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II. L’ILLUMINAZIONE DEL DEFUNTO COME IEROFANIA DELLA SUA DIVINIZZAZIONE NELL’ANTICO EGITTO

La luce nell’arte

9. Disegno ripreso da un papiro in cui compare l’occhio. I leoni evocano gli orizzonti occidentale e orientale e portano il disco solare (Libro dei morti di Her-Ouben, xxi dinastia).

l’illuminazione del defunto come ierofania della sua divinizzazione nell’antico egitto

Alle pagine seguenti: 10. Rievocazione dei Campi di Iaru secondo il Libro dei morti. Pittura murale, Nuovo Regno, xix dinastia, circa 1279 a.C. Tomba di Sennedyem, necropoli di Deir-el-Medina, Tebe. Preceduto nel tempo antico dai Testi delle Piramidi e dai Testi dei Sarcofagi, il cosiddetto Libro dei morti rappresenta una terza fase dello sviluppo della letteratura funeraria. Dalla xviii dinastia (xvi secolo a.C.) fino al periodo romano, questo libro veniva posto nel sarcofago. Esso forniva al defunto, per il viaggio e per il giudizio che lo attendeva, le formule magiche tratte per la maggior parte dai Testi dei Sarcofagi, con alcune reinterpretazioni. Si ritiene che tali formule facessero commuovere gli Dei. La pittura che è qui raffigurata mostra quanto avverrà al defunto se accettato nel regno di Osiride. Potrà vivere in una campagna da cuccagna, mietendo con la sposa spighe ricolme, sradicando lino alto e docile mentre tutto attorno vi saranno alberi ricolmi di frutti.

11. Dettagli del pettorale del faraone rinvenuto a Tanis. Il faraone glorificato e ammesso a salire sulla barca del Sole e a remare in una scena porta la fenice, simbolo di eternità, mentre nella seconda porta Osiride. 6. L’illuminazione del defunto nei Testi dei sarcofagi

Le stesse concezioni si ritrovano più sviluppate nei Testi dei sarcofagi risalenti al Medio Impero. L’illuminazione dopo la morte è ormai esplicitamente promessa anche ad altri e non solo al faraone:

Formula 46 [i, 201] (B10 Cb): il defunto, identificato a Horus-vendicatore-di- suo-padre, esclama: «Io sono colui che illumina (ink vhó), colui che è giovane per l’eternità»56 . Formula 80 [ct ii, 30 1 37] (B1C): il defunto è identificato a Shu, figlio di Atum (testo dalle risonanze cosmogoniche molto marcate): «Io sono lo splendore (syp) del cielo dopo l’oscurità... Io sono la luce (i íw), colui che cammina a lungo, colui che riporta il cielo lontano per Atum». Formula 323 [ct iv, 152] (S1Cb): il defunto reclama: «Aprimi le porte dell’Osservatorio celeste, liberami un gradino di luminosità (i íw)! Grande, il puro che io sono è colui che crea la luminosità di Re ogni giorno (ir pvó Rc rc nb)». Formula 422 [ct v, 259-260] (B2 B0): «Io sono colui che ha il suo luogo in Heliopolis, nel mezzo del Castello del Risplendente che non cessa di splendere (hw.t Wbn wbnbn)... Io sono colui che appare, sono il Pyramidion-benben57... io sono la Fiammeggiante-Nekhbet, sono il Fiammeggiante-Nekheb...». Formula 623 [ct vi, 239] (T1 Ca): «Mi lavo le mani, percorro l’orizzonte, cammino e salgo sulla barca che conduce la grande Entità, affinché possa riunirmi alla Dorata58 nelle isole59 del cielo; (così) un dio si riunisce al suo compagno (dmó nòr vnnw.f), uno splendore e uno sfavillio (syp hó)». Formula 624 [ct vi, 240] (T1 Ca): «Parole che bisogna dire: Essere un luminoso nel cielo ( í m p.t)». Formula 722 [ct vi, 350-351] (B3B0): «Trasformarsi in stella divina (nòrj ‹&&˛`) del mattino... Questa60 N. è la stella del mattino, questa N. è la bella stella (wc/ ) d’oro che spunta all’orizzonte, solitaria, ricca di urei, che sua madre ha messo al mondo, e che mangia colui che le nuoce. Questa N. è la stella solitaria (vb wc) all’orizzonte; suo padre Re gli ha dato il cielo nella sua totalità (perché) l’illumini (syp.f)...». Formula 813 [ct vii, 13] (T1L): «... questo N. è l’aurora61, ... questo N. si è impadronito del cielo in quanto dio di Luce (i íw (s}`) questo N. ha marciato, questo N. ha camminato...». Formula 818 [ct vii, 17] (T3C): «Io sono Re, maestro (padrone) della luce (ink Rc nb i íw)...».

Quando il defunto accede alla liberazione e alla luce del giorno, la duat (il mondo inferiore) viene illuminata62 e il regno dei morti diventa quello degli «abitanti della luce»63 (Tavv. 10, 11), tra i quali viene annoverato ormai anche il defunto: «L’Unico che brilla (wc pvó.f), che io possa entrare tra la folla della sua gente; l’accompagno (?), coloro che sono nella luce (imj.w i íw) e coloro che sono nella duat» (Formula 108 [ct ii, 121] versione T1L.).

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7. L’illuminazione del defunto nel «Libro dei morti»

Il tema dell’illuminazione si ritrova, infine, nel Libro dei morti, forma completa del corpus funerario nel Nuovo Impero:

Capitolo 74: «Io sono colui che risplende, colui che domina l’altopiano del cielo (ink pvó írj wcr.t p.t); quando salgo al cielo mi arrampico sul Luminoso (pr.i r p.t ífd.i ír íw)»64 . Capitolo 75: «Sono uscito dal dominio terrestre, e le mie vesti sono più splendenti (syp) delle interiora del cinocefalo». Capitolo 80: «Assumere l’aspetto di un dio e far brillare le tenebre (rdi.t syp k k w)... Sono colui che cinge la fascia-siat di Nun, risplendente e brillante (hó.t syp), attaccata alla sua fronte, colei che rischiara le tenebre (syp.t kk w) e che riunisce i due urei... Sono Hem-Nun che rischiara le tenebre. Sono venuto per far brillare le tenebre ed esse risplendono, esse risplendono (ii.n.i r syp k k w vwt íó zp 2)!». Capitolo 119: «Io sono il Grande, colui che ha creato il suo splendore (ir syp.f)...». Capitolo 153: «Io sono l’eterno, sono Re venuto fuori dal Nun, il mio ba è un dio... Sono il padrone della Luce. Mi sono alzato con Re, maestro dell’Oriente, e la vita mi è stata data durante le sue apparizioni orientali. Sono venuto al cielo e ho occupato il mio trono che si trova a Oriente...». Capitolo 168: «Alzati, Horus-Osiris! Re brilla sopra di te... Alzati, (o) tu che brilli nel sarcofago...»65 . Capitolo 170: «Ah, Osiride N., com’è bello quando avanzi in pace verso la tua dimora d’eternità, verso la tua tomba d’eternità!... Tu sei un dio, generato dalle trasformazioni, la tua forma è più perfetta di quella degli dèi, il tuo raggio luminoso è più grande di quello dei beati, la tua potenza è più grande di quella dei morti... Ah, Osiride N.! Tu sei Horus, figlio di Osiride, generato da Pta, generato da Nut; tu brilli come Re all’orizzonte quando illumina il Doppio Paese con la sua bellezza... – Sono l’erede del cielo, il compagno di colui che crea la sua luce...». Capitolo 171: «La fiaccola è accesa nel santuario, affinché le tenebre non discendano più davanti a te... Per te si recitano le glorificazioni; al tuo capo si strofina l’accendi-fuoco, al momento della sera. Horus ti sveglia, ti adora, ti dice: ‘Bravo!’. Alzati, rigirati nel tuo letto per vedere la luce del disco solare puro, all’entrata di ciascuno dei tuoi sentieri dove il tuo ka ama essere, Osiride N.!». Capitolo 172: «Ah sì, sei stato deplorato, sei stato deplorato! Ah sì, sei stato pianto! Sì, sei stato glorificato; sì, sei stato celebrato; sì, sei luminoso; sì, sei potente. Ah, alzati!... Il tuo viso è più brillante del tempio della luna; la cima del tuo capo è di lapislazzuli; i tuoi capelli sono più neri delle porte dell’alba (?) e delle tenebre; la tua chioma è costellata (?) di lapislazzuli; la parte alta del tuo viso è formata dai raggi di Re; il tuo viso è una placca d’oro e Re l’ha ornata di lapislazzuli; le sopracciglia sono i due ureus uniti e Horus li ha ornati di lapislazzuli...».

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La maschera funeraria simbolizza, dunque, chiaramente, la divinizzazione-illuminazione evocata dal testo del rituale della sepoltura66 .

8. La potenza divinizzatrice del rituale

In alcuni dei grandi testi della tradizione religiosa che abbiamo appena analizzato, lo stato luminoso del defunto coincide con il suo ingresso nel mondo celeste e la sua unione con gli dèi; sembra anche che sia legato al trionfo della giustificazione che segue alla felice comparizione davanti al tribunale dell’aldilà (Tav. 12). Bisogna tuttavia rilevare che, nello spirito degli Egiziani, questo stato luminoso – ierofania della divinizzazione – era acquisito fin dai funerali, magicamente67 , attraverso la recitazione di «formule v í. w»68, che avevano la funzione (come indicato dal nome) di rendere í69 il defunto nel suo sarcofago. Grazie ai riti di imbalsamazione70 durante le cerimonie funebri, il morto diventava uno spirito-akh splendente di luce71 come un dio, nòr, nozione che – come ha dimostrato Dimitri Meeks72 – implica una ritualizzazione. I funerali appaiono in questa prospettiva come un vero e proprio rito d’iniziazione73, al punto che l’illuminazione del defunto-akh viene associata a una rivelazione, una sorta di gnosi liberatrice74. Sembra che questa liberazione sia stata condizionata dalla giustificazione al cospetto del tribunale degli dèi: è possibile che nel periodo del Nuovo Impero si attuasse durante i funerali una specie di messa in scena che anticipava il giudizio divino e in cui il defunto assumeva simbolicamente la sua difesa personale davanti alla corte divina75; è in questo senso che forse si può interpretare il capitolo 1 del Libro dei morti, dove si dice che il defunto abbandona la terra già assolto: «Sono andato via di qui (= la terra) senza che in me sia stata trovata nessuna colpa, la bilancia è stata trovata vuota di atti reprensibili da parte mia. È stato esaminato da numerosi porta-parola, e la sua anima e lui sono stati messi a confronto; è stato visto che la sua bocca era stata corretta in terra». Al momento della sepoltura si sarebbe attuata, dunque, una rappresentazione del giudizio dell’aldilà con assoluzione solenne del defunto; bisognerebbe prendere in considerazione un testo di Diodoro di Sicilia (60 a.C. circa) che descrive questo giudizio terreno e che spesso è stato considerato una trasposizione fittizia del capitolo 125 del Libro dei morti.

9. La teologia del «dio-congiunto»

Il defunto assolto è chiamato a diventare, come Re e Shu (Tav. 13), un essere di luce, dotato di eternità, di stabilità, di potenza. Ogni defunto assolto è Osiride, come viene indicato esplicitamente dall’associazione del nome del morto a quello del dio nei Testi dei sarcofagi, nel Libro dei morti, nelle stele funerarie ecc. Lo stato luminoso e solare promesso a ogni defunto è simbolizzato da una specie di icona teologica che appare per la prima volta76 su un rilievo della tomba della regina Nefertari: Re e Osiride sono uniti insieme nella figura di un ariete divino mummificato, circondati da Iside e Nephtys77 e aventi come legenda «Osiride che riposa in Re è Re che riposa in Osiride», formula che si

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12. Parigi, Museo del Louvre. Libro dei morti di Neb Qed. Al di sopra della camera funeraria in cui giace la mummia nel suo sarcofago, si vede chiaramente Neb Qed emergere dal soffitto e accompagnare il disco solare come suo alter ego. La didascalia indica chiaramente che la scena illustra la pr. t m hrw, l’«uscire al giorno» o piuttosto «come il giorno?» dello scriba defunto (da Congrès International des Orientalistes, 1873, tav. 58).

A fronte: 13. Il «dio-congiunto», Re, sole creatore e demiurgo, consustanzialmente unito al dio morto e resuscitato, Osiride, cioè al defunto, destinato a una vita migliore. Raffigurazione della tomba di Ramses vi, Valle dei Re, Tebe (da A. Piankoff e N. Rambova, The Tomb of Ramesses vi, New York 1954, p. 34, fig. 5). Il dio è raffigurato come un ariete con un disco solare sul capo, fasciato come Osiride e appollaiato sul basamento, che è anche il geroglifico di Maat; a sinistra, Nephtys e, a destra, Iside si lamentano ritualmente. La didascalia recita: «Osiride che riposa in Re, è Re che riposa in Osiride».

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ritrova nella sesta litania del Libro dell’adorazione di Re nell’Occidente (o Litanie di Re)78. Nei Testi dei sarcofagi una formulazione corrente, particolarmente sviluppata poi nel capitolo 180 del Libro dei morti79 già presentava Osiride «apparso come Re»80. L’unione di Re e Osiride manifesta che ogni defunto è Re81, e che alla sua essenza appartiene lo stato di í, di essere luminoso e perenne, nella pienezza di tutte le sue potenzialità82. La teologia di questa unione è approfondita nelle Litanie di Re incise sulle pareti delle tombe reali del Nuovo Impero e, riassunte, nel tempio di Ramses ii ad Abydos83 .

Questo testo, dopo una lunga lode ripetitiva a Re, afferma l’identificazione post mortem del re al dio solare e contemporaneamente a Osiride. Il titolo indica che lo scopo dell’opera è quello di far partecipare il defunto all’eclatante vittoria di Re-Osiride congiunto sui suoi nemici84: «Inizio del Libro delle litanie di Re in Occidente, delle litanie del dio congiunto85 in Occidente [...]. E il trionfo86 di Re contro i suoi nemici in Occidente; allo stesso tempo è utile per un uomo che si trova sulla terra e gli è utile quando ha accostato l’altra riva». La divinizzazione del defunto e la sua fusione con Re gli conferiscono lo splendore e la magnificenza dell’astro solare (Tavv. 14, 15). «Salute o Re! Il tuo ba è il ba di N. (il re)... Ciò che tu sei, anche N. lo è. Il tuo splendore, Re, è lo splendore di N. ( í.w.k Rc í.w N.)». Re-Osiride e il defunto, suo alter ego (vnj.f óv.f)87, esultano insieme nel loro splendore luminoso ( íw)88. L’essenza stessa del deba-demedj – il dio-congiunto di cui Re è il ba e l’Osiride defunto è il corpo89 – è quella di essere luminoso: «Com’è raggiante il ba di Re nell’aldilà, com’è luminoso il corpo del deba-demedj!» (pvó.wj b Rc m dw .t íó.wy h .t Db -dmó)90. Il re defunto è investito di questa luminosità trionfante per l’eternità, «in quanto N. (il re) è Re e viceversa, essendo il suo ba quello che è nel globo... Il dio penetra all’interno del suo irraggiamento, l’aldilà è illuminato dai raggi del suo creatore (ck nòr m-ínw íój.f íó dw t m st.wt ìm s)»91 .

«O Re! – esclama Tutmosis iii nella sua tomba nella Valle dei re – vieni a me, o guida! I raggi del tuo globo inondano la mia perfezione!»92 (st.wt Iòn.k ír nfrw.i)93. Quando gli dèi vedono arrivare il defunto alle porte del cielo, lo riconoscono come uno di loro grazie alla luminosità dei suoi raggi: «Gli dèi mi parlano, esultano quando mi vedono (dicendo): Re appare, i (suoi) occhi risplendono di luce! (hc Rc pvó í tj)94... Sono diventato i duedèi; colui che Re ha generato, ha generato anche me. Ciò che voglio lo faccio! La luce efficace ( íw) è il mio bene! Ciò che detesto non lo faccio!»95 .

In tal modo è vinta la morte. E se il cuore umano lamenta la scomparsa di un prossimo, costui, nell’invisibile, si rallegra in qualità di Osiride per essere diventato dio di luce, così come viene celebrato nella settima Litania: «I piangenti si strappano i capelli per te, battono le mani per te, gridano per te, si lamentano per te, piangono per te, (ma) il tuo ba esulta, quando essi si lamentano, e il tuo cadavere è í»96 .

Il rituale tolemaico delle Lamentazioni di Iside e Nephtys proclama con forza che il defunto-Osiride non è altri che il sole splendente, la luna dal chiarore meraviglioso e la costellazione Orione che brilla nella notte: «O tu l’eliopolitano, tu sorgi per noi ogni giorno nel cielo... Sorgi per noi ogni giorno come Re, brilli per noi come Atum, dèi e uomini vivono del vedere te. Quando sorgi per noi, tu illumini i Due Paesi... Quando attraversi il cielo, i tuoi nemici sono annientati... Tu vieni a noi come un bambino nella luna e il sole... La tua immagine sacra, Orione nel cielo, sorge e tramonta quotidianamente…»97 .

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10. Reminiscenze post-faraoniche

Le tradizioni dell’Egitto post-faraonico hanno conservato numerose reminiscenze dell’illuminazione divinizzatrice dei defunti dopo la morte (Tavv. 16, 17, 18, 19). Nel secolo scorso, Devéria98 e poi Wiedemann99 avevano attirato l’attenzione su una leggenda riportata nella celebre enciclopedia bizantina del x secolo, la Suda (pseudo Suidas)100, probabilmente da qualche autore alessandrino; nel racconto si legge che, dopo le preghiere e i riti funebri, un bagliore si sarebbe sprigionato improvvisamente dalle fasce della mummia del filosofo neoplatonico Heraiskos101, e che delle apparizioni misteriose si sarebbero manifestate intorno a essa, segno – secondo gli Egiziani – che l’anima del defunto, identificato a Osiride, era giunta nel mondo dell’aldilà e che ormai era partecipe della natura degli dèi102. Devéria e Wiedemann avevano giustamente paragonato questo testo al titolo del capitolo 6 del Libro dei morti, destinato ad assicurare nell’altro mondo l’efficacia dei shaouabti/oushebti o «rispondenti», statuette che si credeva fossero in grado di compiere i compiti richiesti al beato nel mondo degli dèi. Il capitolo 6, in effetti, inizia, dal periodo del Nuovo Impero, con gli oushebti e con la formula v íó Wvi r N, «che l’Osiride N. sia illuminato»103 .

In una forma appena diversa ritroviamo la leggenda trasmessa dai Bizantini in un’opera araba molto più recente, il celebre Compendio delle meraviglie104, di cui si è ormai riconosciuta l’ispirazione faraonica in numerosi passaggi105. Secondo il Compendio, alcuni giorni dopo il decesso – periodo che deve corrispondere all’antico termine necessario per la mummificazione –, la statua del morto si illuminava un’ultima volta di un alone magnifico.

Nell’Egitto copto l’associazione della luce con il soprannaturale è altrettanto frequente che nel periodo faraonico (Tavv. 20, 21). Le apparizioni luminose dei santi che accompagnano la Vergine, gli arcangeli e i vegliardi dell’Apocalisse nelle barche celesti, derivano manifestamente dall’antica religione: l’apparizione più famosa è quella che avveniva anticamente, una volta all’anno, il 1° bashouns (9 maggio) al monastero mariano di al-Mightas nel Delta, presso il lago Burullos106. Le tradizioni popolari descrivono come «un giardino di luce» il paradiso al quale accedono i defunti che sono comparsi vittoriosamente, nove giorni dopo la morte, davanti al tribunale di Cristo, erede di quello di Osiride107. Quanto alla preghiera dell’inumazione è chiaro che essa fa pensare ai rituali faraonici dei funerali: «Possano brillare le tenebre trasformate, possano gli angeli della luce andare incontro ad essi!»108 .

La morte dei martiri si accompagna spesso a fenomeni luminosi109. Uno degli ultimi testi agiografici scritti in lingua copta, il martirio di Giovanni di Phanidjoit110 (xiii secolo)111, fornisce un esempio la cui coincidenza con il

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A fronte: 14. Famosissima immagine su pietra di Akhenaton con moglie e primo figlio al seguito, sotto la pioggia di raggi del sole. Nuovo Regno, xviii dinastia, periodo di Amarna, 1351-1334 a.C. Museo Egizio, Il Cairo. L’adorazione di Akhenaton per un unico dio non sarà perdonata dalla casta sacerdotale egizia.

15. La famiglia reale di Akhenaten che adora il dio Aten, i cui raggi, che terminano a forma di mani, trasmettono il segno della vita.

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16. La triade di dèi composta da Horus, al centro, e i genitori Osiride e Iside. Il culto di queste divinità prospera a lungo, sino in epoca ellenistica e romana. A fronte: 17. Maschera funeraria di Psusennes i, xxi dinastia, dagli scavi di Tanis, Museo egizio del Cairo.

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A fronte: 18. Siamo nel fulcro della mitologia egizia: la preparazione all’immortalità. Il dio Anubi mentre mummifica un uomo. Pittura murale, Nuovo Regno, xix dinastia, circa 1279 a.C. Tomba di Sennedyem, necropoli di Deir el-Medina, Tebe, Egitto. 19. Dal Libro dei morti di Hunefer, il giudizio del defunto alla presenza di Osiride. La scena si legge da sinistra a destra. A sinistra, Anubi porta Hunefer nell’area del giudizio. Il cuore di Hunefer, rappresentato come un vaso, viene pesato contro una piuma, il simbolo di maat, l’ordine stabilito delle cose, che in questo contesto significa “ciò che è giusto”. Osiride è mostrato seduto sotto un baldacchino, con le sue sorelle Iside e Nefti. In alto, Hunefer è mostrato mentre adora una fila di divinità che sovrintendono al giudizio. Papiro conservato al British Museum, Londra.

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racconto della Suda è sorprendente; alla fine del racconto si legge che alcuni preti vegliano il corpo del santo fino alla sesta ora della sera: «Allora, così come vide il re d’Israele, noi vedemmo la luce discendere su di lui fino a che avvolse tutto il suo corpo»112 .

Le antiche tradizioni, d’altra parte, non sono affatto scomparse: si racconta che il 24 novembre, durante la traslazione al monastero di S. Menas (deserto di Mariut) del corpo del papa copto Cirillo vi, morto sei anni prima, bagliori impressionanti avevano scortato il convoglio funebre113 .

D’altra parte, nell’Egitto di oggi, musulmani e copti credono che poco dopo l’inumazione di persone particolarmente devote, un raggio di luce illumini la loro tomba114. Ultima testimonianza di una certezza che fu il cuore della religione faraonica: l’uomo è fatto per la luce del cielo.

11. Conclusione

L’Egiziano dei tempi faraonici ha sperato nell’immortalità come in un accesso alla divinità, in una trasformazione radicale del defunto in «essere di luce potente (akh). Forse questa speranza era stata riservata in origine al faraone, la cui piramide era una gigantesca scala verso il cielo. Ma almeno dalla fine dell’Antico Impero, tutti gli uomini sono chiamati allo stesso destino divino! Sono chiamati a diventare anch’essi akhu. L’accesso alla luce divina è condizionata dal rispetto della maat, armonia cosmica e giustizia sociale. Nel periodo del Medio e Nuovo Impero, i legami tra l’«illuminazione» del defunto e la sua divinizzazione diventano sempre più espliciti, come testimonia la formula «che Osiride N. sia illuminato» sulle statuette funerarie. Un simbolismo abbondante (maschere d’oro, mummie ricoperte di pietre e metalli preziosi, rituale delle torce ecc) manifesta concretamente questa fede nel divenire luminoso dei morti assurti al tribunale degli dèi. La teologia sonda il mistero della consustanzialità del dio della luce (Re) e del dio morto e resuscitato (Osiride) al quale ogni defunto viene identificato.

Perché meravigliarsi allora che nei primi secoli dell’era cristiana, gli Egiziani abbiano riconosciuto e accolto una religione, il Cristianesimo, il cui Dio era la luce del mondo (Gv 8,12), i cui fedeli si dicevano «figli della luce» (1 Tm 5,5; Lc 16,8 ecc.), una religione che prometteva ai giusti la possibilità di accedere alla luce eterna (Mt 13,43; Ap 21,23ss.), di contemplare il Creatore, illuminati per sempre (Ap 22,4)? Una religione in cui Dio creatore era consustanziale a Dio morto e resuscitato, Gesù Cristo, nella sua incarnazione egli stesso consustanziale all’uomo?115. A modo suo, l’antica religione non aveva forse già promesso ai pii sudditi del faraone la possibilità «di partecipare all’eredità dei santi nella luce»116 (Col 1,12)?117 .

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20. Cupola dipinta nella necropoli di Bagawat, cappella 25; le aquile funerarie sostengono il disco solare che orna la cupola.

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21. Due angeli che portano il busto di Cristo, da Bawit, il Cairo Vecchio, Museo copto. Il dipinto riprende lo schema tipico della scultura copta, sia in pietra sia in legno.

III. L’ALONE DI LUCE ATTORNO AL BUDDHA NELL’ICONOGRAFIA DEI TESTI CANONICI

di Michel Delahoutre

A fronte: 1. Buddha, bronzo laccato e dorato, xiv secolo circa. Bangkok, National Museum. 1. Introduzione

Il Buddha, vissuto tra il vi e v secolo a.C., ha ricevuto il nome «il risvegliato» in seguito a un’intuizione riguardo all’esistenza umana. In Occidente almeno, è chiamato anche l’«Illuminato», e difatti tutta l’iconografia del Buddha include una rappresentazione della luce, rappresentata in due forme principali: la fiamma e l’alone.

In Thailandia la luce si presenta sotto forma di una fiamma posta in cima (Tav. 1) alla testa, o anche come un gioiello posto al di sopra all’ushnisna, il tipico chignon (Tav. 2). In India, invece, e nei paesi artisticamente influenzati da essa, la luce si presenta sia come un nimbo circolare che forma intorno al capo un’aureola (Tav. 3), sia come una mandorla che circonda il corpo (Tav. 4). Le immagini dei Bodhisattva e dei Buddha che provengono dal Tibet sono riconducibili allo stesso tipo di rappresentazione.

Esistono anche altre espressioni iconografiche della luce, più sottili e più difficilmente segnalabili, come ad esempio la trasparenza della veste (Tav. 5) o il pilastro di fuoco del periodo aniconico.

Ciò che a noi interessa maggiormente non è la descrizione dei fatti iconografici quanto la motivazione degli iconografi, capire soprattutto cosa gli autori di queste immagini si proponevano di significare nell’utilizzare tale o talaltro motivo iconografico, quali erano i testi che facevano autorità e ai quali essi si richiamavano e infine qual era il senso profondo di questa iconografia della luce del Buddha.

Trattandosi di un campo di ricerca molto vasto, dobbiamo necessariamente imporci dei limiti. Poiché è un dominio generalmente poco e male conosciuto, preferisco considerarlo nel suo insieme piuttosto che analizzarlo sotto un aspetto particolare in una determinata epoca o regione.

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2. Testa di Buddha, bronzo con tracce di doratura, inizio del xv secolo. Bangkok, National Museum.

A fronte: 3. Buddha in predicazione, gres, 475-485 circa. Sarnath, Sarnath Site Museum. Xxxxxxx

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4. Stele buddhista, Museo di Giacarta, isola di Giava, Indonesia. Il Buddha è qui molto giovane e il suo sguardo perfettamente interiorizzato. Questa stele è un grande esempio di arte indiana interpretata dagli artisti di Giava (viii-ix secolo?).

A fronte: 5. Buddha in piedi, pietra, seconda metà xii secolo. Polonnaruva, Gal Vihara. Xxxxxxx

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2. Considerazioni metodologiche

Elena Cassin, in un importante lavoro1, spiega che ciò che le ha permesso di progredire nello studio dello splendore divino, è stata la ricerca sui verbi che si riferiscono alla luce. Esistono due specie di splendore o di luce: vi è un tipo di luce che ha il suo punto di origine nel corpo del dio, ma che si propaga verso l’esterno. I verbi utilizzati per riferirsi a essa sono del tipo «emanare», «dispiegarsi», «allungarsi», partendo dal corpo del dio. Tale luce, che può raggiungere anche regioni lontane, viene inviata dal dio per illuminare i mondi. Vi è poi un altro tipo di luce che sembra concentrarsi sulla persona dalla quale emana. La persona del dio è in questo caso come coperta, avvolta, parata, rivestita, riempita di luce. È una luce che si manifesta e che dona bellezza al dio tanto che noi siamo stimolati a contemplarlo e ad ammirarlo.

Trasposti nell’iconografia, i due tipi di luce creano questi due tipi di immagine: quando il Buddha presenta sul capo una fiamma o un gioiello, ciò significa che, come ci tramandano i testi, egli illumina i mondi e la sua luce raggiunge gli universi più lontani. Quando è circondato da un alone di luce è la sua stessa persona a essere come rivestita e coperta di luce. Il Buddha e il suo alone di luce sono entrambi visibili e percepibili attraverso un medesimo e unico sguardo contemplativo.

3. I procedimenti iconografici della luce

L’idea di un Buddha che illumina i mondi è già presente nell’iconografia antica, in forme diverse a seconda se si tratta del periodo aniconico o iconico. Questi due periodi, tuttavia, non si sono succeduti l’uno all’altro escludendosi a vicenda, ma hanno coesistito in regioni e scuole differenti. Alcune sette avevano conservato l’aniconismo mentre altre accettavano già l’iconismo. L’aniconismo si è mantenuto nel sud dell’India fino al secondo secolo d.C.: sotto gli Satavahana (i-iii secolo d.C.) troviamo in vari medaglioni dello stupa di Amaravati (Tav. 6) un trono vuoto con tutti i segni evidenti della presenza del Buddha, i cuscini sul trono, le impronte dei gioielli e, ciò che ci interessa maggiormente, il pilastro del trono indicante che il Buddha illumina i mondi (Tavv. 7a, 7b).

Nella stessa epoca, nell’India del nord la medesima scena è rappresentata diversamente: il Buddha è seduto sul trono dei leoni ed è nell’attitudine di insegnare; la testa è circondata da un alone di luce (Tav. 8).

Possiamo sostenere che questo nimbo risente dell’influsso della cultura ellenistica del Gandhara (Tav. 9) dove, in epoca Kushane (i-iii secolo d.C.), circolano monete con raffigurazioni di divinità aureolate. Nell’epoca seguente, sotto i Gupta (Tav. 10) (iv-vi secolo d.C.), il linguaggio iconografico si arricchisce di una nuova espressione: la veste, nello spessore del suo tessuto (Tav. 11), scompare per lasciare apparire il colore dorato del Buddha.

Infine, nell’India dell’epoca Pala (viii-xii secolo d.C.) e nella Thailandia della scuola di Sukhothaya (xiii-xv secolo d.C.), la cima della testa è la sede e il punto di partenza di un’emissione di luce, da cui parte la fiamma o il raggio emesso dal gioiello.

A fronte: 6. Rivestimento raffigurante uno stupa, marmo bianco, ii secolo. Government Museum, Chennai, proveniente da Amaravati.

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7b. Colonna di fuoco che circonda il trono vuoto del Buddha. Dettaglio di un medaglione d’Amaravati del ii secolo d.C.

7a. Scena di omaggio al Buddha, calcare marmoreo, ii secolo ca., The British Museum, Londra.

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8. Buddha sul trono dei leoni. Stele proveniente da Kata, stile di Mathura, ii secolo d.C.

iii. l’alone di Xxxxxxx luce attorno al buddha nell’iconografia dei testi canonici

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10. Buddha dell’epoca Gupta. 11. Buddha proveniente da Mathura, periodo Gupta, v secolo d.C. Museo Nazionale di New Delhi.

iii. l’alone di luce attorno al buddha nell’iconografia dei testi canonici

La luce nell’arte

A fronte: 12. Buddha in piedi, bronzo dorato, metà viii-metà ix secolo. Anuradhapura, Archaeological Museum (provenienza Veragala Sirisangabovihara, ällaväva).

13. Buddha, vii secolo, Giacarta, Museo Nazionale, proveniente da Manyargading.

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14. Testa dell’epoca Cola, India, xii secolo e testa di Buddha, stila di Sukhothaya, xii secolo, Thailandia.

iii. l’alone di luce attorno al buddha nell’iconografia dei testi canonici

Questi diversi procedimenti per trascrivere la luce non sono equivalenti. Ciascuno di essi ha i suoi vantaggi e i suoi limiti e nessuno è totalmente soddisfacente, ragion per cui viene sostituito da un altro. La soluzione potrebbe trovarsi nella cultura del tempo: il pilastro di fuoco corrisponderebbe a un’epoca in cui il sacrificio vedico si svolgeva intorno a un pilastro, il nimbo corrisponderebbe alle regioni ellenizzate del nord dell’India, la trasparenza della veste si armonizzerebbe con lo splendore e l’estetica del periodo classico, e la fiamma esprimerebbe gli sviluppi del Mahayana (Grande Veicolo) in cui tutti gli universi sono toccati dall’insegnamento del Buddha.

4. I testi canonici

Tra i numerosi testi posseduti, consideriamo quelli che hanno potuto stimolare l’immaginazione degli artisti sul tema specifico della luce. Sono soprattutto quelli che parlano dell’aspetto esteriore del Buddha e delle modificazioni di questo aspetto esteriore nella sua vita (alcuni di questi testi sono stati analizzati come frammenti biografici)2. Non seguiremo strettamente l’ordine cronologico stabilito da Lamotte3, ma un ordine più vicino al nostro scopo didattico ed estetico: partendo dal fondamento somatico della luce, cioè il colore dorato, giungeremo all’aureola larga una tesa intorno al corpo.

5. Il colore dorato del Buddha

Il Sonadandasutta4 riporta che un bramino chiamato Sonadanda, esperto nella scienza dei caratteri fisici (lakshana) degli uomini eminenti (mahapurusa), è colpito dalla bellezza del Buddha: «Il religioso Gautama è bello a vedersi, sereno, dotato di una grande bellezza di colorito, ha un colore bramanico, un’energia bramanica, un aspetto nobile». Continuando nella sua ricerca, scopre che il Buddha possiede tutti i tratti dell’uomo eminente.

Il bramino non enumera i trentadue lakshana, ma noi ne abbiamo una lista in altri due sutta5. Tra questi lakshana figura la pelle sottile (laks. 12; in sanscrito sukshma cchavi) e il colore dorato (laks. 11; in sanscrito suvarnavarna). Ai fini dell’analisi della nozione della luce riveste una particolare importanza il fatto che l’oro sia qui menzionato a titolo di colore, in quanto tra tutti i colori brilla con uno splendore particolare e si vede da lontano.

Hiuan Tsang, per esempio, monaco cinese che viaggiò nell’attuale Afghanistan tre il 629 e il 645, alla vigilia dell’arrivo dei musulmani, nota a proposito di Bamiyän: «Sul fianco di una montagna situata a nord-est della città reale (la capitale) si trova una statua in pietra del Buddha eretto; misura dai cento ai centocinquanta piedi (corrisponde al Buddha gigante di cinquantatré metri); risplende interamente d’oro e di ornamenti preziosi»6 . Ancora oggi molte statue sono dorate (Tavv. 12, 13, 14) per richiamare il colore dorato del Buddha.

La luce nell’arte

A fronte: 15. Statua del digiuno o emaciato Buddha nel Museo a Lahore in Pakistan.

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6. Scomparsa del colore dorato e del suo splendore

Nel Mahasaccakasutta7 è il Buddha stesso a descrivere le terribili austerità che hanno preceduto la sua meditazione e il suo risveglio.

«O Aggivessana, alcuni uomini che mi hanno visto in questo stato hanno detto: non è nero, è scuro, non è scuro, ha la pelle dorata... Infatti non erano più capaci di vedere qual era il mio stato naturale, alterato com’era sotto l’effetto del digiuno»8 .

Indirettamente questo sutta ci dà informazioni sullo stato abituale del Buddha, con la pelle sottile e il colore dorato. Anche questi tratti abituali erano scomparsi sotto l’effetto dell’austerità.

Soltanto l’artista indio-greco del Gandhara si è interessato al periodo ascetico del Buddha e le sole rappresentazioni del Buddha che digiuna le troviamo infatti nel Gandhara, come ad esempio la famosa statua del Buddha emaciato del museo di Lahore9 (Tav. 15). Mentre logicamente il Buddha avrebbe dovuto perdere ogni traccia luminosa, e in particolare l’alone intorno alla testa, l’artista invece lo ha conservato, come se l’alone fosse diventato parte integrante del Buddha in tutti i periodi della sua vita.

7. Lo splendore particolare della conoscenza

Nell’Ariyapariyesanasutta (altro discorso dello stesso corpus di sutta medi), il Buddha racconta le sue peregrinazioni e i contatti con i maestri fino alla sosta nel luogo del suo risveglio, dove trova l’estinzione totale (nibbana), la serenità e decide di raggiungere i suoi compagni.

«In verità, o monaci, l’ajivika (asceta) Upaga mi vide sulla strada tra il luogo del risveglio e Gaya, e avendomi visto, mi disse: “Perfettamente serene sono, in verità, le tue facoltà, perfettamente pure, perfettamente bianco il colore della tua pelle. O amico, in nome di chi sei religioso errante? Chi è il tuo maestro? Di chi approvi la dottrina?”»10 .

Questo episodio può essere messo in rapporto con vari passaggi delle Upanishad vediche dove è detto che studenti brahmanici hanno cominciato a risplendere dopo essere stati iniziati alla conoscenza del brahman (la realtà suprema)11. Sembra che in tutte le culture del mondo esista un nesso stretto tra la conoscenza o il risveglio e l’illuminazione del viso.

8. Lo splendore del corpo più forte di una veste dorata

Il testo pali del Mahaparinibbanasutta (un altro discorso del corpus dei sutta lunghi) riporta che Putkasa, un giovane laico, si avvicina al Buddha e notando la sua calma e la sua intensa concentrazione inizia una discussione con lui e alla fine chiede di diventare suo discepolo. Si fa portare delle vesti di stoffa dorata e le offre al Buddha. Dopo la partenza del discepolo, il ma-

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estro indossa le vesti ma il tessuto sembra aver perduto la sua luminosità. Ananda, il discepolo più vicino al maestro, nota il fatto e dice:

«È straordinario, o venerabile, è meraviglioso, o venerabile, il colore della pelle del Tathagata (titolo che il Buddha stesso si attribuisce) è così più pura e più bianca di queste vesti; lisce, dorate e pronte a essere indossate, poste sul corpo del Buddha sembrano aver perso lo splendore. E così, o Ananda. Sono due le occasioni in cui il colore della pelle del Tathagata diventa chiara e splendente. La notte, o Ananda, in cui il Tathagata raggiunge il supremo e perfetto risveglio e la notte in cui si spegne ed entra nell’elemento di totale estinzione. In queste due circostanze il colore della pelle del Tathagata diventa chiara e splendente; il Buddha annuncia allora la sua fine prossima»12 .

9. Il vyamaprabhamandala, l’aureola larga un braccio

I testi settari del nord e quelli citati fino a ora parlano del colore dorato e del suo splendore particolare in alcuni momenti privilegiati della vita del Buddha, ma non del «cerchio di luce largo un braccio» che si trova nell’iconografia fin dalle più antiche rappresentazioni del Buddha. I testi canonici non spiegano come gli artisti siano passati dall’uno all’altro.

Bareau, dopo un’analisi approfondita dei frammenti biografici del Buddha, si limita a constatare la progressione della manifestazione insolita di cui il corpo del Buddha è oggetto: si passa dal colore della pelle bellissimo, giallo dorato, allo splendore sorprendente che interviene in determinati momenti: il viso brilla, il Tathagata irradia dal suo viso ogni sorta di raggi luminosi e multicolori.

«Si passa dunque da un fenomeno naturale, benché insolito, a un prodigio puro e semplice, che ricorda moltissimo quelli relativi ai beati nei testi del Mahayana (Grande Veicolo)»13. Tutto ciò che possiamo rilevare, dal punto di vista iconografico, è che il vyamaprabhamandala appare in un certo numero di testi, che questi sono tutti settari e che, per la maggior parte, appartengono a regioni settentrionali (nord dell’India e paesi del Nord).

10. Due incontri fra gli altri

Trapusha e Bhallika sono due personaggi che il Buddha incontra dopo il suo risveglio. I Theravadin (scuola del Sud) avevano raccontato questo incontro senza dettagli particolari sullo splendore. I Mahisasaka (scuola del Nord) danno una descrizione molto elogiativa del Buddha:

«Gli uomini videro il Beato: il suo aspetto era straordinario, le sue facoltà tranquille e concentrate. Possedeva i trentadue segni (lakshana) del Grande Uomo (mahapurusa) e un’aureola di una tesa lo rendeva simile a una montagna d’oro»14 .

Un altro episodio, quello di Upaga, citato sopra nella versione Theravadin, è anch’esso abbellito da numerosi elementi, tra cui l’«aureola di una tesa» che aleggia intorno al corpo del Buddha e lo rende simile a una montagna d’oro; si tratta, anche in questo caso, di una recensione dei Mahisasaka15 .

iii. l’alone di luce attorno al buddha nell’iconografia dei testi canonici

11. Valore pedagogico delle rappresentazioni della luce

Nel corso della loro storia, gli artisti incaricati di rappresentare il Buddha, in tutti i paesi del mondo, hanno sfruttato il tema della luce secondo procedimenti dei quali il più utilizzato resta quello del nimbo, dell’aureola, della mandorla intorno al corpo del Buddha (Tavv. 16, 17). Tuttavia, essi sapevano che questo procedimento era imperfetto ma necessario, come testimonia un passaggio di un trattato del Mahayana:

«Lo splendore del Buddha è immenso e illumina sempre gli universi delle dieci regioni. La luce miracolosa del corpo del Buddha Sakyamuni (il Buddha della nostra era) è immensa: misura un braccio, cento braccia, mille miliardi di braccia, e riesce a riempire gli universi più lontani e le dieci regioni». «Tuttavia, nel mondo delle cinque corruzioni dove gli esseri sono di qualità e di conoscenza mediocri, i Buddha assumono costantemente solo lo splendore di un braccio (vyamaprabha)». «Se assumessero uno splendore più intenso, gli uomini di oggi, dai meriti insignificanti e dalle facoltà deboli, non potrebbero sopportarne la luce. Quando un uomo vede un dio, il suo occhio diviene cieco, poiché più la luce (esterna) cresce, più l’occhio si contrae. E solo a uomini dalle facoltà vive... e dai meriti eminenti... che il Buddha manifesta il suo immenso splendore. Il suo splendore ordinario si manifesta a uomini le cui facoltà sono deboli e i meriti insignificanti. (Ma) ci sono (così) delle persone che, vedendo lo splendore ordinario del Buddha, se ne rallegrano e trovano la salvezza...». «Quant’è grande lo splendore ordinario del Buddha!». «È uno splendore largo un braccio (vyamaprabha) che circonda ai quattro lati il corpo del Buddha; il Bodhisattva (futuro Buddha) lo possiede fin dalla nascita ed è uno dei trentadue segni (lakshana), chiamato vyamaprabhalakshana»16 .

12. Conclusione

La luce è in sé stessa irrapresentabile. Identificare il Buddha con la luce infinita, pura, immateriale, come Amitabha (un Buddha del Grande Veicolo il cui nome significa luce infinita), e rappresentarlo come tale è impossibile.

La luce nell’arte

16. Buddha, gres, posteriore al 460. Yungang, Shanxi, grotta n° 18, parte est. 17. Amitabha in preghiera nella Terra pura di Sukhavati, oppure Vakyamuni che spiega il Sutra del Loto della Buona Legge, scisto, iii secolo, Lahore, Lahore Museum (Mohammed Nari).

iii. l’alone La luce nell’arte di luce attorno al buddha nell’iconografia dei testi canonici

18. Immagine del Buddha Amida (sanscrito: Amitabha) che irradia raggi di luce ed è stata creata in Giappone come immagine devozionale privata, molto probabilmente per l’altare domestico di un seguace della Scuola della Vera Terra Pura del buddhismo. Epoca Edo, fondo Rogers, 1918, Met Museum, New York.

iii. l’alone di luce attorno al buddha nell’iconografia dei testi canonici

Gli artisti hanno rischiato di farlo solo accettando di adottare il linguaggio iconografico che circoscrive la luce, limitandola in una mandorla, o che utilizza soprattutto il colore dorato e i gioielli. Posti di fronte alla sfida di rappresentare la luce, essi hanno scelto di suggerirla, richiedendo poi allo spettatore di completare da solo il movimento accennato dall’opera d’arte (Tav. 18). L’alone di luce largo un braccio (vyamaprabhamandala) è un’invenzione degli artisti, un procedimento visivo per localizzare e circoscrivere la luce, là dove in natura essa resta diffusa.

Il problema è analogo a quello della svastika, il simbolo solare attestato fin dalla più alta antichità; se esso è benefico è perché è contemporaneamente centrato, raggiante ai quattro lati e ruotante. Lo stesso vale per l’alone di luce largo un braccio: è centrato sul corpo del Buddha, è raggiante ai quattro lati come ogni mandala, non si allontana dal corpo poiché resta alla giusta distanza di un «braccio teso» (vyama), ed è largo una tesa. In qualche modo resta a portata di mano, in quanto limitato alla misura del corpo e dunque suscettibile di valorizzarlo, poiché ne è al tempo stesso emanazione e ornamento.

La luce nell’arte

IV. LUCI DI BISANZIO

di Pierre Somville

A fronte: 1. Vergine con bambino (detta anche Madonna del Conforto), vi secolo. Santa Francesca Romana (Santa Maria Nova), Roma. Fisicamente difficile da definire, la luce è la sostanza elementare che è più strettamente legata all’intelligibile. Può essere definita, più ancora dell’aria di Anassimene, «vicina all’incorporeo». Ondulatorio e corpuscolare, il flusso luminoso rappresenta per l’uomo un’esperienza anzitutto visiva e la condizione stessa del visibile: la linea d’orizzonte al crepuscolo o all’aurora ne offre il miglior esempio. Tale esperienza è anaforica, rinvia ad altro da sé stessa. L’orizzonte che la rivela, lungi dall’essere quello della definizione dalle linee chiare, è in realtà quello del senso, vale a dire di ciò che deve essere compreso, al di qua o al di là dell’esperienza sensibile, già di per sé stessa così tenue e sottile. Dal poema di Parmenide fino al vi e vii libro della Repubblica di Platone, il visibile e il suo orizzonte costituiscono il supporto immediato dell’idea, o meglio, il suo angolo d’incidenza. Partecipando di entrambi i mondi, la luce è come l’estremo tentativo di materializzazione dell’intelligibile. Il miracolo (thauma) è rappresentato dal fatto che noi possiamo partecipare dei due aspetti di questa duplice articolazione, segno e senso, iscritta nella chiarezza doppia ed elementare, percepita dall’occhio e dalla mente.

Alle porte di Bisanzio bisogna ovviamente pensare soprattutto a Plotino e alla sua estetica trascendentale, dato che egli resta il maestro, vicino o lontano, di ogni estetica della luce. Dire estetica significa dire, in questo caso, filosofia dell’arte, secondo un’accezione ancora da precisare. Si potrebbe credere, infatti, che il pensiero plotiniano, che fa della materia la realtà più bassa e più indegna, rigetti ogni forma di rappresentazione artistica (a causa della sua intrinseca materialità). Da Porfirio sappiamo cosa pensasse il maestro a proposito del progetto di offrire ai ritrattisti i tratti del suo rivestimento corporeo... Eppure, a varie riprese nella sua opera, intravede la possibilità della traduzione delle verità intelligibili attraverso l’arte. Andando oltre il sensibile, l’imitazione artistica ci conduce

La luce nell’arte

all’idea, come se superasse il mondo materiale per conservare l’unica traccia – luminosa – di un mondo superiore: «Le arti non imitano direttamente il visibile ma risalgono alle ragioni (logoi) da cui la natura si è originata»1 .

Tutto il primo capitolo del sesto trattato della prima Enneade (Sul bello, i,6,1), precisando il ruolo analogico giocato dalla luce, può essere utilizzato come testimonianza in questo senso. Il testo comincia con il ricordarci la posizione egemonica occupata nell’estetica dalla visione, intesa nel suo senso originario; poi, passando con amabile condiscendenza all’evocazione della tesi stoica della summetria, secondo la quale la bellezza risiederebbe in un’impressione di unità, risultante dall’equilibrio armonico delle diverse componenti, il filosofo ci situa, con quel senso improvviso dell’incanto lirico di cui custodisce il segreto, davanti a una serie di realtà che si impongono per la loro unità congenita e per l’auto-evidenza che si afferma nella loro percezione immediata. La serie di queste realtà merita di essere enunciata e meditata: la luce solare, l’oro, il lampo e il volto.

In tale contesto assistiamo all’enunciazione dei temi preferenziali, e potenziali, di ogni principio di raffigurazione, di ogni rappresentazione artistica. La luce, considerata nelle sue diverse possibilità di diffusione o di rifrazione, di permanenza o di intermittenza, sembra voler annunciare l’altra luce, quella interiore, che illumina lo sguardo di un viso abitato, aperto sulle finestre dell’anima. Si pensi ai grandi occhi neri dei ritratti funerari del Fayoum o a quelli di Palmira, in attesa di Bisanzio e dei suoi ori (Tavv. 1, 2, 3, 4).

Due testi possono ancora illuminarci. Il primo è quel passaggio imprescindibile di Plotino del nono capitolo dell’ultimo trattato della sesta Enneade (Del bene o dell’Uno), in cui la trasfigurazione luminosa viene promessa al termine dell’unione mistica con il principio primo e appena prima della ricaduta, in perfetta eco con il Fedro platonico e l’illuminazione intelligibile raggiunta attraverso la bellezza e l’amore: «Ci si riconosce splendenti di luce e pervasi della luce intelligibile, o meglio, si diviene pura luce» (vi, 9,9). L’altro passaggio è rappresentato dalle parole dello pseudo-Dionigi estratte dal trattato sulle Gerarchie celesti: «Le luci materiali significano quell’effusione di luce immateriale di cui sono l’immagine» (i,3).

Vi ritroviamo la duplice affermazione dell’ambivalenza luminosa, sensibile e intelligibile, come del luccichio, per immagini interposte, dell’uno e dell’altro mondo. Così le icone appaiono come emanazioni puntuali di un aldilà ipersaturo di senso. Da qui a dire che i loro fondi dorati possano esprimere la luce dell’intelligibile, non c’è che un passo. Ma che sia fatto con prudenza.

Il fondo dorato sembra essere la realizzazione artistica della luce intelligibile, e non soltanto l’analogon della luce, nel suo aspetto materiale e semplicemente visibile. L’arte partecipa infatti tanto della veggenza quanto della visione: in essa si incontrano la promessa di unione mistica e l’esperienza sensibile, le quali, nel migliore dei casi, si arricchiscono vicendevolmente. Il fatto è che questa emanazione del

A fronte: 2. Ritratto di donna, El Fayum. Museo Archeologico, Firenze. Xxxxxxx

La luce nell’arte

iv. luci di bisanzio

A fronte: 2. Giovane con corona d’oro, 55 x 21 cm, Fayum. Museo Puškin, Mosca.

3 a, b. Busto femminile. Museo di Damasco, Siria.

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senso e del sacro, in diverse forme visibili in ragione del mistero o, più semplicemente, del principio dell’incarnazione, si manifesterà, a partire dall’epoca di Giustiniano fino alle ultime icone russe, attraverso questo fondo dorato che sembra raffigurare l’etere spirituale propizio, ossia indispensabile, a ogni epifania.

Fin dalla sua descrizione di Santa Sofia di Costantinopoli (Tav. 5, 6, 7, 8), Paolo il Silenziario se ne mostrava sensibile: vi abbondano le metafore luminose, unite allo splendore delle gemme, del sole e degli ori2 .

Nessun altro, dopo questa bella ekphrasis, ha forse parlato meglio di questi giochi di luce imprigionata nella navicella galleggiante di Santa Sofia né evocato la triplice illuminazione, diretta, diffusa (Tav. 9) e riverberata, quanto Georges Duthuit nell’opera Le feu des signes3 . Legame indispensabile tra il Pantheon di Roma e gli innumerevoli luoghi di culto islamici, romanici o barocchi, la cupola di Santa Sofia, costruita nel 537 con i suoi trentadue metri di diametro e le sue quaranta finestre a presa diretta su una luce che gira, da est a ovest, è senza dubbio quello scrigno che esalta gli ori dei mosaici dalla grana finissima in fondo alle absidi e sulle pareti laterali. I giochi fisici della luce contribuiscono ad animare i fuochi simbolici dell’altra luce, quella sacra e interiore, che danno espressione e aureolano modesti impasti di vetro a fogli d’oro «disposti in un ordine determinato...». Sembra quasi che il Cristo benedicente o il pantocrator o la deesis sorgano staccandosi dalla penombra e si illuminino di eco multiple e riverberate, al servizio di una sola immagine e di una sola idea.

Esemplare è anche l’effigie della Vergine con bambino che occupa da sola l’intera abside d’oro di Santa Fosca a Torcello: essa illustra perfettamente il principio di unità, di unicità, di manifestazione e di evidenza, di cui seguiamo le tracce nei testi di Plotino.

Passiamo ora all’analisi delle icone e del loro fondo dorato che perdurano inalterabili durante tutta l’arte bizantina e ortodossa (Tavv. 10, 11, 12). Ne saranno eredi i pittori gotici dei due lati delle Alpi, fino ai senesi e a Cimabue, in attesa che Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, vi sostituisca il fondo blu sempre più intenso man mano che il soffitto semi-cilindrico si avvicina allo zenit, più vicino alle velature di luce “alla greca” che a un tentativo di simulazione atmosferica.

Per ritornare a Bisanzio, possiamo dire che tutta l’arte dell’icona si caratterizza attraverso quel milieu evocatore che il principe Troubeckoj4, nei suoi superbi studi, definirà «l’oro di mezzogiorno», e che un altro cantore dello splendore teofanico, Paul Evdokimov, metterà in relazione con la modesta tecnica degli strati d’ocra chiaro sovrapposti (Tavv. 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19). Rileggiamo questo splendido testo:

«Anche nel linguaggio tecnico, il fondo dorato dell’icona si chiama luce e il metodo pittorico si chiama chiarificazione progressiva. Nel trattare un viso l’iconografo lo ricopre innanzitutto con un tono scuro; in seguito passa una tinta più chiara ottenuta con l’aggiunta al mélange precedente di una certa quantità di ocra gialla, cioè di luce. La sovrapposizione di toni sempre più illuminati viene ripetuta varie volte. In tal modo l’apparizione di una figura segue una progressione che riproduce la crescita della luce nell’uomo»5 .

Possiamo notare, dunque, che il fondo dorato non serve solo a ravvivare e illuminare l’immagine, ma che la stessa rappresentazione ne è direttamente tributaria, attraverso una serie di chiaroscuri e di strati sovrapposti sempre più leggeri. Questa tecnica evoca alla perfezione il metodo cromatico delle velature utilizzato dai pittori gotici degli antichi Paesi Bassi meridionali.

Un’ultima immagine potrebbe riassumere al meglio la portata di questo breve contributo. Si tratta di una vignetta che illustra una pagina del manoscritto della Scala del Paradiso di Giovanni Climaco6 (Tavv. 20, 21) in cui vediamo l’adepto in piedi sul terzo e ultimo gradino della sua scala simbolica, le palme delle mani rivolte verso l’alto e la testa rovesciata verso lo zenit; egli contempla sul fondo di fogli dorati l’occhio blu in alto appena tratteggiato, divino e celeste, e simmetrico al viso orientato verso di lui. Ci viene da ripensare a Plotino: «Se l’occhio non si fa luce, come potrebbe vedere la luce?» (i,6,9).

Abbandoniamo infine Bisanzio e, per concludere, tentiamo il salto transculturale. Se la citazione ci sembra un po’ eccezionale, vediamoci piuttosto l’effetto di una conferma. Penso al romanticismo tedesco e più precisamente al poeta Novalis quando ci dice che, contrariamente a quel che si crede, non è il fuoco che produce la luce, ma la luce che genera il fuoco: Licht macht Feuer.

iv. luci di bisanzio

La luce nell’arte

4. Due immagini dello spazio monumentale della navata centrale di Santa Sofia. Xxxxxxx

La luce nell’arte

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5. La cupola centrale di Santa Sofia. 6. Le decorazioni parietali del pianterreno di Santa Sofia.

La luce nell’arte

A fronte: 7. La Vergine, frammento del mosaico del catino absidale e della volta del bema di Santa Sofia.

8. Santa Sofia illuminata, secondo G. Duthuit.

Alle pagine seguenti: 9. Annunciazione, monastero di Santa Caterina del Sinai.

10. Crocifissione con medaglioni di santi e angeli nella cornice, monastero di Santa Caterina del Sinai.

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La luce nell’arte Islam e colori

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