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I. SIMBOLISMO, SIMBOLI E AMBIENTE

IV. LUCI DI BISANZIO di Pierre Somville

p. 69

V. LA TRASFIGURAZIONE NELL’ARTE MEDIEVALE p. 97

IN OCCIDENTE (IX-XVI SECOLO) diFrançoisBœspflug

VI. LA LUCE E L’ILLUMINAZIONE DELLE CHIESE p. 131

DAL ROMANICO AL BAROCCO di Michel Schmitt 1. Introduzione 2. L’architettura gotica 3. L’architettura romanica 4. L’architettura dell’epoca moderna

VII. L’ALONE LUMINOSO: LA VISIONE E L’ESTASI p. 161 di Émile Mâle

VIII. INCONTRI DELLA LUCE CON DUE ARTISTI: p. 211 di Giuseppe Panza di Biumo

NOTE

p. 240

BIBLIOGRAFIA DI ORIENTAMENTO GENERALE p. 249

NOTA

Lo storico delle religioni Julien Ries era solito organizzare colloqui internazionali a Louvain-la-Neuve e in Lussemburgo. Nel marzo del 1966 si tenne un incontro sul tema “Simbolismo della luce nelle grandi religioni”. Con Ries era programmata l’edizione in versione art book di tali colloqui, o di parti di essi, per valorizzare contributi che facessero da ponte tra simbolo e arte.

È il caso del volume La luce nell’arte, che raccoglie interventi di Christian Cannuyer sui rituali e la rappresentazione della luce nell’Antico Egitto, di Michel Delahoutre sull’iconografia buddhista, di Pierre Somville sull’arte bizantina, di François Bœspflug sull’iconografia della Trasfigurazione nell’arte medievale e di Michel Schmitt sulla luce in architettura dal Romanico al Barocco.

A questo corpus di scritti sono stati aggiunti due contributi in piena cogenza tematica: L’alone luminoso, la visione e l’estasi nell’arte del ’600 di Émile Mâle e la testimonianza del collezionista d’arte contemporanea Giuseppe Panza sulle due figure dell’arte degli anni ’60 e ’80 del Novecento Dan Flavin e James Turrell, affermatesi come “artisti della luce”. A introdurre il volume due brevi testi di Julien Ries sulla simbolica della Volta celeste e della Luce.

I. SIMBOLISMO, SIMBOLI E AMBIENTE

di Julien Ries

La volta celeste

Inutile dire che la volta celeste costituisce il primo elemento dell’ambiente. Il suo ruolo simbolico è capitale per la vita dell’uomo. La semplice contemplazione della volta celeste provoca nella coscienza dell’uomo l’esperienza di una forza e di una sacralità. Normalmente inaccessibili all’uomo, le zone celesti hanno il prestigio della trascendenza. Nelle religioni, il cielo è la dimora degli dei, di Dio. Mircea Eliade ha fatto notare che, se la contemplazione della volta celeste gioca un ruolo simbolico primordiale nella coscienza religiosa dell’uomo, non si tratta di una deduzione logica, ma di un dato immediato legato al fatto che, attraverso la contemplazione della volta celeste, l’uomo prende coscienza della sua posizione nell’universo.

Simbolo quasi universale, la volta celeste significa la Trascendenza, la Forza, l’immortalità. Si tratta di una ierofania inestinguibile perché al cielo sono legati il sole, la luna, gli astri, il fulmine, la pioggia, l’arcobaleno, le meteore, le tempeste. Come regolatore dell’ordine cosmico, il cielo è considerato come archetipo dei signori della terra. Così in Cina l’imperatore è chiamato figlio del Cielo. In Egitto è la dea Nut, curvata a forma di volta, che simbolizza il cielo: i suoi piedi toccano il suolo a occidente, le sue mani a oriente. Nella sua curva percorsa dal sole, la dea avvolge l’intero cosmo. La dea Nut personifica tutto lo spazio celeste ed è chiamata «la madre degli dei e degli uomini».

1. Riproduzione di una raffigurazione all’interno del tempio di Dendera in Egitto. La figura che forma un arco con il corpo simboleggia per gli antichi Egizi la volta celeste. La dea Cielo fa nascere ogni mattina il sole, che in questa illustrazione illumina il tempio dedicato a Hathor. 2. Orante genuflesso di fronte a un disco solare con 13 raggi. I primi agricoltori del mais si rivolgono alle forze della natura. Carrizo Plain, California, Usa (rilievo da Van Tilburg 1983).

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La luce nell’arte

La luce

Inseparabile dalla volta celeste diurna a causa del sole e dalla volta celeste notturna a causa della luna e delle stelle, la luce gioca un ruolo di primo piano nelle ierofanie. Nella Bibbia, in India, in Cina, la creazione è una separazione di luci e di tenebre che si confondevano. Così, la luce è un’espressione di forze creatrici del cielo, della sua potenza e della sua presenza. La sua scomparsa genera il terrore e questo ha dato luogo a numerosi riti talvolta crudeli. In Mesopotamia, in occasione di un’eclissi di sole o di luna si accendevano fuochi per vincere il terrore delle tenebre. Gli aztechi e altri popoli dell’America precolombiana immolavano ogni giorno degli esseri viventi per nutrire e mantenere la luce celeste. L’Egitto invece ha assimilato il destino dell’uomo alla nascita e alla rinascita della luce: scomparsa ogni sera, la luce ritornava al mattino e diveniva così il simbolo dell’immortalità.

In Mesopotamia, ogni ierofania è contrassegnata dalla luce; la testa degli dei è luminosa. È circondata da un’aureola che è poi stata ripresa nell’agiografia cristiana. Ma la Bibbia rifiuta ogni speculazione su un dio solare o lunare. La luce è qui il simbolo della vita, della salvezza, della felicità accordata da Dio. Il Messia è annunciato come un messaggero di luce. La simbolica cristiana riprende e prolunga il tema della luce che troviamo particolarmente sviluppato nel Vangelo di Giovanni. Nei Padri della Chiesa la luce è soprattutto il simbolo del mondo celeste e dell’immortalità.

3. Rilievo di un graffito rupestre situato nel Capitol Reef National Park dello Utah, Usa. Si tratta di un graffito della cultura Fremont (950-1200), dunque prima del contatto con gli europei. Due figure umane osservano degli astri, due mezze lune e due cerchi concentrici. Il punto di vista sembra capovolto, come se gli esseri umani fossero visti dal cielo. In ogni caso si esprime la volontà di contatto degli uomini con i corpi celesti. 4. Disegno ripreso da un sigillo mesopotamico. Vi si vede riprodotta una ziggurat, simbolo della montagna sacra che appare incorniciata dalla volta celeste; sopra di essa, quasi a toccarla, il sole. Il nesso con la trascendenza è così sintetizzato in pochissimi tratti.

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II. L’ILLUMINAZIONE DEL DEFUNTO COME IEROFANIA DELLA SUA DIVINIZZAZIONE NELL’ANTICO EGITTO

di Christian Cannuyer

A fronte: 1. Barca solare di Cheope, scoperta dagli archeologi nella piana di Giza nel 1954 e composta di 1224 pezzi, risale a più di 4600 anni fa. Conservata nel Museo egizio di Giza. Terra di sole e di luce, l’Egitto ha dato i natali, fin dal iii millennio a.C., a una religione in cui la luce1 era considerata uno dei segni della perfezione cosmica, del sacro, della divinità. Mi sembra superfluo richiamare l’importanza degli aspetti solari dell’antica religione faraonica: ne sono sufficiente testimonianza il ruolo preponderante di Re-Atum nelle più antiche cosmogonie, il prestigio della teologia eliopolitana, la solarizzazione crescente dei demiurghi locali, evocati nell’architettura sacra dalle piramidi e gli obelischi – raggi di sole pietrificati –, dalle barche del sole (Tav. 1, 2, 3) e dai templi: i corpi dei piloni del tempio, infatti, simbolizzano i due orizzonti orientale (montagna arabica) e occidentale (piattaforma libica), estreme tappe della corsa diurna dell’astro2 .

Contrariamente a ciò che constatiamo in alcune lingue indoeuropee3, il termine egiziano che designa la divinità, nòr, non sembra essere etimologicamente legato all’idea della luce4. Gli dèi egiziani erano, tuttavia, luminosi per loro stessa natura5, in quanto si presumeva che la loro carne fosse d’oro. Tale magnificenza veniva, catturata e realizzata nelle statue di culto fabbricate, venerate e curate nel segreto dei santuari, nel «castello d’oro» (t w. t-nbw) che si riteneva fosse in comunicazione con il cielo6 .

1. L’akh, energia luminosa degli dèi

Nel vocabolario religioso dell’antico Egitto esiste un epiteto che sembra aver designato fondamentalmente lo splendore del numinoso, la sua luce efficace, potente, fonte di energia: s í, akh7, scritto con il geroglifico dell’ibis comata8, con la cresta9, le cui piume si distinguono per i colori caldi e i riflessi metallici10. L’epiteto akh è stato oggetto, più di quindici anni fa, di uno studio di Gertie Englund11, che si è soffermata

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2. Piramide di Chefren. 3. In una ricostruzione grafica della spedizione franco-toscana del 1828-1829 sono raffigurati i due obelischi posti all’entrata del palazzo di Luxor; costruito nel xvi secolo a.C., l’obelisco a destra si trova dal 1836 a Parigi, al centro di Place de la Concorde.

l’illuminazione del defunto come ierofania della sua divinizzazione nell’antico egitto

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soprattutto sui due demiurghi qualificati come akh, cioè Atum e Re (Tav. 4). Al termine dello studio, la Englund giunge alla conclusione che la nozione di akh designi la «potenza del dio supremo, inerente all’unità e virtualmente presente in essa, manifestandosi e manifestando l’Unico durante l’atto creatore. Poiché quest’atto, in Egitto come altrove, avviene con l’emergere della luce, l’aspetto luminoso viene associato alla nozione di í». Osiride (Tav. 5), il dio morto che rinasce, è anche un akh, nel senso che il suo mito esprime il ritorno perpetuo della vita, la rigenerazione, così come il ciclo solare manifesta la reiterazione incessante della «prima volta», dell’autogenerazione iniziale.

La nozione di akh è dunque associata alla potenza energetica12 e irradiante dello stato di nascita o di rinascita. L’orizzonte orientale è definito akht13 – luogo akh – perché ogni mattina l’alba del giorno nuovo vi esalta la potenza ri-creatrice di Re, il quale dona la vita e dissipa il caos della notte come ai tempi della «prima volta». Ma la notte che precede il giorno è necessariamente akh in potenza e l’orizzonte occidentale è anch’esso akht. Il Re notturno che insemina il cielo e attraversa la douat non è meno akh del sole diurno. Il termine akht designa ancora il santuario dei templi14, luogo di contatto tra la natura misteriosa del dio e la sua manifestazione. In tal modo l’akht, spazio luminoso per eccellenza, rinvia a una dialettica della potenzialità e dell’attualità del manifesto e non-manifesto, del visto e del da-vedere15. La luce e l’orizzonte partecipano a quei poli apparentemente contraddittori da cui derivano gli dèi egiziani: il visibile e l’invisibile, il reale e il surreale, il vicino e l’inaccessibile16 .

2. L’akh, stato luminoso e divino promesso al defunto

La grande speranza dell’uomo religiosus egiziano si fonda sulla possibilità di estendere anche all’uomo lo stato di rinascita di Re mattutino o di Osiride resuscitato. Alla sua morte, il defunto è destinato a diventare un «akh divino»; egli raggiunge uno stato superiore, celeste17 e non materiale, dell’esistenza, una trasformazione radicale18 che implica l’idea di «luminosità»19, di efficacia20, ma anche di pienezza dell’essere e di capacità di manifestazione21. Credo che si possa paragonare questo concetto alla theosis dei teologi ortodossi, cioè la partecipazione (metoche) del defunto beato alla divinità, alle energie (energeia) divine increate22 .

Il defunto acquisisce uno «stato luminoso» che corrisponde alla qualità immateriale della vita dopo la vita23 e in qualità di spirito-akh viene assimilato a una stella24. Nei Testi delle piramidi, gli spiriti- akhu dei re di una volta sono identificati alle stelle circumpolari iímw-vki (§§ 141c; 152a e ss.; 161a e ss.; 656c, 759c, 1469a). Ciò significa che l’immortalità conferisce all’uomo – o almeno al re – non solo lo splendore luminoso degli astri, ma anche la loro indistruttibilità, stabilità25 e permanenza, da cui deriva la nozione di «efficacia» e di «potenza» veicolata dal concetto akh. Divenuto akh il defunto accede al rango di dio (nòr)26. Fu questo il motivo fondamentale per cui, a partire dal

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Nuovo Impero, i sarcofagi furono sempre più ornati d’oro (Tav. 6), vale a dire rivestiti di carne divina. La mummia del defunto con la maschera d’oro (Tav. 7) veniva chiaramente assimilata a un dio o a una statua di dio27, come dimostra il rituale dell’imbalsamazione: «La tua carnagione avrà un colore dorato, grazie all’orpimento puro, emanazione di Re, per l’eternità! Poiché per te, metterà oro sulle tue carni, un colore perfetto sulle estremità delle tue membra. Quando avrà reso il tuo colorito fiorente in virtù dell’oro e reso le tue carni inalterabili, grazie all’elettro, sarai vivo, per sempre...»28 .

3. Glorioso nel cielo, potente in terra, assolto al cospetto di Osiride

L’idea della divinizzazione dell’uomo dopo la morte mi sembra sia ben espressa dalla formula di glorificazione recitata dal prete-lettore per il defunto (v í)29 , frequente dalla xii30 dinastia in poi e molto apprezzata nel periodo del Nuovo Impero31 nella versione della xiii dinastia32. La formula allude all’appartenenza del morto ai tre regni cosmici: í m p.t ír Rc – wvr m t ír Gb – m c -írw m ír.t-nòr ír Wvir, «Glorioso nel cielo accanto a Re, potente sulla terra accanto a Geb, assolto (maa-kheru) nella necropoli presso Osiride».

È importante notare che, secondo questa formula, la glorificazione è condizionata dalla conformità della vita del defunto a Maat, armonia cosmica e giustizia sociale33. L’espressione maa-kheru34 designa, nel mondo dell’aldilà, il defunto che ha rispettato Maat e che ha superato vittoriosamente la prova del tribunale di Osiride. Maa-kheru viene generalmente tradotto con «giusto di voce», «giustificato» e l’importante lavoro di Jan Assmann35, dimostra che questa traduzione è abbastanza pertinente: la qualità di maa-kheru acquisita al termine del giudizio «simbolizza e, per così dire, istituzionalizza il superamento della soglia tra i due mondi che l’uomo deve compiere per poter giungere all’altro mondo e viverci come dio vivente». Si tratta di una «vera e propria irruzione nella trascendenza», di un «rafforzamento, un rialzo della soglia che corrisponde alla differenza tra sopravvivenza e immortalità»36. La Maat rappresenta il legame permanente che esiste tra la solidarietà sociale e l’ordine cosmico garantito dagli dèi; la qualità di maa-kheru sanziona un’equivalenza tra l’integrazione sociale del defunto sulla terra e la sua integrazione nel mondo degli dèi e dell’aldilà.

Così la qualità di akh nel cielo (mondo degli dèi e dell’invisibile) presso Re (aspetto luminoso e glorioso del defunto solarizzato) corrisponde alla qualità di ouser («eminente», «degno di stima», «potente»)37 in terra presso Geb. Lo statuto liminale, che fa ponte tra i due, è quello di maa-kheru, di «giustificato» nella necropoli (contemporaneamente luogo geografico e dominio dell’invisibile) presso Osiride. La comparsa davanti al tribunale divino è illustrata molto esplicitamente dalle scene della «psicostasia» che accompagnano il capitolo 125 del Libro dei morti, dal Nuovo Impero in poi; non c’è dubbio, tuttavia, che l’idea del giudizio si trovi già nei testi dell’Antico Impero38 e che appartenga al fondo antico della religione faraonica.

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4, 5. Due stele caratteristiche dei rituali funebri del Nuovo Impero che associavano la divinità del mondo sotterraneo Osiride e il dio del Sole. Dall’alto: si confrontano le due divinità: Osiride a destra, seguito da Hathor, di fronte a re Horakhty, seguito dal faraone Amenophis iii divinizzato e chiamato a patrono. In basso, le due divinità sono schiena contro schiena, tra loro passa un asse immaginario che divide il monumento in due parti simmetriche, ciascuna dedicata a uno di esse. 6. Sarcofago mummiforme della cantatrice di Amon, Ta-Mutnofret, x-ix secolo a.C., legno stuccato e dipinto, 1,75 m, Musée du Louvre, Parigi. Xxxxxxx

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A fronte: 7. Il viso del faraone Psusennes, idealizzato dalla raffigurazione dell’orafo, e la maschera d’oro di Oundebaouneded, compagno d’armi del faraone Psusennes. 4. Morte e rinascita, notte oscura e alba radiosa

La morte, proprio come l’oscurità che precede il sorgere del sole, si configura come anticipazione del ritorno alla luce e della rinascita. È semplicemente una notte temporanea. L’ambiguità della notte e dell’oscurità è stata ben analizzata da Erik Hornung39: la notte è contemporaneamente ritorno al caos originale e condizione necessaria della rigenerazione, che dalla notte viene già nutrita virtualmente; ogni rinascita e ogni resurrezione si manifestano dunque attraverso il ritorno alla luce. Ciò avviene nell’ordine cosmico, nella comparsa del giorno coincidente con la comparsa (íc) del sole all’orizzonte ( íc -t) orientale del cielo; avviene nell’ordine socio-politico, con l’avvento e la consacrazione ( íc) di un nuovo re, le cui corone scintillanti (íc -w), proprio come a ogni apparizione (íc) del monarca, sono una nuova manifestazione della perennità della funzione reale40; avviene, infine, sul piano antropologico: l’accesso del defunto alla nuova vita tra le divinità è vissuta come un’illuminazione, un «uscire alla luce del giorno». Gli egittologi traducono comunemente con questa espressione il titolo pr. t m hrw del cosiddetto Libro dei morti, posto nelle tombe a partire dalla xviii dinastia; ma Chabas41 aveva difeso un’altra traduzione, «venire alla luce come42 il giorno». La sua proposta non è stata considerata, e forse a torto: infatti, i rotoli del Libro dei morti cominciano spesso con una rappresentazione del sorgere del sole43, mentre la vignetta del capitolo 64 rappresenta il defunto che cammina al seguito dell’astro raggiante e sullo stesso livello, come se fossero identificati. A proposito di questa scena, accompagnata esplicitamente dalla legenda pr. t m hrw nel Libro dei morti di Neb Qed (Louvre), Chabas commentava: «Al defunto è stata ridata la vita; egli fuoriesce a metà dall’ipogeo di fronte a un disco solare, i cui raggi ancora molto corti provano che l’emergere del morto e quello del sole avvengono contemporaneamente. Se l’autore di questa scena aveva voluto esprimere l’idea che il defunto esce come il giorno o con il giorno, non avrebbe potuto farlo in maniera più significativa... Se interpretiamo la formula in questo senso, e cioè “lo scriba Nebkat44 uscire come il giorno”, questa traduzione spiegherà esattamente tutti i dettagli del quadro».

5. L’illuminazione del defunto nei «Testi delle piramidi»

L’illuminazione del defunto è strettamente legata al suo accesso al mondo del divino, e più precisamente alla sua identificazione con le divinità solari, soprattutto Re e Shou. La «solarizzazione» del defunto è affermata fin dai Testi delle piramidi. Questo corpus molto esteso concerne, tuttavia, solo il re, sia perché a quest’epoca la speranza di un destino solare dopo la morte era stata riservata esclusivamente al sovrano45, sia perché quest’ultimo rappresentava in modo sintetico-simbolico il destino divino di tutto il suo popolo, cioè di ogni uomo egiziano46 e forse anche di ogni uomo in generale47 .

Un numero considerevole di passaggi esprimono l’idea che lo stato di í appartiene all’Osiride-re, che lo condivide con gli dèi e le stelle48. Il

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capitolo 422 (§§ 752b-759c) è certamente uno dei più evocativi: «Ti sei liberato, perché sei divenuto un akh, e hai acquisito in tal modo la potenza in quanto dio, come luogotenente di Osiride... Ti sollevi su tua madre Nut, che ti prende per mano e ti apre la strada verso l’orizzonte, fino al luogo in cui si trova Re... e tu fai ciò che anch’egli fa, in mezzo agli spiriti e alle stelle immutabili ( íc.w ikm.w vkj)».

Altri testi conducono nella stessa direzione:

§ 152a-d: «O Re-Atum, questo re viene a te, akh immutabile... tuo figlio viene a te, questo re viene a te. Possiate percorrere il cielo uniti nelle tenebre, possiate innalzarvi nell’orizzonte ( í -t) nel luogo in cui lo stato di akh appartiene a voi...». § 324a-b: «N. (il re) è lo schernitore dei cuori, il figlio amato di Shu... dalla pericolosa luce». § 513 a: «Unas è il toro dalla duplice luce (i íwj) che risiede nel mezzo del suo occhio». § 585a, 621a-b, 636: «Il re Osiride è í nel suo nome di í -t da cui esce Re». § 737: «O N. prendi con te la veste (syp) di luce, rivesti il tuo involucro e vestiti con l’occhio di Horus» (passaggio apparentemente estratto dal rituale dei funerali). § 751: «Ti arrampichi, scali la luce (i íw): sei tu il Raggio sulla scala del cielo». § 779a-b: «Sei diventato un akh». § 1231a ss.: «Il cielo ti ha rinvigorito con il (suo) splendore (i íw) quando ti elevi verso il cielo come l’occhio di Re... Sei a capo degli spiriti- akh, come Horus è a capo dei viventi» (Tavv. 8, 9).

Eloquenti sono anche i nomi delle tombe e delle piramidi reali dell’Antico e Medio Impero49 che esaltano la gloria raggiante e astrale dei sovrani ormai commensali degli dèi: «Horus è la stella degli esseri divini» (tomba di Adjib, i dinastia), «Horus è apparso come una stella» (Hotepsekhemui, ii dinastia), «Horus è la stella che presiede al cielo» (Djeser), «Snefru è apparso»50 (piramidi di Dahchur), «Cheope è quello dell’orizzonte»51 (grande piramide di Giza), «Djedefre è quello del firmamento luminoso» (vhhdw)52 (piramide di Abu Roache), «Il ba di Sahure è apparso» (íc) (piramide di Sahure ad Abusir), «La perfezione di Merenre è apparsa» (íc) (piramide di Merenre a Saqqarah), «Le sedi (del re) sono luminose» (Mentuhotep ii, Deir-elBahari).

Indipendentemente dal fatto che la qualità divina e luminosa fosse o meno riservata esclusivamente ai sovrani nelle epoche più antiche, è certo che dalla v dinastia in poi essa diventa esplicitamente accessibile ai sudditi, come testimoniano i messaggi ai visitatori53 nelle mastaba di Ti e di Mereruka a Saqqarah: «Io sono un akh eccellente (ink = í iìr), istruito sui segreti del libro divino del prete ritualista54. Per me vengono celebrati tutti i riti solenni di glorificazione55 (iw ir n.i í.t nb.t í ypvv), la cui celebrazione è assicurata se si è uno degli eccellenti fra gli spiriti akh» (ir.t n iìr imj-n í.w).

l’illuminazione del defunto come ierofania della sua divinizzazione nell’antico egitto

8. Dettaglio di sarcofago di legno stuccato e dipinto, fine iii-inizi ii millennio, di provenienza ignota. Bologna, Museo archeologico. Nei Testi delle Piramidi, due occhi sigillano la chiusura della porta dell’aldilà. L’occhio è associato alla luce e al fuoco: il serpente (ureo) è considerato come l’occhio del dio sole che sputa fuoco e gli occhi di Horus corrispondono al sole (il destro) e alla luna (il sinistro). Il sole è anche denominato «occhio di Ra» e alcuni miti lo vedono come protagonista.

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