Viale dei giganti - Marc Dugain, estratto

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Isbn Edizioni via Conca del Naviglio, 10 20123 Milano Direzione editoriale: Massimo Coppola Editor e diritti: Sara Sedehi Redazione: Antonio Benforte, Linda Fava, Claudio Panzavolta, Raffaella Moltisanti Comunicazione: Valentina Ferrara, Giulia Osnaghi, Agnese Gracis Ufficio commerciale: Caterina Vodret, Simone Pappalettera Art director: Alice Beniero Grafica: Fabio Montagnoli www.isbnedizioni.it info@isbnedizioni.it © Éditions Gallimard, Paris 2012 © Isbn Edizioni S.r.l., Milano 2013 Titolo originale: Avenue des Géants

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Marc Dugain Viale dei Giganti Romanzo

Traduzione Chiara Manfrinato

Isbn Edizioni



A Florent, Héloïse, Roman Kamille ed Emmanuelle: la mia gioia.

A Bruno Jeanmart, psicanalista e filosofo, il mio più vecchio amico. Dalle nostre chiacchierate tardive è germinato questo libro.



ÂŤEssere, vuol dire essere incastrati.Âť Emil Cioran, Squartamento



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Come ogni mese, si lascia cadere pesantemente sulla sedia, e adesso gli sta di fronte. Tira fuori dalla borsa i libri, una decina. La maggior parte sono in edizione rilegata. Lui lancia uno sguardo veloce e li sistema davanti a sé. Lei sorride impercettibilmente, senza guardarlo in faccia. Da anni, evita di incrociare il suo sguardo, il che la obbliga a distogliere spesso gli occhi. China sovente il capo. In quelle occasioni, lui osserva come si amplia il solco della calvizie sulla nuca di lei. Ha i capelli lunghi ed è difficile dire se sono puliti. Anche quando lo sono, non lo sembrano. Dev’essere stata discretamente carina, per quanto sia possibile riconoscere i segni di un’antica bellezza dietro i suoi tratti gonfi. Anche lui è abbattuto, ma a ragione. Mentre lei, chissà. Gli piace quella donna. In effetti, è giunto alla conclusione che gli piace perché non prova niente per lei, né amore né odio. Ce l’ha con lei perché è la sola persona che va a fargli visita. Ce l’ha con lei a causa di tutti gli altri che non vanno mai a trovarlo, il che è un po’ ingiusto perché gli altri non ci sono più. Essendo piuttosto perspicace, ha notato che da un pezzo ha qualcosa da dirgli. Ma cosa? Non ne ha idea. Sente semplicemente il peso delle parole inespresse. Va al di là della timidezza. Non è mai veramente naturale davanti a lui. Fa compromessi. In modo impacciato. E la sua voce è spesso sfasata rispetto alle sue espressioni. A volte la sente illuminata, altre volte del tutto spenta. Ha grossi seni flaccidi a complemento di un décolleté grinzoso. Per essere una donna sulla sessantina, trova non sia 9


proprio in forma smagliante. Ma non accende le sue fantasie, e di questo le è grato. Un motore senza benzina non tira. «Ha parlato con i giornali a cui accennavamo?» Ci mette un po’ a rispondere. Niente di straordinario, ci mette sempre un po’ a rispondere, come se sentisse il peso della responsabilità. «Sì. A diversi giornali della costa. Sono, come dire… incuriositi. Ci stanno riflettendo. Ma credo si possa fare.» Ricomincia a muovere gli occhi. Quando fa così, le frantumerebbe la testa con un pugno, ma in fondo non ne ha voglia. E poi, mentre lei continua, con quella sua voce che sembra quasi voglia scusarsi di uscire da una bocca così piccola per un viso tanto grande, pensa ai guai che ne scaturirebbero. Deve avere sangue indiano. Non un sangue recente, ma che risale ai primi del secolo, all’epoca in cui i nativi furono fatti fuori. «Per loro è un po’ rischioso, capisce?» «Intende come critico letterario?» «No. Riguardo a quello, si faranno un’opinione. Si tratta piuttosto di rivelare la sua identità. E se non la rivelano, un giorno potrebbe rivoltarglisi contro. Allo stesso tempo, se lo facessero, sarebbe un bel colpo. Insomma, sono i media…» Annuisce di tanto in tanto, come se la conversazione non gli interessasse più. Ha sempre fatto così. È un modo per esercitare il proprio ascendente sugli interlocutori. Poi cambia idea: «Ho letto molti critici in vita mia. Non ho niente da invidiargli. Dall’inizio degli anni settanta, ho divorato 3952 libri. Letture approfondite, sfido chiunque a negarlo. Questo mi autorizza ad avere un’opinione sulla letteratura? Be’, credo di sì». «Mi hanno detto che la vedono meglio come critico di thriller.» Si sforza di non lasciare trapelare il nervosismo per non spaventarla, perché si spaventa facilmente. «Sarebbe un colpaccio. Ma ditegli che i thriller non mi interessano. Per niente. Troppe convenzioni, luoghi comuni, enigmi privi di interesse.» Restano in silenzio per un pezzo, senza guardarsi. Nella stanza 10


non c’è nulla su cui fissare lo sguardo, così entrambi ispezionano la parete di fronte. È già stufo di lei, ma si controlla, non vuole che lo percepisca, non ha colpe. D’un tratto, esplode: «Gli sciorini le cifre. 3952 libri dal 1971 a oggi. E se vuole farli ridere, aggiunga che fino ad allora ne avevo letto solo uno. Tre volte. Indovini quale». Risponde: «La Bibbia?». «No, Delitto e castigo. Un vero capolavoro. Non credo sia mai stato scritto niente di meglio.» Glielo legge in faccia, lei si sta chiedendo se non sia una battuta. Ha un bel naso dritto e gli occhi di un colore originale. Ma sprigiona l’odore della paura, come un cadavere sprigiona l’odore della morte. Una paura dell’esistenza in generale. Per questo si cosparge di patchouli, per nasconderlo. Di sicuro riesce a ingannare molta gente. Ma non lui. Riprende a esaminare i libri che gli ha portato. Ci trova un intruso. «Cos’è questo libro per l’infanzia?» «Una proposta. Ci siamo accorti che non abbiamo registrazioni per l’infanzia. E i bambini ciechi sono tantissimi.» «L’ha fatto apposta?» Lei inizia a sciogliersi come un gelato sotto il sole, si asciuga la fronte con il dorso della mano. Non capisce di cosa stia parlando. «Probabilmente non sa che mia nonna scriveva libri per l’infanzia» dice pacatamente per rassicurarla, visto che è diventata di un rosso preoccupante. «Ma non si tratta solo di questo. Mi ci vede a registrare cd per bambini con la voce che mi ritrovo? Bisogna essere disperati per concepire un’idea del genere. E mettersi nei panni di un bambino, quando io stesso non ho avuto la fortuna di vivere un’infanzia, è un lavoraccio. Non ho questo dono.» Lo incalza, velocissima: «Lei ha vinto molti premi per le sue letture. L’editore vuole lei, cioè… noi vogliamo lei». Crede di lusingarlo. Ma lui non ha più l’età, anche se va fiero dei suoi riconoscimenti. Le promette che ci proverà, non gli costa niente e farà tutti contenti. Gli piacciono i compromessi. Può sembrare stupido, ma gli 11


danno un vero piacere. È convinto che se tutti accettassero di incontrarsi a metà strada, si eviterebbero i conflitti. Lo dice spesso durante le sue prediche ai ragazzi. Nel momento stesso in cui nella vostra testa prende forma l’idea del compromesso, la violenza ha perso. Se proprio non avete voglia di arrivare a metà strada, basta un solo passo verso l’altro e vi siete lasciati la violenza alle spalle. Non vuole più discutere di questa storia dei libri per l’infanzia, va bene, ci proverà. Diversamente gli sembrerebbe di obbedire al passato, e non vuole farlo mai più. «I bravi critici capiscono che girare attorno all’argomento è più essenziale dell’essenza stessa dell’argomento. È quello l’autentico viaggio della letteratura. Se dovessimo sciropparci migliaia di pagine solo per il contenuto, dove sarebbe l’interesse? Ho sentito tante di quelle idiozie su gente che non le meritava. Leggendo quello che Mary McCarthy o Henry Miller, incapaci di andare oltre la superficie, hanno scritto su Salinger, mi faccio delle domande sulla pertinenza dei loro giudizi e finisco col chiedermi se questa non sia forse l’ammissione della mediocrità dei loro stessi scritti. Alle volte mi manda così in bestia! Sorvolo su tutto quello che ho letto a proposito di Carver. Certo, ora gli hanno attribuito un posto nel Pantheon, e per poco non l’hanno addirittura seppellito nella tomba di famiglia di Cˇechov, ma me lo ricordo quando blateravano del suo minimalismo. C’era bisogno che morisse. Quelli preferiscono le mummie ai vivi. Facciano come vogliono, ma che non contino su di me per i thriller, intesi? È un genere minore, disprezzabile. Nemmeno il più dozzinale dei thriller è capace di rappresentare il dieci per cento della realtà di cui parla.» Lo dice senza alzare la voce. È raro che alzi la voce. I suoi scatti d’ira esplodono in una camera di decompressione. Quando è in collera, è il solo a saperlo. «Se non vuole il libro per l’infanzia…» Per lui la questione era risolta. Perché ci torna sopra? Ne ha conosciuta di gente come lei, persone incapaci di fare un passo avanti senza guardarsi indietro. «Ho detto che lo leggerò.» Lei sfodera un sorriso penoso. Poi scruta l’orologio e sorride di nuovo per scrollarsi di dosso il suo sguardo insistente. Lo prende 12


come una cattiva intenzione, ma è solo che è stufo di fissare il muro alle spalle di lei. «Quando tornerà?» D’un tratto, sembra sollevata. «Tra quattro settimane.» Potrebbe negarle l’accesso. Basterebbe inoltrare la domanda all’am­ministrazione. In quel caso, verrebbe solo per lasciare i libri. Certo, potrebbe, ma sarebbe un abuso di potere. A volte prova una collera sor­da all’idea di essere condannato a incontrare quell’unica donna dai capelli giallo paglierino. Di sicuro si droga. È il tipo che a colazione tiene una canna in una mano e un caffè nell’altra, e che si dimentica di mangiare. Deve bere bibite gasate tutto il giorno, intervallate da un hamburger che si è impregnato di tutto il grasso della piastra. Da quando viene a fargli visita, una trentina d’anni, non gli ha mai confessato niente di personale sul suo conto, cosa di cui le è grato. Non l’avrebbe sopportato. Difficile da spiegare, ma l’avrebbe presa male. Può accettare una relazione professionale, ma nient’altro. Tiene d’occhio i suoi tentativi di confidenza per soffocarli sul nascere, e lei lo sa. E non ha mai fatto passi falsi. È tempo di concludere: «Può procurarmi un cd la prossima volta? Ma glielo dico subito, non posso pagarglielo». È troppo contenta di potergli fare un piacere, annuisce convulsivamente. «Perfetto» dice alzandosi. «Tutto quello che trova di Skip James. Ma soprattutto Crow Jane e I’d Rather Be the Devil.» Gli promette che se ne occuperà e si alza anche lei. Fa fatica a tirarsi su dalla sedia. Dipende certamente dall’obesità che le pesa sulle ginocchia. Lui le volta le spalle, solleva la mano in segno di saluto, china la testa per attraversare la porta e lascia la stanza sistemandosi gli occhiali. Un uomo rispettato può avvalersi di qualche piccolo privilegio. Tra i suoi, c’è quello di andare a recuperare personalmente la posta. Il capo gliela porge con un sorriso. Vorrebbe avere a che fare esclusivamente con tipi come lui. Non passa giorno senza che riceva una lettera. Non potete immaginare il piacere che prova quando apre 13


la posta, sapendo che non conterrà cattive notizie. Riceve due tipi di lettere. Perlopiù, sono ringraziamenti degli ascoltatori, lettere scritte non da loro, ma dettate a un parente o a un amico intimo. Lo ringraziano per la dedizione con cui legge i libri, per le intonazioni che, dicono alcuni, sono degne dell’Actors Studio. Apprezza il complimento, anche se non gli piacciono gli attori. Non si fida di quelli che, per mestiere, si fingono qualcun altro. Prima o poi finiscono per non sapere più chi sono. L’empatia non è il suo forte, e crede sia meglio ammetterlo piuttosto che fingere, e tuttavia è animato da buoni sentimenti nei confronti di tutti quei ciechi che lo ascoltano. Immagina che sofferenza sia essere ciechi, soprattutto negli Stati Uniti, il paese con i paesaggi più belli del mondo, ma per fortuna chi è nato senza il dono della vista non sa cosa si perde. Oltre ai ciechi, sono le ammiratrici a scrivergli. Le lettere sono spesso piccanti. Mandano sempre una fotografia. Una fototessera o un ritratto a figura intera. Alcune posano addirittura nude, abbracciando tutte le sfumature possibili, dall’erotismo alla pornografia più oscena, con grossi primi piani delle parti intime. Trova la cosa disgustosa. Le lettere che le accompagnano sono spesso assurde, e preferisce non parlarne, per non dare un’immagine patetica del genere umano. A dirla tutta, le considera corvidi appollaiati sul guardrail di un’autostrada, affascinati dalle spoglie di un animale selvatico investito, in attesa dell’attimo propizio per andarlo a becchettare tra due camion che passano ad alta velocità. L’amministrazione non apre mai la sua posta. È per questo che gli arrivano le foto. Le conserva sulla mensola, ma a dire il vero non le guarda mai. Di tanto in tanto ne straccia qualcuna. A cavallo del secolo, una decina d’anni fa, una donna gli ha scritto per dichiarargli il suo amore e chiedere la sua mano. Ha allegato alla lettera una foto di scarsa qualità, ma il suo volto piuttosto regolare, che però difficilmente avrebbe potuto essere definito bello, era pieno di piercing: anelli di varie dimensioni sulle orecchie, sul naso, sulla lingua. Ha mostrato la foto a un nuovo arrivato, che gli ha detto che in giro c’era parecchia gente piena di piercing. È rimasto perplesso per una buona mezz’ora prima di risolversi a scrivere alla donna che abitava a Reno, nel Nevada. «Non capisco perché sia interessata a me. Non ho mai avuto 14


intenzione di sposarmi, e oggi ne ho ancor meno che in passato. Dalla sua fotografia traspare una donna volgare, inutilmente perforata. Non so cosa immagini, nel suo delirio di donna malsana e squilibrata, e non voglio saperlo. Non sono più l’uomo di trent’anni fa, e neppure a quell’uomo sarebbe piaciuta. È la prima e l’ultima volta che rispondo a una sua lettera, io e lei non apparteniamo allo stesso mondo, se lo ficchi in testa una volta per tutte.» Non ha mai più avuto sue notizie.


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Il giorno in cui Lee Harvey Oswald mi ha rubato la scena, niente suggeriva che fosse novembre in quella parte della Sierra Nevada. La natura che circondava la fattoria dei miei nonni era brulla, ma gli alberi che punteggiavano la collina di fronte non cambiavano colore in autunno. La giornata era cominciata come tante altre. Prima di alzarmi, mi ero masturbato due volte nel letto. Una vecchia ricetta per iniziare la giornata nella pace dei sensi. Avevo appena finito quando mia nonna si era messa a strillare che dovevo alzarmi. Poi era entrata nella stanza senza bussare. Ho avuto giusto il tempo di tirarmi addosso la coperta. Con voce fintamente affabile e senza guardarmi, ha detto: «Con questa bella giornata, dovresti andare a fare un giro senza perdere altro tempo». Non l’ho presa male come quella volta in cui ho pensato che l’avrei uccisa perché si era invitata in camera mia proprio a due secondi dalla liberazione. Non ero mai stato assalito da un simile impeto di violenza. Mi sono alzato, ma non subito. Non ricordo se fosse un giorno della settimana o del weekend. Non dovrebbe essere difficile verificarlo: il 22 novembre è una data piuttosto memorabile. Tre giorni prima avevamo festeggiato il mio compleanno con lei e il nonno. La vecchia aveva fatto una torta che sapeva di plastica fredda. Il vecchio aveva scartato il suo regalo con gli occhi lucidi: un fucile Winchester calibro .22 Long Rifle. «Per cacciare i conigli e le talpe» aveva precisato, mettendomi sul braccio la sua mano, che mi era sembrata molto vecchia e rugosa, nonostante avesse solo settantun anni. Era un brav’uomo, ma 16


non mi piaceva perché di fronte a mia nonna diventava un cagnolino. Lei passava il tempo a impartirgli ordini come fosse un garzone di fattoria, con tono democratico per non umiliarlo. E il vecchio obbediva. Quando incrociava il mio sguardo sprezzante, abbassava gli occhi e mi accordava un sorrisetto penoso che voleva dire: Cosa c’è di meglio che obbedire alla donna che si è amata? Eppure tutto sarebbe stato meglio di quella schiavitù. «Al, è un .22, sai cosa significa. È un calibro che va lontano, penetra velocemente, ma è troppo piccolo per la grossa cacciagione, per quelle povere bestie sarebbe una sofferenza atroce.» Restavano i conigli, le talpe, al massimo le lepri. Mia nonna si era alzata di scatto per aggiungere, con quell’aria di superiorità che riusciva a ostentare benissimo: «Se ti vedo sparare agli uccelli, ti tolgo il Winchester e lo getto nel fuoco». Caschi male, vecchia! Sparare ai conigli è una palla mortale. Ce ne sono a bizzeffe e si rannicchiano tra le siepi pensando di essere al sicuro e poi, quando si muovono, non hanno mai fretta. Gli uccelli invece, accopparli è una goduria, tranne quando sono appollaiati su un ramo, chiaro. Quel regalo mi aveva sorpreso. Mia nonna si era per così dire opposta, con la scusa che a dispetto delle mie capacità non studiavo abbastanza. Che me ne fregava delle mie capacità? I test avevano dimostrato che avevo un qi superiore a quello di Einstein. E nonostante quel potenziale, galleggiavo sulla sufficienza, niente di più. Per mia nonna era uno spreco, e lei detestava gli sprechi. Non si poteva non finire quello che c’era nel piatto, lasciare la luce accesa in una stanza vuota, far gocciolare un rubinetto, usare troppa carta igienica per pulirsi, non avere il voto più alto in tutte le materie, cose così la mandavano fuori di testa. Aveva continuamente problemi all’utero. Era il suo argomento di conversazione preferito, dopo i suoi libri per l’infanzia. Che non ho mai letto, perché quando sono arrivato da lei non ero più un bambino e peraltro non nutrivo alcuna curiosità per quello che poteva scrivere o illustrare. Doveva essere di una stupidità desolante. Il suo utero era regolarmente minacciato dalle cisti benigne che, non appena apparivano, venivano rimosse da operazioni. Contava gli interventi come altri contano le medaglie. Non ho mai sopportato il suo vantarsi di quei tumori ricorrenti, né quel suo bisogno puerile di essere considerata una donna coraggiosa dinanzi a una malattia innocua. 17


Non avevo ancora provato il Winchester. L’avevo lasciato sul tavolo ai piedi del letto, tra i libri di scuola. Era un’arma leggera con la canna nera, opaca. Mi attraeva, ma non osavo toccarla. La mattina del 22 novembre sono sceso per fare colazione. Mia nonna puliva l’acquaio. La sentivo trattenere i rimproveri per non essermi alzato alla sua prima ingiunzione. Ci siamo fissati per un pezzo. Poi mi ha chiesto cosa contavo di fare, visto che avevo la giornata libera. La scuola aveva organizzato un’escursione di rafting e io mi ero fatto dispensare come al solito. Era una brutta giornata, una di quelle mattine in cui senso di oppressione e apatia convivevano; ci avevo fatto il callo. «Perché non vai a caccia? I conigli mi mangiano tutte le piantagioni…» Era un’idea come un’altra, ma non avevo voglia di compiacerla. Poi ha aggiunto: «Cinque centesimi per la talpa, dieci per il coniglio», come se fossi una persona venale. Il cane di casa, un vecchio setter inglese sfiancato, scodinzolava già di fronte alla prospettiva, evidentemente così allettante da fargli dimenticare i reumatismi. Sono risalito nella mia stanza e ho caricato l’arma metodicamente, infilando i quindici proiettili in una camera posta sotto la canna. Poi mi sono lavato i denti e le ascelle con l’acqua fredda. Ho indossato la giacca militare di mio padre, il solo indumento al quale tenevo e che non mi faceva sembrare così alto da sfiorare il cielo. A quindici anni, superavo già mio padre di otto centimetri e non mi rallegravo all’idea di andare per i due metri e venti. Non potevo più passare da una porta senza chinarmi, e dovunque andassi la gente si voltava a guardarmi. Seduto, in classe, ero alto quanto il professore in piedi e gli sguardi che convergevano su di me erano quelli che si lanciano a una bestia curiosa. Alle volte sognavo di essere basso, lo zimbello di quelli grandi e grossi, un bambino maltrattato che si attira i favori di una ragazza misericordiosa. Ma nessuno osava darmi fastidio e se di tanto in tanto le ragazze mi fissavano soffocando la ridarella, era perché si domandavano se le dimensioni del mio sesso fossero proporzionate al resto. Non invento niente. Un giorno, in corridoio, durante la ricreazione, ho veramente captato una conversazione del genere. I miei compagni non sono mai stati indulgenti con me. Mi consideravano uno studente a parte, una cima misteriosamente elevata, e le spesse lenti da miope non facilitavano 18


il contatto, perché i miei occhi si distinguevano solo nella sfocatura dei doppi vetri. Tutto mi sembrava semplice a scuola, e quando vedevo quegli sportivi senza cervello sudare sette camicie di fronte a un’equazione di primo grado, nutrivo solo disprezzo per i miei compagni. I più parlavano solo di rafting, vivevano solo per il rafting. Cosa c’era di bello nel gettarsi da una rapida rischiando di annegare? Non l’ho mai capito. Il professor Abott mi guardava con la stessa espressione afflitta di mia nonna. Non capiva perché sprecassi le mie doti. Un giorno, per dirmelo, mi ha perfino convocato nel suo ufficio al primo piano che somigliava alla grotta di un esploratore. Si vociferava che Abott a volte ci dormisse, per non tornare a casa dalla moglie. Al punto che la donna si era convinta che avesse un’amante. Abott, un’amante… che assurdità. Ma non erano affari miei. Per un tipo della mia stazza, era un’impresa riuscire a trovare un posto in cui sedersi nel suo loculo. «Kenner, sai bene che le tue doti intellettuali sono di gran lunga superiori alla media, allora qual è il tuo problema?» Era una domanda assai imbarazzante, che secondo me non richiedeva una risposta. «Non lo so.» «Ti rendi conto di cosa potresti diventare se ti impegnassi? Ecco, dimmi, cosa vorresti fare da grande?» «Da grande?» Ho sorriso, per la prima volta da tanto tempo, e mi sono tirato su gli occhiali squadrati, tuttora il mio preliminare prima di iniziare a parlare, poi ho detto: «Non ho mai pensato a quando sarò grande, professor Abott. Qualcosa mi dice che non sarò mai grande». «Ma dovrai pur avere dei desideri, Kenner, no?» «Desideri?» Rispondere mi costava un bel po’. Non per la domanda in sé, ma perché davanti a me vedevo quell’aborto con il farfallino sfatto che alle volte dormiva in quel tugurio per sfuggire alla moglie, e non credevo fosse legittimato a intrattenermi sui miei problemi, né tanto meno a risolverli. «Professor Abott, non è con lei che voglio parlare di cosa vorrei o non vorrei fare.» 19


Si è aggiustato il farfallino. «E perché, Kenner?» Gli ho lanciato uno sguardo intenso, senza aggiungere niente e senza muovermi. Si è messo a dondolare, prima su una gamba, poi sull’altra, finché non l’ho visto scomporsi. La mia massa gli sbarrava l’accesso alla porta e io restavo lì, immobile e muto. Quando ho visto che cominciava a sudare, ho pensato che quella messinscena fosse durata abbastanza, mi sono alzato e sono uscito. Non ha più provato a parlarmi del mio futuro. Penso abbia passato parola agli altri professori, perché nessuno di loro ha mai cercato di affrontare quell’argomento con me. Con chi puoi parlare della noia che ti assale da mattina a sera, che corrode meticolosamente la tua volontà al punto da uccidere qualsiasi azione sul nascere? Non mi sono fatto nemmeno un amico nei due anni passati a North Fork. Non avevo mai voglia di parlare con nessuno, e doveva essere palese, tant’è che mi evitavano tutti accuratamente. Sapevo che di tanto in tanto giravano maldicenze sul mio conto, ma non mi importava. Ero insensibile al giudizio degli altri, alle loro moine, alle loro vite tristi in quella città che si vantava di essere l’ombelico della California. Cominciava la guerra in Vietnam e mi sarei volentieri arruolato per fare onore a mio padre, un gran combattente della Seconda guerra mondiale. Ma avevo una paura viscerale della violenza fisica. Tutte le volte che a scuola scoppiava una zuffa, rendevo grazie al Creatore per la mia stazza, che mi teneva lontano dalle risse. Me la sarei fatta sotto davanti al primo piccoletto intenzionato a menarmi. Il mio solo legame con la comunità erano le mie fantasie sulle ragazze. Uno spazio di libertà, una zona franca. Nei sogni facevo di loro quello che volevo e nessuno poteva dirmi niente. Le fantasie governano il mondo. Durante l’amplesso, sono in molti a non avere in testa la persona che stanno possedendo, ne sono certo. Consideravo la mia immaginazione come una sorta di superiorità, perché nei sogni me le sono fatte tutte, le insegnanti e le studentesse, le belle e le brutte: le deliziavo e, a loro insaputa, ero la fonte di piaceri che nessun altro essere in carne e ossa avrebbe mai potuto offrire loro. Negli occhi di tutte quelle ragazze vedevo il fastidio che provavano a essere possedute da me così a lungo. Le 20


mie fantasie mi bastavano. L’idea di andare veramente a letto con una ragazza non mi sfiorava mai, non solo perché sapevo che sarebbe stato difficile trovarne una che accettasse, ma per una questione di controllo. Nelle fantasie avevo il pieno controllo, ma cosa sarebbe potuto succedere nella realtà? Tutto avrebbe potuto degenerare, o chissà che altro. Con Ava Pinzer era diverso. Qualcosa ci ha legati fin dal principio. Anche lei era alta. Non quanto me, ma troppo per una ragazza, oltre il metro e ottantacinque, il che la rendeva particolare. Ci abbiamo messo tre mesi per parlarci. Quando ci incrociavamo nei corridoi della scuola, dalla mia altezza vedevo solo lei, e lei vedeva solo me. Non avrei mai fatto il primo passo. Neppure lei. Ci capitava di scambiarci un sorriso di complicità. Mi sono deciso a parlarle perché aveva già la patente e i genitori le avevano comprato una vecchia Dodge blu per tornare a casa, che era abbastanza lonta­na da North Fork. L’autobus della scuola non passava dove abitavano. Arrivata al capolinea, le restavano sei chilometri: una metà sul bitume, l’altra su una strada sterrata che conduceva a un borgo di cercatori d’oro, dove delle cinque case esistenti all’epoca del massimo splendore ne restava solo una. Questo fu il frutto della nostra prima conversazione. Uscendo da scuola, ci eravamo trovati incollati l’uno all’altra nella ressa, e aveva attaccato bottone. Non era né bella né brutta e la cosa mi andava più che bene. Aveva il naso e i piedi piuttosto grossi, ma nel complesso era abbastanza femminile. Detesto le donne mascoline. Sono più a disagio di fronte a una donna virile che a un uomo effeminato. Ho il terrore delle donne mascoline. Ava, che si chiamava così per via di Ava Gardner, aveva un cognome tedesco, come me. La cosa avrebbe dovuto avvicinarci, ma ce ne infischiavamo. Non ne sapevo molto delle mie origini e nemmeno lei conosceva bene le sue. Avrebbe significato conoscere le ragioni che avevano portato i suoi genitori in quel buco sperduto, e non ne aveva troppa voglia. Quanto a me, ricordavo che, prima di arruolarsi nelle forze speciali durante la guerra, mio padre era stato oggetto di una lunga indagine della polizia militare sulle sue origini. Il che non gli rendeva di certo simpatico il suo cognome, tanto più che negli anni sessanta a nessuno importava della Germania. Ma dato che nessuno osava nemmeno prendermi 21


in giro, non avevo sofferto a causa di quel cognome. Ai suoi genitori sono andato subito a genio, per via della sensazione di sicurezza che trasmettevo. E poi, accanto a me, Ava sembrava minuta, e quindi più femminile. Erano due brave persone. Suo padre era un fresco pensionato della forestale e sua madre sembrava il ritratto della fame. Coltivavano un appezzamento di terra intorno alla casa, il che permetteva loro di vivere in una semiautarchia alimentare. Hanno provato molte volte a trattenermi per la cena, ma non ho mai accettato. Sapevo che appartenevano a una specie di chiesa, che la preghiera rischiava di durare secoli, e all’epoca non apprezzavo quel genere di sciocchezze. Anche se non ero ateo, non sopportavo che mi si parlasse di Dio, lo trovavo osceno. Ava era come me. Viveva senza uno scopo preciso. Non c’era niente che la motivasse particolarmente. Detestava lo sport, ma non disdegnava le lunghe passeggiate nei pressi di casa, sulle colline secche dall’erba schiacciata, costellate di conifere, dove di tanto in tanto era possibile sorprendere un orso o un cervo. Non parlavamo molto, e mi piaceva per questo. Era pacata, diversamente da tutte le ragazze narcisiste della scuola che sfondavano i timpani ai ragazzi blaterando dei loro sogni da reginette di bellezza. Mi riaccompagnava spesso a casa in macchina e, contrariamente ai suoi genitori pieni di attenzioni nei miei confronti, mia nonna le faceva giusto un cenno sprezzante con la testa. Mia nonna parlava male agli uomini e non apriva bocca davanti alle altre donne salvo quando, spinta da un interesse qualunque, si sentiva obbligata a conversare con loro. Anche se insieme, io e Ava coltivavamo la solitudine perché non c’era alcuna posta in gioco. Ho smesso di vederla un giorno qualsiasi, una settimana prima del famoso 22 novembre. Eravamo andati a fare una lunga passeggiata silenziosa e non mi sentivo bene. Uno strano formicolio si era impadronito della mia testa e mi impediva di godermi la natura e la calma. Si è messo a piovere, una pioggia improvvisa e violenta che sferzava il suolo reso polveroso dalla lunga siccità autunnale. Abbiamo trovato riparo in una capanna di legno che nel secolo scorso doveva essere stata un rifugio per i cercatori d’oro. La porta era aperta, in balia del vento. All’interno era pulito, nonostante l’abbandono. Un divanetto di tela ruvida era addossato a una delle 22


finestre. Una tavola di assi faceva angolo. Ci siamo seduti aspettando che l’acquazzone finisse. Dopo un po’ che stavamo fianco a fianco, mi ha messo la mano sulla coscia. Non sapevo come reagire. Vedendo che non mi muovevo, ha allungato la mano verso il mio inguine e mi ha offerto le labbra, per fare le cose secondo l’ordine. Ero incapace di baciarla. Sono rimasto pietrificato per un pezzo mentre mi accarezzava. Ma non succedeva niente. Niente di niente. Ha suggerito che ci svestissimo, ma ho trovato l’idea bislacca. Ho lasciato che mi aprisse la patta e mi tirasse fuori il sesso. L’ha preso in mano come se fosse un pettirosso che si è appena spiaccicato contro una finestra. L’uccellino non tornava in vita, come se il legame tra il mio cervello e il mio corpo si fosse improvvisamente spezzato. L’ha guardato a lungo senza dire nulla. Avrei voluto piangere, ma avevo troppa dignità. Ho allontanato la sua mano, ma non violentemente, mi sono riabbottonato e sono uscito senza voltarmi. Siamo ridiscesi giù per la montagna, l’uno dietro l’altra, senza dirci una parola. Davanti alla casa dei suoi genitori, le ho fatto un cenno con la mano e me ne sono andato da solo, a piedi. Avrei preso a testate gli alberi che costeggiavano la strada. All’improvviso avevo capito: tutto ciò che era reale mi era vietato, e non sapevo assolutamente il perché. Nei pochi giorni prima del 22 novembre, l’ho accuratamente evitata a scuola.

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