La ' ter~ via'
di Mario Falciatore
Si è molto detto e scritto in questi ultimi tempi del Codice di Ca· maldoli(1). In realtà per troppo tempo è stato come se sopra di esso fosse stato disteso un velo di silenzio: tranne che per qualche sporadico accenno, frutto più di personali ricordi che di rimeditazioni critiche, del Codice e della sua importanza nella storia del movimento cattolico e in quella del nostro Paese, si doveva ricominciare seriamente a parlare solo verso la fìne degli anni Settanta. Sarebbe interessante approfondire i motivi di questa lunga parentesi apertasi, peraltro, dopo un periodo di discreta fortuna del testo a cui, nel corso dei lavori della nuova Costituzione, parecchi 'padri costituenti' di parte democristiana avevano più volte mostrato di essersi ispirati, come ha diffusamente documentato · il bel convegno di Milano del gennaio 1979 sul tema Democrazia cristiana e Costituente nella socie.tà del dopoguerra (2 ). Secondo un'interpretazione alquanto capziosa si vorrebbe ascrivere questo silenzio a una sorta di 'blocco' psicologico in molti di quelli che, formatisi nel clima del Codice, essendo stati, nel frattempo, chiamati a posizioni di governo o comunque decisionali-operative e trovandosi, quindi, nella concreta possibilità di applicarne i princìpi, si vedevano costretti dal quotidiano confronto con la realtà a doverli, invece, disattendere, se non in via definitiva, per lo meno in via interlocutoria. Non varrebbe neanche la pena di menzionare tale azzardata ipotesi interpretativa se non fosse, però, intimamente connessa con un'altra 1 ( ) Il presente articolo ripropone, con alcune modifiche e corredato di note, il testo di una relazione tenuta dall'Autore a Camaldoli il 29 ottobre 1983 nel corso di un Convegno di studi sul tema A quarant'anni dal Codice di Camaldoli: un nuovo progetto? 2 ( ) AA. Vv., Democrazia cristiana e Costituente, Atti del Convegno di studi, a cura di Giuseppe Rossini, Roma, Cinque Lune, 1980.
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Mario Falciatore più recente - e più grave - interpretazione in base alla quale gli anni successivi alla stesura del Codi ce sareb bero stati - prop rio sul pian o economico-sociale - quelli del ' tradi ment o ', del sogno che si infrange, dell'utopia che si allontana semp re più. Che il Codi ce avesse una comp onen te utopica è fuori di dubb io, ma si trattava dell'utopia di Capograssi, esten sore del capitolo sullo Stato, per il quale «le utop ie sono il mezzo e l'appoggio che le volontà si pren dono per porta r innanzi questo terrib ile lavoro della costruzione di questo mon do » (3 ). Cert o il Codice fu sopr attut to una grossa 'mol la ideale ', ma pare difficile si possa dimostrare che - passando dal pian o delle idee a quello dell'a zione - essa non sia mai scattata in nessuno di quelli che cont ribui rono a metterla in essere. Scrive la Paro netto Valier: Il Codice inten deva enucleare le motivazioni ideali e le verifiche tecniche che stann o a mont e del giudizio storico e della scelta politica, ma dalle quali né quel giudizio né quella tecnica posso no presc inder e. Esso appare dunq ue singolarmente impegnato e insieme disimpegn ato sul piano politico e si può affermare, con appa rente paradosso, che, almen o per taluni dei redattori, le enunciazioni del testo avevano un valore fonda mentale propr io perché, ricond ucen do su di un piano ideale (l'uto pia di Capograssi! ) le mete concrete e gli approcci operativi di una visione sociale ispirata alla dottrina cristiana, rendevano il cristiano più consapevol e e motiv ato e quindi più libero nelle 4 sue scelte ( ).
Se ciò è vero per il docu ment o nel suo comp lesso - ché alcune parti chiaramente e fortemente datat e come quelle sull'educazione e sulla famiglia non inficiano un giudizio globale - lo è ancora di più per quei capitoli che ne costituiscono l'asp etto più nuovo e per molti versi più eccentrico rispetto al pensiero tradi zionale cattolico, quelli cioè che riguardano l'economia e il futuro asset to economico-sociale da dare al Paese nel dopoguerra. Anch e chi - come Pasquale Saraceno - forse per inconscia modestia essendo stato con Paro netto e Vanoni l'este nsore di quei capitoli - avanza qualche riserva sull'interesse registrato intor no al Codice, non può però fare a meno di nota re che esso «suscitò riflessioni che molto influirono sulla posizione poi assunta e, in sostanza mant enut a, da alcuni di coloro che vi colla bora rono » (5 ). Alla luce di queste affermazioni non si vede, peraltro, come possa considerarsi il Codice un 'incu nam bolo ', una ' folgorazione' di un (3) G. CAPOGRASSI , Introduzione alla vita etica, Roma, 1976, p. 128. . ( 4 ) M. L. PARONETTO VALI ER, Il Codice di Camaldoli fra storia e utopia , in « Studm m », n. 1, 1978, p. 82. . . . . (5) P. SARACENO, Intervista sulla ricostru zione 1943-53, a cura di Lucio Villan , Laterza,
1977, p . 128.
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momento o di una brevissima stagione antiliberista velocemente dimenticata al momento di una presunta riconciliazione dei cattolici con il capitalismo. Del resto Agostino Giovagnoli, che pure teorizza nella sua ultima opera (6 ), una 'via cattolica al capitalismo', nega che la svolta del maggio '47, protagonista De Gasperi e la destra economica, abbia significato «un distacco totale e definitivo della classe dirigente cattolica dai suoi progetti di fondo, un 'tradimento' dei suoi effetti riformistici in campo economico-sociale». «Al contrario, è anch'essa indicativa della 'volontà politica' di questa classe dirigente e di alcuni uomini in particolare, come De Gasperi, una volontà tesa a perseguire, pur passando attraverso molte scelte contingenti, alcuni orientamenti di fondo». Occorre però anche onestamente aggiungere che Giovagnoli considera, d'altro canto, che « il prezzo di queste scelte contingenti fu assai elevato» e che «il condizionamento esercitato da svolte come quella politica ed economico-finanziaria del '47 sulla successiva opera della classe dirigente cattolica, è stato estremamente rilevante» (7). In questa contraddizione Giovagnoli individua « il paradosso di una classe dirigente che ha operato di fatto in modo. da conseguire obiettivi contrari ai suoi propositi iniziali, che ha collaborato attivamente ad accelerare un processo di sviluppo capitalistico svolgendo 'µn ruolo non suo'». E qui Giovagnoli ricalca fedelmente il suo maestro Scoppola quando scrive a riguardo: «il partito dei cattolici si è trovato a giuocare un ruolo non suo, non omogeneo con i programmi e i propositi che avevano presieduto alla sua formazione» (8 ) . Su questo concetto di 'estraneità' ritorna ancora più estesamente Giovagnoli quando afferma: «le motivazioni religiose e sociali hanno in definitiva spinto i cattolici, o almeno parte di essi, a immergersi in una civiltà estranea alla loro fondamentale visione della realtà, fondata su valori non omogenei con quelli cattolici e indirizzata verso obiettivi che non coincidono con le loro finalità. Critici verso il capitalismo classico, che in Italia si confondeva con una visione paleocapitalistica e arretrata come quella di Costa, sotto l'urgenza della lotta alla miseria e alla povertà, essi hanno visto in un rapido sviluppo capitalistico una strada efficace per giungere a un rapido aumento della ricchezza e a un miglioramento complessivo del tenore di vita e sono stati catturati dalle ragioni del capitalismo» (9 ). Ma è proprio questa 'estraneità' dei cattolici a una realtà sociale che essi vanno contribuendo a edificare che ci pare debba essere maggiormente approfondita. ( 6 ) A. G10vAGNOLI , Le premesse della ricostruzione, Tradizione e JTIOdernità nella classe dirigente cattolica del dopoguerra, Milano , Nuovo Istituto Editoriale Italiano , 1982. (7) A. GwvAGNOLI, op. cit., p. 441. ( 8 ) A. GwvAGNOLI , op. cit., p. 11. ( 9 ) A. G10vAGNOLI, op. cit. , p . 449.
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Perché, allora, per esempio, ci viene da chiederci, preliminarm ente, quale sia il ruolo 'propr io' dei cattolici nella comun ità politica e quale la civiltà che per essi può dirsi 'propr ia' . · In realtà il ruolo del cattolico (o del cristiano, per meglio dire) nella comun ità politica non si distingue da quello di ogni altro cittadino che si propo nga, come obiettivo primario, il perseg uimen to del bene comun e nel rispett o della dignità della person a umana e si adope ra per eliminare ogni ostacolo al raggiungimento di ·quest a finalità . Così come, sotto il profilo ecclesiologico, il cristiano, in quanto tale, non sposa, in linea di principio, alcuna forma partic olare di cultura umana o di sistema politico, economico o sociale, ma un sistema, una civiltà, una cultura gli diventano 'prop ri' allorq uando risulta che essi perseg uono effettivamente il bene comune, rispet tando la persona umana e riaffermando i princì pi della giustizia sociale . Il cristiano, quindi, non si estranea dalla realtà in cui vive, .ma cerca di assum erne ogni aspetto per operar e le necessarie verific he: il suo è un confro nto continuo, è, come ci ha insegnato il Vatica no II, un contin uo scruta re i segni dei tempi àl fine di regolare conseg uentemen te la sua azione di animazione 'dal di dentro ' delle realtà temporali stesse, senza usarle violenza o negarle, ma sempliceme nte facendo sì che gli aspetti positivi di esse assumano la preval enza sugli aspetti negativi . .. . il messaggio cristiano, - è detto nella Gaudium et spes lungi dal distogliere gli uomin i dal compi to di edifìcare il mondo , lungi dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttos to a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente (GS, 34) ... l'attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttos to stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presen te .. . Pertan to, benché si debba accura tament e distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo , tuttavi a nella misura in cui può contrib uire a meglio ordina re l'uman a società, tale progresso è di grande import anza per il Regno di Dio (GS, 39).
Anche quand o si parla, dunqu e, di 'estran eità' escatologica («il cristiano non è del mond o»), ci pare che non si possa parlar e parallelamente di 'estran eità' politica, ché il cristiano è pur sempr e ' nel mond o' , in esso vive e opera, con esso si confro nta e per il suo miglioramento lavora, portan do nel propri o cuore la sua legge morale, cercan do di evitare integralismi di destra e di sinistra, ma sapen do che la sua missione è qui, su questa terra. Detto questo c'è da osservare che una letturà' serena degli eventi postbellici e del ruolo all'epoca esercitato dalla classe dirige nte cattolica porta a considerare che essa non «cede tte alle ragioni del capitalismo», né mai negò le ampie riserve sulla civiltà capitalistica , non fu compe netraz ione o riallineamento, ma una prude nte assunz vi ione dei suoi aspetti positivi in vista però del suo supera mento . Paolo Emilio T aviani, uno dei partec ipanti alla settimana di studi
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del luglio '43 svoltasi a Camaldoli, da cui, appunto, si originò il Codice, autore nel 1943 di quelle Prospettive sociali che avrebbero contribuito notevolmente alla teoricizzazione, nel Codice stesso, dell' 'economia mista', dell'intervento pubblico dello Stato nell'economia, nel 1958 scriveva così dell'esperienza economica capitalistica: deve riconoscersi che essa ci offre elementi positivi, che non è giusto né utile vadano perduti. Superarne gli aspetti negativi non deve e non può significare rinnegarla totalmente e capovolgerla, collocando al posto dei princìpi dell'interesse individuale, della libera concorrenza, della proprietà privata e della libera eredità, quelli dell'interesse sociale, della pianificazione, della proprietà collettiva e della distribuzione statale. Capitalismo e liberalismo economico - inteso in senso assoluto - hanno fatto il loro tempo: nuove esigenze si pongono. Ma queste non possono soddisfarsi con un sovvertimento, che misconosca il progresso, che pure ha rappresentato il regime economico e sociale del secolo scorso e dei primi decenni del nostro. Meglio è parlare di superamento, e, in qualche caso, di un completamento (10) .
Superamento, completamento , non vogliono dire, dunque, riallineamento. Del resto, se così non fosse stato, non vedo come si sarebbero potuti inquadrare, poi, in una logica totalmente ed esclusivamente capitalistica, fatti come l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, la riforma agraria, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, per non parlare delle partecipazioni statali. Allora più che di 'via cattolica al capitalismo' occorrerebbe parlare di quella che costituì la novità più consistente del Codice di Camaldoli, nel quale, con una 'svolta', che, rispetto alla sociologia cattolica di fine .Ottocento e primi Novecento, ben può definirsi storica, vengono esplicitate le linee dell'intervento dello Stato nell'economia come 'terza via' per sfuggire al dilemma economia liberista - economia collettivista. Guardiamo un po' più da vicino quella parte del Codice, del resto di estrema attualità, che tratta dell'intervento dello Stato nell'economia.
Quest'argomen to è affrontato ovviamente nel capitolo sesto dedicato all'Attività economica pubblica, ma già nel capitolo precedente, intitolato Destinazione e proprietà dei beni materiali; produzione e scambio ne avvertiamo le premesse. L'articolo 71 Ìndividua la giustizia sociale come «principio direttivo della vita economica». In quest'articolo gli estensori del Codice di Camaldoli mettono l'accento sulla giustizia sociale la quale assomma in sé una serie di ( 10 )
P. E.
1972, p. 233.
TAVIANI ,
Prind pi cristiani e metodo demo cratico , 2• ed., Firenze, Le Monnier, .
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significati: essa è equa ripartiz ione di beni, intesa però nel senso di quanto basta per far lievitare i 'talent i' assegnati a ciascuno; è inoltre massimizzazione della produz ione e aumen to della solidarietà fra le classi. Ciò che è import ante sottolineare, al di là dei forse troppo numerosi significati attribu iti al termin e 'giustizia sociale', è il fatto che la giustizia sociale non può scaturi re dall'or diname nto econom ico lasciato a se stesso, ma da un interve nto regolat ore dello Stato. La giustizia sociale - afferma il Codice - si pone quale concreta espressione del bene comune, come fine primario dello Stato e di ogni altra autorità. Le esigenze della giustizia sociale legittimano dunque , in via primaria, l'intervento positivo dell'autorità nella vita economica sia per promuo vere, coordinare e limitare nell'interesse del bene comune le attività degli individui e delle comunità locali, regionali e professionali, sia per svolger e una diretta attività economica.
Questa dichiar azione fondam entale fu il risultat o di un ampio dibattito svoltosi, non senza qualch e voce discord e, nella Settim ana di Camal doli del 1943. Essa costituisce l'essenza della 'svolta ' camald olese, che sarà ancora più evidenziata negli articoli seguen ti del capitolo quinto e, come si è già accenn ato, nel capitol o sesto, signific ativamente intitola to Attività economica pubblica. L'artic olo 73 tratta della propri età privata, del suo aspetto person ale e sociale. L'impo stazion e del Codice di Camal doli sul tema della propri età si tiene su di una linea median a che, da un lato, resping e in quanto «contr astanti con la legge natura le» un sisteina di norme che «negasse qualsiasi ricono scimen to del diritto di propri età privata » e dal1' altro lato, reclama, come risulta chiaram ente dal testo dell'articolo 73, norme giuridiche positive regolanti la proprie tà privata, che debbon o tendere non solo a definire e tutelare il diritto dei singoli, ma anche ad assicurare l'ademp imento della funzione sociale spettan te ai proprietari. Esse possono accordare un uso più o meno circoscritto a seconda delle condizi oni ambientali e storiche, a seconda della natura e quantità dei beni che ne sono oggetto e a seconda della persona fisica o giuridica titolare del diritto di proprietà.
È, nel complesso, una posizio ne che logicam ente deriva e si armonizza con il princip io ispirat ore dei testi del Codice sulla vita economica: il princip io dell'ec onomi a mista. Sono eviden ti i collegamenti di questa posizio ne con il volum etto di Taviani, intitola to appun to La proprietà, che, propri o nel period o successivo alla stesura del Codice , avrebb e pubbli cato la editric e Studiu m, nell'am bito della collana editoriale «Esam i di coscien za».
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La 'terza via ' Gli articoli 75 e 76 trattano della funzione sociale della proprietà in situazione di concorrenza e di non concorrenza. Per ben comprendere questi due articoli (e il 7 4 sulla funzione sociale della proprietà dei beni strumentali) è necessario premettere che l'attività dell'imprenditore consiste non nel produrre in un modo qualsiasi, ma nel produrre in modo 'economico', nel produrre, cioè, cercando di rendere minimi i costi, i quali altro non sono che consumi di un fondo limitato di risorse. Produrre in modo economico non è però un'azione a cui l'uomo sia naturalmente inclinato. Lo può fare, secondo l'estensore, perché la concorrenza ve lo induce minacciando di espellerlo dal mercato; lo può fare, mancando la concorrenza, per una sua virtù o coscienza personale; lo può fare infìne lo Stato espropriando gli strumenti produttivi privati quando il singolo anziché cercare di ridurre i costi si adagi su ricavi monopolistici. La produzione economica (al costo minore possibile) è defìnita funzione sociale perché consiste in un uso parsimonioso e oculato delle risorse della natura. Questa impostazione del problema economico data dagli estensori chiarisce la loro ben nota posizione verso l'istituto della partecipazione operaia agli utili. Il fatto che le risorse produttive siano impiegate dall'imprenditore tradizionale (proprietario) oppure dall'imprenditore nuovo (proprietario insieme all'operaio) non è di per sé una garanzia del loro economico utilizzo. La partecipazione operaia può avere una certa rilevanza perché può favorire una più elevata solidarietà fra le classi, ma niente ha a che fare con il problema di un oculato impiego delle limitate risorse della società. Nel precedente articolo 66, sull'azionariato del lavoro, della cooperazione e della partecipazione dei lavoratori, gli estensori avevano già resa esplicita la loro critica a questo che pur era stato uno dei cavalli di battaglia del programma del cattolicesimo sociale. Per gli estensori del Codice, la partecipazione operaia, laddove possibile, non sarebbe mai riuscita, in era industriale, a risolvere la questione sociale. Ciò costituiva un'importante novità, anzi un'azione di vera e propria rottura con il passato, che dimostra il realismo e lo spirito innovatore a cui Paronetto, Saraceno e Vanoni e i loro amici e collaboratori, decisero di improntare il nuovo Codice. Ritornando alla funzione sociale della proprietà privata e sui limiti che a essa possono e devono in casi determinati essere imposti dallo Stato, è interessante notare che vi insisteranno tutti i testi elaborati dalla Democrazia cristiana durante la Resistenza (11 ). Particolarmente interessante il capitolo settimo della Relazione di Gonella al Congres-
(") Cfr. «Civitas», n. 2, 1984, numero monografico su Idee e programmi della. Dc .nella Resistenza (pubblicato anche in volume), contenente scritti di De Gaspen, Malvestiti, Olivelli, Taviani, Rumor, Sabadin, Gui, Dossetti.
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Mario Falciato } so della Dc nell'aprile 1946 dal titolo significativo: Libertà di possedere. Contiene una serie di proposte all'insegna dello slogan «Non tutti
proletari, ma tutti proprie~ari». La Costituzion e della Repubblica italiana risente chiaramente sia dell'imposta zione di Camaldoli, sia di quelle correlative dei documenti democratici cristiani della Resistenza. Nella III Sottocommi ssione della Costituente lo stesso Taviani, autore, come s'è detto sopra, del saggio dell'editrice Studium su La proprietà, fu il relatore per gli articoli sulla proprietà, sulla sua funzione sociale, sui limiti, sugli interventi dello Stato e sulla riforma agraria. Sarebbe stato proprio Taviani a portare nelle aule della Costituente il Codice di Camaldoli e, in particolare, l'articolo 83 del capitolo relativo alla trasmissione ereditaria dei beni. Il comma della Carta costituzionale sulla trasmissione ereditaria giunse il 13 maggio del 1947 in Aula dalla III Sottocommi ssione nella seguente versione: «Sono per legge stabilite le norme e i limiti della successione legittima e testamentar ia e i diritti dello Stato sulle eredità». T aviani, dal canto suo, fece in aula la seguente dichiarazione: La maggioranza del Gruppo democristiano ha aderito al testo della Commissione proposto da commissari · democristiani come espressione del pensiero cristiano sociale. Vi possono essere differenze di interpretazione che riguardano particolari tecnici e punti di vista di dettaglio. Nel complesso, peraltro, non si può mettere in dubbio che con questo terzo comma, mentre si stabilisce chiaramente il diritto naturale all'eredità sia nella successione legittima sia in quella testamentaria, si stabilisce anche che quella parte, che lo Stato preleva sotto forma di imposta di successione, ha uno scopo sociale oltre che fiscale. Un pensiero di questo genere è sancito dal Codice di Camaldoli che dichiara esplicitamente: ... E qui Taviani citava per esteso il 3° e il 4° comma dell'art. 83 del Codice di Camaldoli, così concludend o: Per questi motivi noi riteniamo, votando il terzo comma dell'art. 38, di essere sulla linea integrale del pensiero sociale cristiano{ 12 ). Il capitolo sesto del Codice rappresenta un po' la sintesi di tutta una intera stagione di pensiero economico del gruppo di intellettuali cattolici che da tempo stava ripensando in termini estremamen te moderni l'evoluzione futura del nostro Paese. C'è la definizione di attività economica pubblica come attività suppletiva e/ o integrativa di quella privata. · Lo Stato interverrà in relazione a determinate circostanze storiche per coordinare e per integrare l'azione degli individui e delle forze sociali al fine ( 12 )
43 sgg.
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Cfr. M.
FAL CIATORE ,
Costituente e Costituzione: la proprietà, in « Civitas », n. 2-3 , pp .
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La 'terza via '
di realizzare particolari obiettivi, non conseguibili per la mancanza di uno spontan eo o automatico adattam ento dei singoli interessi privati all'interesse generale (art. 85).
C'è l'individuazione dei fìni dell'attività economica pubblica. Un lungo elenco, quello dell'articolo 86, che riassume, in sintesi, molti articoli precede nti riportandoli tutti, secondo un fìlo condutt ore logico, che si percepisce a prima vista, alla giustizia sociale: che deve essere scopo fondamentale dell'attività economica pubblic a al quale, dice il Codice , «conviene che anche l'attività economica privata sia ordinat a». Si rimand a al testo per l'elenco. Basta in questa sede sottolineare soltanto il punto 2) dove si prescrive la promoz ione di attività economiche trascura te dall'iniziativa privata, giudicate profìttevoli al bene comune (appare così esplicitato al massimo uno dei fìni sociali propri delle aziende a partecipazione statale); il punto 7) che prevede la disciplina del processo di distribuzione territoriale delle attività produttive, ma non, come ci saremmo aspettati, per eliminare gli squilibri Nord-S ud (il Mezzogiorno almeno come problem a specifìco è il grande assente del Codice) ma soltanto per prevenire gli inconvenienti dell'urbanesimo. Dell'articolo 88, sui criteri informatori, è opportu no sottolineare il principio fondamentale ivi dettato che l'azione economica pubblic a deve procura re una utilità sociale maggiore di quella che i mezzi che l'alimentano avrebbero determi nato se lasciati nelle mani dei singoli, e l'altro criterio , pur esso essenziale, della pruden te scelta delle forme tecniche di organizzazione dell'azione pubblic a sotto il profìlo della rispondenza allo scopo della semplicità e dell'economicità. Ancora oggi, a quarant 'anni di distanza, si discute su questo 'nodo' della nostra economia: se sia possibile cioè conciliare fìnalità sociali con l'economicità di gestione. È, in sostanza, il dilemma del sistema delle partecipazioni statali che ciclicamente si ripropo ne specie quando gli fa da sfondo un panorama dramm atico di bilanci in rosso, uno spettacolo desolante di fabbriche che chiudono, una moltitudine di disoccupati che cresce senza soste. Il dibattito a riguardo si è acceso ancora recentemente, ma, puntualmente, si sono ripropo ste due posizioni che, a mio parere, non fanno avanzare di un millimetro la riflessione sull'attualità e la validità dell'impresa pubblic a. L'una, di tipo radicale, è quella del 'cumulo di macerie', è quella secondo cui le aziende pubblic he sono immensi carrozzoni mangiasoldi, che sarebbe bene chiudere subito. L'lri ha superat o i cinquant'anni, l'Eni i trenta e l'Efìm, i venti: la storia degli enti di gestione è inscindibilmente legata alla storia della nostra giovane democrazia, alla strabiliante rinascita dalle rovine della
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I Mario Falciatore guerra, al miracolo di una Nazione, indiscutibilmente povera, che a poco a poco si è inserita nel novero dei primi Paesi industrializzati. È una storia scritta con il lavoro di migliaia e migliaia di uomini, che merita rispetto e non giudizi frettolosi e sommari. Non è possibi le ridurre tutto a storia di ' razza padron a' , di sprechi e di ruberie . Certo le soluzioni dell' économia mista hanno pur esse i loro limiti, difetti e rischi. Ma costituiscono l'unica possibile via d'uscita per garantire le libertà democratiche e render e concreta la tenden za alla giustizia sociale . La convivenza delle iniziative private con l'interv ento pubbli co acuisce il rischio di possibili disfunzioni e deviamenti: di qui il grave problema della corruzione. La corruzione può esistere in qualsiasi regime e dipend e prevalentemente dal costume e anche da condizioni che sfuggono alla politica e alla legislazione. Tuttavia nei regimi di economia mista occorr e affrontare la corruzione con metodi sistematici affinché non si trasformi da patologica in cronica . Occorr ono una decisa volontà politic a e uno sforzo di fantasia per individuare e realizzare criteri rigoros i e strumenti nuovi che garantiscano e tutelino la moralità dell'intervento pubbli co nell'economia . Si pensi alle propos te avanzate propri o nel corso del preced ente Convegno sul Codice tenuto ad Arezzo nell'82, allorquando ci fu chi ipotizzò albi per managers pubbli ci, anagrafe patrimoniale, o anche accorgimenti normativi, come quello - che sembra non più rinviab ile - della dichiarazione di incompatibilità fra la carica di consigliere di amministrazione delle holding pubbli che e quella di amministrator e, con incarichi operativi, di società controllate. Bastano solo questi pochi accenni, per ribadire che il proble ma esiste, è grave, ma non è irrisolvibile. Per cui, conclu dendo su questo punto, e in armonia con la maggioranza degli studiosi dell' argome nto, mi pare che si possa senz'altro rigettare il discorso del 'cumul o di macerie' afferm ando che fatte le dovute analisi sugli errori, le disfunzioni, le storture, gli abusi, o presun ti tali, del passato remoto o prossimo vale la pena oggi metter mano al sistema per operar e gli opportuni correttivi e ridargli così vita, consentendo all'impresa pubblica di svolgere quel ruolo strategico che gli compe te e che può costitu ire ancora una volta la carta vincente della nostra economia. In vista di questo necessario e improcastinabile riassetto ci sarebbe, però, da sgombrare il campo dall'altra posizione, a cui accenn avo priprn, e che mi pare più dura a morire . E quella di chi non accetta più che si parli di oneri improp ri in vista di finalità sociali inveendo contro una presun ta ' libertà di deficit' riconosciuta alle aziende pubbli che. In ordine al proble ma degli oneri improp ri occorr e ribadir e la concezione originaria che è a fondam ento della stessa formula del sistema delle Partecipazioni statali, quella cioè della 'impresa-società per 26
La 'terza via ' azioni' che, all'interno degli enti di appartenenza, e diversamente da essi, agiscono in regime privatistico con la conseguente elasticità sul piano operativo. La formula fu concepita nel rispetto dei princìpi dell'economia mista tenendo presenti due obiettivi prioritari: quello di attirare il capitale privato per convogliarlo verso settori produttivi, promettendo la massimizzazione del profìtto (o per lo meno un profitto analogo a quello. del settore privato), e quello di realizzare interventi con specifiché motivazioni sociali (localizzazioni in aree di insufficiente industrializzazione, attività in settori 'strategici' ma poco remunerativi). Il modello avrebbe retto solo se il perseguimento dei due obiettivi fosse stato equilibrato e l'un fine non avesse sopravanzato l'altro. Del resto pareva agli ideatori del modello che gli ambiti dell'econom_ia mista fossero così vasti che al suo interno potessero ben ipotizzarsi tante realtà industriali capaci di conservare un sostanziale equilibrio delle proprie finalità senza pericolo di sbilanciamenti eccessivi verso la nazionalizzazione, da un lato, o la privatizzazione, dal1' altro lato. Oggi l'indice è puntato su questo modello, non tanto perché se ne metta in dubbio la validità (circa la sua attualità c'è da dire che ogni cosa è soggetta al logorio del tempo e quindi va necessariamente aggiornata) quanto perché la realtà odierna dell'impresa pubblica pare discostarsi di molto dalla formula primigenia. Secondo quanto rilevano parecchi studiosi e managers, oggi il capitale privato tende a scomparire dai pacchetti azionari e il sistema fa fatica a raccogliere autonomamente il risparmio privato. La tensione a perseguire il profìtto si è attenuata sia per le crisi, patologiche di alcuni settori di attività, che causano perdite notevoli, sia per il graduale sbilanciamento verso le finalità sociali tanto che c'è chi afferma che «le partecipazioni si avvicinano di più alle imprese nazionalizzate dove il problema principale non è ottenere risultati economici positivi ma il perseguimento di finalità sociali e distributive>>·. Alla luce del superveniente sbilanciamento a favore di uno dei due obiettivi del modello originario si comprende bene l'idiosincrasia di molti alla sola parola di 'onere sociale'. Eppure il vero nodo dell'industria di Stato sta tutto qui, come rilevava tempo fa uno che di Partecipazioni statali se ne intende, anche per essere stato presidente di tutti e tre gli enti di gestione, l'avvocato Sette. Per Sette il 'nodo' principale dell'industria di Stato è proprio: quello della chiarezza di direttive politiche, inevitabilmente condizionate da motivazioni sociali e necessità di ordine strettamente gestionale. L'impresa a partecipazione statale è una realtà sulla quale il potere viene esercitato autonomamente da due autorità: il politico e il manager, quest'ultimo quale portavoce dei vincoli di mercato. Occorre responsabilizzare queste due forze e l'ente di gestione è il luogo dove ciò deve verifìcarsi componendo quello che è un vero e proprio contrasto di interessi.
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Mario Falciatore La dicotomia esiste, quindi, ma è componibile , ce l'ha ricordato anche di recente il 'padre' del modello in esame e uno dei principali artefìci del Codice di Camaldoli, Pasquale Saraceno, in un lucidissimo elaborato per la Y Commission e Bilancio e Partecipazio ni Statali del Senato in cui ha elencato le motivazioni a fondamento delle risposte di un questionario sottoposto a esperti, studiosi, operatori economici italiani, nell'ambito di una indagine conoscitiva di cui sarebbe interessante conoscere i risultati fìnora ignoti (13 ). Ebbene Saraceno in quella sede spiegava, con l'autorevole zza e la semplicità di chi conosce profondame nte l' 'oggetto del contendere' , quale fosse la retta interpretazi one del dettato legislativo secondo cui gli enti di gestione devono operare secondo 'criteri di economicità '. Agire secondo 'criteri di economicità' - affermava Saraceno - significa gestire le partecipazioni in modo da favorire presso il management delle imprese controllate la massimizzazione del profitto. Senonché, non è per aumentare le entrate che la legge ha creato lente di gestione; esso è uno degli strumenti dell'azione di governo, azione che si esplica mediante direttive che un Ministero ad hoc dà all'ente di gestione e che questo trasfonde nella propria attività di governo delle società controllate. Le direttive si risolvono in condizionamenti che le imprese controllate dall'ente introducono nella propria gestione; e poiché questa gestione è motivata solo dal profitto, compito dell'ente di gestione è accertare che le direttive non comportino un onere per la società che ne è destinataria e, ove lo comportino, che esso sia coperto con una corrisponden te contribuzion e dello Stato. Si ha in tal caso un onere improprio; improprio per lazienda che persegue il profitto, proprio invece per lo Stato al quale spetta sostenere il costo di una direttiva che, derivando da un giudizio politico-economico di interesse generale, non può essere messo a carico degli azionisti. Nel caso in cui la direttiva dia luogo a oneri impropri - proseguiva Saraceno - se l'impresa non ne è sollevata, il suo bilancio non costituisce un indicatore dell'efficienza dell'azienda e perdono significato i costi di base ai quali essa si presenta sul mercato.
Saraceno, quindi, concludeva che non aveva 'alcun senso' parlare di risanamento delle imprese a partecipazio ne statale se non si fosse chiarito preliminarm ente questo punto. Volendo ora, a quarant'ann i del Codice di Camaldoli, dare un giudizio sulla sua 'novità' più signifìcativa, appunto l'economia mista e sulla formula da essa originatasi, del sistema delle partecipazio ni statali, che cosa potremmo dire? Ci sovviene ancora una volta Saraceno che, nella già citata relazione alla Commission e Bilancio, afferma: il bilancio non è così catastrofico, il complesso di istituti che formano oggi
il sistema è necessario e sufficiente perché vengano soddisfatte le due condi( 1 3 ) Senato della Repubblica, VIII Legislatura, 5 3 Commissione Permanente. Risposte al «Questionario per l'indagine conoscitiva sull'assetto del sistema delle Pp. Ss. » di P. Saraceno.
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La 'terza via ' zioni che sono pregiudiziali di un ordinamento soddisfacente; primo: garantire al management delle imprese l'autonomia necessaria perché esse siano inserite nel mercato; secondo: dare al Parlamento la possibilità di giudicare l'apporto che si prevede debba dare il sistema alla nostra politica economica e approvarne il costo. Se queste due condizioni non sono ora soddisfatte, il motivo è da ricercarsi non nell'ordinamento, che pur deve ricevere importanti modifiche, come ogni struttura operante in un mondo in tanto rapido cambiamento, ma nei modi in cui l'ordinamento è stato utilizzato.
L'intuizione degli estensori del Codice, questa 'terza via' dell" economia mista ', nonostante tutta la sua storia di lacune e di errori (e non poteva essere altrimenti considerata la situazione del Paese e la fallibilità degli uomini) è risultata dunque valida. Oggi lo scenario dopo quarant'anni è cambiato. Nell'introduzione a questa riedizione del Codice, Paolo Emilio Taviani ha sottolineato come ci si stia orientando verso una nuova società post-industriale. Stante questa prospettiva, ci sarà un gruppo di studiosi che riuscirà, ispirandosi in piena coerenza ai valori cristiani, ad aggiornare il Codice di Camaldoli nei capitoli dell'economia, con lo stesso realism? e la stessa preveggenza degli estensori del 1943-45? E una domanda che è anche una speranza, e che si sente formulare spesso, specie da parte di chi pensa che un nuovo 'progetto' possa risolvere da solo i problemi o possa per lo meno contribuire a risolvere da solo i problemi della difficile ora presente. Occorre però dire con estrema franchezza che la prospettiva pare estremamente improbabile. Non perché manchino le intelligenze necessarie, ma perché un documento, che è anche un 'fatto storico', come il Codice di Camaldoli, non è il frutto dell'improvvisazione , non viene fuori né in un giorno, né in sette, ma è il risultato di una lunga maturazione spirituale e culturale (e qui l'intuizione di Giovagnoli che ha scritto bellissime pagine sulla spiritualità della classe dirigente cattolica del dopoguerra concorre a rinforzare tale convincimento), è soprattutto il frutto di un'intima, profonda, convinta, tenace tensione morale. Oggi, spiace doverlo constatare, questa tensione non c'è se è vero, come è vero, che la questione morale è ben lungi dall'essere risolta. Ma è proprio su questa questione, come avevano intuito benissimo i giovani frequentatori di Camaldoli degli anni Quaranta, che il cristiano si gioca tutto: la propria fede, la credibilità politica, la possibilità di contribuire alla rinascita morale e civile del Paese. Non si creda, però, che sia solo un fatto dei cristiani. Lo stesso futuro del Paese passa per questa strada, per cui anche i discorsi che si vanno facendo sulla Grande Riforma rischiano di restare sterili. Basti pensare a che cosa è stata la stagione della Costituente, a qual è stato il clima culturale e politico frutto di intense
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pulsazioni ideali e morali - non privo di stridenti ma nobili contrasti - esistente fra i partiti di allora e il clima instaurato si fra i partiti di oggi. Bisogna tornare allora all' 'utopia di Camaldoli? '. Il recupero di quella forza morale, di quella 'molla ideale' degli estensori del Codice, più che la stesura di mille nuovi pur important i progetti appare oggi assolutam ente prioritario , anche se terribilme nte arduo. Pure la «costruzio ne di questo mondo » ci ha ricordato Capograssi, è « terribile», ma è resa possibile dall'appog gio che la volontà riceve dall'utopia. Si possa, dunque, riscoprire in ognuno di noi 'l'utopia di Camaldoli' e insieme con essa e in virtù di essa quella speranza che giorno per giorno va purtroppo svanendo sempre più: quella in un Paese più giusto e più umano. MARIO FAL CIATORE
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