dargli ascolto, gli domandai: «Che cos’è una gettata?». Dopo un attimo di smarrimento, dovette ricordarsi della nostra conversazione al telefono, e mi accompagnò dentro casa. L’ultimo chiarore del crepuscolo si faceva strada attraverso gli scuri, illuminando il soggiorno di un bagliore color indaco. Caterina era in bagno a lavarsi i capelli. Lo capivo dal suono ovattato del getto d’acqua dietro la porta, che lei chiudeva sempre a chiave. Il babbo raccolse un foglio e una penna dalla mensolina sotto il televisore, e si accomodò sul divano, facendomi segno di sedermi accanto a lui. La pentola dell’acqua borbottava sul fornello. Dalla padella del sugo saliva un profumo di basilico e pomodori. La tavola era già apparecchiata, e la stanza era avvolta da un silenzio 19


magico, che mi sembrava di non aver mai percepito prima. La mamma era rimasta fuori, seduta sotto il portico, per riposarsi un po’ prima di buttare la pasta. Sul selciato dall’altra parte della rete cominciò a risuonare uno scalpiccio dal ritmo regolare, e il fruscio della corda che fendeva l’aria. Io e il babbo eravamo da soli. Lui mi guardò, e sorrise. Uno dei suoi riccioli, sfuggito alla presa di quel gel azzurrino con cui si impiastricciava i capelli, gli penzolava accanto all’orecchio. Era buffo, così sorrisi anch’io. Lui allora spianò per bene il foglio, tolse il tappo alla penna e con le sue manone da muratore prese a tratteggiare i contorni di un quadrato, e poi quelli di un grande tubo, dal quale usciva un getto di calcestruzzo. «Ecco, guarda…» disse soddisfatto, indicando con lo sguardo il disegno che stava abbozzando. «Una gettata è questo.»


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