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Cap. IV DELLA VERIDICITA'

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Perchè il convincimento di chi vuole agire passi negli altri, occorre che egli sia veritiero. La menzogna, cioè la difformità della parola dal pensiero, e, nel caso i n esame, dal pensiero diretto all'azione, .priva di efficacia lo stesso agente, rende diffidenti i collaboratori se ingannati, li rende conniventi se partecipi alla menzogna. Vi saranno altri motivi per legarsi all'uomo che mentisce: timore, paura, interesse, capacità, fascino: ma dal punto di vista umano viene a mancare il legame più valido: la veridicità *e sincerità. C'è differenza fra chi non dice la verità perchè non l a conosce o non la dice perchè vuole occultarla, e chi invece tende per qualsiasi motivo a d ingannare. Nel.primoacaso*egli~non sarà un menzognero; nel secondo può essere moralmente menzognero per volere essere prudente, abbia o no motivi legittimi a tenere occulta la verità; nel terzo caso si tratterà d i vera menzogna, più o meno grave, ma sempre riprovevole. I n materia di menzogne, legate o no a veri inganni, si suole essere con gli uomini politici o troppo larghi ammettendone l'uso normale, ovvero rigorosi escludendola i n ogni caso. Questo problema può essere connesso con l'altro, assai più discusso, a del fine che giustifica i mezzi. È evidente che anche i teorici della distinzione tra morale e politica, non arrivano ad accettare questa seconda tesi concepita quasi come regola politica, i l che sovvertirebbe quel minimo di morale sociale (quella consacrata dai codici civili e penali di ogni stato) assolutamente necessaria a mantenere l'ordine e il diritto. - e

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La menzogna per qualsiasi scopo usata toglie base ad una sana 'convivenza nella famiglia, nella scuola, negli affari, nelle . relazioni umane le più varie. Lo stesso è i n politica. La menzogna interrompe il dialogo umano, mentre la vita dell'uomo non è altro che un dialogo continuato, anche se fra molti insieme. Chiunque sia sorpreso a mentire mostra di essersi distaccato dalla comunità, divenendo altmi sospetto; per rivivere la vita sociale deve provare di non dire menzogne anzi di non dirne più ; perchè se vi ricade, toglie qualsiasi credito alla resipiscenza. Non sembra vero che la menzogna e l'inganno siano nell'uso corrente, e che gli uomini non abbiano altro da fare che ingannarsi a vicenda. È così; coloro che cadono nelle reti dell'inganno se ne accorgono con ritardo; molti di costoro credevano che sarebbero stati gli altri a 'cadere nelle reti che essi stessi avevano tese. Tale uso, pur essendo assai diffuso, nei rapporti privati o di sociali liberi è sempre biasimato come mancanza di rispetto alla morale; nei rapporti pubblici, specialmente politici? più che scusato e tollerato, arriva ad essere approvato dai fautori mentre viene biasimato dagli avversari ( e viceversa) secondo le finalità alle quali i mezzi di menzogna e di inganno sono diretti. Il k h e porta ad apprezzamenti assai variabili nella pubblica opinione con riflessi equivoci nelle valutazioni di coscienza. Cerchiamo di chiarire il fenomeno assai sospetto e, sotto certi punti di vista, pernicioso: quello di dare alla menzogna e all'inganno il lascia passare dell'opinion~ pubblica attenuando così le resistenze della coscienza. Anzitutto è da notare che in democrazia certi tipi di menzogne facilmente smontabili dal dibattito parlamentare, giornalistico, e comiziale, non possono aver corso; chi ne usa ci perde. È questo un lato buono. Però c'è il lato manchevole; l'uso delle mezze verità, l'alterazione dei fatti, la' confusione dei dati, l'abuso delle statistiche, l a ripetizione artificiosa per far credere un fatto nuovo mentre è lo stesso ripetuto sotto diversi aspetti, la propaganda amplificatrice, l a denigrazione dell'awersario, tutti mezzi deplorevoli e usati comunemente senza alcuna attenuazione e differenza di gruppi e partiti.


Alla propaganda politica am~lificatrice( a parte che seeondo me è controproducente) applicherei il criterio di certi moralisti, che non reputano menzogna quella dei venditori magnificanti la propria merce, perché i l pubblico sa bene che quelle affermazioni sono per invitare a comprare, e cadono di fronte alla contestazione del cliente normalmente sempre poco disposto a credervi. Ma se dalla magnificazione generica e fatta per sistema, si passa ai termini di una contrattazione concreta, allora le affermazioni laudatorie trasformate in menzogne reali e particolari per indurre in errore, sono e restano menzogne. Alla stessa maniera, l'abilità parlamentare atta a evitare ostacoli e a indurre gli avversari a cambiare atteggiamenti non è per nulla vietata, anche se nell'uso delle parole discrete possa nascondersi qualche imprecisione voluta che può arrivare al margine della menzogna, dovendo l'avversano dalla sua stessa posizione parlamentare trarre motivo di sospicione. Ben altra è la osservanza del regolamento; questo è una specie di patto comune per procedere nei lavori parlamentari: è l a regola del gioco pattuita e riconosciuta. Nessuno può violarla senza colp a ; e tanto più grave è la colpa quanto più grave è l'abuso. Su questo punto mi pare che le idee non siano chiare, non mancando coloro che ritengono il regolamento una semplice forma.- -"- -. lità, mentre è un reciproco vincolo. Alcuni vorrebbero in politica seguire gli usi consentiti in guerra, dato che la politica di partito potrebbe dirsi guerra permanente per il potere. Tale impostazione è semplicemente aberrante; l e contese e le gare civili hanno per base l a normale convivenza umana nella quale è esclusa a priori qualsiasi rottura bellica dei vincoli di comunità, come avviene fra le nazioni in guerra, e all'interno di una stessa nazione nel caso d i guerra civile. Solo la rottura dei vincoli di comunità rende lecito in guerra (si intende, quando sia lecita una guerra), quel che non è lecito in pace: la menzogna, l'inganno, l'agguato e simili. Ma poichè la rottura dei vincoli della comunità non è mai totale, tanto che anche in guerra esistono e dovrebbero essere rispettati i patti internazionali e i e ieggi tradizionali (i termini di una tregua, lo scambio dei prigionieri, il divieto di armi e di mezzi non ammessi e quindi illegittimi e così di se-

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guito), l'obbligo della osservanza di essi dalle due parti è anche vincolo morale di coscienza, oltre che di civiltà. Esclusa quindi ogni assimilabilità della lotta politica alla guerra, il problema della veracità i n politica rimane integro. Per quanto si voglia essere larghi e tolleranti verso coloro che parteggiano e lottano, ammettendo quel limite di reciproca comprensione e tolleranza che toglierebbe alla menzogna obiettiva e al tentativo di inganno l'abuso della buona fede e della impreparazione psicologica e , . quindi, la rottura della comunione interindividuale; si deve concludere che la ripugnanza della coscienza permane più o meno forte all'uso di mezzi intrinsecamente immorali per fini creduti di grande utilità, quale la vittoria del proprio partito e la sconfitta dell'avversario. Si foi-ma facilmente una categorizzazione istintiva fra chi di queste cose non si intende o non se ne occupa e chi, abituato al mestiere, prova viva soddisfazione (la vanità dell'esperto in materia) quando vi riesce, e lo dice a questo o a quello all'orecchio, che non lo sappia il capo: il quale molte volte lo saprà ma fingerà di non aver visto niente. E che dire se quel che è ritenuto contrario alla valutazione etica della coscienza sia richiesto a titolo di vantaggio pubblico? È questo un altro lato del ~ r o b l e m adella moralità dei > mezzi nella politica statale. ,

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Cap. V

DELLA MORALITA,

È ben nota la obiezione che si solleva da molti, nel campo

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teorico e in quello pratico, circa la valutazione morale della politica. Noi stiamo studiando un problema sotto certi aspetti diverso: quello dei rapporti fra coscienza e politica. La moralità per noi è la convergenza dell'azione alla razionalità; è, quindi, materia propria della coscienza che unisce nel suo atto conoscenza e decisione volitiva. La politica, presa come valutazione dell'utile collettivo, è anch'essa materia razionale; calcola i vantaggi al lume dei pro e dei contro; questi sono da valutare oltre che dal lato della utilità, da quello della eticità se corrispondenti alla retta ragione. . . Non c'è arte di operare che ci, dispensi-dalla. seconda. valutazione che tocca l'intimo valore dell'atto umano nella sua eseguibilità. I1 fine della economia è l'utile economico; nessuno potrà ammettere che il furto o la frode siano mezzi idonei a procurare un vantaggio economico e, quindi, ammissibili, proprio perchè nel ledere l'interesse dei terzi, il furto e la frode sono atti ingiusti e pertanto immorali. Lo stesso deve affermarsi per la politica. Se mancare a un patto (contro l a teoria del ' pmta sunt s e n t a d a ) può recare un presente vantaggio al paese fedifrago, non per questo ne è ammissibile la violazione che leda il diritto e i rapporti internazionali. Nella teoria pragmatista per la quale la morale è u n metodo di condotta utile alla società, si insiste sul carattere utilitario dei rispetto deiia iegge moraie in economia come in politica. Per chi, come noi, dà alla morale un carattere razionale autonomo anche quando nel complesso ordinato della società l'uti-

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lità dell'osservanza morale sia evidente, non può essere accettato il criterio di coincidenza pragmatistica, come quello che .caratterizzi l a valutazione etica delle norme sociali. Ciò non ostante non si può negare che dalla osservanza della legge morale derivino vantaggi sociali assai maggiori di quelli che potrebbero derivare dalle particolari ~iolazioni. I1 rigido mantenimento ' dell'ordine morale in economia, per evitare o colpire frodi, appropriazioni indebite, falsi, imbrogli e simili servirà non solo a vantaggio di singoli, ma anche all'equilibrio economico della società. I vantaggi dell'ordine morale si riversano nell'ordine economico, e viceversa, in larga reciprocità. Del resto, che cosa è la moralità in economia se non il rispetto del diritto altrui, cioè, un attoi economico preliminare, un elemento di ordine, perchè l'economia possa svilupparsi? I1 punto importante, sfuggito anche a filosofi e ad economisti, è dato dal carattere dell'economia che è fatto sociale, rapporto degli uomini in società; non si dà economia individuale che prescinda da rapporti sociali. Sfido il lettore a poterla solo pensare fantasticando. Se l'economia è sociale di propria natura, è di propria na- , tura etica, cioè razionale; non si darà mai un'economia irrazionale: essa non sarebbe vera economia. Non esiste la pretesa economia dei ricercatori d'oro, dei nuclei ex-lege, delle associazioni a delinquere, anche, se organizzati secondo proprie leggi; il loro ordinamento non sarà mai classificabile come razionale e tale da produrre rapporti di diritti e doveri; e, quindi, neppure come un ordinamento economico. Si tratta d i sfruttamento di malfattori a danno della società, e anche a danno dei fuori legge, non essendo ammesso l'abbandono dell'associazione delittuosa pena la vita. Lo stesso deve dirsi della politica come attività sociale e razionale, e in quanto tale intrinsecamente morale. Non si può dare politica immorale che sia veramente politica cioè attività diretta a l bene comune; mentre si potranno dare, e purtroppo non mancano, individui o gruppi che nel campo politico, di proposito owero occasionalmente, violino l e leggi morali che sono anche leggi della comunità cui appartengono. Ciò non ostante, l'opinione, non dico la teoria, che attribui-


sce all'ente pubblico, lo stato, una specie di immunità morale per le azioni fatte dai governanti o dai cittadini in suo nome, è tenacemente ancorata alla storia politica di qualsiasi stato, al punto da tendere a sganciarsi la politica dalla morale, attribuendovi una semplice valutazione tecnica di fini e d i mezzi diretti alla utilità generale, indipendentemente da qualsiasi valutazione etica. La questione così posta può ritenersi estranea all'esame che stiamo facendo, potendosi dare il caso, piuttosto frequente, dell'uomo politico che, nell'adottare un mezzo ritenuto illecito dalla morale corrente (per esempio la violazione di un patto), sia convinto di poterne essere indenne in coscienza per la giustificazione dell'utile pubblico. Pure non è così: per giudicare se egli sia o no legato al vincolo del patto, deve aver prima risolto il problema etico da noi posto. Naturalmente, escludiamo le teorie che fanno dello stato un'entità etica, unica fonte di diritto, che adegua la propria morale ai mezzi di cui dispone. Non è il caso di soffermarci, ai fini di questo studio, sulle varie concezioni stataliste; vi ostano due rilievi fondamentali. Primo, che lo stato, pur concepito come ente giuridico della comunità civile, non ha né intelligenza nè volontà nè coscienza come organi propri distinti dalla intelligenza, dalla volontà e dalla coscienza di coloro che operano in suo nome: lq azioni politiche in quanto atti umani appartengono a ciascun uomo in proprio; sono azioni delle quali ciascuno deve rendere conto alla propria coscienza e agli uomini che hanno diritto di domandarglielo. Secondo, che lo stato, quel tale stato, non comprende una popolazione distaccata dal resto del mondo, ma è legato da rapporti e trattati internazionali, commerciali, culturali, politici, e di recente anche organizzativi quali la Società delle Nazioni di ieri e le Nazioni Unite di oggi. I vincoli positivi sono basati, volere o no, sopra una serie di principi etici comunemente ammessi, la cui violazione può determinare conflitti e ledere interessi reciproci. Più si affermano i vincoli internazionali e più vengono limitati i poteri dei singoli stati; ~'oiieniaiìieiito verso !o limitazione dei poteri sovrani ha una base etica, in quanto razionale nelle sue premesse universalistiche, contrarie alle teorie delle

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monarchie assolute dell'ancien régime, ai nazionalismi dell'ottocento, a1 nazismo e fascismo dell'anteguerra, che contenevano i n sè un virus individualista e statalista con tendenze contrarie alla morale. Ciò posto, il problema che rimane da risolvere è l'antico e .sempre vivo problema del valore dei limiti etici dell'azione fatta nell'interesse di uno stato i n articola re. Esiste una morale diversa da quella che vincola l'individuo nel rapporto privato con i suoi simili? Per quanto ripugni la teoria della doppiamoralità, sotto qualsiasi aspetto venga presa inclusovi quello della morale pubblica distinta dalla privata, nella vita pratica si dà luogo allo sdoppiamento della coscienza individuale e alla risoluzione di ogni etica nel suo formalismo esterno. Questo fatto, psicologico ed etico allo stesso tempo, diviene nell'intimo della coscienza uno svuotamento del finalismo umano e, quindi, una ferita alla stessa unità della ~ersonalitàumana. Può sembrare esagerato quanto sopra a chi non riflette bene e usa trattare se stesso e la propria coscienza assai superficialmente; ma in fondo la doppia morale h a radice in una sua disintegrazione dell'individuo, della sua esistenza e della sua finalità. Ciò non ostante il problema rimane; se l'uomo politico accetta di servire il proprio paese con mezzi che dalla morale comune sono reputati illeciti, e nel suo animo giustifica tutto con la grandezza, il benessere, la gloria nazionale, arriva d i necessità a credersi l'elemento indispensabile di tale grandezza, benessere e gloria, da identificare psicologicamente se stesso con il paese, lo stato e la nazione (in altri tempi la monarchia e la casa regnante). Da qui i capitomboli storici, e gli strascichi post mortem: basta avere sott'occhio la Francia dopo Luigi XIV o dopo Napoleone; la Germania dopo Guglielmo o dopo Nitler; proprio la rovina della grandezza, del benessere e della gloria posti a giustificazione di tante guerre e di tanti massacri. Non si tratta solo delle grandi infatuazi~ni;nel modesto lavoro di ogni giorno, in politica si usa trattare affari con maggiore spregiudicatezza morale che nella vita privata. Precisando meglio: nei rapporti privati si usano mezzi illeciti con maggiore cautela, sia perché il ricorso al giudice della parte offesa o l'azione diretta della giustizia potranno arrivare più o meno solleciti; sia


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perché non si hanno motivi appariscenti di giustificazione. In politica il motivo patriottico o sociale, l'idea che lo stato possa far tutto, il senso del dominio non solo sono pretesti a giustificazioni, ma inducono a sorpassare il problema etico dei mezzi illeciti per u n fine vantaggioso. Si tratta veramente di un fine vantaggioso? Chi crede a u n ordine provvidenziale e a u n corrispondente ordine etico umano, non può mettere in dubbio che non esistono fini vantaggiosi per la collettività da ottenersi con mezzi illeciti; perchè manca un rapporto valutativo. Si tratterà di vantaggi apparenti, i n riferimento alla posizione dei governanti o dei partiti dominanti, ovvero tali nei riguardi di interessi particolari. Ma vantaggi visti come sicuramente realizzabili oggi per domani, nella loro proiezione temporale che diano alla collettività benessere, sviluppo, stabilità superiore a quella che lo stato potrebbe avere senza i beni procurati con mezzi illeciti, nessuno lo potrà mai garantire. Se guardiamo la storia della grande Germania, troviamo che ottant'anni di guerre tutte provocate dal governo d i Berlino, han distrutto quel che si volle ottenere creando lo stesso impero. Non è detto che sempre si abbiano effetti così catastrofici, immediati e visibili agli uomini che vi hanno preso parte; anzi può avvenire il contrario: che -i vantaggi temporali " l . delle malefatte si prolunghino per decenni o per secoli'; non è detto che si tratti di vantaggi reali e che il contrappeso di tali vantaggi non sia il « peccato d'origine » di molti altri mali, specialmente psicologici ed etici, che non compenseranno mai, perché posti sopra ben altro livello, i vantaggi materiali detti politici, che vengono procurati con azioni inficiate di immoralità. Questo è i l nocciolo della questione e sarebbe puerile nasconderselo; in politica, si adotterebbe la tesi che l'interesse statale, quello che u n tempo si chiamava « ragion d i stato n, possa giustificare i mezzi anche se questi fossero intrinsecamente immorali. Tutti inorridiscono a leggere l e atrocità dei campi di concentramento dei aazisti, qe!!o che si riìccuiita dcf piigionieri in Russia e altrove: sono l'eccesso visibile della tesi che i l fine giustifica i mezzi, ovvero dell'altra che non esiste morale asso-

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luta, ma solo relativa a un dato momento storico, voluta e codificata dallo stato. La .coscienza umana e cristiana, quella che emerge nello sviluppo delle varie civiltĂ , e che ha formato la base' dei nostri codici nazionali e internazionali, si ribella a siffatte concezioni che annullano la stessa razionalitĂ umana, sopprimono il senso di responsabilitĂ personale e lo spirito di vera libertĂ .

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Cap. VI

DEI RAPPORTI POLITICI ALL'INTERNO

La diversità di apprezzamento etico degli uomini politici nei rapporti interni e in quelli esteri è dovuta alla diversità della concezione di società- nazionale e società internazionale. Qui trattiamo i rapporti all'interno della società nazionale organizzata nello stato, limitando lo studio ai rapporti politici subiettivi dei-vari soggetti di diritto fra di loro: rapporti fra investiti di potere (quali essi siano) e cittadini in singolo, o distinti per categorie o territorio. Però occorre fare varie ipotesi secondo che si tratti di regimi assolutistici, paternalistici, rappresentativi e democratici, essendo che lo stato psicologico delle persone nei loro reciproci rapporti è atteggiato, modificato e alterato secondo i diversi regimi, secondo le-varie fasi dei singoli regimi, secondo lo spirito che si diffonde e prevale i n determinate situazioni. Bisogna partire da una constatazione comune a tutti i regimi, anzi comune a tutti i nuclei sociali, nessuno escluso. In uno stato generale di coesione sociale e di pacifica convivenza, ovvero i n uno stato psicologico di esaltazione ed euforia collettiva, le mancanze e i delitti che ne ledessero la consistenza, attenuassero lo crlancio, turbassero la pace, solleverebbero l'indignazione generale, e tanto più pronta ne sarebbe la repressione quanto più rispondente al. sentire comune. Al contrario, quando una società è in crisi e tende alla disgregazione, sia per settori meno vigilati sia per il complesso organico, la resistenza morale si attenua come si attenuano i vincoli sociali, fino ad arrivare alla tolleranza, alla insensibilità verso I'apekta violaz'ione della legge. Nel periodo di maggiore

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disordine di una società politica, i1 cittadino rimasto quasi indifeso aumenta le proprie difese, associandosi ad altri ed arrivando, se occorre, q tentare la riorganizzazione sociale su motivi creduti legittimi non importa se in contrasto con la legge scritta. Fino a quale punto questo stato di dissoluzione sociale possa giustificare non,solo la violazione del diritto positivo, ma anche la limitazione delle esigenze morali fra gli uomini, non è facile precisare: è certo che l'istinto umano di sicurezza e di difesa, fra i due casi estremi sopradescritti, prevale sulle norme d'ordine e sulla valutazione etica di tali norme. Con ciò non si intende giustificare il mezzo illecito per un fine lecito, ma l'uso del mezzo idoneo proibito in nome dell'ordine e dell'etica dell'ordine che diviene legittimo per la mancata funzionalità degli organi sociali. L'estremo di questo caso è dato dalla legittima difesa, che in tanto è legittima i n quanto manca la difesa sociale e in quanto è fatta cum moderamine inculpatae tutelae. Dall'altro lato, può essere legittima I'insurrezione civica contro il governo tirannico, in quei casi eccezionali che la rendano ultima ratio, la cui legittimità possa essere garantita da probabile successo (l). Fra questi due poli si svolge tutta la gamma che va dalla coesione alla disgregazione sociale, con effetti non indifferenti nel campo dei rapporti politici e nella corrispondente valutazione etica. Per intendere bene il punto di vista in esame, prendo due lati ben noti della disgregazione sociale nei rapporti del cittadino Son gli organi dell'amministrazione statale. I1 primo è lo stato di diffidenza e direi di lotta sorda del contribuente e del fisco reciprocamente. A parte i contrabbandieri e i truffatori che sono ex-Lege, il contribuente in via normale non si fa carico di coscienza se cerca di evadere o attenuare il peso del tributo del dazio o della tassa da pagare e cerca tutti i mezzi che gli sembrano conducenti allo scopo. Egli è obbligato non solo da leggi positive, ma da obbligo morale a pagare i suoi tributi: « date a Cesare quel ch'è d i Cesare D ; l'evasione è u n danno per la società organizzata, e' si riversa sugli altri cittadini il carico

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Su questo punto delicato vedi il cap. X,'p. 163 sgg. in'questo volume.


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non soddisfatto per colmare il deficit delle somme dovute dagli evasori: dovere sociale (nel senso esatto della parola) verso l a società e dovere di solidarietà verso i singoli. Ciò non ostante, lo stato psicologico di certi paesi, come i latini, è a favore dell'evasione; di tale parere sono persone di retta coscienza e direi scrupolose. Forse adesso, introdotto in Italia l'uso della dichiarazione personale, sarà in parte corretta tale anarchica e antietica concezione. Essa è stata fin oggi giustificata dal fatto che l'aggravi0 fiscale è ritenuto eccessivo, e in taluni settori lo sia di fatto, e quindi lesivo del diritto dei cittadini; che l'amministrazione statale non è: rigida, né? economicamente oculata nè moralmente corretta; può darsi che ciò risulti vero per cinque casi su dieci. Ma il correttivo non è quello delle evasioni dei più abili, dei più furbi e dei piiinricchi(che possono arrivare a dividere 'i guadagni con quel personale che traffica fra i due interessati), sì bene una maggiore oculatezza da parte del governo, più equa politica legislativa e più rigoroso controllo. Portando le cose all'estremo dai due Iati, avviene quella disgregazione sociale p e r la quale può essere legittimo lo sciopero contributivo da una parte e un sistema inquisitori0 e repressivo dall'altra. Più sopra dissi che la valutazione etica dei mezzi varia se_condo i sistemi politici in atto. Nel caso presente,'non sarebbe legittimo lo sciopero dei contribuenti in regime democratico, fin che non siano esperite le vie parlamentari, i dibattiti pubblici, le proteste associate e infine i cambiamenti elettorali; mentre in regime assoluto occorrono altre vie per ottenere quel che si reputa equo e legittimo. Così dal punto di vista dell'eticità dèi rapporti fra cittadini e amministrazione statale, in regime libero la moralizzazione dei rapporti dovrebbe riuscire meno difficile, per via del pubblico dibattito degli affari, l a libera critica e il contrasto dei partiti, tranne il caso che l'ambiente di crisi morale sia così pesante, come avviene dopo le guerre, che gli stessi partiti, nessuno escluso, creino uno stato di reciproca omertà col collasso della resistenza morale d i fronte alla dilapiciazione dei denaro pnbblicu acciesciiitu rapidiiu;zn:e da un fiscalismo eccessivo e creante oneri non equamente distribuiti. , -

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Non intendo giustificare moralmente nè gli uni nè gli altri: intendo rilevare che creato uno stato di conflitto, si attenuano i rapporti morali fra i due in contesa. Mentre nella educazione anglosassone c'è stato sempre il rispetto dell'amministrazione, al punto che il raro evasore toccato nella coscienza, invia, senza rivelarsi, la parte abusivamente non versata all'erario, abitudine degna di nota che per la gente latina, se fatto spontaneamente, sembrerebbe qua& una stranezza. Un altro dei fenomeni preoccupanti dei rapporti fra il cittadino e l'amministrazione pubblica, è quello'della richiesta od offerta di compensi (spesso a mezzo di intermediari) per ottenere dei servizi dovuti, dei favori legittimi, o caso più diffuso, dei favori illegittimi. Fo i1 caso di una povera vedova di guerra, senza mezzi, che aspetta da sei, sette anni la liquidazione della pensione e non riuscendovi accetta la proposta di un intermediario di versare una certa somma. Se rifiuta, ci potrà essere chi metterebbe quel fascicolo sempre indietro; se accetta può darsi che otterrà un rapido disbrigo; essa comprende bene che in coscienza non dovrebbe dare quella somma; contrae un debito e dà la K busta » per uscire da uno stato di sofferenze. Fa male: ripetendo questo caso per mille e per centomila, la corruzione invade gli uffici pubblici. Dall'altro lato, quale impiegato potrebbe rifiutare al proprio superiore gerarchico di cercargli due o dieci fascicoli che egli desidera riesaminare? Questo caso delle pensioni, può essere ripetuto per qualsiasi certificato, per qualsiasi affare piccolo o grande che sia. Oggi che lo stato è divenuto gestore diretto o indiretto di una serie interminabile di enti, l'occasione di traffici indebiti è centuplicata. Il cittadino non solo è indifeso, ma è circuito, vessato e ne subisce le vendette se fa il zelante. L'omertà si diffonde fra i corruttori e i corrotti; la crisi morale dei rapporti fra cittadini e stato diviene endemica. I n ognuno di questi casi per il cittadino, l'impiegato, il ministro, il parlamentare si pone un caso d i coscienza; ma se ognuno di costoro è debole e la resistenza individuale viene meno, si dovrà conchiudere che il disfacimento sociale è alle porte.


Chi resiste crea la generazione eticamente sana che può tentare il risanamento della. società minacciata da una disgregazione tanto più grave quanto più indebolito 'ne è il vincolo nell'intimo della coscienza di ciascun individuo. Gli esempi nel campo della politica associata si possono moltiplicare all'infinito, sia da parte dei rappresentanti dell'autorità che da parte dei cittadini. I primi sono i più esposti alle tentazioni del potere, del denaro, della clientela, del partito, e sono quindi i più responsabili, se essi vengono meno alla osservanza delle leggi,, alla equità dell'amministrazione, alla tutela dei deboli èd alla mortificazione dei potenti, presi spesso come sono dalla demagogia popolare da un lato e dalla paura di perdere il potere dall'altro. Perciò gli istituti parlamentari, con l'alternanza nei posti di governo, la periodicità delle elezioni, il controllo'e la critica delle opposizioni, rinvigoriscono il senso della responsabilità e limitano le fosti ambizioni incontrollate.


Cap. VI1 DEI RAPPORTI POLITICI

CON L'ESTERO

I rapporti con nuclei umani che gli uomini riguardano estranei alla propria comunità nascono col bisogno : bisogno di scambi, bisogno di difesa; ovvero derivano dalla paura: paura fondata o paura infondata; perfino dalle gelosie o dagli urti occasionali. I n tutti i rapporti vi è un punto di incontro, che è quello dei patti, consacrati dalla religione, resi saldi dalla tradizione, violati per motivi diversi più o meno validi, e ricostituiti dopo le prove sanguinose che non risolvono mai nulla, ma sono terribile olocausto alle passioni umane. Fermiamo un punto: i patti che sono la forma giuridicopositiva nei rapporti fra gli stati non creano la società internazionale: questa è insita nella società umana; solo fissano i termini più o meno elementari, più o meno complicati, parziali o generali, della società internazionale. Ma la società in radice esiste, è sempre esistita; si articola secondo i tempi, le distanze, le possibilità e gli sviluppi. I1 concetto di popolo- sufficiente a sè e chiuso agli altri, se etnologicamente è possibile - e storicamente provato, ha origine da fatti speciali, da condizioni fisiche di popoli isolati o che occasionalmente si isolarono, o che volutamente lasciarono il precedente consorzio per bisogni (fame) o per contrasti (lotte faziose) o per avventure o per cause fisiche, terremoti, terre mobili, isole distanti. Ma appena la vita può espandersi, i rapporti si riprendono superando le paure istintive e gli isolamenti voluti. I patti attuano l'istinto e il bisogno di società internazionali, non creano le basi di un diritto che in fondo è naturale:' l'osservanza dei patti è legge del cuore prima che impegno di

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volontà, basata, è vero, sulla reciproca utilità, ma anche sulla minore utilità o notevole svantaggio della parte più debole, che per ragioni eventuali, subisce condizioni meno favorevoli. I1 rapporto di giustizia e di equità nei commerci fra popoli diversi deriva certo dall'interesse di ambo le parti; la frode potrà essere caso particolare; ina la penale posta nei contratti o i l pericolo della rescissione dei contratti commerciali, mette in mora e privati e autorità alla più leale correttezza negli affari. Se l'utilità pubblica e di rimbalzo l'utilità privata corrispondono ai principi morali dei rapporti internazionali concretizzati in patti, leggi internazionali, norme giuridiche ammesse da tutti, non possono esservi che motivi secondari ed egoistici a creare i conflitti fra i nuclei autonomi, si chiamino città, stati, imperi. Pure tutta la storia umana, anche quella che chiamiamo civile, ( e forse questa più di p e l l a non scritta) non è altro che una serie di guerre, di ingrandimenti di territori politici, annessioni, assoggettamenti di popoli e di nazioni: una storia di sangue. L'uomo politico, che al momento opportuno con inganni, menzogne e sopraffazioni arriva a privare u n altro paese della sua autonomia (ricordare Hitler quando occupò l'Austria e assoggettò la Cecoslovacchia) viene esaltato dalla pubblica opinione contemporanea o dagli storici e dagli scrittori che formano l'opinione pubblica del tempo. Se poi è fortunato in guerra, non si contano i panegiristi del momento e neanche i laudatori della storia scolastica, quella che dovrebbe essere e non è maestra di vita. Coloro che sotto il pretesto delle glorie nazionali esaltano il successo, dimenticano la terribile contropartita nel campo psicologico e sociale. Si forma di conseguenza una mentalità che distacca l'uomo politico dalle. sue convinzioni morali, il paese, meglio la nazione, dalle sue responsabilità internazionali, disintegrando la società che non è solo nazionale, dagli obblighi verso gli altri uomini nella solidarietà umana che ne è la base. Questo quadro etico non è definitivo: i progressi fatti attraverso i secoli nel campo del diritto e del costume internazionale sono stati notevoli; il processo di unificazione umana è sempre

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i n atto. Le difficoltà nascono dalle concezioni e passioni egemoniche che si sviluppano per desiderio di grandezza, per conquista di mercati, per esigenze materiali di vita. La posizione realistica di gioco di forze è vestita da pretese d i prestigio, onore nazionale, difesa di temuti pericoli; i pre, testi di piccoli contrasti, superabili con metodi diplomatici, servono a mascherare la volontà di conquista. Chi non ricorda i fatti di Serajevo del 1914 che diedero il ,pretesto alla guerra austro-serba che fu l'inizio della prima guerra mondiale? I moralisti sono stati indotti da questi fatti a teorizzare circa le guerre giuste e le guerre ingiuste, e perfino a valutare preventivamente la gravità dei motivi che caratterizzerebbero le guerre in rapporto alle cosidette cause. Nel fatto, non vi è rapporto di causa ad effetto fra i motivi precedenti e la guerra che ne segue. Le situazioni variano tra la volontà di fare la guerra e la necessità di accettarla come mezzo di difesa. Dentro questi limiti gioca l'abilità degli uomini responsabili per evitarla, la astuzia per farla accadere al momento opportuno in modo da evitare l'apparenza di esserne responsabili. Tutti convengono che volere una guerra è un delitto contro l'umanità in genere e contro il proprio paese in particolare; però al momento che la guerra scoppia, tutti tendono a giustificarla dalle due parti in lotta. La insensibilità morale prende tutti per la gola, perchè tutti si trovano, volere o no, impegnati per la vita e per la morte. Allora vengono le giustificazioni morali, perchè dopo tutto la ragione etica prevale nella coscienza della umanità anche quando si va a commettere un delitto: Gesù fu crocifisso e i pretesti furono la pretesa ,di essere Dio e il fatto che sowertiva il popolo negando di dare il tributo a Cesare. La guerra etiopica fu giustificata dal lato giuridico (aggressione) dal lato etico (civilizzazione) dal lato religioso (diffusione del cattolicesimo). Tali pretesti erano chiari; ma prevalsero la concezione nazionalista e la imperialista unite insieme; perciò fu rifiutata la proposta Lava1 che avrebbe dato le soddisfazioni nazionali e i vantaggi coloniali ma senza la guerra. La gloria della vittoria con le armi prevalse perfino sull'utile di avere i vantaggi senza effusione di sangue e senza sperpero di danaro. Quel che si dice della guerra etiopica, si applica a tutte le guer-

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r e che. nella loro successione fanno giustizia dei torti reciproci, livellando il mondo nella miseria, nel dolore e nel sangue. Ciò non ostante, al momento in cui il dado è tratto, la coscienza degli interessati dalle due parti (aggredito e aggressore) si adegua a l sentimento gelierale che porta, senza più discriminazioni, alla lotta per la vittoria; perchè i l senso del pericolo di una sconfitta e il danno comune che. diverrebbe danno dei singoli, fanno tacere, annullano direi, ogni senso morale che condanni non tanto la guerra in genere, ma tale guerra, combattuta hic et nunc, come un fato di morte. Questo quadro clinico della soppressione violenta, a guerra dichiarata, del senso morale nei riguardi del nemico non porta a giustificare le guerre, che per sé sono ingiustificabili, tranne nel caso dell'aggredito senza colpa che ha diritto a difendersi; o dell'aggredito con colpa sproporzionata alla punizione inflitta con la guerra, che abbia offerto invano l a giusta riparazione al suo fallo. Anche in questi due casi, rari ma storicamente rilevabili, la guerra si presenta sempre nel suo quadro tragico ;antiumano, che per l e passioni che desta e per la impossibilità di essere mantenuta nei limiti di una difesa proporzionata, altera i giudizi etici della giustizia e dell'umanità, pur ammettendo gli atti di eroismo, di dedizione e di sacrificio, che nobilitano solo chi l i compie.

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I5 Srrrwr, - Politica e morde

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Cap. VI11 XL VALORE ETICO DELL'INCIVILIMENTO Durante il periodo hitleriano furono inventate -.- non poche di quelle battute popolari che caratterizzano un regime. Il tedesco esalta il nuovo fiihrer che porterà il benessere e la grandezza a1 paese; gli risponde l'olandese: - quando la mattina bussano alla mia porta, so che è il ragazzo che mi porta il latte; ma quando bussano alla tua porta, tu dubiti che possa'essere la Gestapo che venga a portarti in carcere. La sicurezza dalla paura è alla base dell'incivilimento: sia paura del ladro, del nemico, del fazioso; sia paura della stessa organizzazione sociale; sia paura individuale o collettiva; non importa. La paura ,creando lo stato di sospetto, ansietà, instabilità, divide le famiglie fra di loro, accende le ire delle fazioni, mette città contro città, arma gli stati e molte volte provoca le guerre. Isaia nel canto del rampollo di ~ e s k che , pieno di spirito di Dio con la sua aro la fa morire l'empio, presenta il quadro del più elevato incivilimento con l'abolizione della paura: u I1 lupo farà dimora con l'agnello, il vitello il leone e la pecora staranno insieme e un piccolo fanciullo li condurrà ... e il bambino di latte si trastullerà sopra il covo dell'aspide D. L'incivilimento umano non è mai assoluto, mai generale, mai completo ; è relativo al condizionamento fisico, storico e sociale, subisce crisi e sviluppi, arriva a mete insperate e ad involuzioni incredibili. Si può passare i n poco tempo dalla civiltà alla barbarie, e riprendere il ritmo civile come se le esperienze crudeli del passato prossimo non fossero mai avvenute. Però gli splendori spirituali e materiali delle varie civiltà tramontate e quelle della nostra attuale sono tali, da farci restare ammirati come l'uomo attraverso fasi di lotte inaudite, di

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ferocie immani e di miserie estreme, abbia potuto esprimere tanta ricchezza morale, intellettuale e sociale e mostrare tanta resistenza all'imperversare del male. I1 fatto fondamentale ne è stato e ne è la formazione di una coscienza etica comune insopprimibile, anche nelle enormi deviazioni e contaminazioni ; i l senso di eguaglianza spirituale anche nelle insormontabili diseguaglianze castali e servili; il senso di giustizia anche nel patimento delle peggiori ingiustizie; il senso di famiglia e di maternità anche nelle famiglie poligamiche e nelle depravazioni rituali; i l senso di solidarietà anche se limitato a un cerchio sociale assai ristretto; l o spirito di sacrificio di sé, e della vita quando occorra, per il bene comune comunque inteso. La formazione della coscienza collettiva non è diversa da quella individuale; è la stessa nella sua inter-rifrazione. P e r intenderla bisogna partire dal principio che non possa svilupparsi coscienza individuale se non in società. Senza la interrifrazione la coscienza rimane chiusa e inviluppata. Creato Adamo, Dio gli diede una compagna dicendo: « N o n è bene che l'uomo resti solo ».Non ostante che Eva fosse stata la tentatrice, l'azione di Eva integrò Adamo, Eva e Adamo generarono figli e figlie: il contrasto del male col bene sviluppò non solo gli istinti animali, ma il senso di coscienza; e Dio poté dire a Caino: « Forse, se farai del bene, non anche ne riceverai? Se invece farai del male, non starà subito i l tuo peccato alla tua porta? Ma l'appetito tuo ti sarà sottoposto, e tu potrai dominarlo ».E avendo Caino detto che « chiunque mi troverà mi ucciderà D i l Signore gli disse: « No, non sarà così. Anzi, chiunque ucciderà Caino sarà punito sette volte di più ». E pose il Signore su Caino un segno affinchè nessuno che l'incontrasse l o uccidesse. Dopo di che Caino fabbricò la prima città, cioè i l primo agglomerato d i abitazioni, dando inizio alla vita associata su territorio fisso. Adamo ed Eva che violano i l comando divino e prendono coscienza de11i Ioin colpa 3 Caino richiamato da Dio a dominare l'appetito e a prendere coscienza della esigenza di una punizione e l a intima rifrazione sociale che ne deriva, stanno a indicare il centro di tutto l'incivilimento umano che nella coscien-

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za del bene e del male ha sua radice; e che dalle deviazioni d i apprezzamento dovute alla ignoranza, alle irrazionalità istintive e alle pseudo-razionalità riflesse, derivano tutte le defor- ' mazioni e gli arresti al processo di incivilimento. I1 fatto associativo domina in tutto il processo umano, processo non dell'uomo ma degli uomini, non di una intelligenza e di una volontà, ma di milioni e miliardi di intelligenze e di volontà; non da sforzi isolati e quindi sterili, ma da energie che pur sviluppate da uomini singoli, si moltiplicano nel riflesso di un numero indefinito di coscienze, creando tradizioni e istituti che fissano le condizioni per ogni ulteriore prooesso. Nel campo politico convergono, attraverso la evoluzione degli istituti particolari che ne formano l'intreccio, sviluppi sempre crescenti, rete di interessi, sentimenti, passioni, cqntrasti di tendenze, sì da rendere il potere politico quale forza prevalente in ogni parte del mondo organizzato. Su tale potere il riflesso ,della coscienza individuale si trova attenuato per il fatto che, restando le leve del comando in poche mani, il popolo ha difficoltà a rendersi conto degli ingranaggi politici, delle teorie su cui si appoggiano, degli interessi che vi si annodano. Si formano così due coscienze distinte: quella dei politici di professione, dei tecnici ed esperti, dei burocrati ed esecutori, che tendono a ' divenire caste limitate e impermeabili; e l'altra, la massa più o meno disorganica o irregolarmente organizzata, che intende i problemi politici attraverso la formazione dei miti, il prevalere dei particolarismi, sempre in forma analitica, essendo difficili le sintesi nelle quali possano equilibrarsi i vari interessi particolari con quelli generali e superiori. Da qui la formazione d i coscienza individuale insu5ciente e di coscienza collettiva equivoca, e quindi la necessità di continue elucidazioni, rettifiche, discussioni, riesami, in u n continuo ed incessante innesto del generale sil,particolare, dei dati d i esperienza sugli elementi teorici, con un rincorrere agitato e continuo h a idee e fatti: hanc pessimam occuiationern dedit nobig Deus direbbe il sapiente. Da tutta questa enorme fatica emerge sempre la coscienza etica che è al fondo della civiltà umana: il senso di giustizia e il senso della colpa, il rispondente senso di responsabilità e la

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prevalente valutazione di bene o di male, che l e nostre azioni possono produrre nella vita individuale e in quella associata. Per quanto teorie a-morali e immorali si siano introdotte nei sistemi politici e nella pratica usuale, pure il valore etico delle azioni politiche non è scomparso dalla mente e dalla coscienza dei popoli. Si può sbagliare nella valutazione; si può credere che gli interessi nazionali o la ragione di stato siano validi a permettere le azioni più indegne; viene il momento che tali pretesi effetti vantaggiosi si riconoscono come vani e - a parte le sanzioni storiche che presto o tardi non mancano mai (Dio non paga il sabato) - vengono valutate per quel che sono, atti non degni dell'uomo, non degni dell'uomo politico, non degni del popolo che li approvò e ne usufruì. I1 che, a parte le opinioni e gli apprezzamenti di ogni singolo atto più o meno giustificabile, p u r ammettendone la utilità immediata non se ne può / ammettere l a immoralità intrinseca; e spesso si resiste a che divenga costume. Se Dachau fa orrore ed è rigettato a nome dell'umanità, ciò non è perchè Dachau era in mano ai nazisti; se le vendette, gli assassini in massa del terrore in Francia sono coperti dal velo della importanza storica di quella rivoluzione, non per questo possono essere ammessi'come mezzo di governo anche in periodo rivoluzionario. Nessuno dei due casi è civilmente e quindi eticamente giustificabile. Lo sviluppo etico dell'incivilimento va verso i l sempre maggiore rispetto della vita umana; così che si deve arrivare non solo all'abolizione degli assassini di stato, ma anche all'abolizione completa della pena di morte. L'incivilimento non è lineare ; le, idee civili di u n tempo debbono essere successivamente rivedute e riadattate; le crisi fanno retrocedere in modo che gli istinti barbarici riprendono vigore. Ma il faro della eticità non si oscura mai; e la ripresa, ora in nome della religione, ora in nome della libertà, della socialità, del diritto, della personalità umana, ritorna a essere d i guida fra i flutti delle passioni politiche. Eticità ed incivilimento sono due facce della vita associata de!!'uou;o, i! ~ E ! Y , "e! cmtattc e nel cnntrasto reciproco, eIeva, affina e sublima l e proprie facoltà, ed h a modo di apprezzare, in ogni evenienza, i valori essenziali della razionalità.


Cap. IX LA CIVILTA' CRISTIANA

I1 cristianesimo ha dato all'incivilimento una sua impronta indelebile, elevandolo senza comparazione al disopra di tutte le civiltà precedenti e concomitanti. Anzitutto h a sganciato la coscienza personale daiJ vincoli esterni di famiglia, casta, tribù,.nazione dando ad essa il primato del valore e della responsabilità. E' questa una permanente e sempre presente liberazione messa alla base d i ogni libertà. Allo stesso tempo impose all'individuo di ripiegarsi verso gli altri nell'abbraccio solidale di uomini liberi, perchè legati tutti da vicendevole amore, un amore unico con doppio oggetto: verso il Padre comune, Dio, e verso i fratelli, il prossimo. Questo è il fondamento della etica cristiana, la quale influisce con luce di verità e amore in tutto il lungo percorso di duemila anni di cristianesimo militante. Veramente militante, perchè l'errore e la colpa sono i nemici da combattere, intristendo la vita individuale anche nei suoi riflessi collettivi; di tutti i cristiani, quelli stimati buoni e quelli creduti cattivi, gli ignoranti e i dotti, gli erranti e i convertiti, i tiepidi, gli zelanti, i fedeli e gli apostati. Che meraviglia che la politica, essendo nel suo complesso passionale la piu refrattaria a mettersi in riga con il cristianesimo, abbia spesso levato bandiera di autonomia, creando i conflitti secolari fra potere temporale e potere spirituale, fra impero e sacerdozio, fra chiesa e stato? La rivolta politica moderna è arrivata a negare i benefici dell'incivilimento cristiano, rappresentando il cristianesimo, in rapporto alla vita associata, come un intmso e anche come un


nemico; a teorizzare la socialità laica (filosofia etica e politica) quale nuova civiltà che soppianterà quella cristiana. Se dal punto di vista della lotta anticristiana, che la storia ci presenta costante da circa duemila anni, le fasi moderne d i apostasia, prima borghese e poi anche proletaria, mostrano le difficoltà della completa cristianizzazione storica del mondo, difficoltà la cui radice è nella coscienza individuale di ciascuno di noi ; dal punto di vista delle nuove conquiste, oltre che interiori, nel campo del vivere civile, tale lotta è salutare e conquistatrice e ci deve riempire di ottimismo, come lo avevano i primi cristiani pieni di fede nella seconda venuta del Cristo. Maturare questa venuta nella coscienza propria e i n quella degli altri non è solo atto di fede soprannaturale, è allo stesso tempo fiducia tempratrice dei sentimenti più nobili e delle azioni elevate fino al sacrificio. Perciò valgono allo sviluppo della civiltà, anche sul piano terreno, tutte le buone azioni di coloro che si sacrificano alla diffusione della verità, all'assistenza dei deboli e dei sofferenti, alla educazione della gioventù, alla elevazione delle categorie sociali più abbandonate; valgono in quanto realizzano nei fatti un'etica superiore che fa vincere il male nel bene. Pio XI, parlando ad u n pellegrinaggio belga, affermò che la politica è un ramo dell'amore del prossimo. I n vero, tende per definizione al bene di una comunità, la statale ; non sarebbe tale, cioè amore del prossimo, se tendesse a sacrificare una parte per favorirne l'altra; a violare la giustizia a vantaggio dei proietti; a mancare di equità per tornaconto personale; ad amministrare male il'denaro d i tutti col profitto illecito di pochi. Chiaro: l'etica ha le sue esigenze, che una coscienza veramente cristiana mette a fuoco, mentre una coscienza falsamente cristiana, ovvero svincolatasi dalla morale, non sente più come dovere effettivo e cogente. La peggiore avventura che sta subendo il mondo detto civile è quella di concepire l'etica come un complesso di norme utili per vivere in comune, norme che ciascun popolo può modificare secondo le proprie vedute pratiche, camhiandnle nill'evnlversi degli atteggiamenti e delle utilità. I n questo caso la coscienza è deformata in partenza, in quanto accetta il codice del buon co-


stume come si accetta la moda del vestire, la etichetta del mangiare o del conversare, le regole del giocare: fatti esterni, abitudini sociali, norme di accomodamento, usanze superficiali, nei quali l a vita si effonde e si stempera perdendo di significato e di valore. Si sa che il cristianesimo da. un fine ultraterreno alla vita personale, .e solo attraverso l a singola persona dà valore alla vita terrena nella sua socialità, anch'essa trasformata i n una solidarietà spirituale detta comunione dei santi, incentrata e vivificata in Cristo e da Cristo. Ma quali effetti di bene se questa stessa linfa spirituale arrivi a circolare nella vita terrena, sol che ci sia quell'amore del prossimo, che tempra le coscienze e dà efficienza spirituale a tutti gli atti umani anche più insignificanti, contenendo in sé l a scintilla di divino portata nel mondo? Così coscienza e politica possono trovare una coincidenza pacificatrice al disopra del tormento quotid'iano di incorrere i n responsabilità condannate dagli uomini e da Dio.


così. La menzogna viene sempre a galla; a parte la sua natura immorale, ritorna più a danno che ad utile. Se è vero che Bismarck diceva di usare in diplomazia la verità per far credere il contrario, è più esatto affermare che la verità in diplomazia è un mezzo che presto o tardi produce i suoi frutti inestimabili d i comprensione, fiducia, simpatia, solidarietà.

Essere veritiero non impone svelare i segreti o fare affermazioni inopportune. Il silenzio è d'oro specialmente i n politica: oggi si parla troppo, e quindi si usano verità, mezze verità, verità apparenti, infingimenti e menzogne. L'arte politica educa a dire quel che è necessario; tacere quel che è doveroso non palesare; sfuggire la menzogna e trovare il modo di evitare le affermazioni che non sarebbero conducenti al fine. Senza una lunga educazione non vi si arriva facilmente.

È più facile dal no arrivare al si, che dal sì retrocedere a l no. Saggio consiglio è non impegnarsi senza avere riflettuto a tempo ed avere formata la convinzione di poter mantenere l'impegno preso.

I1 no è più costoso del sì; ma spesso il no è più utile del sì. Data la facilità delle richieste onerose per lo stato e di dubbia moralità per il richiedente, il no è doveroso e i l sì è dannoso. L'uomo politico non deve aver timore di dire il no più spesso che il sì. A parte il senso del dovere, il no detto con garbo ma con fortezza aumenta credito e stima. 9 I1 politico incerto ed esitante, se non h a per rivalsa u n cumulo d i buone qualità, onestà, buon senso, capacità di sintesi, aiitorità morale, henemerenze gociali, pii6 &si un iiomo farlito. Purtroppo, anche le buone qualità sarebbero in parte svalutate per l'una che presto diverrebbe il tallone di Achille.

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NOTE E SUGGERIMENTI DI POLITICA PRATICA

1 La politica può dirsi l'arte dell'utile possibile applicata agli affari della cosa pubblica. Trattandosi di società, quale essa sia, utile equivale a bene comune o bene della comunità. Si dice utile possibile. anche quando per cause eccezionali o per eventi felici vengono ottenuti vantaggi creduti impossibili.

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La società politica è basata su principi informatori riguardanti l'ordine, l'amministrazione e la difesa pubblica; l'utile politico consiste nella ricerca dei mezzi e dei fini rispondenti alla natura stessa di tale società. 3 Non è di tutti saper fare della politica, ma di coloro che ne sono dotati. Come ogni arte anche la politica ha i suoi grand i artefici e i .suoi artigiani; naturalmente vi saranno anqhe dei mestieranti; il pubblico sceglie i suoi beniamini anche fra i mestieranti.

È primo canone dell'arte politica essere franco e fuggire l9infingimento; promettere poco e mantenere quel che si è promesso.

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Si crede che la menzogna sia un obbligo in politica; non è


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Aver cura delle piccole oneste esigenze del singolo cittadino come se fosse un affare importante è buon metodo in politica. Dante esalta Traiano per avere ascoltato la a vecchierella n al momento della partenza per la guerra.

11 La sollecitudine nello sbrigare gli affari, specie se riguardano i singoli cittadini, è buona politica. Se l'esito è negativo, si satà evitata l'attesa che accresce le speranze e ' i crucci; se l'esito è positivo, si avrà il vantaggio di av,er reso giustizia senza averla sciupata,nelle more, per chi attende sempre lunghe e tormentose. 12 Non ti circondare di adulatori. L'adulazione fa male all'anima, eccita l a vanità e altera l a mvisione della realtà. L'amico adulatore non è più amico e occorre starne in guardia: può domandare quel che non si deve concedere e che forse si concede per il legame creato non dall'amicizia ma dall'adulazione.

ogni pro-. Rigetta fin dal primo momento che sei al .posta che .tenda alla inosservanza della legge per un presunto vantaggio politico. I1 legame morale che la infrazione della legge esige con altri, colleghi e subordinati, rimane come una catena; i conniventi te ne richiederanno il prezzo. Altre violazioni seguiranno alla prima. I1 peso psicologico della prima colpa così fu scolpito dal Petrarca nel 75' sonetto in vita: Allor corse al suo mal libera e sciolta; Or a posta. d'altrui convien che vada L'anima, che peccò sol una volta. I n politica è lo stesso.

Non promettere quel che si dubita poter mantenere; non


affidarti al tempo per cercare d i non mantenere quel che si è promesso.

In tutti gli affari bisogna misurare il tempo « tecnico » per eseguirli, in modo da vederne gli effetti a distanza. I1 pittore, affrescando la volta e i muri di una chiesa o di una grande sala, deve mantenere vivo il senso della distanza del punto visivo; così deve fare l'uomo politico. P e r giunta: occorre misurare il tempo politico » della preparazione psicologica dei collaboratori e del pubblico; il tempo « parlamentare r> se in democrazia e il tempo « d i anticamera 1) se in regime dittatoriale. Non basta, c'è anche da prevedere il tempo « burocratico », il più lungo e il più perduto; in ultimo arriva il tempo « tecnico » delIa realizzazione. Chi vuole bruciare uno di questi tempi, spesso brucia l'opera che vuol fare, se non brucià la sua politica e la sua persona.

Non rimettere a domani quel che fare oggi; ma non fare oggi in fretta quel che puoi fare domani con calma.

.l7 La pazienza dell'uomo politico deve imitare la pazienza che Dio ha con gli uomini. Non disperare mai, ma cogliere il momento buono per il premio o per la punizione.

Non si può collaborare senza aver fiducia. Ma il giorno che riconosci che il tuo collaboratore non è fedele, trova modo d i sbarazzartene al più presto per non riprenderlo mai più.

Non coprire con la tua autorità le malefatte dei tuoi dipendenti; lascia che la giustizia sia anche per essi rigorosa. .


Preferisci non scrivere mai cosa della quale desideri che sia mantenuto i l segreto. Pensa, quando scrivi, che il foglio potrebbe essere letto da persona indiscreta. Evita in ogni caso le confidenze non necessarie.

Se vuoi mantenuto i l segreto, non confidarlo ad alcuna persona, anche la più intima. Se sei obbligato a confidarti, usa i l sistema di farlo senza altri testimoni, anche quando l e persone da fare partecipi a l segreto siano più di una.

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Se hai subito, in politica, uno scacco e non puoi o non vuoi prenderti l a rivincita, incassalo con faccia serena. Se pensi alla rivincita, sappi che non ti potrai fermare a metà strada ma sarai obbligato ad andare fino in fondo. Se perdi d i nuovo, tirane le conseguenze e ritirati dall'agone.

Non pensare di essere l'uomo indispensabile; da quel momento farai molti errori. Se sono gli altri a dirtelo guardati come da nemici; ti porteranno fuori strada.

Dei tuoi collaboratori al governo fai, se possibile, degli amici; mai dei favoriti. L'amico che chiede troppo deve essere tenuto a distanza. I favori che gli amici potranno ottenere debbono essere onesti, nell'ambito della legalità e tali da non creare . risentimenti giustificati.

B meglio tenere lontani i parenti dalla sfera degli affari statali, a meno che non siano già nella carriera per meriti pro-

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pri; anche senza volerlo compromettono sempre. Se poi entrano nella sfera dei collaboratori, facilmente abusano della parentela. I1 nepotismo è stato sempre dannoso.

Non è da disdegnare il parere e I'ausilio delle donne savie che si interessano ai pubblici affari. Esse vedono le cose da punti d i vista concreti che possono sfuggire agli uomini; giova loro l'intuito più che il ragionamento; il sentimento più che l'esperienza. Bisogna però guardarsi dalle Ninfe Egerie, specie quelle che sono impegnate a voler guidare la politica dai salotti mondani.

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Chi è troppo attaccato al denaro non faccia l'uomo politico nè aspiri a posti d i governo. del denaro lo condurrà a mancare gravemente ai prop,ri doveri.

amore

Non abbondare in discorsi per il futuro con piani e programmi d i larga portata, pensando che anche gli uomini politici sono i n condizione di realizzare assai meno di quel che credono e i n tempo assai più lungo di quel che sperano. Lascia parlare i fatti: è più proficuo e più convincente.

Quando la £olla ti applaude pensa che la stessa folla potrà divenire awersa; non inorgoglirti se approvato nè 'affliggerti se osteggiato. .T

Fare ogni sera l'esame di coscienza è buon sistema anche per l'uomo politico; così come è giovevole fare buoni propositi. Se ciò non ,ostante, la sera si arriva a mani vuote senza' aver

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mantenuto i buoni propositi della mattina, pensa che ciò accade ai piÚ, e serve a tenerci umili anche se la gloria.umana aleggia attorno alla nostra piccola testa.



APPENDICE

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- STIJRZJJ - Politica e morale



L'ETICITA' DELLO STATO

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1. La parola stato è abbastanza recente, e può significare sia la società politica comunque organizzata, sia il tipo moderno di organizzazione della società politica. I filosofi, per conto loro, hanno cura di dirci che cosa sia lo stato o società politica; e divisi fra immanentisti e trascendentalisti, tra soggettivisti e realisti, essi secondo il loro angolo visuale, definiscono e precisano il contenuto metafisico (diciamo così) dello stato. È chiaro che quando dal contenuto metafisico si passa a quello etico, le stesse differenze appaiono più evidenti ancora. tanto niù che i filosofi non si troveranno mai d'accordo a dare u n significato comune alla parola etica. Perciò sorprende u n poco leggere che G. Gentile, al congesso filosofico, si sia dichiarato (( lieto di apprendere che da parte cattolica si concedesse allo stato carattere etico 1) come è scritto nella Rivista di Filosofia Neo-Scolastica (maggio-agosto 1929), e che il redattore di tale rivista abbia aggiunto: (C Letizia che, evidentemente, non potevamo che condividere 1). Invero 'nella opinione dell'uno e degli altri le parole stato ed eticità hanno significati diversi; il che è chiaro a chiunque ne conosca le teorie. Per trovare un punto di convergenza sia pure formale fra le. due parti, bisogna riportare tutta la questione sopra il concetto di limite del potere statale: - è o non è limitato il potere statale? Se il potere statale si considera come un organo dello stato, e quindi governo e governanti fanno una dualità, tutti convengono che esso è limitato, quale che sia la forma di governo o l'assoluta o la democrazia. Se però il potere statale è considerato come un centro di uqificazione ove convergono tutti gl'interessi e i sentimenti della società politica, allora (quale essa sia la forma di governo) il potere statale si considera dalla maggior parte dei moderni filosofi giuristi o politici, come illimitato. Non parliamo qui della mancanza di limiti esteriori allo & .


stato, come a i tempi dell'impero ecclesiastico feudale, o come potrebbe essere domani se la Società delle nazioni acquistasse u n potere per sè stante. Questa è una questione diversa. Qui parliamo di limiti interiori, che perciò si risolvono i n etica e diritto. Ora il concetto di moralità, e quindi di diritto, nei rapporti sociali, è fondamentale ed è insito nella coscienza degli uomini. Può il potere statale prescinderne? oppure n e è limitato esso stesso ? La risposta che si dà a queste domande è in rapporto alle proprie, teorie. Coloro che ritengono che l a moralità sia relativa allo svolgimento della società umana, e quindi dello stato che ne è una espressione sintetica e organizzativa, opinano che l a limitazione non sia altro che u n effetto dì ottica; perchè,l nel fatto, il potere statale si esercita entro quel -binario che la società stessa, per il suo grado di svolgimento attua sempre. Secondo i vari aspetti tale binario si chiama moralità, giustizia, diritto, ovvero ragion di stato, interesse della nazione, bene co-. mune e simili. Gli altri invece ammettono il limite morale come u n dato esterno a l potere statale e. alla società politica; i neo-scolastici a l congresso filosofico affermavano: « Lo stato è etico i n quanto è tenuto a riconoscere la legge mo\rale che proviene da Dio » (1.c.) 2. Prima di andare avanti, bisogna osservare che spesso si usano termini che implicano una idea impropria dello stato in quanto può credersi che se ne voglia fare una ipostasi, dotata d i intelletto, volontà, coscienza; un ente spirituale quasi fisico o iperfisico, ma agente o reagente, con personalità propria. Gentile dice: « Lo stato è la nazione consapevole della sua unità storica - e Olgiati e altri dicono: a Lo stato è tenuto a rico-, . noscere la legge morale D. - u Lo stato deve avere una coscienza filosofica )) aggiunge Gentile ; e « noi siamo d'accordo con lui )) scrive Bontadini (1.c.). Ora, secondo noi, lo stato non è altro che la stessa convivenza umana nel suo aspetto politico-giuridico. E anche a volere moltiplicare (come si fa oggi) gli aspetti sotto i quali si'può rigtiardare lo stato fine a farne un tutto, non si uscirà mai dal quadro d i una molteplicità di relazioni dei singoli uomini e loro ag' gruppamenti a d u n fine politico. Ogni società è per sè un tentativo di unificazione dei singoli sotto aspetti e fini determinati; ma i singoli non perdono mai la loro personalità per farne una personalità a sè, indipendente, dai singoli, come una super-coscienza e super-volontà. Le unificazioni d i pensieri, stati d'animo, rapporti morali,' valori spirituali, sono sempre parziali, fluttuanti, particolari, transitorie, benchè mano mano si rendano più larghi o più pro-

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fondi come più e più vi concorrono i vari fattori della vita sociale, fattori familiari, economici, di lingua, di razza, di tradizione, di religione, di cultura. Queste unificazioni non sono per sè stanti e fuori delle singole persone, se non attraverso manifestazioni che possono chiamarsi, sotto un certo senso, simboliche, quali sono le leggi, i parlamenti, i governi centrali e locali, gli eserciti, le scuole, le produzioni di cultura, di arte, di stampa e simili. Ma bisogna non confondere i n essi il particolare, il concreto, il personale, col generale e collettivo; perchè per quanto si generalizzi, non si può mai uscire fuori dalla coscienza e responsabilità individuale neanche Der creare una dialettica storica ove tutto si 'risolva e si spieghi come i n una supercoscienza e supervolontà. Noi quindi ci guardiamo dall'uso corrente di ipostatizzare lo stato e dal rappresentarlo anche simbolicamente come avente, per sè una coscienza e una volontà. 3. Ciò nonostante noi siamo fra coloro che affermano l'eticità dello stato: ma sarà bene intenderci. L'eticità è, secondo noi la rispondenza della natura razionale al suo fine D. Ora chi parte dalla tesi che la società politica, indipendenteniente dalla sua forma concreta, è u n fatto di natura, non può dubitare della eticità di essa; la eticità è in re ipsa, cioè nel fatto che uomini sono costituiti in società, non per volontà propria e libera e dandosi. essi un fine qualsiasi, ma per esigenza imprescindibile d i natura, e per fine imposto dalla natura stessa. Invero, il fine della società politica si converte con la stessa natura di essa, in quanto è un dato intrinseco. E se in essa e per essa altri fini arbitrariamente si tende a conseguire, i quali, comunque, divergono o ripugnano dalla natura della società politica, per questo stesso divergeranno dalla sua eticità e ad essa ripugneranno. I n sostanza, c'è insita nei rapporti sociali degli uomini una esigenza etica fondamentale, cioè la rispondenza alla razionalità, che non può a volontà ammettersi o negarsi. Noi esplichiamo ciò con i concetti di moralità, giustizia, diritto, e l i oggettiviamo in quanto- dai fatti ne deduciamo i principi generali e le ragioni morali e in quanto cerchiamo nei fatti il valore razionale. Questo valore razionale noi chiamiamo legge di natura, e salendo dalla natura al suo Autore, Dio, lo chiamiamo legge divina data agli uomini i n forma razionale. E d è la razionalità stessa della vita sociale degli uomini che esige e che è la sua eticità. Per molti filosofi e " giuristi auesta razionalità è evolutiva e * l'interprete vero ne è lo stato, quale espressione ultima e illimitata della razionalità sociale. Per altri auesta razionalità è immutabile e il vero interprete ne è la coscienza individuale. L

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Noi reputiamo che questa razionalità concretizzandosi abbia i l lato immutabile o permanente e quello evolutivo, e che questi due lati interferiscano sempre, che l'interprete ne sia l a società individuale ma non avulsa nè astratta dalla società. Qui non discutiamo della rivelazione cristiana o della chiesa, ma non è superfluo dire che la coscienza individuale ,non basta da sè; e che un lume d i rivelazione permanente è dato agli uomini sia come individui che come società. 4. Quando diciamo che lo stato, in quanto società politica, , risponde sempre ad una interiore eticità, non intendiamo affermare che in concreto esso abbia sempre ordinamenti rispondenti in tutto a moralità. solo intendiamo che lo stato nella sua natura e nel suo fine intrinseco ha una interiore eticità, e che gli uomini attuandone il fine intrinseco fanno opera morale, e contraddicendovi fanno opera immorale. Lo stesso deve dirsi della famiglia e di ogni altra forma basata sulla natura. Invero,-la società- umana non può distruggersi; essa esiste sempre e tende sempre e di per sè ad un ordine, e chiama da sè un'autorità, e prosegue e ottiene dati fini sociali, sia i più elementari della esistenza e della famiglia, sia i più evoluti e complessi della nazionalità e della cultura. Tutto ciò,. anche se mescolato a ordinamenti cattivi e a leggi malfatte, h a una sua ragion d'essere razionale e quindi morale. Sotto questo punto di vista si comprende l a teoria cattolica tradizionale del governo di fatto, e acquistano luce i suggerimenti di Leone XIII ai cattolici Gancesi di aderire alla repubblica, quale era nel 1892. Aggiungiamo che in qualsiasi stato ci sono e ci sono stati sempre ordinamenti e leggi non solo difettosi, ma in fondo immorali o su presupposti immorali. Quel che anzitutto si deve esigere dai responsabili si è che essi riconoscano che tali ordinamenti non sono morali, e che perciò tentino di correggerli o di eliminarli. Chi non pensa che fu immorale l a schiavitù e l a servitù . della gleba? Eppure furono a base della economia sociale non solo. prima del cristianesimo, ma dopo, e in qualche paese, come negli Stati Uniti d'America, anche fino a dopo l a metà del secolo XIX. . Chi non pensa che è immorale la prostituzione? ed è stata sempre tollerata e anche regolata. Lo stesso può dirsi del gioco pubblico di azzardo, della licenza della stampa, nei teatri e nei cinematografi e via via. Molti discutono della eticità dello stato o delle sue leggi o istituti, attraverso le premesse teoriche o l e interpietazioni filo. sofiche che se ne danno. I n questo caso occorrerebbe parlare della eticità delle teorie e delle premesse, e non di altro. Invero, non perchè G. G. Rousseau opinò che la società po-

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litica fosse di origine volontaria, per un patto tacito o espresso, per questo gli stati moderni che nei loro ordinamenti presuppongono in qualche modo il pensiero di Rousseau, sono di fatto società volontarie. Nè nerchè eli ordinamenti nolitici attuali sono interpretati come basantisi sulla sovranità popolare, perciò l'autorità a~ o l i t i c aha a~ e r d u t ola sua vera caratteristica d i volontà. Nessuno dirà che il suffragio universale sia immorale, perchè coloro che lo sanzionarono per legge partirono dal presupposto che l'autorità politica risieda tutta e sola nel popolo. Bisogna pertanto distinguere fra il presupposto erroneo o immorale delle singole leggi e l'oggettiva immoralità delle leggi stesse, fra la erronea o la immorale teoria dello stato e l'influsso che tale teoria esercita su coloro che la attuano i n concreti ordinamenti. Da ciò ne consegue che per parlare di eticità dello stato bisogna distinguere e precisare: lo stato ha già la sua eticità fondamentale in quanto è società naturale a fine naturale, cioè il bene comune o bene sociale; che le leggi e gli ordinamenti concreti dello stato saranno morali, se sono ordinati a questo bene; che ogni moralità si risolve in q-della individuale, dove risiede la responsabilità degli atti e la coscienza di essi. È superfluo aggiungere che tutto ciò è agli antipodi c o i lo stato etico di Gentile, sia come concezione metafisica sia come valore morale. u

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(Rivista di autoformazione, nov.-dicem. 1929).

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2. RIBELLIONE ALLO STATO ( l ) Qualche anno fa si aprì in Francia una discussione sul diritto alla resistenza attiva contro le leggi che appaiono ingiuste o contro il governo allorchè appare nocivo alla collettiviti. Queste due ipotesi ,corrispondono a due >correnti di pensiero e di azione tendenti a disintegrare lo stato francese così come è costituito attualmente: da un lato il movimento cattolico per l'abolizione delle leggi dette laiche, e dall'altro lato 17Act20n Francaise. La discussione aveva quindi due,punti di partenza e sviluppi ben distinti, ma non abbastanza distinti da non esservi punti di contatto e incontri di idee. Da parte dell'dction Frarqaise la discussione divenne addirittura appassionante allorchè Charles Maurras scrisse il famoso articolo i n cui minacciava di far uccidere il ministro dell'intemo Schrameck. I1 capo dell'dction Frawaiss fu posto sotto accusa. Durante il processo, terminatosi con una condanna, il celebre neo-scolastico~Jacques Maritain, chiamato come testimone, sostenne di fronte al tribunale che la minaccia d i Maurras doveva considerarsi come mezzo estremo e legittimo di difesa sociale. La polemica che seguì nei giornali ebbe lati interessanti che riportarono, in pieno ventesimo secolo, antiche tesi scolastiche pro e contro la legittimità del tirannicidio, pro e contro il diritto alla ribellione. Dopo la dichiarazione (1925) dei vescovi francesi, a proposito della separazione della chiesa e dello stato e della s o p ~ pressione delle congregazioni, un'altra polemica si impegnò. I repubblicani laici sostennero che le leggi u laiche D erano intangibili e che tutti i cittadini dovevano inchinarsi ad esse, mentre i cattolici sostenevano il contrario. Si tornò così a una

(l) Alcune delie idee contenute nel presente saggio sono state riprese e ampliate nel cap. X del presente volume: a Il diritto di rivolta e i suoi limiti P (v. p. I63 sgg.).

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vecchia discussione sulla validità e sul carattere obbligatorio delle leggi e sul diritto dei cittadini alla resistenza quando esse appaiono loro ingiuste. La rivista Etudes aprì un'inchiesia e domandò il parere a giuristi, scienziati, filosofi e teologi. Si ottennero innumerevoli risposte ed i l padre Miche1 Riquet, gesuita, le riunì in u n volume, preceduto da uno importante studio personale ( l ) . Fra i personaggi conosciuti che figurano in quel libro, citiamo M. Millerand, Geny, decano onorario della facoltà di diritto di Nancy; Hauriou, decano della facoltà di diritto di Tolosa; Le Fur, professore alla facoltà di diritto di Parigi. La prefazione è di M. Georges Goyau, dell'accademia francese. I1 pensiero predominante nelle risposte si aggira intorno alla seguente tesi: (C Le leggi non fanno altro che concretizzare praticamente il diritto, ed esiste un diritto superiore alla legge e alla volontà del legislatore, diritto fondato sulla personalità e sulla natura umana. P1 punto d'appoggio di tutto ciò sta nell'assoluto e non può essere che Dio, autore della natura e delle sue leggi D. Una volta presentata vosi, la questione può essere posta sail terreno puramente filosofico ed i filosofi potranno discutere ai bell'agio i termini di legge, diritto, natura e Dio, e sviluppare le loro diverse teorie; oppure verrà posta di fronte al senso comune che si esprime nella lingua comune, e i l senso comune dasà l a propria adesione a queste verità' già enunciate. Ai polemisti politici che presentavano le leggi laiche n come intangibili, si replicava che ogni legge umana viceversa è riformabile. Una legge è o un'usanza cristallizzata in u n testo, oppure un elemento rispondente ad un bisogno. collettivo, oppure ancora u n mezzo per ragglungere un fine pratico della società politica. Allorchè la legge offre uno di questi caratteri, essa possiede tutto il suo valore; altrimenti essa perde la sua ragione d'essere e cade o deve cadere.

Ma il vero punto in discussione, quello che h a appassionato l a stampa francese, quello che ha costituito la parte veramente più interessante dell'inchiesta, è il seguente: (C Quando una legge è ingiusta, ed è impossibile ottenerne la riforma p e r vie legali, si può e si deve resistervi? è ammessa l a ribellione e fino a qual punto n ? I cattolici dell'inchiesta rispondono adducendo

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Enqu6te sur les droits du droit et Sa Majesté lo Li,Ed. Spes, 1927.


due autorità fondamentali: san Tommaso e la dichiaradone dei diritti dell'uomo. L'inchiesta, dalla voce d i san Tommaso, afferma quanto segue: « La legge positiva non creando il diritto naturale, non può diminuirne nè sopprimerne la forza, dato che la volontà umana non può cambiare la natura. Perciò, quando la legge scritta contraddice il diritto naturale, essa è ingiusta e non obbliga (') Se il popolo è libero e possiede il potere legislativo, il consenso di tutti, manifestato con l'usanza (leggi: con la resistenza) ha maggior peso dell'autorità del governo, il quale ha il potere di fare le leggi solo a titolo di rappresentante del popolo ('). La prima dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino qualifica di diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo la libertà, la proprietà, la sicurezza la resistenza all'oppres: sione (articolo 2). La dichiarazione della convenzione (24 giugno 1793) dice in modo ancor più esplicito: (C Allorchè il governo viola i diritti del popolo, l'insurrezione è per il popolo e-per ogni porzione del popolo il più sacro dei dirittire il più indis~ensabiledei doveri (art. 35) ». 1f promotore dell'inchièsta, padre Riquet, dopo una serie di citazioni sul diritto alla ribellione contro la tirannia e l ' o ~ ~ r e s sione, conclude la parte espositiva dell'inchiesta con questa frase interessante: (C Così, da Duguit a san Tommaso, da Locke a Bellarmino, filosofi, giuristi e teologi sono d'accordo nell'affermare e nel dimostrare che, in stretto diritto, ci si può opporre con la violenza all'esecuzione di una legge ingiusta; le restrizioni e le limitazioni di tale principio si misurano alle esigenze del bene comune, alle possibilità di disordine o di scandalo, alla gravità del danno spirituale inflitto alle vittime della legge, infine ai buoni risultati che si possono seriamente ottenere da una resistenza difensiva ». Alcuni corrispondenti dell'inchiesta chiedono se, in seguito all'applicazione delle leggi a laiche D, i cattolici sono veramente giunti al punto in cui devono cominciare una resistenza attiva fino alla violenza, cioè praticamente una ribellione contro le leggi e le autorità esecutive. Molti fanno osservare la gravità delle conseguenze per 'chi si oppone alla legge; altri credono che ancora non si è giunti ad un punto di necessità così estrema. Padre Riquet conclude la sua relazione con queste parole: u Possiamo, dobbiamo sapere ciò che i nostri capi; autorità sociali e autorità religiose, possono legittimamente consigliarci O

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(!) Tommaso, 22, 9, 60. Tommaso, 12, 9, 97.

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prescriverci: ad essi prendere le decisioni e lanciare l e parole d'ordine ». La stessa ~ r u d e n z anell'ordine ~ r a t i c o .al tempo stesso della tesi apertamente proclamata della resistenza attiva, trovasi nella più importante delle risposte giunte da parte dei cattolici, quella di P. Gamgou-Lagrange, professore di teologia morale al collegio pontificio internazionale di Roma. Egli scrive: rifiutare l'ubbidienza Non solo è ~ e r f e t t a m e n t elegittimo " 'a simili leggi gravemente e manifestamente. contrarie alla giustizia, ma... il diritto alla resistenza passiva sarebbe umanamente inefficace se non traesse seco quello di respingere con tutti i mezzi onesti, ivi compresa la forza, le violenze gravemente abusive attraverso le auali i l potere vuole ottenere l'ubbidienza alle sue leggi ingiuste. Indubbiamente questa resistenza all'oppressione deve essere intesa giudiziosamente, saggiamente contenuta nelle sue linee direttrici, come dice il docente Geny; ma, intesa così, come non ammettere, secondo le espressioni dello stesso giurista, qual'è il supremo palladio della giustizia e del diritto n? Ed aggiunge: C Voi insistete assieme al « dottore comune )) della chiesa sulla prudenza da osservare in simile caso, affinchè la resistenza passiva non generi disordini ancora più gravi della tirannia di cui si stà cercando di liberarsi. Ma voi difendete evidentemente i l vero pensiero del maestro aggiungendo: ciò non significa ch'egli considera come irreale e chimerico il caso in cui il carattere dell'oppressione e delle garanzie serie di successo legittimerebbero la resistenza, persino l'insurrezione; al contrario egli cita come esempio di buona rivoluzione quella che rovesciò i Tarp i n i D.E verso l a fine della sua risposta: Di certo, se i cattolici sono portati loro malgrado fino a questa resistenza non solo passiva, ma difensiva, devono prima raccogliersi, pregare, unirsi perchè il Signore dia loro la sua forza per scuotere i l giogo del despotismo. Impediranno così molte odiose vessazioni. E se per un certo tempo fossero schiacciati, lo sarebbero per l'energica difesa dei diritti di Dio e questa resistenza sarà sempre feconda in modo soprannaturale ». Dal contesto si vede che l e parole resistenza passiva )) sono un eufemismo e significano semplicemente «: resistenza attiva D. Mentre i cattolici religiosi si pongono sul terreno dei diritti dello spirito e della chiesa, i cattolici politici che hanno affinità con l'dction F r a q a i s e , passano sull'altra sponda e, con Réné Johannet. dichiarano : (C La conclusione di tutto ciò mi pare la seguente: la società, nel pieno senso del termine, ha cessato di funzionare intorno a noi. Senza saperlo ci troviamo posti nuovamente in uno stato A

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vicino per i tre quarti allo stato di natura in cui è lecito ad ognuno provvedere alla conservazione dei propri cari con misure particolari. Lo stato francese presente è solo più una facciata e una sopravvivenza parassitaria. Fondiamo uno stato nuovo con la forza e con la giustizia n. Queste linee rivelano una mentalità identica a quella di Maurras, ed in genere a quella dei promotori di tutti i colpi di stato avvenuti da qualche anno in qua in vari paesi dell'Europa. Per meglio capire lo stato d'animo degli scrittori cattolici francesi che hanno risposto all'inchiesta, bisogna ritornare con il pensiero al periodo 1924-25, dopo la vittoria del patto delle sinistre che riprese la lotta religiosa; bisogna anche ricordarsi il contatto pernicioso che molti ecclesiastici e credenti avevano allora con 19Action Fraqaise. Ciò non toglie nulla all'interesse delle- risnoste. ma serve ad illuminare il valore dell'inchiesta. la quale .corrispondeva àd uno stato d'animo molto diffuso quel tempo, ma che si è molto modificato dopo la condanna dell'dction Franqaise. D'altronde, nei suoi termini essenziali, la questione è sempre posta e potrebbe ritornare di attualità se la Francia, come le succede ogni tanto, fosse ripresa dalla febbre anticlericale. A

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I n effetti, si possono citare recentissime ribellioni di cattolici, in Irlanda, al Messico, ed è interessante confrontare la teoria con questi fatti e ricercare qual'è, nel quadro della storia moderna. la solidità della teoria difesa s o ~ r a t t u t t oda san Tommaso d'Aquino. . Gli scolastici hanno considerato la cruestione della ribellione dal punto di vista morale e non dal punto di vista politico. Per essi, trattandosi di un' atto, il suo carattere di diritto o di dovere proviene dalla sua moralità, la sua legittimità proviene dal diritto, la sua obbligazione proviene dal dovere e la sua possibilità dalle circostanze. Se si applicano questi dati al caso delle leggi ingiuste, ne consegue che in tal caso esiste il diritto di resistere. Esistono tuttavia leggi ingiuste la cui osservanza non porterebbe alcuna colpa, ad esempio quella di pagare una tassa di successione eccessiva, equivalente ad una confisca. Inversamente possono esistere leggi che comandano un atto positivamente immorale; le persone alle quali questi obblighi vengono imposti hanno, non solo il diritto, ma anche il dovere di disubbidire. Così fecero i cristiani a Roma, rifiutando di adorare gli idoli, cosi i preti di Francia si rifiutarono di prestare il giuramento richiesto dalla costituzione civile del clero. La storia delle lotte religiose mostra in tutti i campi esempi di resistenza individuale alle leggi che violano la coscienza individuale.

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Un obbligo di tale sorta ha però un carattere tutto personale e non collettivo; esso rimane nel campo della morale individuale e non Dassa. formulato allo stesso modo. nell'ordine sociale e politico. Dal che sorge questa questione: pu6 il passaggio dalla resistenza individuale alla resistenza collettiva diventare un vero dovere? A questo punto nascono dubbi. Similk dovere non potrebbe essere imposto ad un uomo isolato: per contro esso riguarderebbe la collettività. In tal caso, tuttavia, la collettività è disorganizzata, amorfi e. difficilmente può realizzare un accordo generale per quanto rigparda gli scopi, i mezzi e l'azione pratica. Mancano pertanto qui quella proporzione e quel rapporto che devono esistere fra un imperativo della coscienza e la pogsibilità d i obbedirgli. Non si può quindi parlare qui di dovere, nel senso stretto della parola, ma semplicemente d'un obbligo generale di cooperare non appena si manifesti una resistenza morale degli individui, resistenza che può, in alcuni casi, finire con la resistenza materiale e attiva della collettività. Così dunque, sul terreno politico, si può parlare qui di diritto piuttosto che di dovere; e per coloro soltanto che si sentirebbero capaci di assumere la responsabilità di esercitare tale diritto, questo diritto si convertirebbe in dovere. Allorquando san Tommaso parla della resistenza collettiva contro un tiranno ed esamina il carattere morale di atti di questo genere, egli non li considera come doveri, nè come diritto di natura sweciale il cui esercizio sarebbe un dovere: ma dichiara legittima, ad esempio, la ribellione dei Romani, allorchè cacciarono Tarquinio ; allorchè non vi sono altri mezzi per liberare la patria da un tiranno, egli trova ragionevole la ribellione, poichè, dice, « non è la ribellione allora ad essere sediziosa, bensì al contrario è sedizioso il tiranno cacciato via dalla ribellione n. Esiste un. obbligo personale di coscienza a non obbedire ad una legge immorale. Ma, per quanto riguarda la resistenza collettiva, esiste soltanto la facoltà di organizzarla; servendosi di questa facoltà, si può essere moralmente impegnati dalla sua convinzione interiore e personale, ma non da un dovere esteriore e oggettivo. La forma alquanto assoluta e molto astratta con la quale gli scolastici si sono espressi, potrebbe lasciare l'impressione che le loro teorie siano state concepite unicamente « sub specie aetern i t a t i s ~e rimanessero al di fuori del quadro storico e temporale. Ciò, però, non sarebbe esatto, e gli scolastici, al fine di precisare il valore storico e contingente delle loro te.orie, si occuparono delle condizioni imposte in nome della prudenza, della carità come pure della possibilità di scandalo e di danni morali e materiali. Per questa ragione essi insistevano sull'impiego di A

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mezzi offerti dall'organizzazione del medio evo allorchè si trattava di cambiamenti politici: ricorso al re, all'imperatore, al papa. Invocavano anche il « consenso generale a, ossia la formazione .di una coscienza collettiva che riconoscesse la necessità della ribellione. È necessario immaginarsi il medio evo, in cui si trovavano molti organismi autonomi, privilegiati, che godevano di immunità, alla forma decentrata dei poteri pubblici, le signorie in mano a piccoli e grandi tiranni che dominavano le corone. La ribellione era a quel tempo una specie di sbocco naturale, una specie di febbre periodica e talvolta salutare per l'organismo pubblico. Tuttavia, pur ammettendo un diritto di ribellione, gli scolastici ricordavano anche il pericolo di disordini o di scandalo e ponevano come condizione della ribellione il successo. Ma, come evitare tali pericoli? Come realizzare una coscienza collettiva di ribellione senza disordini e senza scandali? Come prevedere con sicurezza il successo? Seri dubbi, che san Tommaso lascia senza soluzione in' teoria, poichè essi sono insolubili; egli lascia alla pratica, vale a dire al giudizio politico e morale dei capi l'apprezzamento dell'opportunità e delle condizioni della ribellione. Stabilito così nei suoi giusti limiti, l'elemento morale prende il suo posto allorchè si tratta di valutare,la necessità politica e l'opportunità della ribellione.

Ecco il fondo del uensiero degli scolastici. Tuttavia ecco una questione che si presenta alla mente. La ribellione è una soluzione per i casi estremi di scontentezza generale sotto il regime despotico e allorquando i mezzi legali siano stati impiegati senza risultato. Ma è legittimo il ricorso alla ribellione sotto il regime rappresentativo, cioè in un paese in cui i diritti di riunione, di associazione e di stampa e il voto elettorale possono far cambiare le leggi? Si ha il diritto di ribellarsi allorchè il regime politico può essere modificato evitando i mali sempre gravi arrecati da una rivoluzione, anche se giustificata? È certo che i regimi liberi dei tempi moderni permettono spessol di evitare conflitti violenti fra lo stato.ed il popolo, grazie alla libertà che è la loro base. Là dove sono offerti mezzi ~ i u facili e meno pericolosi per rivendicare i diritti individuali, lo stato d'animo necessario per cagionare l'esplosione di una ribellione non si forma. La ribellione è anzitutto un sentimento, uno stato psicologico, un atto di disperazione. In regime di libertà, le correnti politiche che tendono verso ,un cambiamento di regime, anche C 2

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quando si sviluppano e fortificano (come il socialismo da più di mezzo secolo) non riescono da sè ad eccitare ribellioni, salvo quando altri elementi di disordine sociale vengono ad aggiungersi ad esse. Fra questi elementi ve ne sono due che si presentano quasi sempre insieme e persino in regime di libertà: la debolezza dei poteri pubblici e l'oppressione ' esercitata da una classe, sia la classe dirigente, sia un'altra. L'esempio dell'Irlanda è intieramente istruttivo. Dopo aver reclamato per anni e attraverso una serie di manifestazioni legali una organizzazione autonoma, dopo aver ricevuto dai partiti politici e dal governo delle formali promesse, il popolo irlandese, avendo accumulato le delusioni, coglie l'occasione della guerra per cominciare una protesta collettiva. Non ascoltata, l'Irlanda si ribellò. Repressa, la ribellione degenerò in guerra civile, la quale non ebbe fine se non con un trattato consacrante l'autonomia irlandese. L'azione dell'Irlanda si presenta con i caratteri meno equivoci di legittimità, e ciò nondimeno sotto il regime rappresentativo, sotto un regime liberale in cui si era formata una coscienza collettiva, che non avrebbe dovuto essere misconosciuta. in favore dell'autonomia nazionale. Questa coscienza collettiva, in opposizione con tutte le tendenze dell'hghilterra, non poteva raggiungere i propri fini con i mezzi legali propri dei regimi di libertà, perchè la classe dirigente inglese eserbitava una vera autocrazia sull'Irlanda. Perciò il periodo della guerra fu per l'Irlanda il più opportuno. Però, se il governo inglese avesse avuto sufficiente risoluzione per risolvere in tempo il ~ r o b l e m airlandese, si sarebbe evitata la ribellione. Non c'è dubbio che casi simili si presentano più raramente in regime liberale che non sotto l'assolutismo, per il fatto che, sotto I'assolutismo, manca alla volontà popolare la libertà d i esprimersi. Tuttavia, anche sotto un regime liberale nascono talvolta dittature mascherate, cosicché si produce l'oppressione delle minoranze (etniche o religiose); partiti politici vi possono conoscere la persecuzione; perciò quindi, quando ogni altro mezzo è diventato inutile, si crea la psicologia della ribellione, che scoppia nel momento opportuno e imprevisto. È inteso che, in questi casi, il cosidetto regime libero è soltanto una apparenza, e ch'esso si comporta come un governo assoluto di fronte a popolazioni che, alla fine, si ribellano.

Se i popoli oppressi e se le minoranze perseguitate hanno diritto alla resistenza, quali sono i diritti autentici dello stato come custode dell'ordine? Certamente lo stato, in quanto tale,


ha diritto all'esistesza ( l ) . Ma, per via della corrispondenza fra diritti e doveri, lo stato, esercitando il suo diritto di reprimere gli attentati diretti contro di esso, non potrebbe dimenticare il suo vero dovere di rispettare la personalità dei cittadini. E, più esso misconosce questo dovere, più ancora riduce i1 diritto che esso h a di difendersi. B chiaro che. nelle società nolitiche sufficientemente evoIute, il miglior mezzo per giungere ad un giusto equilibrio fra lo stato e gli individui, è l'uso regolato ma abituale della libertà politicai Solo attraverso di essa si forma facilmente una coscienza collettiva che influisce, in modo salutare, sull'evoluzione delle leggi e fa riconoscere i diritti delle. minoranze. Fintanto però che la classe dirigente si rifiuta di formare questo equilibrio sul terreno della libertà, fintanto ch'essa misconosce i diritti delle altre classi o delle minoranze, è più facile formare uno spirito di ribellione e far ricorso alla violenza. Di questo periodo politico (che potrebbesi chiamare precivile, poichè dà luogo all'uso della violenza) non si potrebbe dire ch'esso sia completamente superato persino dagli stati progressivi. Quindi, poichè manca l'equilibrio spirituale di rapporti fra lo stato e gli individui, lo stato deve porsi al riparo d a ogni tentativo di attentato. Ne segue che per lo stato la legge assume qualcosa di definitivo e di assoluto e ch'esso considera il rispetto alle sue leggi sempre come uno stretto dovere, e che pertanto ogni ribellione viene repressa con la forza. Tutto ciò è riconosciuto come « diritto dello stato 1). Tuttavia, la coesistenza di due diritti che si escludono non è mai possibile. Si dovrà dunque negare o il diritto dei cittadini oppure quello dello stato. Questo'è evidente sul terreno della logica, ma sul terreno pratico 's'incontra la difficoltà di stabilire fin dove può arrivare il diritto 'dei .cittadini d i .resistere alle leggi ingiuste, e fin dove può arrivare il diritto dello stato di esigere ,l'obbedienza e di difendersi contro possibili*sconvolgimenti. Sì, certo, la coscienza individuale ha grande valore, e nessuno può essere obbligato ad agire contro la sua coscienza, ma anche la coscienza collettiva ha grande valore ed essa dà una base ragionevole ad ogni resistenza attiva contro lo stato. Dal canto suo, lo stato deve avere una base giuridica e morale, e se u n giorno questa base non trova corrispondenza nella coscienza collettiva, allora lo stato non adempie più la sua funzione d'ordi&

(l) Pur ammettendo un margine naturale in cui esso evolie .e si trasforma come ogni società. (N.d.A.)

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ne ed entra per forza in conflitto con i cittadini. Ma, fino a tanto che questa corrispondenza esiste, lo stato esprime un ordine che può essere imperfetto e riformabile, ma che è veramente consistente e posa su una base ragionevole. Può capitare, nel corso della storia, che talune leggi siano in opposizione con certi principi e ne derivano casi di coscienza individuali. In tal caso devesi riconoscere la legittimità della resistenza allo stato, ma questa resistenza resta accantonata in coscienze individuali e non passa nel campo politico fin tanto che la coscienza collettiva non s i accorga che un conflitto si è dichiarato fra la base giuridica dello stato e il diritto della collettività.

Ed ora applichiamo questi principi all'inchiesta dei cattolici francesi di cui abbiamo parlato al principio di questo articolo. Mi pare che possiamo dedurne quanto segue: Primo: i cittadini cattolici francesi hanno il diritto di chiedere la modifica o l'abrogazione delle leggi laiche con ogni mezzo legale (elezioni, stampa, riunioni pubbliche, associazioni). Se non vi riusciranno con l'impiego di tali mezzi, si può allora dedurre ch'essi sono una minoranza e che ancora non sono giunti al punto di creare tana coscienza collettiva i n loro favore, oppure anche che l'esercizio del diritto elettorale e di altri diritti politici non è sufficientemente libero per loro. Secondo: in queste due supposizioni (ch'essi siano una minoranza oppressa oppure una maggioranza non libera e che subisce l'oppressione di una classe politica dominante), i catto'lici di Francia potrebbero passare alla resistenza attiva, alla lotta contro lo stato, non già per dovere, ma in virtù di una facoltà inerente ai loro diritti. Terzo : ma, per agire così, è necessario : 1) ch'essi siano ben convinti che ogni mezzo legale è stato esaurito; 2) che la loro situazione sia talmente insopportabile da sentirsi il diritto di prendere la responsabilità delle violenze che accompagneranno la ribellione; 3) che la coscienza collettiva dei credenti sia convinta della necessità e dell'opportunità della ribellione; 4) che la ribellione abbia una ~robabilità di riuscita. Ora, tutti questi elementi, che legittimerebbero una ribellione, mancano completamente in Francia e soltanto i discepoli ciechi della Action Fraqaise hanno creduto alla necessità di un colpo di forza per modificare l e basi politiche e religiose dello stato francese. D'altra.parte, lo stato rivendica il mantenimento delle leggi

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- Srrrnzo - Politica e morale


laiche e, a l tempo stesso, reprime qualsiasi tentativo di ribellione e impedisce qualsiasi colpo di forza. Agendo in tal modo esso è nella logica del suo diritto, poichè la costituzione offre i mezzi per una soluzione pacifica del conflitto senza necessità di ribellione. Perciò l'agitazione dei cattolici francesi è legittima mentre la loro ribellione allo stato non lo sarebbe. Ouarto: la situazione Dresente dei cattolici i n Francia non crea alcun conflitto di coscienza contro l'osservanza di una legge immorale, poichè essa non li ob'bliga a fare qrialcosa di positivamente immorale, come era il caso dei primi cristiani, O come sotto la rivoluzione, allorchè si trattava di prestare giuramento alla costituzione civile del clero. Le a leggi laiche » sono soltanto una privazione di diritti inflitta a cittadini sotto un'apparenza legale (e, in realtà, per un fine politico). È chiaro che lo scompiglio recato nella libertà delle coscienze attraverso l'ingerenza dello stato in questioni di religione e coscienza, è veramente grave. La Francia non può sopportare la crisi che ne risulta, se non con l'impiego di misure di pacificazione e con quella tolleranza che è oggi una delle basi dei regimi, liberi nello stato moderno.

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(Le Mouvement des faits et d a Uìées, Paris, '&dicembre 1929 e gennaio 1930).


L'UOMO E I L REGIME È evidente: il regime è per l'uomo, non l'uomo per il regime. È quel che Pio XI ha sempre ripetuto, a voce e per iscritto: « non è l o stato il fine del cittadino, ma è il cittadino il fine dello stato n. Lo stato non è legato ad un solo regime, ma qualunque sia il regime, lo stato dev'essere il mezzo sociale per il bene comune, che si realizza nell'uomo-persona. Noi potremo stabilire questo rapporto: lo stato è alla persona quel che il regime è allo stato. Cioè: il regime è un mezzo perchè lo stato attinga i suoi fini, come lo stato è u n mezzo perchè i cittadini attingano determinati fini sociali, sotto aspetto di bene comune. Molti invece invertono i termini: i l cittadino è per lo stato; cittadino e stato sono per il regime: così il regime è divenuto un fine sia dell'individuo come singolo sia della collettività organizzata politicamente nello stato. Ma c'è di più: da oltre un secoTo lo stato è andato mano mano accrescendo le sue competenze, come ha accresciuto i l suo bilancio di entrate e di uscite. Ha soppresso gli enti intermedi (quali le corporazioni di mestieri) ovvero ha ridotto a semplici corpi amministrati quegli enti che non potevano sopprimersi (comuni e provincie) riducèndo ogni loro reale personalità e autonomia. Considera la chiesa come un'associazione privata e l e ha tolto ogni reale partecipazione alla vita nazionale. Ha monopolizzato l'istruzione, l'educazione giovanile, la cultura. Sono sfate così stabilite le premesse per lo stato totalitario. I1 passo è ora fatto i n molti stati del dopoguerra: soppressione di ogni partito, monopolio della stampa o controllo politico per impedire ogni parola di dissenso o di critica. Conformismo intellettuale, morale, politico in tutti i campi. Così il regime è diventato il monopolio di un piccolo gnippo simboleggiato in una persona ovvero di una persona affiancata da u n piccolo gruppo. Tale regime si serve dello stato come strumento di dominio, mezzo di soppressione di ogni op-


posizione, fattore di conformismo politico. L'individuo è ridotto ad una semplice funzione gregaria (vulgum pecus); che deve mostrare di essere convinto del sistema, di essere solidale col regime, di essere entusiasta degli uomini o dell'uomo che ne è a capo. Poichè convinzione, solidarietà ed entusiasmo non si comandano, così l'educazione delle nuove generazioni è da questi regimi curata con speciale interesse, al punto da creare (come in Germania) seminari per le élites naziste, per un'accurata selezione di coloro che potranno in seguito tenere posti direttivi. Allo stesso tempo si sviluppa una mistica collettiva, con la quale si tenta l'ipnotizzazione delle masse, a mezzo d i sentimenti elementari quali quelli di razza, di nazione, di classe (razzismo, fascismo, bolscevismo), Per completare il quadro, viene intensificata la propaganda all'estero, necessaria per avere consensi, solidarietà, aiuti. Che cosa si può opporre a questa oppressione organizzata del povero individuo umano, spogliato della sua personalità, ridotto a un soggetto senza diritti da far valere? a questo cadavere d i cittadino, al quale si è data una specie'di anima collettiva, una per tutti, obbligandolo all'automatismo delle marionette, per fare una parte speciale e passare ancora per una persona, pur restando un fantoccio? L'idea di libertà, che fece fremere gli uomini del secolo XIX, ora lascia fredda la nostra gioventù e inerti gli uomini maturi. Si è avuta tanta libertà e non se n'è saputo far uso, che oggi ci si rassegna a perderla, pur di ottenere una certa stabilità. I n questo stato d'animb malsano, c'è qualche cosa di nero: l a libertà fu voluta dalla borghesia, nel*secolo scorso, e quindi utilizzata per suo dominio politico ed economico. Sopravvenuta la massa operaia a reclamare il suo ~ o s t o ,una certa borghesia ricca, p u r di non cedere, s'è rassegnata a perdere la libertà; cosa avvenuta in paesi come l'Italia e la Germania, ma che avverrebbe anche in Francia se codesti 'borghesi di destra ne avessero l'opportunità. D'altro lato: che cosa hanno fatto della libertà le masse operaie, quando hanno potuto esperimentarla a loro vantaggio? Non ne hanno realmente usato; ne hanno abusato, tentando d i realizzare con la violenza un programma di classe (come in Russia e nelle rivoluzioni effimere del dopoguerra); ovvero sono rimaste legate alle .situazioni borghesi per intrinseca debolezza programmatica e politica, pur continuando la propaganda dei motivi rivoluzionari (come in Germania prima di Hitler e in Francia ne1l3esperimento Blum, e anche nel Belgio durante' l'esperimento Van Zeeland).


La libertà va accoppiata alla responsabilità ; tolta la responsabilità non c'è più libertà; tolta la libertà non c'è più responsabilità. Oggi nei regimi totalitari non c'è libertà, e difatti nessuna responsabilità è attribuita al potere; ~ e r c h èil potere non ha piU limiti, nè interiori, nè esterni. La soppressione dei diritti individuali e delle. libertà politiche crea una sproporzione fra la personalità umana e il potere assoluto. Noi vogliamo il giusto equilibrio fra libertà. e responsabilità, fra uomo e regime, fra cittadino e stato, fra nazione e società internazionale. Perciò neghiamo che il regime (inteso come regime personale, totalitario, irresponsabile) sia fine a sè stesso; neghiamo che il regime debba subordinare a sè sia il cittadino-uomo, privandolo dei suoi diritti, sia lo stato quale società politica di tutti i cittadini, ordinata al bene comune. I1 regime per lo stato, lo stato per il cittadino. Londra, dicembre 1937. ( L a Cité Nouvelle, Bruxelles, 11 aprile 1938). Arch. 8 A, 4


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NQSTRA » DEMOCRAZIA

Nel concreto di ogni singolo stato non c'è la democrazia, c'è quella democrazia che vi si è cristallizzata con le istituzioni storiche. I filosofi e i sociologi studiano i principi etici e giuridici e che saturano di sè l'idea centrale di dele direttive mocrazia; ma ciò non ostante, nessuna può mettere in una stessa categoria la democrazia di Atene, quella della repubblica d i Roma, le democrazie medievali e quelle moderne. E fra le moderne, chi vorrà identificare la democrazia britannica, l'americana e la francese? Ogni democrazia i n concreto deve portare u n aggettivo, che la qualifichi; sia un aggettivo storico (per esempio: democrazia liberale) o un aggettivo sociologico .(per esempio: democrazia individualistica) e così via. Parliamo della nostra democrazia. Escludiamo, anzitutto, quel10 che essa non è. Per noi la democrazia, come ogni altra forma d i governo politico, non è (come si volle far credere) anticristiana, nemica della religione e basata su principi incompatibili con la nostra fede. Oggi è questo un truismo; ma, un tempo, fu creduta verità, per l a confusione che si faceva fra l'idea democratica in genere e certi principi che si volevano mettere come « premesse necessarie n d i ogni vera democrazia moderna. Inoltre, questa non è per noi laica o neutra, nel senso corrente, che la democrazia debba essere disimpegnata da ogni idea religiosa e cristiana. La democrazia non è fine a sè stessa, non è neppure il fine dei cittadini; essa è un mezzo politico ordinato al bene ,comune. La cultura, la moralità, la religiosità d i un paese sono elementi integrali del bene comune, concepito nella sua totalità, secondo le condizioni storiche della nostra civiltà cristiana. Non si creda che negando, in tale senso, la neutralità reli-

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Sgiosa della democrazia, si voglia farla divinire clericale, come 'ci si accusa. Perchè il clericalismo. come concebito dai nostri ' , Ùaversari, non è affatto nè può essere'demo.cratico.~~ due termini : clèricalismo e democrazia. nell'accezione corrente. si escludono. . Un passo avanti: la nostra democrazia non è individualista c o b e fu concepita da Rousseau e attuata, per ragioni storiche, dalla rivoluzione francese i n poi. Alla somma delle volontà indiv2puali non può darsi un valore assduto: si cadrebbe i n una tirannia pari o peggiore d i quella che dà valore assoluto alla volontà d i un solo. L'individualismo politico porta allo statal i ~ & , all'accentramento di tutti i poteri e di tutti i valori SOciali nello stato, con danno degli altri organismi e della stessa nersonalità dell'uomo e del cittadino. Infine la nostra non è la democrazia di una sola classe. La borghesia, nel secolo scorso, costituì le democrazie della propria classe e ne prese i l monopolio. Negò agli operai il diritto di organizzarsi in sindacati, e combattè come sovversivi i-partiti dei lavoratori, che presero i nomi di socialisti, sindacalisti O comunisti. Le rivendicazioni operaie hanno portato a modificare la democrazia borghese, ma ia classe operaia tende a fondare un regime di una sola classe, la propria, sotto l'insegna socialista o comunista. Noi ammettiamo l'esistenza e la coesistenza di tutte le classi, e quindi escludiamo che la democrazia sia, politicamente o socialmente, di una sola classe. Così abbiamo indirettamente designato la nostra democrazia. La vogliamo chiamare cristiana, non perchè intendiamo che la religione cristiana si esprima in termini politici, ma per escludere tutta la tradizione democratica anticristiana, da Rousseau 'ad oggi, come pure per affermare i valori della nostra civiltà cristiana che debbono poter vivere dentro le nostre istituzioni nolitiche. L'aggettivo di cristiana non è perciò specifico (come dicono i filosofi o i grammatici) al nome di democrazia, e quindi non la definisce. La nostra democrazia è spesso detta organica, per opporla a quella 'individualista. I1 senso dell'aggettivo a organica » è complesso. Nello stato democratico debbono avere la loro esistenza, autonomia e iniziativa tutti gli organismi amministrativi, economici, sindacali, sociali, culturali e religiosi, che rispondono ai bisogni e ai caratteri di ogni classe e regione e popolazione e ai loro interessi generali e particolari. Oggi si usa spesso il termine di stato corpordivo ovvero corporazioni per designare gli organismi economici delle classi o piofessioni. Di più: lo stato corporativo si fa coincidere con A

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lo stato autoritario e con la soppressione della rappresentanza ' parlamentare politica. Noi non accettiamo questa concezione che falsa il carattere dello stato e abolisce la democrazia. I1 concetto organico è qui affermato come opposto tanto all'individualismo politico quanto al centralismo statale, sui quali fu basata la democrazia francese. Da dopo la guerra, in Italia prima,.poi altrove (Baviera, Spagna, Polonia, Cecoslovacchia, Francia) si costituirono i partiti popolari democratici, affermando sia la coesistenza delle classi, sia il carattere dello stato basato su tutto il popolo. Onde si parlò di democrazia popolare. Oggi il motto (C popolare » è stato preso anche da altri partiti, e peggio dai (( fronti D detti popolari. I1 vero concetto di popolo (quello romano e cristiano) viene così alterato dal momento che si' ammette un (C fronte n che combatte contro altro u fronte I).. I1 popolo così si divide , e si disorganizza. Infine, noi usiamo anche dirla democrazia sociale, per la cura principale che si dovrebbe avere da parte dello stato, d i risolvere i problemi sociali delle classi lavoratrici e medie. Sociale non è l'equivalente di socialista. I n conclusione: la nostra democrazia avrebbe la fortuna di quei neonati d i grande casato, a cui si mettono da cinque a dieci nomi, per ricordare eroi, santi, donne di valore e uomini d'ingegno. Possiamo dirla cristiana, organica, popolare, e sociak ; ogni aggettivo ha un significato. Ma le parole sarebbero flatus vocis se, nella realtà, noi non arrivassimo a costruire una tale democrazia, la nostra, cominciando ad affermarla, contro tutti gli stati totalitari e contro tutte le false democrazie. (Popolo e Libertà, ~ellinzona,l5 luglio 1937).


I L PROBLEMA DI UNA CONCEZIONE MORALE DELLA POLITICA

È uno strano stato d'animo quello dei più circa la politica e la morale: che la politica debba essere morale i più lo affermano i n teoria, almeno come una d i quelle vaghe affermazioni i n cui non si vede bene l'implicazione dei due termini, ma si h a un sentimento generale che, almeno in via normale, politica e morale debbano intendersi. Ma il contrasto fra le due è presto fatto, e le opinioni si dividono: gli uni, coloro che non accettano quella politica che ha determinato il contrasto, fanno appello alle ragioni morali; gli altri invece che sostengono quella tale politica, invocano il bene generale, la, difesa della patria e dell'ordine, il vantaggio della nazione, gli interessi dello stato. I1 problema si complica ancora di più nel voler precisare da vicino d i quale politica e di quale morale s'intende parlare. Vengono fuori subito l'idea di politica borghese o politica di classe; politica impe,nalista o nazionalista; politica d i partito e così via. E in quanto alla morale, siamo ancora sopra un terreno incerto; perchè è vero che si parla di morale naturale, di morale cristiana; ma si parla anche di morale positivista, o idealista, di morale fascista o nazista. Con tutto ciò è costante nella coscienza generale il ~ r o b l e ma della morale nella politica: e comunque si faccia, non lo si può eliminare dalla prospettiva dei popoli, anche panda si violano, per ragioni olit ti che, tutte le leggi umane e divine e si . manomettono le tradizioni più sane e più antiche dell'umanità. I1 problema non è nuovo, ed h a agitato il pensiero degli uomini da secoli 'e secoli. I pensatori cristiani lo sentirono in una forma storicamente eccezionale, nel confronto fra l'ideale cristiano e la realtà dell'impero romano pagano. Anche quando gli imperatori divennero cristiani, e a poco a poco il cristianesimo soverchiò il paganesimo, il problema del potere politico

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si presentò a molti sotto aspetto mondano, irriducibile per sè a l valore cristiano, in un dualismo quasi insanabile. Come tutti gli altri istituti economico-politici, quali la proprietà, la schiavitù, la guerra, così il potere coercitivo, l'imposizione legale furono visti come conseguenze del peccato di origine, dalle quali bisognava evadere spiritualmente con il distacco, il superamento ascetico, in forma individuale più che in modo collettivo. Implicitamente veniva negata la possibilità dell'elevazione d i tali istituti al grado di moralità cristiana, tanto più che la moralità degli atti non poteva che dipendere personalmente da ciascun fedele, il quale posto nella vita mondana del potere e delle ricchezze veniva come circondato da continue e prossime occasioni al-peccato, nel quale restava irretito per mancanza d i rinunzia al mondo. Con il prevalere della chiesa si passa alla copcezione opposta: lo stato, il potere, la società terrena non è fuori della chiesa e dualisticamente concepita; essa è dentro la chiesa, e al servizio dei suoi fini soprannaturali, in una coordinazione subordinata di poteri verso la società dei fedeli e attraverso di essa verso il papato. Così fu costituita la società medievale dell'occidente latino. La cooperazione, i contrasti, le confusioni e le 16tte fra i due poteri (regno e sacerdozio) ne furono la. conseguenza storica. Ma dal punto di vista della concezione morale della politica e dei fini religiosi della società civile gli orientamenti pratici furono sempre affermati come rispondenti alla teoria. Papato e impero, sacerdozio e regno, ora s'intendevano e ora lottavano, ma le due parti affermavano di volere la gloria di Dio, il bene dei popoli, il trionfo del cristanesimo, la restaurazione mora17 dell'unica morale, p e l l i cristiana. Nel caso pratico invece le vedute e gli interessi e spesso la sostanza etica delle lotte erano divergenti e in contrasto: e i teorici delle due parti facevano fatica a difendere la vera morale cristiana. Da queste lotte e da queste difese si sviluppò il dualismo etico-politico che da sei secoli insacca la nostra civilizzazione. I r e tentarono di affrancarsi da una soggezione religi-osa che in nome del diritto canonico legava troppo la loro attività politic a ; ma allo stesso tempo si andarono affrancando dalle assemblee aristocratiche e popolari che ne limitavano il potere. . I1 potere politico divenne illimitato per via della riforma protestante che fece convergere nei monarchi anche il potere religioso sulle chiese,; mentre allo stesso tempo dai paesi cattolici veniva sviluppata la teoria detta del diritto divino dei re. La moralità degli atti del potere politico fu racchiusa nella coscienza dei sovrani, che non dovevano dar conto dei loro atti nè religiosamente a l papa o ai vescovi, o alle congregazioni dei

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fedeli, nè civilmente ai rappresentanti 'dei ceti organizzati o dei rappresentanti popolari, 'ma solo a Dio, nel rapporto della loro coscienza. Un vero soggettivismo morale-politico (così concepito nella persona del monarca) non poteva sussistere, dato che il governo di uno stato è sempre un'opera collettiva fra il capo e i suoi ufficiali civili e militari. Di conseguenza vennero fuori le teorie sostitutive o completive del diritto divino dei re, cioè l'onore della casa regnante e la ragion di stato. Per equilibrare i rapporti fra lo stato e la chiesa (religione e morale) e quelli fra i vari stati (politico-morali) si tentò u n sistema di criteri giuridici che potessero essere guida nella salvaguardia dei vari interessi in contrasto. Sorsero così il sistema delle due giurisdizioni (chiesa e stato) (detto giurisdizionalismo) per lo più fissate i n concordati o altre forme contrattuali; e il diritto internazionale, che dalle speculazioni teoriche passò alla sistemazione e teorizzazione dei trattati generali fra le case . regnanti, specialmente a partire da Westfalia in poi. La morale si trasformava in formalità giuridiche, tanto per la coscienza individuale con l'abuso della casuistica, quanto nei rapporti collettivi, nell'assolutezza delle sovranità. La reazione contro questo irrigidimento giuridico formalistico autoritario, veniva ad affermarsi con la speculazione giusnaturalistica. La società era tagliata fuori dal giudizio morale della politica in nome del diritto divino, e dal giudizio politico della morale in nome della ragion di stato (che diveniva di fatto ragione della casa regnante). Per essere reintegrata, occorreva negare in radice la sovranità in nome del diritto naturale, che così scalzava allo stesso tempo il diritto divino e la ragion di stato della casa regnante. Ma una volta stabilito il ~ r i n c i ~ del i o diritto naturale della società, ad essa spettava il giudizio morale in nome della natura. Quale natura? L'umana, ragionevole, buona per sè; concretizzata in .ciascun individuo ed esistente come popolo. All'assolutismo dei sovrani fu sostituito l'assolutismo del popolo. I1 suo giudizio politico diveniva etico, il suo giudizio etico diveniva politico. Essendo impossibile aversi nel concreto una totalità consenziente, occorreva fissare la legge di maggioranza come valida a esprimere la totalità; essendo impossibile mantenere nè la totalità nè la maggioranza in una perpetua assemblea, occorreva fissare la legge di delegazione; ed essendo impossibile aversi un mandato prestabilito per tutte le eventualità della vita politica, si doveva arrivare alla rappresentanza ( e non più delegazione) parlamentare. Anche il parlamento non poteva governare in permanenza, e così si arrivò al go-


perfino al consolato, alla dittatura verno esecutivo, e da temporanea o perpetua e alla delegazione dei poteri fino a l governo personale e assoluto di Napoleone o di Hitler. . Tutto ciò non interesserebbe il ~ r o b l e m adella morale nella politica se non fosse sorto il problema dei limiti del potere e limiti etici della sovranità. I1 sovrano assoluto dell'ancien r é g i m , i n quanto concepito come sovrano cristiano (cattolico o protestante o ortodosso) doveva trovare i limiti etici del suo potere nella legge cristiana d i cui egli si professava fedele e tutore. Violando tale legge, egli, benchè non fosse pii soggetto ad alcun altro potere (compreso il papa, secondo i giurisdizionalisti del lato regio) pure aveva un giudizio interno e un eventuale giudizio esterno. La legge cristiana unificava il giudicato e il giudicante. Quando il sovrano assoluto è il popolo, se è ancora cristiano la voce religiosa può sollevarsi a limitarne il potere. Ma i l popolo nomina rappresentanti; i l suo atto (morale o immorale nella scelta dei rappresentanti) è completo. I rappresentanti, appoggiandosi sulla concezione dell'assoluta volontà del popolo, non credono avere altri limiti al loro potere; così legiferano su .materia morale, come i l divorzio, il conirollo delle nascite, il regime del culto. Però se le assemblee popolari non sentono limiti intrinseci alla loro sovranità, Iianno i limiti dei partiti di opposizione, della critica della stampa, dell'appello al popolo per via di referendum o di nuove elezioni. I dittatori moderni invece non hanno neppure questi limiti formali ed organici; il loro volere è legge, fin che il loro volere dura. Così il problema morale della politica nei suoi due aspetti intrinseco e formalistico è legato alla, struttura dello stato; cioè da u n lato come convinzione direttiva degli atti del potere, e dall'altro come limite al potere stesso.

Può sembrare strano o eccessivo che i l problema del rapporto fra morale e politica possa dirsi legato alla struttura dello stato, mentre esso è, al fondo, un problema di coscienza individuale. Coloro che concepiscono l'individuo e la società come due realtà distinte o diverse o anche opposte, sono indotti a distinguere una moralità collettiva o sociale. Così cadono i n un'analisi irreale e assurda. La morale è una ed è sempre e allo stesso tempo individuale e sociale, ~ r s o n a l ee collettiva, così come l'uomo è allo stesso tempo individuale e sociale, e in tanto SOciale in quanto individuale e viceversa.


Così chiunque viola un precetto morale anche con il pensiero, viola la morale individuale e sociale allo stesso tempo. Perchè ex corde exeunt cogitationes, ecc. I1 pensiero è per sè sociale, perchè tende a d essere comunicato e a tradursi in azione, anche se rimane in chi lo concepisce; non resta sterile se cambia i n qualche modo l'orientamento, il proposito, il modo di giudicare di chi h a avuto quel pensiero. L'errore d i parecchi è di distinguere la morale individuale da quella sociale e politica, cioè per oggetto; non pensando che , l'origine della vita morale è la coscienza, e che il termine è in questo mondo il rapporto fra gli uomini. Perciò Cristo disse che il precetto fondamentale è l'amore, verso Dio e verso il prossimo, e che da questo dipende tutta la legge.

C'è forse un atto morale che non si riduca e debba ridursi all'amore? La giustizia, la fortezza, la temperanza e la pru- ' denza sono le virtù cardinali, che in tanto sono virtù in quanto animate dall'amore. Noi abbiamo la necessità di analizzare i precetti, caratterizzare le virtù, oggettivare gli atti nastri, categorizzare le varie faccie della vita morale, sia da1 punto di vista teorico che da quello pratico, per arrivare ad attingere la loro portata e poter meglio attuare la vita morale. Ma nel concreto spirituale di ciascuno di noi tutto si risolve nel doppio amore, e fuori di quello non c'è nessuna moralità vera. Ammesso questo fondamento unico a tutta la vita sociale, ammesso come unica realtà l'uomo individuo-società (non può darsi nè individuo senza società nè società senza individui) ne consegue che la struttura sociale è il mezzo di esplicazione della vita morale di ciascuno e del popolo nel suo insieme. Se i n una società vi è la tradizione e la legge di buttare nel fiume i bambini storpi o di far finire sul rogo la vedova - morale barbara - gli individui, novantanove su cento, perdono il senso di orrore che dovrebbero destare queste usanze e le osservano come un dovere morale. Così la tradizione (religiosa, civile e familiare) impone agli individui la sua morale, che lega l'indi, viduo e la società. Lo stato si suole oggi concepire come la somma delle relazioni civili-politiche di un popolo, espresso in forma autoritaria e giuridica. Anche ridotto ad una realtà semplicemente politico-giuridica di assistenza e di difesa dell'individuo, è impossibile che non esprima nelle sue leggi e nella sua attività sovrana un minimo di contenuto morale. Esso sarà quello che o la maggior parte del popolo o la parte più attiva e determinante d i esso contiene ed esprime sotto la categoria del potere e della legge. L'espressione morale è del potere, ma la realtà morale

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presupposta è quella di tutta la collettività della nazione convergente nello stato. Abbiamo detto che sotto due aspetti ci si presenta il problema morale nella politica, cioè uno sostanziale (conduzione ) formale (limiti del potere). direttiva degli atti del ~ o t e r e l'altra Anzitutto il problema sostanziale. Questo sarà sempre (bene o male) una risultante dell'opinione pubblica che sostiene gli organi del potere (siano ~ e r s o n a l io impersonali), nella loro attività politica. Quel che si guarda come oggetto principale, come mira unica dell'attività dello stato è il fine politico; così come un banchiere ha per scopo della sua attività il fine economico, il padre di famiglia il fine domestico e così via. LO stato non ha un fine etico, come suo oggetto proprio, ma un fine olitico. L'opinione pubblica, cioè il sentimento collettivo, è naturalmente orientato verso il vantaggio comune, che deve derivarne da u n ordinamento statale. Nel dire ciò, non si mette fuori la morale, niente affatto: è nell'ordine morale che un governo curi la politica, un banchiere l'economia, un padqe d i famiglia la casa; ma nessuno dei tre può attingere i fini veri del governo d i uno stato o di una banca o di una famiglia, se non tien conto delle leggi morali. LO stato, in quanto tutela la giustizia e l'ordine nei rapporti civili ed economici, f a della morale con' le sue leggi, i suoi magistrati, i suoi ufficiali. Tutti riconoscono che il governo sotto questo aspetto non può che essere un organo morale. Là dove si allargano i termini della morale, fine a cadere nell'immoralità, è quando il governo come tale si fa giudice ldella moralità, autore della moralità, cioè in quanto tutta la vita individuale e organica della società si risolve nello stato. Sicchè la questione sostanziale della moralità nella politica (come direttiva degli atti del potere) si risolve nell'atto formale, come limitazione del .potere. I C'è per tanto una limitazione etica del ~ o t e r e ?Si pretese che limitazione etico-giuridica dello stato potesse essere la chiesa. Ma nel fatto si vide che solo quando lo spirito cristiano invade la società nei suoi individui, allora la limitazione etica fatta di convinzioni religiose diviene una realtà, e cerca la limitazione giuridica come un naturale sviluppo della nuova struttura statale cristiana. Ma quando tale spirito si attenua o manca, allora la limitazione giuridica diviene lettera che si rigetta, legame insopportabile che si rompe; lo stato pretende di essere lui a darsi la morale rispondente ai suoi fini politici. Awiene allora questo mostruoso processo: l'etica d i coscienza, espressa da ciascun individuo in una consonanza sociale, si traspone in politica collettiva rivestita dei caratteri dell'eti-

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cità. Assorbendo tutta la vita individuale, lo stato diviene il fine stesso degli individui e si presenta come una realtà concreta collettiva assoluta. à

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l Cos'è mai la morale se non la visione, della legge del fine? Cristo disse che tutta la legge deriva dal precetto dell'amore a Dio e al prossimo; che è mai l'amore se non l'adesione a u n fine? Dio è il fine ultimo; perciò l'amore di Dio è massimo ex toto corde, ex tota mente, eqx tota anima. Ma il prossimo è anche fine (subordinato a Dio) e perciò il comando di amarlo è simile a quello di amare Dio. I n tanto è simile in quanto il prossimo è amato per Dio e in Dio ; che se fosse amato per sè, allora il comando di amore si trasmuta i n comando di distacqo: veni separare et inimici hominis domestici ejus. Come mai può concepirsi fine dell'uomo lo stato e la nazione o altra forma sociale? Neppure la chiesa come società religiosa è fine del fedele; ma è mezzo 'perchè il fedele viva la vita soprannaturale in comunione con Dio. L'amore della patria o della'nazione propria può essere considerato come un'estensione e applicazione dell'amore del prossimo; in quanto sopra un determinato territorio viviamo insieme e concorriamo ad uno scopo comune ; e perciò contribuiamo a migliorare, rendere prospera e difendere la patria, come un mezzo per arrivare a ciascuno dei membri di questa grande comunità. Allo stesso modo, se tale patria, nazione, popolo ci domandano di violare per essi la legge morale, di venir meno ai doveri di coscienza, di tradire Dio con il peccato, allora occorre oboedire Deo magis quam hominibus, allora inimici hominis domestici ejus. Così, non fine dell'uomo lo stato, ma l'uomo fine dello stato; e i concittadini fratelli cioè prossimo da amare, non ostacolo alla vita morale e religiosa da evitare. I1 problema del fine si presenta a noi come quello di un assoluto. I1 fine e il bene si convertono; non si può mai volere i l male per il male. Se si vuole un male è sotto aspetto (reale o immaginario) d i bene. I1 bene desiderato, voluto, cercato i n u n dato momento, è voluto o per sè o per altro a cui ordinato. Sia pure che per sè, sia per l'altro a cui .ordinato, si presenta nell'ordine volitivo come un assoluto o partecipante all'assoluto. Questo assoluto, in via normale, è la stessa persona che vuole u n bene di cui godere (sia intellettualmente che psico-fisicamente). Perchè l'amore di sè, nella sua innata e istintiva espressione, è premente e presente, è ordinante.

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Siamo noi che, in u n secondo momento di riflessione, ~ O S siamo ordinare questo amore a noi, a Dio e al prossimo; in quanto cioè noi ci sottoponiamo ad una legge morale che regola i nostri atti, non più ad u n bene visto egoisticamente nell'isolamento della nostra persona, ma visto nella convivenza con Dio e con il prossimo, cioè nella totalità dei nostri rapporti e nell'assoluto del nostro finalismo. I n questo nesso, tutto i l resto della vita non è che mezzo alla nostra realtà finalistica: il tempo e lo spazio, la speculazione e l'attività, l a società e la storia. Noi emergiamo con il nostro orientamento finalistico in cui poniamo la nostra personalità. Ogni volta che tale orientamento è falso, noi usciamo fuori dell'insieme reale della nostra esistenza come trasportati dalla vita alla morte ( a l contrario di quel che affermava san Giovanni), cioè manchiamo alla piena espressione della nostra esistenza, e ricadiamo nel travaglio della ricerca di noi stessi per attingere il fine. Come, in questo travaglio personale e di coscienza, lo stato può mai divenire u n assoluto etico? I n qual modo esso riempirebbe la nostra conoscenza di un benessere che Soddisfi insieme l'intelletto, la volontà e i sensi? Come prendere il posto di u n fine totale? come fare appello al nostro amore non quale solidarietà fraterna ma come entità assoluta? Uno dei più gravi errori infiltratosi nella coscienza moderna è quello di trasformare idee generiche come stato o classe in strutture sociali, entità esistenti e viventi sì da credere ch'esse possano fare appello alla nostra ragione e al nostro cuore. Così sorsero i miti di un'umanità, nazione, stato, come vere ipostasi a cui perfino dare u n culto, e trattarli ,come i1 grande ente dei positivisti, l a manifestazione ultima dello spirito degli hegeliani, la partecipazione all'anima unica ( l a nazione) nella quale ciascuno risolve la propria esistenza, dei fichtiani. I1 fine ultim6 dell'uomo .passò da Dio alle forme sociali concepite come assolute, immaginando così un panteismo sociale, come gli antichi avevano immaginato un panteismo naturalistico e cosmico.

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Come noi abbiamo bisogno dell'assoluto per chiarire l e nostre idee, rendere ferme le nostre convinzioni, dirigere la nostra attività, orientare l e nostre finalità; così se ci manca Dio, il vero Dio, andiamo in cerca d i falsi dei. I miti tratti dalla collettività umana ci indicano l a nostra insufficienza personale, e ci orientano verso una pretesa sufficienza della collettività. La nazione


è il mito più vicino al nostro modo di sentire e di vivere; ma la nazione sarebbe u n vano nome, o un'idealità, o un'amplificazione retorica, se non divenisse organismo, potere, forza, esecuzione. Questa trasformazione è data o nello stato o contro lo stato. Un popolo organizzato politicamente è lo stato; u n popolo che combatte contro un altro per la propria autonomia e organizzazione politica, acquista in quel momento una propria personalità politica, che prima di divenire stato (se vittorioso) si afferma come antistato (ribellione). I n ultima analisi,, tutti i miti collettiyi clan, classe, nazione - tendono a realizzarsi sul piano politico come potere, cioè a divenire stato. Quando il potere dello stato (sotto qualsiasi nome) diviene assoluto, senza limiti interiori ed esteriori, allora esso è divinizzato; esso è Dio (falso Dio s'intende). Coloro che vi si levano contro sono gli infedeli, ,gli empi, gli atei: perchè negano quello che risulta il tutto della realtà umana, nella sua potenzialità. È vero che nè ieri nè oggi si è arrivati a ridurre le forme religiose al culto dello stato; anzi al contrario, lo stato molte volte ha favorito la religione dominante. Ma nel fatto, è lo stato che si è servito della religione come mezzo di potere, e che ha sottoposto la religione al potere. Così la risoluzione etica nello stato viene come una logica conseguenza della concezione assolutistica dello stato. La ricerca dei limiti della sovranità e del potere, è stato sempre un bisogno dell'uomo per difendere i diritti della personalità. I1 giorno che il potere è assoluto, e i limiti sono aboliti, il potere diviene un falso Dio che s'impone su tutti; la personalità umana perde i suoi diritti; la morale collettiva perde il carattere personale umano, per divenire un mezzo alla finalità del potere. I1 potere politico ha due lati (come ogni cosa umana): uno spirituale l'altro materiale. I1 lato spirituale raggiunge l'etica, perchè il potere dovrebbe essere insieme espressione della giustizia, dell'equità, dell'ordine; il lato materiale (cioè la coercizione, la punizione) sono subordinate. Se 'invece di questa dualità si arriva a identificare nel potere ogni etica, in quanto il potere è etica i n sè; allora non ci sono più limiti, che possano valere contro di esso. Ma perchè i limiti, nel gioco delle forze esterne, non possono essere puramente ideali, occorre trovare la forma concreta, nella quale il potere cessa di poter essere esercitato per l'interferenza del limite che lo paralizza. Questi limiti sono morali o giuridici ma per essere efficaci e farsi valere debbono essere applicati da organi politici o ope-

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- STURZO- Politica

e morale


ranti in terreno politico. E perciò o la chiesa è scesa su terreno politico (perfino con guerre e crociate) o il popolo è a m vato alla rivolta contro il potere costituito. Nell'uno e nell'altro caso ( i due estremi) i limiti morali e giuridici non han funzionato senza arrivare a porsi come forza che contrasta con la forza. L'efficacia dei limiti morali e giuridici viene meno (ed è allora che si ricorre alla forza) quando chi rappresenta il potere non ne rispetta il funzionamento o crede che nel caso particolare gli organi molali e giuridici abbiano ecceduto dai loro poteri. I due casi si davano neile. lotte medievali fra papi, imperatori e re, i quali, pur essendo della stessa fede cristiana e nella stessa chiesa cattolica, e accettando (almeno in teoria) la stessa disciplina morale, pure giudicavano diversamente dell'uso del potere. Tali casi son dati anche nell'epoca moderna, quando non più i papi ma il popolo, organizzato costituzionalmente, h a limitato il potere, il quale ora si è inchinato ai responsi elettorali o parlamentari e ora li ha contrastati e soverchiati con i così detti colpi di stato, cui han fatto seguito o che son stati preceduti da ribellioni e rivoluzioni. I n sostanza i limiti morali e giuridici funzionano a tre condizioni: che siano accettati per convinzione, che siano tradotti i n formule politiche, che arrivino fino al legittimo e pacifico cambiamento dei governanti. Se queste tre condizioni falliscono, si cade o nella tirannia o nell'anarchia, cioè nella negazione della mora17 nella politica e nella minimizzazione della personalità umana nella società. Prima condizione: accettati per convinzione, puindi ammesso da tutti, compresi re, principi, presidenti, papi, ottimati, popolo, che il potere ha un limite e che questo limite deve essere reale. Si dice che la chiesa abbia favorito i sovrani assoluti e i sistemi assoluti. Storicamente ciò non è vero, almeno fino alla rinascenza; essa infatti non solo ammetteva che i papi potessero detronizzare i sovrani dopo avere sciolto i sudditi dal giuramento d i fedeltà, ma sosteneva tutto il sistema corporativo del medioevo, dove il re non era che u n primus inter pares, un soggetto alla legge, non solutus a Zege, ed aveva combattuto la concezione romana della sovranità durante la riforma e controriforma e mai accettato la teoria detta del diritto divino. Nel fatto i due assolutismi, quello dei re dell'amien r é g i m e quello della chiesa, si unirono in un sistema di competenze giurisdizionali, in un reciproco controllo e reciproca limitazione, asservendo popolo, borghesia, e dove possibile anche aristocrazia e clero.

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Fin che durò la convinzione e l'utilità di questa diarchia giuridica, i due poteri furono funzionalmente limitati nei 'reciproci rapporti e furono anche limitati nella concezione morale del tempo; ma nel fatto, sia nei rapporti fra gli stati sia peggio ancora verso i singoli e verso i soggetti come tutto, mancavano i limiti, perchè mancò la convinzione della loro necessità. Databile attorno al 1937. Arch. 1 A. 15


LA PACE INTERNAZIONALE NEL MOMENTO PRESENTE

Società delle nazioni? Patto a quattro? Patto franco-sovietico? Intesa antibolscevica? Asse Berlino-Roma? Triangolo Berlino-Tokio-Roma ? Amicizia franco-inglese? Nyon ? Conversazion i anglo-italiane? Spagna fascistizzata, Europa centrale nazificata, Cina giapponesizzata? Ogni giorno il suo male: ma non tutti i mali in un sol giorno! Ecco perchè il groviglio internazionale deve essere guardato sotto due aspetti: quello dell'ideale a cui mirare, quello delle possibilità immediate da realizzare. L'ideale è la pace. Quale pace? Quella che gli antichi defiordinis, e noi diciamo cc ordine stabile ganivano tranquillitas rant'ito n. Occorre anzitutto un ordine e questo è di doppia natura: morale e politico. Ordine morale: i principi su cui si basano i rapporti internazionali: rispetto dei diritti, osservanza dei doveri, fedeltà ai patti. Ordine politico: quello storico che si è concretizzato in un dato tempo e i n un dato gruppo d i stati come rispondente il più possibile all'ordine morale e ai diritti storici. L'ordine morale è nei suoi. principi immutabile, nelle sue applicazioni fondato su giustizia ed equità; l'ordine politico non è assoluto, ma relativo ai fatti storici da cui è nato, ai diritti concreti con cui si è realizzato, e alle aspirazioni dei popoli, d i cui vive. Ma per essere un ordine deve essere stabile, non deve poter mutare ad ogni momento nè avere in sè tali ingiustizie da reclamare la immediata riparazione. Infine per essere stabile deve essere garantito dagli stati stessi che l'hanno voluto, cioè difeso contro le violazioni anche a mezzo della forza. Un ordine non difeso non è stabile, e un ordine non stabile non è più ordine ma disordine, e quindi non è pace, ma solo una apparenza d i pace.

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È questo lo stato attuale: un'apparenza di pace, con guerre finora localizzate ; la guerra di Spagna <(conl'intervento diretto di alcune potenze) e la guerra del Giappone in Cina. Dopo la grande guerra si credette aver ricostituito un ordine morale e politico, avervi dato stabilità e averlo garantito. L'ordine morale fu fissato nel Covenant della Società delle nazioni, che rispondeva ai principi etici proclamati da Benedetto XV nell'esortazione ai capi degli stati belligeranti i l loagosto 1917. 'L'ordine politico fu fissato nei vari trattati di pace della conferenza di Parigi, principale quello di Versailles. La stabilità doveva venire dalla Società delle nazioni. che ad un temwo doveva realizzare l'ordine morale e quello politico e darvi le garanzie fissate agli articoli 10, 11, 16 e 19, cioè ridurre i casi di guerra, darvi una procedura',amichevole, arbitrale o giuridica secondo i casi, sottoporre i violatori del patto a d un regime di sanzioni e rivedere e riformare i patti firmati quando fossero divenuti inapplicabili sì da mettere in pericolo la pace. Per realizzare quest'ordine morale e politico, bisognava arrivare alla riduzione degli armamenti previsti all'art. 8 del patto. L'ordine fissato nel 1919 a Parigi si presentava pieno di speranze. C'era solo da dire che la parte fatta ai paesi vincitori era troppo bella per poter essere permanente, e i paesi vinti non avevano avuto alcuna voce, neppure quella di un parere, per quel che potesse valere. Donde la necessità d'iniziare subito le modifiche necessarie all'ordine politico, per adeguarlo all'ordine morale. Lo stato psicologico delle due parti non era certo il più adatto a una pacificazione spirituale, che deve essere a base di ogni vera pace, per la diffidenza reciproca dei principali ex-nemici : Germania-Francia. Ciò non ostante, dopo gravi errori (principale l'occupazione della Ruhr) si arrivò al patto di Locarno e all'ammissione della Germania alla Società delle nazioni (con seggio permanente nel consiglio), all'evacuazione della zona del Reno occupata dalle truppe dell'Intesa; al piano economico e poi alla rinuncia alle riparazioni, al riconoscimento di diritto alla parità militare nel quadro della sicurezza collettiva. Ma tutte queste rettifiche all'ordine politico arrivavano i n ritardo, come strappate per forza. con crescente sentimento di diffidenza. Per cui di contraccolpo non si volle mai arrivare alla riduzione degli armamenti, ch'era la base del nuovo ordine morale-politico. Tutto crollò d i colpo; quando arrivato Hitler al potere la Germania si ritirò dalla Società delle nazioni ritenuta come or-


gan6 insidioso della Francia e dell'Inghilterra contro l a Germania vinta, e tentò di far cadere una ad una l e limitazioni impostele dal trattato di Versailles, clausole militari, demilitarizzazione del Reno, proibizione dell'Anchschiuss con l'Austria. P e r far ciò, occorreva anche negare le basi etiche della SOcietà delle nazioni: cioè valore dei patti, proibizione della guerra, procedura di conciliazione o arbitraggio nelle vertenze fra gli stati, riduzione degli armamenti, sicurezza collettiva e c&ì via. Ma chi aveva in buona fede osservato il Couenant? L'Italia bombardò Corfù per rappresaglia; l a Società delle nazioni se . ne disinteressò. La Polonia occupò Wilno assegnata alla Lituan i a ; la Società delle nazioni non intervenne a garantire l'ordine da essa fissato. I1 Giappone occupò la Manciuria facendone uno stato vassallo; la Società delle nazioni si limitò a inviare una commissione d'inchiesta e a deplorare il fatto. La Polonia perseguita la minoranza ucraina; dopo una serie di reclami inascoltati o risolti in semplici raccomandazioni, la Polonia proclama che non è più legata al trattato del 21 giugno 1919 sul rispetto delle minoranze e la Società delle nazioni non fa che una debole riserva. I1 N e p s s d i Ahinsinla reclrrllaa contre 1'Itzlie. che ,lo minaccia e ha occupato zone di confine, e l a Società delle nazioni tergiversa e poi limita i l compito degli arbitri, i3er non accertare la violazione del territorio. L'Italia muove la guerra, e la Società delle nazioni mentre applica certe sanzioni continua a trattare sulla base della cessione di parte del territorio abissino. L'Italia vince, e la Società delle nazioni toglie l e sanzioni senza contropartita. L'Italia si annette l'impero, e gli stati membri della Società delle nazioni uno ad uno riconoscono il fait mcompli, o di fatto (come l'Olanda, l a Svizzera eccetera) o anche di diritto (come l'Austria).

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I1 senato nazi di Danzica viola la costituzione,' sopprime la libertà di stampa, scioglie i partiti awersi, oltraggia l a Società delle nazioni, e questa non ha la forza di tutelare i l diritto a lei affidato. La Germania e l'Italia intervengono in Spagna a favore dei ribelli, e la Società delle nazioni non tutela la Spagna dall'invasione straniera. Di nuovo il Giappone muove guerra alla Cina e la Società delle nazioni si limita a riconoscere il fatto e a esortare le potenze a dare aiuto alla Cina. L'ordine morale mal tutelato, e non sempre, e spesso violato con la connivenza degli organi responsabili della Società delle nazioni e dei paesi leaders; l'ordine politico non solo ,. non stabile nè garantito, ma di fatto sconvolto.


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Oggi occorre rifare un ordine morale e un ordine politico nuovo ; ridarvi stabilità, garantirlo : cioè rifare la pace. I principi morali eterni: rispetto dei diritti, osservanza dei doveri, fedeltà ai patti, non possono essere messi in discussione. Purtroppo, la crisi principale sta tutta qui. Rispetto dei diritti: quali diritti? Quando si violano i diritti della personalità umana individuale, della personalità morale dei gruppi naturali, quali la famiglia e la razza, e quelli creati dalla civiltà quali le nazioni e gli stati, quali diritti possono restare in piedi? Quando si proclamano i trattati pezzi di carta e si afferma che si rispettano quando giovano e si violano quando pesano, quale trattato avrà più valore? Quando non si può avere fiducia nella parola data, come poter essere sicuri dell'avvenire? Onde la necessità del riarmo e delle alleanze difensive. un sistema di bilancia di forze, per equilibrare quelle del presunto avversario. Ciò non ostante. anche nel sistema dell'euu'ilibrio delle forze occorre che i popoli abbiano fiducia nei trattati che li legano, e nelle amicizie on ciai si appoggiano, e quindi sui ~ r i n c i p imorali che ne sono il substrato. Dove ci sono due sistemi morali diversi, si formano due civiltà in lotta, e se queste sono organizzate in regni distinti, si formano i due gruppi antagonisti, come cristianità e islamismo. Oggi si tende a raggruppare gli stati attorno a ideologie irriducibili, per esempio: fascismo contro democrazie. Nel fatto, tali raggruppamenti sono impossibili, perchè nei paesi democratici le correnti fasciste sono palesi e operano all'aperto; negli altri le correnti democratiche sono limitate dai metodi auioritari, ma circolano d i nascosto. Dall'altro lato, le leghe antibolsceviche quali Berlino-Tokio, Roma, servono alla lotta contro Mosca più sul piano degli interessi politici che su quello delle idee. Ecco come oggi l'ordine morale è sconvolto, senza la posgibilità di Sostituire un altro, perchè i principi sono violati ovvero non hanno più applicazione sulla quale tutti consentono e perchè gli interessi politici hanno occupato tutto il piano dei rapporti internazionali, attenuando o annullando nella coscienza generale i valori morali della comunità internazionale.

Quel che oggi manca infatti è una comunità internazionale. Intendiamoci: la comunità internazionale ideale è quella formata da tutti i popoli, unica per tutto il mondo. Questo fu

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l'ideale della Società delle nazioni, che però non fu mai realizzato perchè gli Stati Uniti d'America rifiutarono di farne parte. Oggi questo ideale è irrealizzabile, fino a che le lotte ideologiche (democrazie, fascismi e bolscevismo) turbano i rapporti internazionali. Bisogna accettare un programma più modesto. L'America h a la sua unione pan-americana, che ha per base il diritto internazionale ispirato ai valori morali naturali e cristiani dei rapporti fra i popoli. Gli stati fedeli a Ginevra formeranno una vera comunità se rinsalderanno i legami attenuati dagli avvenimenti e riconosceranno il dovere d i tenere fede ai principi morali che ne sono l'anima. Fra questi principi morali quel che deve essere riproclamato è che Ginevra non è la lega dei potenti contro i deboli, nè il mezzo d i perpetuare un ordine ~ o l i t i c oingiusto, nè un organo di egemonia britannica o francese. Però si debbono evitare gli errori del passato: a) sia aperta a tutti, ma chiunque ne fa parte deve accettarne i principi morali e gli obblighi che ne derivano; b) il rispetto dei patti valga per tutti e per tutti i casi: non si debbono ripetere gli errori del passato; C) l'applicazione delle sanzioni deve essere sempre subordinata alle possibilità pratiche del, momento, ma il principio deve rimanere intatto, nel suo valore morale e politico; d) l'esistenza, della Società delle nazioni non deve impedire a nessuno stato socio di fare alleanze con quegli stati ( o sistema di stati) che non ne fanno parte, a condizione che i trattati siano pubblici e non violino gli impegni presi verso la Lega. Riconosciamo che nel momento presente non si può ottenere di più e che nè Tokio, nè Berlino, nè Roma faranno ritorno alla Lega, come neppure Washington pensa di assumere impegni permanenti i n Europa. Ma è perciò che i paesi della Lega debbono essere più che mai saldi nel loro impegno e uniti nella loro azione, per arrivare ad intendersi con gli altri i n modo stabile e sopra un terreno di reciproca fiducia. u I1 giusto d0vr.à essere forte e il forte dovrà essere giusto », scrisse Pascal. Questa è la necessità della vita internazionale: essere retti essere forti. Allora anche coloro che essendo forti non sono retti, saranno obbligati a seguire le vie rette per non cadere sotto la sanzione di una forza che essi temono. Come arrivare all'intesa con coloro che oggi vogliono cambiare, con l'astuzia o con la forza, l'attuale situazione politica? Vari piani e vari mezzi. Primo : piano psicologico. Non témere la guerra se. questa

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verrà; non provocare la guerra perchè venga; non ritirarsi di fronte alle difficoltà o ai rischi della pace. I1 pacifismo puro, che nega la guerra ad ogni costo, anche quella di difesa contro l'aggressore, essendo unilaterale è esso stesso un pericolo di guerra. I1 metodo di pace ad ogni costo, anche contro i più vitali interessi morali e politici dei popoli, è anch'esso un pericolo di guerra; eccita la cupidigia dei più forti. Secondo: piano morale. Osservare i patti e gli obblighi assunti, rettificare i torti, difendere la giustizia, rifiutare di prestarsi alla violazione della morale internazionale nè per cupidigia, nè per viltà,-difendere i deboli se e quando possibile, contro le prepotenze del più forte. Si ha paura che questo porti alla guerra: accadrà una volta . su cento, ma la eviterà novantanove volte su cento. Sa& questo un rischio della pace che vale la pena di correre perchè pieno di valore superiore a cui educare u n &paese civile e cristiano. Terzo : piano politico. Fedeltà alla Lega delle nazioni, sincerità diplomatica, fermezza nelle decisioni, e insieme comprensione degli avversari ,eventuali, e disposizione a sacrificare gli interessi materiali per salvare i principi, e a concedere agli altri di buona grazia e in tempo quel che si dovrà concedere alla fine per forza e senza merito. Parole generiche, si dirà: e no, sono frutto di esperienza ed hanno valore costante. Scendiamo alla pratica dei problemi più urgenti e cocenti. 1) Guerra d i Spagna. La politica inglese di non intervento è servita a permettere che da un anno e mezzo Germania e Italia di là e Russia di qua siano intervenute con truppe, tecnici, armi e munizioni. Allo stesso tempo Germania, Italia e Russia sono state rappresentate nel comitato di non intervento per impedire l'intervento in Spagna. C'è peggiore beffa ai principi morali e alla serietà politica? Oggi la mediazione sYimpone\e l'Inghilterra dovrà rivedere la sua politica di non intervento, se si vuole evitare sia che la guerra continui a lungo, sia che finisca con la vittoria di una parte. - 2) Conversazioni con l'Italia. È u n bene che si arrivi a regolare il problema del Mediterraneo, a condizione di non lasciare ancora mano libera in Spagna, ma impegnare l'Italia alla politica di mediazione sulla base della « Spagna agli spagnoli D; e a condizione che non si consacri la conquista dell'Abissinia sopra la teoria del fatto .compiuto, condannata dalla morale cristiana. 3) Rapporti con la Germania. Sì, certo; a condizione che


non si abbandoni l'Europa centrale alle sue brame di espansione, si tuteli l'indipendenza dell'rlustria e l'integrità della Cecoslovacchia; e a condizione che il problema delle colonie sia trattato dalla Società delle nazioni, in nome della quale l'Inghilterra gestisce i mandati. Tutto ciò significa avere una politica, basarla sulla legge morale e sul risaetto dei trattati, difendere l'ordine internazionale e correrne i rischi. Ma solo. così potrà superarsi la crisi di oggi, e rivalutare i principi solidi a stabili di una vera e futura comunità internazonale nell'ordine e nella pace. '

Marzo 1938.

Arch. 13 A, 18


7. DELL'UBBIDIENZA AI POTERI COSTITUITI Riflessioni sullo stato presente

Mi sembra opportuno fare seguito all'articolo del padre Spicq, (C On doit se soumettre auz pouvoirs établis » (l), sia per l'applicazione ai principi da lui esposti (che sono la dottrina perenne del cristianesimo), sia per chiarire alcuni punti dubbi, che non mancano in materia così intricata. Limito il presente studio al caso deblo stato democratico moderno con riferimento alla Francia, dato che La Vie ZnteE lectuelle è una rivista francese. Non parlerò di altra forma d i stato (se non per qualche riferimento), nè di altro tipo di autorità (come l'internazionale); nè mi occuperò del problema del diritto di rivolta, sul quale ho pubblicato un altro studio in questa stessa rivista (3. Restringo l'indagine ai seguenti punti: I. Quale il carattere e i limiti dell'autorità politica in uno stato democratico moderno. 11. Quale il carattere e i limiti dell'ubbidienza dovuti dai soggetti ( o cittadini) in tale stato. 111. Esame dei casi di potere illegittimo o di guerra ingiusta.

La democrazia politica moderna è caratterizzata dalla partecipazione legale, organica e rappresentativa del popolo all'esercizio dell'autorità. Tale partecipazione non contrasta i n nessuna maniera alla teoria cristiana dell'autorità, nè usurpa il potere divino, dal quale deriva ogni potere umano. Coloro che per giustificare la teoria della democrazia moderna si appoggiano ancora sulla tesi della natura per sè buona La Vie Zntellectuelle, 25 Janvier 1938. ( a ) La Vie Zntellectuelle, 25 Octobre 1937. (l)


(negando implicitamente o esplicitamente la colpa di origine), non si sono accorti, per l'esperienza di un secolo e mezzo, che la tesi della natura buona non è che un'utopia. Gli altri che ancora attribuiscono ( i n via teorica) tutto il potere sociale e l'origine del potere al popolo sovrano, senza alcuna limitazione intrinseca, non si sono neppure essi accorti, in un secolo e mezzo di esperienza, che una sovranità popolare senza limiti non può esistere di fatto, perchè coinciderebbe con l'anarchia; nè si può accettare in diritto, cioè trasportata sul piano dello stato, perchè degenererebbe in tirannia statale. Questi due pseudo-principi furono storicamente un presupposto polemico della moderna democrazia, non mai le sue basi reali. Quel che a noi interessa stabilire chiaramente si è che l'attuale regime democratico, quale nella Gran Bretagna e suoi Dominions, nel13America del Nord e alcuni stati dell'America Latina, in Francia, Olanda, Belgio, Svizzera, Irlanda, Cecoslovacchia, Danimarca, Svezia e Norvegia, e Stati Baltici, non implica affatto la negazione che ogni potere viene da Dio. Dico K non implica 1) per escludere una connessione necessaria fra la democrazia e una simile negazione; ciò non vuol dire che non vi siano, negli attnzli regimi demcvrrtici, delle ioY!trzzicni di teorie che partono dal concetto dell'assoluta autonomia umana. Allo stesso modo che nell'ancien régime s'insinuavano altre teorie erronee sulla natura dell'autorità, quale quella del così detto diritto divino dei re (l). , Può sembrare a molti un truismo questa nostra osservazione preliminare, specialmente dato il fatto che i papi hanno più ) 'che la chiesa volte (dalla rivoluzione Gancese in ~ o i dichiarato è indifferente riguardo la forma dei regimi politici. ,Ma,poichè non si dà forma senza contenuto, e poichè il contenuto di tutte le formazioni politiche moderne è inquinato di presupposti teorici erronei, così è facile che nel criticare i regimi che non piacciono, si passi dal contenuto alla forma politica e s'attribuiscano a Questa le incom~atibilitàcon la dottrina cristiana del contenuto dei suoi presupposti teorici. La critica che si fa ai regimi democratici, dal punto di vista della natura e l'uso della libertà e del carattere dell'autorità, è resa più facile dal fatto

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(l) I1 padre Spicq parla u du droit divin dea pouvoirs constitués D, che non è da confondersi con la teoria del diritto divino dei re. Poichè 1%0 storico della suddetta frase si rifeiisce a una determinata teoria, sembra meglio evitarla anche quando si vuole ricordare che non vi è potere che da Dio, non trattandosi, nel caso, di un diritto divino positivo, come è per la autorità della chiesa. (N.d.A.)

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che i pensatori e filosofi della democrazia politica moderna sono in maggior parte contrari ad una concezione cristiana della società.

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L'autorità statale in regime democratico non è concentrata in una persona, ma divisa e distinta in vari organi, con alla base l'elettorato ~ o ~ o l a rIen. Francia vi è un presidente elettivo, che rappresenta l o stato e ne è il simbolo; un parlamento elettivo con due assemblee (senato e camera dei deputati}, come potere legislativo; esse in casi speciali si riuniscono in unica assemblea; un governo o gabinetto, come potere esecutivo, nominato dal presidente e accettato dalle due camere; una magistratura indipendente (almeno di nome), come potere giudiziario; un corpo elettorale, come sorgente ultima degli organi del potere. Ciascun organo h a le sue competenze, i suoi limit, le sue regole, le sue responsabilità. Rappresentano tutti l'autorità? quell'autorità che viene da Dio? Certamente, sì : nell'ambiio delle proprie funzioni ciascun organo ha una parte di pciiere ed è qirindi (nell'esercizio del proprio potere) investito di autorità. I1 dubbio non cade nè per i l presidente, nè per il governo, nè per la magistratura, nè per gli organi amministrativi e militari della macchina statale. Non dovrebbe neppure cadere alcun dubbio per il parlamento, ma si è talmente abituati a sentirlo vituperare da tutta la stampa di destra, e anche da certa stampa cattolica ( e forse le critiche per quanto acerbe non sono del tutto ingiuste), che qualcuno dei lettori di questo articolo si sorprendexà a pensare che i l parlamento possieda una potestà che viene da Dio; ma dopo il primo urto psicologico, si persuaderà facilmente che è così. Anche al corpo elettorale occorre riconoscere un potere che viene da Dio? Questo poi è troppo duro a ingoiare! Proprio; ma è così; l'elettorato è un organo del potere, è investito di un potere fondamentale e ha l a grave responsabilità del buon esercizio. Purtroppo, quasi dappertuito, il corpo elettorale non 6 stato educato a sentire la sua responsabilità morale; è stato lusingato come espressione di volontà illimitata, come popolo sovrano (sovranità di un momento!), si sono scatenate l e passioni popolari, non si sono incanaliti i suoi sentimenti; si sono formati i arti ti di massa sulla base di falsi ideali. non si è bene insistito sul valore morale della democrazia; gli unici che avrebbero potuto farlo con pienezza di criteri morali, i cattolici, in parte e per lungo tempo vi si sono rifiutati. P e r giunta, in Francia, il corpo elettorale è chiamato solo

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a periodo fisso, senz'altra partecipazione alla vita politica, n è per appello a l paese, nei contrasti fra parlamento e governo O nel bisogno di un cambiamento d'indirizzo politico, come si usa i n Inghilterra, nè per referendum su determinate questioni d'interesse generale, come si usa in Svizzera. Così l'educazione dell'elettorato manca o è deficiente; e d'altra parte il parlamento senza continuità d i contatto col paese (data la forma automatica periodale delle elezioni) si trasforma facilmente in corpo autonomo i n preda ai gruppi. Di qui, in Francia, il discredito del parlamento e la svalutazione dell'elettorato. Ma le crisi degli organi del potere non intaccano (almeno idealmente) il valore ordinativo e finalistico (cioè morale) del potere. Non perchè Luigi XV tenesse a Versailles una specie di bordello, non avevano valore le sue leggi e i suoi decreti. Nel fatto, gli atti del corpo elettorale e quelli del parlamento rivestono carattere di atti di autorità e come tali debbono essere ricevuti. Coloro che confondono l'autorità con una specie di potere arcano e ieratico, credono che ripugni al principio di autorità la critica aperta e legale che in democrazia si fa degli atti del potere. L'errore di taie opinione dipende sia dalla ignoranza dell'essenza del potere, sia dalla confusione fra sana democrazia e gli abusi reali che vi s'introducono (come in qualsiasi altro regime). I n termini di diritto, c'è la critica preventiva alla legge ch'è lecita perchè fatta in periodo di formazione; donde le disensioni sulla stampa, nelle riunioni pubbliche, nei referendum, nei parlamenti fino a che non si arriva alla sanzione sovrana. Allora la legge è compiuta e deve essere osservata. C'è l'altra critica, quella della legge vigente per migliorarla, cambiarla, modificarla, abrogarla: è nella natura delle cose questo bisogno e non si fa oltraggio alla legge se la critica è onesta, temperata, ragionevole. C'è infine la critica degli atti del governo e dell'indirizzo del governo e questo è caratteristico della democrazia, poichè il popolo partecipa in certo modo al governo stesso; si agisce de re propria. Del resto, non è a credere che nell'ancien régime mancasse la critica: la forma era diversa; le classi interessate erano le aristocratiche ; i gruppi : gilde, università, municipalità, borghesie mercantili, e simili. Non mancavano le riunioni dei tre stati, le petizioni, i parlamenti o assise generali: la questione fiscale era la più dibattuta. Quando ai re non arri~avanole voci dirette del popolo, non mancavano confessori e predicatori a farsene eco. Anche le amanti autorizzate servivano uualche volta a fare la parte di Ester, quando non facevano il contrario. Sarà bene notare qui, una volta per sempre, che lo stato ai tempi dell'ancien régime aveva pochi compiti in confronti allo stato


moderno, che h a preso in mano tutta la vita civile, morale, culturale, economica della nazione. Nella concezione dei rapporti fra suddito e sovrano, corpi locali e stato, cittadini e nazione, una demarcazione storica sostanziale bisogna fare da quando si passò dalla teoria (( contrattualista » del medio evo a quella pubblicista )L dell'evo moderno. Nel primo caso, i rapporti fra sudditi e sovrano non erano individuali, ma comunitari: lo stato ( o meglio i l regno) era una specie d i comunità superiore dentro la quale esistevano l e altre comunità civiche, professionali, ecclesiastiche, universitarie e così via. Ogni comunità aveva la sua esistenza interamente autonoma e contrattualmente legata al re, come capo, protettore e garante dei suoi diritti: era quel che si appella l o stato corporato (quale infinita distanza dallo stato corporativo totalitario!). La base dei rapporti era contrattuale. Allora non c'erano due diritti: uno privato e uno ~ u b b l i c o ;il diritto era sempre cristallizzato in contratto: anche fra sudditi e re vi era u n contratto: dal lato dei sudditi ubbidienza e fedeltà, dal lato del sovrano rispetto dei diritti e garanzia di difesa. Se veniva meno l'osservanza del contratto, cessavano gli 09biighi reciproci. Che meraviglia se i corpi locali facevano resistenza alle leggi, ai decreti e agli atti sovrani quando erano creduti lesivi della loro autonomia e d i quei diritti che i re stessi si erano obbligati a rispettare? La concezione dello stato res pubblica, ente pubbl'ico, con piena e propria sovranità, diede luogo alla teoria assolutista, che ebbe per presupposto o per corollario (secondo i casi) l a teoria del diritto divino dei re ( n è i papi nè la dottrina cattolica accettarono tale teoria, non ostante le debolezze degli episcopati nazionali). Caduta in discredito, la teoria del diritto divino fu soppiantata da quella del diritto naturale (giusnaturalismo), che poi arrivò a dar la base alla sovranità popolare di carattere formale e simbolico, che resiste anche oggi, sia nella concezione democratica, sia in quella totalitaria della nazione della razza, presa come un tutto vitale, permanente e superumano. In sostanza, è lo stato, ente a sè stante, di carattere pubblico, che riassume I'autorith senza altri limiti al suo potere che quelli posti dalla sua natura di ente comprensivo d i tutta la società. L'unico limite sarebbe dovuto essere quello morale; ma non potendo l o stato N tutto n uscire da sè, e cercare la base morale dove essa si trova, cioè nella personalità umana e nei suoi rapporti religiosi con Dio, cerca di foggiarsi una propria morale. Questa è di fatto un compromesso tra la morale tradizionale a d

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tipo cristiano e naturale, e la concezione illimitata del potere statale. I n regime democratico questo potere illimitato dello stato è corretto dalla reciproca limitazione degli organi del potere: è basilare per essa la divisione classica del potere in legislativo, esecutivo e giudiziario, con una sintesi formale alla base nel corpo elettorale e alla cima nel capo dello stato. Da qui derivano altri elementi limitativi del potere: quello della legge uguale per tutti; quello della periodicità delle nomine; quello della responsabilità politica del governo o gabinetto; quello della irresponsabilità politica del presidente o re, che regna e non governa. Una specie d i meccanica delle forze statali per ottenersi, qual risultato, un equilibrio politico; ma questo non ' basta se non ha alla sua base un elemento morale stabile, quale sogliono essere le leggi fondamentali dello stato: (costituzione, codici, regole di amministrazione), Nel caso che tale equilibrio venga rotto, l'organo del potere che va a re dominare non sentirà più il valore del limite politico e per conseguenza neppure quello del limite morale: o la tirannia del dittatore O quella del parlamento o l'anarchia dei partiti e delle masse ne sono la conseguenza. -.. Riassumendo, la democrazia moderna ha organizzato ' i limiti e i controlli al potere in forma permanente, legale, pubblica e popolare; mentre in altre forme di stato i limiti e i controlli sono o d i natura aristocratica, ovvero semplicemente burocratici e funzionali. Quanto più si va verso la concezione .di un potere assoluto senza limiti nè controlli, tanto più si attenua il carattere morale del potere politico, per risolversi nell'arbitrio di un solo o di pochi e nel dominio della forza materiale. P1 culto dell'autorità, se 6 portato avanti da solo, come un fatto assoluto nella società, senza la concretizzazione dei limiti etici e politici a mezzo di organismi sociali viventi, conduce alla identificazione del potere con l'arbitrio e con la forza.

Quando si parla di soggezione ai poteri costituiti non #può intendersi ciò come una soggezione personale, ma solo come una soggezione legale, quella dovuta all'ordine costituito, cioè alla legge. Nessuno può reputarsi solutus a kge, nemmeno coloro che sono investiti di autorità. Ma l'ubbidienza civica non può concepirsi come un'ubbidienza monacale, nè come quella dei servi o degli schiavi: l'ubbidienza è dovuta solo alla legge e ai precetti giudiziari o amministrativi emessi in applicazione della legge. Se in tale applicazione i magistrati o gli ufficiali


eccedono nei loro poteri e gravano i cittadini ingiustamente, si ammette il diritto di ricorso o di non esecuzione, secondo i casi. T primi cristiani non facevano diversamente degli altri cittadini dell'impero, nè dei cittadini di oggi; essi ubbidivano alle leggi (quando queste non erano contrarie alla morale cristiana) e all'occorrenza anch'essi rivendicavano i loro diritti, come S. Paolo che fece valere la sua qualità di cittadino romano appellandosi a Cesare. Dire ch'essi ubbidivano a Tiberio o a Nerone o a Domiziano, non aggiunge nè toglie nulla alla loro soggezione civica, in quanto essi restavano ubbidienti alle leggi e non mancipi degl'imperatori. La resistenza passiva ch'essi fecero alle leggi anticristiane, preferendo la fuga o il martirio, non fu per !a qualità di cattivi imperatori, ma per le loro leggi cattive ; i cristiani furono perseguitati più da un Traiano o da un Marco Aurelio, reputati dei buoni imperatori, che da un tipo malvagio quale Commodo. La questione d e l principe cattivo va posta solo in rapporto al diritto di deposizione che potranno avere i cittadini o loro corpi costituiti, ovvero, nel 'caso di tirannia, al diritto di rivolta. Per precisare bene il carattere e i limiti dell'ubbidienza dei cittadini all'autorità in regime democratico, occorre distinguerla circa l'oggetto. Noi troviamo quattro tipi diversi: 1) l'ubbidienza civile ; 2) l'ubbidienza politica ; 3) l'ubbidienza di ufficio o servizio : 4) l'ubbidienza militare. La prima è quella della quale comunemente si parla: l'ubbidienza alle leggi. La seconda è quella dovuta alle autorità politiche (anche per comando personale) nel caso di pericolo dello stato e dell'ordine o della vita nazionale, cioè caso di guerra, rivolta, sospensione delle guarentigie per casi eccezionali, terremoti, epidemie, carestie, sommosse.. La terza è l'ubbidienza dovuta dall'investito di un ufficio o incaricato di un servizio pubblico, ministro, deputato, ambasciatore, burocrate, fino a usciere o poliziotto. La quarta è quella imposta ai soldati e ufficiali dalla disciplina militare. In tutti questi rapporti fra autorità e soggetti domina il principio che non si può imporre mai al di Ià della lettera e dello spirito della legge; ma, mentre l'ubbidienza civile è di carattere impersonale, dovuta alla legge e non alla persona che comanda, e solo nei casi di stretta applicazione giuridica o amministrativa (sentenza di magistrato, decisione di prefetto o ingiunzione di polizia) può arrivare alla persona; nel caso dell'ubbidienza politica si ammette una maggiore ampiezza nel comando alla persona in applicazione più che di una legge precisa, , di un dovere di cooperazione al bene comune, con proprio saP

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crificio nei casi di grave e urgente necessità, nei quali l'autorità è naturalmente un centro coordinatore e compulsore. L'ubbidienza di ufficio o servizio e quella disciplinare militare hanno caratteri particolari: la prima come rapporto d i giustizia (nomina pubblica o contratto impiegatizio), il secondo come un'applicazione stretta dell'ubbidienza politica per la necessità di ottenere gli scopi pratici a cui è ordinato il servizio militare.

La legge per poter obbligare, deve essere morale e giusta: la legge immorale e ingiusta non obbliga. , La legge immorale può essere positiva se 'obbliga a emettere un atto immorale (atto di culto ai falsi dei, sterilizzazione imposta a determinate persone e simili); negativa se vieta d i emettere certi atti morali (culti pubblici al vero Dio, predicazione del Vangelo, atti pubblici del matrimonio religioso etc.). L'azione di resistenza alla legge può essere di due maniere: nnJi.+;nrr e nnIlott;*in ofX~;neh~ --D-I p n o p siil revocata e ?erchè non sia osservata; b) civile e personale, da parte di coloro cui è fatta la ingiunzione, col rifiuto dell'ossemanza. L'obbligo della resistenza politica incombe a tutti i cittadini, secondo le possibilità legali e le posizioni personali di ciascuno, o come elettori o come deputati o come giornalisti, e così via. I n maniera più stretta incombe a coloro che hanno il dovere di ufficio di difendere la moralità e la religione offesa, o a coloro che sono chiamati per professione a eseguire la legge ( i medici nel caso della sterilizzazione obbligatoria). Se u n tale obbligo sia per giustizia o per carità, può precisarsi dall'esame delle condizioni di fatto. Secondo la mia opinione, i n regime democratico, l'obbligo del m'inistro ,e del deputato è di giustizia, quello del cittadino elettore potrebbe anch'esso dirsi di giustizia se l'elettore avesse sufficiente coscienza del, suo ufficio d i fronte a tutta la comunità politica. Non è , a porre la questione per il sacerdote cattolico obbligato dal suo ministero a difendere la morale, specialmente per i parroci e vescovi. I1 rifiuto di ubbidienza al momento della ingiunzione personale non è dovuto solo da colui che è comandato (come sarebbe il medico obbligato pers~nalmentéa fare un'ingiusta operazione d i sterilizzazione) ma anche dai suoi cooperatori necessari (come l'assistente all'operazione); e da coloro che sono incaricati a punirlo della disubbidienza ( i l giudice o il prefetto). Dal divieto della cooperazione al male, deriva l'obbligo a tutti i ministri, ufficiali e impiegati dello stato di rifiutare la n\ U ,

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loro opera per compiere atti immorali comandati dai loro superiori : violazioni alle leggi, decisioni ingiuste, rifiuto di render giustizia e simili. Coloro che facilmente indulgono ai propositi immorali dei rappresentanti del potere, politico, non si mettono a discutere con la loro coscienza se, nel caso particolare, ci sia conflitto di doveri fra l'ubbidienza cieca e la disubbidienza illuminata; fra il dovere d i coscienza di non cooperare al male e quello di eseguire gli ordini 'dell'autorità. Purtroppo, in via ordinaria si pensa solo a tutelare il posto che si occupa, & a dassicurarsi una brillante carriera, cedendo alle pressioni dall'alto, di fronte al debole richiamo di coscienza per un atto formalmente immorale. Tali conflitti, in via ordinaria, sono meno frequenti o meno acuti in regimi democratici e legali, che in regimi assoluti e arbitrari. In ogni caso, è meno difficile seguire la voce di coscienza i n regime democratico che i n quello dittatoriale, perchè il pericolo di perdere il posto vi è meno ,reale, e mai irreparabile. Ricordo di un impiegato, a cui era stato richiesto di fare un rapporto, che seozr alterare i dati reali del fatto, conchiudesse contro colui che ( a suo parere) aveva diritto ad una decisione favorevole. Siamo in Italia, in un periodo precedente alla grande guerra. L'impiegato fece più volte presente al suo superiore immediato la realtà delle cose e infine domandò di essere esonerato dal fare quel rapporto. Ricordo con quali angoscie egli attese la risposta definitiva; era preparato anche alla perdita del posto o al trasferimento in altro luogo o a un procedimento disciplinare. Con sua sorpresa, seppe che il ministro, apprezzando le sue ragioni, aveva deciso di sospendere ogni decisione e ordinato di fare ulteriori indagini. È difficile dire se ciò fosse stato possibile in regime dittatoriale, nel quale come stato psicologico preventivo, l'impiegato è più disposto a ubbidire anche nel caso di palese ingiustizia. Si forma un ambiente di soggezione, d i servilità, di paura, che diminuisce, fino a spegnerlo, ogni senso di responsabilità. Quel che si dice dell'impiegato di stato, si dice del cittadino, quando per ragioni di pericolo è chiamato a prestare servizi o dare contnbuzioni personali ( è i l caso dell'ubbidienza politica); il primo limite di tale ubbidienza è dato dalla moralità del comando. I1 problema di chi giudica della moralità del comando si risolve con il principio della coscienza bene informata: colui che deve eseguire il comando ne è il giudice naturale; egli, secondo i casi, deve prender consiglio da persone illuminate e prudenti. Nel dubbio, ha la preferenza i l comando, che si, suppone morale, tranne che si sappia in precedenza che


chi comanda ha il disprezzo dei principi morali e irride dalla giustizia. Nel caso di una legge e di un comando immorale d i carattere negativo (recentemente è stato proibito di re dica re O insegnare il catechismo nella lingua materna, nell'Alto Adige o nell'Istria, nei Paesi baschi, e circa dieci anni fa in Catalogna) occorre fare parecchie distinzioni. Se si tratta solo del divieto di esercitare un diritto, per quanto il divieto sia immorale e lesivo, pure l'interessato, che non ha alcun modo di difendersi legittimamente, può, anche con suo incomodo, rinunziare almeno temporaneamente all'uso del suo diritto. Per esempio, pubblicare o no un libro o un giornale in una data lingua (come è oggi per la lingua basca). Ma se si tratta del divieto di esercitare un ministero a cui si ha l'obbligo (divieto al medico di curare certi ammalati perchè ebrei o al parroco di non insegnare il catechismo in vernacolo ma nella lingua nazionale, che i bambini del popolo spesso non comprendono bene o non comprendono affatto) allora non può ubbidirsi alla legge o al comando dell'autorità civile. I ~ a s i possono moltiplicarsi: altro è il caso di u n dovere positivo di giustizia, lesu da una legge negativa, aitro è un dovere generico, quello per esempio di ascoltare o no la predica i n vernacolo o di andare o no a sentire la messa. Nel caso di grave incomodo ed evitato lo scandalo. il cittadino auò non fare 'uso dei suoi diritti. I n certi casi però la resistenza passiva collettiva è l'unico mezzo per ottenere la revoca o . l'attenuazione della legge ch'è lesiva del proprio diritto ovvero costituisce un impedimento all'esercizio totale o parziale del proprio dovere. La resistenza passiva h a un valore enorme per.far rientrarè le autorità politiche nell'orbita delle proprie competenze, per ridare u n tonico morale alla società e per educare le popolazioni al senso di dovere, di coscienza e alla responsabilità dei propri atti. &

C'esame di due questioni completerà il quadro dell'ubbidienza ai poteri costituiti in regime democratico: quella della legittimità del potere e quella del dovere del cittadino nel caso di guerra irigiusta. A) Legittimità del potere Non vi è vero potere se non è legittimo:, la legittimità è condizione necessaria del potere; un potere illegittimo non è vero potere. Nel caso che sia tale, la legittimazione è un passo richiesto dall'ordine sociale: se manca una legittimazione reale . si cerca quella apparente.


Poichè anche oggi non mancano i colpi di stato, le occupazioni militari senza dichiarazione d i guerra, le conquiste senza accordi di pace, così il problema della legittimità del potere è di piena attualità. Ai fini del nostro studio occorre distinguere i casi: a) dell'usurpazione del potere ; b) del "governo d i $fatto non legittimato ; C) del governo di fatto legittimato apparentemente con titolo insufficiente; .d) del governo legittimato e divenuto tradizionale. a\ I moralisti sono d'accordo nell'affeamare che è lecito, e in certi casi e per certe persone doveroso, resistere, anche con la forza, all'usurpatore, nell'atto dell'usurpazione. I1 capo dello stato e il suo governo, attaccati dall'usurpatore, hanno il dovere della resistenza con le armi (quando è possibile) e in ogni caso sul terreno giuridico perchè essi rappresentano gl'interessi della comunità; è in loro mano la tutela armata e la tutela giuridica del paese. L'esercito e i cittadini chiamati sotto le bandiere hanno in tal caso l'obblieo dell'ubbidienza al legittimo capo, u e quindi quello di combattere contro l'usurpatore. Gli altri cittadini hanno l'obbligo dell'nbbidienza politica per il caso di pericolo. Se però !e cause del tentativo di usi?rpazione sono quelle di una giusta rivolta, allora la situazione muta, come può vedersi nel citato articolo sul Diritto di rivolta e i suoi limiti. b) Supposto che l'usurpatore abbia vinto ed abbia creato quello che si chiama un governo d i fatto, i moralisti sono di accordo nel ritenere che per motivi di ordine e per il bene comune, occorre ubbidire a un tale governo, anche prima di ogni possibile legittimazione. Ciò non contraddice alle celebri parole di Pio IX, de11'8 dicembre 1864: È falso che « nell'ordine politico i fatti consumati, per ciò stesso che sono consumati, abbiano vigore di diritto (l), perchè l'ubbidienza ad un tale governo non significa alcun riconoscimento del fatto compiuto nè importa una legittimazinne implicita. C) La legittimazione è posteriore all'esistenza del semplice governo di fatto; essa costituisce un principio di diritto; come tale non esige una forma fissa e costante essendo la legittimazione, di sua natura, originaria e storica. Ogni tipo di regime, ogni concezione giuridica della società, ogni situazione di fatto risolve il problema della legittimazione del potere come meglio può. Pipino, per essere più sicuro sul trono, ottenne l'approvazione del papa; al papa ricorsero i re di Spagna e di Portogallo nel

(1) Enciclica Quanta cura, 8 dicembre 1864, n. 4.


secolo XV per legittimare le loro presenti e future occupazioni nel Nuovo Mondo, e averne l'esclusiva. Oggi si ricorre ai plebisciti: da Napoleone I11 in poi se n'è fatto uno strumento della tirannia « con l'entusiasmo del popolo ».Che cosa avrebbe dato il plebiscito dell'Austria indetto da Schuschnigg? Certo, l'opposto del plebiscito del 10 aprile, fatto sotto l'occupazione militare e il terrore poliziesco del potere nazista. Dal modo come la legittimazione viene fatta, dallo stato d'animo della maggioranza dei cittadini e di coloro che rappresentano (in un dato momento) la classe politica responsabile, si può arguire se potrà riguardarsi come apparente o reale, come precaria o stabile, come accetta da tutti o solo da una frazione. I n fondo ad ogni legittimazione vi è la volontà comune, l'adesione implicita o esplicita della popolazione interessata, perchè la legittimazione è una forma di acquisizione d i potere ex-novo: per essa si posa la questione dell'origine del potere. Quale che sia la concezione prevalente: quella contrattuale ( d i tipo scolastico); quella storica ( d i tipo positivo), quella formalistica (di tipo giuridico); tutte presuppongono una volontà comune, esplicita o implicita, per la quale sola può concretizzarsi un potere iegittimo. L'idea stessa di prescrizione (presa dai diritto privato) - per la quale un re ( o un regime) illegittimamente istallatosi di fatto, ma rimastovi per lungo tempo senza opposizioni reali o apparenti, arriva a divenire, per ciò stesso, un potere legittimo - non è che una formula giuridica che . maschera la vera essenza della legittimazione: il volere popolare vi è contenuto tacitamente, per via di lunga acquiescenza. Potrebbe sembrare che questa interpretazione costituisca un modo di evadere dalla' dottrina di Pio IX sul fatto compiuto; ma non è così; perchè nel caso della prescrizione non è ,il fatto compiuto che crea il diritto, ma la successiva volontà popolare che accede al fatto compiuto. Tale può dirsi il caso del Monte- , negro, che fu unito alla Jugoslavia e confuso in essa solo per u n fatto compiuto dopo la grande guerra. Una frazione di Montenegrini protestò, si agitò, cercò aiuto in Italia e alla conferenza della pace. Questa frazione svanì, si disperse per il mondo o rientrò in Montenegro. Gli altri si adattarono subito, e da allora han partecipato pacificamente 'alla vita comune con la Jugoslavia. Sono venti anni e non si sente più parlare del Montenegro. Per quanto venti anni non siano che un breve periodo agli effetti di una prescrizione politica, pure oggi si h a l'impressione che il fatto compiuto sia stato ratificato da coloro che avrebbero avuto diritto a rivendicare la sovranità d'indipendenza del Montenegro.


Al contrario, mai l'Irlanda, mai la Polonia riconobbero il dominio straniero; il tempo non prescrisse il loro +ritto. I1 caso dell'Austria non può dirsi deciso: il plebiscito del 10 aprile non può ritenersi libero e legittimo. Se domani 1'Austria vorrà rivendicare la sua indipendenza, sarà ancora nel suo pieno diritto. I1 fatto compiuto è là, ma non è stato legittimato. Questi casi ci chiariscono le posizioni etiche dei cittadini: fin che il governo di fatto non è legittimo essi sono obbligati all'ubbidienza civile, ma non al riconoscimento: è il caso dell'occupazione germanica nel Belgio e nella Francia, è il caso dell'occupazione austriaca della Serbia e del Friuli, durante la grande guerra. Quando avviene la legittimazione, se questa non è che apparente, i cittadini sono t6nuti all'ubbidienza civile come a u n governo di fatto, ma non come,a un governo legittimo ( è il caso attuale dellYAustria). Nei due casi vige il loro diritto a reclamare che cessi il governo di fatto e che ritorni quello di diritto. I1 modo come questo diritto possa esercitarsi dipende dal tipo di regime che vi è istaiirato: se questo è democratico, il modo sarà legale; se invece il regime è assoluto o totalitario, come oggi si dice, e nessuna azione legale vi è consentita per rivendicare il ripristino del governo di diritto, allora non vi è che il ricorso alla rivolta, nei casi e nei modi che insegna la morale cattolica (vedi il citato articolo del 25 ottobre 1937). d) Infine, se la legittimazione è reale ed effettiva, e nulla vi si può obbiettare contro, il governo di fatto diviene anche governo di diritto. I rapporti fra cittadino e poteri pubblici ritornano ad essere integri e definitivi.

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B ) Caso' della guerra ingiusta I teologi dicono che nel caso di guerra palesemente ingiusta, il soldato deve rifiutare di battersi (sia esso cittadino o soggetto obbligato ai servizi militari ovvero volontario corso alle a m i O ingaggiato per contratto). Lo stesso è a dirsi dell'alleato. (E'Italia nel 1914 negò di unirsi all'Austria-Ungheria nella guerra contro la Serbia, perchè i l patto di alleanza non portava l'obbligo di partecipazione ad una guerra offensiva). In genere, tutti coloro che sono chiamati ad una cooperazione formale i n una guerra ingiusta, hanno il dovere (oltre che il diritto) di rifiutare l'ubbidienza politica, i parlamenti devono negare l'approvazione della guerra e i fondi necessari; i banchieri, i prestiti; la stampa, l'appoggio; i partiti e i cittadini anche il plauso e l'incoraggiamento. Nel caso di dubbio sulla giustizia della guerra, alcuni teologi


insegnano che la presunzione sta per la giustizia, e quindi i soldati debbono ubbidire a l principe. Altri fanno l a distinzione fra uno stato sovrano e uno stato vassallo; nel primo caso l a presunzione è per la giustizia della guerra, nel secondo invece per l'ingiustizia, perchè il vassallo deve prima .ricorrere a l suo sovrano per dirimere la questione. Oggi, in un sistema societario e in regime di diritto internazionale, quando vi sono la Società delle nazioni, la corte dell'Aia, l'Unione. pan-americana, il patto Kellog, si può affermare con serena coscienza, che una guerra si deve presumere giusta quando prima d i dichiararla si sono osservate le regole societarie e non ostante tutti i tentativi di eonciliazione, e tutte l e procedure prescritte, la parte avversa si rifiuta di accettarne le decisioni. Può anche porsi in altri'termini il criterio di presunzione: ogni guerra di aggressione si presume ingiusta; ogni. guerra difensiva della parte aggredita si presume giusta. I1 valore della presunzione serve :a mettere in chiaro l'obbligo di coscienza del cittadino a ubbidire a l potere politico nel partecipare alla guerra, ovvero a 'non ubbidire e resistere al comando. Si è osservato, che non ostante l'insegnamento unanime dei teologi, nè gli ecclesiastici nè i laici cattolici hanno dato mai la menoma attenzione all'.obbligo di non partecipare ad una guerra palesamente ingiusta. Anzi, da parecchio tempo, i cleri prendono l'iniziativa di giustificare ogni guerra. Per non citare casi recenti, basta ricordare l'appello dei vescovi tedeschi durante la grande guerra, l a responsabilità della quale (anche se divisa con altre nazioni) non può non risiedere nella Germania in modo speciale. Purtroppo, tali casi, antichi o recenti, dimostrano: a) come sia difficile, nel caso d i . u n a gùerra, disimpegnarsi dal clima passionale e poter giudicare nettamente del carattere morale della guerra in cui si va ad essere impegnati; b) quale responsabilità pesi sui cattolici per il fatto di non bene educare alla valutazione del giusto e dell'ingiusto nei rapporti internazionali. Le conseguenze n e sono gravissime e spesso tragiche. Stando a l tema dell'ubbidienza politica i n regime democratico, è chiaro che il cittadino (anche un solo) che in coscienza reputa che nel caso specifico una data guerra sia manifestamente ingiusta, ha il dovere di non ubbidire, non cooperarvi, anzi di opporsi (se gli è possibile) secondo ch'egli occupa o no dati posti e ne h a la grande responsabilità. Sarà questo per lui i l migliore sacrificio che può fare alla sua coscienza e a l bene i della sua patria. (La Vie Intellectuelk, Paris, 10 settembre 1938).

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LA POLITICA NELLA TEOLOGIA MORALE

Problemi antichi e nuovi La politica, sia come arte di governo sia come organizzazione della società. non ~ o t e v asottrarsi al dominio della morale in gea " nere e, per i cristiani, della teologia morale, in quanto su questo argomento gli studi non mancano ; tuttavia più che mai si avverte il bisogno di una larga revisione delle posizioni acquisite, a causa della laicizzazione del potere politico, della sua estensione a tutta l'attività personale e collettiva dei cittadini, della sua intrusione nel campo stesso della coscienza. Nè la casuistica del Dassato. nè una casuistica Duramente teorica. estranea ad ogni considerazione dei fatti, possono rispondere alle nuove esigenze. Ciò che soprattutto fa difetto, è una sintesi che serva d i guida morale nell'evoluzione invadente della politica. I1 presente studio non vuol essere che uno schema sommario, u n contributo ad un esame più vasto e piu approfondito. A

Primo ~ r o b l e m a :si è sempre detto e si ripete ancora oggi che la chiesa non si pronuncia sulla forma del govemo ; è molto giusto. Ma ciò può sembrare un'affermazione scolastica, fondata su una classificazione astratta delle forme di governo. I n questo concreto non c'è forma senza contenuto. Ed è questo ultimo che dà il suo valore alla forma. Oggi importa meno che uno stato prenda l a forma d'una monarchia o d'una repubblica ; è più interessante distinguere il contenuto, sapere se lo stato è liberale o socialista, totalitario di destra o di sinistra. Ciascuno di questi tipi pone dei problemi speciali che i l moralista h a l'obbligo d i studiare da vicino per distinguere l a materia etica dall'elemento politico. Uno stato comunista crea situazioni caratteristiche che impongono ai cristiani degli atteggiamenti morali sconosciuti negli stati liberali e viceversa. Non basta con-


dannare i principi sui quali si fonda uno stato moderno (liberale, nazista, bolscevico, fascista), bisogna esaminare fino a qual punto può esserne influenzata la condotta dei cristiani che appartengono a tali stati. Uno dei doveri più assoluti della morale cristiana è quello di evitare la cooperazione al male. Ma fino a quale grado si può chiamare cooperazione al male l'applicazione completa dei principi politici erronei (condannati o no formalmente dall a chiesa) sui quali riposano gli stati moderni? I1 liheralismo economico è basato sul principio del « lasciar fare, lasciar correre » e sul principio della concorrenza assoluta, che portano inevitabilmente l'oppressione dei deboli. Se un tale sistema è ammesso in un paese, i commercianti ed industriali cattolici possono approfittarne? I n quali condizioni? E come riparare l e ingiustizie inerenti al sistema? I1 caso del comunismo economico, sia esso manifesto o travestito, è oggi all'ordine del giorno. La svalutazione, I'autarchia economica, il socialismo di stato portano ad esperienze di comunismo a lunga portata. Possono i cattolici accettare dei regimi di tale tipo, sforzandosi di approfittare dei loro vantaggi e di installarsi definitivamente in essi? I n Germania, in Austria ed anche in Italia, ha infierito, per ragioni razziali, la persecuzione contro gli ebrei; gli effetti economici momentanei sono stati vantaggiosi per gli altri: medici, p.rofessori, commercianti. Fino a che punto è lecito la partecipazione a tali misure?

I1 La distinzione della forma poli;ica e del suo contenuto (liberale, socialista, totalitario, ecc.) invita a rivedere sotto una luce nuova i problemi dei regimi politici moderni. Leone XIII un tempo h a consigliato ai cattolici francesi di accettare lealmente il regime repubblicano con l'intenzione di cooperarvi per il bene comune, per i l miglioramento delle leggi esistesti, p.er la revoca delle leggi anticristiane (febbraio 1892); una simile linea di condotta non poteva avere effetti pratici che in un regime « d'opinione », nel quale i cittadini sono liberi di sostenere il programma che essi giudicano il migliore per il bene del paese e di appartenere al partito che si addice meglio alla loro mentalità personale; un consiglio simile potrebbe essere dafo ai cattolici appartenenti ad uno stato totalitario ( d i destra o d i sinistra), in cui il non-conformismo politico, sia pure pratico, oppure una riserva morale, per quanto piccola, non solamente non sarebbero permessi, ma sarebbero considerati come un delitto di lesa patria e di lesa autorità?


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I vescovi austriaci, quando invitarono i fedeli a votare al plebiscito del 10 aprile in favore dell'unione al Reich tedesco, precisarono in seguito che le istruzioni episcopali non erano nè un ordine nè un consiglio, ma significavano semplicemente che non era contrario alla morale cristiana d i partecipare a d urn tal plebiscito e d i votare « si D, salvaguardando tuttavia i diritti di Dio e della coscienza. Necessaria per quanto inefficace al momento, questa riserva era motivata dalla persecuzione da parte del-Reich e dal principio della razza sul quale si basava. La stessa formula di tolleranza « salvaguardando i diritti di Dio e della coscienza » si trova nella enciclica n Non abbiamo bisogno » del 29 giugno 1931 a proposito del giuramento che il governo fascista esigeva da certe categorie di cittadini. La stessa enciclica obbligava i fedeli a far conoscere questa riserva i n caso d i necessità, per rendere testimonianza della fede cattolica ed evitare lo scandalo. I1 problema morale che lo stato totalitario (qualunque esso sia) pone non è stato sufficientemente studiato nella nostra teologia morale. I documenti ecclesiastici (encicliche, istruzioni delle sacre congregazioni, lettere episcopali) forniscono già nn considerevole materiale. Vi manca ancora l'elaborazione scientifica dei filosofi e la discussione pratica dei casisti per mettere in luce tutta la complessità del fenomeno nella sua portata etico-religiosa. I1 carattere essenziale del totalitarismo è tale che il cittadino è messo nell'impossibilità di restare al di fuori di tale sistema, una volta stabilito, poichè la politica totalitaria penetra tutta la vita : famiglia, cultura, religione, economia, attività esteriore. In Italia gli stessi fanciulli ricevevano la tessera di membro fascista: essi appartenevano al fascismo fipo alla morte. Vi furono dei casi in cui moribondi ricevettero l'invito (che era un obbligo per i loro parenti) di vestire la camicia nera come ultimo atto di fede nel fascismo. La lode e l'adulazione sono parte del sistema: tutti devono applaudire e lodare i dittatori, anche se commettono dei delitti. Chi avrebbe potuto, in Germania, criticare le esecuzioni del 30 giugno 1934? I n un bollettino ~arrocchiale di Vienna, un curato, pochi giorni dopo 1'occupazione hitleriana, scriveva queste stupefacenti parole: « Nei giorni del cambiamento di regime un grande numero di persone mi ha chiesto come potevo, come pastore d'anime, conciliare con l'amore d i Cristo il fatto che gli ebrei saranno dappertutto rimpiazzati nei loro impieghi. No risposto che l'idea di questa sostituzione è sempre esistita nel piano della Provvidenza divina. Nessuno ha chiamato gli ebrei nei diversi paesi d'Europa. La questione ebraica non era ancora risolta. I1 nostro Fuhrer cancelliere del Reich


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la risolve ora in modo radicale ma anche liberatore per le due parti » (Katholische Aktion i n der Abservorstadt). Noi non vogliamo giudicare nessuno n è sospettare delle intenzioni; noi ci ricordiamo che Von Papen e Dollfuss ricevettero insieme la comunione dalle mani del Santo Padre; questo fatto, reso pubblico, fu ricordato allora come il pegno di un avvenire di pace religiosa e di rinnovamento morale. E chi non si ricorda, i n contrapposto, i due segretari cattolici di Von Papen, assassinati misteriosamente? La domanda si impone: in che misura è possibile ad un cattolico collaborare con uno stato totalitario? La collaborazione implica la libertà di essere in disaccordo e quella di ritirarsi. È ciò possibile ed a che prezzo?

Ricevendo una delegazione di giovani belgi, il papa Pio XI diceva loro che la politica bene intesa è una forma di carità. Questo principio è fondamentale in teologia morale, per quanto esso non lo sia, sfortunatamente, nella pratica, sia per quelli, talvolta i migliori, che si scansano dalla politica come da una cosa u sporca D, lasciandola ai (C cattivi » (bel regalo alla comu. =:ti!); si4 per occupaadoseiie, si seatofio piu legati dalle leggi morali con le quali sarebbe assai difficile, per essi, fare della politica 'come la fa tutto il mondo ( o meglio come la fa « il mondo D). Ma sembra necessario andare ancora più in fondo ricercare fino a qual punto l'esercizio della politica possa diventare u n dovere di giustizia, e quando, più generalmente, esso sia imposto dalla carità. Qualche esempio preliminare. Gli elettori credono di avere solamente il diritto di votare, e talvolta non vi badano, senza preoccuparsene. Ma non vi sono diritti che non implichino dei doveri, dei doveri stessi di giustizia. Infatti l'elettore è il rappresentante di quelli che non lo sono ; tutti questi ultimi devono essere garantiti nei loro stessi interessi morali, economici e politici da coloro che sono elettori. E ciò non basta: l'elettore, se è cristiano, ha il dovere di proteggere gli interessi della religione, dell'educazione morale e della chiesa, interessi che possono essere lesi da una tendenza politica falsa od inopportuna: dovere di carità? di pietà? di giustizia? I casi sono numerosi, hanno caratteri differenti e differenti motivi. Si sente oggi la necessità di rivedere e precisare~l'idea di giustizia, non certo nella sua essenza, ma nei suoi aspetti variati e particolarmente sotto il rapporto delle relazioni umane. I1 cardinale D'Annibale scriveva nella sua Summula Theologiae Moralis (edizione del 1908): « Iuris late sumpti, triplex ordo

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est; reipublicae in cives, civium in rempublicam, civium, seu potius hominum, inter se. Iustitia quae illa regit legalis; quae ista distributiva; quae haec commutativae nome habet. Legalis igitur ordinat omnes virtutes ad bonum commune; distributiva versatur circa munera publica, praemia et, ut multis placet, poenas, ab ea, qui praeest reipublicae, civibus decernenda; demum commutativa pertinet ad ea, quae cuique stricto iure debentur; id est meum et tuu-m. Eegaks vix iustitiae nomen meretur, etenim nihil aliud revera est quam obcedientia scriptts legibus institutisque populorum; ideo eam praetereo. De distributiva expedita et plana res est. De sola agitur commutativa agendum est nobis ».In trenta anni, l'opinione dei moralisti è cambiata, quantunque l'autore citato abbia goduto allora di una grande rinomanza. La giustizia distributiva

Ho fatto cenno in altro luogo all'opinione del P. Faidherbe sulla giustizia distributiva considerata non più come una parte potenziale della virtù di giustizia, ma come u n aspetto specifico di giustizia, eompIeto in sè e che considera dei diritti e doveri definiti dalla natura stessa della comunità ».La giustizia distributiva non è solo quella dei rapporti dello stato con i suoi sudditi, essa si estende a tutte le forme della vita di comunità, in cui l'azione integrativa dei capi è necessaria per distribuire i vantaggi e gli oneri sociali, al di fuori di quelli che sono dovuti a titolo di giustizia commutativa. La questione chiamata comunemente « sociale n trova la sua soluzione giusta nell'applicazione più larga possibile della giustizia distributiva. Non mi sembra che i moralisti siano giunti fino ad ora a delle conclusioni certe sui casi di svalutazione e rivalutazione - della moneta (cose attualmente frequenti) alla luce dei principi della giustizia distributiva, data l'alterazione che esse recano alla situazione economica di categorie intere di cittadini, per il danno degli uni ed il vantaggio degli altri. Quando nel 1922 il governo tedesco annullò la moneta corrente e tutti i debiti di stato verso i possessori di titoli di rendita, si attribuì il potere di sottrarre le loro risorse ai risparmiatori ed ai reddituari e di fatto esso spossessò delle categorie a vantaggio di altre categorie di cittadini. Quando il governo italiano, molto tempo fa, prese a suo carico i debiti verso le banche di certe ditte industriali - per circa sette miliardi - impose per questo fatto un nuovo carico ai contribuenti, a vantaggio di un piccolo gruppo di grandi uomini d'affari. Il problema monetario è uno dei più gravi da esaminare dal punto di vista della giustizia distributiva. Non mi ricordo di aver letto studi d i teologia mo-



stupefacente, nella concezione corrente, che lo stato sia preso come una cosa a sè, al di sopra ed al di fuori dei cittadini, come una entità ~ersonificata,e che s e , n e parli come di un essere reale, con volontà e direttive proprie. Tra i sociologi e d i giuristi cattolici, coloro che sostengono la tesi dello stato come persona morale, al di, sopra dei cittadini, non comprendono forse quale concessione fanno al mito dello stato. Siccome non c'è società senza individui. nè individui senza società, non abbiamo bisogno di fabbricare una entità a sè stante. La comunità esiste in seguito ad una serie di rapporti tra individui viventi insieme, in forma organica e classe sociale, il comune, lo stato, la chiesa, altrettante comunità esistenti e coesistenti che prendono un carattere giuridico nell'organizzazione specifica di ognuna sulla base della libertà (coexistentia multorum) e dell'autorità (reductio ad unum). In questo modo, noi sfuggiamo al determinismo soggiacente alla formazione dei miti: stato, nazione, razza, classe, che si sono insinuati dalla politica nella sociologia e da v e s t a nell'etica, e ri introducono così nella fraseologia di cesti oratori sacri e di moralisti sentimentali che parlano volentieri del culto della nazione, dell'obbedienza allo stato e di altre simili cose. Abbiamo letto recentemente il Sendschreiben katholischer Deutscher a n ihre Volks- und Glaubemgenossen, pubblicato da AschendorfF, Miinster, Westfalia, nel 1936, da Kuno Brombacher e Emil Ritter che tentavano di dimostrare, a nome di u n gruppo di teologi cattolici, la possibilità di conciliare nazismo e cattolicesimo. A questa tesi aveva aderito mons. Hudal, il che a quell'epoca sollevò le proteste dell'episcopato austriaco. I n seguito, egli corresse la sua tesi di « nazismo cattolico » e parlì, in un discorso pronunciato a Vienna, contro il nietzschianesimo, base del nazismo. Una circolare della congregazione romana dei seminari e delle università, del 13 aprile 1938, mise fine a questa confusione. Essa invitava i professori a rifiutare otto proposizioni sulle teorie del razzismo e dello statalismo; l'ultima di esse è alla base del fascismo italiano: « Ogni uomo non esiste che tramite lo stato e per lo stato. Tutto ciò che possiede di diritto deriva unicamente da una concessione dello stato n, Torniamo francamente e coraggiosamente all'idea cristiana di comunità, che h a per base la verità e la giustizia e si ispira ad uno spirito di carità fraterna, di cooperazione costante con l'autorità per i fini naturali dello stato, coordinati o subordinati (secondo i casi) al fine soprannaturale di ogni individuo, persona umana e cristiana, responsabile e degna di rispetto. Tutto questo non è nuovo, tutto ciò data da duemila anni, dal Vangelo, che riabilita la persona umana, tagliando i legami carnali dei gruppi di famiglia, di clan o di tribù, di popolo o nam


zione, perchè ciascuno senta i n sè la vocazione divina e la segua, separandosi, se è necessario, da un padre, da una madre, dalla sposa o dai figli. *Da questa concezione cristiana deriva di conseguenza la necessità, tutta moderna, di rendere il suo valore !alla personalità umana, tanto di fronte all'individualismo liberale che si risolve in statalismo, quanto di fronte al « gregarismo che si risolve i n totalitarismo di stato. Tra gli scrittori cattolici vi sono di quelli che confondono comunemente stato ed autorità: è un errore; lo stato è l'organismo politico della nazione, non è l a nazione, non è l'autorità. Senza l'autorità non c'è stato, ma lo stato comprende tutti gli ingranaggi politici ed amministrativi della nazione, dall'elettorato a suffragio universale fino al capo ( r e o presidente), dall'esercito e la marina alla burocrazia civile; le leggi e la. magistratura e così di seguito. E se uno stato è trasformato in dit-' tatura, non ne consegue che i cittadini, o sudditi o compagni (come si dice in Russia) perdano i loro diiitti personali che non derivano dallo stato; in questo caso lo stato, in luogo di consacrare e garantire questi diritti, l i minimizza e toglie loro ogni consistenza e poiitica. Cio maigrado, neiia coscienza del popolo e nello spirito tradizionale di una nazione si manterrà l'insieme di questi diritti umani spirituali che nessuna tirannia potrà mai cancellare.

Tutto il paragrafo precedente ha avuto come scopo di scartare il mito dello « stato entità sovrana 1) e di fissare i1 vero carattere dello «stato comunità D . Ci sarà così possibile definire meglio l'autorità politica sulla quale l a teologia morale basa la disciplina della vita in comune. Non est potestas nisi a Deo: ecco il principio fondamentale dell'autorità sulla terra per la quale (C omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit » (Rom., XIII). Ci sono dei teologi che hanno voluto vedere nella frase seguente (quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt) una specie di investitura divina data ad ogni individuo al quale è demandata un'autontà, una comunicazione pretematurale del potere di Dio sugli uomini. Ma, a mio avviso, volergli attribuire un tale senso è forzare i l testo. Dio è l'autore della natura. Tutto ciò che è nella natura viene d a Dio. San Paolo, dichiarando con forza che alcun potere non può venire da altri che da Dio, dava al precetto dell'obbedienza un valore morale di portata superiore: egli mobilitava così tutta una società e l a metteva sulle sue vere basi.*D'altra

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parte, egli toglieva all'autorità i l carattere di assolutismo ponendo un limifie etico, inconcepibile se Dio non fosse l'origine di ogni autorità. San Paolo afferma, tanto per il superiore che per l'inferiore, il limite etico dell'autorità: l'uomo non si sottomette all'uomo ma a Dio (valore etico della sottoniissione), il superiore deriva i l potere non da sè stesso ma da Dio (valore etico dell'autorità). Fino a che gli stati furono governati da monarchie cristiane, l'autorità politica si riconosceva limitata dalla legge morale cristiana, ed in pratica dall'autorit,à della chiesa - vescovi O papa secondo i casi, - e dal diritto canonico, come base giuridico-ecclesiastica delle leggi civili. Per quanto un buon numero di' monarchi violasse sia le leggi morali che i precetti della chiesa e concepisse il loro potere come assoluto, in fondo restava la concezione che il potere proviene da Dio. Più tardi questo principio, sviato dal suo vero significato ed alterato nella sua applicazione, fece posto alla teoria del diritto divino del re ( i n opposizione al potere della chiesa). Ma quando l'autorità politica si laicizzò, sia con .la teoria del diritto di natura, sia con qaella della scvranità del popolo, il limite etico che la allacciava a Dio disparve almeno i n teoria, lasciando soltanto dei limiti giuridici e politici. È vero che queste teorie non mancavano di un valore etico fondamentale, ,derivante sia dal concetto di persona umana come soggetto di diritto. sia dalla volontà del popolo come espressione della bontà naturale: di fatto, nè l'una nè l'altra fornirono limiti etici efficaci, ma unicamente limiti formali che si distaccavano da una morale positiva. Così si venne a ricercare una etica statista (morale detta laica) che tese ad essere come un auto-limite del potere dello stato. L'esperienza di due secoli - resa interessante dall'opposizione molto ferma del cristianesimo all'idea di morale laica e dell'aiitonomia etica dello stato - ha servito a mostrare: a) l'impossibilità di dare all'autorità dei limiti etici senza fondamento religioso; b) l'insufficienza dei soli limiti organici della democrazia moderna, come la separazione dei poteri, l a uguaglianza davanti alla legge, la periodicità delle cariche, l a responsabilità politica del governo (questi limiti tuttavia hanno permesso di ottenere una meccanica dell'autorità e l'eliminazione di abusi extra-legali); C) la sostituzione del vero fondamento dell'autorità (Dio), con l a mistica ed il mito dell'essere collettivo (stato, nazione, classe, razza) e con l'annullamento di ogni limite, per mezzo della trasposizione dell'idea di individualità della persona all'essere collettivo. I1 problema moderno consiste nella ricerca di introdurre d i

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nuovo l'idea e la pratica del limite etico dell'autorità. Nel regime democratico, in cui tutti i cittadini cooperano, direttamente o indirettamente, con l'autorità ed hanno parte nel potere (Cicerone dice che la libertà è una certa partecipazione al potere) occorre che i cittadini, che concepiscono la ~ o l i t i c anell'orbita delle leggi morali, affermino costantemente il valore d i queste leggi. Ciò che noi abbiamo riconosciuto sopra al cittadino, cioè il dovere di giustizia e di carità verso la comunità, noi lo concepiamo qui come esercizio regolare della libertà che limita Z'autorità. Negli antichi regimi, il clero come tale esercitava un controllo morale e religioso (talvolta eccessivo) sull'autorità civile; oggi tocca ai cittadini, nell'esercizio dei loro diritti civici, di compiere tale dovere. I1 potere politico, che oggi ha un campo così vasto, non può essere limitato che dalla reazione #etica del popolo, che è costretto a rivalorizzare ogni attività sul terreno della politica. I1 papa ed i vescovi non mancano di far sentire la loro voce sui problemi morali della vita politica di oggi. I n un secolo si sono accumulati molti documenti, dall'enciclica Mirari vos (18321, fino alla Mit brennender Sorge e In Divini Redenzpteris (1937), e sarebbe utile riunirli in volume. Ma spetta ai cittadini cattolici, fedeli e sinceri, di portarli sul terreno politico e d i tentare di correggere e limitare l'autorità, quando p e s t a pecca per eccesso o per difetto: non ci sono altri mezzi politici o giuridici nello stato moderno di diritto o di opinione. Quanto alla formazione di nuovi tipi di stati totalitari, bisogna dire chiaramente che la responsabilità dei cattolici è stata considerevole. A loro discolpa, si può dire che essi non n e hanno previsto nè lo sviluppo nè i pericoli. Ciò che nel passato era una circostanza attenuante non lo è più oggi. Quando una parte del clero e dei cattolici (non tutti) della Saar difendevano la tesi del ritorno incondizionato al Reich, cyando essi potevano ottenere u n aggiornamento di cinque o dieci anni, forse non hanno visto i pericoli del totalitarismo tedesco? E i cattolici austriaci filonazisti o pan-germanisti, che hanno preparato la presa d i potere del loro paese d a parte di Hitler, non hanno capito i pericoli morali di una simile avventura? E i cattolici filo-rexisti del Belgio, non vedono quale avrebbe potuto essere la loro sorte? Si dice che l'Italia, sotto il fascismo, è in condizioni morali e religiose favorevoli. Bisogna diffidare di una situazione in cui i favori e le persecuzioni dipendono unicamente dalla volontà , d i u n uomo; e quando i favori abbondano, le coscienze perdono vigore, e la resistenza rischia di diventare meno forte il giorno in cui sarà necessaria. Si potrebbe fare un lungo elenco 4

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degli abusi di potere di fronte ai quali nessuno ha affermato il principio di un limite morale. Quando si è trattato della militarizzazione della gioventù - a sei anni il bambino dev'essere iscritto fra i Figli della lupa, a otto anni deve ricevere l'istruzione premilitare (vedi la legge del 31 dicembre 1934 e dell'll aprile 1938) - non vi è stata nè critica, nè protesta, nè riserva alcuna. I1 fenomeno più grave, negli stati totalitari, è l'educazione alla violenza, la consacrazione del principio della supremazia della forza sul diritto, del predominio del potere sulla morale, e più di tutto l'educazione all'odio dell'avversario, al disprezzo per i suoi diritti personali e per la sua vita stessa. Questo spirito maligno, scatenato nel mondo, in nome dell'autorità dello stato, dagli stessi governanti, non ha trovato al principio che una debole opposizione da parte dei cattolici, opposizione divenuta ben presto inesistente. Tra gli eccessi di potere, vi sono le leggi di persecuzione fatte contro avversari politici, contro le minoranze di lingua o di razza, contro coloro che per convinzione rifiutano il coeformismo partigiano. Vi è eccesso di potere nella pressione dello spionaggio sparso anche nelle scuole, nelle famiglie, nelle chiese; nella istituzione di campi di concentramento secondo l'arbitrio dell'autorità e dei capi d i partito; nell'uso della tortura nelle prigioni, nell'assassinio a mezzo di agenti di polizia o di squadre private, atti voluti o permessi ed incoraggiati dai capi. Quando il governo fascista, arrivato al potere nel 1922, accordò l'amnistia agli accusati e condannati per diritto comune, per delitti che furono definiti « commessi ad uno scopo nazionale », fu uno scandalo. Da allora, l'Europa ha assistito ad una continua recrudescenza di delitti « commessi ad uno scopo nazionale D, perdonati o anzi ricompensati. Non abbiamo forse visto gli assassini di Dollffuss proclamati eroi nazionali? Questo potrebbe sembrare una incursione nel dominio della politica; io domando quale fu la reazione provocata da questi fatti nella teologia morale, che avrebbe dovuto esaminare le cause della diffusione di questo spirito di odio autorizzato, voluto, comandato dall'autorità. La teologia morale dovrebbe studiare se in parecchi di questi casi i cristiani non abbiano un diritto od un dovere di resistenza passiva per arrestare quest'onda anti-cristiana. Là dove la parola e la stampa sono ancora libere, la difesa degli oppressi è stata minima; molti vi vedono problemi estranei alla nostra coscienza, che oltrepassano l'orbita dei nostri doveri. Si confonde l'obbedienza ed il rispetto per l'autorità, con l'acquiescenza e la giustificazione dei loro eccessi.


Perchè un tale stato d'animo si formi fra i cristiani, occorre aver subito l'influenza delle correnti chiamate in modo equivoco autoritarie, oggi meglio definite come totalitarie. L'idea fondamentale che non c'è autorità senza limite morale, che questo limite è implicito nell'idea stessa dell'autorità, i n modo tale che se esso viene a mancare il valore dell'autorità sparisce ( o b d i r e oportet Deo magis quam hominibus), si realizza nella vita sociale sotto due aspetti: a) la resistenza personale di colui al quale viene dato un ordine immorale, a mezzo del rifiuto di obbedire; b) l'azione positiva di coloro che sono responsabili, per ricondurre I'autorità nei limiti che ha oltrepassato o tentato di oltrepassare. Ho scritto uno studio sul diritto di rivolta e suoi limiti i n un'altra rivista cattolica, alla quale mi permetto di rinviare ,i lettori che s'interessano al mio lavoro (l). Non posso ritornare sull'argomento; del resto, non è questo tema particolare che sarebbe da sviluppare, ma quest'altro, più vasto, del dovere di obbedienza alle autorità stabilite. I1 punto che desidero mettere in rilievo qui è questo: il dovere dei cittadini è d i far valere a mezzo della loro legittima aitivita (sio legale sia pizìel-:ega:e i: linite morale dell'autorità, quando quelli che sono al potere lo dimenticano O non ne tengono conto. Per questo bisogna che i membri della azione cattolica siano bene istruiti sul valore di un tale limite e siano formati a farlo valere con tutti i mezzi leciti. Siamo stati abituati a difendere i valori morali e sociali in u n regime di democrazia e di opinione, dobbiamo adesso abituarci a farlo del nostro meglio nei regimi totalitari, anche se bisogna ritornare .alla vita delle catacombe, e anche rischiare d i passare per dei congiurati e nemici dello stato, della nazione, della razza, della classe e dell'umanità. I1 limite morale, essenziale per ogni autorità, si estende dallo stato alla comunità internazionale. Senza alcun dubbio, un principio di comunità di stati esiste dal momento in cui a causa della vicinanza, dell'affinità di lingua e di cultura, e di interessi reciproci, i popoli comunicano tra di loro. Non sono mancati tentativi di organizzazione positiva di una tale comunità. Nessuno può negare la base morale di tutta la costruzione giuridica attuale del diritto internazionale, storicamente derivante dal diritto canonico e dallo Zus gentium. Coloro che confondono ( e sono numerosi) il diritto con la (*) La Vie Zntellectuelie, 31 ottobre 1937. Cfr. anche, stessa fonte, 10 settembre 1938, u Deil'obbedienza ai poteri costituiti D; qui riprodotti, v. pp. 163 sgg. e 283 sgg.

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legge positiva, e che fanno consistere l'essenza del diritto (iuriclicitas) nel potere' di coazione, arrivano a negare ogni valore giuridico al diritto internazionale. Secondo essi non può esistere alcuna autorità al di sopra dello stato; i trattati e le alleanze non valgono che per la volontà dei contraenti; il .ricorso alla forza è il solo mezzo adatto a garantire un ordine internazionale, la stessa moralità intemazione non ha alcun valore normativo. Non è da dubitare che tutti i moralisti rigettino tanto le premesse che le conseguenze di così fatta teoria, ma non perverremo a vincere tutte le difficoltà, se non avremo il coraggio d'accettare, malgrado tutto, la tesi della limitazione della sovra, nità degli stati nei rapporti internazionali. I1 moralista deve far valere le esigenze della società internazionale come esigenza etica, e sottoporre al giudizio della morale ciò che favorisce o impedisce la realizzazione di questa società. Gli otto teologi, riuniti a Friburgo in Svizzera nell'ottobre 1931, pubblicarono le « Conclusiones conventus theologici Friburgonsis de bello D, in cui essi affermavano questo principio, invero un po' timidamente: « Docent praedicti aiactores (christiani ghilosophi) siapremam status auctoritatem externam non idem sonare RC independentiam inconditionatam, sed potius significare libertatem t, qua eligantur organisationis formae, technicae artis methodi, iuridicae disciplinae et politicae institutiones, quae ad boniim commune internationale instaurandum aptiores esse videantur n. Bisogna che i filosofi cristiani diano qualche cosa di più ai moralisti per arrivare al punto necessario, cioè per far loro accettare il principio che gli stati in quanto associati acquistano, nella materia specificamente propria, una co-sovranità internazionale. Così potrebbero essere risolte e superate le questioni di intervento, di non-intervento, di neutralità, di limitazione degli armamenti e di sicurezza collettiva, di diritto coloniale e di mandato: tutto u n complesso di istitufzioni oggi incerte e fluttuanti, che lanciate nel gioco delle forze materiali, perdono il loro carattere etico fondamentale. Nello stesso tempo, alla luce di una moralità più cristiana, si possono riesaminare i proble- , mi degli emigrati, dei fuggiaschi, delle minoranze, e delle queastieni ancora più difficili e risolte in modo egoista, come quelle dell'economia controllata, delle tariffe doganali, dei prezzi internazionali, delle monete ed altre questioni simili. Per quanto occorra desiderare una migliore organizzazione internazionale, che potrebbe estendersi a tutti gli stati senza eccezione, e per quanto certi aspetti politici e giuridici della O.N.U. siano criticabili, non si può concludere che oggi man-


chiamo di una legge e di una società di'stati e che la guerra sia l'ultimo mezzo di regolare i conflitti internazionali. La teologia morale ha sempre guardato alla guerra come ad un'eccezione, all'estremo mezzo legittimo, se è giusto, se è ordinato da un'autorità competente, se è proporzionato al fine e se è necessario. P e r uniformarsi alla tradizione teologica, oggi bisogna rivedere i criteri d i competenza, di giustizia, di proporzione e di necessità. Per quanto riguarda la competenza, non si è ancora tenuto conto, in .teologia morale, delle disposizioni del patto della Società delle nazioni, che interdicono agli stati aderenti di intraprendere una guerra senza aver prima seguito la procedura prevista per i conflitti internazionali. I1 che vuol dire che l'autorità di questi stati non è competente a decidere una guerra se non nei quattro casi previsti dal covenant; fuori dei quali, e senza la procedura che l i classifica, essa non è più legittima. La condizione di competenza, secondo san Tommaso e gli altri scolastici e moralisti del suo tempo, si riportava al sistema feudale del signore che doveva attendere, per fare la guerra, I'autorizzazione del sovrano; questi poteva rifiutarla, richiamando la questione al suo tribunale. Oggi, ci sono altri costumi, altri sistemi, ma il criterio del limite di competenza resta ii medesimo. Per la giustizia, occorre che la teologia non guardi alla casistica antica, che è fatta ai tempi in cui gli eserciti di for- i tuna mercanteggiavano la vittoria per limitare il numero dei morti o i n cui i monarchi senza denaro si limitavano a scaramucce o scontri che si chiamavano battaglie. Non voglio dire che allora la guerra fosse un gioco; ma le guerre di quel tempo non erano paragonabili a quelle d'oggi, dove si possono mobilitare quasi quaranta milioni di uomini e perdere in una guerra d i quattro anni e tre mesi più di undici milioni di vite umane. Nel 1914-18 l'aviazione era ai suoi iniii: oggi si son fatti progressi nell'arte di uccidere: una guerra generale ( e l a storia insegna che in Europa le guerre particolari causano sempre l e guerre 'generali) sarebbe la catastrofe. A proposito della guerra d'Etiopia, Pio XI, nel suo discorso del 28 agosto 1935, ricorreva a d u n dilemma dicendo: u Se si tratta d i una guerra di aggressione, essa sarebbe ingiusta; se si tratta d i una guerra difensiva, non bisognerebbe oltrepassare i limiti della moderazione perche resti giusta. I n effetto, la proporzione tra il diritto alla difesa ed il mezzo impiegato dalla guerra contiene in sè il criterio di giustizia necessario D. Dato il tipo della guerra moderna e il diverso apprezzamento dell'onore di un re, chi potrebbe accettare oggi l'opinione di Suarez che diceva che, se un principe « porta un grave attacco alla considerazione od all'onom » di un altro principe, ciò può co-


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stituire una causa di guerra giusta e proporzionata? Oppure è giusta e proporzionata una guerra che ha per scopo l a protezione d i un commercio o di altri beni che sono tali i n dipendenza dello ius gentium, come pensa il Suarez? , Per arrivare all'idea d i necessità di una guerra oggi non si può più chiamare necessaria alcuna guerra come mezzo inevitabile. Allo stato attuale della civilizzazione. si d i s ~ o n edi mezzi sufficienti per salvaguardare i propri diritti senza ricorrere ' alla guerra. I giuristi moderni chiamano 'necessaria una guerra che sia intrapresa per interessi vitali dello stat0.f Nelle Corcclusioni di Friburgo, già citate, si negava espressamente un tale criterio di necessità (che non corrisponde a quello degli scolastici), vi si ammetteva soltanto il caso di legittima difesa, come limite di necessità: « Sed haec legitima defensio non importat ipso facto ius exercendi actionem punitivam in aggressorem nec instaurandi processum socialem belli ita ut, non nisi armorum sorte, solvatur lis inter aggressorem eiusque victimam ». Contro i pessimisti che pensano che la gùerra è una eredità fatale dell'umanità decaduta e che è im~ossibileall'uomo di liberarsene, bisogna affermare che la virtù del cristianesimo non è esaiirita. Se, tra le popolazioni cristiane, si sono potuti vincere la schiavitù, l a poligamia, la vendetta tra famiglie, non è contrario ma conforme allo spirito di Cristo tendere a vincere anche la guerra. I1 documento di Benedetto XV (l0 agosto 1917) è il più importante contributo del papato in vista di un'organizzazione pacifica degli stati. L'eliminazione possibile non è quella della guerra come fatto (perchè si- possono trovare ancora oggi dei casi di schiavitù, di poligamia o di vendetta), ma della guerra come mezzo legittimo, ammessa e riconosciuta come tale dagli stati, dai moralisti e dalle persone oneste; in modo che la guerra venga ad essere caratterizzata come un delitto, allo stesso modo che la riduzione in schiavitù o l'assassinio di un nemico personale. Tutto ciò suppone non solo una legge internazionale, ma una organizzazione giuridica che assicuri l'osservanza di detta legge mediante i mezzi più adatti per farla rispettare. I moralisti non sono chiamati a formare una tale organizzazione, ma a darne i contorni etici, e creare l'opinione favorevole ed a correggere gli errori della mentalità oppositrice. Immediatamente dopo la grande guerra; malgrado le notevoli oscillazioni, l'orientamento dei moralisti è stato in tal senso. Ma, appena scoppiate le ultime guerre, si è realizzata un'involuzione pratica e persino teorica. Non è qui i l caso di fare una critica di certe posizioni di riviste cattoliche sulla Società delle nazioni e sulle guerre recenti. I1 fenomeno attuale può paragonarsi a quello che ebbe luogo nel XVI secolo a pro-

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posito della schiavitù. Allora, grazie alla scoperta del nuovo mondo, si ebbe una ripresa dell'uso di fare e tenere degli schiavi. Non mancarono scrittori ecclesiastici per giustificare u n tale uso. Las Casas non fu il più ascoltato. Neanche oggi coloro che scrivono contro le guerre presenti, annunciatrici della nuova guerra generale, e contro i metodi di guerra, fra cui il bombardamento delle popolazioni civili e l'uso dei gas asfissianti, vengono ascoltati, ciò che è segno di una decadenza crescente. Ciò che vi è di più inquietante, è la rassegnazione impotente dei cattolici di fronte alla massiccia propaganda in favore della guerra, della sua preparazione materiale e spirituale, della convinzione della sua fatalità. Se gli apostoli della pace devono levarsi dovunque per liberare il mondo da questo stato di cecità in cui è caduto, i moralisti devono studiare la responsabilità d i coloro che fomentano le cause di guerra. Bisognerebbe in tale momento tragico evitare il disorientamento e lo sbanda.. mento dei moralisti. Gli insegnamenti ~ontificie la tradizione teologica bastano per ricondurre sulla diritta via; la filosofia tradizionale e la sociologia cattolica sono preziose per interpretare i problemi attuali. Ciò che rende il loro compito difficile è il soffocamento del p~iiaiero cristiano sotto i'azione del naturalismo pratico: questo spirito nefasto è penetrato nella mentalità moderna ed ha formato poco a poco un pubblico incapace di comprendere e di ascoltare la voce di una morale superiore che domanda dei sacrifici, anche nel dominio della politica nazionale ed internazionale. È ben tempo d i reagire. Londra, luglio 1938.

(Nouvelle Revue Théologiqzw, Paris, sett.-ott. 1938). Arch. 13 A, 1


L'ORDINE INTERNAZIONALE

I rapporti fra i popoli debbono essere guardati sotto due aspetti: quello ideale a cui mirare; quello possibile da realizzare. L'ideale è la pace. Quale pace? quella che gli antichi definivano tranquillitas ordinis e noi diciamo ordine stabile garantito D. Occorre anzitutto un ordine. Questo è di doppia natura: morale e volitico. Ordine morale: i principi su cui si basano i rapporti internazionali: rispetto dei diritti, osservanza dei doveri, patti stipulati sulla giustizia e con libertà, fedeltà ai patti e alla parola data. Ordine politico: quello storico che si è concretizzato in u n dato tempo, in u n dato gruppo di stati, al lume dei principi morali. L'ordine morale è nei suoi principi immutabile; l'ordine volitico non è assoluto. ma relativo ai fatti storici da cui è nato, ai diritti concreti con cui si è realizzato, al\e aspirazioni dei popoli di cui vive. Ma per esservi ordine, bisogna che sia stabile; .per essere stabile deve essere equo e deve poter essere garantito; se non è equo, i colpiti dall'ingiustizia si agitano; se non è garantito con la forza, i demagoghi e gli ambiziosi ne profittano. Un ordine non difeso non è stabile: un ordine instabile non è più ordine ma disordine; non è pace ma apparenza di pace, fino a che all'interno viene la rivolta e all'esterno la guerra. ' Questo lo stato attuale: un ordine morale internazionale, quello della Lega delle nazioni, affermato a parole e negato e fatti da coloro che avevano l'obbligo e l'interesse d i tutelarlo; un ordine politico incerto e instabile. Wilno. la divisione dell'Alta Slesia. Corfù. le minoranze DOlacche, l'accettazione della Russia a Ginevra senza garanzie per la libertà religiosa, la persecuzione ai giudei, il mancato di-


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sarmo, l'aggressione alla Manciuria, l'invasione del19Abissinia, l'intervento straniero in Spagna, la seconda guerra giapponese i n Cina, l'occupazione dell'dustria, sono state violazioni del patto della Società delle nazioni, atti'contro l'ordine morale e contro l'ordine politico internazionale. Quali principi restano oggi in piedi nella vita dei popoli? Scriveva Benedetto XV nell'invito ai capi degli stati belligy ranti, i l lo agosto 1917: « 1) Tout d'abord le point fondamental doit 6tre qu'à la force matérielle des armes soit substituée la force morale du droit »; « 2) u n juste accord de tous pour la diminution simultanée e t réciproque des armements »; « 3) I'institution de l'arbitrage avec sa haute fonction pacificatrice » ; 4) sanction contre 1'Etat qui refuserait soit de soumettre les questions internationales à I'arbitrage, soit d'en accepter les decisions ». . Si dirà: ma questo è i l Covenant? ma questa è la Lega? Certo : se non c'è una comunità internazionale basata su tali principi morali e cristiani, non vi sarà nè ordine, ?è pace i n Europa e nel mondo. Ma fascisti e nazisti rifiuteranno? Essi vogliono non una comunità intemazionaie, ma il dominio della 1 forza e degli ideali di forza. È vero: per resistere a fascisti e nazisti, il primo terreno è quello morale dei principi: negare il diritto della forza a risolvere i problemi internazionali; difendere fin dove è possibile il debole e I'opresso; rispettare i patti e l a parola data; r i ~ a r a r ele ingiustizie commessé: cercare tutti i mezzi onesti e ., conciliativi per evitare la guerra. Ma fin da ora affermare che la guerra non risolve i pro-blem'i dei popoli, ne aggrava i mali e crea altri problemi più gravi e più difficili; eccita gli odii e le violenze; crea una psi- ' . cologia feroce e distruttiva; nessuna guerra arriva agli scopi prefissi, neppure quelle credute sante. Solo l a pace operosa. e ricostruttiva, morale e perciò cristiana, può risanare le piaghe del passato e ridare ai popoli la tranquillità e la speranza nel loro avvenire. (Catholic Worker, New York, maggio 1938). Arch. 13 A, 9 (l) .

(l)

blicata.

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Vedere a pag. 276 'sgg. una redazione più ampia, che non risulta pub-


L'ORDINE INTERNAZIONALE' E LA PACE

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I1 19 di questo mese autorevoli cattolici si riuniranno a 1'Aja in congresso per discutere: Les bases de I'ordre international ». \ Nel presente discredito della Società delle nazioni e nella mancanza di una salda concezione morale, una voce che parta dai cattolici e che sia chiara, netta, precisa, sul problema dell'ordine internazionale è veramente un bisogno sentito. Chi stima che i trattati si Dossono violare. che la fede data. non abbia valore fra gli stati, che si possa aggredire un altro popolo con le armi, e, se colto il successo, avere il consenso, l'appoggio, il plauso anche, non deve credere più che esista o possa esistere una morale internazionale: l'ordine si confonde con la forza. Possibile che Gesù Cristo, venendo a.insegnarci la sua legge di amore, di carità e di giustizia, lasciò libero alle passioni umane il campo internazionale? Quando Gesù spiegò ai discepoli che (C sol quanto esce dall'uomo lo contamina, perchè dall'interno, cioè dal cuore degli uomini, escono cattivi pensieri, adulteri, fornicazioni, omicidi, furti, cupidigie, malizie, frode, libidine, invidia, bestemmia, superbia, stoltezza n, vi comprese tutte le azioni umane. Perchè quelle che hanno per scopo la politica dovrebbero essere eccettuate dalla contaminazione del peccato? Forse che non sono spesso anch'esse (C omicidi, furti, cu~idigie,malizie, frode, invidia, bestemmia, superbia, stoltezza »? Quando Napoleone fece prendere ed uccidere ( i n termini politici: exécuter) il duca d'Enghien, lo fece per raison d'état, ma forse non commise un delitto? quando Napoleone invase la Spagna senz'altra ragione che la sua politica imperiale, forse non commise un'aggressione? Quando il governo d'Austria e il suo imperatore Francesco Giuseppe, nel 1914, rifiutarono 10 arbitrato e vollero iniziare contro l a Serbia una guerra di punizione (ciò che i teologi chiamano eccesso di difesa), la quale

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altro non era se non una guerra di aggressione, non commisero forse u n atto contro la morale cristiana? Fermiamoci agli esempi del passato: quelli dell'oggi sono conosciuti da tutti. Chi giudica della moralità degli atti di un governo o di un re? I n paesi ~ostituzionalisono i cittadini, gli elettori, i deputati che discutono nelle assemblee, nella stampa, nei parlament i e possono consentire o dissentire. I n paesi d i assolutismo, l a coscienza dei soggetti rimane inespressa, perchè non libera; ed è spesso indebolita; per ciò non mancano a i monarchi, ai dittatori, lodi, plausi, adulazioni, e festeggiamenti per i loro stessi delitti. Che perciò? * Ogni atto 'immorale è anzitutto un peccato avanti a Dio e alla propria coscienza; è un peccato anche davanti $li uomini: un disordine interno ed esterno, individuale e. sociale; tanto basta perchè l a coscienza umana, nella sua spontaneità e libertà l o respinga, come è respinto da Dio. L'ordine internazionale (quello naturale e ancora più quello cristiano) non può poggiare sull'immoralità elevata o principio quale sarebbe se si ammettesse che la politica internazionale non ha nè caratteri nè limiti morali, e che gli uomini che fanno l a politica internazionale, per ciò stesso, non sono obbligati a osservare la legge morale. La chiesa ha sempre interloquito in materia 'di rapporti fra i popoli e gli stati: concilii, papi, vescovi, dottori, teologi F u Alberico Gentile che nel gettare le fondamenta del nuovo diritto .internazionale basato sui principi della legge naturale, lanciò da Oxford, nel 1588, il suo celebre monito: Silete teologi i n munere alieno. Ma la chiesa non ha riconosciuto che vi potesse essere un diritto internazionale naturale sul quale essa non abbia il dovere di interloquire. Benedetto XV riassume in una fiase la base dell'in~e~namentonaturale e cristiano, quando scrisse, nell'esortazione ai capi degli stati belligeranti, i l 1" agosto 1917: u à l a force materielle des armes soit substituée la force morale d u droit n. I cattolici veramente fedeli, dovrebbero essere i primi a ascoltare la chiesa; nelle parole, negli scritti, da elettori, da deputati, da ministri, da pubblicisti, da predicatori Purtroppo in materia di morale internazionale molti cattolici sono fuori di strada: preferiscono « l a force materielle des armes à l a force morale du droit n. La morale cristiana, anche nell'ordine internazionale, non è altro che <t verità, giustizia e carità n, tre parole ripetute da

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Pio XI a proposito dei conflitti recenti, insieme al versetto del salmo 67 : Dissipa gentes quae bella volunt. Quando si approvano le aggressioni, si lodano le guerre, riuscite anche se ingiuste, si accettano le violazioni dei trattati, si difendono i bombardamenti aerei contro le città e i villaggi indifesi e fuori della zona di guerra, o comunque fatti per terrorizzare le popolazioni civili e i non combattenti; quando si irride a tutti gli sforzi fatti o da fare per costruire una comunità fra gli stati, come se questa potesse nascere bella e fatta, Minerva dalla testa di Giove; quando si basa la società sulla forza, sul dominio di razza, sulla oppressione delle minoranze, dei dissidenti, dei deboli, allora non si ascolta la chiesa, non si obbedisce al Vangelo, non si gettano le basi di un vero ordine internazionale, non si potrà mai ottenere la pace, quella che la chiesa prega dicendo: Da pacem, Domine, in diebus nostris (l). (Popolo e libertà, Bellinzona, 18, agosto 1938).

(l) Un testo quasi identico era apparso anche su People and Freedom, aprile 1938, e su Catholic Worker, luglio 1938.

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IL NAZIONALISMO « ESAGERATO D Fin dalla sua prima enciclica Pio XI condannava il nazionalismo esagerato; ora la condanna è stata più forte e speriamo, per tutti i cattolici, definitiva. Ci si domanda perchè la chiesa ha condannato tout court il liberalismo, il socialismo, il comunismo, mentre per il nazionalismo si limita a condannare quello esagerato, ammettendo così un nazionalismo, diremo ortodosso. Nel caso di errori la chiesa non crea nè le parole nè il significato per il fatto stesso che la chiesa non può generare errori. Per difendersi da quelli che nascono fra i cristiani, la chiesa non può fare a meno di usare le parole nel significato corrente. La parola liberalismo p u r venendo da libertà (che la chiesa non può non ammettere ~ e r c h èdono di Dio) ne esprimeva i n un momento storico un'esagerazione; fu quello il significato corrente, perchè il liberalismo si basò sull'autonomia non so10 politica ma morale e religiosa dell'uomo, il che costituiva un eccesso di libertà. Lo stesso si può dire del socialismo (da società) e del comunismo ( d a comunione o comunità) dal punto di vista dei rapporti economici, presentati come gli unici, veri rapporti umani, che in sè assorbono tutti gli altri. L'esagerazione era insita nel significato, sia pure arbitrario, dato a quelle parole. E le parole corrono come le monete: quella falsa caccia quella buona. I1 nazionalismo si presentò con faccia benigna per quanto la desinenza i n ismo indica già una tendenza, una teorizzazione, un sistema, pure fu fatta passare per l'amore e la difesa legittima della nazione. Non fu estraneo u n motivo a fondo politico e sociale: il nazionalismo si presentò come sistema di difesa dal socialismo e dal comunismo ch'erano, allora, internazionalisti, pacifisti e classisti al cento per cento. I1 nazionalismo, come ogni altra difesa degli interessi della borghesia, trovò facile cittadinanza presso i cattolici. Comunque sia, poichè u n certo nazionalismo è, nell'uso comune, inteso come legittimo, il papa

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per colpirlo dovette aggiungervi un aggettivo che ne' palifica l'eccesso : nazionalismo esagerato. Qui ci si domanda: dove finisce il nazionalismo legittimo, anche ortodosso, e dove comincia quello esagerato. ' Gli esegeti non mancano; non solo non sono d'accordo, ma non sembra che abbiano trovato la base solida di u n criterio filosofico ed ético. Non pretendiamo di averlo trovato noi gridando 1'Eureka ! di Archimede ; vogliamo solo contribuire alla discussione, mettendo avanti qualche idea. L'attuale significato della parola nazione ha due origini: quella francese della rivoluzione, d i carattere democratico e razionalista, quando la nazione francese fu messa di fronte e anche opposta alla monarchia di Luigi XVI ; e quella germanica della reazione antinapoleonica, quella delle lettere di Fichte alla nazione germanica, di carattere mistico e volontaristico. I n sostanza il nazionalismo francese tendeva alla presa di coscienza politica dei francesi nell'ordine interno; quello germanico si affermava dall'interno all'esterno vis-à-vis dell'invasore presente o di m nemico fi~tiiro,sotto il principio di un'anima, di una volooti mistice. .La nazione italiana esisteva prima del risorgimento come entità storica, culturale e morale, ma non sul piano politico. Ottenuta con rivolte e guerre l'unità politica, cercò d i arrivare ad una omogeneità interna di carattere etico-politico (periodo liberale e popolare). Oggi, tutto il fascismo tenta un'omogeneità di anima per espandersi all'esterno e opporsi agli altri. L'Italia ha avuto così il periodo razionalista e ora quello mistico. La Svizzera si chiamò Confédkration Elvétique: ora si parla di Nation Suisse. Non si tratta nè di un popolo omogeneo nè di una creazione che tende a divenire omogenea, perchè non ne ha la possibilità nè il vantaggio. Non vi è un nazionalismo elvetico; ma solo una nazione svizzera. I1 Belgio è anch'esso una nazione a due lingue: ma sventuratamente le divisioni linguistiche compromettono il carattere dell'unità nazionale così che il nazionalismo opera sul piano della nazionalità e su quello della politica. Una parentesi: non confondiamo con l'idea della nazione quella delle nazionalità che compongono uno stato e che rivendicano certi diritti culturali e economici. I1 principio a cui fare appello in tale difesa non'è il nazionalismo nel significato corrente, ma il nazionalitarismo, cioè il diritto d i nazionalità, che può contenere o non contenere idee nazionaliste siano o no esagerate.

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Per esempio: la questione dei sudeti della Cecoslovacchia è per sè una questione di nazionalità e di minoranza nazionale sul piano culturale ed economico. Ma il movimento di Menlein ha preso la questione e l'ha trasportata sul piano nazionalista, sia per rivendicazioni razziste sia per il carattere irredentista ( d i distacco dallo stato cecoslovacco) che in fondo contiene l'agitazione presente. Si può trovare qualche somiglianza nel movimento estremista dei fiamminghi.

Intesi così i termini, troveremo il punto di demarcazione del nazionalismo legittimo e di quello esagerato. Primo momento. Una nazione cerca d i prendere coscienza d i sè come popolo, con tradizione, cultura e vita propria. Nessuno può negarne la legittimità: chi vi si oppone ha il torto d i impedire che altri arrivi dove gli opponenti sono arrivati: è il caso degli ucraini in Polonia, di quelli che non vogliono attentare allo stato polacco. ma esigono il riconoscimento dei propri diritti, specialmente il rispettn del rito greco, sie cattolico, o i s ortodosso. Fu il caso del171rlanda dell'Home RuEe e .del Free State. Ma se l a nazione attenta all'esistenza dello stato per slealtà, tende a disgregare l'unità del paese, lede i diiit'ti degli altri, sotto pretesto della difesa propria, allora cade nel nazionalismo esagerato. Secondo momento : la nazione formata, cosciente, forte, tende all'espansione delle proprie forze: se questa è senza detrimento degli altri, può essere un buon nazionalismo, da esaminarsi caso per caso. Ma se l'espansione è fatta con lesione dei diritti altrui, allora si tratta di nazionalismo esagerato. I n conclusione, là dove, per formare, affermare ed espandere una nazione si violano i principi di giustizia e di amore del prossimo, ledendo o menomando i diritti altrui, c'è nazionalismo esagerato. La misura di tale giudizio è strettamente mo- , rale e non politica. La chiesa non fa della politica. Secondo la politica il nazionalismo può essere reale o fittizio, basato sulla storia o immaginario, organico o anarchico e così via. Ma solo dal punto di vista morale esso può essere ammesso dalla chiesa come legittimo, o esso è condannato come cc esagerato D. I cattolici hanno sempre i n mano questa misura etica dei loro pensieri, delle loro azioni e anche delle loro omissioni e delle loro responsabilità, non solo nei casi personali, ma in quelli collettivi e d i gruppo: « la giustizia e l'amore del prossimo ». (Popolo e libertà, BeJlinzona, 1 settembre 1938).


12. LA LIBERTA'

La libertà è come l'aria, si sente solo quando manca. Dove c'è aria, noi pensiamo alle nostre occupazioni, allo studio, al lavoro, al piacere; se l'aria manca, tutto ci fa soffrire; impossibile lo studio, il lavoro, lo stesso piacere, nulla; noi desideriamo, anzitutto, soprattutto, l'aria, un po' d'aria per respirare La differenza tra l'inglese, il francese, lo svizzero, il belga, che vive in regime democratico ed il tedesco o l'italiano che vive in regime totalitario, è tutta li: l'inglese ha la libertà e non ne sente bisoeno: il tedesco non l'ha e ne sente bisoeno. " In regimi assolutisti hanno la libertà quelli che hanno il potere; più illimitato il potere, più senza limiti la libertà. Chi porrà loro freno se vorranno perseguitare ebrei e cristiani? Essi non patiscono limiti morali, perchè si credono al d i sopra di ogni legge, religiosa ed umana che non sia la loro volontà; non limiti politici, perchè nessun parlamento, corpo elettorale, opinione ~ u b b l i c aDUÒ valere contro di loro. Essi hanno. monopolizzato la libertà riunendola al potere; tutto il potere vale tutta la libertà. Cicerone diceva che la libertà è una partecipazione al potere. Così il parlamento è stato la garanzia delle libertà tradizionali dell'hghilterra di fronte ai monarchi con tendenza assolutista. Nè tutto il potere al re, nè tutto il potere al parlamento; ciascuno al sue rango si sono limitati a vicenda e si sono garantiti la libertà delle proprie funzioni. Così negli altri paesi democratici. Non è tutto; il popolo ha la sua funzione e quindi deve a v k e la sua libertà: esso vota, forma i partiti, partecipa al governo locale, prende iniziative, agita l'opinione pubblica, protesta, se occorre si impone con la stampa, le riunioni, le assemblee pubbliche, nelle strade e nei parchi e nelle piazze. Non pochi inglesi, critici del proprio .sistema, dicono che qui non c7è vera libertà; perchè il capitalismo, la City, tiene una posizione preponderante, nella stampa, nel partito conser-

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- STURXI- Politica

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vatore e nel gabinetto. Ciò in parte è vero. La potenza del denaro è stata sempre forte, ieri e oggi, e anche nel medioevo e nei tempi antichi di Grecia e di Roma; ma non è nè illimitata nè incontrollabile. Spetta agli uomini di coscienza e di sapere, alle cbiese, alle classi medie e lavoratrici, contenere nei giusti limiti la potenza del denaro e fare fronte ai pericoli del capitalismo irresponsabile e debordante. I n Inghilterra, come altrove, in tutti i paesi democratici è lo stesso. La lotta di un secolo per la conquista delle leggi sociali e per il benessere dei lavoratori non è ancora esaurita? La ripresa dell'azione educativa della chiesa per la gioventù e presso le classi operaie data appena da mezzo secolo; può dirsi ch'è ancora al suo primo inizio. , La libertà non è un punto di arrivo che si guadagna una volta per sempre; l a libertà è una conquista quotidiana, sempre insidiata e sempre messa in pericolo dalle forze contrarie. Come ciascun di noi, per non cadere schiavo dei vizi ed essere moralmente libero della libertà che Dio ci ha dato, deve combattere tutta la vita, così è delle libertà politiche e sociali: combattere ed essere pronti a rigettare queiVvincoliche vorrà imporci un potere assoiuto, sia il dittatore di destra o di sinistra, sia il capitalismo degli affaristi o il comunismo degli illusi. La libertà non è per un solo o per i pochi: la libertà è per tutti: questo solo fatto pone un limite morale e naturale agli eccessi di un solo (dittatura) o di ~ o c h i(oligarchia del capitalismo o del militarismo) o della folla (demagogia ed anarchismo). La vera libertà è anzitutto libertà morale; essa è la base del diritto. è discidina e ordine. essa è una condizione necessaria alla pace, sia iell'interno di'una nazione, sia nei rapporti. internazionali. Perciò il cardinale Pacelli scriveva a nome del papa Pio XI nel luglio scorso ai cattolici di Francia riuniti nella settimana sociale di Rouen: « On ne s'étonnera pas qu'elle (1'Eglise) soit restée le seul e t l e plus grand défenseur de l a vrai liberté 1). (Popolo e Libertà, Bellinzona, 19 novembre 1938). Arch. 12 A, 19


13. CONQUISTA ED ESPERIENZA DELLA LIBERTA'

Quante volte, discorrendo di libertà politiche, e mostrando i l grande interesse che abbiamo a stabilirla su basi filosofiche e storici chiari. mi son seni salde e con orientamenti socioloeici " tito dire: u Questi problemi non interessano, sono troppo teorici; diteci come sarà possibile mantenere oggi le libertà politiche in un mondo che si vuole rifare sulla forza e sulla volontà di dominio D. E quanti, a magnificare questo titanismo che sottomette tuete le volontà a quella di un solo, per ottenere un successo materiale a spese dei valori morali, per esaltare la collettività a danno dell'individualità della persona umana! A coloro che oggi dubitano del valore della libertà, ovvero che pur accettandone i l valore, non vedono come possa ristabilirsi i n un mondo che ne ha perduto il senso, che ne h a traviato i caratteri, è diretto questo scritto per interessarli ad una tesi, non nuova certo, ma che non si suole nè esporre nè ap~rofondire. La libertà, come tutti i valori umani a carattere spirituale, bisogna che sia sempre continuamente conquistata ed esperimentata. Quel che accade all'interno della nostra coscienza, accade nel campo vasto della società, perchè la società (vita in comune di uomini coscienti) è una ~ r o i e z i o n edella coscienza nelle mutue relazioni umane. Così è della libertà presa in singolare, come principio di autonomia e di responsabilità personale; così è delle libertà al pliirale, come attuazione di quel principio nelle relazioni sociali. Avete mai pensato che quella che i filosofi e i sociologi chiamano libertà originaria (che non può mai mancare nella formazione dei nuclei sociali), sia una libertà che anche noi possiamo conquistare ed esperimentare? Molti scolastici sostennero la tesi di un contratto originario nella formazione della società politica come libera attuazione di


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una necessità di natura: la società ordine necessario; tale società, fatto libero. Hobbes, però, partendo dalla idea di una natura cattiva, sostenne che i l popolo dandosi o accettando un capo, cede tutta l a sua libertà per sempre. Rousseau, al contrario, partendo da una natura buona, sostenne che il popolo mantiene intatta la libertà che diventa sovranità popolare. Voi'direte, tutto ciò è scuola, teoria, filosofia. Io dico, tutto ciò è interpretazione (vera o erronea) di una realtà fondamentale. Quando i cecoslovacchi, nel settembre scorso, furono messi nella alternativa di battersi e soccombere ovvero di cedere e perdere la libertà, furono posti d i fronte al problema fondamentale della libertà originaria; essi avevano coscienza di possedere una libertà fondamentale, quella di poter decidere della loro esistenza politica, una volta che veniva rimessa in discussione. Questa libertà fu compromessa: il tempo premeva, gli alleati mancavano, Londra e Parigi insistevano: essi scelsero il minor male o i l creduto minor male e perdettero la loro libertà come nazione indipendente, o almeno gran parte della loro libertà. Coloro che oggi sentono la p ~ r d i t f~r. t t ~ . ,per?aacc ccme riguadagnare il passato perduto, in venti, trenta, cinquanta anni, un secolo anche: essi si mettono a ripensare la libertà in termini originari, come se si dovesse costituire un nuovo popolo, una nuova realtà collettiva, un patto, un Covenant non più f r a gli uomini d i oggi, ma fra .la coscienza di quelli che oggi lo desiderano e lo vogliono e l a generazione che potrà realizzarlo. Certi sociologi ci parlano di libertà organica; che è mai questa che ci possa interessare per conquistarla ed esperimentarla? Ecco: la Spagna repubblicana del 1931 fece una momentanea e rapida esperienza della sua libertà originaria, quando rigettò la dittatura militare e monarchica. Ma senza organi che assicurassero l'esercizio della libertà è impossibile vivere, così come sarebbe per noi vivere senza orecchie, senza occhi e senza mani. La repubblica del 1931 si diede una costituzione, creò organi e formò quadri, adattando l'esistente a l nuovo. Ma gli organi creati in ambienti di intolleranza, d i sospetto, d i lotta fra partiti, che tendevano al monopolio, mancavano del vero necessario, la libertà del loro funzionamento, la libertà organica. La repubblica cadde nelle rivolte, nei pronunciamenti e finì nella guerra civile. Oggi e domani il problema spagnolo andrà posto di nuovo sul terreno della libertà originaria; essere . uno stato libero o uno stato totalitario. Quante volte in Francia non si parla di tirannia della maggioranza, tirannia del parlamento sull'esecutivo, tirannia dei partiti, intolleranza anticlericale o clericale, proletaria o capi-

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talista? La libertà organica C'& stata in Francia, ma deficiente, senza equilibrio, affermata per gli uni e negata per gli altri. La democrazia francese manca di un (C organicismo D, è stata individualista alla base e centralizzatrice in alto. senza anelli sufficienti per un'articolazione agile e per un costante equilibrio delle arti. Hanno coscienza i francesi amanti della libertà dicendo che i l loro organismo sociale è da rifare? Quante volte se n'è parlato, ma senza convinzione? o senza sanere trovare i rimedi? Pensare che alla base di un sistema elettorale organico ci vuole un sistema elettorale organizzato, che manca; la rappresentanza proporzionale, ne avrebbe agevolata la formazione, ma sono becine d'anni che se ne parla. La verità è che al fondo manca il senso di quella libertà che i filosofi chiamano finalistica. Questa è insita alle società come tali (non sarebbe umana altrimenti), ai suoi organi (non sarebbero organi sociali senza finalismo). Ma l'uomo non ne prende coscienza che quando ( o come singolo o come associato) vuole rifarne l a esperienza, cioè arriva a quello stato psicologico nel quale intelletto e volontà, creano l'azione cosciente. Dico a,'.zone cosciente, non impulso incosciente, non passione cieca, non fremito di folla, non dimissione della propria volontà in quella di un altro, non esaltazione isterica (non so perchè oggi si chiama mistica!) verso un capo ; no : ma azione cosciente per un fine voluto, per una libertà da affermare, conquistare, esperimentare. Come sarà possibile ciò? I n paesi dove ancora esistono libertà politiche (che sotto l o aspetto esterno possono dirsi libertà formali - quelle di stampa, di parola, di riunione, di associazione, di voto) è nel loro metodo e dentro i l loro quadro che bisogna agire. Nei paesi totalitari, dove anche il respiro è controllato, non resta che testimoniare la verità quando e come ne sorge il dovere: e mesta Iestimonianza è un atto di libertà £ondamentale di coscienza. Nei paesi dove c'è la lotta armata, seguire quella parte che riafferma i valori morali della libertà nella giustizia; non sarebbe lecito combattere senza riunire insieme libertà e giustizia. Ecco come noi possiamo e dobbiamo conquistare ed esperimentare la libertà, non una volta per sempre, ma tutte l e volte che ne perdiamo una particella, cioè ogni giorno, così all'interno di noi come nella società, pensando che la libertà non è per noi u n vantaggio politico o d1 partito, ma un valore morale della personalità umana; non è affatto una concessione degli uomini, ma un dono di Dio, 1

(Popolo e libertà, Bellinzona, 28 febbraio 1939).

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LO SPIRITO DELLA DEMOCRAZIA

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Non cerchiamo di difendere questa o quella istituzione particolare, o l a democrazia odierna, nella forma che essa ha assunto in Gran Bretagna o negli altri paesi che ancora si dicono democratici, ma desideriamo difendere lo spirito della democrazia nella società moderna. Per noi lo spirito della democrazia è libertà attuata nella vita sociale come correlativo all'autorità, un'autorità cui l'intero popolo partecipa, a seconda delle proprie capacità e posizione, cooperando insieme al bene comune. , Per noi la democrazia è a un sistema politico r soris!v che comprende l'intero popolo, organizzato su una base d i libertà per i l bene comune D. Qui sta il vero spirito della democrazia, il suo più ampio ideale, così come dovrebbe essere realizzato nei paesi civili e cristiani. . Questo, come ideale, è i l nostro punto di partenza; e come mira pratica è i l nostro fine. Fra il punto di partenza e il fine vi è uno spazio da attraversare, ed è lo spazio storico dato da Dio agli uomini per i loro esperimenti, i quali saranno sempre un miscuglio di buono e di cattivo, di verità e di errori, di successi e di fallimenti. Ecco la realtà. Dobbiamo buttare nel mucchio dei rifiuti tutto ciò .che è stato costruito? Non abbiamo nulla da difendere? C'è chi, f r a noi, è tanto pessimista da dire: « Diamo una bella scopata e ricominciamo da capo n? La storia non procede così. Allorchè chiunque, un dittatore ad esempio, o anche un uomo di genio come Napoleone, tenta di cambiare la faccia della terra, nello spazio d i pochi anni ciò che si credeva morto e passato riapparirà sotto altri aspetti. L'azione violenta non può durare perchè l a storia procede attraverso una lenta evoluzione, anche quando i cambiamenti suaerficiali sono imarovvisi e clamorosi. È come il mare che, col passar dei secoli, mangia l a spiaggia. I temporali provocano solo danni superficiali o portano via ciò che il tempo ha già corroso. Voler distruggere le presenti democrazie. per ottenerne d i

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migliori, sarebbe un tentativo di suicidio. E colui che tenta il suicidio, o muore o continua a vivere cieco o paralizzato, e con ancora minor fiducia in se stesso. Tuttavia con ciò non vogliamo dire che dobbiamo difendere le attuali democrazie così com'esse sono, con i loro difetti, le loro crisi o gli uomini che le rappresentano. Dobbiamo partire dal presente com'esso è in realtà e agire in esso, lottando per quelle ulteriori realizzazioni che riteniamo essere non solo le migliori ma alla nostra portata. Perciò non sosteniamo le attuali democrazie là dove esse risultano oggetto di critica, ma nella misura in cui sono veramente democratiche e al tempo stesso contengono qualcosa di fondamentale e di permanente. La democrazia comincia con la libertà I1 suffragio popolare è alla base della democrazia. È un mezzo elementare ma genuino d i dare al popolo una parte nella vita collettiva; qualsiasi imitazione arbitraria, qualsiasi esclusione autoritaria urterebbe contro la sua genuinità. Siamo perciò favorevoli al suffragio femminile: e se ciò suona come un assioma " in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, non è così in Francia e in Belgio, dove le donne- non hanno ancora il voto. Del resto anche in Inghilterra oggi esso deve essere ancora di£eso contro certi misogini. Abbiamo fiducia nel lavoro delle donne per una migliore democrazia, quando avranno avuto tempo di formare e'sviluppare le élites necessarie per una effettiva influenza sulla vita ~ u b b l i c a . Una democrazia non ~ u fare ò a meno del ~arlamento.Coloro i , quali dicono male del parlamento, pensano alle crisi parlamentari del giorno d'oggi; ma se il cervello è malato dobbiamo forse toglierlo del tutto? Ciò che ci vuole è la cura o le operazioni atte a mandar via il male, non la decapitazione. Lo stesso potrebbe dirsi delle libertà politiche, della libertà di voto, di parola, di riunione, di stampa. Una democrazia riformata, rinnovata, rimodellata secondo i nostri ideali, deve avere queste istituzioni o non sarebbe più democrazia. Tuttavia, vorremmo vederle corroborate, fortificate e meglio esercitate, col pieno senso della responsabilità che esse implicano. Non dovremmo perciò guardare con sfiducia all'introduzione del referendum svizzero nei grandi paesi, per taluni tipi di leggi concernenti tutto il popolo, o per determinare-certi orientamenti all'opinione pubblica. I n Inghilterra e in America questa funzione viene esercitata attraverso scrutini rivat ti, che tuttavia sono talvolta inadeguati e perciò spesso criticati. Ma a parte questa o quella istituzione, questa o quella riforL

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ma che può essere adatta per un paese in particolare, c'è una base democratica che deve essere considerata come indiscutibile e che dobbiamo difendere in quanto fondamentalmente concorde con i nostri ideali. Essa consiste anzitutto nella libertà nella vita pubblica: ecco ciò che soprattutto viene minacciato dal totalitarismo, mentre al tempo stesso è meno apprezzato e maggiormente incompreso da talune correnti reazionarie, nelle quali sono presenti non pochi cattolici. È bene che ci fermiamo un po' su questo punto, in considerazione degli attuali orientamenti politici. Allorchè noi vediamo, nei paesi totalitari, che talune classi di persone - per la diversit? di razza o di opinione politica o di fede religiosa - sono bandite, o espulse, o messe in campi di concentramento, con la possibilità che i loro beni vengano confiscati, senza alcuna protezione contro gli assalti della folla aizzata contro di loro, tremiamo di orrore come davanti ad un ritorno di ciò che era chiamato l'oscurantismo. Dovremmo renderci conto che potrebbe accadere anche a noi, se un simile potere si instaurasse in Gran Bretagna o negli Stati Uniti o in altri paesi dove ancora ci sono modi di vita civile. La protezione di una legge eguale per tutti, senza distinzione d i razza .!px-imc e p:= LPIUGg r a d i ~ cdella liberti. Se e di o p i ~ i z z e ,e : ciò non esiste più, un paese non ha più alcun diritto di chiamarsi civilizzato o cristiano. Da questo fondamentale rispetto .della libertà personale o della dignità comincia la civilizzazione, e a l tempo stesso la democrazia. Un passo ulteriore. I diritti della persona umana non sono soltanto negativi, ma anche positivi. Lo stato non può assorbirli in sè, nè può assorbire i diritti di quei nuclei sociali nei quali l'individuo è in grado di sviluppare e far crescere la sua personalità, quali la famiglia, la scuola, la professione, il comune, e così via. Oggi lo stato cerca di invadere ogni campo, di accentrare ogni cosa, di sottomettere la persona umana alla comunità. Lo stato democratico ha mirato all'accentramento (la Francia più di tutti) e persino l a Gran Bretagna ne è stata contagiata, seppure in forma più lieve. Ma quello che è conosciuto come stato totalitario ha superato ogni previsione, cercando di realizzare i l dominio sulllintera attività dei suoi cittadini, nonchè i l monopolio sia della vita pubblica che di quella privata. Cosa resti dei valori morali'della famiglia, della scuola, dei divertimenti, del lavoro, che persino durante l'oscurantismo costituivano altrettante oasi, lo può dire chi vivesotto tali regimi. Nei paesi democratici, abbiamo ancora una certa libertà nella vita familiare, nell'educazione, nell'attività grofessionale, nella organizzazione municipale e amministrativa, e non ne siamo

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completamente soddisfatti. I cattolici inglesi e americani si lamentano, giustamente, che le loro scuole sono a carico delle parrocchie ( e perciò a carico delle famiglie che le mantengono), mentre vengono favorite le scuole ~ u b b l i c h edove la religione non viene insegnata. I1 sistema scolastico francese è ancora più ingiusto. Vi sono ancora molti motivi di critica in vari paesi democratici, a proposito della posizione giuridica della donna nella famiglia e nel campo civile ed economico ( a parte le diseguaglianze politiche). E così via, in tutti gli organismi non statali. Coloro che ritengono che la democrazia sia soltanto un settore politico della vita della comunità, saranno sorpresi da quanto abbiamo detto. Essi non si rendono conto che la dRmocrazia comincia con la libertà. Laddove non c'è libertà, non c'è democrazia. Laddove la libertà è negata a corpi sociali con vita e fini specifici propri (come la famiglia, la ~rofessione,il COmune), non vi può essere democrazia. Laddove la personalità umana non è rispettata in tutti i suoi diritti 'alla vita morale e materiale, non vi può essere democrazia. Con ciò noi neghiamo il richiamo alla democrazia che fanno il comunismo e il socialismo marxista. In questi sistemi pon vi può essere nè libertà personale nè libertà di enti autonomi. Essi sono in realtà, per natura, sistemi di livellamento sul piano economico, livellamento che dal piano economico ( p e r essi di primaria importanza) si estende a tutti gli altri piani, compreso quello religioso. Quando-certi socialisti dicono di accettare la democrazia e di difendere la libertà, il loro è un socialismo di compromesso. Se sono sinceri, fanno del socialismo una sorta di radicalismo sociale. Se non sono sinceri (non dico moralmente, ma intellettualmente), essi pensano a due fasi - una transitoria, di libera democrazia, ed una fase finale, di dittatura di classe. Per una ragione più di fondo, cioè quella della effettiva soppressione di ogni libertà personale, noi neghiamo agli stati totalitari il diritto di chiamarsi democratici, semplicemente perchè essi promuovono plebisciti ed elezioni generali di sedicenti parlamenti, o perchè i loro capi radunano attorno a sè folle plaudenti che rispondono con un « sì » od un « no » già determinato. Sarebbe assurdo prendere sul serio tali asserzioni. Ma le stesse democrazie soffrono del male dell'epoca, cioè quello di pesare sulle libertà personali, per tre ragioni: a) quella già menzionata, l'accentramento statale a scapito delle società di base e delle attività individuali, e la mancanza di organicità causata da un individuo prevalente e sempre più inquieto ;


b) il dominio del capitalismo sulle ,masse, sulla stampa e sulle sfere governative ; C) la debolezza dei valori morali della società, a causa della diffusione, in ogni classe sociale, di un'educazione fondamentalmente materialistica.

Valori relativi I1 primo compito per la difesa della democrazia è quindi oggi la difesa della libertà. E questa è al tempo stesso difesa dell'autorità e dell'ordine sociale. Non è necessario ripeterlo, ma vogliamo semplicemente sottolineare con forza che non è questione nè di pura filosofia, nè, peggio ancora, di costruzioni arbitrarie o di idealismo fantasioso. Vi sono cattolici anti-democratici (forse non si chiamano così, ma lo sono spiritualmente) i quali insistono sulla necessità d i essere realisti, d i considerare 'i fatti come \;eramente sono, per evitare illusioni sia pure generose. La società umana, essi affermano. non è un idillio dell'Arcadia, e di istituti umani sono Cattivi. .La nostra democrazia, secondo loro, presuppone che tutti gli uomini siano buoni, il che nen è. . A questi e a simili i< realisti s possiamo rispondere con dati Ma anziconcreti e con ragioni pratiche, persino « realistiche >). tutto dobbiamo fare una swecie di atto di fede, il quale risponde alle nostre più profonde convinzioni di cristiani. I1 valore morale che difendiamo vale mille volte più dei valori materiali-che vanno sotto i nomi di grandezza nazionale, d i onore nazionale, di egemonia politica o di ricchezza da attingere dai paesi conquistati, dalle colonie assoggettate, e via dicendo. Inoltre siamo -di coloro che persino nel campo della politica e nella vita collettiva credono nella parola di Cristo: « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in sovrappiù ».u Tutte. queste cose » significano precisamente ciò che il realista cerca, e che non è soltanto il benessere materiale lecito e necessario per una comunità, quale parte, e non il tutto, del bene comune,(per gli SCOlastici fine della vita collettiva); bensì anche ciò che, per volere o permesso della Provvidenza, le nazioni acquistano nella loro formazione, sviluppo e declino. Chiediamo che tali avvenimenti storici non debbano essere il frutto della violenza, del furto, del tradimento, o dell'oppressione, sia all'interno che all'estero. Perciò non avremo nulla da dire su una politica cosidetta realistica, che presuppone la soppressione delle libertà civili e politiche, per permettere a i capi di avere le mani libere e realizzare i loro sogni di dominio ,

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e di grandezza con tutti i mezzi, senza tener conto della moralità. Ciò significherebbe la politique d'abord dell'Action Francaise, che è stata giustamente condannata dalla chiesa. Vorremmo avere politici al tempo stesso morali ed efficienti, vale a dire che non perdessero il loro carattere specifico d i cercare ciò che è necessario alla comunità, servendosi dei loro mezzi tecnici, e che rimanessero nell'ambito della legge morale, i cui precetti sono da osservare sopra tutto. Così pure l'economia, sia essa privata o pubblica, può essere una vera economia senza per questo violare i limiti della moralità, diventando abuso, furto o frode. Educazione I1 problema dell'educazione è fondamentale per la democrazia. Essa è necessaria in democrazia per poter avere élites tratte da ogni classe e categoria, aperte a tutti, sempre rinnovate e portatrici di rinnovamenti. Possono esse venir formate senza un'adeguata educazione? Questa deve essere su tre piani: il primo è la cultura, e si deve ammettere clie oggigiorno questo aspetto è quasi del tutto trascurato ovunque. La cultura sta diventando sempre pifi tecnica, specializzata, parziale. L'idea di una cultura generale, umanistica e religioso-morale (diciamo cultura e non semplicemente conoscenza) la si è persa di vista. I1 secondo piano è quello dell'esercizio o pratica della vita politica. Questa esiste oggi in taluni gruppi di cittadini e in certi paesi nei quali è una tradizione, soprattutto in Svizzera e Gran Eretagna. In Svizzera, un paese piccolo, diviso in can-. toni federali, dove è in vigore il referendum e i partiti sono bene organizzati, l'esperienza politica si estende fino ai più remoti villaggi di montagna. I n Gran Bretagna, dove la vita locale entro certi limiti è ancora autonoma, e dove esistono molti enti liberi - quali le università - la vita collettiva è ancora abbastanza bene articolata. Al posto del referendum esistono i (C ballots » ed altre iniziative private del genere, ivi comprese lettere alla stampa. Ma ciò non è sufficiente. I partiti socialisti hanno dato un'educazione alle masse, ma non un'educazione politica. Essa è troppo limitata all'economia, troppo materialistica, o almeno troppo incentrata sulla classe. È necessario un allargamento del suo campo visivo per comprendervi interessi politici e morali, nazionali e internazionali. Si dice spesso che certi paesi non sono adatti alla libertà e alle istituzioni democratiche, ~ o i c h èi1 popolo non vi è s t a t o ~ e d u cato. Coloro che parlano così sembrano avere in mente una specie di educazione preliminare, quasi che si potesse ~ a r l a r ed i

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educazione a camminare senza camminare, o di imparare a nuotare senza entrare nell'acqua; il che non significa che non sarebbe necessaria una guida o misure preventive per evitare possibili danni. Infine, l'educazione alla democrazia richiede convinzione; essa deve cioè giungere al cuore. Un'educazione soltanto intellettuale o tecnica, senza educazione dei sentimenti, è impossibile. Si dice, oggigiorno, che ci dev'essere un misticismo D, aggiungendo che tale misticismo esiste nei paesi totalitari ma non in quelli democratici. Ecco un punto che dovrebbe essere chiarito. Anzitutto non dobbiamo confondere il sentimento che nasce da una,profonda convinzione morale con il fanatismo sentimentale o cieco istinto della folla : stati d'animo completamente diversi, veramente antitetici. I1 primo è durevole, forte e degno dell'uomo, il secondo è superficiale o istintivo. I1 primo è buono, il secondo malefico, o può, consciamente e inconsciamente, diventarlo. I1 primo è fondato sull'affetto ed è comprensivo, i l secondo sull'odio ed è esclusivo. L'antisemitismo oggi così esteso e persino imposto dall'autorità, è una delle peggiori forme di fanatismo di questi tempi. I! i i i ~ ~ i s i i ièuuna deviazione inteiiettuaie fondata su uno Ghiacciante orgoglio ed egoismo. Farne un misticismo » è un'aberrazione ed un pervertimento della coscienza umana: sono fanatismi, non misticismi. L'educazione del cuore alla quale facciamo appello per gli ideali della democrazia, non contiene nulla di torbido, di immorale o fanatico, ma poggia su valori morali permanenti, degni dell'uomo e in armonia con i principi della cristianità. P e r questa ragione stiamo attenti a separare l'idea moderna della democrazia da queste erronee premesse che fecero sì, una volta, che molti cattolici la considerassero con sfiducia, ritenendole inseparabili. Noi diciamo con Leone .XIII: (( Se la democrazia sarà veramente cristiana, recherà molto bene all'umanità ». Non possiamo iniziare, come fa Rousseau, dall'idea della natura umana come buona in sè, guastata soltaqto dalla società. Al contrario vediamo la natura come decaduta, e i legami sociali come necessari per civilizzarla, vale a ' dire per far emergere gli istinti buoni e reprimere e correggere quelli cattivi. Senza l a società non vi è civilizzazione ; e ciò videro i saggi dell'antico paganesimo. Noi non vediamo'nella volontà popolare una sovranità illimitata, così come non la vediamo nella volontà del monarca. P e r noi l'autorità, come la libertà, ha i suoi limiti etici (che trovano sempre una concreta espressione in un sistema religioso), &

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L'estensione di questo rapporto alla intera comunità costituisce la caratteristica della democrazia, ed entrambe hanno limiti interni che nascono dal loro rapporto. Infine, non concepiamo la volontà del popolo come la somma delle volontà individuali, ma come qualcosa di specificatamente diverso, in-quanto essa è maturata ed espressa dagli organismi vitali della società. Siamo perciò contrari alla democrazia individualistica, in nome di una democrazia organica. Non è il principio d i maggioranza che rende buona una legge, bensì il suo valore intrinseco. Non è i l risultato delle elezioni che crea i l diritto di una maggioranza, bensì la convinzione che essa arriverà ad esprimere l a legge con la coscienza del mandato ricevuto. Così, ogni volta che una maggioranza non adempia a l proprio mandato, in una vera democrazia la struttura sociale fornirà i mezzi per correggerla e renderla consapevole del proprio errore. I n Inghilterra e negli Stati Uniti questo è i l ruolo dell'opinione pubblica, ruolo molto forte, sebbene non sia sem. . pre all'altezza del suo compito. È dovere delle élites della minoranza; o di élites extra politiche, delle libere associazioni e de11e chiese? intervenire per imprimere questo carattere di auto-correzione alle correnti politiche. Proprio come è stato detto che l a libertà deve essere guadagnata quotidianamente (oggi i nostri amici francesi amano parlarne come di una creazione quotidiana) così la democrazia, unione e cooperazione di libertà e autorità, deve essere quotidianamente guadagnata o creata. Donde una continua lotta contro le forze avverse ( i n noi stessi e fuori di noi), lotta che mina la sua eshtenza.

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La ricerca della libertà

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Se un bene deve essere difeso coscientemente, deve essere amato, reso vivo dal lavoro quotidiano e deve ricevere efficacia dalla vita che in esso immettiamo. Così fa il contadino con il suo campo, che egli accudisce con amore, a seconda della stagione, al fine di far maturare i l grano a tempo opportuno. I1 suo campo, il suo giardino non suscitano in lui alcun fanatismo frenetico. Egli ha i l calmo affetto di un proprietario e i l tranquillo possesso d i chi ama e vi lavora. Oggi una parte dei giovani non è spinta nè verso la libertà, di cui non apprezza.più i benefici, nè verso la democrazia, che essi vedono sfigurata da sterili lotte, da debolezze e da flagranti e incomprensibili ingiustizie. Ed essi sono al tempo stesso nel giusto e nel torto. Hanno ragione, in quanto vedono e odiano i l male, hanno torto in quanto non vedono il bene che pure

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esiste ed il bene che dovrebbe e deve essere fatto per vincere. Là dove la libertà esiste, nessuno ci pensa. Allorchè essa manca, allora la si deve cercare. C'è un aneddoto su una conversazione fra un tedesco e u n olandese, che è illuminante. I1 tedesco vanta la grandezza del Terzo Reich, la sua potenza, il suo futuro. « È vero, replica lo olandese, noi siamo un piccolo popolo, senza un grande avvenire, ma quando al mattino presto sentiamo bussare alla porta, sappiamo che è solo il lattaio N. Questa visione familiare della libertà non deve portarci a pensare che le democrazie, piccole o grandi che siano, non abbiano nè rischi nè avventure. Senza questi non avrebbero alcuna storia. Le hanno infatti, e persino nei paesi democratici oggi vi è ciò che dovrebbe fare appello allo spirito avventuroso della gioventù. Non è vero che gli uomini non rischino la vita per la libertà (come viene scioccamente detto da coloro che sono in ammirazione davanti ai dittatori), mentre la rischierebbero per la grandezza imperiale. In Spagna uomini delle due parti combatterono per d u e a n n i e mezzo per ideali che p c t e i a m essere ~ e i i o falsi, reali o irreali; i baschi e i catalani, per di più, in condizioni di schiacciante inferiorità, portati verso un tragico ignoto. Se la guerra venisse, e i belgi, gli olandesi e gli svizzeri £ 0 ~ sero attaccati, essi morirebbero per difendere la loro libertà e non per ragioni d i grandezza imperiale, che ad essi non importerebbe affatto. Dire che soltanto la gioventù fascista o nazista è capace di sacrifici, è una falsità magnificata da una arrogante e insolente propaganda. In Inghilterra, forse a causa di un complesso di inferiorità, si ha l'impressione che essa non abbia alcun ideale da difendere. Taluni dicono che l'impero non li interessa, dato che ogni DOminion ha la sua personalità, e può progredire bene senza appartenere al Commonwealth britannico. O che il mondo non h a alcun bisogno di una leadership da Londra. O che il capitalismo della City non è un ideale per il quale altre classi si devono sacrificare, e così via. Sono tutte mezze verità e. mezze falsità. Tutto ciò è forse il disfattismo di un popolo soddisfatto O d i un popolo che teme i sacrifici? Un così amaro spirito critico, frutto di disillusioni e di snobbismo, può'togliere all'intera storia di un popolo il suo significato. Ma coloro i quali sono in grado d i valutare i fattori della storia e l'attuale situazione alla luce d i una missione morale e civilizzatrice, orientata dalla provvidenza, sentono che ogni popolo ha il proprio posto, datogli da Dio, e la diserzione sarebbe una mancanza al proprio dovere. Vorremmo accentuare questo punto che è troppo spesso tra-


scurato non come argomento per una democrazia attuale o futura (questo ruolo provvidenziale appartiene a tutti i popoli, siano essi democratici o no), bensì al fine di vedere il posto dell'esperienza democratica (persino del bolscevismo) nel piano divino. Intendiamo con ciò semplicemente affermare che ogni esperienza è o un'asserzione di valori morali che devono essere attuati, o u n rifiuto dei valori morali che devono essere riaffermati, o un'espressione concreta dei valori morali che devono essere difesi. È per questo che comprendiamo gli appelli dei vescovi di Francia, Olanda, Belgio, Svizzera e Stati Uniti a favore delle libere e democratiche istituzioni dei loro paesi. È perciò che comprendiamo la realtà di un sano sentimento nazionale, il quale, ripudiando il fanatismo nazionalista, ha il senso di una vocazione nazionale e di una missione. In tal senso possiamo desiderare che le democrazie si tengano unite, come una esperienza di civilizzazione ed una forza pacificatrice unica nel mondo. Un popolo che ha raggiunto eccezionale potere e ricchezza, h a doveri corrispondenti. L'adempimento di questi doveri, migliorando l'organizzazione interna e le relazioni con gli altri paesi, richiede la cooperazione di tutti, per l'ideale del bene comune. Per noi la democrazia è un mezzo per tal fine, poichè essa è lo stadio di civilizzazione che abbiamo raggiunto ed è il sistema più adatto (con i miglioramenti e gli sviluppi che essa richiede) per raggiungere questo ideale. Altri che hanno ideali di imperialismo insoddisfatto e credono che, assoggettando con la forza le piccole nazioni, vivranno secondo il loro carattere di popolo eletto, hanno trovato un altro sistema, quello totalitario, con i risultati che abbiamo davanti agli occhi. Se essi stanno compiendo in tal modo una missione provvidenziale, lo si può giudicare soltanto attraverso i mezzi da essi adottati. Coloro i quali si servono di mezzi immorali, non possono mancare di incorrere nel biasimo degli uomini e nel giudizio d i Dio.

La via della pace

Si potrebbe dire queste sono belle idee, ma, nel frattempo, non vi sono forse ingiustizie e immoralità nelle democrazie? D. Con quali mezzi è possibile eliminarle? Noi siamo per i mezzi legali, e perciò siamo per quel sistema (la libera interpretazione deIle forze civili e sociali) che ci mantiene nel regno della legge. Sia all'interno d i u n paese che nei suoi rapporti con l'estero, siamo contrari ai metodi della violenza e della forza armata, siano essi rivolte o guerre civili all'interno, o invasioni e guerre all'estero. Le ingiustizie e le immoralità devono essere corrette


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dal metodo cristiano. Ci vuole molto tempo, ma è il mezzo più sicuro, dato che esso è fondato sulla penetrazione dello spirito nella materia e sullo sviluppo o mutamento delle istituzioni. La cristianità proclamò rigorosamente la monogamia. Ma perchè questa diventasse un'istituzione sociale riconosciuta, ad esclusione di altre, fu necessaria la vittoria della cristianità sul paganesimo greco-romano e sui barbari. Così è stato nei confronti della schiavitù, della servitù della gleba, della legge del taglione, così è stato anche in questo nostro tempo, e così sarà anche domani. La democrazia ha oggi tre battaglie da combattere e da vincere : 1)Una economica, contro l'oppressione del capitalismo e contro la minaccia di un comunismo tirannico. La prima è reale, la seconda è in prospettiva. Entrambe si fronteggiano sul piano politico, come se fossero alternative, sotto il nome, qui non appropriato, di fascismo e bolscevismo. Lasciando da parte riferimenti politici, e limitandoci alla sostanza, sia il capitalismo che il comunismo sono contrari ad una vera democrazia, ed entrambi rendono difficile conseguire una giustizia distributiva in economia, senza urtare la libertà. Molte altre misure legislative saranno necessarie per porre un giusto limite al capitalismo invadente e oppressivo, e queste possono essere conseguite solo se la loro necessità entra nella coscienza dell'opinione pubblica attraverso l'opera dei democratici. La strada sarà lunga, la lotta sarà dura, ma vale la pena di combatterla, non in nome del comunismo materialistico, nè in quello di un mutopismoantisociale, ma in nome della democrazia, la quale qui è democrazia sociale, e' sulla base morale del cristianesimo. 2) La seconda battaglia sarà in campo politico, al fine di modificare l'attuale organizzazione dello stato alla quale è stata data una forma concreta dalle classi medie liberali del secolo scorso, e che è stata resa inadeguata dall'avvento delle masse lavoratrici nella vita elettorale e parlamentare, mentre è anche minata dalle tendenze totalitarie dell'estrema destra 'e dell'estrema sinistra. Non vi può essere qui alcuna singola ricetta adatta ad ogni . caso, nè dottrine già fatte, nè schemi filosofici di società perfette. La Repubblica di Platone, l'Utopia di san Tommaso Moro e la Città del sole di Campanella, sino visioni nate da reali necessità, proiettate su un piano irreale, per dar loro respiro e profondità, non come soluzione di problemi pratici. Simili problemi devono essere affrontati in tutti i paesi, a seconda della loro storia e genio, nonchè delle necessità del momento. Si ripete spesso che l'Europa, nel copiare il parlamento bri-


tannico, s'incamminò su una falsa strada. La verità è che 1'Europa non copiò mai il parlamento inglese. La natura e la storia non copiano, ma creano. Gli studi dei giuristi sono posteriori ai fatti, allorquando i fatti sono veramente storici, vale a dire quando essi nascono da reali necessità o reali impulsi. Le teorie non creano mai la realtà, anche se possono prepararle la strada. Sarebbe quindi inutile considerare qui se l'Inghilterra farebbe bene ad adottare la rappresentanza proporzionale ( p e r la cui promozione esiste una associaz'ione) oppure il referendum svizzero ( a l posto delle libere votazioni); oppure, se la camera dei lords debba essere abolita o cambiata, e se la camera dei comuni debba deferire alle autorità della contea, o a speciali commissioni, il duro peso delle leggi minori. Questi ed altri problemi tecnici in Gran Bretagna (come in altri paesi) dovranno essere discussi i n sede propria, da chi vi è direttamente interessato, da uomini politici e da esperti, per essere portati davanti alle assemblee delle associazioni che ne hanno fatto i loro argomenti specifici, e infine davanti a tutto il pubblico, non appena uno o più di essi suscitano un interesse generale e richiedono con urgenza noa sol~zioce. Così si f o m a il vero spirito democratico di un paese e si contribuisce alla riforma degli organi politici meglio adatti ai tempi e alle necessità del momento. 3) E infine la terza battaglia della democrazia sarà i n campo internazionale. Questa battaglia iniziò subito dopo la grande guerra, su due temi principali, la Lega delle nazioni e la sicurezza collettiva. I1 fallimento della Lega delle nazioni ( o piuttosto delle grandi potenze che erano a capo della Lega) è stato una disgrazia per la democrazia e per la pace. Oggi non abbiamo più a che fare con la sicurezza collettiva ma con l'equilibrio di potere, equilibrio tanto precario e oscillante che sembra improbabile possa persistere più a lungo. Esiste solo un'alternativa. O le notenze democratiche ristabiliranno in tempo la sicurezza collettiva, o avremo una lunga guerra ed una catastrofe europea che sorpasserà ogni immaginazione. Ecco il compito che incombe sulle attuali democrazie, malgrado le loro debolezze ed errori del passato; un compito-al tempo stesso arduo e nobile. Perchè le democrazie? Perchè esse non sono imbevute di spirito di conquista, desiderano la pace, hanno concesso ai dittatori più di quanto permettevano il diritto e la moralità. e sono responsabili del fallimento della Lega delle nazioni. È loro dovere, verso se stessi e il resto del mondo, ritornare sul sentiero abbandonato e ristabilire l'ordine internazionale che è stato compromesso. È possibile farlo? E a quale prezzo?

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- Srvnu,- Politica

e morale

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,Abbiamo visto cadere a pezzi il sistema del dopoguerra, sotto la violenza dei dittatori. Le nazioni più piccole e più deboli . sono minacciate, ma le potenze più grandi e più forti non godono alcuna tranquillità. Non si può ritornare al passato, ma neppure si possono accomodare le cose senza una base morale, senza ideali sacri, senza la cooperazione dei sentimenti dei popoli, cioè senza riunire insieme i principi democratici, i sentimenti nazionali e i valori morali cristani. I tristi giorni che stiamo attraversando in un'Europa senza strutture stabili, in paesi agitati dalle contraddizioni dei sentimenti e delle passioni, in mezzo a tanto odio e gelosia, non ci devono far cadere nella disperazione, o in una inutile critica ,ed inazione. Abbiamo una fede ottimistica nel cristianesimo, e non può servire a nulla un pessimismo che non porta in nessun dove, una critica che non richiede alcun sacrificio. Per questa ragione noi vogliamo che la democrazia ritorni ad essere cristiana (per essere battezzata, come si diceva- mezzo secolo fa). E cioè, essa dovrebbe essere ispirata dalle istanze cristiane nella civiltà odierna, e al tempo stesso approfondirle, per farle tornare ai principi morali e religiosi del Vangelo, per reaiizzarii anche nella vita pubblica, per 'animare l'aspetto ma'teriale e le necessità terrene della vita sociale e delle relazioni fra le classi e fra i paesi, con la carità cristiana. Ben comprendiamo la difficoltà di introdurre un simile prog a m m a i n un ambiente nel quale una parte piuttosto grande della popolazione ha perso il suo senso religioso, o almeno non sente più il bisogno interiore di una fede cristiana. Ma tutte le grandi riforme hanno cominciato da piccoli inizi e ah piccoli gruppi, pieni di fede nei loro ideali. . Noi cattolici possiamo registrare tre movimenti storici per la libertà e la democrazia. I1 primo va da O'Connell a Montalembert. Si tratta della esperienza della libertà, colorata da sentimenti romantici, da aspirazioni liberali, con gli inizi dei movimenti democratici basati sulle nuove costituzioni degli stati continentali. I nomi più famosi, a parte i due che abbiamo menzionato, sono Lacordaire in Francia, Ketteler e Windthorst in Germania, Gioberti, Rosmini, Manzoni in Italia. La seconda esperienza è sul piano sociale e riguarda il periodo della enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, e della democrazia cristiana. Abbiamo qui grandi figure come Decourtins i n Svizzera, l'abate Pottier in Belgio, Toniolo i n Italia, l'abate Naudet, I'abate Lemire, Léon Harmel i n Francia. . La terza esperienza iniziò alla fine della guerra mondiale, con i partiti noti come partiti popolari o partiti democratici d i ispirazione cristiana. I1 movimento politico fra cattolici guada-


gnò un respiro e una responsabilità che non aveva mai posseduto in passato. I1 centro era il partito guida negli affari tedeschi ed il partito popolare la forza motrice in quelli italiani. La loro lotta contro' socialisti e comunisti coalizzati, nonchè contro il nascente fascismo e nazismo, li portò verso u n campo spinoso e difficile, in cui i partiti totalitari ebbero partita vinta. Rimasero i democratici cattolici d i Francia, Belgio, Svizzera e Olanda, nonchè piccoli.centri in Lituania e Polonia. L'esperienza non è andata Al di fuori dei partiti militanti politici vi sono i centri cattolici e le organizzazioni per seri studi politici e sociali, attive leghe d i lavoratori e sindacati, numerose associazioni giovanili, che si basano su una piattaforma di libertà politiche, con aspirazioni più o meno chiaramente definite verso la democrazia (almeno in campo sociale), e che fanno appello alle presenti democrazie per garantire i loro diritti e sostenere lo spirito cristiano dal quale sono animate. Di tali esperienze storiche e di movimenti del genere si è avuta una dura e talvolta poco generosa critica; ma questa rete di attività nel corso di un secolo regge solidamente la tradizione della libertà e democrazia dei cattolici nel mondo. Allorchè il loro lavoro sarà meglio conosciuto da amici e avversari, e il loro contributo sarà meglio apprezzato, quando le forti correnti democratiche avranno riguadagnato coscienza di sè e saranno riuscite a resistere alla perversione totalitaria (razzismo inumano, nazionalismo esagerato, fascismo pretenzioso), ed avranno contribuito a liberare le masse dal veleno marxista e comunista, avranno contribuito per ciò stesso a ricostruire la società sulla base di una moralità umana e 'cristiana. A questo fine è necessario aver cura di non scuotere le fondamenta democratiche e libere dei paesi che ancora le hanno; ma al tempo stesso è necessaria una cooperazione attiva ed ogni 'sforzo per migliorare le attuali istituzioni pubbliche e l'organismo democratico, e animare dello spirito cristiano una libera vita politica. (The Presmation

of

tlte Foith, dicembre 1939).


DEMOCRAZIA, AUTORITA' E LIBERTA'

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Ogni qual volta si studia l'origine del potere e si tenta trovarne una soluzione adeguata, si arriva a qualche cosa ch'è alla radice stessa della democrazia. Interessa, veramente, conoscere da vicino l'origine del potere? Non basta ai cristiani apprendere da San Paolo che non c'è potestà che non viene da Dio? Sia la monarchia assoluta o anche la dittatura, sia la repnbhlicn tempercta o siche !o dzìììocrtizia sociale, al cristiano dovrebbero interessare poco, trovando in tutte queste un potere derivante da Dio, che perciò merita il nome di autorità. Questa specie d'indifferenza ascetica per la forma concreta del potere politico può essere guardata o come un'evasione dalla realtà mondana affinchè non ci prema e ci assorba; ovvero come un atteggiamento dello spirito per un mondo tutto particolare del quale esclusivamente vogliamo vivere. Quel celebre specialista in sanscrito, che durante la rivoluzione francese era talmente assorbito nei suoi studi d a , non essersi accorto che Luigi XVI era stato decapitato (al punto da proporsi di dedicargli la sua opera), aveva realizzato l'evasione totale dalla vita politica per concentrarsi nelle sue speculazioni scientifiche. Se questo potrà essere il privilegio di uni piccolo numero d i persone, viventi nel mondo fuori del mondo, non può essere per la grandissima maggioranza degli uomini, che vivono in società e per la società, e alla quale il loro contributo di attività è continuo, anzi quotidiano. Per essi il problema del potere ha un valore instante, perchè li tocca, individui e gruppi sociali, nelle relazioni fra di loro e nel complesso sociale che noi chiamiamo ora-comunità o Commonwealth, ora nazione o stato e che si estende fino alla comunità d i popoli e società di stati. Arrivare all'origine del potere vuol dire conoscerne la natura ,per la sua generazione e averne la linea storica del SUO svolgimento. A noi qui interessa trovare fino a quale punto e


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per quali aginità l'origine del potere e l'origine della democrazia hanno, o possono avere, delle realiq'coincidenze. Gli scolastici e i canonisti del medio evo avevano concepito i rapporti fra il popolo e l'autorità in termini contrattuali: in regime monarchico, il popolo si obbligava alla fedeltà e ubbidienza; il re si obbligava a rispettare e garantire le leggi, l e tradizioni e le libertà proprie del popolo stesso; i n regime repubblicano il popolo nominava i rettori o capi per u n periodo prestabilito, ed alla fine della gestione aveva diritto di verificarne e approvarne gli atti. Nei due casi, il primo assai più esteso del secondo, era presupposto che l'origine pratica del potere, la causa seconda (come dicevano gli scolastici) era i l popolo. Era questi che o rinnovando il contratto con i l sovrano (sia scelto dai capi elettori, sia riconosciuto per diritto ereditario) o nominando i rettori della repubblica, accettava una autorità che non era nè da sè stessa nè da altri imposta. L'idea che il potere derivasse dal popolo la troviamo nello stesso codice di Giustiniano, dove è scritto (C che per la legge detta 'regia' ogni diritto e potere del popolo romano fu trasferito nella potestà imperatoria ». Vi era però una differenza fra il principio del diritto romano e l'idea medievale: nel primo il passaggio del potere era completo (senza residui direbbero i sociologi); l'imperatore non rappresentava i l nè aveva un contratto con il popolo; ne era, per così dire, l'erede titolato. I1 popolo romano continuava ad avere i simboli del suo potere con i l senato e altri istituti storici; ma tutto i l potere era passato nelle mani dell'imperatore. Nel medio evo no: il popolo restava sempre un contraente di fronte a l r e ; poteva esigere il rispetto dei suoi diritti anche con la forza; ri. tirare il suo giuramento di fedeltà senza essere fellone e deporlo senza essere rivoltoso, se il re veniva meno ai suoi impegni. Nelle repubbliche il rapporto fra elettori ed eletti era evidente. I n tutte l e teorie non si metteva in dubbio che alla radice del potere pubblico vi era il popolo. Vicino a questa, che diremo teoria politica, ptava la teoria religiosa, che fin dagl'inizi del cristianesimo si insinuò nell'insegnamento dei padri: che il potere (come la proprietà privata e la schiavitù) derivassero dal peccato di origine. Necessitava, quindi, una santificazione anche per il potere, cioè il riconoscimento che come fonte di autorità derivasse da Dio: donde il rito sacro che manifestasse tale derivazione, il rispetto religioso per l'investito di autorità, il dovere del monarca O imperatore di mantenere l'autorità come un sacro ministero, cooperando con i l sacerdozio al bene del popolo. Le due concezioni, la popolare e l a religiosa, non stavano

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di fronte, non si escludevano; sotto un certo aspetto poteva dirsi che si completavano. Sia che prevalesse la concezione romana nell'impero bizantino, sia che si sviluppasse quella contrattuale feudale, nella cristianità occidentale, le due concezioni, la politica e la religiosa, venivano realizzate come concomitanti. Durante la lotta fra papato e impero, dalla teoria religiosa ebbero motivo quella del « diritto divino s dei re e quella della « mediazione » dei papi (l). Allo stesso tempo la teoria politica di un contratto originario fra popolo e i suoi capi rimase alla base della costruzione della società, e fu utilizzata dai due campi in lotta, ora dai canonisti a favore del papa ora dai legisti a navore dell'imperatore. Dalla rinascenza e dalla riforma si ha un cambiamento di rotta: si cristallizza l'idea di stato e quella di sovranità; da u n lato si nega al popolo ogni partecipazione originaria ed effettiva al potere in nome del diritto divino dei re che diviene assolutismo; dall'altro si nega al papa ( e alle chiese riformate) ogni diritto d'intervento sul potere sovrano. Per contraccolpo, i difensori del papato - specialmente i gesuiti Bellarmino, Suarez, Mariana, divengono gli ultimi difensori dell'origine popolare del potere, pur ridotto ad un principio simbolico; mentre in Inghilterra il parlamento aristocratico combatte Ia sua grande battaglia per mantenere i1 suo diritto della limitazione del potere regio a nome del popolo. F u allora che la scuola del diritto di natura riprese la tesi dell'origine popolare del potere, togliendola però dal rapporto con la teoria religiosa, cioè laicizzandola, come si direbbe oggi. Era quella una' concezione non giuridica (contrattuale) nè storica. dell'origine del potere, .ma metafisica: la società è costituita per natura: l'uomo crea naturalmente la società. La volontà del popolo vi è implicita i n quanto esige l'ordine, il be- nessere,. la possibilità di vivere insieme : questa volontà è alla radice e si confonde con la natura. Secondo Hobbes, tale volontà non può mai esplicitarsi che in una società già costituita, fuori della quale non vi è che l'orda ( i l disordine, l'anarchia). Quando questa orda è sottoposta al potere di un uomo o di più uomini forti, la volontà popolare si esplicita conferendo ai capi, una volta per sempre (senza residui) l'autorità che risiedeva implicitamente negl'individui. Locke va più avanti, egli valorizza l'individuo come tale e lo mette alla radice dell'autorità sotto forma di volontà collettiva espressa dalle maggioranze. La democrazia individua-

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Vedi Luigi Stnno, Chiesa e Stato, voI1. 2, Bologna, ZanicheiIi 1958-59.


lista moderna era nata. Ci volle~Rousseaua darle il carattere di un contratto sociale, non al modo degli scolastici medievali, tra popolo e sovrano, ma come volontà permanente e reciproca degl'individui tra di loro a vivere in società e va gestire collettivamente questa società, cioè come volontà unica, immanente, che diviene autorità d i sè stessa. Camminando per il processo di idee, vedremo che la volontà popolare è concepita da Kant come libertà ( e ne nasce il liberalismo); da Fichte come nazione ( e ne nasce il nazionalismo), da Hegel come stato e manifestazione dello Spirito ( e ne nasce lo statalismo panteista), da Marx come lotta di classe per il regime economico ( e ne nasce il socialismo). I1 totalitarismo moderno utilizza il concetto fondamentale di volontà popolare con i concetti di stato, nazione, classe, razza, creando il misticismo della forza e del potere come incarnazione in un capo della volontà del popolo che si muove collettivamente, per un assorbimento della personalità individuale di ciascuno nel tutto. I n duemila anni di civiltà cristiana noi possiamo dire che l'idea dell'origine popolare del potere non è mai cessata di esistere. E priina del eiistiancsimo, piir alterata dal fenomeno della schiavitù o mescolata con i miti politeisti, tale teoria ebbe cittadinanza in Grecia e in Roma. Le formulazioni dottrinali sono state diverse; la pratica è riuscita a negare quel che la teoria affermava; ma nel fondo restava sempre, sia pure inconsciamente o senza efficacia, l'idea di una volontà collettiva all'origine di ogni società. Ma poichè l'origine storica di ciascuna nazione o famiglia umana' si perde nella preistoria, non si potrà mai afferrare il momento critico di tale volontà per la quale la forza per la prima volta divenne potere e questo per la prima volta fu riconosciuto come autorità. Questa ricerca, che non può avere risultato sul piano storico, deve trasportarsi su quellw metafisico: ogni caso concreto è tipico e non si ripete; ma in ogni caso concreto della formazione di un gruppo o nucleo sociale noi troveremo sempre i tre momenti della forza, del potere e dell'autorità. Questi sono così connessi e interdipendenti, che parecchi pensatori li fanno derivare l'uno dall'altro, e trovano che la volontà popolare è un'intrusa nel processo di formazione della società organizzata. Per provare loro ch'essa non è un'intrusa, ci serviamo di una controprova storica interessante: quella della legittimazione del potere. Così arriviamo alla radice dell'origine del potere quasi senza che 'ce ne accorgiamo. Nel caso della legittimazione del potere o il popolo è chiamato a dire la sua parola (sia esplicita

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sia implicita) o il potere non sarà mai legittimo, cioè non sarà mai autorità. Se u n usurpatore assale un regno, il re, gli eserciti, il popolo resistono con l e armi: si forma in essi la volontà di resistenza (casi moderni : l'aggressione dell'dbissinia o l'invasione della Cina, della Cecoslovacchia o dellYAlbania). Se i l popolo aggredito è sopraffatto dalla forza, cede e s'instaura un governo di fatto che non è legittimo ma usurpato; è allora che la forza diviene potere. Perchè il nuovo potere possa divenire legittimo non basta che il re o i capi vinti lascino il regno cedendo alla forza, occorre che l a popolazione accetti il nuovo ordine di cose. Se questa accettazione è forzata, non costituirà mai una legittimazIone. Solo col tempo potrà divenirla quando, cessata ogni idea di rivincita, si opera quell'adattamento spontaneo che diviene un nuovo ordine; ma allora la volontà collettiva di legittimazione saxà implicita nella volontà di cooperare a questo ordine di fatto per il meglio o il meno peggio della popolazione stessa. Potrà avvenire che l'accettazione popolare sia esplicita, a mezzo di plebiscito, come si usa modernamente; tali plebisciti sono spesso delle mistificazioni; onde il potere dell'usurpatore --C rcaia legiiiimaio iormaimente, non mai sostanzialmente, finchè non si forma una vera. coscienza collettiva di adesione e di accettazione del nuovo ordine di cose. Se tale coscienza non si forma mai, se invece si crea un dualismo costante tra la popolazione e l'usurpatore (casi storici: l'Irlanda sotto i1 dominio inglese e l a Polonia divisa sotto l a Russia, la Germania e l ' h stria), allora il potere rimane sostanzialmente illegittimo pur essendo governo di fatto; esso è potere, ma non è autorità. Nè il riconoscimento detto de jure che gli stati usano scambiarsi fra di loro, potrà mai sostituire la volontà popolare nel legittimare un potere di fatto. I1 riconoscimento de jure come res inter alios acta, non può avere altro valore che precisare il carattere dei rapporti degli stati Ga di loro. Potrà influire,~fino a un certo punto, sulla volontà del popolo ad accettare il fatto compiuto, ma potrà anche non influire affatto; perchè sempre l a volontà di un popolo potrà revivere e divenire padrona d i sè. I1 potere di un usurpatore in tale caso resta, in confronto a l popolo, u n potere di fatto, pur essendo stato riconosciuto de jure dagli stati con i quali esso è in relazione. Coloro che contrappongono l'origine del potere d a l popolo all'origine del potere da Dio (sia per affermare sia per negare la frase di san Paolo) fanno un'enorme confusione che sarà bene dissipare. La questione è sorta i n due tempi. Primo tempo: i re contro i papi; i re rivendicavano l'origine divina del loro -n--


potere per sottrarlo al controllo morale e politico della chiesa; donde venne la teoria del diritto divino dei re, teoria che l a chiesa cattolica si rifiutò d i accettare. Secondo tempo: la chiesa cattolica contro la sovranità popolare alla Rousseau, in quanto presupponeva una natura buona (negazione del peccato di origine) e non aveva limiti (neppure morali e religiosi). Le due tesi: diritto divino dei re e diritto sovrano del popolo, sotto due forme antitetiche, fanno del potere un principio assoluto, sicchè esso non può divenire, quel che deve essere i n risoluzione definitiva. una vera autorità. Abbiamo notato più sopra i tre momenti del divenire della società: quello della forza, quello del potere e quello dell'autorità. Non ogni forza è potere, ma solo quella che arriva a dominare sugli altri. Non ogni potere è autorità, ma quello che è legittimo, cioè associato al diritto. Infine non vi è mai un diritto che sia scompagnato da un dovere, suo correlativo; cioè non vi è mai un diritto assoluto, illimitato; per essere diritto è sempre relativo e limitato. Così, nel dinamismo sociale, solo la autorità ha il giusto esercizio del potere e l'uso della forza, p:rchè il diritto del potere e della forza è limitato dall'obbligo morale di legalità, giustizia. equità. I1 significato della frase di S. Paolo che cc non vi è autiorità (potestas vale autorità e non potere nel senso dato sopra) se non da Dio B ne indica il carattere etico: Dio, e solo Dio, nel dare all'uomo autorità sopra u n altro uomo, e nell'obbligare l'uomo a sottoporsi all'uomo, (cioè nel fare l'uomo socievole) ha assegnato i limiti morali derivanti dalla natura stessa dell'autorità, che è un ministero. un servizio alla collettività. Cristo volle nella sua chiesa rendere ~ e r f e t t oquesto ministero, togliendovi tutto quello che sa di dominio, spogliandolo della mondanità del Dotere e svelandone la sua essenza. di ministero. cc Scitis quia principes gentium dominantur eorum et qui maiores sunt potestatem exercent in eos. Non ita erit vos; sed quicumque volwrit inter vos maior fieri sit vestm rninister D, (Matth. XX, 25-26). I1 limite insuperabile che la natura etica dell'autorità pone all'esercizio del potere possiamo chiamarlo ora diritto, ora dovere, ora responsabilità. Tale limite proviene da due fonti, dagli investiti dell'autorità (re, parlamenti, governo etc.) e dai sudditi. Gli uni e gli altri sono persone umane, hanno perciò gli uni e gli altri dei diritti, dei doveri e la responsabilità dei loro atti; in una parola, essi sono dotati di libertà. Come l'autorità viene da Dio così la libertà viene da Dio. Nulla c'è d i buono che non venga da Dio, e la sua impronta è in noi sempre in ogni suo dono. La libertà, come l'autorità, non può

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essere assoluta; sarebbe inumana, non sarebbe elemento sociale ma antisociale. Negherebbe quel diritto, quel dovere e quella, responsabilità, che abbiamo visto essere limiti dell'autorità. Essi sono anche-i limiti della libertà. Si sogliono mettere autorità e libertà come in antitesi: no, sono due fattori sociali che fanno sintesi, perchè trovano lo stesso limite che li rende effettive e morali, cioè il diritto correlativo al dovere e la responsabilità personale nell'esercizio del diritto e nell'adempimento del dovere. L'origine divina dell'autorità e della libertà non è . altro che il riconoscimento che Dio è autore della società umana, cioè che Egli ha creato l'uomo sociale e ha imposto i limiti morali ai rapporti degl'individui fra di loro nella unità effettiva del corpo sociale. L'uomo che non riconosce il limite morale dell'autorità, o il limite morale della libertà, si ribella a Dio perchè nega la natura stessa della società, e tenta di sollevarsi al dissopra degli altri uomini, misconoscendo i diritti e ,violandone la personalità. Se la ricerca dell'origine umana dell'autorità ci porta al popolo come volontà collettiva, l'origine umana della libertà ci porta alla persona come individuo. Coloro che negano il libero arbitrio di ciascun uomo, non si sa come possano poi cantare l e iodi delle libertà civili e politiche di un popolo. Coloro che negano la responsabilità morale delle azioni umane, non si sa come possato pretendere che. tutti i cittadini partecipino al potere dello stato. Noi, e per convinzioni filosofiche e per professione cristiana, siamo convinti della libertà del volere umano e della responsbilità morale delle nostre azioni; perciò possiamo parlare della nobiltà della persona umana, dell'eguaglianza e fratellanza spirituale degli uomini; e possiamo guardare le libertà civili e politiche come foglie fiori e frutti di una pianta che espande la sua linfa e matura la sua vitalità. È per questo che noi non facciamo della libertà un assoluto. La libertà è limitata; la licenza è illimitata; ma dove c'è licenza cessa di esservi la libertà. Se il brigante, il gangster, può rubare, frodare, intimidire e uccidere impunemente, il cittadino non può più vivere tranquillamente nella famiglia, nella professione, nel mercato; il magistrato è soverchiato, il poliziotto è disarmato o corrotto, tutto l'ordine civile .ne soffre; diminuiscono gli affari, è insicura la vita, i poveri aumentano... Dov'è più la libertà? La vera libertà è nell'ordine, non nel disordine. Ma che è mai l'ordine? Che tutto sia al proprio posto. L'ordine non è mai perfetto; l'ordine è sempre in marcia; un ordine dinamico. non mai u n ordine statico. Un fiume h a le sue dighe per non straripare, ma sempre si muove e urta le dighe,


e queste sempre debbono essere rinnovate o consolidate. Così la libertà ha i suoi limiti, che creano l'ordine: la libertà si muove, l'ordine si rinnova. Quali i limiti della libertà? Due, la legge che precisa i diritti e i doveri di tutti e la responsabilità personale che crea l'auto-disciplina dei buoni (gli osservatori della legge) e la punizione dei malvagi ( i violatori della legge). Nell'autocrazia, nell'oligarchia di classe o di casta, nella dittatura totalitaria, si dà poca o nessuna fiducia alla persona individua, alla sua educabilità, all'auto-disciplina, al senso di responsabilità: si pensa che solo i capi, le loro cricche, le caste superiori possano governare e godere dei privilegi del potere. Essi sottopongono gli altri alla legge, negando loro ogni libertà. Così arrivano a negare la personalità umana nei soggetti, perchè per quel poco che la riconoscessero, do$rebbero concedere la corrispondente libertà. Nel concreto storico, ogni forma sia pure mdimentale di civiltà, riconosce un minimo di personalità umana, ed è quel minimo che diviene libertà e responsabilità. Di questo minimo di libertà si sono formati i filoni aurei della civiltà, si sono ottenute le conqaiste socisli inaIicria5:IIP. La libertà religiosa di predicare il Vangelo fu conquistata attraverso secoli di lotte e di martiri; e si riconquista allo stesso modo oggi se viene totalmente negata. La libertà personale degli schiavi a essere liberi si è insinuata attraverso l'affrancazione' domestica, la monasticà, la comunale, per. arrivare a quella sociale-politica. La libertà della donna è cominciata con la rigida monogamia cristiana, per arrivare fino alla parità coniugale, economica e politica. Così via via, per un'esperienza storica lunghissima e mai finita, perché essa per vari aspetti storicamente si riproduce e si rinnova. Ogni qualvolta prevale u n sistema di oligarchie, la libertà della persona umana si restringe fino a formarsi un cerchio sociale chiuso, sigillato da una concezione pseudo-religiosa che nega il libero arbitrio e la responsabilità indiciduale. I1 processo dinamico è sospeso. Occorre un sussulto veramente religioso, fondamentalmente cristiano, per riprendere il dinamismo della civiltà nell'affermazione della libertà e responsabilità della persona. Se l'una diga della libertà è la responsabilità individuale, l'altra diga è la legge. Questa è nella coscienza del popolo espressione di " giustizia e di moralità. L'autorità sociale non crea la legge, la riconosce; non la inventa ma la formula, l'adatta, l'attua. La legge nasce, come la responsabilità, dalla natura sociale e morale dell'uomo. Essa può essere formulata in due maniere.


Una etica negativa: non fare agli. altri quel che non si vorrà che sia fatto a sè stesso »; - l'altra @ridica positiva: « la consistenza dei diritti nel riconoscimento dei doveri reciproci D. Le leggi in concreto devono tradurre in norme generali e in precetti particolari questi due aspetti della legge in astratto. L'autorità è quella che le formula e le fa eseguire: potere legislativo, amministrativo, giudiziario. Così la società umana è il risultato di autorità e libertà. Dove c'è equilibrio fra questi due fattori permanenti vi è ordine. Dove prevale l'una a danno dell'altra, c'è squilibrio, l'ordine ne è turbato, la legge è alterata a vantaggio d i pochi, l'attività umana ne soffre, l a società si agita; perchè la libertà senza autorità è licenza e l'autorità senza libertà è tirannia. I n democrazia si tende a realizzare la riunione di autorità e di libertà in un orcline al quale partecipano, per diversi gradi e con diversa responsabilità, tutti i cittadini maggiorenni, uomini e donne, con esclusione solo dei pazzi, dei criminali e degli inabilitati. Se ci mettiamo a guardare l a storia da mesto punto di vista, troveremo che le linee delle conauiste della civiltà' menano a questo sbocco. Però, non essendo questa che una tendenza storica non mai un'evoluzione necessaria per legge fatale, - o meglio essendo un'accettazione morale, un fatto di coscienza così non potrà mai realizzarsi appiéno se la coscienza collettiva non ne sente il bisogno, non ne accetta i postulati, non ne supera le ripugnanze egoistiche della rinunzia al predominio di classe (rinunzia implicita nell'ordine democratico), infine se non si vinsono i pregiudizi di carattere religioso che vi si insinuano di riflesso. È perciò che oggi si è arrivati solo a delle parziali sperimentazioni di democrazia, che implicano crisi ricorrenti e periodi, più o meno lunghi, di eclissi. I1 problema fondamentale è quello della coesistenza, correlazione ed estensione del binomio autorità-libertà »; esso è alla base di ogni sana democra1 zia ; e d è vera democrazia quella dove tutti partecipano (secondo le proprie possibilità) all'equilibrio dinamico di « autoritàlibertà ».Da u n lato la personalità individuab con i suoi diritti (libertà), dall'altro lato la comunità sociale - regno-stato-contmonwealth-Società d i nazioni, - con i suoi diritti (autorità). Nella pratica, può sorgere il conflitto fra i due e sorge semp r e ; quale dei due deve prevalere? - Certamente, quello che ha il diritto dal suo lato. Ma, chi giudicherà, in democrazia? di tale diritto? e nel caso del conflitto tra due diritti coesistenti, l'uno della persona l'altro della comunità, quale dovrà essere ritenuto prevalente da chi dovrà giudicare? Nel modo come si

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risponde a queste due domande si potrà vedere se si ha o no chiara l'idea di una vera democrazia. Perchè l'essenza della democrazia consiste nel rendere il popolo e i suoi organismi (che ne sono diretta o indiretta emanazione) coscienti del valore dei diritti individuali e collettivi ( e dei doveri comspondenti) e della loro coordinazione o subordinazioqe secondo i casi. I n democrazia l'opzione e decisione politica appartiene agli organismi tecnici e responsabili; ma il giudizio di valore è un giudizio popolare. Gli organi dell'autorità ( ~ a r l a m e n t o ,governo, magistratura, presidente o re) debbono essere costituiti per volontà popolare. I1 re può essere ereditario, ma vi è i n tal caso una costante presunzione di volontà popolare che si confonde col sentimento di attaccamento alla casa regnante e d i fiducia ch'essa rappresenta la garanzia del regime democratico e il simbolo della nazione. Se un re non riscuote tale fiducia, il regime democratico stesso ne è compromesso. I n ogni altro caso, la elezione popolare è a base di ogni vera democrazia. L'elezione è un atto di autorità basato sulla libertà; è la prima e la piii elementare sintesi dei due termini, siratesi che riscontreremo in tutti i gradi dell'organizzazione democratica. La democrazia moderna è stata parlamentare, perchè non poteva nè concepirsi nè attuarsi un governo diretto di popolo per le nazioni, che anche piccole come il Belgio o l'Olanda, hanno tale complesso di popolazione da non essere paragonabili con Atene, dove gli schiavi e gli iloti non contavano come cittadini,, o' con le prime repubbliche italiane dove non erano compresi il contado rurale e i servi della gleba. Oggi vi è uno scontento molto diffuso del sistema parlamentare; in Francia si arriva, presso certe zone di opinione, al disprezzo, all'odio anzi, quale può capitare a persona intensamente amata, che poi nella delusione dell'amore viene rigettata e di cui non si vuole più sentire il nome. Ciò non solo nelle file degli autoritari e totalitari (che sarebbe naturale), ma presso gli stessi democratici. In Inghilterra un tale sentimento è meno diffuso, anzitutto perchè il parlamento h a una gloriosa tradizione e le tradizioni vi hanno un valore inestimabile e costante; secondo perchè il parlamento inglese non è stato mai lo stesso; si è evoluto secondo i tempi, in una continuità storica di sette secoli e con un'interiore virtù di adattamento degna di ammirazione. Anche oggi che prevale la democrazia il parlamento inglese potrà trovare quei nuovi adattamenti alla realtà democratica che si va maturando. Perchè negare la possibilità di ulteriori adattamenti ai bi-


sogni di oggi ai parlamenti di America, di Franc'ia e degli altri paesi di convinzione democratica? I1 vero parlamento democratico deve essere ancora creato: quello che fin oggi è esistito è stato il parlamento liberale della borghesia del secolo passato, unito a certe sopravvivenze aristocratiche (come .in Inghilterra), e alterato recentemente dalle anticipazioni politiche del-, le classi lavoratrici, che vi fecero capolino appena trenta o quaranta anni fa. Le classi lavoratrici, arrivate tardi alla vita parlamentare (oggi anche le donne in alcuni paesi) non hanno avuto sufficiente esperienza politica, per potere éssere mature ad una corresponsabilità del potere con le classi borghesi che l'hanno precedute da tanto tempo. Per giunta, i partiti del lavoro, sòcialis t i o sindacalisti, portano spesso una mentalità di classe strettamente economica e una certa mancanza di comprensione intuitiva del complesso della vita nazionale e internazionale. Ecco una difficoltà delle più gravi per un parlamento ,democratico del 1940, che rende difficile o tardiva l'evoluzione di u n istituto che in democrazia non sembra sostituibile. Qui bisogna inserire, nella nostra indagine, un problema che può sembrare alieno dal tema che stiamo esaminando ( l a dinamica di libertà autorità i n democrazia) ma che invece ne tocca uno dei punti più delicati. È il problema delle cosi dette classi politiche, o èlites politiche o gruppi dirigenti. I n sociologia non si è ancora fissato un termine accettato da tutti per designare còloro che in un dato momento assumono la direzione e la responsabilità del governo e ne tirano i vantaggi immediati. I n una concezione eeualitaria della società. come sarebbe la democrazia individualista alla Rousseau, non ci dovrebbero essere gruppi o classi dirigenti: come tutti eguali avanti la legge così tutti eguali anche in politica. I comunisti ( o anche i socialisti ortodossi) aggiungono: così tutti eguali anche in economia. I1 principio di eguaglianza, così inteso (una specie di livellamento) ci porterebbe ad una forma statica di società con la trasposizione di tutta la libertà nell'autorità per impedire ogni differenziazione di classi, gruppi e individui. Sarebbe la negazione di ogni vera società: questa è tale perchè gli uomini sono diversi, dalla cellula 'familiare alle più alte speculazioni del pensiero e alle più elevate cime della moralità e del genio: individui e gruppi si completano nella loro insufficienza personale. Nel piano politico, una democrazia equalitaria sarebbe una tirannia dove non c'è più posto per la libertà: tutto lb sforzo degli organi direttivi e governativi sarebbe quello di sopprimere ogni tentativo di differenziazione, che sarebbe la rinascita della libertà individuaIe.

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Noi, invece, volendo la libertà per tutti e il dinamismo ch'essa crea nella società. ammettiamo come conseguenza la formazione' delle élites dirigenti. Noi partiamo dal principio che una libertà fuori del regime democratico sarebbe una libertà solo per la classe di governo; e una democrazia che non sia basata sulla libertà sarebbe il dominio di un gruppo, quello che ha il comando. Gli altri, nei due casi, subirebbero gli effetti di tale dominio, che può arrivare alla tirannia. La vera democrazia è libera. Ma perchè libera essa non nega l'esistenza delle classi di governo ( o élites dirigenti). I1 vantaggio della democrazia è che esse non sono fisse per nascita come nei regimi aristocratici; nè legate al censo come nelle borghesie mercantili; nè al valore fisico come nelle comunità militari, e così di seguito; ma sono aperte a tutte le classi, categorie e gruppi di cittadini, anzi a tutti gl'individui che emergono dalla media collettiva e che partecipano più attivamente degli altri ai dibattiti della vita pubblica. Questa selezione potrebbe dirsi automatica, in seno a tutta la società; non è automatica ma liberata da ogni limite fittizio esteriore e lasciata alla virtù selettiva delle attività umane. Si suole dire che in democrazia prevalgono i mediocri e gli intriganti, hanno voce i demagoghiSe i retori. La storia ci presenta demagoghi e intriganti; mediocri e rètori in tutti i regimi, compresi i totalitari (se questa esperienza di pochi anni può avere appello sulle persone sensate e studiose). Demagoghi, cortigiani e Tartufi in quale società politica sono mancati? Forse sono mancati nelle corti di Luigi XIV, di Elisabetta d'Inghilterra, di Federico il Grande? Dato lo spirito antidemocratico oggi diffuso, si è maggiormenté sviluppata una psicologia i n opposizione alla partecipazione delle classi del lavoro alla politica, quali élites dirigenti; le borghesie alte e medie, che hanno avuto in mano il potere politico per più di un secolo, hanno diffidenza, paura anche, dell'avvento politico delle classi del lavoro. I1 bolscevismo russo ha dato l'esempio della soppressione violenta di ogni altra classe, a nome della dittatura del proletariato. Dall'altro lato i partiti socialisti e comunisti dell'Europa si sono presentati nella vita politica come rappresentanti di una classe economica ( i l lavoro) in opposizione alle altre classi, dette capitaliste; con l'intenzione, confessata o implicita, di servirsi della democrazia parlamentare per sovvertirla ed arrivare alla dittatura del proletariato. Ecco quel che dai due lati sterilizza il dinamismo della formazione delle élites, mettendo i due gruppi sul piano della lotta. E d eccoci al punto di partenza: la formazione. delle élites u

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politiche, per quanto contrastata da interessi in urto, è alla base di una vera democrazia, perchè gli organi di comando, la macchina amministrativa e governativa debbono essere a 5 d a t i a gente capace, allenata, pronta ad assumere le responsabilità e a risponderne in faccia al parlamento e al paese. Come in una fabbrica non si può essere macchinista o ingegnere o direttore senza la capacità, così nella società politica non si deve arrivare a esserne dirigenti senza le qualità necessarie e il tirocinio sufficiente. Dippiù, la direzione politica di un paese deve potersi alternare fra le varie correnti, secondo l'orientamento pubblico e i modi di guardare i problemi pratici dell'ora. Le élites-debbono essere diverse, e tutte preparate e aperte alle sane correnti d'idee e ai movimenti più imprevisti. I1 potere a lungo in poche mani o in circoli chiusi, diviene troppo personale e si allontana dal contatto dell'opinione pubblica. 'È da notare che. è impossibile che le larghe élites possano formare la loro esperienza politica solo al centro d i governo. L'esperienza va dal piccolo al grande, dalla periferia al centro, nadai consigli locali e dalle libere assemblee popolari - - a-.quelle zionaii. ii giornaiismo, le tecniche discussioni pubbliche, ie assise dei partiti, le università servono a far conoscere i problemi, o educare all'uso della libertà, a dare risalto alle personalità meglio dotate, ad allenare alle lotte civili. Senza le libertà politiche in esercizio, le élites politiche non avrebbero il modo opportuno di formarsi, e senza tali élites non potrebbe realizzarsi una vera democrazia. Tutto il popolo è potenzialmente un'élite; il popolo in democrazia deve arrivare alla formazione basilare di una coscienza politica collettiva. Però esso, come massa informe, non può agire sul piano politico ; occorre che sia. organizzato. I1 partito è nato da questo bisogno iniziale. 'Fino ieri, il partito era l'espressione dei gruppi politici della borghesia ricca, dell'intellighentia e delle classi medie, le quali formavano l'elettorato censitario. Fu quella una prima .selezione d i élites che non poteva non essere transitoria, mentre la folla operaia batteva alle porte della vita politica. Il suffragio universale esteso alle donne ha decuplicato la massa elettorale; gli antichi partiti non hanno più la possibilità d'inquadrare tanta folla e renderla organica. Per una specie d'istinto di difesa, i dirigenti dei partiti sono divenuti autoritari; le file dei soci formano una certa opinione immediata, che tende a correggere l'autoritarismo dei capi, solo quando non h a interesse a solidanzzare con essi; sicchè la massa elettorale viene mossa solo da sentimenti elementari e immediati. Tutto ciò è della democrazia rudimentale, che facilmente

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devia sulla china del dominio dei capi-gruppo (quali un tempo i cacichi spagnoli, i ras italiani e le cliques francesi). I partiti socialisti e comunisti non sono riusciti a essere veri partiti, per restare organismi di classe. In Inghilterra c'è da un lato la burocrazia tradunionista e dall'altro i comitati centrali dei conservatori e liberali; gli uni e gli altri hanno accentrato ogni iniziativa politica; e per le enormi spese che comporta la campagna elettorale, l'hanno ristretta a vere coteries chiuse. Se ciò non sarà corretto da sistemi di elezione più aderenti alla realt*à, si avrà un arresto nella formazione di una vera democrazia. A correggere il monopolio di partito, valgono molto i gruppi liberi di orientamento e di opinione quali in Inghilterra la League of Nations Union, e quale dovrebbe essere la Freedom and Peace; in Francia, oltre le molteplici iniziative di cultura, da poco soti0 sorte a questo scopo Les Nouvelles Équipes Francaises (NEF) e l'Energie Francaiss. Ma su tutte avranno funzione di orientamento le chiese, se esse arrivano a rendersi conto di quale sia la loro specifica funzione in un regime di libera democrazia. Perchè l'orientamento etico-religioso ci dà più chiara la portata e i limiti morali dell'auto~ità e dclla libertà, in tutti i gradi dell'organismo sociale, dall'elettorato popolare fino al capo dello stato. L'orientamento etico-religioso agevola quel che abbiamo detto essere alla base della democrazia, cioè il giudizio di valore. Questo è spettanza del popolo ed un suo giudizio di coscienza, che deve influire su coloro che, nei diversi organismi sociali, sono investiti di autorità. Quando è loro domandata una decisione, un'opzione politica, anche se si presenta sotto aspetto puramente tecnico e pratico, non solo non deve contraddire all'orientamento della coscienza popolare, ma deve essere in armonia con il suo giudizio di valore. Perchè si possa arrivare a simile risultato occorre un'organizzazione che sia allo stesso tempo libera e responsabile, spontanea e disciplinata. I n termini sociologici si parla di quattro specie di libertà. che formano nel complesso la vera libertà. La prima, l'abbiamo visto, è la libertà originaria. Questa non è un'astrazione filosofica, nè u n momento storico già passato, è una realtà sempre presente e sempre potenziale. Ci si accorgerà che esisteva quando ci viene a mancare, come l'aria. Austriaci, Cecoslovacchi, Albanesi, Ebrei hanno compreso ch'erano liberi oggi che non lo sono più. Ma se ne proverà la sua esistenza in atto quando essa viene incarnata in organismi che ci permettono di liberamente agire; cioè quando diviene libertà organica. Sempre ci sono degli organi sociali, ma non sempre c'è la libertà organica; essa c'è quando la società ha conservato la sua libertà originaria, cioè lo spirito di libertà. L'Austria chiamata

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m

- Politica

e morale


il 10 aprile 1938 al plebiscito sotto l'occupazion~militare dYHitler e con il suo fato già segnato, aveva l'organismo elettorale ina non aveva la libertà organica. I1 Reichstag germanico del 30 gennaio 1939, che ha approvato la prolungazione del « piano quadriennale », senza nè esame preventivo, nè discussione, nè voti personali, nè riserve, nè opposizione parlamentare, ma solo per unanime e sincrona alzata in piedi dei 600 rappresentanti, non poteva dirsi libero. I1 detto piano quadriennale comporta i problemi più ardui dell'ora presente: autarchia, controllo dei cambi, settimana di lavoro di 60 ore, aumento di armamenti. Erano forse liberi i deputati del Reichstag di votare contro la proposta del maresciallo Goering? Ci si può domandare perchè non erano liberi. Ognuno dei 600 membri poteva rompere la catena e assumere la sua responsabilità; se non lo fece, f u perchè o convinto che il nuovo sistema rispondeva alle esigenze elementari del suo paese O per il principio del minor male. Se ciò potrebbe scusare il singolo, non è applicabile al complesso organico che gl'individui formano. Qui manca la libertà ;è l'organo arrestato nel suo funzionamento, ogni sforzo individuale sarebbe destinato a cadere. tranne che non si vogiia rivendicare di nuovo la sua libertà originaria. Questo, che i filosofi chiamerebbero momento dialettieo della libertà, può indicarsi come libertà finalistica. È stato detto sempre dai teologi e dai filosofi, che la libertà è un mezzo, non u n fine; è una qualità dell'azione non il fine dell'azione; e ciò è esatto. Ma la rivendicazione della libertà sociale, in concreto la tale o tale libertà, del suo spirito incarnato in u n sistema sociale, del suo metodo attuato nella vita politica, può divenire un fine dell'azione. Allora la libertà viene concepita come un'bene, un bene degl'individui e della società, per l'acquisto o la conservazione del quale è dovere, o potrà essere dovere, anche'sacrificarsi. La libertà non è un fine ma un mezzo. Ma c'è forse un mezzo che non divenga fine immediato quando esso ci manca o non è sufficiente per il nostro scopo? I1 denaro è un mezzo per acquistare una casa. Chi non lo ha lo cerca:' il denaro (mezzo) la casa (fine) nel momento dialettico dell'azione s'identificano. E così via. L'esempio del denaro non ci devii: la libertà è un dono spirituale, u n bene per sè stesso, che rende noi abili a cercare il bene fuperiore e a farci godere del bene come conquista spirituale: merita quindi tutti i sacrifici, anche se è considerata come mezzo. E non solo la libertà come valore spirituale in sè, ma tutte quelle garanzie che rendorio, in u n datò momento storico, effettiva la libertà sociale. Oggi queste garanzie sono le libertà dette politiche ( o formali) quali la libertà di voto, di parola, di riunione e di stampa; così nel medioevo erano le libertà


o privilegi delle gilde, dei comuni, delle università, dei corpi franchi; come a Roma antica era il tribunato della plebe, i n Atene il diritto dell'ostracismo, e così via. Se queste garanzie mancano, allora la rivendicazione della libertà è fatta con metodi rivoluzionari, con le rivolte armate e le guerre civili. Cioè con mezzi che sembrano portare alla libertà, ma che contengono implicitamente la negazione morale e giuridica della libertà. 111 mezzo unico, veramente spirituale, per conservare la libertà quando si possiede, consiste nel rifarne sempre l'esperienza, riviverla nella sua originalità fondamentale. Un generale svizzero ha detto nel gennaio scorso: « Vale meglio morirè ch'essere ridotti in servitù ». Così egli riproponeva ai suoi concittadini il problema della libertà. Forse i Cechi oggi pensano lo stesso, senza poterlo dire ad alti, voce, dato che la polizia e l'armata hitleriana occupano le loro contrade, messe sotto il protettorato di Berlino. Ma c'è un'altra riconquista, che è quella di tutti i giorni. I n democrazia l'uniformità, l'accentramento, la legge di maggioranze, le élites anchilosate, i partiti burocratizzati rendono difficile l'esercizio delle libertà; ci vuole quel risveglio, quella convinzione, quel passaggio della libertà da mezzo a fine, che rifà lo spirito del pubblico e rinnova gli organismi invecchiati della macchina politica. Ed eccoci al punto decisivo del nostro studio: la libertà, così concepita, è nella sua essenza partecipazione al potere; la libertà organizzata è a u h r i t à : l'autorità è libertà organizzata.. La concezione individualista (che si suole chiamare liberale per una somma d i equivoci storici e di controsensi filosofici) è insufficiente, inesatta, e arriva ad essere egoista : è 1:utilitarismo elevato a sistema : ciascun individuo libero di cercare il proprio vantaggio; la somma dei vantaggi individuali forma il vantaggio collettivo: così ebbe voga la teoria economica del lasciar fare e del lasciar passare, e in politica quella del non-intervento. La concezione democratica nacque non sulla libertà ma sull'eguaglianza, e portò all'intervento statale in materia economica e sociale. Ne vennero le leggi sociali, che parvero nel loro annunzio addirittura rivoluzionarie e antiliberali. Ma esse contenevano una garanzia necessaria alla libertà individuale ; quella di uno standurd di vita normale come base-di una democrazia libera. Quale libertà potrebbe godere l'operaio costretto a lavorare'da 12 a 16 ore al giorno, come un secolo fa, o un miserabile disoccupato senza assicurazione o l'emigrato messo fuori da ogni garanzia sociale? La democrazia ateniese era la democrazia di forse 40 mila cittadin'i, non di 100 mila schiavi o iloti. Nella

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società moderna c'è ancora una massa non specificata, nè assimilata (operai senza garanzie, disoccupati, emigrati, rifugiati, rifugiati politici, apolidi) che non partecipano alla vita collettiva se non sotto l'aspetto di un ingombro sempre crescente e preoccupante; sono degli schiavi di un sistema insufficiente a inglobarli e a.farne dei cittadini di una democrazia veramente tale, completa e organizzata. Occorre arrivare alla più larga espressione della partecipazione di tutti alla vita collettiva, nel doppio aspetto di libertà e autorità. Noi siamo ancora ad una fase incerta dell'organizzazione sociale, perchè non si arriva, non solo nel campo politico, ma più ancora in quello economico, ad armonizzare libertà e autorità, concepite come sono state finoggi, antitetiche l'una all'altra. ritenute auasi al di fuori e non mai immanenti in u n regimi democratico. La concezione materialistica della vita ne è stata la vera causa. Ouanti dei vecchi democratici non si sono detti che essi non aveyano nulla a vedere con la libertà (concepita come liberalismo)? E quanti, anche cristiani, non hanno fatto buon viso alla frase di un dittatore, ch'egli era passato sul cadavere della libertà? È che essi non pensavano che la libertà politica è « partecipazione cosciente e organizzata al potere sociale per un fine comune ».Filosofia astratta? no; realtà effettiva. I n democrazia. libertà e autorità coincidono nei fini e nella estensione, si differenziano solo nel metodo e nei mezzi tecnici. Come il corpo elettorale è libero di scegliere i suoi rappresentanti e allo stesso tempo quella scelta è atto di autorità; così il parlamento è libero di approvare una legge e quando l'approva fa atto di autorità; cosi il governo è libero di proporre un trattato e quando lo forma fa atto di autorità. Ciascun organo così influisce sull'altro tanto quanto è libero e tale libertà non impedisce l'esercizio dell'autorità che vi è correlativa e immanente. Estendere questo principio alla vita economica sarà il compito di una vera okmocrazia sociale. , Affinchè l'esercizio di libertà-autorità per ciascun individuo nel suo rispettivo quadro organico, possa arrivare ad essere efficace produttore di bene, degno di una sana democrazia, occorre che ciascuno ne abbia coscienza, che ne abbia il senso di responsabilità, il senso del valore morale delle nostre azioni, la volontà della ricerca del bene comune nella cooperazione di . tutti. Quale forza immensa si può sviluppare da una simile concezione della vita pubblica! Si dirà che è un sogno. E tale sarà, finchè ne manca l'educazione che genera la convinzione, la spinta mistica che dà il senso di un dovere superiore.

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Arcb. 1 A, 1 Databile attorno al 1940.


16. AUTOGOVERNO E SUOI LIMITI

Note sulla democrazia È vecchia la disputa se si dà libertà senza democrazia e democrazia senza libertà; tale disputa oggi si rinnova fra i democratici u tradizionali » dell'occidente e i (C nuovi 11 democratici dell'oriente. A chiarire, preliminarmente, i termini della questione, occorre precisare cosa s'intenda per demos popolo D. I n Grecia - donde abbiamo il termine democrazia - non erano considerati popolo nè gli schiavi, nè gl'iloti, ma solo i cittadini. Così anche in Roma, dove al posto di una democrazia fu creata la diarchia di senato e plebe (Senutus Populusque Romanus). In regime feudale, i servi della gleba non erano cives neppure nelle gloriose repubbliche medievali. Ciò non ostante, nessuno nega che in Atene ci fosse stata una democrazia e che in Roma repubblicana certi lati del regime fossero democratici e che democrazia ci fosse in molti comuni e città libere medievali e nei cantoni svizzeri. Nei tempi moderni, una prima e più grande democrazia sorse i n America, dove la schiavitù vi durò per quasi un secolo e dove la discriminazione sociale e politica di razza non è scomparsa. Nei paesi scandinavi la servitù della gleba scomparve nel tardo ottocento. Nella Gran Bretagna il suffragio allargato (non ancora universale) ebbe inizio nel 1882, e il suffragio universale femminile nel 1920. In Francia e in Italia le donne hanno ottenuto il diritto di voto nel 1945, e non ancora è stato loro dato in Svizzera, nel Belgio e nell'olanda. Questi cenni valgono a indicare che in democrazia (C popolo 1) è una nozione che varia secondo i tempi e i luoghi, ma che non pertanto ne è la nozione basilare. I1 secondo problema, che nasce dal primo, è se d o k c'è democrazia ci debba essere anche libertà. La risposta non può essere che affermativa, perchè non si può dare « crazia D dove il popolo (nel caso, il demos in atto, sia quello di Atene nel secolo


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V avanti Cristo, sia quello degli Stati Uniti d'America del 1946) non sia libero di governarsi da sè. Qualunque sia l'estensione materiale del popolo come u volontà politica collettiva D, nel suo ambito ci deve essere libertà. Se'questa non c'è non ci può essere vero governo di popolo. Cicerone dice che l a libertà è la partecipazione a l potere, e d ha ragione sotto il duplice e combinato aspetto dei diritti civici e delle libertà politiche. I1 despota ha egli solo diritti e libertà; altri possono partecipare all'uso dei suoi diritti e delle sue libertà ma per concessioni unilaterali e temporanee, che il despota stesso può ritirare ad ogni momento. Nei regimi aristocratici, sono le famiglie privilegiate che 'godono diritti e libertà secondo graduazioni gerarchiche e tradizioni intangibili. Nei regimi misti, anche altre classi e corpi - terzo stato, città libere, corpi di mestiere, chiese - godono quella libertà caratterizzata da privilegi e franchigie, che hanno acquisito con l e lotte, le rivolte e la congiura (Magna Charta in Inghilterra). Ma in tali casi si tratta di classi chiuse e privilegiate e non di popolo. La democrazia è solo tale quando la partecipazione al potere è un diritto inalienabile del popolo -quello che in un dato momento storico è reputato essere i l vero po\*o!c - che gcde pertiiiìta di iiiiri sovraniià che egii esercita o 1direttamente o a mezzo dei suoi rappresentanti. La libertà è quindi insita nella nozione d i democrazia, sì che l à dove non c'é: libertà non ci può essere democrazia reale ma solo apparente. La libertà comporta due aspetti, quello dei diritti civili ( o dell'uomo) e quello dei diritti politici. I primi: - la legge uguale per tutti, il diritto alla vita, il diritto di proprietà, l'habeas corpus e così via, non possono essere negati a nessuno, sia in forma potenziale (minorenni, prigionieri, mentecatti, emigrati in corso di naturalizzazione) sia in forma attuale per ciascun cittadino uomo o donna. Ogni privazione di tali diritti è una lesione che affetta non solo l'individuo, che non ha così la pienezza della sua capacità, ma la stessa comunità; lede, quindi, in radice, il regime democratico. Le franchigie politiche sono state fin'oggi una conquista più lenta e pur ammettendo che la discriminazione .fra elettori e non elettori, produce una grave mutilazione nel corpo collettivo del popolo (come pe'r esempio l a mancanza d i diritti politici alle donne), la democrazia come tale, dato il graduale sviluppo della coscienza politica, non perde la sua natura di regime d i popolo, se quella parte della popolazione che forma politicamente il popolo-in-atto sia anche il garante dei diritti d i coloro che politicamente sono considerati come minorenni. I1 punto che differenzia i l vecchio regime parlamentare'degli stati o categorie e quello democratico (sia pure u popolo I


limitato), si è che il primo tende di sua natura a mantenere i diritti chiusi dentro i privilegi di ciascun stato e quindi a fossilizzarsi, il secondo tende ad estendere la nozione di popolo fino a comprendervi tutti gli adulti; è quindi dinamico di sua natura. I1 processo di democratizzazione di un paese è per sè u n movimento interiore, che parte dalla coscienza che h a il popolo che la comunità sociale. ha un diritto inalienabile di governarsi da sè, diritto che va conquistando, per processi graduali o rivoluzionari, contro coloro che lo negano per poter mantenere i propri privilegi. . Questo processo è sempre in cammino, perchè 'mai una comunità arriverà alla pienezza statica di tutti i diritti, essendo che coloro che ne sono i detentori tengono a conservarli per sè, e coloro che non ne hanno l'uso diretto e i vantaggi immediati, sono spinti a farne conquista. Onde avviene. storicamente.. auesto fatto: che i democratici di ieri (che conquistarono per il popolo il regime democratico e ne divennero gli esponenti) spesso divengono gli antidemocratici di oggi, che vogliono sbarrare il cammino alle altre classi o categorie di persone (per esempio le donne e gli operai). Così si spiegano - in paesi ad alta cultura e individualistici come la Francia - le lunghe"'difficoltà ad assicurare una vera democrazia e i periodi di carenza democratica (terrore - Napoleone I - restaurazione - Napoleone I11 - Pétain). Lo sviluppo progressivo della nozione di « popolo » nella struttura politica della democrazia. si avverte anche nella struttura economica. E allo stesso modo che il lavoratore arrivato tardi - pure in democrazie sviluppate - ad avere voce in politica, così va arrivando solo da poco tempo a rivendicare una equa partecipazione in economia. Ma la democrazia non sarebbe tale se mantenesse ordinamenti atti a fare da barriera alla partecipazione del lavoratore in politica ed in economia. La via, delle rivendica'zioni sociali è stata ed è dura e lunga, perchè comporta serie trasformazioni che sono rese possibili solo in regime libero e democratico. Un tempo fu creduto che la democrazia fosse inadatta a soddisfare le esigenze della classe lavoratrice, e si presentarono due sistemi come opposti ad essa: il socialismo e il comunismo, ambedue basati sulla lotta di classe per la vittoria finale della classe lavoratrice. Ciò avvenne sul piano storico, perchè democrazia fu intesa quella della borghesia o del capitalismo, per il fatto che le classi ossi denti han tenuto fin'oggi in mano il governo dei paesi retti a democrazia ed hanno sviluppati in essi l'economia detta capitalista con sfruttamento del lavoratore. Ai due sistemi si aggiunse verso la fine del secolo scorso quello L

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della democrazia cristiana, che accettò la democrazia dei paesi liberi come punto di partenza per lo sviluppo di una concezione sociale basata sulla collaborazione delle classi. La grande discussione dell'ultimo mezzo secolo è stata sull'interventismo di stato: se lo stato - il potere politico - abbia il diritto e la funzione di intervenire o no nelle competizioni economiche del paese e nei conflitti fra capitale e lavoro. La tesi contraria era appoggiata al principio di libertà esteso dalla politica all'economia; la tesi favorevole (quella che è prevalsa) era appoggiata sul principio del benessere comune. Ora nessuno più nega allo stato il diritto d i intervento, a patto che non sia lesa la libertà economica nella sua radice. I socialisti in maggioranza hanno accettato il sistema di democrazia libera a carattere sociale; i democratici cristiani insistono un po' di più sul concetto d i proprietà generalizzato che è garanzia di libertà; mentre i comunisti teoricamente, e dove è possibile anche praticamente, rinunziano al concetto di coesistenza delle classi e di libertà economica, per la tesi della dittatura del proletariato. Lasciando fuori quadro il problema della dittatura del proletariato, che non ha posto in democrazia, cerchiamo quale sia il .. &r?rrr?isu,e i=ternc dexvcrazia phiica e s s ~ ~ ~e ~t iij ~ j ee sopra caratterizzata. Questo è dato dalla formazione de-i nuclei politici e dei nuclei economici e loro interscambio. Chiamiamo questi nuclei élites, con grave scandalo dei demagoghi clie fanno appello alle folle. Se il termine non piace, se ne scelga un altro, la nozione rimane perchè è nelle cose. I1 corpo elettorale in America sceglie i suoi eletti per il se. nato, la camera.dei rappresentanti, la presidenza, i governi degli stati, i sindaci dei comuni, i giudici, i consiglieri, e così di seguito. Tutti costoro, investiti di una funzione responsabile, formano già dei gruppi scelti., Ma poichè sarebbe impossibile per ogni elettore sapere chi dovrà scegliere e farsi valere per la scelta, i partiti politici ne sono gli organi che a loro volta hanno capi e organizzatori che formano altri gruppi scelti. Lo stesso avviene nell'economia con la formazione di nuclei scelti che emergono sugli altri e che ne sono gli esponenti, i n .una libera coesistenza di forze, sia dell'impresa sia del lavoro. I capi delle unioni e dei sindacati ne sono i gruppi scelti. Come in America così in ogni altro paese retto a democrazia. La differenza fra democrazia e altre forme sociali è che in sistemi assoluti, l'élite politica ed economica è stabilizzata per casta o classe, ovvero fissata per privilegio reale o tramandata per eredità, o determinata dal dittatore, invece in democrazia le élites sono spontanee, scambiabili o sostituibili, moltiplicantisi secondo lo spinto d'iniziativa individuale e nucleare. '

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È fuori dell'ordine naturale il livellamento assoluto della società, dove manchi la nucleazione attiva e la direzione per centri e per organismi. La democrazia è caratterizzata dalla spontaneità di tale nucleazione del popolo a prendere posizioni direttive e di responsabilità, e dalla formazione delle tradizioni libere del popolo che si governa-da-sè.-, I1 popolo che si governa da sè h a anche\esso dei limiti insuperabili sia derivanti dalla natura del potere sia derivanti dai caratteri della democrazia ; tre ne sono i principali : 1) I1 corpo elettorale non governa il paese, ma designa coloro che governano il paese; non controlla di.rettamente e tecnicamente il governo, ma esercita u n controllo morale e permanente attraverso il rinnovamento dei corpi eletti e per mezzo delle manifestazioni della opinione pubblica; non precisa i piani di governo, ma vi dà le linee attraverso i programmi dei partiti. La sovranità popolare esprime in valore morale indicativo e direttivo, quello che i corpi eletti tradurranno in politica economica e leggi. Cosi il popolo. stesso è limitato nella sua azione di autogoverno, e a sua volta limita i suoi rappresentanti al potere. 2) Altro limiti alla volontà popolare è dato dalla legge morale maturale. Si discusse ( e si discute) se questo limite esiste e se sia efficace, perchè sul terreno. positivo non potrebbe esservi nessun altro potere organico a limitare la volontà popolare una volta espressa, tranne una propria revisione. Cosi avvepne negli Stati Uniti con il proibizionismo che attuato per volontà popolare, non ci fu altro mezzo per eliminarlo che l'appello alla stessa volontà popolare. È nella natura della sovranità che non assoluto ci sia altro sovrano sowra il sovrano. Anche in regime u non c'è che il monarca stesso a correggere il suo errore, annullando una legge da lui precedentemente emanata. È vero che, dal punto di vista obiettivo, una legge immorale (che urti la legge naturale), sia essa emanata dal re o stabilita per volontà di popolo, non ha valore di legge e non vincola in coscienza coloro che sono convinti della sua immoralità, come fecero i primi cristiani nel rifiutare l'incenso agl'idoli. Ma dal punto di vista della legalità materiale, la stessa volontà sovrana che l'ha voluta deve essere quella che deve respingerla. Sta perciò a coloro del popolo che sono avvertiti della immoralità in: trinseca di una legge a opporsi che sia introdotta (come avvenne nelle elezioni del 1944 nel Massachussetts circa l'emendamento sulla limitazione delle nascite) ovvero a impegnarsi a farla annullare (come è il caso delle leggi discriminatorie di razza in vari stati degli Stati Uniti d'Am'erica). I1 limite etico è intrinseco all'istituto delle sovranità.. verchè istituto umano e razionale; onde non si comprende perchè certi A


sostenitori della sovranità popolare del secolo diciannovesimo la presentarono come illimitata-e certi filosofi cattolici la combatterono perchè illimitata. Il loro equivoco fu non sulla natura vera della sovranità, ma su altro punto. I tradizionalisti della sovranità dei re, ammettendo che l'autorità venisse da Dio, ne accettavano la limitazione morale; mentre i fautori della sovranità popolare appoggiavano la loro tesi sopra un naturalismo assoluto che prescindeva dalla nozione di Dio e quindi dalla limitazione della legge morale. L'errore però, stava nelle premesse interpretative di un fatto sociale (la democrazia) che si andava attuando a spese della concezione del diritto divino dei re, che era tutt'altro che il limite etico a l potere, sì bene una creduta investitura divina del potere assoluto della monarchia. Caduta simile concezione (che non aveva fondamento nella tradizione cristiana), non restava che ritornare alla concezione del popolo, sia-implicita che esplicita, dalla quale far derivare gli organi sociali di autorità. 3) I1 terzo limite è dato dalla natura stessa della democrazia, che attuata tende a svilupparsi e a consolidarsi. Ma poichè non potranno mancare mai concezioni politico-sociali antidemocratiche sì che nessun regime è mai sicuro di sè, così il popolo ruue ~ n specie a di limite u sè stesse di non violare il patto che costituì in essere la democrazia. Questo patto è detto costituzione o statuto, e a guardia di questo patto stanno organi speciali che hanno i l diritto di annullare le leggi che possono violarlo. È vero che lo stesso popolo che fissò la costituzione può farvi cambiamenti e aggiunte, ma se'gli emendamenti proposti feriscono lo spirito della costituzione e ledono i l principio democratico, allora il .popolo deve respingerli; il popolo h a un limite che non può sorpassare, pena la cessazione della democrazia. Come i l suicidio è contro la natura così il popolo che delibera di privarsi dei suoi diritti commette un suicidio politico: cessa d i essere popolo n. Questo fatto è avvenuto in tutte le democrazie, ed h a dato luogo o a guerre civili e di secessioni, (Svizzera, Stati Uniti d'America) o a dittature militari (Francia: Primo e Terzo Napoleone; Inghilterra: Cromwell); o a dittature totalitarie (Italia : Mussolini ; Germania : Hitler) e così via. Ci sono popoli che han superato le crisi, altri no. Questa è storia. I1 principio saldo è che la democrazia è limite essa stessa alla volontà popolare. La domanda che viene naturale allo studioso come all'uomo comune, è come poter far valere in regime d i libera democrazia i tre limiti sopra descritti: l'organico, l'etico e i l politico. Giuristi, filosofi e statisti hanno affacciato varie soluzioni, e'le teorie

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hanno oscillato da quella teocratica moralista di un limite allo stato a quella dialettica immanentista dello stato limite a sè stesso. ella pratica, la democrazia moderna andò verso la separazione della chiesa dallo stato, e andò verso la tesi dello stato limite a sè stesso, cioè dello stato illimitato, che degenerò in stato 'panteista (totalitarismo), negando la stessa libera volontà popolare. I1 problema del limite a tale volontà rimane insoluto, se non si creano nel popolo le condizioni etico-psicologiche, per le quali esso stesso impone a sè i limiti che non può oltrepassare. Si tratta di convinzione, di senso di dovere, di coscienza che si h a delle responsabilità che impone il vivere in democrazia. Come il monarca assoluto dei passati regimi doveva avere coscienza dei suoi doveri e dei limiti naturali ed etici della sua sovranità, e se non l'aveva comprometteva sè e il bene del suo popolo, così il popolo sovrano ( p e r chiamarlo con l'amplificazione retorica di un tempo) deve avere coscienza della sua responsabilità e dei limiti del suo potere; se non l'ha perde sè stesso e la democrazia che l'incoronò sovrano. Si tratta di rendere edotto il popolo della sua funzione perenne e fondamentale in democrazia, sia come elettorato, sia come opinione pubblica, sia come matrice. degli uomini dirigenti della politica, dell'economia, della cultura, della tecnica; sia per lo spirito di riforma che deve sempre animare le correnti ideali o mistiche, sia per il carattere di stabilità che si deve dare agli istituti politici, sia per la formazione delle tradizioni locali e nazionali, che tengono legate le nuove generazioni alle precedenti in una spirituale continuità della democrazia di oggi con quella di 'ieri, nonostante i dovuti cambiamenti e sviluppi., La libertà e la democrazia sono beni spirituali (prima che regime politico) che debbono essere conosciuti, amati e difesi. Come tali partecipano della verità e dell'amore che animava ogni ascesa sociale. Senza carità e amore ogni società decade e si riduce al caos della menzogna e dell'odio. Ne abbiamo visto i saggi. Perciò è da augurare che le democrazie moderne siano basate sulla verità e sull'amore, sociale, come valori perenni da conquistarsi e da realizzarsi sempre e da estendersi dappertutto, nei singoli stati e nelle unioni di stati, e da difendersi sempre e dovunque con convinzione. Perciò diciamo che il popolo deve avere coscienza d i che cosa sia la democrazia e libertà e quali ne sono i suoi doveri e le sue responsabilità. '

(IL Ponte,

Firenze, ottobre 1946).


DOVERI POLITICI DEL CITTADINO

'Scritto per i credenti

' I diritti dell'uomo e del cittadino sono .più noti dei doveri; se non altro, se ne parla di più, e si fanno valere con maggiore efficacia. Ma dei doveri non si'ha un'idea chiara, al di là1 di quelli di obbedire alle leggi e di pagare le tasse, cosa di cui molti farebbero volentieri a meno, se non ci fossero multe e prigioni. Questo mio foglio è diretto ai credenti, non perchè essi abbiano più doveri di ogni altro cittadino, ma perchè essi per la l'oro fede sono convinti che l'adempimento dei doveri verso il prossimo è allo stesso tempo un atto di ubbidienza e di onore verso Dio. Essi quindi, per i loro principi, danno ( o debbono dare) ai doveri politici un significato etico-religioso che altri non dà o non sa dare. Una delle idee che occorre inculcare nella mente dei giovani è che diritti e doveri sono correlativi; non si dà un diritto senza un dovere comspondente. L'operaio ha il diritto al giusto salario, ma ha il dovere di far il lavoro bene: le qualità di giusto per salario e di buono per il lavoro sono anch'esse correlative, perchè inerenti al rapporto economico, che implica un rapporto morale. I1 cittadino ha il diritto di essere governato bene, secondo l e tradizioni e mezzi che ha un paese; ma ha il dovere di inviare ai posti pubblici elettivi persone moralmente integre e politicamente preparate. Per questa corrispondenza iiteriore e razionale fra diritto politico e dovere civico si crea un rapporto fra il cittadino e la società (municipio, regione, stato, federazione di stati e organizzazione internazionale) che, secondo gli aspetti etici che prende, può caratterizzarsi come rapporto di giustizia o rapporto di carità. Ho più volte ricordato nei miei scritti che Pio XI, ricevendo u n gruppo d i giovani belgi, disse loro che la politica è una

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forma di carità verso il prossimo. Per coloro che stimano la politica una cosa sporca e che parlano dei politicanti come di gente moralmente dubbia, la frase di Pio X I dovette essere una sorpresa. Ma i cristiani che riflettono sui loro doveri sociali. debbono ringraziare quel papa che disse una così coraggiosa parola a d un mondo che si trova sotto l'incubo di una politica a-morale, che nel fatto diviene spesso politica immorale; la politica è un atto d i carità verso il prossimo. Ma non basta; il moralista trova che ci sono certe attività politiche che appartengono alla virtù della giustizia; il che costituisce un rapporto etico più stretto. Basta accennare ai doveri del servizio pubblico per il quale i cittadini eletti o nominati hanno un comnenso sull'erario. Ma anche coloro che ricevono un mandato volontario, con salario a titolo di indennità - il presidente, i senatori, i deputati, i consiglieri e così via - debbono rispondere secondo giustizia degli atti della loro amministrazione verso il popolo che li ha eletti e verso l'ente ch'essi rappresentano. Anche coloro che non ricevono alcuna indennità dalle amministrazioni ed hanno assunto gratuitamente il dovere d i un servizio pubblico, non solo hanno I'obbligo di mantunrre la promessa, ma debbono rispondere della gestione loro affidata. Ancora un passo: possiamo dire che l'elettore va a votare solo per adempiere ad un dovere di carità verso la società di cui egli fa parte? Forse che egli non riceve dalla società la garanzia della sua libertà, il mantenimento dell'ordine sociale per cui egli possa vivere da uomo libero? Non c'è forse un rapporto etico fra il cittadino e la società nel suo complesso? E se l'elettore, invece di dare il voto a una persona onesta e capace lo dà, coscientemente, al disonesto e all'incapace - che perciò r e c h e ~ àdanno alla pubblica amministrazione e perfino profitterà del posto a scopi privati, - non ha mancato ad un suo dovere ? Lasciamo ai moralisti di rivedere la terminologia corrente, fissare dove nella vita pubblica finisce la carità e comincia la giustizia, definire le varie classificazioni o qualificazioni della giustizia, precisare quegli atti che hanno per effetto l'obbligo del risarcimento dei danni o della compensazione sia pure semplicemente civica o politica, e perfino della riparazione dello scandalo da parte dei pubblici ufficiali e dei capi d i amministrazione. I1 problema della moralità nella vita pubblica tende ad abbracciare la maggior parte dell'attività umana, interferendo sempre più intensamente nella vita delle reladoni individuali e dei nuclei locali; e in quanto dall'altro lato, in regime democratico, tutti i cittadini maggiorenni, uomini e donne, sono in-


teressati nella funzionalità amministrativa e politica del paese. I1 rapporto fra diritti e doveri deve tenersi come fondamentale per la morale individuale e pubblica, riflettendo che quanto più essenziali, inalienabili e numerosi sono i diritti, tanto più obbligatori e pieni di responsabilità sono i corrispettivi doveri. Quando i regimi politici erano basati sull'assolutismo dei monarchi e la cooperazione delle aristocrazie, le classi medie o borghesi reclamarono i diritti politici e li ebbero. L'accento era posto sul termine diritti 1) perchè una gran parte di cittadini ne erano privi. Ma quando costoro cominciarono a usare dei diritti che loro spettavano, sentirono che i loro doveri erano correlativamente aumentati e le loro responsabilità aggravate. Lo stesso è da dirsi oggi di tutti i cittadini uomini e donne, divenuti elettori ed elettrici. Se ora sono molti quelli che non curano l'esercizio deì diritti politici che loro competono e non si danno pensiero dei correlativi doveri, è che i vecchi ideali di libertà del secolo scorso vanno svanendo di fronte a nuove schiavitù create nel mondo; ma anche perchè il sentimento del dovere di partecipare alla vita pubblica, per il bene comune, è poco radicato nelle convinzioni e nelle abitudini anche dei buoni, anche dei fedeli cristiani. Se l'azione politica appartiene alla virtù dell'amore del prossimo, e in molti suoi atti implica il rapporto di giustizia, l'opposto che nega tale amore ( e spesso causa la negazione della . giustizia) è proprio l'egoismo. Se u n vero cristiano ha il dovere di partecipare alla vita pubblica del suo paese, egli non può portare spirito di egoismo, ma spirito di amore. È il punto di differenziazione fra coloro che fanno la politica a loro vantaggio e coloro che la fanno a vantaggio della comunità. Non c'è paese dove i cittadini non si lamentino che nelle amministrazioni pubbliche, dalle locali alle centrali e nazionali, si'abusi del denaro di tutti a vantaggio di quelli che ne traggono u n personale profitto. Oggi viene fuori lo scandalo delle forniture militari, domani quello degli appalti o delle tasse. Come vi sono i frodatori e i ladri dei privati, vi sono anche i frodato& e i ladri della comunità. L'America non solo non è immune da questa tabe, ma i nomi delle amministrazioni municipali di Chicago, New York e BOston, per la corruttela dei partiti al potere, sono stati famosi per quasi mezzo secolo. Ce ne saranno molte u TammaMy +Hall», ma questo nome è conosciuto, a torto o a ragione, in tutto il mondo. Dobbiamo dire chiaramente che l'opinione pubblica '

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reagiva lentamente, sì che l a responsabifità della situazione gravava sull'intiero partito al potere e su coloro che apertamentre lo sostenevano, non importa se gente di mondo o gente religiosa, protestanti o cattolici. Uno dei difetti delle democrazie a sistema di partito, tipo americano, è quello di creare posti per i propri aEliati, e consentire benefici nelle aziende pubbliche ogni volta che il proprio partito sale al potere, mandando via quegli altri del partito soccombente, senza tener conto degli interessi del pubblico che vengono così subordinati agli interessi del partito. Si forma una specie di egoismo di parte, che per il fatto che è collettivo, non sente di avere.vincoli di condotta morale. Ed è strano i l fatto che lo stesso individuo il quale nella vita privata e negli affari personali cura l'osservanza delle leggi morali, nell'attività del partito non si senta vincolato, e, potendo, salti a piè pari anche il codice penale. Non deriva forse da egoismo la lotta di molti americani, anche buoni cristiani, contro la partecipazione elettorale dei negri e la loro eleggibilità? La discriminazione politica è effetto della discriminazinne razzi& che turba carte della vita econrmica, sociale, religiosa e politica dell'America. Ma se si guardasse tutto il problema delle razze inferiori sotto l'angolo morale, si troverebbero soluzioni felici e ./ gradualmente effettive. A mano a mano, dall'egoìsmo individuale a quello del partito e a quello di razza, si sale all'egoismo nazionale (che ha generato i l moderno nazionalismo, che Pio X I chiamò nazionalismo esagerato); questo ha agitato e agita tutti i paesi del mondo. ' Quale paese può dirsi immune dalla malattia del nazionalismo? Questo può chiamarsi in tante maniere, non è necessario che si chiami nazionalismo. Anche l'imperialismo, nel senso d i predominio' di una nazione sulle altre gi.à assoggettate, ha caratteri di egoismo e di sfruttamento nazionalistico. C'è anche un egoismo nazionale di natura speciale: l'isolazionismo di quei paesi che possono aiutare i l mondo e non l o fanno per non correre pericoli. L'America nel passato h a avuto questa malattia e le è costata cara, partecipando a due guerre che essa poteva concorrere ad evitare se interveniva politicamente e a tempo. È chiaro che, come non può sopprimersi del tutto l'egoismo personale (che agisce da movente spontaneo nell'attività umana), così non può sopprimersi del tutto l'egoismo collettivo. Lo avremo sempre presente ed esigente. Ma come il buon cristiano deve combattere i propri istinti, vivificando la propria attività con la legge di a amare i l prossimo come sè stessi n, così il buon L

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cristiano vivificherà l'attività pubblica con l'identica legge, sia questo paossimo rappresentato dal comune, dalla regione, dallo stato, dalla nazione: perchè tutte le collettività pubbliche sono il prossimo, il vero prossimo di chi agisce in esse e per esse. Quasi a mascherare così lampante verità, ci si abitua a usare l'astratto per tutto ciò che tendiamo a separare da noi, come fuori della nostra attività solidale e comune. Si dice: i negri, gli ebrei, i massoni; o si nota che si tratta di affari della città, dello stato, della federazione, come se non ci appartenessero e non avessimo alcun interesse ad occuparcene. È il distacco spirituale, espresso in diversi modi, che ci allontana dalla cooperazione attiva alla vita comune, dove dovremmo trovarci non di fronte al « negro » o ali'« ebreo » o allo « stato )) O al cc comune », ma a fratelli, uomini vivi e veri, con i quali cooperare a l bene comune. Ho voluto accennare al lato morale dell'orientamento politico, per mostrare quanto opportuna sia la rinascita del pensiero e del metodo della democrazia « cristiana » nei paesi « cristian i n. Io sostengo una tesi che è creduta azzardata e non provata, che 2 s;Gricaii,icn:e prvysbi!e e m=!ts ragionevole: cioè che non si dà nè si può dare vera democrazia che in paesi di civiltà cristiana 1). Questa tesi ha due corollari: lo « che quanto più una civiltà si allontana dall'ideale cristiano tanto più la democrazia (se stabilita) tende a svuotarsi di sostanza anche se ne conserva la forma »; 2' « che quanto più la democrazia, decade di moralità pubblica, tanto più perde del suo carattere democratico e pende verso la oligarchia D. A .coloro che dicono che Atene ebbe un periodo splendido di democrazia, io rispondo che i democratici di Atene erano una frazione, un'élite; essi mantenevano fuori della democrazia gli iloti e gli schiavi. A chi dice che la democrazia francese nacque dall'Enciclopedia e dalla rivoluzione, che furono anticristiane, io rispondo che la democrazia della Francia, nata nel secolo XVIII, rimase nelle costituzioni: nel fatto si trat>ò di vari governi oligarchihi e demagogici che sboccarono nel terrore e nella dittatura napoleonica. l Conveniamo d'altra parte che il cammino delltmanità verso la democrazia basata sui diritti della persona umana è lungo e ancora non è compiuto. Ma per quel che nella società moderna si è realizzato di democrazia e per l'altro da realizzare, l'unico principio da cui può derivare è quello morale, che noi chiamiamo cristiano, perchè non si dà una morale completa fuori dell'amore e della fratellanza cristiana. La qualifica di democrazia cristiana non ha altro significato

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che quello di una democrazia basata sulla più alta moralità rea1iHzata nel mondo. I1 divorzio della politica dalla morale è stato fatale all'umanità, come il divorzio dell'economia dalla morale e il divorzio della religione ( o religiosità) dalla morale. La democrazia cristiana vuole porre l a morale come base della politica, si tratti della piccola politica dell'amministrazione della città e del villaggio o d i quella dello stato o della federazione di stati, o di quella internazionale: la morale è unica e indivisibile. Non vi son due morali: una per i rapporti privati e l'altra per quelli pubblici; c'è una sola morale per tutta l'attività umana. Se una azione è immorale per l'individuo, è anche immorale per il sindaco della città, pkr il senatore dello stato, per i l presidente della nazione, per tutti i cittadini uniti insieme. Questo principio è valido per tutti, tanto per la politica fatta dai re assoluti e dittatori totalitari, quando per la politica fatta dai cittadini e loro rappresentanti in un paese democratico. C'è però una differenza fra i sudditi dei paesi a regime assoluto e i cittadini dei paesi democratici; i piimi non partecipano alla vita pubblica perchè sono tenuti come minorenni, e quindi ne hanno solo la responsabilità indiretta che può esplicarsi i n via di resistenza al male. Mentre i secondi, partecipandovi direttamente, possono farsi valere come elettori, come opinione pubblica, come gruppi dirigenti, come eletti alle cariche della città e dello stato, sia nelle forme ordinarie, sia in quelle straordinarie di resistenza alle ingiunzioni ingiuste. tare. la colpa va Se la democrazia moderna ha delle grosse " direttamente a coloro che, pur vedendole, non si sforzano di rimediarvi. I n prima fila metto coloro che hanno le convinzioni cristiane ( e quindi morali) e se le tengono ben conservate nel cervello o nell'ambito delle loro case, come il servo dell9Evangelo che ebbe un talento e l'andò a nascondere per paura di ~ e r d e r l o :i l Signore lo chiamò serve nequam, servo cattivo. Individualmente si può far poco in democrazia. Non tutti possono essere capi e condottieri, scrittori e giornalisti, oratori e consiglieri, deputati e ministri; ma tutti possono essere qualche cosa se uniti insieme ad un nobile fine. Molte sono l e buone associazioni a scopo morale e sociale ; poche, invero, sono quell e a scopo politico. Sia per combattere le discriminazioni di razza o di partiti; sia per educare ad essere buoni cittadini; sia per difendere i diritti politici di tutti; sia per illuminare il popolo sugli affari dello stato e interessarlo alla politica del paese. occorre che ci siano gruppi, corsi di educazione, mezzi d i allenamento alla vita pubblica. I n un paese col sistema fisso dei due partiti, un terzo parA

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tito non può aver posto, a meno che non miri, con grandi mezzi e con idee sociali avanzate, a scalzare uno dei partiti esistenti, così come fece il partito laburista in Inghilterra, che prese il posto del partito liberale. La democrazia cristiana promuove i partiti dove ce n'è il bisogno e la possibilità; altrimenti si contenta di portare dentro la formazione dei partiti esistenti, il flusso riformatore delle sue idee sociali e della sua funzione moralizzatrice. Si tratta di principi teorici e di direttive pratiche, che a poco a poco debbono generalizzarsi, facendo rivedere le posizioni prese e tentando di portarvi una rinnovazione progressiva. Non è qui il caso di formulare un programma pratico a nome della democrazia cristiana. Ogni partito i n Europa, e tutti i gruppi di People and Freedom esistenti nel mondo, .hanno i loro particolari programmi adattati alle condizioni politiche. economiche e sociali di ogni singolo paese. Ci sono però i principi comuni: quelli che derivano, nel campo etico e sociale, dalle encicliche papali, specialmente la Rerum Novarum (1891) e la Quudragesimo Anno (.1931); nel campo politico dal sistema della democrazia attuata nei vari paesi secondo le proprie irailizi~iiie cun quelle ~ o d i f i c h eche sono rese necessarie dallo sviluppo moderno della vita pubblica. I1 punto centrale è quello del rispetto dei diritti della persona umana, diritti spirituali e materiali, diritti inalienabili,. basati sul binomio d i libertà e giustizia. Chi può attuare una democrazia veramente libera e giusta senza la moralità cristiana? I1 positivista che dirà di poterla attuare mentisce, perchè a lui mancano principi etici e ideali superiori stabili; il positivista col suo materialismo pratico e col suo relativismo etico, ha dato le basi ai totalitarismi moderni, che sono la negazione della democrazia. Spetta ai papi Benedetto XV e Pio XII d i avere insistito sul principio della moralità nei rapporti fra le nazioni e di avere sollecitato i popoli o i capi di stato a fondare la Società degli stati ( o delle nazioni) sui principi del diritto naturale, del diritto delle genti e della moralità cristiana. Se la ~ e g delle a nazioni falli, si deve alla intrusione del principio della ragion di stato nei rapporti internazionali, che soppiantò quello della morale internazionale. E se I'ONU va a fallire, è perchè il principio della ragion d i stato, presentato dal diritto di veto delle cinque grapdi potenze, è divenuto prevalente sopra ogni formulazione di principi. La Carta atlantica, che.conteneva alcune proposte di Pio XII, e che in sostanza rispondeva a sani criteri di riorganizzazione internazionale, fu affondata per sempre; mentre gli ac-


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cordi di Teheran, Yalta, Potsdam e Mosca sono i n m o l t i punti fondamentalmente immorali. La responsabilità di questo fatto non grava solo su Churchill o Attle, su Roosevelt o ,Truman o loro consiglieri, ma sul popolo americano ed inglese e per le conferenze successive anche sul popolo francese. Naturalmente Stalin o Molotov sono anch'essi dei responsabib,,ma si tratta d i gente che non fa professione di cristianesimo, nè si preoccupa della moralità internazionale. Non metto però fra i responsabili il popolo russo perchè, essendo in regime totalitario, n ~ n ' ' ~ o trebbe avere che una ben lontana responsabilità indiretta, responsabilità che cessa dall'esser tale per quella ignoranza invincibile di cui parlano i moralisti, che è il fatto reale di un paese distaccato, per tradizione e per censura politica, dalla comunità dei popoli. Invece l'America ne porta il peso maggiore per due ragioni: primo, perchè è il paese più forte e più ricco del mondo che è emerso dalla guerra; secondo, perchè, essendo il paese che non ha subito la guerra sul proprio suolo, ha avuto maggiore possibilità di resistere alle pressioni che venivano dalla Russia e anche dall'hghilterra, per atti contrari al diritto delle genti, alle leggi internazionali e alla morale cristiana. Invece l'America ha consentito alla scomparsa dei popoli liberi, quali l'Estonia, la Lettonia e la Lituania; ha sottoscritto alla spartizione della Polonia; h a assunto la responsabilità dell a evizione delle popolazioni polacche, germaniche e sudete (più di dodici milioni); sta proseguendo una politica di schia- vizzazione della Germania. La lista è lunga. Non ~ a r l odi quel che è stato fatto all'Italia col trattato di pace; bastano gli articoli di Summer .Welles, Doroty Thompson, Anna McCormick e altri; bastano le promesse di Roosevelt, non mantenute affatto, a rendere testimonianza della giustizia con cui si è trattata 1'Italia. Non sono sbagli di politica; si bene è l'abbandono di principi etici, sotto la scusa che bisogna intendersi con la Russia. Con una sana politica, non si cadeva nella trappola del veto; nessuno obbligava Stettinius a Dumbarton Oaks ad accettare un tale principio ( e lo accettò perchè lo credeva utile per gli Stati Uniti d'America a difenderne gli interessi nel Pacifico). Del resto, non c'era nessuna fretta a conchiudere una Carta, che poi a nome di tre gfandi fu imposta a San Francisco a tuttk le altre nazioni. Nessuno al mondo può essere obbligato a far del male al prossimo, con la scusa che è la Russia che lo domanda. che finora la Russia non ha mostrato alcuna gratiA tudine al17America per le sue condiscendenze, i l fatto vero si è che si va creando un'organizzazione internazionale basata sui principi antidemocratici e sui metodi immorali.

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Chi potrà prendere l'iniziativa politica contro un tale sistema, che corrode alla base le democrazie occidentali, se non la democrazia cristiana? E in nome di quale altro principio può essere sostenuta la campagna revisionista, se non in nome del primato della moralità nella vita pubblica? A questo punto il mio lettore mi dirà: u l'awersario è troppo grande (l'immoralità nella vita pubblica) e il campione è troppo piccolino (la democrazia cristiana ». I l vero: ma l o . stesso accadde a Golia e a Davide. « Questi confidano nei carri, quelli nei cavalli; ma noi nel nome &l Signore Dio nostro invochiamo vittoria ». Non importa se la via sia lunga e di5cile: è l'unica via che oggi ci si presenta possibile anche sul piano politico. (Vita

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perniero, Milano, marzo 1947).


18. POLITICA E MORALITA'

La concezione dello «stato di diritto D, maturata lungo un secolo, fu un enorme progresso nella struttura etica del potere pubblico, con il tentativo di ancorare l'esercizio dell'autorità sul diritto e regolandone l'arbitrarietà. Riuscire, in questa e in tutte le materie della moralizzazione della vita pubblica, non è facile; ma si era imboccata la via maestra. L'antica concezione del potere assoluto faceva del sovrano un solutus a lege, lo metteva sopra la legge stessa; egli era l'autore della legge; egli non ne restava personalmente legato. Questa teoria non fu mai, fin dall'antichità, affermata ed applicata senza contrasto. Ne abbiamo traccia nel libro d i Daniele, i n quel versetto dove i satrapi contestano a Dario la facoltà di non punire Daniele che aveva trasgredito u n decreto. Tu sai, o re, che secondo la legge dei Medi e dei Persiani, qualunque decreto sancito dal re non è più lecito cambiare D. Nel caso, il decreto era empio, e il re doveva rescinderlo; formalmente avevano ragione i satrapi. I padri e giuristi cristiani fecero netta distinzione fra la legge di Dio (includendovi la legge naturale) e la legge dell'uomo, cioè la legge positiva civile. Della legge d i Dio non è stato mai il monarca riconosciuto sciolto, mentre della positiva civile poteva essere riconosciuto sciolto in quanto un dato sistema politico lo consentisse, e non limitasse istituzionalmente lo stesso potere regio. Al momento, però, che fu attuato lo «stato di diritto D, il potere sovrano (regio o presidenziale) non solo fu sottoposto alla legge, ma divenne il potere garante della legge stessa, del suo valore e della sua osservanza. Sotto questo aspetto, la moralizzazione della politica ricevette un nuovo e più efficace valore strutturale che non aveva avuto nei periodi precedenti, sia quando la struttura giuridica era basata su concezioni prevalentemente privatiste, sia quando non era chiaramente separato l'interesse del principe da quello


della collettività. Era necessario arrivare a fare del principe il primo cittadino, o il primo funzionario dello stato, per ottenere questo adeguamento etico-giuridico del potere. Creato lo ((stato di diritto vennero in valore tre principi importanti la cui influenza sulla moralizzazione della politica fu più marcata : l'abolizione dell'arbitrio del potere sovrano ; la eguaglianza dei cittadini avanti la legge: u la legge uguale per tutti ; l'abolizione delle magistrature di privilegio e la unicità del magistrato giudicante con le relative garanzie identiche per tutti. Solo con la premessa dello « stato di diritto » poteva crearsi la democrazia moderna; altrimenti si sarebbe avuto (come 10 provano le dittature di qualsiasi colore da Napoleone a Stalin) che il potere acquistato i n nome del popolo è più arbitrario di quello acquistato per diritto ereditario e storico o per preteso diritto divino. Purtroppo, le persone investite di potere, sia assoluto sia rappresentativo, tendono a estendere i limiti giuridici e a evadere dai limiti etici, per affermare la loro volontà che spesso confondono con l'autorità. Per evitare questo scoglio si pensò che il miglior modo fosse quello di dare autonomia ai tre poteri pubblici: il legislativo, l'esecutivo o amministrativo, e 5 giudiziario, con un tal quale sottile legame di armonizzazione e con opportune difese limitative reciproche, sì da evitare le interferenze illegittime e le incoerenze dannose. Così nel campo formale lo «: stato di diritto » si presentava come una macchina ben congegnata, rispondente alle sviluppate esigenze della vita pubblica moderna. Purtroppo, man mano che la nuova struttura costituzionale veniva realizzata, - con difficoltà di ogni genere derivanti dal passaggio del potere dalla monarchia e dai ceti aristocratici alla borghesia e poi da questa alle classi popolari, - prendeva corpo, si affermava e diveniva generale ,la teoria dello stato fonte - di - diritto; attribuendo allo stato, come organo supremo del popolo o della nazione, secondo le prevalenti sfumature degli orientamenti politici, un potere illimitato. LO stato fonte - d i - diritto mette qualsiasi materia sotto la regolamentazione dello stato, i cui poteri si estendono su tutti i cittadini e tutti gli interessi che possono riguardare i cittadini o gruppi di cittadini o anche individualmente gli stessi cittadini. Questa teoria, sia esposta nella forma più larvata e cautelosa; sia nella forma più cruda e assoluta, è quella che ha dominato per più di u n secolo nella politica moderna, e che ha generato la teoria dello stato-etico, quella dello stato - entità.

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mistica e l'altra dello stato classe lavoratrice; teorie che sono state alla base delle ultime dittature: la fascista, la nazista e la bolscevica e che hanno animato con diversi influssi i vari movimenti nazionalisti del secolo scorso e del presente. La democrazia del dopo guerra h a preso fisionomia propria; essa si presenta, è vero, come stato di diritto D, e, non rinunziando alla teoria che ogni diritto venga dallo stato, tende a trasformarsi in una swecie di democrazia-sociale ( e i n ciò si distingue dalla democrazia-individuale tipo liberale); ha, perciò, aumentato il proprio potere di intervento e lo ha esteso a tutta l'economia dandovi carattere di pubblico interesse sotto l'etichetta di interesse generale 1). Gli stati di emergenza della guerra e del dopoguerra hanno influito molto su tali orientamenti; vi ha influito di più, per l'Italia, la mentalità fascista e un ventenni0 di dittatura; vi influisce ancora di ~ i laù wressione comunista verso forme di economia statizzata in nome del proletariato. . Così, anclie in una democrazia istituzionalmente e formalmente libera, lo statalismo diviene incombente, sì da portare oltre i confini tanto il limite giuridico quanto il limite etico del Dotere. I1 problema morale della politica s'imposta anzitutto come problema di limite. Questo è dato dal finalismo del potere che è diretto al bene della comunità. Un wotere illimitato non è concepibile; manca di razionalità, non sarebbe umano. Perciò san Paolo afferma che non esiste potestà che non venga da Dio, come in altro passo afferma che ogni paternità viene da Dio. La ragione intrinseca del potere politico è data dal finalismo etico della società-stato che è il bene comune su1 campo temporale. Di là da questo limite non vi è potere legittimo, ma arbitrio e violenza, cioè immoralità. La frase bene comune 1) si usa per distinguere questo dal (C bene individuale » ; al secondo deve attendere ciascuno da sè, e non mai, direttamente, la comunità. Ma a guardami dentro, ogni bene individuale si risolve nel bene comune, e ogni bene di gruppi particolari - famiglia, classe, comune, provincia, regione ---si risolve in bene comune più generale (stato, nazione, continente); e così ogni bene generale ridonda al bene individuale, secondo la capacità del percipiente. I1 bene è solidale. Molto, quindi, si equivoca, nel linguaggio usuale, a mettere in contrasto bene individuale con bene comune, come se I'uno possa negare e limitare l'altro. I1 contrasto nasce quando l'uno dei due non è vero bene, o ambedue non sono veri beni. Così il cittadino che froda I'erario non per questo raggiunge il bene A

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proprio; fa u n male dal quale spera poter ricavare u n vantaggio privato che realmente non è bene, nè lo può divenire. Vale sempre l'antica frase: bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu. Dall'altro lato, se lo stato promulga una legge ingiusta di espoliazione, non fa il bene comune mentre fa u n danno comune (ingiustizia) oltre quello inbividuale delle persone colpite in proprio. Alcuni ammettono le guerre ingiuste purchè abbiano esito favorevole; il loro non è giudizio etico che tenda a regolare l'attività umana; è, invece, u n giudizio storico che, prescindendo dai dati etici, esalta il successo delle armi. Chi ammette la guerra come mezzo di ingrandimento, deve ammettere l a guerra come mezzo di distruzione; e chi vuole la guerra, la guerra « bella B, la guerra a gioiosa n, la guerra di conquista, ammette implicitamente il trionfo dell'ingiustizia, ma anche la punizione, dato che da ogni guerra può derivare non solo la vittoria , ma anche l a sconfitta. Diverso è e deve essere il giudizio etico di una gu,erra che si inizia come atto umano che si pone liberamente, dal giudizio storico se una guerra risultò dannosa o vantaggiosa, e se, comunque, posta e combattuta ebbe qvei determinati effetti, perchè la storia registra i fatti, che non possono più essere posti in non essere: (C factum infectum fieri nequit ». I1 finalismo della società ( d i qualsiasi società, lo stato compreso) che noi diciamo bene comune e poniamo come limite a l potere, è meglio precisato sotto l'aspetto di diritto della persona umana. A leggervi dentro quel che sembra nuova formulazione teorica ( e i CC personalisti ci tengono al loro fraseegio qua e là ermetico e non sempre reciso), i l diritto della persona umana equivale al diritto d i natura. A me sembra meglio parlare di a persona umana >I anzichè di u natura n; sia perchè na- . tura può significare tutto il creato al quale non competono diritti nel senso umano della parola; sia perchè, presa come natura umana, non può significare una natura in astratto, e deve potersi riferire agli individui in concreto, presi nella loro essenza d i anima nel corpo o di umanità vivente u e l'uomo divenne persona vivente )) (Genesi 2: 7). .Sia, infine, perchè essendo varie e contrastanti le teorie sul diritto naturale, è più facile intenderci sulla teoria della persona umana come fonte di diritto limitante il potere politico e ogni altro potere umano. Tale limite è sostanzialmente etico, perchè la persona in concreto è il termine dei beni e dei vantaggi che crea leggi che regolano il potere. Tutto ciò che lede la persona umana, ne viola i diritti, ne impedisce l'adempimento dei doveri, ne altera m


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il carattere razionale, forma i l limite insuperabile del potere. Lo stato garantisce e regola I'esercizio dei diritti umani, non l i crea nè li può sopprimere; e l i garantisce e regola al fine sociale determinato: il bene temporale della convivenza umana. Nè lo stato è solo e unico mezzo (mezzo e non fine) a raggiungere il bene temporale umano; tutti gli enti naturali e tutte le organizzazioni volontarie sono legittimate dai fini particolari di bene comune, che lo stato garantisce e coordina. Ma alla base sta la persona umana, e il fine effettivo di ogni società (stato compreso), è la persona umana; in concreto, ciascun individuo. È amaro e inumano che ci siano i rejetti della società e che la società non faccia sentire il suo influsso benefico su tutti: ma nell'ordine finalistico umano, sono tutti compresi e a tutti dovrebbe potersi dare i vantaggi sociali dell'ordine e'del benessere. Se la politica si guarda come arte di governo, h a per fine quel vantaggio della comunità che spetta allo, stato di procurare. Non tutti i vantaggi, ma solo i vantaggi detti politici. Lo stato non si sostituisce a tutta l a enucleazione umana naturale e libera, nè invade i l campo della coscienza individuale, n è viola i diritti della famiglia. Purtroppo, oggi lo stato tende a divenire il tutto, a trasformarsi in stato-panteista, ma ne è punito; quanto più campi invade tanto più energie sterilizza, perchè per la sua stessa natura politica e per l'ampiezza dei suoi poteri e per le difficoltà di articolarli, è costretto a intaccare le libertà individuali, l e autonomie locali, le iniziative libere, e deve livellare nel formalismo burocratico quel che la natura ha reso distinto e vario. Quanto maggiori poteri si attribuiscono allo stato, tanto più se ne attenua la resp'onsabilità, che è alla base della morale umana, perchè il potere burocratico è di per se stesso spersoi nalizzato. Donde rinasce la necessità di ridare vita a quei nuclei intermedi che vennero soppressi, a farne rinascere dei nuovi, ad, alimentare e vivificare autonomie storiche; e più che altro, a rifare lo spirito d i famiglia, a rianimare tutto l'organismo sociale del senso d i responsabilità individuale, cioè della sostanza stessa della morale. ,È il sofio morale che parte dalla persona umana quello che pervade i nuclei sociali e l i rende atti ad attingere i fini propri, i quali quanto più pienamente si realizzano, tanto più moralmente vivificano persona e società. Da questo quadro storico e strutturale si può vedere quanto falsa sia l a teoria che distacca la politica dalla morale, alla prima assegnando come proprio oggetto l'utile da realizzarsi a

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vantaggio dello stato », ed all'altra la norma etica dell'atti6ità individuale. La struttura della società è di per sè basata su elementi'e su norme morali, che non possono violarsi senza danno dei nuclei sociali e quindi dei singoli associati. La ricerca dell'utile o vantaggio dello stato non può essere realizzato che mantenendosi nella sfera etica. Questa sfera è da un lato assoluta, per quanto riguarda i valori fondamentali dell'uomo come essere ragionevole, e dall'altro relativa secondo le realizzazioni del processo storico e le aspirazioni umane a più elevati ideali. I1 cristianesimo come religione storica e come forma di civiltà contiene e vivifica i valori etici naturali che si sono storicamente sviluppati, oltre i valori propri di carattere soprannaturale. Negare. alla politica l'impasto etico, riducendola a pura forma utilitaria, è togliervi la sostanza razionale e farne semplice arte di governo ; caratterizzando così il potere, in cui e per cui lo stato si esprime, un semplice dominio materiale, al quale subordinare tutte le volontà e le energie dei sòggetti (non più cittadini, nè consociatil. E poichè il potere si concretizza nella classe. di dominio ( o classe politica) - non essendo lo stato che un nome astratto atto ad indicare l'organizzazione della pubblica amministrazione - la mancanza o la negazione di limiti giuridici (che esprimono I'eticità del diritto) fa arrivare all'arbitrio e alla violenza legalizzata, non importa sé sotto il segno di uno solo (monarca o dittatore) O dei ~. privilegiati (casta dominante) o dei molti (folla rivoluzionaria). Se la morale non è altro che la norma razionale dell'attività di ciascun individuo resa comune per convinzione, tradizione e costume, la politica non è altro che attività umana personale fatta i n base ad una norma razionale. Fuori del binario della morale, si cade nell'irrazionale O nello pseudo razionale, cioè nel male riconosciuto tale ma fatto a scopo utile (video meliora proboque deteriora sequor); ovvero nel male appreso come bene per deformazione passionale, per mancanza di riflessione, di consiglio, di esame accurato, e principalmente per deficienza di senso di responsabilità; cose tutte che gli investiti del potere dovrebbero con ogni sforzo evitare o correggere. L,

15 agosto 1950.

(Civiltà:Ztalica, Roma, lo settembre 1950).


IL PANTEISMO DI STATO

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Sembra strano come nel campo delle teorie filosofiche e in quello delle realtà politiche, si sia potuta infiltrare, assodare divenendo predominante, l'idea di stato come un primo assoluto. Eliminato dai non credenti o dai mezzo credenti un assoluto divino, nè potendo reputare assoluto permanente l'uomo individuo soggetto con la morte a scomparire per sempre, non vi erano altre strade per un ubi consistam di questo piccolo e grande mondo, che ammettere la materia eterna che si evolva, ovvero lo spirito potenzialmente permanente che si realizzi. Ma come tenere uniti gli uomini, esseri ragionevoli in teoria ma anarchici nei fatti, in nome della materia eterna o dello spirito potenziale? I positivisti hanno trovato che lo stato è una realtà necessaria, distinta dai singoli uomini che lo compongono, u n quid tertium che lega i cittadini senza esserne legato. Gli idealisti delle varie scuole arrivano a fame la più completa realizzazione dellYIdea,o Spirito, o Atto, o altro simile, potenzialità indefinita che si autodefinisce. Per noi poveri mortali, che bene o male passeremo su questa terra u n certo numero di anni, non resterebbe altra consolazione che saperci uniti in un ente che crediamo di aver creato noi stessi, ma del quale noi non siamo che fenomeni passeggeri. Niente di tutto ciò, vi rispondono altri: lo stato non è che la volontà (necessaria o libera secondo particolari teorie correnti) degli uomini di un dato territorio, che per bisogno d i vivere insieme si sono dati delle leggi che essi stessi, o chi per loro, modificano secondo i propri gusti. Lo stato così si identifica o col popolo che si regge da sè, o si fa reggere secondo la propria volontà (democrazia); ovvero con il gruppo dei governanti, o con l'unico capo (oligarchia-monarchia) che tengono il potere senza risponderne a l popolo, sia per usurpazione, sia per diritto storico, sia per processo di acquisizioni parziali, rivoluzioni e guerre; trasformando i l fatto in di-

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ritto, dandovi consolidamento per coercizione di capi armati, d i polizie onnipotenti, o per tradizione e adattamento. Tale interpretazione dei fatti non risolve il problema della natura dello stato. Questo può essere guardato sotto due angoli diversi: come un'entità fuori di noi che ci tiene a sè legati; ovvero come una nostra creazione momento per momento in una totalità operante per nostra volontà. Nel linguaggio comune, stato è preso come un fuori di noi. Esisteva ( i n data maniera) prima che ciascun di noi venisse al mondo; lo lasceremo (nella stessa o in altra struttura) quando cesseremo di vivere. Nulla, apparentemente, vi avremmo dato durante i pochi o molti anni della nostra esistenza, tranne l'apporto di una vita che in parte dipendeva dall'azione statale (difesa della libertà, difesa dell'individuo, mezzi di vita, istruzione, sicurezza, e così di seguito); in parte dipendeva da eventi fuori di ogni struttura sociale. Questo ente collettivo fuori di noi, o diverso da noi o altro da noi, che chiamiamo stato, non ha volontà propria, non ha voce propria, non ha figura esistente, nulla che lo possa individuare. Le leggi? una collezione di volumi che per essere appieno conosciuti non basterebbe un'intera vita di studioso. Le leggi esisiono neiia voiontà di chi ie osserva o di chi Ie fa osservare, giorno per giorno. Appena cade questa volontà umana, personale, le leggi restano scritte nei volumi, raccolte nelle biblioteche, e possono essere completamente ignorate o dimenticate, salvo a essere rimesse in onore quando e come piacerà agli interessati, ai giuristi, ai legislatori : vigilanti jura succurrunt. Lo stato è rappresentato da istituti: monarca, presidente, parlamento, governo, diplomazia, giustizia, polizia, esercito, finanza. Infatti sono questi gli organi principali di uno stato. Gli altri organi sono sussidiari, potrebbero non esserci: in America non c'è u n ministero della wubblica istruzione (fortunatamente, penso io), eppure esistono a migliaia scuole statali e scuole libere, fra l e quali non poche di primo rango. Non è l o stato che rende vitali i suoi organi; è l'uomo che li vivifica, l'uomo che l i mortifica, l'uomo singolo e organizzato, la persona reale effettiva, non l'epte astratto che si usa chiamare stato. Com'è possibile, in tanta relatività, strettezza di idee, contesa d i wartiti. libertà limitata ora da folle che tumultuano, ora da partiti che premono, da alleati internazionali che impongono, da stati nemici che minacciano, parlare di Stato (con l'esse maiuscola), ente extra-umano, idealizzato come una divinità che pare che parli ai poveri sudditi, parole eterne di un potere quasi divino ? Al contrario, l a storia degli stati dall'antichità a oggi non è che una serie di guerre, rivolte, delitti, ingiustizie, concussioni, A

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sperperi, tutto commisto, s'intende, a opere buone, spesso fatte per vanjtà d i capi e con il sacrificio di molte energie e vite. I1 che non dà l'idea di uno stato (C etico n come recentemente veniva definito, o di un ente che sia la più perfetta realizzazione dello Spirito o della Idea, secondo il pensiero di Hegel. Conclusione : gli uomini sono costretti a cercare qualche teoria più ragionevole. Le teorie dello stato primo assoluto, O realizzazione suprema dello Spirito, o entità extra-individuale, non reggono, portandoci a una concezione irreale, e perciò anche antiumana, che ripugna alla ragione e manca di base.

Torneremo allora a l principio di san Paolo: non c'è potestà che nomn venga du Dio? Questo è il punto sul quale gli statalisti moderni sono obbligati a riflettere. " I1 significato d i tale insegnamento non è certo, come vollero a suo temno i teorici del « diritto divino ».che i monarchi fossero investiti personalmente dell'autorità e del potere che deriva da Dio; e neppure l'altra teoria opposta che i l potere civile fosse comunicato a mezzo del potere religioso (papa o vescovo); e neppure che i limiti a tale potere fossero posti in forma positiva da Dio o dai suoi ministri, ovvero non vi fossero altri limiti, oltre quelli etici, che derivino da una investitura da Dio. I1 senso è ben altro: come da Dio creatore viene all'uomo l'essere di individuo ragionevole e libero, viene anche l a sua condizione di essere sociale; la potestà sociale deriva dalla natura organica della società (proprio dalla natura creata da Dio). Così l'assolutezza della frase: « non vi è potestà che non venga da Dio » indica che i l potere sociale dell'uomo sugli uomini (quale ne sia la forma) entra nell'ordine della creazione, è ordine naturale-razionale e quindi di origine divina; i n sostanza, non è un'invenzione umana, della quale gli uomini possano fare a meno. È umano il modo di individuare il soggetto dell'autorità, l e persone investite, i limiti pratici, le garanzie formali, tutto quanto la storia ha espresso attorno all'istituto dell'autorità (anche quella paterna che è la più naturale di tutte); ma l'esistenza, l a necessità e il carattere intrinseco dell'autorità è la natura che l'impone, è da Dio creatore che si ripete. Pertanto, la parola dell'autorità è in certo modo creativa anch'essa: è l'espressione decisiva di una serie di fattori convergenti verso la realizzazione sociale. L'autorità stabilisce, legifera, decreta, comanda; se l a sua parola non fosse operatoria, cesserebbe non solo l'autorità, ma la società. Ne deriva che l'autorità, per essere efficace e formare l'atto

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collettivo armonico e vivifico, debba essere I'egittima, basata sulla razionalità, diretta al bene comune, debba usare mezzi leciti e mantenersi nei limiti derivanti dal carattere specifico che il tipo di società impone. Fuori di questo quadro non si ha una potestà che venga da Dio, che risponda all'ordine della natura razionale dell'uomo, ma l'abuso di una potestà, la falsificazione, mancandovi i connotati intrinsecamente etici e la intima responsabilità che trascende i limiti dei doveri fra gli uomini, imponendo anche doveri di coscienza verso Dio. A bene esaminare la esistenza sociale organica degli uomini, tre risultano le forme fondamentali di società, che hanno caratteri e autonomie proprie, dove l'autorità sociale è ben definita: la famiglia, la società civile (oggi detta stato e relative forme positive) ; la società religiosa (religioni positive : principale, per fede cattolica soprannaturale, il cristianesimo). La natura assegna ai genitori l'autorità sui figli, finchè divengono maggiorenni e costituiscono altre famiglie. La esigenza dell'ordine, del diritto e della difesa, crea i vari tipi storici di società civili organizzate, ciaiia società patriarcale, aiie tribù nomadi o iisse, aiia città - polis-respublica - agli imperi, agli stati moderni. L'esigenza spirituale informa le gerarchie religiose. Le rivelazioni divine: primitiva-mosaica-cristiana, dànno alle relative religioni la impronta di una comunicazione permanente di Dio all'uomo a mezzo di organismi sociali propri. Le tre forme di società non sono confondibili, anche se storicamente abbiano avuto reciproche interferenze con tentativi di assorbimento delle autorità relative, le une nelle altre, e di soppressione dell'autonomia naturale di ciascuna secondo le vicissitudini storiche in tutte le parti del mondo. In tutte tre le forme suddette l'autorità è stata sempre posta in una posizione morale altissima, esagerando perfino e creando dei miti inumani, per le naturali deviazioni dell'irrazionale o dello pseudo razionale, che caratterizzano la lotta di conquista dell'umanità verso la razionalità delle proprie forme organizzative. L'orientamento moderno verso il panteismo di stato è una tremenda involuzione contraria allo spirito di progresso dell'uomo essere ragionevole, verso una mistica del potere che tutto assorbe e tutto comprende. La cosa più strana che poteva capitare alla umanità credutasi libera perchè svincolatasi dalla soggezione a una legge naturale di derivazione divina, e consolidata dal messaggio cristiano, è la corsa quasi fatale verso forme assolutiste e dittatoriali più aberranti di quelle degli antichi regimi, dando il posto


a un nuovo panteismo di stato ancora più tiranno di quello precristiano. Ma è proprio così: non volendo riconoscere nella personalità spirituale dell'uomo il segno divino, dal quale deriva l'etica individuale sociale - unica moralità, non due moralità, che nei rapporti sociali positivi si fa diritto - è venuta la teoria che lo stato sia l'unica fonte di diritto; e che quindi non esista un diritto naturale precedente e'superiore allo stato, così come non esista una finalità etica obiettivamente distinta dallo stato. - Da qui l'aberrante concezione di uno « stato-etico » cioè che sia in sè e per sè normativo, al di fuori di ogni legame che non sia la sua stessa volontà realizzatrice, il suo atto come dire? infinito? assoluto? creativo? divino?; purtroppo, ognuna di tali qualifiche lo assimila a quel Dio che lo stato moderno non sa riconoscere come fuori di sè e sopra di sè. Da qui la conoscenza che la libertà, quella vera e quella dei liberali dell'ottocento, individualista, anarchica, asociale spesso, passata a sostanziare lo stato etico, diviene libertà della collettività a esprimersi e a realizzarsi eliminando la libertà degli individui assorbiti nella realtà assoluta dello stato. Arriviamo all'assurdo di uno stato che pensa, vuole, si esprime, si autolimita, si sovrappone, assorbe ogni realtà: « nulla fuori, nulla sopra lo stato, tutto per lo stato e nello,stato D. Definizione già nota che occorre ricordare ai dimentichi e distratti. La libertà passata dagli individui allo stato, teoricamente e praticamente, sopprime le libertà individuali e degli enti concorrenti: famiglia, città, classi, regioni, chiese, perchè l'unico ente libero, autolibero, che assommi in sè ogni autorità e ogni libertà sarebbe lo stato. Così concepito, lo stato manca di limiti intrinseci ed estrincesi; la libertà attribuita allo stato annulla quelle individuali e annulla i limiti naturali ad ogni autorità. L'investito o gli investiti di poteri statali, in quanto investiti e attuanti la volontà dello stato, non hanno più responsabilità limitative; essi sono, in quell'atto potestativo, lo stato: stato-autorità, stato-forza, statolibertà. Concezione assurda e inumana. Veramente panteista, in quanto lo stato così concepito non ha sopra di sè nè l'uomo nè Dio. Dio è scomparso e l'uomo è divenuto schiavo.

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L'espressione più marcata del panteismo di stato è la dittatura moderna, nelle tre-forme come si è presentata d i dittatura socio-nazionalista (Mussolini e imitatori); ,dittatura nazionalerazzista (Hitler); dittatura bolscevico-comunista (Lenin-Stalin). I presupposti teorici di tali tipi sembrano diversi da quelli


sopraddescritti e più appropriati all'orientamento positivista dello statalismo giuridicoe-a quello idealista dello stato a etico M. Ma a parte le derivazioni dottrinali occidentali e i ripieghi teorici di fenomenologie mistico-politiche di occasione, la sostanza è la stessa: la concezione di un potere illimitato e di un tiapasso di tutti i diritti delle collettività nello stato, e quindi nel dittatore. La differenza fra i sistemi dittatoriali e quelli democratici non è nelle premesse teoriche e neppure nella pratica articolazione dell'amministrazione statale, è in quel poco di cristianesimo che è rimasto nella coscienza dei popoli occidentali, non ancora soffocato dalla concezione statalista, e in quel rispetto delle libertà olit ti che, che rende ~ossibile,per quanto non molto effettuale, il dialogo fra i detentori del potere e i liberi cittadini in singolo o uniti in ,associazioni. Ciò sembrerà esagerato al lettore superficiale, come sembrò esagerato a un mio amico un mio studio ~ u b b l i c a t oin una rivista americana, nel 1936, nel quale derivavo l e dittature di Hitler e di Mussolini dalla concezione statalista democratica. Lo statn reggreaent~tivi, priiiir. dvtte liberale e poi democratico, trova in teoria la sua radice nella volontà popolare, la esprime, la rappresenta, la articola e la attua; si tratta però di una volontà potenziale, implicita, senza limiti e solo limitabile nelle realizzazioni concrete. Ammesso il principio che lo stato eia unica fonte di diritto, che lo stato crei una propria etica perchè esso stesso è intrinsecamente etico ; ammesso che la legge positiva sia l'unica vera legge, le conseguenze teoriche che influiscono sulla pratica sarebbero le stesse di quelle derivanti dalle premesse dello stato dittatoriale. La differenza pratica andrà scomparendo mano a mano che la resistenza civica si andrà attenuando, e questa sar.à sempre più fiacca mano a mano che la demagogia prende piede e accende il fuoco del mito rivoluzionario. Chi oggi non ricorda il periodo delle dittature demagogiche e reazionarie del terrore, del direttori0 e dell'impero della rivoluzione francese e. restando in Francia. la dittatura del terzo impero che fece seguito alla demagogia di piazza, non si renderà conto quanto brevi siano i-limiti fra le. rivolte e le dittature; fra l e democrazie demagogiche e le reazioni; per le quali (ecco il punto centrale) i detentori del potere statale ~ e r d o n oil senso del limite morale della loro ~ o t e s t àe affermano diritti illimitati sui singoli - e sulla comunità. L'esperienza delle dittature di questo secolo è ancora ,più probante d i quella del secolo scorso, ma non è d i differente natura. Si sono aggravate le ingerenze statali in quanto la struttura ,


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della vita moderna, resa dai nuovi mezzi tecnici più intensa e complessa, h a abbreviato distanze, abbattuto barriere di lingua, razza, economie; ha creato tipi di guerra globali che impegnano i popoli, avvicinando e distaccando intieri continenti. Intanto, sotto la spinta delle necessità, pubbliche, lo stesso stato democratico tende a sostituirsi nei diritti e negli interessi dei privati. I1 vecchio limite fra diritti individuali o familiari e diritti pubblici o degli enti pubblici non regge più di fronte all'invadenza statale. I limiti giuridici sono facilmente sunerabili da coloro che credond c h e s i a lo stato che crei il diriito e che al di là del diritto positivo non esistano diritti umani intrinseci e permanenti. I1 positivismo giuridico porta difilato al panteismo statale; e se fanno da freno il buon senso, la tradizione, il rispetto a certi principi sentiti ma non valutati come tali, ritornano in campo spesso le teorie positive in tutta la sfera del giure quasi fossero una conquista dell'individuo sulla società, mentre rendono l'individuo mancipio dello stato. Coloro che affermano che la libertà individuale ancora esiste solo perchè il cittadino può parlare, scrivere e votare (cosa che sotto le dittature più non avviene), non si accorgono che la quasi scomparsa della libertà economica sotto la valanga dell'interventismo statale, in tutti i campi della produzione, porta fatalmente all'attenuazione e alla scomnarsa della libertà wolitica che vi è connessa, riducendo le libertà formali ( d i riunione, di parola o di voto) mancanti di contenuto e auindi sterili e vane. Rimarrebbe la valvola eléttorale per la quale è possibile, in teoria, cambiare non solo maggioranze e governi, ma anche metodi e regimi. Ma chi si è accorto in Italia che il sistema amministrativo burocratico accentrato e invadente del fascismo sia 'oggi cambiato alla distanza di nove anni dal 25 luglio 1943 e dopo otto anni dal 25 aprile 1944? E chi ha potuto togliere dalla mente del popolo italiano che lo stato possegga il toccasana per tutti i mali? che occorra per ogni qualsiasi servizio creare un ente pubblico statale o parastatale che vi provveda? che ogni cittadino debba essere ridotto a impiegato statale, assicurato statale, pensionato statale? che ci debba essere una cinematografia statale, un teatro statale, una pittura, scultura, musica statale, danza statale, casini da gioco statali o bische statali, totocalcio statale, sport statale? e così via via nulla fuori o sopra lo stato, tutto e tutti nello stato e per lo stato e sostenuti dallo stato, come se lo stato fosse Dio, la provvidenza, la fortuna con la cornucopia. A

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È ben noto che fin dall'apparire dello stato moderno i cattolici cercarono di rendersene conto e opposero una certa resi-

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m Politica e rntrale

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stenza che andò sviluppandosi fino alla più aperta opposizione. Mentre sul terreno strettamente religioso, specialmente durante le fasi più acute della rivoluzione francese, i cattolici non mancarono di coraggio, facendo anche il sacrificio della propria vita; sul terreno ideologico e politico si mostrarono impreparati e, nella maggior parte, legarono istituti e teorie religiose con diritti e interessi storici dei regimi passati e delle caste dominanti. La catena al piede di posizioni politicamente equivoche e negative, fu portata per lungo tempo, sicchè l'intervento dei cattolici nella vita ~ u b b l i c anel secolo scorso, in molti casi fu posto quasi esclusivamente sul terreno difensivo, unendo « il trono con l'altare D, gli interessi temporali con quelli spirituali. L'evoluzione è avvenuta tra l'ultimo &arto del secolo passato e il presente, per l'apporto dei movimenti detti cristianosociali e democratici cristiani; e in seguito per gli effetti delle due guerre mondiali; e per una sempre maggiore spinta dell'azione dei cattolici nel campo sociale. Purtroppo l'inserzione delle dittature socio-nazionaliste fra l'una e l'altra guerra, influì in senso involutivo e statalista i n quasi tutti gli ambienti cattolici, compreso quello anglo-sassone, t e a r a fii fattt? ~ E S S E T Pcome dleztp. a!e dittzcosì che la CE~PSE ture in Italia: Spagna, Portogallo e sotto certi akpetti i n Germania. Venne fuori una letteratura deteriore che invase il campo cattolico, teorizzando il nuovo statalismo-corporativista, e la nuova intesa dell'autoritarismo statale con quello ecclesiastico. L'esperienza dittatoriale che impegnò prima e durante la guerra quasi tutta l'Europa continentale, tranne i piccoli stati del nord, pur avversata dai democratici cristiani dei vari paesi, ha influito notevolmente a creare una premessa statalista nella concezione pubblicistica presente, anche nella mente dei democristiani riapparsi nelle fasi della resistenza, specie quelli che venivano dai regimi dittatoriali in Francia, Italia, Germania, Austria e ne avevano subita l'impronta. Gli eventi sono stati più forti di qualsiasi premessa teorica anche dei democristiani più preparati. Questi furono chiamati a dirigere il paese senza una sufficiente esperienza, trovando la nazione prostrata, lo stato disorganizzato e boccheggiante; obbligati a provvedere con mezzi di fortuna e con aiuti esteri molto limitati e insu5cienti a tanti bisogni e a tante miserie; obbligati, allo stesso tempo, a collaborare con partiti socialisti che rinverdivano le teorie di Marx e con una borghesia che tutto chiedeva allo stato per rialzarsi, e per giunta condividendo il potere per un certo tempo con i comunisti, veri cavalli di Troia delle democrazie post-belliche. Lo statalismo, già inoculato nel sangue europeo dalle teorie

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naturaliste e.laiciste dette liberali dell'ottocento, fu potenziato dalle varie correnti politiche del socialismo mamista prima e del nazional-fascismo o razzismo i n seguito. Era impossibile per le improvvisate e demagogiche democrazie dell'ultimo dopoguerra cambiare rotta. P e r giunta, nessuna sana teoria anti-statache si potevano riallaclista aveva corso. I cattolici italiani ciare alle nette posizioni popolari dell'anteguerra; quello dell'appello « ai liberi e forti n, impegnati a sostituire con uno stato popolare « l o stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica individuale )) - pur avendo avuto il merito delle affermazioni di libertà e autonomia contenute nella costituzione, non reagivano alla campagna statalista e abbandonarono i l terreno sotto il vano timore di scompaginare l a consistenza e l'unità statale. I1 difetto di una teoria dello stato, sostanzialmente e veramente cristiana, rende difficile l a impostazione etica, organica e strutturale dello stato democratico. Le difficoltà di smontare l a macchina soffocante della burocrazia sono rese più gravi, e direi insuperabili, dalle esigenze sociali quando si vestono di socialismo e comunismo come accade assai spesso.

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Fra gli studi di sociologia e di psicologia dovrebbero meglio svilupparsi quelli sui vocaboli che fissano l e idee atte a formare l e cosidette ipostasi o entità nominali, figurative, rappresentative delle collettività. La parola « stato » per il continente europeo e per i popoli europeizzati, è una di queste. I1 significato originario fu quello di comunità civica, e fu usato per distinguere gli interessi dei cittadini da quelli del sovrano e della dinastia, la finanza pubblica da quella privata della casa regnante. I n sostanza la parola stato era una traduzione moderna della res publica latina applicata a un regime monarchico assoluto. Così nessuno mai parlò comunemente e storicamente di stato svizzero, ma di cantoni e di confederazione ; solo di recente si parla anche di nazione svizze~a,derivata più dal concetto d i nazionalità o cittadinanza anzichè da quello dr' una unità linguistica o razziale. I n Inghilterra, nell'uso comune non si parla di stato inglese O britannico, ma di Regno Unito; l a parola stato è riservata a due concetti fondamentali, quello dei rapporti fra chiesa e stato (cioè comunità religiosa e comunità civica come due entità, p u r essendo in Inghilterra unite nel capo: il re); oppure negli affari di stato nei rapporti fra il Regno Unito e gli stati esteri. Negli affari interni e nei rapporti con i cittadini si usano l e parole di amministrazione, governo, parlamento. E d è logico:

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stato sono i cittadini organizzati; non c'è rapporto esterno fra cittadini e organizzazione come se fossero due entità distinte. Lo stesso uso è in America, con l'aggiunta che vi si parla di u Stati Uniti n per indicare l'autonomia sovrana di ogni singolo stato federato, non mai per precisare i rapporti col cittadino, che sono sempre quelli dell'admirtistration o del government o dell'assembly per ogni singolo stato; mentre per il governo federale sono il congresso: senato e camera dei rappresentanti, l a Casa Bianca (presidente), i-dipartimenti e le molte agencies. L'unico organo che fa riferimento allo stato è il Department of State, che corrisponde al nostro ministero degli affari esteri e che h a anche u n potere coordinativo con gli) altri dipartimenti (ministeri) per i nflessi con l'estero. Non esiste presso gli anglosassoni la ipostasi gonfiata e opprimente dello stato che si è creata nell'Europa continentale e che mantiene una distinzione fra l'entità astratta e i cittadini. Questa nacque nell'ancien régime, quando i monarchi mal tolleravano ed erano gelosi della personalità della res publica distinta dalla figura del re quale capo dello stato, e peggio tra finanza personale della casa e finanza pubblica; mal tolleravano gli stati generali e i consigli di stato o i parlamenti e le università che si intrigavano negli affari di stato e simili; al punto da far dire a Luigi XIV: lo stato sono io, nel senso che la res publica si impersonava nel sovrano. I n quel tempo e per un secolo ancora le principali controversie furono tra i monarchi e la Santa Sede o i vari episcopati, specie i n materia di giurisdizione. Quel che un tempo era classificato come conflitto fra C< il sacerdozio e l'impero » o fra « il potere spirituale e il temporale », fu detto conflitto fra u lo stato La parola stato si generalizzò con tale conflitto. e la chiesa >). L'epoca moderna passò dai conflitti .concordatari e giurisdizionali fra stato e chiesa alla separazione dello stato dalla chiesa. Le. due entità tornarono, quindi, a dominare nella opinione pubblica con le vivaci controversie del tempo fra clericali e liberali (o. laicisti) e viceversa; mentre lo stato nazionale, che soverchiò e fece sparire lo stato monarchico assoluto, si presentò .come antagonista della chiesa, cercando di formarsi proprie teorie, propria cultura, proprie scuole, pur dicendosi rispettoso della libertà, della coscienza e della individualità dei cittadini. Il cammino dell'idea dell'ente stato come esistente al di fuori dei cittadini stessi fu facile a trionfare alla luce delle teorie laiciste dal naturalismo enciclopedico fino al comunismo- bolscevico.' La teoria che basa la società sulla personalità umana, la quale crea i'diritti e i doveri nei rapporti reciproci sia individuali

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che sociali, se bene intesa è quella che si può mettere a. fronte delle teorie stataliste, sia del passato che del presente. La democrazia cristiana l'ha fatta propria, ed ha,buona base per affermare la spiritualità cristiana della sua ispirazione e la democraticità del suo programma. Per essere coerente alle premesse occorre evitare che si confondano i diritti e doveri derivanti dalla personalità razionale dell'uomo, con i mezzi che l'uomo si crea per valorizzarli nella società. Lo stato è un mezzo necessario; ed è creazione dell'uomo nella concretezza storica di ciascuno stato e nei tentativi d i sintesi fra autorità-libertà nella quale si sostanzia il potere pubblico; mentre è la persona umana che per il bene comune si autolimita nei due fattori della sintesi sociale: l'autorità e la libertà. Niente stato entità a sè, assoluta, deificata. Lo stato è concretizzazione di una delle tre forme originarie della socialità: la comunità civica; mezzo e non fine dell'attività degli uomini consociati, tendenti nel loro cammino terrestre a finalità che superano gli stretti confini di questo basso mondo. 8 agosto 1952.

(Sta in «Eresie del secolo D, Assisi, Ed. Pro Civitate Christiana, 1952).

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INDICI



INDICE ANALITICO

BENE COMUNE, 63, 375-376. BOLSCEVISMO, 15, 29, 34, 75 (v. anche comunismo). BORGHESIA, 40-42, 53, 123, 352, 359.

101-115, 192, 248-258, 303-304, 306, 316, 320, 330, 364-372, 385-387. CENTRO(partito democratico cristiano tedesco), 117-11& 120, 169. CHIESA, 3-18, 20, 28, 35, 76-79, 163178, 179-195, 248, 266.267, 274, 316, 342, 363, 387-388. CITTADINI, 147-162, 167, 364372 (v. anche diritti e doveri). CNILTÀ, 14, 226-229. CIVILTACRISTIANA, 35, 230-232. CLASSILAVORATRICI, 40-42, 47, 350, 359.

COLLETTIVITÀ, 15-16, 123, 227, 346, 348, 356, 387. COLONIE,140-146. COMUNISMO, 5, 71, 188, 192-194, 298, 318, 329, 350, 359. COMUNITÀINTERNAZIONALE, 308, 311. CONDIZIONAMENTO, 202-203. CONVINCIMENTO, 60, 204-206. CORPOELEIMRALE, 48-51, 285-286, 300, 352, 361-363. CORPORATIVISMO, 34, 43-44. COSCIENZA MORALE, 59-60, 72-75, 78-79, 158-162, 198-231, 238-239, 253-256, 268, 299. COSCIENZA RELIGIOSA, 14. COSCRIZIONE, 149.

DEMOUIAZIA, 11, 27, 37-57, 72, 262-264, 283-286, 326-356, 357-363, 367-370, 375, 385. - CBISI DELLA, 37-57. DEMOCRAZIACRISTIANA, 97, 263-264, 338-339, 368-370. Dm~m E DOVERI, 147-162, 300-312, 358, 364-372. DIIUTID, 35, 6465, 73, 308-309. - I ~ A Z I O N A L E ,65. - NATURALE, 23-24, 342.


DITTATUBA, 31, 52-53, 64, 383-387 (v. anche stato totalitario) DOPOGUERRA, 67-68, 132-133, 140-141, 338.

OBIET~BI DI COSCIENZA, 78, 161. OPINIONEPUBBLICA, 73-75. ORDINE INTERNAZIONALE, 313-317 (v. anche politica internazionale)

IMPEGNO~ DEI CBISTUWI

NEL

MONDO,

76-115, 330.

INDIVIDUALISMO, 39, 42, 54, 134, 263, 304, 350, 355.

INGIUSTIZIA, 249-252, 290-292, 295-296. IEREDENTISMO, 138439.

PACE,276-282, 313-317, 335-339. PANTEISMOSTATALE, 379-389 (v. anche statalismo). PARLAMENTO, 11, 44-46, 321, 337, 349350, 358. P m n , 31, 46-49, 8588, 105-115. - DEMOCRATICI CRISTIANI, 84, 107-109. PARTITOPOPOLARE ITALIANO, 100-103, 106-107. P~SONA 15-16, , 5455, 74-75, 261, 328, 346, 376-378. PERSONALITÀ, 136-139, 273, 304, 348, 388-389. POLITICA,3-18, 58-96. 198-239, 265-275, 297-313, 336-337, 364378. - ESTEBA, 222-225. - A-, 217-221, 235. - ~NTEBNAZIONALE, 17, 119, 276-282, 308-309, '337-339, 371. POPOL~ OPPFSI, 132146, 255. POPOLO,8, 38, 136-139, 264, 321, 341; 342, 359-362, 374. POSSESSO,3-18 POTEBE, 3-18, 49.51, 62, 98, 270, 273, 285296, 340-356, 358, 381-383. - TEMPOB~LE, 179-187, 266.


SCHIAVITÙ, 3, 5,12, 144, 246, 312, 357. SCUOLh STATALE, 32-33. Soc~mA,5-18, 233, 246, 267, 303, 342, 376-378, 384. Soc~mADELLE NAZIONI, 66-69, 132-133, 141, 144146, 156-157, 160, 188-195, , 277-282, 296, 310, 314. SOCIALISMO, 27, 40, 42, 83-86, 118, 318, 329, 359.

SOVRANITA, 10, 22-24, 273, 361.362. SOVRANITÀ POPOLARE, 8, 23, 195, 341, 342-346. , STATALI~M~, 9&101, 360, 375, 379-389. STATO,8.18, 19-36, 98-101, 151-154, 195, 243-247, 255.257, 267-275, 287288, 302-312, 336-337, 373.378, 379389. , - FONTE DI D I R m , 373374. - TOTALITARIO, 1936, 57, 259-261, 299, 306, 328, 343.



INDICE DEI NOMI

ACHILLE,234. ADAMO,227. ALBERTINI Luigi, 121. I11 papa.? 183. ALESSANDRO ALFONSO XIII di Spagna, 169. ANILEAntonino, 108. ARCOLEO Giorgio, 45. ASBWRGO (casa), 28, 138, 1391 ATRE Clement, 371. A Z ~ Manuel, A 126. BELLARMINO Roberto, 163, 171, 250, 342. B F . N E D XV, ~ 168, 187, 189, 190, 191, 277, 311, 314, 316, 370. BERNARW san, 183. B ~ s s omons. 190. BETRMANN-HOLLWEG Theobald von, 62. BISMARCKOtto von, 26, 27, 62, 234. BLUMLéon, 260. BODINJean, 22. BONIFACIO VIII, 3, 188. BQNTADINI Gustavo, 244. BORGIACesare, 62: B o s s m Jacquea Bénigne, 23, 24. B m o Emanuele, 25. BOURNEcard. Francis, 76, 77, 78, 79, 82, 86. BAOMBACHER Kuno, 303. BR~NING Heinrich, 80, 118, 119, 193.

CAINO,227. CALVINO Jean, 189. CAMPANELLA Tommaso, 336. CASTELNAU gen. Edouard de, 113. CATHREIN Victor, 165, 166. CESARE, 289. C H E S ~ T OGilbert N Keith, 81. Winston, 371. CHURCHILL CICWONE,306, 358. ' C L E MXIV ~ papa, 184. , COMBESEmile, 101, 126: COMTEAuguste, 54, 98, 192. COMMODO, 289. CORBINO Epicarmo, 108. CRISPI Francesco, 110. CROCEBenedetto, 108. CROMWELL Olivier, 362. CURTIUSJuiius, 119. DANIELE,373. D'ANNIBALEcard. Giuseppe, 300, 302. D'ANNUNZIO Gabriele, 108, 111. DANTE,235. D m o , 373. D A V ~ E372. , DE BONOEmilio, 112. DECOUR~NS Gaspard, 338. DOLLFUSSEngelbert, 43, 169, 300, 307. D O M I Z ~ 289. O, DONATIGiuseppe, 111. DBEYFUS Alired, 31, 93, 109. DUGUXTLéon, 171, 250.


EDEN Anthony,

193. E n o m VI11 d'Inghilterra, 13, 62. ELISABET~A d'Inghilterra, 351. ENGHIW, duca di, 73, 315. E m c o I1 d'Inghilterra, 73'. E s m , 286. EVA,227. FACTALuigi, 121, 176.

F m a n m padre O.P., 301. FEDERIW di Prussia, 28, 351. Feo~aicoI1 di Svevia, 189. F I C HJohann ~ Gottlieb, 26, 27, 319, 343. FRANaco GIUSEPPEd'Asbnrgo, 315. F ~ . ~ + ~ c Eda s cPaola o (san), 4. FRANw Francisco, 70, 105.

HEGEL Friedrich Wilhelm, 26, 54, 98, 343. HENDERSONArthur, 79, 91. HENLEINKonrad, 320. HEBNIANT M?, 113. HITLEBAdolf, 33, 69, 75, 88, 89, 113, 116, ii7, 121, 126, 129, 149, 167, 169, 170, 192, 193, 223, 260, 268, 277, 354, 362, 384. HOARESamuel, 58, 59. HOBBESThomas, 23, 24, 98, 324, HUDILL mom. Alois, 303. HUGENBER~ Alfred, 121.

27,

105, ids, 214, 383,

342.

JOHANN Réné, E T 251. G.~I~IIXGOU-LAGBANGE R. OP., 271, 175. 177, 251. GASPARRI card. Pietro, 106, 172. GENTILE U e r i c o , 65, 516. GENTILEGiovanni, 243, 244, 247. , GENY Franco&, 171, 249. GESÙ Cristo, 35, 36,,74, 114, 125, 126, 129, 174, 181, 182, 224, 231, 232, 269, 271, 299, 311, 315, 345. G r ~ c o ~vesc. o di Capua, 189. GIOBEUTI Vincenzo, 338. G ~ o Giovanni, m 108, 111, 121, 122. GIOVANNIevangelista, 3, G ~ u s n m o 341. , G o m c Hermann, 354. GOLIA,373. GQYAUGeorgee, 249. GBECORIO Magno, 183. GriEcoaio VII, 4, 183. GBEGOBIO M, 189. Gmcoaro XVI, 163, 164. G m lord Edward, 122. &ozio Ugo, 65. GUGLIELMOI1 di Prumia, 27, 188, 214. -

LACORDAIRE Jean Baptiste Henri, 338. LAS CMM Barthélemi de, 312. LASKIHarold J., 25. ~ V A L Pierre, . 58, 59, 62, 69, 119, 224. LECLEBCQ Jacques, O.B., 176. LE FUBLouis E., %9. L E M m Julea A., 338. LENM Vladimir Ilich, 33, 383. LEONEMagno, 181, 182. l LEONE111, 183. LBONE XIII, 89, 163, 164, 167, 168, 170, 172, 186, 191, 246, 298, 332, 338. Lo- John, 171, 250, 342. LUIGI'=V, 25, 62, 214, 351, 388. LUIGI XV, 286. LUIGI XVI, 319, 340. L U ~ Martin, O 22, 23, 25, 36, 125, 126.

HABMEL Léon, 338. I ~ ~ UMaurice, ~IOU 249.

MACDONALD James Ramsap, 79. ~ C H U E L L INiccolò, 21, 22, 36, 62.

t

"

Ituvr Emmannel, 343. KECWGG Frank Billings, 156, 157, 5 9 , 296. KETLER Wi?helm Emanuel, 338.

'


I

MADELINLOuis. 113, 114. MAGNINabate, 176. MANZONIAleseandro, 338. M A O M E ~32, , 33. MARC'AUR~LIO, 289. MARIANA Juan, 342. MARITAINJacques, 170, 248. MARXKarl, 27, 343, 386. MARXWilhelm, 118. M ~ m Giacomo, m 72, 73, 112. MAURRASCharles, 66, 105, 170, 248, 252. MCCORMICK Ann, 371. MICHEWLNGELO, 180. I MILLERAND Alexandre, 249. M o ~ m v(Skriabine Viacheslav), 371. MONROEJames, 55. MONTALEMBEXT Charles, 338. MOROTommaso, 336. MUSSOLINIBenito, 33, 46, 69,*74, 91, 103, 105, 109, 113, 116, 117, 120, 122, 362, 383, 384. NAPOLEONE Eonaparte, 30, 32, 74, 104, 149, 167, 188, 214, 268, 315, 326, 359, 362, 374. NAPOLEONE 111, 95, 294, 359, 362. NAUDETPaul Antoine, 338. NERONE,289. N r r n Francesco Saverio, 121. O'CONNELLDaniel, 338. OLDFIELD(dep. ~ a t t . )77, ~ 78. OLGIATIFrancesco, 244. ORLANDO Vittorio Emanuele, 121, 133. PACELLIcard. Eugenio (Pio XII), 322, 370. PAGANELLI, 183. P A Odi~ Tarso, 181, 289, 304, 305, 340, 344, 345, 375, 381. P A P Franz ~ von, 118, 119, 121, 300. PASCAL Blaise, 73, 280. . PERROUXFrancois, 127. PEETINAX (Geraud André), 193.

'

PÉTAINPhilippe, 359. ' * PETRABCA Francwco, 235. PIETRO 9811, 75, lm, 186. PILSUDSKIJcseph, 19, 169. PLATONE,336. Pro VII, 167, 188, 192. Pro IX, 164, 192, 293, 294. Pro X, 172, 186. ' PIO XI, 35, 81, 86, 87, 90, 96, 103, 131, 173, 175, 177, 190, 191,' 193, 231, 259, 300, 310, 317, 318, 322, 364, 365, 367. PIPINOil Breve, 167, 176, 243. POULLETProsper, 84. POTTIER abate Antoine, 338. ' RATHENAU Walter, 119. RIQUET Michel, 170, 171, 172, 249, 250. R r m Emil, 303. RIWA Primo de, 105, 168. ROOSEVELT Franklin Delano, 56, 371. ROSMINIAntonio, 338. ROSSELLI(frstelli), 72. ROUSSEAUJean. Jacques, 23, 24, 98, 246, 247, 263. 322, 343, 345, 350. . SALANDRA Antonio, 111, 121, 122. SCHLEICHER Kurt von, 119. SCHOBER Hans, 119. SCHRAMECK (min. frane.) 170, 248. SCHUSCHNIGG Kurt Edouard, 294. SCHUSTER card. Ildefonso, 87. SCURRI., 78. SEGURAcard., 169. SILVESTRO papa, 181. SIMPSONWally, 62. SPAHNMartin, 118. SPAHNOttomaro, 118. SPICQP., 283, 284. STALINJosiph, 69, 371, 374, 383. STETIINIUS Edward Reiiley, 371. STBESEMANN Gustav, 119. STURZOLuigi, 100, 342. SUAREZFrancisco, 65, 158, 311, 342.

'

'


TAPABELLI D'AZEGLIOLuigi, 164, 165. TARDIEUAndré, 119. TEBTULLUNO,l&. THOMPSONDoroty, 371. TIBERIO,289. TOMMASOd'Aquino, 166, 171, 250, 252, 253. TOMMASO Beckett, 73. TONIOMGiuseppe, 338. TRAUNO, 235, 289. TREVELYAN Charles Philip, 78. TRUMAN Harry, 371.

VILLEMAINFrancois, 50. VITIKINDO,113. VI= Francisco, 65, 158. V I ~ R I OEmanuele 11, 180. VITTORIOEmanuele 111, 113.

'

VAN ZEELAND Paul, 84, 260. VASQUEZAugustin, 158. VEUILLOTLouis, 50.

WELLES Summer, 371. . WILSONWoodrow, 145, 189. WINDHORST Ludwig, 338. WIRTH Joseph, 118, 119. YOUNGOwen D., 119. ZACCARIA papa, 167. . ZIGLIAEAcard. Tommaso Maria, 166.


TAVOLA DELLE MATERIE

Awertenza

'

. . . . . . . . . . . . . . . pag.

XI

POLITICA E MORALE

.

. . . . . . . . .

. .

Possesso e potere . . . : Lostatototalitario . La crisi della democtazia . Morale e - politica in conflitto La collaborazione politica e la morale La carità cristiana e la politica . . Germanesimo e civiltà cristiana A) Fasci e croce gammata . .. . B) La Germania verso l'apostasia Cap. VI11 Popoli oppressi A) Nazionalità, minoranze, razze B) 11 problema delle colonie . . cap. IX Il 'diritto del cittadino in caso di guerra Il diritto di rivolta e i suoi limiti . Cap.. X Cap. I Cap. I1 Cap. I11 Cap. IV Cap.V Cap. VI Cap. VI1

. . . . . . .

. . . . .

. .

.

Cap. XI v-

COSCIENZA E POLITICA

I. 11. 111. IV. V. VI.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Dei fini e dei mezzi . . Del condizionamento . . Del convincimento . . . Della veridicità,. . Della moralità Dei rapporti politici all'intemo

.

. . . . . . . . . .

. . . . .

. . . . . . . . .

n n n

199 202 206

a

207

a

211.

n

217

.


1 1 Dei rapporti politici con l'estero VI11 Ii valore etico dell'inciviliiento IX. La civiltà cristiana Note e suggerimenti di politica pratica

.

. . . . . . .

. . . . . . . .

n

222

n

226

. . . . . . . . . . . . . . . . .

n

230

n

233

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. . . . . . . . . . .

»

243

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. . . . . . . . . .

n

248

n

259

n n

262 265

n

276

APPENDICE 1 L'eticità dello stato

2. Ribellione allo stato . . . . . . . . . . . 3 L'uomo e il regime

. . . . . . . . . . . . . . 6 . La pace internazionale nel momento presente . . . . . .

I

4 La a nostra n democrazia 5 11 problema di una concezione morale della politica

7. Dellhbbidienza ai poteri costituiti . . . . . . . . b. La politica nella teologia morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9. L'ordine internazionale 10. L'ordine internazionale e la pace . . . . . . . . 11. Il nazionalismo esagerato n . . . . . . . . . . . 12. La libertà . . . . . . . . . . . . . . 13. Conquista ed esperienza della libertà . . . . . . . 14. Lo spirito della democrazia . . . . . . . . . . . a

. 16. Autogoverno

15 Democrazia. autorità e libertà

. . . . . . . . . . . . .

e suoi limiti 17. Doveri politici del cihadino 18 Politica e moralità 19 I1 panteiemo di stato Indice analitico Indice dei nomi Tavola delle materie . . . .

.

.

. . . . . . . .

. . . . .

. . . . .

. . . . .

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. . . . .

. . . . .

. . . . .

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. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

n

283

n

297

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313

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315

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318

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321

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323

n

326

n

340

n n

357 364.

n

373

n

379

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393

D

397

. . . n 6 0 1

.





Prezzo (I.G.E. compresa) L. 3.800 dopo l'entrata in vigore dell'1.V.A. prezzo al pubblico L. 3.800 3.585 prezzo di copertina


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