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II. Un fantasma dal passato
Giunsero dunque, il vecchio e il servo, in una via elegante della zona settentrionale di Roma, un quartiere formato soprattutto da case di benestanti. Si fermarono davanti all’ingresso di una delle ville; Kaeso la conosceva bene. Per almeno sei anni, per un preciso, assillante ordine del vecchio, aveva spiato il ragazzo che abitava in quella casa, con il compito di riferire ogni particolare significativo senza farsi notare. Non conosceva il motivo dell’interesse del suo padrone per quel giovane, pur avendo cercato di scoprirlo in molte maniere. Cosa c’era nel figlio di Lucio Stazio Caro e di Livia che lo legasse al vecchio cieco? Egli lo ignorava ancora, dopo tutti quegli anni.
«Siamo forse arrivati signore?» chiese il servo con una lieve incertezza nella voce. «Questa è la casa di… del… giovane. Era qui che volevate recarvi? Siamo dinanzi all’ingresso.»
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«Bene» mormorò l’anziano. Un respiro profondo gli gonfiò il torace. «Il momento è giunto. Annuncia ai padroni di casa il nostro arrivo.»
Kaeso tirò la corda e dall’interno si udì il suono di campanelle. Immediato fu l’abbaiare dei cani e subito una finestrella si aprì e apparvero gli occhi azzurri e sospettosi di un vecchio.
«Chi siete?» chiese questi interrogando gli estranei più con lo sguardo che con le parole. L’uomo soffermò la sua curiosità soprattutto su quel cieco dall’aria solenne e sullo strano bastone che teneva nella mano destra. Fu quest’ultimo a parlare in latino.
«Annuncia ai tuoi padroni che un parente venuto dal Sannio Pentro è tornato a prendersi ciò che è suo.»
L’interlocutore, sorpreso, trasalì a quelle parole; poi chiuse di scatto la piccola finestra e corse ad avvertire i padroni di casa.
Kaeso, dal canto suo, aveva appena sentito le parole che non avrebbe voluto udire. Era la conferma dei suoi sospetti più neri e aveva solo una voglia matta di fuggire per miglia lontano da quella situazione. Ignorava cosa sarebbe accaduto di lì a pochi minuti, ma a incutergli terrore gli bastava la certezza di aver servito, per anni, un Sannita della touto5 dei Pentri. Un capo, forse, sotto mentite spoglie, pensò, visto che se Silla ne avesse conosciuta la vera identità, mai si sarebbe sognato di proteggerlo. Ma il dittatore non era uomo da farsi gabbare facilmente. E allora? Tornò confusamente all’ipotesi del traditore. In quale situazione si stava cacciando? Il tradimento è sempre pericoloso…
Il cancello si aprì e sulla soglia apparve il padrone di casa, Lucio Caro della famiglia degli Stazi di Venafrum6. Un uomo non alto, ma dall’aspetto gradevole. Aveva il fisico robusto degli Italici; la sua era una gens7 originaria di quella zona del Sannio Pentro meridionale, divenuta romana da più di due secoli, dal tempo in cui erano terminate le guerre sannitiche. Fin da allora gli Stazi avevano fatto fortuna vendendo a Roma il pregiato olio di Venafrum, tanto da permettersi una vita agiata da più generazioni e anche un’abitazione nella capitale dove risiedevano da sette anni.
L’uomo, che aveva superato da poco i cinquant’anni, guardò con intensità il vecchio soffermandosi sulla tunica, sul cinturone di bronzo e su quello strano bastone, dal quale, in particolare, sembrò turbato. Senza staccare lo sguardo dalla piccola scultura a forma di toro, si rivolse al servo.
«Un parente che viene dal Sannio, avevi detto. Ma questi due non mi sembrano parenti. Tanto meno che… vengano dalle nostre terre. Sono di Roma, mi sembra.»
5 Termine osco che individua la “comunità statale” dei vari popoli italici, a base territoriale ed etnica.
6 È l’attuale comune di Venafro, in provincia di Isernia.
7 Nell’antica Roma era un gruppo di famiglie che si riconosceva in un antenato comune e che praticava culti comuni.
Fissò l’anziano.
«Un viso conosciuto… sì, ci sono! Sei l’anziano protetto da Silla! Che cosa vuoi dalla mia casa?»
«E tu sei Lucio Caro della famiglia degli Stazi di Venafrum.» Il vecchio aveva parlato in osco e nella sua voce si avvertì un impercettibile cenno d’emozione. «Io conoscevo tuo padre Calvo Stazio. Il nostro affetto andava molto oltre il legame di sangue» continuò, parlando nella lingua dei Sanniti che sapeva essere ben compresa dal suo interlocutore. «Chi io sia veramente lo saprai presto. Accoglimi nella tua casa» aggiunse soltanto.
A quelle parole, accompagnate dal tono di chi ha autorità, Lucio Stazio non esitò un attimo di più ad aprire il cancello per far entrare i due nell’atrio. Prima di chiudere guardò in strada, a destra, poi a sinistra, per capire chi avesse potuto assistere alla scena. Nessuno, e ne fu rincuorato.
«Nella stanza delle visite» ordinò «e che non ci disturbi nessuno. Nessuno, capito?»
I due ospiti, preceduti dall’anziano servo, attraversarono l’atrium e imboccarono il corridoio che portava al giardino. Furono introdotti in una camera ben arredata. Il vecchio chiese di potersi sedere, lo fecero accomodare su uno sgabello. Non senza un nuovo moto di sorpresa da parte di Lucio, il cieco chiese che fosse convocata anche la moglie di questi, Livia. La donna venne; entrando osservò curiosa lo strano personaggio. Questi, non appena la sentì arrivare, si alzò in piedi. Poi tese la mano verso di lei, che in un primo momento si ritrasse, e ne cercò il viso; lo sfiorò con una carezza, come per indovinarne i lineamenti. Un sorriso si dipinse, impercettibile, sotto la folta barba bianca.
Livia aveva superato da poco i quarant’anni ma era ancora una donna molto bella. Nel portamento e nei suoi modi di fare mostrava tutta l’orgogliosa eleganza della stirpe ita- lica di cui conservava anche a Roma le tradizioni più significative. Il comportamento di quell’anziano sconosciuto la incuriosì, senza tuttavia turbarla troppo. Il vecchio Sannita pretese di restare solo con Livia e Lucio e questi acconsentì.
«La benedizione di tutti gli dèi sia su questa casa. Meritate ogni bene per ciò che avete fatto.»
Il vecchio aveva pronunciato la frase con solennità rimanendo in piedi. Le sue parole erano state accompagnate dal gesto solenne delle mani protese a benedire i due. I coniugi si guardarono, entrambi con apprensione negli occhi. Livia strinse la mano di Lucio. Una sensazione di disagio le attraversava ora il cuore e la mente.
«Avete chiesto il mio nome. Ebbene lo saprete. È un nome impronunciabile a Roma. Ma è giunto il tempo di rivelarlo a voi. A voi soli.»
L’inquietudine della donna cresceva visibilmente. Lucio scrutò il viso del vecchio, che si sedette. Parlò in lingua sannita con il tono austero di un antico oracolo.
«Il mio nome è Gaavis Paapiís Mutíl, Meddíss Toutίks8 dei Sanniti Pentri, Embratur 9 degli Italici nella grande guerra contro Roma.»
Silenzio. Un lungo, interminabile attimo di stupore fra i due coniugi. Lucio Stazio dapprima scosse la testa, evidentemente incredulo, poi reagì; scattò in piedi e affrontò il vecchio faccia a faccia, sovrastandolo minaccioso, come se questi potesse vederlo.
«Non è possibile, sei un impostore! Papio Mutilo si è ucciso a Teano più di otto anni fa! Tutti videro la sua testa nel trionfo10 di Silla. Chi sei e cosa vuoi da noi, vecchio? Farai bene a lasciare subito questa casa se non vuoi…»
8 Capo dello stato in ambito sannita e italico, al vertice della touto. Era una carica elettiva e aveva durata di un anno, e la stessa persona poteva essere rieletta, anche più volte. G. Papio, padre di Gavio Papio Mutilo, sembrerebbe aver assunto la carica per una decina di volte nell’ultimo trentennio del II secolo a.C.
9 Duce supremo a capo degli eserciti italici (poi solo sanniti) nel corso della guerra sociale.
Il tono della voce era stato violento, minaccioso, ma Lucio Stazio non riuscì a finire la frase. Colui che aveva detto di chiamarsi Gavio Papio Mutilo gli aveva chiuso la bocca con un gesto della mano, alzandosi di scatto e interrompendolo. Si alzò di nuovo e riprese a parlare in latino per esser certo di esser ben compreso.
«Era la testa di mio fratello, morto durante l’assedio di Nola. Aveva il volto sfigurato in modo che non fosse riconosciuto. Mia moglie Bantia, d’accordo con me, l’aveva inviata a Silla in un cesto: volemmo fargli credere che io mi fossi suicidato. Ma Lucio Cornelio, pur lasciando che tutti credessero a quella storia, non cadde nell’inganno.»
Tolse la mano dalla bocca di Lucio e tornò lentamente a sedersi.
«Ma lasciate che vi racconti tutto, affinché possiate sapere.»
Lucio Stazio si avvicinò alla moglie prendendole le mani. Aveva ancora il respiro grosso dovuto alla reazione di poco prima. Si sedette accanto a lei e l’abbracciò. Nel suo viso si leggeva l’ombra del sospetto, in quello di Livia la paura; il suo cuore intravedeva, con terrore, il vero motivo di quella inattesa visita.
«Mi catturarono più di un anno dopo. Fu Verre a prendermi, sui sentieri del Monte Tiferno11, su ordine di Silla che non aveva mai smesso di cercarmi. Da qualche tempo mi ero ritirato, cieco, stanco di guerre, lotte, sangue, di tanti sogni infranti contro il destino che aveva sempre favorito, implacabilmen-
10 te, Roma. Tuttavia abbandonare la lotta contro i nemici della nostra libertà non mi era stato possibile. L’odio di Silla nei miei confronti era vivo più che mai e io sapevo di non poter cadere nelle sue mani. Il suo desiderio di vendetta non si era saziato delle stragi e del sangue sannita versato a fiumi. Egli voleva anche me. Voleva la vendetta contro chi era riuscito a progettare persino uno stato indipendente da Roma, minacciando ancora una volta la sua stessa sopravvivenza; contro il capo dei più ostinati nemici… i più pericolosi: i Samnites, che avevano osato alzare la testa per riconquistare l’antica dignitas e la libertà… la nazione che al tempo dei padri aveva messo in discussione il dominio di Roma sull’Italia. Io, sopra tutti; mi considerava la mente della nuova rivolta, insieme a Silone, lo stratega della Confederazione nata per distruggere la Repubblica. Il Romano non mi aveva perdonato nemmeno la moneta oscena del Toro e della Lupa che ricordava a tutti l’oltraggio delle Forche a Caudio. Infine, avendo subito più volte sconfitte da noi, considerava la touto dei Pentri nefasta per la glorificazione piena della sua persona.»
Nell’antica Roma era la cerimonia solenne con la quale si tributavano gli onori a un generale che avesse conseguito una importante vittoria militare. Nella parata che lo costituiva venivano esibiti ai cittadini romani i prigionieri catturati, i resti delle vittime illustri uccise in battaglia e il bottino conquistato.
11 Nome antico del Matese, massiccio montuoso fra Molise e Campania, del quale il monte Miletto è la vetta più alta.
Una pausa. Si aprì le vesti e mostrò in silenzio il tatuaggio sul petto. Nella stanza il silenzio era assoluto. Riprese.
«Il Dictator non volle lasciarmi andare. Fu dopo la caduta di Nola e la mia cattura, che decise di ritirarsi a vita privata. Fu il suo ultimo atto, aveva compiuto ciò che voleva.»
Lucio Stazio si liberò dalla mano della moglie e, ancora evidentemente incredulo, domandò: «Perché mai Silla ti avrebbe lasciato in vita?».
«Con me vivo, accecato e ridotto in schiavitù nella stessa Roma, la sua sete di vendetta otteneva ancora di più: la mia umiliazione a vita e, attraverso me, l’umiliazione perenne di tutti i Sanniti Pentri. Progettò che il mio dolore dovesse rinnovarsi giorno dopo giorno, fino alla mia morte che avrebbe dovuto coincidere con la sua. Fu questa, ai suoi occhi, la vittoria più raffinata. Il capo dei capi dei Sanniti costretto ad assistere al trionfo di Lucio Cornelio Silla, all’avvento del suo potere assoluto, alla restaurazione della grandezza di Roma. Capite, ora?»
Ancora una volta solo il silenzio rispose alla domanda del vecchio.
«Nel tempo in cui mi ha tenuto prigioniero, prima che morisse, egli mi faceva informare delle vittorie di Roma ovunque accadessero. Sapevo puntualmente delle sue vendette contro i nemici e delle proscrizioni. La Repubblica delle antiche e nobili famiglie patrizie, questo il suo disegno, solo dopo la definitiva scomparsa dei Sanniti, avrebbe potuto finalmente dominare il mondo.»
Chiese dell’acqua. Gli fu portata dal servo di casa. Riprese.
«Fui messo a conoscenza di tutti i dettagli della devastazione cui sottopose la mia terra. Un suo centurione recitava per me, una volta al mese, l’elenco dei nomi di capi famiglia catturati e decapitati nel Sannio da Verre e m’informava del destino di ogni famiglia i cui membri erano trucidati e i figli condotti in terre lontane. Le giovani stuprate, i giovinetti fatti schiavi. Un resoconto puntuale in cui le atrocità venivano narrate ridendo. Forse Silla sperava in un mio suicidio. O forse era il suo modo di torturarmi attuando ciò che aveva promesso: la cancellazione della nazione sannita e della sua memoria; l’oblio eterno dei nomi dei luoghi e dei monti abitati dai Pentri.»
Lucio Stazio e Livia apparivano impressionati da ciò che udivano, così come il loro servo che aveva continuato ad ascoltare fuori della stanza. Nessuno osò ancora fiatare.
«Una crudeltà violenta e raffinata» riprese il vecchio «superiore a ogni umana immaginazione. Ma poteva dirsi uomo Lucio Cornelio Silla? No, egli fu più faclmente uno spirito del male incarnato. Prima di essere accecato, la notte della mia prima cattura diciassette anni fa, mi costrinsero a guardare lo sterminio di tutti i membri della mia famiglia. L’ultima cosa che i miei occhi han visto. Tutto per un suo preciso ordine.»
Chinò il capo e, per la prima volta dall’inizio del suo narrare, una smorfia di dolore gli apparve sul volto.
«Aveva deciso l’estinzione del sangue della mia famiglia, oltre che della mia touto…»
Una lunga pausa come a cercare un pensiero più profondo degli altri.
«Ma il Romano non ha vinto» disse, e alzò la testa in un rigurgito di orgoglio.
Livia strinse forte la mano del marito, mentre un dolore acuto le attraversò il petto. Lucio Stazio si scosse e riuscì a parlare. Si accorse in quel momento di avere la bocca secca.
«Cosa… che cosa vuoi nella mia casa? Perché racconti a noi tutto questo? Sono storie passate. Silla è morto da anni, ormai. Anche se tu… anche se voi foste davvero chi dite di essere, che senso ha ricordare il passato? E perché farlo oggi, qui in casa mia?»
Gavio Papio Mutilo volse i suoi occhi spenti verso i coniugi.
«Una notte di sedici anni fa» disse lentamente «riceveste qualcosa da custodire. Lo avete fatto bene. Qualcosa, o meglio, qualcuno che è caro a me come a voi, ma che non vi appartiene. Quel ragazzo è sangue del mio sangue e parte della grande nazione sannita. È l’ultimo dei Papii. Appartiene ai suoi monti, non a voi e tanto meno a Roma.»
Livia emise un urlo appena soffocato, il marito dovette sorreggerla. La donna cadde, esanime, fra le sue braccia.