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R.Y. Quintavalle, D. Volpi

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Il verbo temere

Il verbo temere

L’incontro con l’orso

La pelle del cervo ribelle era domata a poco a poco dalle forti mani della donna. Seduta presso l’ingresso della grotta, lavorava di raschietto con energia; la piccola lama di selce raschiava la pelle all’interno, togliendo ogni residuo di carne, e al tempo stesso la ammorbidiva. Si udì uno sciacquìo sul fiume, apparve una tozza imbarcazione, un uomo e un ragazzo la spingevano puntando due pali sul fondo. La donna sorrise. Ricordava quanto c’era voluto per scavare un bel tronco con il fuoco e ricavare così quella piroga che solcava le acque: bisognava porre continuamente della brace sul tronco, e ravvivarla perché consumasse il legno nei punti giusti e in modo eguale. La vita dell’uomo era fatta di pazienza: con la pazienza, con il fuoco e con le selci taglienti si ottenevano grandi risultati. C’erano anche altre cose che aiutavano l’uomo. Per esempio, le ossa degli animali. Nei giorni precedenti, la donna aveva scelto con cura gli ossicini di alcuni uccelli: nei punti in cui si biforcavano, erano ottimi ami per pescare nel fiume. «Com’è andata la pesca?» domandò speranzosa. Gli risposero con l’agitare un mucchio di pesci ancora guizzanti. Altre piroghe apparvero spuntando dalla curva del fiume, altre donne sospesero i loro lavori dinanzi alle varie caverne che qua e là punteggiavano la collina. Le famiglie si riunirono, raccolsero prede e materiali, e a gruppi si diressero verso le grotte che fungevano da abitazione, trasportando a spalla anche le imbarcazioni. «Non andrete a pesca, domani?» domandò al suo uomo la donna che lavorava le pelli. «No. Prepareremo una battuta di caccia». Negli occhi della donna passò un lampo di dispiacere: il placido fiume e i pacifici pesci erano ben diversi dalle terribili belve che popolavano le foreste. Ma il ragazzo era già tutto slanci ed entusiasmo: «Padre, potrò finalmente venire con te e con gli uomini della tribù?». «Sei ancora un bambino!» intervenne la madre. «Se non imparerò a cacciare, quando mai diventerò un uomo?». «Il ragazzo ha ragione» decise il padre. «È tempo che impari ad affrontare gli animali e i primi rischi. Sì, tu verrai…». S’interruppe per dire alla donna: «Non è una spedizione pericolosa, e saremo in molti a tenerlo d’occhio. Stai tranquilla». I giorni seguenti trascorsero nei preparativi del materiale occorrente per la battuta di caccia. E c’era davvero un bel da fare! Gruppi di uomini, con colpi precisi, frantumavano blocchi di selce, o battendoli contro altre pietre, o con mazze e punteruoli, in modo da ricavarne molte schegge taglienti. Le schegge più appuntite diventavano punte di

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giavellotti, quelle più larghe e lunghe erano pugnali, le più grandi e robuste erano lame di asce; tante schegge sottili in fila lungo un bastone formavano una spada. Ai ragazzi intanto era stato dato il compito di indurire lentamente, al calore del fuoco, la punta di lunghi rami diritti, che diventavano robuste lance. Le donne facevano lacci e reti con liane e con strisce di pelli, e perfezionavano le armi, con il materiale che avevano a disposizione. Una sistemava un frammento di selce tagliente nella spaccatura fatta sulla cima d’un bastone, e lo legava con strisce di pelle per farne un’ascia, un’altra otteneva la stessa arma incastrando la lama di selce in un grosso osso. Finalmente la spedizione fu pronta. Gli uomini partirono a gruppi, all’alba; il ragazzo seguiva suo padre. Un giorno di caccia sulle colline. Il ragazzo provò il suo giavellotto contro un cervo, che fuggì veloce nel bosco. Una notte all’addiaccio. Un nuovo giorno. Un cervo e alcuni conigli costituivano già il bottino e padre e figlio erano sulla pista d’un daino quando d’improvviso grosse nuvole coprirono il cielo e la pioggia cominciò a scrosciare violenta. I fulmini solcavano l’aria. Atterriti, gli uomini cercarono un rifugio. «Lassù, ci sono delle grotte!» indicò il babbo al ragazzo. «Seguimi!». I due corsero affannosamente, flagellati dalla pioggia e dal vento. Avevano abbandonato le prede, le avrebbero ritrovate poi; stringevano solo le armi, che invece non vanno lasciate. «Siamo al riparo!» gridò l’uomo, balzando sotto la volta d’una grotta, e si volse per sorreggere il figlio, che immaginava a pochi passi. Ma il ragazzo non si vedeva, i richiami lanciati dal padre si persero nel vento. Il ragazzo correva a testa bassa, riparandosi con le braccia dalle sferzate dei rami più bassi. Seguiva il padre quasi alla cieca, abbagliato dai lampi e battuto dalla pioggia, e quando si fermò un istante per riprendere il fiato si accorse di essere solo. «Ecco lì la grotta dove s’è diretto mio padre». Ma in quella spelonca non c’era nessuno.

Stette al riparo, appoggiandosi alla piccola lancia per placare l’affanno e per riordinare le idee, e cominciò a guardarsi attorno, in fondo all’antro, nel buio, brillavano due punti luminosi. «Braci accese…» pensò il ragazzo. «Le avrà lasciate qualche cacciatore». È strano, però, che qualcuno abbia lasciato un fuoco acceso! Al ragazzo avevano sempre insegnato che il fuoco era sacro, andava onorato e sorvegliato. Ma quelle braci… si muovevano. Un brivido di terrore lo percorse: erano gli occhi luminosi d’una belva, una luce fredda come la morte. Lo spavento paralizzò il ragazzo per qualche istante, e l’animale venne avanti. Era un orso. Al piccolo cacciatore sembrò enorme. Gli sbarrava ormai l’uscita dalla caverna e veniva avanti. Il ragazzo si sentì perduto. Indietreggiò finché sentì la roccia dietro di sé. La bestia, orrenda, avanzava. «Aiuto! Aiuto!». Il grido disperato fece sobbalzare l’animale, che si gettò in avanti con le zampe aperte ad artigliare quell’intruso. Fortuna volle che il ragazzo, alle strette contro la parete, tenesse la lancia puntata in terra e protesa in avanti. Un grugnito altissimo di dolore echeggiò sotto le volte: il bestione era andato ad infilzarsi sul bastone appuntito. L’orso si ritirò un poco, con l’arma infitta nel corpaccio, ma si preparò a tornare inferocito all’attacco. «Aiuto! Aiuto!». Ma chi poteva udire un richiamo nello scatenarsi dell’uragano? La belva veniva avanti, la preda era ormai indifesa. Eppure, sembra che qualcuno abbia udito: un uomo si batté con l’orso, armato solo d’ascia. Ma ben presto rotolò in terra con l’animale, si coprì di sangue. È sangue dell’orso, e l’uomo riemerse da sotto la carcassa, trionfante. «Figliuolo!» disse, e allargò le braccia. «Babbo! Oh, babbo! Hai ucciso l’orso!». «No, figlio, lo abbiamo ucciso insieme. E le donne dovranno fare festa, stasera, per il nuovo cacciatore. Vedi? Già l’uragano si placa. Torniamo dalla mamma, che ci aspetta».

Ruggero Y. Quintavalle, Domenico Volpi, Tra cronaca e storia, La Scuola

giavellotti: lance. all’addiaccio: all’aperto. flagellati: colpiti, tormentati. sferzate: frustate.

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